Numerosi ricercatori in tutto il mondo sono impegnati da anni a risolvere il "Mistero" della schizofrenia. L'abbondanza dei dati che vengono prodotti dai centri di ricerca, per quanto eterogeni, postulano una rassegna periodica atta a fare il punto della situazione. Nella Miseria della neopsichiatrica pubblicai una rassegna di N. Andreasen, all'epoca famosa. Non fu una buona idea, perché la nota, tra l'altro in inglese, occupava ben 11 pagine del libro.
Pubblico adesso una rassegna più recente (risale al 2009), redatta da Psichiatri d'impostazione cognitivista, che non sono dunque del tutto calati nell'ottica dell'organicismo.
La rassegna, che occupa la prima parte del libro, va letta integralmente. Mi preme sottolineare preliminarmente che essa è un condensato delle contraddizioni che vigono a riguardo della schizofrenia e che cerco di estrapolare sinteticamente.
Sulla diagnosi il consenso sembra ormai raggiunto, ma con una certa fatica. Sulla base di studi fattoriali condotti in diverse colture sembra che "almeno tre dimensioni costituiscono i sintomi della schizofrenia (Andreasen et al., 1995, 2005; Barnes e Liddle, 1990; Fuller et al., 2003; John, Khanna, Thennarasu e Reddy, 2003): (1) sintomi psicotici (allucinazioni e deliri), (2) sintomi disorganizzati (comportamento bizzarro e disturbo positivo formale del pensiero), e (3) sintomi negativi (affettività appiattita, alogia, avolizione, e anedonia)." Naturalmente la valutazione dei sintomi , che tra l'altro sono i più resistenti ai trattamenti, rimane problematica.
Per quanto riguarda l'ereditarieta, da una parte si afferma che "la schizofrenia è altamente ereditaria", dato che "in coppie di gemelli identici, se un gemello ha la schizofrenia, l'altro ha quasi il 50% di probabilità di svilupparla a sua volta (Cardno e Gottesman, 2000). Il 50% non esclude l'incidenza dei fattori ambientali e infatti si aggiunge che "ci sono oggi prove considerevoli sul peso dei fattori ambientali nell'eziologia della schizofreniala" e che la "schizofrenia è rappresentata con una proporzione molto maggiore negli ambienti urbani (McGrath et al., 2004)."
Inoltre. "Nonostante sia evidente una componente genetica della schizofrenia, non vi è una semplice configurazione genetica mendeliana, che aiuta a predire la frequenza familiare nella schizofrenia. Anche se si ignorano i contributi ambientali all'eziologia, gli aspetti genetici sono ancora complessi e devono ancora essere determinati"; "Nonostante una forte prova della presenza di un contributo genetico nello sviluppo della schizofrenia, la ricerca di geni specifici associati alla schizofrenia è stata vaga"; In conclusione, esistono buone prove per un contributo poligenetico all'eziologia della schizofrenia, ma quali geni specifici (ed espressioni fenotipiche) siano coinvolti non è noto. Inoltre, l'ambiente deve giocare un ruolo importante, dato che, quando un individuo affetto da schizofrenia ha un gemello identico (avente identica costituzione genetica), solo in circa metà delle volte anche l'altro gemello svilupperà la schizofrenia."
Riguardo al trattamento, l'enfatizzazione dei vantaggi legati agli antipsicotici di seconda generazione, com'era prevedibile, è sfumata: "studi ben condotti hanno mostrato poca differenza nell'efficacia tra la prima e la seconda generazione di farmaci antipsicotici (Lieberman et al., 2005)."
Anche il principio, a lungo sostenuto, che le cure protrarre a tempo indeterminato portano vantaggio, sta venendo meno: "Harrow e Jobe (2007) hanno recentemente riportato un risultato di uno studio prospettico di quindici anni, in cui identificano un sottogruppo di individui con schizofrenia discontinui nell'assunzione di farmaci, che sperimenta periodi di guarigione"; "Secondo gli autori i loro risultati indicano che esiste un sottogruppo di individui con schizofrenia che non ha bisogno di assumere continuamente farmaci per raggiungere un buon esit."; "Vi è disaccordo riguardo alla questione se l'introduzione dei farmaci antipsicotici abbia migliorato gli esiti raggiunti dagli individui con schizofrenia"; "Le prove disponibili giustificano la conclusione che una significativa proporzione di individui diagnosticati con schizofrenia raggiunge esiti esigui. Significativamente, sia se valutati in un periodo più breve (ad esempio, cinque-dieci anni) sia più lungo (ad esempio, quindici anni e oltre), gli esiti funzionali della maggior parte degli individui con schizofrenia appaiono particolarmente danneggiati, un risultato che si verifica persino quando il trattamento psicofarmacologico elettivo è stato somministrato lungo l'intero periodo di follow up."
Anche le ricerche sulle animalie anatomiche e neurofisiologiche sono un calderone: "la patofisiologia della schizofrenia rimane inafferrabile; "Piuttosto che ridurre il numero delle possibili cause dei sintomi della schizofrenia, la ricerca sembra aumentarlo. Non solo sono molte le regioni cerebrali implicate a essere alterate nel corso della schizofrenia, ma ogni regione ha sistemi di neurotrasmettitori multipli che proiettano a esse, ciascuno dei quali ha un ruolo potenziale nella patofisiologia della schizofrenia"; "l'immagine moderna della schizofrenia è quella di una sindrome complessa, causata da una varietà di fattori genetici e ambientali, ognuno arrecante un piccolo contributo allo sviluppo del disturbo, che implica tre dimensioni sintomatologiche di base, un danno neurocognitivo pervasivo, e molti piccoli deficit neuroanatomici e neurofisiologici"; La schizofrenia è intesa come un disturbo, non una malattia, perché non esiste un chiaro, affidabile e specifico fattore eziologico, e neanche un insieme di questi fattori"; "Piuttosto che ridurre il numero delle possibili cause dei sintomi della schizofrenia, la ricerca sembra aumentarlo. Non solo sono molte le regioni cerebrali implicate a essere alterate nel corso della schizofrenia, ma ogni regione ha sistemi di neurotrasmettitori multipli che proiettano a esse, ciascuno dei quali ha un ruolo potenziale nella patofisiologia della schizofrenia."
Insomma, ancora una volta, la montagna imponente dei dati raccolti dagli studiosi, ha partorito un topolino, sicché l'unica verità è quella che conclude la rassegna, secondo la quale la schizofrenia è attualmente "un enigma".
Nell'ultimo capitolo, gli autori tentano di delineare un modello cognitivo integrato di schizofrenia. Il testo è veramente scoraggiante con la sua insistenza sui disturbi cognitivi come fattore primario della malattia e il quasi totale misconoscimento del fatto che la transizione dalla sfera nevrotica a quella psicotica di fatto avviene in conseguenza di un incremento dell'angoscia. Per i cognitivisti le emozioni dipendono dal pensiero. In realtà è vero il contrario. Non solo non si dà pensiero senza emozione, ma i contenuti di pensiero distorti o deliranti sono un'espressione di dinamiche inconsce la cui valenza emozionale è destabilizzante.
Per questa via, l'"enigma" è destinato a rimanere tale per sempre.
Essendo la persona più nota affetta da schizofrenia, John Forbes Nash funge da naturale punto di inizio per un libro su tale disturbo. Nash aveva trent'anni quando le sue difficoltà diventarono evidenti agli altri. Fino ad allora, era forse sembrato strano e socialmente imbarazzante, ma era professionalmente di successo, essendogli di recente stata offerta una cattedra ordinaria al MIT. Comunque, Nash stesso descrive di provare disappunto nel constatare che la sua carriera non stava rispondendo alle sue aspettative (Beck e Nash, 2005). L'emergere e il profondo sconvolgimento del disturbo psicotico di Nash è stato descritto dallo studioso di schizofrenia Michael Foster Green (2003):
I suoi colleghi ricordano come, nel 1959, lui entrò in una sala comune del MIT e dichiarò che la storia sulla copertina del New York Times conteneva messaggi criptici degli abitanti di un'altra galassia, che solo lui poteva decifrare. Per i tre decenni successivi, Nash entrò e uscì dagli ospedali psichiatrici. Quando non era in ospedale, veniva descritto come un "fantasma triste" che appariva nei corridoi di Princeton "stranamente vestito, bisbigliando tra sé e sé, scrivendo misteriosi messaggi sulle lavagne, anno dopo anno" (p. 87).
Nash presenta uno scenario tragico: un individuo eccentrico, intellettualmente brillante, tormentato da una stravagante sintomatologia psichiatrica che causa una devastazione personale, sociale e professionale, che lo conduce a decadi di incontri periodici con i servizi psichiatrici. Evidenziando il collegamento tra i sintomi e la disabilità funzionale, la difficoltà pervasiva di Nash nella vita di tutti i giorni sembra radicata nei sintomi positivi della schizofrenia (Andreasen, 1984b; Cutting, 2003), che includono allucinazioni (sente 'voci'),1 deliri (crede che il New York Times contenga codici speciali mandati a lui dallo spazio), comportamenti bizzarri (è scompigliato e si comporta in modo inappropriato), disturbo positivo formale del pensiero (il suo linguaggio è difficile da comprendere). Nash non sembra aver sofferto di sintomi negativi della schizofrenia, che includono ridotta espressione verbale (alogia) e non verbale (appiattimento affettivo), e limitato impegno nell'attività progettuale (avolizione), piacevole (anedonia) e sociale (asocialità) (Andreasen, 1984a; Kirkpatrick, Fenton, Carpenter e Marder, 2006). In definitiva, la storia di Nash è una storia di speranza:
Senza avvisaglie, Nash ha cominciato a mostrare segni di guarigione verso la fine del 1980. Le ragioni della sua guarigione non sono ancora chiare; non stava né assumendo farmaci né cercando aiuto. Ha cominciato a interagire di più con i matematici a Princeton, alcuni dei quali erano vecchi amici. Poi, nel 1994 vinse il Premio Nobel per l'economia... (Green, 2003, p. 87).
Nonostante la sintomatologia cospicua, la disorganizzazione comportamentale e la disabilità, Nash riguadagnò molto del suo perduto funzionamento interpersonale e professionale. La guarigione dalla schizofrenia è stata descritta come un processo crescente nella capacità di gestire i sintomi e di stabilire un senso di progettualità (Ralph e Corrigan, 2005); sotto questo aspetto, Nash era certamente guarito. Mentre Green descrive la ripresa di Nash con l'imparziale cautela del ricercatore veterano della schizofrenia, Nash attribuisce il proprio miglioramento a diversi fattori, aventi come causa primaria le funzioni di ragionamento (Beck e Nash, 2005). A questo riguardo, Nash ha innanzitutto compreso, convincendosi, che le voci allucinatorie che sentiva erano un prodotto della sua stessa mente e, dopo, persuadendosi, che molte delle sue più amate convinzioni erano improbabili e fondamentalmente grandiose. Modificando il suo pensiero sulle allucinazioni e i deliri, Nash ha diminuito la disorganizzazione sintomatica e ottenuto un considerevole miglioramento nel funzionamento quotidiano. Nash, così, esemplifica l'approccio cognitivo alla schizofrenia a cui noi facciamo riferimento nel presente volume.
Scoperti nel 1960 (Beck, 1963), i modelli cognitivo-comportamentali che spiegano le risposte emotive e comportamentali come prodotti di pensieri, interpretazioni e convinzioni, si sono dimostrati di successo nella comprensione e nel trattamento di una varietà di psicopatologie psichiatriche (per esempio, i disturbi dell'umore, i disturbi d'ansia, l'abuso di sostanze e i disturbi alimentari) (Grant, Young e DeRubeis, 2005), così come patologie somatiche (per esempio, il dolore cronico) (Winterowd, Beck e Gruener, 2003). Inoltre, centinaia di studi, adesso, supportano il modello cognitivo di base, nel quale le convinzioni precedono e, in larga parte, determinano le reazioni emotive e comportamentali (Clark, Beck e Alford, 1999). Basandosi sul lavoro svolto in precedenza negli Stati Uniti (Beck, 1952; Hole, Rush e Beck, 1979), gli studiosi del Regno Unito hanno esteso con successo il modello cognitivo alla schizofrenia nel 1980 e nel 1990 (Chadwick, Birchwood e Trower, 1996; Fowler, Garety e Kuipers, 1995; Kingdon e Turkington, 2005), producendo promettenti protocolli aggiuntivi di trattamento psicosociale per affrontare i deliri, le allucinazioni e la compliance ai farmaci (Rector e Beck, 2001).
