PERFEZIONISMO (6)


Sviluppi psicopatologici del perfezionismo


1.

Il perfezionismo, sia esso sociale o morale, è una condizione di disagio psichico in sé e per sé, anche se il disagio può risultare inapparente agli occhi degli altri e minimizzato, negato o rimosso dal soggetto stesso.

Nelle forme più lievi, tale disagio si riconduce ad una situazione di stress pressoché costante, sotteso da un vissuto d’inadeguatezza e d’inadempienza che induce il soggetto, anziché ad autoregolarsi, a pretendere sempre più da se stesso. In conseguenza di questo, il perfezionista, che di solito soffre di disturbi psicosomatici inequivocabili (cefalea, gastralgia, dolori addominali, mialgia, dolori "reumatici", ecc.), può andare facilmente incontro a veri e propri "esaurimenti", vale a dire ad episodi depressivi che lo costringono al riposo ma vengono elaborati drammaticamente come espressione di una intollerabile debolezza o, addirittura, colpevolizzati nella misura in cui rendono il soggetto oggettivamente inadempiente.

In altre forme, il perfezionismo attiva delle valenze opposizionistiche inconsce che possono ridurre drasticamente e bruscamente le prestazioni soggettive. La conseguenza dell’opposizionismo è un’inibizione funzionale che può riguardare la memoria, la concentrazione, la sequenzialità dei comportamenti finalizzati, le competenze acquisite, ecc.

Tristemente noto è il caso di studenti perfezionisti che, da un giorno all’altro, precipitano in una condizione di apatia, di abulia e di deconcentrazione che impedisce loro di stare sui libri o comunque di apprendere. Se in questi casi non interviene un aiuto valido, si realizzano forme progressive di insabbiamento. Il soggetto, sotto la spinta del perfezionismo, di solito insiste a studiare. I risultati però sono mediocri se non addirittura nulli. In conseguenza di questa inadempienza, egli sviluppa uno stato d’animo drammatico, sotteso dalla vergogna e dal senso di colpa. Queste emozioni si traducono spesso in un ritiro dalla scuola e dal mondo, che viene comunemente interpretato dai neopsichiatri come l’avvio di un processo psicotico.

Meno noto, ma non meno inquietante, è il caso di soggetti perfezionisti, solitamente giovani, nei quali l’attivazione dell’opposizionismo non si riduce a produrre inibizioni funzionali, bensì promuove, più o meno repentinamente, cambiamenti radicali di vita e di comportamento. In conseguenza di questo, un ragazzo o una ragazza fino allora inappuntabili, diventano arroganti, volgari, trasgressivi. Anche in questo caso, se il viraggio non viene interpretato nel suo significato di cieca protesta contro il regime perfezionistico, esso può procedere verso una qualunque forma di "devianza". Spesso questa marcia verso la libertà anarchica, che comporta non pochi pericoli, viene arrestata da una depressione profonda o da un attacco di panico, che pongono in luce i sensi di colpa accumulatisi a livello inconscio.

Uno sviluppo oggi più che mai rilevante del perfezionismo è l’anoressia. La coesistenza tra questo disturbo del comportamento alimentare e tratti di personalità perfezionistici è a tal punto frequente che non sfugge a nessuno. Non si tratta però di un’associazione casuale, bensì dinamica. Il perfezionismo preesiste sempre all’anoressia, e questa, con le regole rigidissime che il soggetto si impone non solo a livello di dieta ma anche di stile di vita (iperattività cognitiva, ginnica, ecc.), non fa altro che rivelarlo.

Anche la bulimia risulta associata spesso al perfezionismo. Essa esprime una rivendicazione di libertà anarchica la cui matrice è il rigido regime interiore che il soggetto si impone. Il vissuto di profonda vergogna con cui convivono i soggetti bulimici, del tutto opposto all’orgoglio delle anoressiche, è l’indizio evidente di un disagio che fa riferimento alla perdita di controllo su di sé, intollerabile in quanto il perfezionismo implica l’ipercontrollo.