Approcci cognitivi di questo tipo alla schizofrenia hanno certamente migliorato il trattamento di questa condizione molto grave. Crediamo sia importante adattare la nostra conoscenza delle condizioni non psicotiche alla comprensione e al trattamento della schizofrenia. In un certo senso, le strategie per la formulazione e il trattamento, a cui noi facciamo riferimento, sono un'estensione di quelle che sono state applicate con successo alla depressione (Beck, Rush, Shaw e Emery, 1979), ai disturbi d'ansia (Beck, Emery e Greenberg, 1985), e ai disturbi di personalità (Beck, Freeman, Davis e colleglli, 2003). Comunque, una sola misura non si adatta a tutti, e vi sono importanti revisioni che dobbiamo fare sul modo in cui affrontiamo i pazienti schizofrenici. Fondamentalmente, è cruciale comprendere l'aspetto neurocognitivo e psicologico-cognitivo della schizofrenia, e così pure l'unicità della schizofrenia come condizione psichiatrica. Forse esiste un continuum in termini di neuropatologia e distorsioni cognitive, via via che ci spostiamo dalle nevrosi alle psicosi. Ma così come l'acqua muta in ghiaccio quando scende sotto il punto di congelamento, anche i soliti fenomeni nevrotici mostrano una sorta di 'profondo cambiamento' quando si congelano in schizofrenia.
Il presente volume è inteso come un'elaborazione dell'approccio cognitivo alla schizofrenia. Crediamo che la migliore pratica psicoterapeutica derivi dalla teoria cognitiva basata sulle prove scientifiche esistenti (Beck, 1976); quindi, il volume è organizzato in sezioni teoriche (capitoli 2-6) e di trattamento (capitoli 7-13), ciascuna contenente capitoli che affrontano le quattro dimensioni psicopatologiche primarie del disturbo (deliri, allucinazioni, disturbo del pensiero e sintomi negativi). Inoltre, dal momento che ci prefiggiamo anche di migliorare il modello cognitivo della schizofrenia, il capitolo finale presenta un'integrazione della cornice cognitiva con i modelli neurobiologici della schizofrenia. Il presente capitolo fornisce una breve panoramica della schizofrenia e del nostro approccio cognitivo.
Una breve storia
In questa sezione ci concentriamo sui contributi di tre pionieri della ricerca moderna sulla schizofrenia: John Hughlings Jackson, Emil Kraepelin ed Eugen Bleuler. A una prima approssimazione, i cluster dei sintomi di Hughlings Jackson sono stati costruiti sulla categoria nosografica di Emil Kraepelin, con spiegazioni causali derivate dalla cornice mediazionale cognitiva bleureliana. In particolare, ogni teorico attribuisce importanza ai sintomi negativi, nonostante le rispettive differenze nella definizione del disturbo.
Hughlings Jackson: Positivo-Negativo
Un approccio molto incisivo alla malattia è stato riscontrato negli scritti del neurologo di epoca vittoriana John Hughlings Jackson (Andreasen e Olsen, 1982; Barnes e Liddle, 1990; Brown e Pluck, 2000). Hughlings Jackson osservava (1931):
Si dice che il disturbo 'causi' i sintomi della malattia. Io affermo che il disturbo produce solamente i sintomi mentali negativi, rispondendo alla dissoluzione, e che tutti i sintomi mentali positivi (illusioni, allucinazioni, deliri e condotta stravagante) sono il risultato dell'attività degli elementi nervosi non intaccati da alcun processo patologico; che sorgono durante l'attività a un livello più basso della restante evoluzione (citato in Andreasen, 1990b, p. 3).
Definita nel 1880, la formulazione di Hughlings Jackson riassume in maniera succinta la cornice teorica che tuttora guida la maggior parte delle ricerche sulla schizofrenia (Andreasen, Arndt, Alliger, Miller e Flaum, 1995; Meares, 1999). Almeno tre punti meritano di essere menzionati. Primo, Hughlings Jackson classifica la malattia come un disturbo del cervello causato da una particolare patologia, localizzata nei centri neurologici altamente evoluti (corticali). Secondo, codifica la sintomatologia esasperatamente varia della malattia in una cornice bicamerale ed euristica di una normalità vis-à-vis. Le elaborazioni e le distorsioni della normale percezione, della convinzione e del comportamento sono accorpate sotto il termine ombrello di sintomi mentali positivi, questi sintomi sono abbellimenti della normale esperienza. Allo stesso modo, i deficit nel linguaggio, nella motivazione, nell'emozione e nel piacere sono raggruppati come sintomi mentali negativi; questi sintomi rappresentano perdite rispetto alla normale esperienza. Terzo, e aspetto forse più importante, Hughlings Jackson propone un'interfaccia causale intuitiva della biologia e della sintomatologia manifesta: i sintomi negativi sono stati deficitari e fanno naturalmente pensare a strutture cerebrali sottostanti, compromesse dal disturbo (neuropatologia); i sintomi positivi sono un'elaborazione di ciò che è normale e fanno naturalmente pensare a un processo cognitivo sottostante (fallimento dell'inibizione). Anche se Hughlings Jackson non ha ipotizzato nulla sulla prognosi e sull'esito dei pazienti malati, si potrebbe desumere che il processo patologico del 'cervello separato', che ha postulato per i sintomi negativi, potrebbe rivelarsi particolarmente sfavorevole.
Il modello altamente influente tipo I/tipo II di schizofrenia di Crow (1980), che è essenzialmente un'elaborazione moderna della cornice di Hughlings Jackson, ha acceso un rinnovato interesse sui sintomi negativi della schizofrenia (Morrison, Renton, Dunn, Williams e Bentall, 2004). Spinto dalle nuove scoperte nella neurobiologia della schizofrenia, nascenti a quel tempo, Crow propose di separare la schizofrenia in due disturbi distinti. Gli individui raggruppati nella schizofrenia di tipo I manifestano marcati sintomi positivi, rispondono bene ai farmaci psicoattivi e hanno un andamento di malattia caratterizzato da esordio improvviso ed esito favorevole a lungo termine. I soggetti raggruppati nella schizofrenia di tipo II, al contrario, manifestano una sintomatologia prevalentemente negativa, non rispondono bene ai farmaci e hanno un andamento di malattia caratterizzato da un esordio insidioso e da un esito sfavorevole a lungo termine. Crow sostenne, inoltre, che lo squilibrio neurochimico correlato al neurotrasmettitore dopamina sottostava alla schizofrenia di tipo I, mentre un'anomalia strutturale cerebrale, quale un ridotto volume cerebrale, sottostava alla schizofrenia di tipo II.
L'impatto del modello di Crow è stato notevole (Bentall, 2004), quando la parametrizzazione concettuale, ispirata a Hughlings Jackson, dei raggruppamenti dei sintomi positivi e negativi è arrivata a dominare la teoria e la ricerca sulla schizofrenia (Healy, 2002). Di primaria importanza, i ricercatori hanno sviluppato scale di valutazione operazionalizzate, concentrate sui sintomi positivi e negativi della schizofrenia: per esempio, la Scale for the Assessment of Positive Symptoms (saps; Andreasen, 1984c), la Scale for the Assessment of Negative Symptoms (sans; Andreasen, 1984b), e la Positive and Negative Syndrome Scale (panss; Kay, Fiszbein e Opler, 1987). Le scale di Andreasen (saps e sans), in particolare, sono strumenti esaustivi, standardizzati, in cui una quantità abbastanza ampia di sintomi viene identificata in termini osservabili (si veda il capitolo 7). Psicometricamente, queste scale si sono rivelate affidabili e sensibili al cambiamento (Andreasen, 1990a).2
La categoria eterogenea di Kraepelin
Mentre Hughlings Jackson ha fornito una cornice che guida la teoria e la ricerca cervello-comportamento, è stato lo psichiatra tedesco Emil Kraepelin a inventare il sistema moderno di classificazione, o la nosologia, della schizofrenia (Healy, 2002; Wing e Agrawal, 2003). Basandosi sull'osservazione estensiva del paziente, Kraepelin (1971) ha raccolto tre diverse manifestazioni di malattia: ebefrenia (comportamento senza scopo, disorganizzato e incongruo), catatonia (mancanza di movimento e stupore, da un lato; comportamento agitato e sconnesso, dall'altro), e paranoia (delirio di persecuzione e grandezza), e le ha raggruppate in una singola categoria di malattia che ha denominato dementia praecox. I sintomi caratteristici includevano alcuni di quelli che Hughlings Jackson aveva denominato positivi (allucinazioni, eloquio disorganizzato e deliri). Comunque, la dementia praecox era fondamentalmente uno stato deficitario, i cui sintomi erano quelli che Hughlings Jackson aveva qualificato come negativi, cioè "l'appiattimento emotivo, il fallimento delle attività mentali, la perdita del controllo sulla volizione, dell'impegno, e della capacità di un'azione indipendente" (come citato in Füller, Schultz e Andreasen, 2003, p. 25).
È questa fondamentale cronicità di malattia, combinata con un decorso progressivamente degenerativo, che conduce Kraepelin a categorizzare la dementia praecox in maniera distinta da condizioni psicotiche cicliche, e correlate all'umore, come la mania e la melancolia, che ha raggruppato in una seconda categoria di disturbo, psicosi maniaco-depressiva. Decorso ed esito a lungo termine, in questa maniera, hanno guidato gli sforzi nosologici di Kraepelin più della sintomatologia manifesta (Healy, 2002). Anche se credeva che i pazienti potessero guarire dalla depressione maniacale, Kraepelin era profondamente pessimista riguardo alla guarigione dalla dementia praecox (Calabrese e Corrigan, 2005; Warner, 2004).
Anche se l'espressione dementia praecox è caduta in disuso, la categoria di Kraepelin è molto evidente nei criteri diagnostici di due influenti codificazioni dei disturbi mentali: il Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, quarta edizione (dsm-iv-tr) dell'American Psychiatric Association (2000) e {'International Classification of Diseases, decima revisione (icd-io) della World Health Organization (1993). Sia secondo il DSMIV-TR sia secondo I'ICD-10 (si veda Tabella 1.1), vi sono cinque sintomi caratteristici della schizofrenia: i deliri, le allucinazioni, l'eloquio disorganizzato (ad esempio, frequente deragliamento o incoerenza), comportamento totalmente disorganizzato o catatonico, e sintomi negativi (appiattimento affettivo, alogia, avolizione) (Wing e Agrawal, 2003). I due sistemi differiscono su un paio di aspetti, quali la quantità di tempo richiesta dai sintomi per esprimersi al punto da raggiungere la soglia (DSM-IV > ICD-10), e lo stabilire se il disturbo funzionale sia intrinseco alla diagnosi di schizofrenia (DSMIV = 'si'; ICD 10 = 'no').
Comunque, l'eterogeneità è costruita sulla definizione di schizofrenia: al massimo, due su cinque sintomi devono essere presenti per qualificare una diagnosi e, in specifiche condizioni di gravità (ad esempio, due voci che commentano il comportamento), basta che sia presente solo un sintomo.
Tabella 1.1*
Diagnosi di schizofrenia
Sintomi
Due sintomi presenti per almeno un mese: (positivi) deliri, allucinazioni, eloquio disorganizzato, comportamento disorganizzato o catatonico; (negativi) appiattimento affettivo, alogia, avolizione.
Disfunzionamento sociale
Una o più aree affette per la maggior parte del tempo fin dall'esordio (richiesto dal DSM IV): lavoro, relazioni interpersonali, cura di sé; se durante l'adolescenza; incapacità di raggiungere un livello di successo interpersonale, accademico, o occupazionale.
Durata
I sintomi attivi della psicosi devono persistere in assenza del trattamento: per almeno un mese secondo l'ICD-10; per almeno sei mesi per il DSMIV, inclusi i sintomi prodromici e residui (negativi o positivi attenuati).
Esclusione di altri disturbi
Altre diagnosi con sintomi psichiatrici devono essere escluse: disordine schizoaffettivo; depressione maggiore con psicosi; disturbo da abuso di sostanze; disturbi medici come traumi cranici, vasculiti cerebrali, ictus e demenza.
* Nota. Adattata da Schultz e Andreasen (1999). Copyright 1999 di Elvesier. Adattata con permesso.
Il risultato finale è la possibilità che due pazienti che condividono la diagnosi di schizofrenia non presentino alcun sintomo comune. Tuttavia, questa eterogeneità del concetto di schizofrenia è voluta, dato che deriva dal raggruppamento di Kraepelin in una categoria di disturbo mentale di sindromi caratterizzate da diverse sintomatologie (Bentall, 2004; Healy, 2002). Così, lo schema 'due su cinque' permette sia al dsm-iv sia all'icd-io di includere i sottotipi paranoico, catatonico ed ebefrenico (nel dsm-iv disorganizzato) di Kraepelin, poiché la diagnosi di ciascun tipo richiede non più di due dei cinque sintomi della schizofrenia. Inoltre, le attuali classificazioni sia del dsm-iv sia dell'icd-io seguono Kraepelin nel categorizzare separatamente la schizofrenia dalle psicosi affettive (ad esempio, il disturbo bipolare).
L intrinseca eterogeneità della categoria schizofrenia complica gli sforzi della ricerca, portando naturalmente a scoperte contrastanti. Alcuni ricercatori hanno risposto a questo problema tentando di definire sottocategorie più omogenee di schizofrenia (ad esempio, Carpenter, Heinrichs e Wagman, 1988), mentre altri hanno abbandonato il modello categoriale di malattia, al posto di un disturbo definito in termini di gravità su un set differenziato di dimensioni sintomatologiche (van Os e Verdoux, 2003). Comunque, la difficoltà della classificazione del dsm-iv, e quindi di quella kraepeliniana, non è confinata all'eterogeneità. I critici (Healey, 2002) hanno osservato che lo schema del dsm ha un'affidabilità insoddisfacente, e che le sottocategorie non sono temporalmente esclusive (sottotipi differenti possono applicarsi allo stesso paziente in differenti momenti temporali). Inoltre, i sintomi della schizofrenia non sono diagnostici o patognomici. Cioè, i deliri e le allucinazioni possono essere riscontrati in una varietà di condizioni neurologiche e psicologiche (Wong e Van Tol, 2003), così come i sintomi disorganizzati e negativi (Brown e Pluck, 2000). Alla fine, nonostante centinaia di studi sui correlati fisiologici della schizofrenia, non è stato scoperto nessun marker biologico in grado di distinguere la fisiologia di un soggetto diagnosticato con un disturbo psicotico da una normale fisiologia (Wing e Agrawal, 2003; Wong e Van Tol, 2003). In effetti, una recente rassegna quantitativa di Heinrich (2005) sugli studi biologici trova una considerevole sovrapposizione tra la schizofrenia e i gruppi di controllo (si veda il capitolo 2).
Il cognitivismo di Bleuler
Lo psichiatra svizzero Eugen Bleuler (1911/1950) è un altro padre fondatore della schizofrenia e, in effetti, gli viene attribuita la paternità del termine stesso 'schizofrenia'. Ancora più importante, ha contraddistinto la schizofrenia come una famiglia di disturbi mentali (Healy, 2002) e ha, quindi, aperto le frontiere dell'inclusione, considerevolmente oltre rispetto alla formulazione di Kraepelin. La formulazione di Bleuler era essenzialmente dimensionale (Wing e Agrawal, 2003), perché spaziava da una disfunzione lieve di personalità, che dopo sarebbe stata chiamata schizotipia/schizotassia, fino alla conclamata e cronica dementia praecox. Il modello di psicopatologia di Bleuler, come quello di Hughlings Jackson, contraddistingueva il disturbo della schizofrenia in termini di sintomi primari (fondamentali) e secondari (accessori). I sintomi primari (necessari per la diagnosi, presenti in tutti i casi e causati da una neuropatologia di base) includevano perdita di continuità delle associazioni, perdita di responsività affettiva, di attenzione, di volizione, ambivalenza e autismo (Fuller et al., 2003). I sintomi secondari (che non dovevano essere presenti per fare la diagnosi e che non erano causati da una sottostante neuropatologia) includevano allucinazioni, deliri, catatonia, e problemi comportamentali (Warner, 2004; Wing e Agrawal, 2003). Abbastanza importante da un punto di vista teorico, Bleuler propose che il processo cognitivo (allentamento delle associazioni) giocasse un ruolo intermediario o di mediazione tra l'oscura neuropatologia e l'espressione dei sintomi e segni caratteristici della schizofrenia. In effetti, è proprio l'allentamento delle associazioni che il termine schizofrenia (schizo ’separare; frene = mente) è designato a catturare.
L'impatto di Bleuler nell'ambito della ricerca sulla schizofrenia è considerevole. Primo, ha ampliato il concetto, includendo quelli che dopo sarebbero stati chiamati tratti schizotipici o schizoidi, che attualmente sono compresi nei disturbi di personalità del dsm-iv. Inoltre, negli ultimi quarantanni, molta ricerca genetica, neurobiologica e diagnostica è stata dedicata allo "spettro della schizofrenia" (O'Flynn, Gruzelier, Bergman e Siever, 2003). Ancora più importante probabilmente è la concettualizzazione di Bleuler sui meccanismi del disturbo; ha postulato un processo cognitivo intermediario che unisce l'ancora poco chiara neuropatologia ai sintomi manifesti del disturbo (Bentall, 2004). 1 teorici di tutte le fazioni sostengono l'opinione bleuleriana. Così, tutti i teorici neuropsicologici (Andreasen, 1999; e.g., Frith, 1992; Green, Kern, Braff e Mintz, 2000), psicodinamici (e.g., McGla’shan, Heinssen e Fenton, 1990), e cognitivo-comportamentali (e.g., Kingdon e Turkington, 2005) lavorano all'interno della cornice bleuleriana. Anche il nostro approccio teorico è bleuleriano (si vedano capitoli 3-6). In realtà, il capitolo 14 presenta un nuovo modello di schizofrenia, che integra scoperte evolutive, biologiche, cognitive e psicologiche all'interno di una cornice mediazionale, che spiega il fondamento dell'intervento psicosociale e identifica obiettivi terapeutici specifici.
Cosa conosciamo e non conosciamo della schizofrenia3
Sono passati quasi cento anni da quando Kraepelin e Bleuler diedero origine al moderno concetto di schizofrenia, e molta ricerca si è sviluppata in questo periodo di tempo, specialmente negli ultimi venticinque anni. Nel 1988, l'articolo principale nella pubblicazione inaugurale della Schizophrenia Research venne intitolato "Schizophrenia, Just the Facts: What Do We Know, How Well Do We Know It?" (Wyatt, Alexander, Egan e Kirch, 1988). La letteratura sulla schizofrenia è diventata troppo vasta e difficile da maneggiare per essere sintetizzata nella maniera concisa di Wyatt et al., ciononostante, consideriamo la presente sezione come una breve descrizione dell'attuale stato di conoscenza sulla schizofrenia.
Dimensioni sintomatologiche caratteristiche
Come abbiamo visto, la schizofrenia ha una presentazione differenziata dei sintomi, e un importante programma di ricerca è stato realizzato per determinare se i sintomi tendono a raggrupparsi in una maniera particolare. Se, ad esempio, le allucinazioni e i deliri tendono a co-verificarsi, questo potrebbe suggerire una comune, sottostante patologia neurobiologica. È emerso oggi un consenso, basato su studi fattoriali condotti in diverse culture, che almeno tre dimensioni costituiscono i sintomi della schizofrenia (Andreasen et al., 1995, 2005; Barnes e Liddle, 1990; Fuller et al., 2003; John, Khanna, Thennarasu e Reddy, 2003): (1) sintomi psicotici (allucinazioni e deliri), (2) sintomi disorganizzati (comportamento bizzarro e disturbo positivo formale del pensiero), e (3) sintomi negativi (affettività appiattita, alogia, avolizione, e anedonia). Questo consenso ha portato a una validazione di dimensioni specifiche di sintomi (Earnst e Kring, 1997) e, corrispondentemente, ha preparato la strada alla formulazione di criteri di remissione dei sintomi (Andreasen et al., 2005). Carpenter (2006) ha osservato che il nascente database sui cluster dei sintomi ha aiutato il concetto di schizofrenia a ritornare alle sue radici kraepeliniane e bleuleriane, perché corregge la definizione eccessivamente ristretta di schizofrenia, intesa prevalentemente come un disturbo psicotico che ha acquisito rilevanza in psichiatria negli ultimi quarant'anni.
Epidemiologia
Come ha osservato John McGrath (2005), l'epidemiologia nella schizofrenia è passata attraverso una mini-rivoluzione nello scorso decennio. La visione secondo cui la schizofrenia è una malattia universale che inesorabilmente colpisce una persona su cento, a prescindere dal genere (Buchanan e Carpenter, 2005; Crow, 2007), sta lasciando il passo a una prospettiva più sfumata. La schizofrenia sembra avere un tasso di prevalenza dello 0,7%, che varia considerevolmente con le culture (una differenza quintuplice). Gli uomini hanno un rischio più alto rispetto alle donne di sviluppare il disturbo e tendono a svilupparlo più precocemente. L'incidenza di nuovi casi di schizofrenia è dello 0,3% e potrebbe essere in calo (McGrath et al., 2004). Anche l'incidenza varia nelle diverse culture. Nascere o risiedere in un contesto urbano è associato a un più alto rischio di sviluppare il disturbo (Mortensen et al., 1999). Gli emigranti, inoltre, hanno un rischio aumentato di sviluppare la schizofrenia, soprattutto se hanno la pelle scura e migrano verso un'area con un gruppo dominante di pelle chiara (Boydell e Murray, 2003). Gli afro-americani sono tre volte più esposti al rischio di sviluppare la schizofrenia rispetto agli europei americani (Bresnahan et al., 2007). La schizofrenia è anche associata a un aumento di mortalità: gli individui affetti da schizofrenia muoiono prematuramente (Brown, 1997). Il suicidio è il fattore che contribuisce maggiormente a questa discrepanza, ed è stato stimato che il 5,6% degli individui diagnosticati con schizofrenia muore suicida, con il periodo di maggiore rischio nella prima fase di malattia (Palmer, Pankratz e Bostwick, 2005). Mentre gli individui con schizofrenia sono tredici volte più a rischio di morire suicidi, rispetto agli individui della popolazione generale, Saha e colleghi (Saha, Chant e McGrath, 2007) hanno recentemente mostrato che i soggetti con schizofrenia hanno, anche, un'elevata mortalità in un'ampia gamma di categorie di malattia.
Fattori di rischio genetici e ambientali
Genetica
Ottant'anni di ricerca sul ruolo della genetica nel comportamento sotto forma di studi sui gemelli, la famiglia e l'adozione, indicano che la schizofrenia è altamente ereditaria. Gli studi sulla famiglia hanno mostrato, in maniera coerente, che la schizofrenia si trasmette nelle famiglie e che il grado di condivisione genetica con il membro affetto predice la probabilità di sviluppare la schizofrenia (Nicol e Gottesman, 1983). Una recente rassegna quantitativa di undici studi familiari ben condotti ha concluso che i parenti di primo grado di soggetti con schizofrenia sono dieci volte più a rischio di sviluppare la schizofrenia, rispetto a soggetti non psichiatrici di confronto (Sullivan, Owen, O'Donovan e Freedman, 2006). Gli studi sull'adozione forniscono ulteriore supporto al contributo di fattori genetici nello sviluppo della schizofrenia. Una rassegna quantitativa non ha trovato alcuna differenza nei tassi di schizofrenia nei parenti adottivi di soggetti con e senza schizofrenia; comunque, i parenti biologici degli adottati con schizofrenia sono cinque volte più a rischio di sviluppare la schizofrenia, rispetto ai parenti biologici di adottati che non hanno la schizofrenia (Sullivan et al., 2006). In altre parole, in questi studi ci sono poche prove a sostegno del ruolo dei fattori ambientali post-adozione nell'eziologia della schizofrenia, a confronto con l'abbondanza di prove riguardo all'influenza genetica. In coppie di gemelli identici, se un gemello ha la schizofrenia, l'altro ha quasi il 50% di probabilità di svilupparla a sua volta (Cardno e Gottesman, 2000). Questi alti tassi di concordanza hanno portato molti a osservare che una grande porzione di responsabilità per la schizofrenia è genetica (Gottesman e Gould, 2003; Riley e Kendler, 2005). In effetti, Sullivan, Kendler e Neal (2003), in una rassegna quantitativa di dodici studi gemellari, hanno proposto una stima di ereditarietà dell'81% per i fattori genetici nella responsabilità di sviluppare la schizofrenia. In altre parole, 4/5 della variabilità nella responsabilità della schizofrenia sono dovuti a effetti genetici additivi.
Anche se la ricerca sul ruolo della genetica ha stabilito l'importanza dei geni nello sviluppo della schizofrenia, i geni specifici e i dettagli meccanicistici restano incerti. A eccezione di Crow (2007), che crede che la schizofrenia sia attribuita a un singolo gene correlato al linguaggio, che è stato trovato nel cromosoma sessuale, il campo della genetica della schizofrenia adesso sposa la conclusione che molti geni suscettibili contribuiscono alla schizofrenia, dove ciascun gene, però, ha solo un piccolo effetto nell'eziologia complessiva del disturbo (Gottesman e Gould, 2003; Sullivan et al., 2006). Finora, è stato identificato un vertiginoso assortimento di geni candidati (Sullivan et al., 2006). Owen, Craddock e O'Donovan (2005) propongono che le variazioni caso-controllo in un paio di geni candidati (ad esempio, neuroregulina 1 e distrobervina legante la proteina 1) sono state replicate diverse volte, rendendo questi geni al momento i più probabili responsabili della schizofrenia (si veda il capitolo 2). Questi primi geni candidati, inoltre, sono presenti in una frazione di pazienti con schizofrenia (tra il 6 e il 15%)e aumentano la responsabilità di al massimo un fattore su due (Gilmore e Murray, 2006).