Uno sviluppo psicopatologico non meno frequente del perfezionismo è il disturbo ossessivo-compulsivo (la nevrosi ossessivo-fobica del passato). L’insorgenza della sindrome è quasi sempre dovuta all’attivazione di valenze opposizionistiche che determinano, a livello inconscio, la paura di perdere il controllo su di sé. Tale paura si esprime sotto forma di rituali che non per caso vanno eseguiti alla perfezione perché l’ansia si allenti. La valenza opposizionistica è rivelata dalle ossessioni impulsive, vale a dire da pensieri o fantasie vissute come parassitarie che hanno quasi sempre carattere trasgressivo.

Quando si associa — ed è piuttosto frequente — ad una struttura ossessiva di personalità, il perfezionismo può esitare con facilità in un’esperienza di grave disagio. La struttura ossessiva di personalità, la cui descrizione è reperibile nel capitolo sulle strutture psicopatologiche de La Politica del Super-io, implica sempre una scissione tra un modo di essere apparente socialmente inappuntabile e un mondo interiore ove, per effetto della repressione del bisogno d’individuazione, si accumulano fantasie, emozioni e pensieri ridondanti di tipo anarchico, asociale, antisociale, immorale, ecc. Nei casi in cui, questo mondo interiore è percepito o anche solo intuito dall’io, esso concorre a rafforzare difensivamente la maschera cosciente d’ipernormalità. Nei casi in cui, viceversa, rimane del tutto rimosso rispetto alla coscienza, esso può tradursi in una grave depressione o in una psicosi ossessiva.

Per quanto riguarda la depressione, la circostanza più drammatica è legata a soggetti femminili che giungono alla terza età con un persistente orientamento perfezionistico legato ai doveri domestici. Il naturale declino delle energie, che impedisce loro di fare le cose come vanno fatte e come le hanno sempre fatte, crea spesso un disadattamento grave e un senso di colpa cosciente catastrofico, che si traduce in una grave depressione. Esse si considerano finite, morte, inutili, e non riescono ad accettare che si può vivere, in età anziana, senza darsi da fare come macchine programmate. Talora, il difetto energetico non è dovuto solo all’età: esso esprime anche la protesta inconscia di una parte della mente contro un regime di vita intollerabilmente schiavizzante. Ma tale messaggio non può essere ovviamente né percepito né elaborato

L’evoluzione del perfezionismo in una psicosi è di particolare interesse teorico perché pone in luce un rapporto dinamico tra ipernormalità perfezionistica e "malattia mentale"che è ignorato dalla neopsichiatria e, spesso, anche dalla psicoanalisi.

Il caso che riporto, per questo aspetto, è esemplare delle potenzialità psicopatologiche intrinseche al perfezionismo e della sostanziale criminalità iatrogenetica della pratica neopsichiatrica. All’avvio, come si vedrà, si tratta solo di une nevrosi fobico-ossessiva adolescenziale, il cui significato è trasparente. Dopo venti anni, dieci dei quali caratterizzati da trattamenti farmacologici, il quadro clinico è quello di una grave psicosi ossessiva.

2.

Rodolfo viene al mondo con le stimmate del bambino introverso destinato a diventare un angelo. La madre, che frequenta una comunità cristiana carismatica, lo educa alla religione e gli inculca precocemente principi morali piuttosto rigorosi che Rodolfo, in nome della sua sensibilità, della soggezione nei confronti degli adulti e dell’affetto, interiorizza puntualmente. Quando comincia a frequentare la scuola, è già un "ometto" inappuntabile, giudizioso, ossequioso e soggetto al timor di Dio (che nella sua anima è in realtà è terrore).

Abitando la famiglia in un quartiere periferico di Roma, la scuola che Rodolfo comincia a frequentare è popolata di coetanei di tutt’altro genere, piuttosto vivaci, ribelli, volgari e aggressivi. Egli è un vaso di coccio in mezzo a vasi di ferro. Diventa rapidamente un "soggetto" che gli altri prendono in giro e attaccano fisicamente. Rodolfo è inerme: nel suo intimo, si arrabbia in maniera furibonda per le prepotenze che subisce, incomprensibili a suo giudizio, ma non è in grado di difendersi, di alzare le mani. Aspetta ansiosamente che gli adulti intervengano in sua difesa, ma sia gli insegnati che i familiari, ai quali egli si confida, minimizzano ciò che sta accadendo. La madre gli dice che il mondo è cattivo e va sopportato.