Ambiente
Mentre la mancanza di una perfetta concordanza tra gemelli identici è stata presa come prova del ruolo dei fattori non genetici nell'eziologia della schizofrenia, Sullivan et al. (2003), nella loro rassegna quantitativa di studi gemellari, esprimono considerevole sorpresa di fronte al fatto che l'analisi rivela anche un effetto significativo (un'ereditarietà stimata dell'I 1 %) di un ambiente non condiviso nell'eziologia della schizofrenia. Ci sono oggi prove considerevoli sul peso dei fattori ambientali nell'eziologia della schizofrenia. Mary Cannon e colleghi (2002), per esempio, hanno condotto una rassegna quantitativa che identificava tre gruppi di complicanze ostetriche associate alla schizofrenia: complicanze durante la gravidanza (ad esempio, emorragia, diabete), complicanze durante il parto (parto cesareo di emergenza, asfissia), e crescita e sviluppo anormale del feto (ad esempio, basso peso alla nascita). Il rischio di schizofrenia associato alle complicanze ostetriche è doppio rispetto all'assenza di tali complicanze, un piccolo effetto paragonabile in grandezza al rischio associato alle variazioni di particolari geni (Gilmore e Murray, 2006). Il secondo trimestre di gravidanza è particolarmente cruciale per il neurosviluppo, e vi è la prova che danni in questa fase di sviluppo (ad esempio, la madre contrae un'infezione o è sottoposta a stress eccessivi) raddoppino approssimativamente il rischio di una progenie che sviluppa schizofrenia (Cannon, Kendell, Susser e Jones, 2003).
Anche i fattori ambientali che si verificano dopo la nascita hanno un certo peso. Come abbiamo visto, la schizofrenia è rappresentata con una proporzione molto maggiore negli ambienti urbani (McGrath et al., 2004). Poiché la vita urbana e la nascita sono altamente correlate, non è chiaro se gli aumenti osservati siano dovuti a fattori prenatali o perinatali associati a una nascita urbana, o se la vita cittadina aumenti il rischio in una fase più tarda dello sviluppo, sotto forma di stress psicosociale e isolamento sociale (Boydeli e Murray, 2003). A questo proposito, è indicativo un recente studio prospettico che ha coinvolto più di 300.000 adolescenti israeliani, in cui i ricercatori hanno trovato un'interazione tra la densità di popolazione e i fattori correlati a un rischio genetico per la schizofrenia (inadeguato funzionamento sociale e cognitivo), suggerendo che lo stress della vita urbana potrebbe combinarsi con la vulnerabilità genetica e condurre alla schizofrenia (Weiser et al., 2007). In modo simile, una recente rassegna quantitativa di sette studi stima che l'uso di cannabis durante l'adolescenza aumenta dalle due alle tre volte il rischio di un successivo sviluppo di psicosi (Henquet, Murray, Linszen e van Os, 2005). Inoltre, vi è la prova di un'interazione geni-ambiente, dato che gli individui che hanno una variante del gene del Catecol-O-metiltransferase (COMT), circa il 25% della popolazione, sono quelli che mostrano un elevato rischio associato al consumo adolescenziale di cannabis (Caspi et al., 2005). Il COMT non è fondamentalmente associato a un consumo elevato di cannabis.
Fattori neurobiologici
Come abbiamo visto, dalla metà del XIX secolo è stato evidente in psichiatria che le caratteristiche comportamentali, emotive e cognitive della schizofrenia dovessero essere radicate nei cervelli degli individui affetti (Hugh’lings Jackson, 1931), una posizione che è stata rafforzata dallo sviluppo di farmaci antipsicotici efficaci (Healy, 2002). Il malfunzionamento o l'anomalia cerebrale (chiamata 'patofisiologia') potrebbe essere responsabile della schizofrenia in uno di questi due modi basilari: (1) la struttura cerebrale degli individui con schizofrenia potrebbe differire da quella normale (patologia anatomica), o (2) l'attività funzionale del cervello degli individui con schizofrenia potrebbe differire da quella normale (fisiologia patologica). Per quanto semplice ed evidente questa affermazione possa sembrare, cento anni di ricerca sulla schizofrenia non hanno ancora prodotto una coerente e unanime descrizione dei fattori e dei processi neurobiologici necessari e sufficienti a distinguere gli individui con la schizofrenia da quelli che non sviluppano questo disturbo (Williamson, 2006). In altre parole, la patofisiologia della schizofrenia rimane inafferrabile (si veda il capitolo 2).
Anomalia anatomica
Tuttavia, sono stati compiuti progressi considerevoli nella comprensione della neurobiologia della schizofrenia. Un approccio si è basato sull'investigazione dell'anatomia cerebrale di individui con schizofrenia, dopo la morte. La ricerca post-mortem di questo tipo ha portato a due importanti conclusioni: (1) la schizofrenia non è una malattia degenerativa nella maniera in cui Kraepelin (1971) e i suoi seguaci avevano ipotizzato, e (2) i pazienti con schizofrenia mostrano prove di un'anormale architettura cellulare, se comparata al cervello dei controlli sani. Come esempio di quest'ultimo effetto, David Lewis e i suoi colleghi hanno mostrato in molti studi che, rispetto ai controlli, gli individui con schizofrenia mostrano una ridotta densità negli strati di ingresso delle cellule piramidali, all'interno della corteccia prefrontale dorsolaterale (Lewis, Glantz, Pierri e Sweet, 2003).
L'imaging strutturale è stata un'altra fruttuosa strada per scoprire differenze anatomiche associate alla schizofrenia. In effetti, la più antica immagine dal vivo del cervello di un individuo diagnosticato con schizofrenia è degna di nota, non solo perché la paziente ha sopportato la sostituzione del suo fluido cerebrospinale con l'aria, ma perché è visibile l'ingrandimento dei ventricoli laterali (Moore, Nathan, Elliott e Laubach, 1935). Ventricoli più grandi sono associati a maggior fluido cerebrospinale e dimensioni cerebrali più piccole, e successivi studi di imaging hanno evidenziato che l'ingrandimento ventricolare è una caratteristica generale della schizofrenia (Johnstone e Ownes, 2004; Vita et al., 2000). In una rassegna sistematica di 40 studi, Lawrie e Abukmeil (1998) hanno stimato un aumento mediano del 30-40% del volume del ventricolo laterale, quando i pazienti con schizofrenia vengono comparati ai controlli, così come una riduzione mediana nel volume cerebrale totale del 3%. In una rassegna quantitativa di 155 studi con imaging strutturale, Davidson e Heinrichs (2003) riportano che le strutture frontali e temporali, specialmente l'ippocampo, tendono a essere più piccole nei pazienti con schizofrenia rispetto ai controlli sani. Rassegne più recenti hanno stabilito che l'anomalia volumetrica è presente nella schizofrenia fin dall'inizio, dato che al primo episodio i pazienti hanno già ventricoli più larghi, un volume cerebrale ridotto, un volume dell'ippocampo ridotto, comparato ai controlli abbinati (Steen, Muli, McClure, Hamer e Lieberman, 2006; Vita, De Peri, Silenzi e Dieci, 2006). In effetti, anche i loro parenti non affetti da schizofrenia mostrano un ingrandimento ventricolare e una riduzione ippocampale, rispetto agli individui di controllo (Boos, Alemán, Cahn, Hulshoff Poi e Kahn, 2007), suggerendo che le differenze anatomiche potrebbero essere correlate alla vulnerabilità genetica per la schizofrenia. Comunque, tutte le differenze strutturali osservate sono relativamente piccole (0,5 DS tra pazienti e controlli, 0,33 DS tra pazienti al primo episodio e controlli, un quinto di una DS tra parenti non affetti da schizofrenia e controlli), condividendo una considerevole sovrapposizione con i campioni sani (Heinrichs, 2005). I risultati di un recente studio di imaging sono coerenti con la conclusione che un complesso set di piccole differenze nell'intera corteccia caratterizza la differenza tra individui con schizofrenia e i controlli normali (Davatzikos et al., 2005).
Anomalia funzionale
Fare impegnare i pazienti in un compito mentre si misura l'attivazione di un'area cerebrale è un mezzo utile per determinare le differenze fisiologiche associate alla schizofrenia. I primi studi, che utilizzavano la tomografia a emissione di positroni (pet), evidenziarono anormali pattern di attivazione in molte regioni del cervello, in risposta a un compito (Gur e Gur, 2005). Una rassegna quantitativa di questa letteratura suggerisce che la differenza più marcata è la mancanza di attivazione correlata al compito dei lobi frontali (cosiddetta ipofrontalità), negli individui con schizofrenia quando comparati con i controlli sani (Davidson e Heinrichs, 2003). Un'analisi più raffinata di 12 studi suggerisce che il pattern di attivazione cerebrale, durante compiti di memoria di lavoro, è più complesso di quanto l'ipotesi dell'ipofrontalità porterebbe a credere, coinvolgendo sia l'ipoattivazione sia l'iperattivazione di una varietà di strutture (Glahn et al., 2005). Molte altre differenze nell'attivazione compito-correlata sono state identificate attraverso una varietà di compiti cognitivi, comportamentali ed emotivi (Belger e Di’chter, 2005; Gur e Gur, 2005). La maggior parte delle differenze sono esigue, molte non ripetute: fattori che impediscono conclusioni generalizzate riguardo alle differenze funzionali nella schizofrenia (si veda il capitolo 2).
Fattori neurocognitivi
Sia Kraepelin sia Bleuler hanno osservato, nei pazienti schizofrenici, difficoltà nei processi cognitivi di attenzione, memoria e problem solving e, a partire dal 1940, sono stati sviluppati test sistematici; comunque, molto di quanto si conosce sul danno cognitivo nella schizofrenia è maturato da uno sforzo collettivo di ricerca cominciato intorno al 1980 (Goldberg, David e Gold, 2003). Reichenberg e Harvey (2007) riportano una rassegna quantitativa di dodici domini, inclusa l'abilità intellettiva generale, la memoria verbale, la memoria non verbale, il riconoscimento, le funzioni esecutive, le abilità motorie, la memoria di lavoro, il linguaggio, l'attenzione e la velocità di elaborazione. La scoperta principale, coerente con gli studi precedenti, è che i pazienti hanno una performance più scadente dei controlli sani in tutti i dodici domini neurocognitivi, con una differenza paziente-controllo che è la media di una variazione tra 0,5 e 1,5 deviazione standard. In una rassegna quantitativa molto citata di 204 studi, Heinrichs e Zakzanis (1998) trovarono che la performance dei pazienti era inferiore in tutti i domini cognitivi, in media di quasi una deviazione standard. Vi era ampia variabilità tra i vari compiti, in particolare la memoria verbale ha presentato la differenza maggiore (una variazione di circa 1.5 DS nella media del paziente medio relativamente alla media di controllo attraverso le varie indagini). Heinrichs (2005) ha osservato che le differenze paziente-controllo nei compiti neurocognitivi sono molto più grandi delle differenze trovate per i fattori neurobiologici, come quelle misurate negli studi di imaging strutturale. Comunque, vi è ancora una discreta quantità di sovrapposizione tra i due gruppi, e questo porta alla possibilità che una proporzione di pazienti sia neuropsicologicamente normale (Palmer et al., 1997), una posizione che non è rimasta incontestata (Wilk et ai, 2005).
Tuttavia, le grandi differenze paziente-controllo hanno portato numerosi autori a riferirsi al deficit cognitivo come a una caratteristica centrale della schizofrenia, così come un'importante chiave di comprensione della sua patofisiologia (Gur e Gur, 2005; Heinrichs, 2005; Keefe e Eesley, 2006; MacDonald e Carter, 2002; Marder e Fenton, 2004). Il deficit cognitivo, in effetti, emerge prima dell'esordio della prima psicosi. Gli studi longitudinali forniscono le prove migliori. Ad esempio, punteggi più bassi ai test nell'infanzia sono stati trovati essere predittivi dello sviluppo della schizofrenia adulta in un campione inglese (Jones, Rodgers, Murray e Marmot, 1994). Allo stesso modo, punteggi più bassi nei subtest del qi nell'adolescenza erano predittivi di un successivo sviluppo di schizofrenia in reclute svedesi (David, Malmberg, Brandt, Allebeck e Lewis, 1997) e israeliane (Davidson et al., 1999). In quest'ultimo studio, il declino intellettuale cominciava durante l'infanzia, continuava attraverso l'adolescenza ed era indipendente dal genere, dallo status socioeconomico e dal verificarsi di disturbi psichiatrici non psicotici (Reichenberg et al., 2005).
Gli stessi ricercatori risomministrarono i subtest del Qi a 44 individui che avevano sviluppato la schizofrenia e trovarono che, nonostante un paio di test mostrassero un declino nella performance, vi era un esiguo cambiamento nella maggioranza dei test, suggerendo che una sostanziale proporzione del declino intellettuale si verificava prima dell'esordio della prima psicosi (Caspi et al., 2003). E sembra che la gravità del deficit cognitivo nel primo episodio di schizofrenia sia indistinguibile (dell'ordine di una variazione di una DS, in media, nella performance) dal deficit riscontrato negli individui con schizofrenia cronica (Gold e Green, 2005; Keefe e Eesley, 2006), suggerendo che il deficit neurocognitivo sia uno degli aspetti più stabili della schizofrenia. Oltre a questa prospettiva, rassegne quantitative suggeriscono che il deficit cognitivo sia uno dei migliori predittori di scarsi risultati sociali e professionali, caratteristici di una vasta maggioranza di individui con schizofrenia (Green, 1996; Green et al., 2000).
Un interessante sviluppo nella comprensione della neurocognizione nella schizofrenia è la scoperta ben replicata che i parenti genetici degli individui con schizofrenia mostrano un deficit cognitivo attenuato, che è più grave rispetto ai controlli sani (Reichenberg e Harvey, 2007). In media, i parenti non affetti da schizofrenia differiscono dai controlli di una deviazione standard che varia da 0,2 a 0,5 lungo i domini. Raquel e Ruben Gur e i loro colleghi hanno riprodotto questo stesso pattern di dati in uno studio familiare multigenerazionale, dimostrando che i domini neurocognitivi possono essere indicatori genetici per la schizofrenia (Gur et al., 2007).
Trattamento ed esito
Come visto nella precedente sezione, l'immagine moderna della schizofrenia è quella di una sindrome complessa, causata da una varietà di fattori genetici e ambientali, ognuno arrecante un piccolo contributo allo sviluppo del disturbo, che implica tre dimensioni sintomatologiche di base, un danno neurocognitivo pervasivo, e molti piccoli deficit neuroanatomici e neurofisiologici. La presente sezione affronta una delle più grandi rivoluzioni della moderna psichiatria: l'avvento del trattamento antipsicotico, che si associa naturalmente a una discussione degli esiti a breve e a lungo termine raggiunti dagli individui con schizofrenia.
Farmaci antipsicotici
Sembra difficile da credere che i farmaci antipsicotici siano sul mercato solo da metà secolo. Uno di noi (Beck) ricorda piuttosto vividamente un periodo di internato in un ospedale psichiatrico, durante il quale i pazienti con schizofrenia venivano trattati con idroterapia (alcuni di loro annegavano) e terapia con coma insulinico (alcuni di loro morivano). Ad altri pazienti, abbastanza famosa la sorella di Tennessee Williams, venivano somministrate lobotomie frontali, un trattamento che ha creato tanti problemi quanti ne ha risolti. A Parigi nel 1952, Denker e Delay trovarono, quasi per caso, che la clorpromazina (nome commerciale Torazina), il primo farmaco neurolettico, riduceva le allucinazioni e i deliri (Healy, 2002), una scoperta che avrebbe definitivamente trasformato il trattamento della schizofrenia, portando all'eliminazione di dubbi regimi terapeutici somatici, che avevano dominato il trattamento del disturbo dall'inizio del XX secolo. La clorpromazina è stata introdotta negli Stati Uniti nel 1954, e molti composti simili (nome della famiglia fenotiazine) furono presto sintetizzati e introdotti, incluso l'aloperi’dolo (Haldol) e la perfenazina (Trilafon). Data la vasta maggioranza degli individui con schizofrenia nel mondo sviluppato che attualmente assume tarmaci antipsicotici, può essere difficile comprendere lo scetticismo che prima caratterizzava i rapporti sull'efficacia dei farmaci neurolettici. Comunque, dai primi anni sessanta, due fatti sono emersi. Primo, il National institute of Mental Health (nimh) sponsorizzò uno studio randomizzato collaborativo di controllo che dimostrava l'efficacia dei farmaci antipsicotici nel ridurre i sintomi psicotici nei pazienti con schizofrenia acuta (Guttmacher, 1964). Secondo, i ricercatori avevano determinato che il meccanismo d'azione dei farmaci neurolettici fosse un blocco ai recettori postsinaptici del neurotrasmettitore dopamina (Healy, 2002; Miyamoto, Stroup, Duncan, Aoba e Lieberman, 2003). Ma i farmaci neurolettici sono 'sporchi', nel senso che influenzano anche i sistemi di altri neurotrasmettitori cerebrali, causando effetti collaterali quali la sedazione, l'incremento ponderale, ed effetti collaterali extrapiramidali (si vedano i capitoli 2 e 13 per maggiori dettagli inerenti le dinamiche farmacologiche dei farmaci antipsicotici).
Dalla metà del 1970, le prove hanno mostrato che i farmaci antipsicotici aiutano a prevenire le ricadute: pazienti che sono discontinui nell'assunzione dei farmaci sono dalle tre alle cinque volte più a rischio di ricadute dei pazienti che non sono discontinui; i pazienti che sono passati al placebo mostrano un tasso elevato di ricaduta, comparato ai pazienti che mantengono l'assunzione di farmaci antipsicotici (Marder e Wirshing, 2003; Stroup, Kraus e Marder, 2006). L'introduzione del clozaril (Clozapina), nel 1980, ha dato avvio alla seconda generazione di farmaci antipsicotici (Healy, 2002). Questi agenti, che includono il risperidone (Risperdal) e l'olanzapina (Zyprexa) sono i farmaci più prescritti per la schizofrenia negli Stati Uniti e in Europa, e attualmente dominano il trattamento del disturbo. I farmaci di seconda generazione hanno un diverso meccanismo di azione (antagonizzano la serotonina, oltre alla dopamina) e si sono rivelati un successo improvviso, in termini di efficacia (migliore), profilo di effetti collaterali (più favorevole), e deficit cognitivo (ridotto) (Healy, 2002). Comunque, le scoperte delle ricerche sono state deludenti in questo aspetto, visto che studi ben condotti hanno mostrato poca differenza nell'efficacia tra la prima e la seconda generazione di farmaci antipsicotici (Lieberman et al., 2005). Nemmeno i farmaci hanno mostrato di avere un miglior effetto sulla neurocognizione (Keefe et al., 2007), portando alcuni ricercatori a mettere in dubbio il costo più elevato dei farmaci più recenti, specialmente visto il rischio elevato di effetti collaterali metabolici, quali il diabete (Rosenheck et al., 2006). Harrow e Jobe (2007) hanno recentemente riportato un risultato di uno studio prospettico di quindici anni, in cui identificano un sottogruppo di individui con schizofrenia discontinui nell'assunzione di farmaci, che sperimenta periodi di guarigione. Secondo gli autori i loro risultati indicano che esiste un sottogruppo di individui con schizofrenia che non ha bisogno di assumere continuamente farmaci per raggiungere un buon esito.
Risultati
Il disaccordo riguardante la prognosi nella schizofrenia può, come molto altro, essere fatto risalire a Bleuler e Krapelin. Come abbiamo già visto, Kraepelin era profondamente pessimista in merito alla possibilità di un miglioramento significativo, e meno che mai di una guarigione (Kraepelin, 1971). In effetti, Kraepelin argomentava che qualunque paziente manifestasse i sintomi della dementia praecox e poi migliorava, doveva aver ricevuto all'inizio una diagnosi sbagliata (Rund, 1990). Bleuler (1911/1950), al contrario, osservava che la maggioranza dei suoi pazienti migliorava abbastanza da mantenere un impiego e l'autosufficienza. Warner (2004) ha suggerito che la prospettiva più ottimistica di Bleuler sull'esito della schizofrenia può essere il risultato del suo modello di trattamento superiore, così come delle condizioni economiche più favorevoli, caratteristiche della Svizzera di quel periodo.
Calabrese e Corrigan (2005) osservano che, oltre al profondo impatto del suo lavoro nosologico, la visione pessimistica di Kraepelin, in merito all'esito della schizofrenia, ha avuto un impatto a lungo termine sulla psichiatria, soprattutto in termini di aspettative di trattamento. Come abbiamo visto, la ricerca non ha supportato l'affermazione centrale di Kraepelin, secondo cui la dementia praecox è neurodegenerativa; le prove sono però più incerte riguardo ai tassi di guarigione. Il pessimismo di Kraepelin tendeva a prevalere, soprattutto all'interno della psichiatria americana. Così, quando si discute l'esito nella schizofrenia, gli autori del DSMIII (American Psychiatric Association, 1980), rievocandone il pioniere, mettono in guardia dicendo che "la remissione dei sintomi o un ritorno al funzionamento premorboso è un fatto così raro che porterebbe piuttosto a un probabile dubbio da parte dei clinici sulla diagnosi originaria" (p. 64). Il DSMIV -TR (American Psychiatric Association, 2000) non è molto più incoraggiante sul tema dell'esito nella schizofrenia: "una completa remissione (un ritorno al pieno funzionamento premorboso) è probabilmente non comune in questo disturbo" (p. 309).
Vi è disaccordo riguardo alla questione se l'introduzione dei farmaci antipsicotici abbia migliorato gli esiti raggiunti dagli individui con schizofrenia. Hegarty e colleghi (Hegarty, Baldessarini, Tohen, Waternaux e Oepen, 1994) riportano risultati di una meta-analisi che mostrano che la proporzione di buoni esiti era migliorata tra il 1950 e il 1980, un periodo durante il quale i farmaci erano divenuti prontamente disponibili, rispetto al periodo 1930-1950. Warner (2004) e altri (ad esempio, Healy, 2002; Peuskens, 2002) hanno argomentato, al contrario, basandosi sulle rassegne dei risultati della letteratura, che gli esiti funzionali non sono cambiati in modo eclatante con l'introduzione degli antipsicotici. In entrambi i casi, una grande proporzione di pazienti continua a esperire scarsi esiti a lungo termine. Hafner e van der Heiden (2003) stimano che la proporzione dei pazienti al primo episodio, che dimostra un miglioramento sintomatologico e che non ha ricadute nell’arco di cinque anni, varia dal 21 al 30%, suggerendo che la maggioranza dei pazienti sperimenta una ricomparsa o una sintomatologia continua. La meta-analisi di Hegarty et al. (1994) ha stimato, nei vari studi, che una chiara maggioranza di pazienti raggiunge esiti 'sfavorevoli' o 'cronici'. Robinson et al. (2004), forse nel migliore studio di questo genere, hanno scoperto che il 50% dei pazienti al primo episodio otteneva due anni di remissione dai sintomi (non più che 'lievi' sintomi positivi, e non più che 'moderati' sintomi negativi) in un periodo di follow up a cinque anni, mentre il 25% otteneva due anni di funzionamento sociale e professionale adeguato, e, significativamente, che solo il 12% rispondeva ai criteri di una piena guarigione per due anni o più. Data l'alta qualità della somministrazione del trattamento e della compliance in questo studio, il risultato è un sobrio ritratto dell'efficacia dei farmaci esistenti e dei trattamenti ausiliari per migliorare il funzionamento sociale e professionale.
Calabrese e Corrigan (2005) fanno un resoconto dei dieci studi pubblicati sull'andamento a lungo termine della schizofrenia, in cui il tempo medio per la valutazione del follow up era quindici anni o più. Sebbene questi studi differiscano in termini di nazionalità dei partecipanti (ad esempio, tedeschi, giapponesi, svizzeri, americani), di definizione di schizofrenia (ampia o ristretta), di definizione di guarigione/miglioramento (ad esempio, basata sui sintomi o basata sul funzionamento), e del tempo del follow up (la valutazione media del follow up in questo gruppo di studi è 27 anni, e il range 15-37), le scoperte sembrano essere relativamente coerenti: cioè, quasi il 50% dei pazienti era classificato come 'guarito o migliorato'. Di contro, quasi metà dei pazienti era 'non migliorata o cronica', e ciò significa che, in media, questo gruppo di pazienti sperimenta più di due decadi e mezzo di disabilità. Il World Health Organization International Study of Schizoph’renia (Harrison et al., 2001) illustra questo punto in modo pregnante. Coinvolgendo diciotto centri di ricerca internazionale e 1.633 pazienti con una malattia psicotica, gli autori riportano risultati favorevoli per più del 50% del campione sottoposto a follow up. Comunque, questa conclusione è basata su una valutazione clinica, fatta su una scala a quattro punti, e Harrison et al. (2001) argomentano che definizioni più restrittive di esito favorevole, che includono requisiti di funzionamento esplicito, sono più significative. Quando stabiliscono un cut off di funzionamento minimo (il Global Assessment of Functioning valutava sessanta o più, indicando "lieve, minima o nessuna difficoltà nel funzionamento sociale"), la percentuale di esiti favorevoli è del 38%. Se richiedono, in più, che i pazienti non devono aver avuto attacchi di rabbia, che hanno richiesto il trattamento nell'arco di due anni, la percentuale degli esiti favorevoli è del 16%. Quest'ultimo numero richiama i risultati di Robinson et al. (2004), sopra discussi.
Le prove disponibili giustificano la conclusione che una significativa proporzione di individui diagnosticati con schizofrenia raggiunge esiti esigui. Significativamente, sia se valutati in un periodo più breve (ad esempio, cinque-dieci anni) sia più lungo (ad esempio, quindici anni e oltre), gli esiti funzionali della maggior parte degli individui con schizofrenia appaiono particolarmente danneggiati, un risultato che si verifica persino quando il trattamento psicofarmacologico elettivo è stato somministrato lungo l'intero periodo di follow up. Per migliorare gli esiti raggiunti da questi individui, è logico che devono essere identificati i fattori che sono causa della disfunzione sociale e occupazionale riscontrata. Questi fattori, quindi, potrebbero servire come bersaglio di intervento, esplicitamente designato per migliorare gli esiti e la qualità di vita degli individui diagnosticati con schizofrenia.