La cosa va avanti, aggravandosi, fino alla fine della terza media. Nel corso della seconda media compaiono i primi sintomi sotto forma di fobia dello sporco ("schifo" nel linguaggio di Rodolfo). Egli non tollera di essere toccato dai coetanei, deve spazzolarsi di continuo i vestiti, lavarsi le mani, ecc. Nello spazio domestico, si definisce una certa mania per l’ordine e la pulizia. Nella camera di Rodolfo tutti gli oggetti devono essere disposti in un certo modo, non ci deve essere un filo di polvere, ecc.

La fobia dello sporco fa riferimento evidentemente al contatto con un mondo schifoso agli occhi di Rodolfo, con il quale egli non vorrebbe avere nulla a che fare.

Compaiono anche rituali di controllo. Rodolfo deve muoversi in casa senza mai calpestare la giunzione tra le mattonelle, lavarsi le mani seguendo una procedura complessa che lo impegna per alcuni minuti, evitare di usare il coltello a tavola, ecc. I rituali attestano che le rabbie accumulate hanno già disordinato il mondo interiore di Rodolfo, e che egli, inconsciamente, teme di perdere il controllo su di esse. Di fatto, comincia ad avvertire un senso di colpa e di indegnità di cui non sa darsi ragione.

Portato per lo studio delle lettere, abbandona la scuola dopo la fine della terza media perché teme che la persecuzione possa perpetuarsi alle superiori. E’ una rinuncia necessaria, che però lo ferisce nell’intimo. Le "capre", i compagni che vanno a scuola per scaldare i banchi e dar fastidio agli altri, vanno avanti; lui deve rinunciare a coltivare le sue qualità.

Sente immediatamente il bisogno di non essere di peso alla famiglia, e accetta di andare a lavorare nell’azienda tipografica del padre, I dipendenti sono cinque. Due di essi lo rispettano, gli altri tre, preso atto della sua "imbranataggine", non mancano occasione di sottolinearla, prendendolo in giro e facendo battute pesanti sulla sua timidezza e sull’apparente disinteresse per le donne. Via via che cresce, Rodolfo si sente sempre più arrabbiato, ma la rabbia si traduce solo in un incremento dei rituali e in un bisogno di tenere sotto controllo tutto nell’ambiente di lavoro. Arrivato alla conclusione che non ci si può fidare degli esseri umani, verifica le fatture, l’uso che gli operai fanno del materiale, ecc. Reagisce insomma alla "persecuzione" diventando un "rompiscatole".

A 19 anni presta servizio militare. E’ ancora un ragazzo ingenuo, buono e indifeso, e subisce il nonnismo. Lo insultano, lo prendono in giro e lo aggrediscono anche fisicamente. La fine dell’esperienza coincide con l’incremento esponenziale dei rituali di lavaggio. Portato in visita da uno psichiatria, gli vengono prescritti antidepressivi, ansiolitici e neurolettici. Si avvia anche una psicoterapia comportamentale che non serve a nulla.

Si va avanti così per anni. I rituali si incrementano e rendono Rodolfo incapace di lavorare. Sta in casa, si sente di peso, sistema di continuo le cose, si lava infinite volte al giorno.

A 25 anni la situazione precipita. Rodolfo comincia a percepire fantasie e pensieri ossessivi che lo spingono a fare male a sé e agli altri. Per strada avverte l’impulso di spingere la madre sotto le macchine. Qualche volta le fantasie aggressive riguardano gli altri. Sul registro antisociale, di fatto non accade nulla.

Le compulsioni di fare male a sé si traducono invece in comportamenti autolesivi. Rodolfo dà violente "capocciate" al muro, batte violentemente degli oggetti contundenti contro i denti, come volesse romperli. Per impedirgli di farsi del male, un familiare deve stare costantemente con lui.

Per arginare l’angoscia Rodolfo giunge a "legarsi" le braccia, tenendole estese, rigide e contratte. Lui stesso pensa di essersi messo la camicia di forza. Ma non serve a molto. La mano ogni tanto sfugge al controllo, si chiude a pugno e lo colpisce duramente sul volto.