[…]
Vi sono diverse ragioni per cui gli aspetti biologici della schizofrenia possono essere importanti per comprendere e utilizzare i principi e le tecniche della terapia cognitiva nella concettualizzazione e nel trattamento di questa condizione. Primo, riconoscere i fattori multipli nell'eziologia della schizofrenia può allertare un clinico alle limitazioni nell'uso della terapia cognitiva. Disconnessioni basate su una disposizione genetica, alterazioni nella trasmissione neurochimica, e cambiamenti nell'attività di alcune regioni cerebrali, possono limitare il grado in cui i tentativi di cambiare le convinzioni possono essere adempiuti senza altri mezzi di intervento, quali i farmaci. Secondo, comprendere quali specifici sistemi cerebrali possono contribuire ai sintomi della schizofrenia può condurre ad approcci cognitivi innovativi, basati sulle funzioni di questi sistemi. Terzo, il divario tra i ricercatori e i medici del mondo biologico e quelli del mondo psicologico può essere colmato da una migliorata comunicazione, quando ciascuna setta impara i principi, i concetti e le informazioni dell'altra. Quarto, un esame di tutti gli aspetti di questa condizione (psicologici, neurologici, sociali e altri) può condurre a una comprensione più completa della sua complessità. Rispondere alle domande su cosa è la schizofrenia e come i suoi sintomi si verificano dipenderà verosimilmente dall'integrazione dei dati provenienti da svariate discipline.
Le basi neurobiologiche della schizofrenia sono rimaste incerte, nonostante decenni di approfondita ricerca. Questa indefinitezza è, in parte, dovuta all'eterogeneità della condizione in molti ambiti. In quello eziologico, sia la genetica sia l'ambiente (gestazionale, perinatale e postnatale) giocano un ruolo nello sviluppo della schizofrenia. Esaminare separatamente ciascuna influenza non semplifica i problemi, la componente genetica non si è rivelata ben definita, come nella scoperta di un singolo gene, né gli effetti annientali sono stati ridotti a un virus, una tossina, un trauma, o altre influenze sconosciute. Nell'ambito della patofisiologia, molte aree cerebrali si sono dimostrate, in qualche modo, alterate nei soggetti diagnosticati con schizofrenia. Il trattamento farmacologico della schizofrenia ha implicato il coinvolgimento di una serie di neurotrasmettitori in questo disordine. Sono stati suggeriti numerosi modelli patofisiologici dei processi neuropsicologici che producono i sintomi della schizofrenia, basati sulle svariate scoperte riguardo ai contributi delle regioni cerebrali e dei neurotrasmettitori. Nell'ambito fenomenologico, la ricerca delle basi neurobiologiche della schizofrenia è complicata dai cluster multipli di sintomi, osservati nelle presentazioni cliniche, che portano alcuni a credere che il disturbo sia realmente un set di disturbi, in cui ognuno ha potenzialmente una differente eziologia e patofisiologia. Ancora nessuno è stato in grado di delineare e descrivere in maniera affidabile cosa potrebbero essere questi singoli disturbi. Correlato all'ambito della sintomatologia è l'ambito della neuropsicologia, in cui devono ancora essere scoperti markers affidabili e specifici di malattia, che utilizzino test di funzioni cognitive, quali l'attenzione, la memoria e/o la funzione esecutiva.
Nonostante la natura enigmatica di questa condizione, la speranza è che ci sarà una spiegazione neurobiologica della schizofrenia che descriva l'intero, complesso processo: dai fattori eziologici poligenetici e gestazionali/perinatali che producono le alterazioni evolutive, alle anomalie neurofisiologiche in sistemi cerebrali specifici, che producono le caratteristiche cliniche e neuropsicologiche. Al momento, quella che segue è un'introduzione su quanto è noto dell'eziologia e della neuropsicologia della schizofrenia. La prima consiste nelle scoperte genetiche, nelle influenze ambientali durante la gravidanza e nelle alterazioni durante lo sviluppo; la seconda affronta le aree della neuroanatomia, neurochimica e neuropsicologia/psicofisiologia. Per finire, vengono presentati i modelli teorici che integrano alcune di queste scoperte.
Eziologia
Perché le origini della schizofrenia potrebbero interessare un clinico? Dopo tutto, gli effetti della terapia e/o dei farmaci possono essere esaminati e migliorati, senza nemmeno approfondire le cause primarie della condizione. Vi sono numerose risposte a questa domanda. Primo, apprendere di più sullo sviluppo della schizofrenia può portare a misure preventive, quali la terapia cognitiva, che potrebbe, quindi, essere intrapresa prima dell'esordio della schizofrenia negli individui ad alto rischio. Secondo, isolare il contributo genetico può rappresentare un'informazione utile nel lavoro con i membri della famiglia, che potrebbero presentare forme sintomatiche meno gravi, ma pur sempre pertinenti. Terzo, riconoscere le potenziali cause biologiche e informare di queste i pazienti e i membri della famiglia può aiutare a ridurre l'autocolpevolizzazione. Quarto, a mano a mano che impariamo di più sui processi neuronali sottostanti lo sviluppo dei disturbi psichiatrici, impariamo di più anche sui processi neuronali sottostanti i cambiamenti fisiologici prodotti nel corso della psicoterapia (si veda Cozolino, 2002). La nozione secondo cui avvengono dei cambiamenti nel cervello a seguito dell'applicazione della psicoterapia, può fornire speranza al paziente, alla famiglia e al clinico. Alla fine, i processi coinvolti nello sviluppo della'schizofrenia (quali l'effetto del rilascio del cortisolo indotto dallo stress sulla morte cellulare) potrebbero essere implicati nella complessiva persistenza e nell'esordio di episodi psicotici specifici.
Nonostante la schizofrenia si manifesti, per la prima volta, con sintomi evidenti nell'adolescenza e nella prima età adulta, è opinione condivisa che la condizione inizi nel periodo prenatale, con origini genetiche complicate da un trauma durante la gravidanza e/o il parto, esacerbate da ulteriori alterazioni neurologiche che si verificano evolutivamente durante l'adolescenza, e aggravate da fattori di stress psicologici prima dell'esordio clinico. Anche se potrebbe sembrare che i contributi biologici allo sviluppo della schizofrenia siano più facili da determinare, rispetto a quelli psicologici, vi è una considerevole confusione nei tentativi di stabilire le determinanti fisiologiche della schizofrenia (si veda Bentall, 2004). La schizofrenia è intesa come un disturbo, non una malattia, perché non esiste un chiaro, affidabile e specifico fattore eziologico, e neanche un insieme di questi fattori. Si è discusso sul fatto che tale mancanza di prove definitive di una genesi biologica supporti la nozione, secondo cui la schizofrenia non sia un disturbo neurologico, ma piuttosto una condizione psicologicamente determinata. Comunque, non vi sono scoperte chiare neanche su specifici fattori di stress psicologici o sociali che conducano all'esordio della schizofrenia in maniera analoga al disturbo post-traumatico da stress. Il modello più comunemente accettato è il modello diatesi-stress (o stress-vulnerabilità), che indica la combinazione di radici biologiche e di forze psicologiche nel produrre la condizione schizofrenica.
Fattori genetici
Nonostante sia evidente una componente genetica della schizofrenia, non vi è una semplice configurazione genetica mendeliana, che aiuta a predire la frequenza familiare nella schizofrenia. Anche se si ignorano i contributi ambientali all'eziologia, gli aspetti genetici sono ancora complessi e devono ancora essere determinati.
Ciò che ha portato alla convinzione che i geni giochino un ruolo importante è la più alta presenza di schizofrenia in chi ha parenti affetti da schizofrenia. Avere un parente di secondo grado con schizofrenia aumenta il tasso nella popolazione generale dall'1% al 3-4%; avere un parente di primo grado aumenta il tasso fino al 9-13%. Ancora più sorprendente è il fatto che il tasso di concordanza (ad esempio, il tasso di co-occorrenza) per la schizofrenia nei gemelli monozigoti (gemelli sviluppati da un unico uovo fecondato; presumibilmente con geni identici) è del 48%, mentre nei gemelli dizigoti (fratelli) è del 17% (Gottesman, 1991). Comunque, è degno di nota che avere un set identico di geni non garantisce una completa concordanza. Questo implica che l'ambiente apporta un contributo sostanziale e/o che vi è un'incompleta penetranza (il grado in cui la presenza di un gene conduce alla manifestazione esterna [fenotipo], come misurata dalla proporzione dei portatori del gene che ne sono affetti), o espressività (la grandezza dell'effetto prodotto dal gene). Un'argomentazione a favore dell'impatto dell'ambiente include le scoperte, secondo cui una migliore qualità di relazioni familiari è associata a individui ad alto rischio genetico che sviluppano un disturbo di personalità schizotipico oppure nessuna condizione psichiatrica piuttosto che la schizofrenia (Burman, Medrick, Machon, Parnas e Schul’singer, 1987), e che la presenza di problemi significativi nelle famiglie che adottano bambini con alto rischio genetico di schizofrenia è associata a una maggiore probabilità di sviluppare schizofrenia, rispetto ai bambini con alto e basso rischio genetico nelle famiglie adottive con meno problemi, e rispetto ai bambini a basso rischio cresciuti in famiglie adottive con problemi (Tienari et al., 1987).
Prove ulteriori che la schizofrenia sia un disturbo ereditario provengono dagli studi sulle adozioni. In questi casi, il più alto rischio di sviluppare la schizofrenia è associato all'avere parenti con schizofrenia (componente genetica); questo rischio non cambia come risultato dell'adozione (la componente di crescita/famiglia), sia nel caso di individui non affetti cresciuti da genitori con schizofrenia, sia nel caso di individui affetti cresciuti da genitori non affetti da schizofrenia (Heston, 1966; Kety, Rosenthal, Wender e Shulsinger, 1968; Rosenthal et al., 1968). Comunque, la componente dell'educazione è ancora pertinente, come mostrato da un aumento del rischio in un individuo affetto da schizofrenia, se cresciuto da genitori a loro volta affetti (Gottesman, 1991; Ingraham e Kety, 2000).
Nonostante una forte prova della presenza di un contributo genetico nello sviluppo della schizofrenia, la ricerca di geni specifici associati alla schizofrenia è stata vaga. Modelli che incorporano la trasmissione di un singolo gene non hanno spiegato il pattern di ereditarietà (O'Donovan e Owen, 1996), probabilmente dovuto a una serie di fattori. La mancanza di omogeneità nella presentazione della schizofrenia comporta che disturbi multipli siano studiati insieme come un unico disturbo, confondendo i risultati. Alcuni di questi disordini possono, persino, non avere una componente genetica. In effetti, nonostante le scoperte a favore di un contributo genetico, l'80% delle persone con schizofrenia non ha un parente di primo grado affetto da schizofrenia, e il 60% non ha alcun parente conosciuto con il disturbo (Gottesman, 1991). Per coloro che ce l'hanno, potrebbe esservi una trasmissione poligenica, cioè geni multipli che contribuiscono ad aspetti del disturbo che sinergicamente producono la presentazione clinica (Cardno e Gottesman, 2000). Le complessità sorgono quando si considera la variabilità dovuta alla penetranza e all'espressività.
Nel tentativo di trovare i geni responsabili della manifestazione della schizofrenia, studi genetici si sono concentrati su analisi di collegamento, in cui le caratteristiche neurobiologiche che sembrano essere presenti nelle famiglie degli individui affetti da schizofrenia sono esaminate nel loro schema ereditario, nella convinzione che i geni associati a questi tratti marker si trovino vicino a quelli associati alla vulnerabilità per la schizofrenia. L'idea è che questi geni collegati vengano ereditati in un modo simile ai geni della schizofrenia, ma che i fattori ambientali (ad esempio, i farmaci, l'istituzionalizzazione, l'isolamento sociale) incidano sui fenotipi dei geni associati molto meno che sui fenotipi dei geni per la schizofrenia. Inoltre, dovrebbe essere più facile trovare i geni responsabili di questi tratti marker e, quindi, applicare queste scoperte ai geni responsabili della vulnerabilità alla schizofrenia.
Come esempio, Freedman et al. (1997) hanno scoperto che l'inibizione del P50 (la risposta diminuita di un tipo di onda cerebrale alla presentazione ripetuta di uno stimolo) non è presente nei parenti non affetti, così come in quelli con la schizofrenia. Un collegamento è stato trovato nel locus cromosomico 15ql3-14, il sito del gene per il recettore nicotinico a2 (Adler, Freedman, Ross, Olincy e Waldo, 1999). Altri cromosomi contenenti geni ritenuti associati alla schizofrenia includono 1, 2, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 13, 15, 18, 22 e X. Così 14 su 24 possibili cromosomi sono candidati come loci per questi geni. Non vi è ancora un'evidenza definitiva a favore di uno specifico locus.
In conclusione, esistono buone prove per un contributo poligenetico all'eziologia della schizofrenia, ma quali geni specifici (ed espressioni fenotipiche) siano coinvolti non è noto. Inoltre, l'ambiente deve giocare un ruolo importante, dato che, quando un individuo affetto da schizofrenia ha un gemello identico (avente identica costituzione genetica), solo in circa metà delle volte anche l'altro gemello svilupperà la schizofrenia.
Influenze gestazionali e perinatali
Le prime influenze ambientali non sono quelle a cui ci si riferisce generalmente come fattori dell'educazione; piuttosto, sono i fattori che si verificano durante i nove mesi antecedenti la nascita, che potrebbero potenziare l'effetto genetico. Sebbene la genetica possa rendere conto di più dell'85% della varianza nella presentazione della schizofrenia (Cannon, Kaprio, Lonnqvist, Huttunen e Koskenvuo, 1998; Kendler et al., 2000), è noto che una più alta frequenza di eventi gestazionali e perinatali (intorno al periodo del parto) è presente negli individui con schizofrenia. Eventi di questo tipo (per cui non esistono scoperte coerenti che implicano direttamente un singolo fattore come causa che contribuisce alla schizofrenia) includono il prolungato digiuno materno durante il primo trimestre (Susser et al., 1996); l'infezione da influenza nel secondo semestre (Mednick, Machon, Huttunen e Bonett, 1988); l'incompatibilità tra rhesus (Rh) e il gruppo sanguigno ABO (Hollister, Laing e Mednick, 1996); e danni cerebrali a seguito di anossia perinatale (mancanza di ossigeno) (Cannon et al., 2002), spesso associati a prematurità, preeclampsia e basso peso alla nascita. Si pensa che complicanze gestazionali e perinatali (in particolare, anossia neonatale), accompagnate da un carico genetico, stabiliscano la base per lo sviluppo della schizofrenia. Il gemello affetto dei gemelli monozigoti discordanti ha un punteggio di anossia neonatale dalle due alle quattro volte più grande del gemello non affetto (Nasrallah e Smeltzer, 2002). (In contrasto, Torrey, Bowler, Taylor e Gottesman, 1994, hanno trovato uguale frequenza di complicanze ostetriche nei gemelli affetti e non affetti da schizofrenia. Comunque, i gemelli, con almeno un membro affetto, hanno avuto più problemi ostetrici rispetto ai gemelli che sono entrambi non affetti da schizofrenia).
Heinrichs (2001) ha condotto una vasta serie di meta-analisi su varie scoperte correlate alla schizofrenia eseguite tra il 1980 e il 2000. Dopo aver eliminato gli studi con seri difetti, quali contraddittori fattori significativi, il suo gruppo ha calcolato l'ampiezza dell'effetto media (d; il grado in cui i risultati medi dei vari studi differenziano il gruppo di controllo da quello sperimentale) e l'intervallo di fiducia (ci; la coerenza dei risultati tra gli studi). Riguardo alle complicanze ostetriche e la schizofrenia, hanno calcolato un'ampiezza dell'effetto di d ~ 0,32 (modesto), suggerendo una sovrapposizione del 76% tra i soggetti con la schizofrenia e quelli senza. In altre parole, le complicanze ostetriche possono essere importanti, ma non sono fattori necessari nel determinare l'eziologia della schizofrenia. Comunque, il ci era 0,20-0,44, spingendo Heinrichs a notare che questa era una scoperta più coerente di molte altre correlate alla schizofrenia. (Una ci più ristretta indica scoperte più coerenti e stabili attraverso gli studi).
L'idea che il virus dell'influenza possa essere un fattore di rischio proviene dalla rilevazione di un rischio leggermente aumentato di sviluppo della schizofrenia nei nati nel tardo inverno o all'inizio della primavera, intendendo con questo che il secondo trimestre (momento in cui lo sviluppo cerebrale si crede alterato nella schizofrenia) abbia coinciso con l'inverno, quando le infezioni del virus sono più comuni. Comunque, non vi sono scoperte coerenti che indicano che le madri degli individui con schizofrenia avessero avuto più probabilità di contrarre il virus dell'influenza (Cannon et al., 1996; Selten et al., 1999). Secondo Bentall (2004), vi può essere un fattore contraddittorio della schizofrenia che si verifica di più nelle aree urbane, dove vi è maggiore probabilità che si diffonda un virus. Altre possibili spiegazioni dell'associazione del secondo trimestre (nascite nel tardo inverno o all'inizio della primavera) con lo sviluppo della schizofrenia sono una diminuita nutrizione materna durante l'inverno, perché la protezione genetica dai danni intrauterini durante l'inverno si collega ai geni che contribuiscono alla produzione della schizofrenia (più persone con la schizofrenia sopravvivono a complicanze intrauterine in inverno, quindi più nascite invernali di soggetti con queste condizioni), e una variazione stagionale nel rischio di complicanze ostetriche (Warner e de Girolamo, 1995). Di rilievo, Heinrichs (2001) ha trovato che l'ampiezza dell'effetto media per le nascite invernali e la schizofrenia era d= 0,05 (molto basso).
Oltre ai fattori di stress biologici, anche quelli psicologici durante la gravidanza sono stati associati alla schizofrenia nella progenie. La schizofrenia con più probabilità è stata riscontrata in coloro i cui padri erano morti tra il concepimento e la nascita, comparati a quelli durante il primo anno di vita postnatale, indipendentemente da complicanze ostetriche (Huttunen e Ni’skanen, 1973). La diagnosi era più prevalente anche in coloro le cui madri erano incinte in Olanda quando, nel 1940, venne invasa dalla Germania, in confronto alle gravidanze in altri anni, dal 1938 al 1943 (van Os e Selton, 1998). Una possibilità è che lo stress nella madre fosse stato maggiore in questi gruppi e che avesse potuto danneggiare il feto. Comunque, senza avere misure dirette del livello di stress in queste madri, questi studi sono solo indicativi.
Le prove forniscono supporto all'ipotesi che le complicanze ostetriche siano fattori che contribuiscono all'eziologia della schizofrenia in alcuni, ma non in tutti i casi. Sarebbe utile sapere se quegli individui con la schizofrenia e con note complicanze ostetriche possano essere differenziati come adulti in modo significativo e coerente dai soggetti con la schizofrenia di cui è noto che non sono stati esposti a nessun problema ostetrico. Forse un'impresa simile permetterebbe di cominciare a distinguere i tipi di schizofrenia (come in uno studio analogo che ha diviso i gruppi secondo altre scoperte quali disposizione genetica, distruzione di specifiche aree cerebrali, e così via).
Alterazioni neuroevolutive
La combinazione di fattori genetici e complicazioni gestazionali può mettere le fondamenta dello sviluppo della schizofrenia con la sua miriade di sintomi diversi. Comunque, il percorso dai geni e dai danni precoci alle fondamenta neurofisiologiche di una schizofrenia pienamente sviluppata è tanto incerto quanto i punti di partenza e di arrivo. Vi sono alcune ipotesi, tuttavia, relative ai cambiamenti neuroevolutivi durante due importanti periodi temporali: il secondo trimestre di gravidanza e l'adolescenza. Inoltre, è stato esaminato il contributo dello stress ai cambiamenti neurofisiologici negli anni precedenti l'esordio della schizofrenia, con l'implicazione che possono esservi altri periodi evolutivi critici con anomalie neurali (ad esempio, il periodo neonatale).
Prima di esplorare questi meccanismi di modificazione neuronale, si dovrebbe notare che esistono prove fisiche e comportamentali secondo cui la schizofrenia non rimane latente tra il concepimento (quando il corredo genetico è determinato) e la tarda adolescenza e la prima età adulta (quando emergono i sintomi clinici). Vi sono alcuni segnali che il neurosviluppo non sta progredendo in un modo normale. Le complicanze nel parto, piuttosto che essere viste come fattore determinante della schizofrenia, possono riflettere un neurosviluppo anomalo. Inoltre, l'aumentata probabilità di anomalie fisiche minori alla nascita, quali una ridotta circonferenza cranica, orecchie scese o altezza del palato anormale è stata tendenzialmente associata a un anormale sviluppo del sistema nervoso centrale (McNeil, Cantor’Graae e Cardenal, 1993; McNeil, Cantor-Graae, Nordstrom e Rosenlund, 1993; O'Callaghan, Larkin, Kinsella e Waddington, 1991).
Lo sviluppo della prima infanzia può includere progressi motori, linguistici, intellettuali e sociali ritardati e atipici in confronto ai fratelli e ai coetanei, come appare evidente da analisi dettagliate di filmati casalinghi retrospettivi o dati scolastici (Davidson et al., 1999; Jones et al., 1994; Wal’ker, 1994). Inoltre, ci sono studi che hanno riscontrato maggiori emozioni negative e meno emozioni positive in ragazze che in seguito avrebbero sviluppato la schizofrenia (Walker, Grimes, Davis e Smith, 1993). Studi prospettici hanno riscontrato che quelli a più alto rischio di schizofrenia (ad esempio, quelli con un parente di primo grado con schizofrenia) presentavano precocemente anomalie motorie, inadeguato adattamento sociale nella prima metà dell'infanzia, e scarse abilità attentive/cognitive nell'adolescenza (rivisto da Bentall, 2004). In uno studio, coloro che avevano sviluppato la schizofrenia, con più probabilità erano stati adolescenti con un locus of control più esterno (Frenkel, Kugelmass, Nathan e Ingraham, 1995). Studi di coorte in cui i soggetti sono seguiti longitudinalmente hanno mostrato che, comparati a coloro i quali non sviluppavano successivamente la schizofrenia, quelli con schizofrenia avevano camminato 1,2 mesi più tardi, mostravano maggiore goffaggine a 7 anni, qi leggermente più bassi a 7-16 anni, ed evidenti difficoltà nell'eloquio a 7-11 anni (Jones e Done, 1997).
Heinrichs (2001) ha stabilito che le ampiezze medie dell'effetto degli studi delle popolazioni ad alto rischio erano modeste per i problemi intellettuali, sociali, emotivi e comportamentali (d = 0,26-0,42) e alte per i deficit cognitivi (d = 0,68-3,23) e motori (d = 1,35). Comunque, la maggiore ampiezza dell'effetto media per gli ultimi due gruppi era dovuta alla presenza di singoli studi con grandi ampiezze dell'effetto che hanno aumentato le ampiezze dell'effetto medio mostrando deficit di attenzione (Cornblatt, Lenzenweger, Dworkin e Erlenmeyer-Kimling, 1992) e deficit motori (Erlenmeyer-Kimling et al., 1998). Heinrichs propone la necessità di replicare questi studi per determinare se sono rappresentativi o no dei deficit in questi gruppi ad alto rischio.
I cambiamenti neurobiologici che si pensa accompagnino questi precoci segni di funzionamento alterato sono stati indicati da studi postmortem sui cervelli di persone che avevano sofferto di schizofrenia. In questi studi, i cambiamenti nelle configurazioni neuronali non sono associati alla presenza di gliosi, un segno di degenerazione neurale (Heckers, 1997). Inoltre, queste distruzioni neuropatologiche si crede siano basilari abbastanza da aver avuto origine durante lo sviluppo prenatale, più probabilmente durante il secondo trimestre (Arnold e Trojanowsky, 1996; Bunney, Potkin e Bunney, 1995). Ciò avviene quando i corpi cellulari di molti neuroni migrano dalle pareti dei ventricoli (cavità ripiene di fluido all'interno del cervello) alla placca corticale (la sede di quella che diventerà la corteccia) per stabilire connessioni corticali distanti. Le connessioni corticali sono guidate da un modello embrionale temporaneo chiamato sottoplacca corticale (Allendoer’fer e Shatz, 1994). L'architettura neuronale distrutta collegata alle cellule della sottoplacca è stata riscontrata in regioni cerebrali quali i lobi frontali e temporali e l'ippocampo (Akbarian, Bunney et al., 1993; Akbarian, Vinuela et al., 1993; Anderson, Volk e Lewis, 1996). Queste distruzioni potrebbero alterare la connettività dei neuroni corticali quando questi migrano verso la placca corticale durante il secondo trimestre.
Heinrichs (2001) di nuovo ha scoperto grandi ampiezze dell'effetto medie (d = 0,87-1,12) accompagnate da grandi ci, che indicano la mancanza di coerenza nelle scoperte, a cui Heinrichs attribuisce parte delle differenze nelle sottoregioni cerebrali specifiche esaminate. La maggior parte degli studi da lui riportati ha esplorato l'ippocampo (in termini di orientamento cellulare) e la corteccia prefrontale (in termini di ridotta migrazione cellulare, dai più bassi ai più alti livelli).
Una spiegazione alternativa per i disturbi della sottoplacca è rappresentata dalle anomalie nel processo di morte cellulare programmata (Margolis, Chuang e Post, 1994). Soprattutto durante il terzo trimestre, circa 1 80% delle cellule della sottoplacca normalmente muore. Alterazioni del grado di morte cellulare (in qualunque direzione) potrebbero portare ad anomalie nella sottoplacca corticale e quindi a una connettività corticale distrutta.