La terapia farmacologica a base di neurolettici viene aumentata di continuo, fino a livelli tossici. Terrorizzato dalla paura di perdere il controllo e di fare male a sé o agli altri, Rodolfo sviluppa non solo una compliance ma una vera farmacodipendenza. Si imbottisce letteralmente di neurolettici, ma l’angoscia è perpetua, come la paura di farsi del male.

L’originaria fobia dello sporco ha assunto una dimensione pervasiva. Rodolfo non può uscire di casa perché l’idea di essere sfiorato dalle persone lo terrorizza. La fobia lo perseguita anche in casa. Le tracce del mondo schifoso sono i suoi familiari a portarle in casa con la suola delle scarpe o con gli abiti. I rituali di pulizia impegnano Rodolfo dalla mattina alla sera, intervallati dai comportamenti autolesivi.

Non ci vuole molto a interpretare questa storia partendo da un orientamento costituzionale introverso che, per effetto dell’educazione, ha dato luogo ad un perfezionismo morale estremamente rigido. Tale perfezionismo ha reso Rodolfo inetto a difendersi e a fare valere le sue ragioni, ma non ha scongiurato l’accumulo di una rabbia micidiale del tutto rimossa. che è stata drammaticamente colpevolizzata, dando luogo all’ingabbiamento nei rituali e, infine, ai drammatici comportamenti autopunitivi.

Casi del genere pongono in luce la tendenza intrinseca al perfezionismo morale di produrre immani sensi di colpa sulla base di pensieri, emozioni e fantasie incompatibili con il sistema di valori interiorizzati dal Super-Io. Il rispetto degli altri è connaturato agli esseri sensibili. Per effetto di un’educazione religiosa, però, può giungere a configurare una scrupolosità patologica che impone al soggetto non solo di non fare male agli altri, ma di non potersi concedere emozioni o pensieri di rabbia di odio e di vendetta neppure quando subisce dei maltrattamenti.

Per l’analisi di quest’aspetto rinvio all’articolo sugli effetti dell’educazione religiosa in Opere/Aggiornamenti/Religione.

3.

Per la sua complessità, l’incidenza sociologica e le potenzialità psicopatologiche, la dinamica perfezionistica richiederebbe ulteriori approfondimenti. Quanto detto, però, può bastare a farne capire l’importanza: un’importanza che, sinora, è sfuggita alla psicoanalisi e che, ovviamente, non è minimamente riconosciuta in ambito neopsichiatrico.

La psicoanalisi ha colto, negli ultimi anni, un rilevante cambiamento a livello di psicopatologia giovanile, riconducendolo al narcisismo. Il cambiamento di fatto c’è stato, ma esso rappresenta un ulteriore sviluppo del perfezionismo sociale. Alcuni giovani interiorizzano un modello di onnipotenza, il cui obiettivo immaginario è di dare ad essi la possibilità di dominare gli altri, mettendoli al riparo dal rischio di essere giudicati deboli, inetti, inadeguati, infantili, ecc. In termini psicodinamici ciò significa che essi s’identificano con un Ideale dell’Io onnipotente che dovrebbe affrancarli dai loro limiti, ma di fatto incombe soggettivamente schiacciandoli sotto il peso della loro inadeguatezza e inducendoli a vergognarsi di ciò che di fatto sono.

La differenza rispetto al passato, allorché l’ideale perfezionistico mobilitava tutte le energie individuali nella direzione di un miraggio, rendendo le persone efficienti, è che, oggi, tale ideale non spinge ad agire ma solo a simulare.

In breve il senso del dovere è stato inattivato dai cambiamenti sociali, ma l’obiettivo cui esso mirava - di rendere l’uomo schiavo degli occhi della gente — è rimasto tale e quale. Il narcisismo giovanile rappresenta per l’appunto l’espressione di questa nuova schiavitù. Guarirne significa comunque prescindere dal dover essere quello che gli altri desiderano. Il tragitto è faticoso solo perché i soggetti confondono quel dovere essere con il loro voler essere. Tale confusione, come ormai riesce chiaro, è propria di ogni esperienza perfezionistica.

Gennaio 2005