Una quantità anormale di distruzione cellulare potrebbe anche verificarsi in un altro periodo critico di sviluppo (l'adolescenza) quando il pruning3(cioè l'eliminazione di alcune connessioni) dei neuroni corticali è completo, specialmente nell'area prefrontale. La connettività aumenta enormemente durante il primo sviluppo, ma la densità sinaptica (la concentrazione dei punti di comunicazione tra neuroni) gradualmente diminuisce del 60-65% della massima quantità (Huttenlocher e Dabholkar, 1997). Questo pruning può essere persino maggiore in coloro che sviluppano la schizofrenia (Bunney e Bunney, 1999; Feinberg, 1982/1983, 1990; McGlashan e Hoffman, 2000), spiegando eventualmente l'esordio tipico delle presentazioni cliniche della schizofrenia durante il periodo evolutivo.
La morte cellulare può verificarsi anche nel corso di tutta la vita quale risultato di stress attraverso l'ormone cortisolo, il quale, in risposta a situazioni stressanti (o alla percezione delle situazioni come minacce), raggiunge livelli più alti nel flusso sanguigno. L'ippocampo, e possibilmente il lobo prefrontale, sono particolarmente sensibili al cortisolo rilasciato sotto stimolazione dell'asse ipotalamo-ipofisi-surrene (Sapolsky, 1992). Ci sono prove secondo cui alcune persone con la schizofrenia hanno avuto una maggiore risposta fisiologica allo stress, quali maggiori livelli di cortisolo (Dickerson e Kemeny, 2004; Walder, Walker e Lewine, 2000). Se livelli più alti di cortisolo sono presenti prima dell'esordio clinico della schizofrenia, questi possono portare a una graduale degenerazione dell'ippocampo e del lobo prefrontale durante lo sviluppo della preadolescenza, così come durante lo sviluppo dell'adolescenza e della postadolescenza.
Per riassumere, una predisposizione genetica alla schizofrenia e/o influenze gestazionali portano a cambiamenti neuroevolutivi che includono un'anomala morte cellulare nella sottoplacca corticale, causando un'anomala migrazione dei neuroni corticali e, quindi, una disconnessione del circuito corticale. Inoltre un'eccessiva morte cellulare nell'ippocampo e nel lobo frontale può verificarsi come risultato di un'esagerata sensibilità allo stress, in particolare di un maggiore rilascio di cortisolo e, durante l'adolescenza, come il risultato di un pruning molto attivo. Queste modificazioni neuroevolutive contribuiscono agli svantaggi cognitivi, motori e comportamentali riscontrati nell'infanzia e nella prima adolescenza. Inoltre, non esiste un'evidenza concreta che questo processo si verifichi in tutti, o almeno nella maggior parte, dei casi di schizofrenia.
Neurofisiologia
Scoperte neuroanatomiche
Negli individui con schizofrenia sono state riscontrate un numero sostanziale di regioni cerebrali distrutte. Queste includono i lobi frontali, temporali e parietali, l'ippocampo, l'amigdala, il talamo, il nucleus accumbens, il cervelletto, i gangli della base, i bulbi olfattivi, e le connessioni corticocorticali. L'assortimento di queste regioni candidate non lascia molte aree cerebrali fuori sospetto. Di queste, quelle più meritevoli di attenzione sono la corteccia frontale e i lobi temporali, incluso l'ippocampo. La corteccia frontale (strati di corpi cellulari nella porzione frontale del cervello dietro la fronte) è considerata responsabile delle funzioni esecutive, inclusa l'attenzione, il processo decisionale, la memoria di lavoro (immagazzinamento di informazioni per un uso immediato), e l'inibizione delle reazioni emozionali. L'ippocampo (parte del lobo temporale localizzata sotto l'area della tempia della testa) si pensava fosse coinvolto nel consolidamento mnestico sia per materiale verbale sia spaziale, nell'aggiornamento del contesto, nella memoria episodica (memoria di eventi vissuti), e nella regolazione dell'umore. Il lobo temporale include anche l'amigdala, coinvolta nelle risposte emotive e nel condizionamento della paura. Degne di nota sono anche alcune strutture che sono sottocorticali (sotto la superfìcie rugosa del cervello). Il talamo è una stazione di smistamento per l'informazione sensoriale e motoria che raggiunge la corteccia. I gangli della base (che includono il nucleo accumbens) sembrano coinvolti nel coordinamento motorio e nell'attività cognitiva. Le interazioni multiple tra queste aree (sia anatomicamente sia funzionalmente) danno un indizio sul perché la schizofrenia potrebbe coinvolgerne una o tutte.
Alcuni fattori che complicano le interpretazioni delle scoperte neuroanatomiche (così come le scoperte in altre aree di neurofisiologia) sono l'eterogeneità delle manifestazioni sintomatiche (tra soggetti e momentaneamente all' interno di un individuo), l'accuratezza dei sintomi riportati (negli studi che collegano le scoperte neuroanatomiche alla presenza di specifici sintomi), gli effetti della durata della malattia, gli effetti dei farmaci, e gli errori nella selezione riguardo il tipo di soggetto che sarà d'accordo e in grado di partecipare agli studi. Inoltre, alcune scoperte di funzionamento alterato in certe regioni cerebrali dipendono dalla performance di specifici compiti che elicitano differenze negli individui con schizofrenia rispetto ai controlli. Le differenze nell'attività cerebrale durante la performance di compiti cognitivi possono essere confutate dalle differenze nelle strategie adottate tra gli individui affetti da schizofrenia e gli individui sani, così come da protemi statistici insiti nell'includere qualunque compito che differisca in dif’fìcoltà tra i due gruppi (Chapman e Chapman, 1973b). Dovrebbe anche essere notato che l'aumentata attività cerebrale in una certa regione può riflettere una migliore performance di quella regione, o può riflettere un aumentato lavoro di quella regione per compensare i deficit nelle abilità di quella (o di un'altra) regione. Alla fine, le reali differenze neurofisiologiche tra i controlli e i soggetti con schizofrenia possono non essere accuratamente e coerentemente misurate persino dalle nostre moderne tecniche di imaging. Se le differenze giacciono a livello di diffusi schemi di attivazione di sistemi neuronali sparsi nel cervello, è improbabile che i nostri attuali metodi di misurazione dell'attività cerebrale (basandosi sull'attività regionale o su studi animali di singoli neuroni) ci diano un'immagine chiara e coerente. È analogo al cercare di determinare perché una squadra di calcio giochi meglio di un'altra semplicemente misurando quanto lontano ciascun membro può calciare la palla, e quanto veloce ogni membro può correre. Anche se differenze significative in queste misure potrebbero fornire la risposta, è probabile che l'interazione dei giocatori sia più importante. Per apprezzare le difficoltà nel campo delle neuroscienze, immaginiamo che i giocatori siano milioni, fortemente ridotti nelle dimensioni, e che interagiscono in spostamenti multipli. Questo è il punto in cui la ricerca nella neurofisiologia della schizofrenia si trova in una impasse. Fino ad ora, non vi è un metodo per misurare le attività individuali e le interazioni di un gran numero di neuroni del cervello in brevi intervalli temporali negli esseri umani viventi.
Nonostante questi rischi e limiti, alcune scoperte sono emerse, anche se nessuna è stata robusta e coerente (Heinrichs, 2001). L'uso precoce di tecniche di imaging strutturale, tipo la tomografia computerizzata (tc) che mostra informazioni anatomiche dettagliate sul cervello, dimostrava la presenza di solchi (valli sulla superficie del cervello) e di ventricoli laterali allargati in alcune persone con schizofrenia (rivisto da Bentall, 2004; Brem’mer, 2005). I ventricoli laterali allargati possono essere presenti persino nelle condizioni premediche e possono essere più specifici per coloro che mostrano sintomi negativi (Andreasen, Olsen, Dennett e Smith, 1982), così come per quelli con scarso adattamento sociale, reddito basso e disfunzioni cognitive. Comunque, come notato da Bentall (2004), questo stato strutturale può essere presente anche in coloro che sono affetti da altri disturbi psichiatrici, così come in quelli senza una diagnosi psichiatrica. Inoltre, spiega che vi sono meno differenze in studi ampi e ben controllati e che molti fattori influenzano le dimensioni dei ventricoli, incluso il sesso, l'età, la dimensione della testa e la ritenzione idrica. Inoltre, l'allargamento dei ventricoli non è molto indicativo, perché potrebbe essere dovuto all'atrofia di strutture adiacenti quali l'ippocampo, l'amigdala, il talamo, lo striato (una parte dei gangli della base) e il corpo calloso (la connessione tra i due lati del cervello).
Approcci più specifici hanno esaminato singole regioni cerebrali quali il lobo frontale. L'uso di tecniche di imaging funzionale (come la tomografia a emissione di positroni [pet], la tomografia computerizzata a emissione di singoli fotoni [spect], e la risonanza magnetica funzionale [ìrmi], che dimostrano il grado di attività delle regioni cerebrali) porta alla scoperta di una diminuita attività frontale (ipofrontalità) in persone con schizofrenia, soprattutto quando impegnate in compiti, come il Wisconsin Card Sorting Test (che richiede l'individuazione di cambiamenti nel criterio con cui le carte vengono scelte; Heaton, Chelune, Talley, Kay e Curtiss, 1993) e compiti N-back (che richiedono il ricordo di item che si trovano a un dato numero di posti indietro in una serie), che nei controlli sembrano necessitare dell'attivazione frontale (Ingvar e Franzen, 1974; Weinberger, Berman e Zec, 1986). Comunque, questa ipofrontalità non è stata riscontrata in altri studi (Gur et al., 1983; Mathew, Duncan, Weinman e Barr, 1982) e sembra sparire nella guarigione dalla malattia acuta (Spence, Hirsch, Brooks e Gra’sbyn, 1998) o nell'allenamento a elicitare i compiti (Penades et al., 2000). Scoperte ulteriori a supporto del coinvolgimento frontale includono studi post-mortem che hanno dimostrato un numero anomalo di neuroni, una dimensione neuronale ridotta, una diminuita densità di spine dendritiche nella corteccia prefrontale (rivisto da Gur e Arnold, 2004). Allo stesso modo, la imaging strutturale ha dimostrato una ridotta materia grigia nella corteccia prefrontale dorsolaterale (Gur et al., 2000), anche se altri studiosi hanno riscontrato un maggiore volume orbitofrontale destro (Szeszko et al., 1999). Le indagini che usano la spettroscopia della risonanza magnetica (rms; una tecnica che misura specifiche molecole neuronali) hanno scoperto marker di una diminuita integrità neuronale così come segni di pruning neuronale nella corteccia frontale (rivisto da Bremner, 2005).
Con la meta-analisi, Heinrichs (2001) sfida le scoperte della imaging che supportano la disfunzione del lobo frontale nella schizofrenia. Tra quegli studi che riportano disfunzioni del lobo frontale, quelli di imaging hanno avuto l'ampiezza dell'effetto medio più basso (d = 0,33-0,80), corrispondente a una non sovrapposizione massima tra quelli con schizofrenia e quelli senza di circa il 50%, trattandosi di studi di imaging che usano compiti attivanti piuttosto che condizioni 'a riposo'. Comunque, le analisi di Heinrichs non includono studi più recenti, in particolare le attuali tecniche funzionali mri ampiamente utilizzate.
Anche un'altra area che dimostra differenze associate alla schizofrenia, quella dei lobi temporali, è spesso circondata da incoerenze (rivisto da Gur e Arnold, 2004). La riduzione del volume ippocampale e l'alterazione della forma sono state riportate (Csernansky et al., 1998; McCarley et al., 1999), ma non in tutti gli studi. Viene riferita una perdita di materia grigia nel giro temporale superiore (Bremner, 2005; Pearlson, Petty, Ross e Tien, 1996; Zi’pursky, Lim, Sullivan, Brown e Pfefferbaum, 1992). Gli studi post-mortem dell'ippocampo hanno identificato numeri, dimensioni e orientamenti ridotti di certi tipi di neuroni (Arnold, 1999; Benes, Kwok, Vincent e Tod’tenkopf, 1998), connessioni di fibra neuronale alterata (Heckers, Heinsen, Geiger e Beckmann, 1991), organizzazione sinaptica modificata (Eastwood, Burnet e Harrison, 1995), diminuita densità di spine dendritiche (Rsoklija et al., 2000) ed espressione proteica anormale del citoscheletro (Cotter, Kerwin, Doshi, Martin e Everall, 1997). Come con la corteccia frontale, l'ippocampo e le aree associate mostrano differenze nell'attività (Kawasaki et al., 1992), in questo caso aumentata in quelli con la schizofrenia, maggiore durante le allucinazioni (Silbersweig et al., 1995). Vi è meno attività durante il recupero di parole codificate semanticamente (Heckers et al., 1998). Comunque, l'attività del lobo temporale a riposo si è dimostrata aumentata (Gur et al., 1995), ridotta (Gur et al., 1987), o immodificata (Volkow et al., 1987). L'integrità neuronale diminuita, come determinata dalle scoperte della rms, è stata trovata anche nella corteccia temporale (rivisto da Brem’ner et al., 2005).
Come per il lobo frontale, Heinrichs (2001) ha condotto una ricerca in letteratura sugli studi neurofisiologici del lobo temporale e non ha trovato forti e coerenti prove che dimostrino una separazione significativa tra i soggetti con la schizofrenia e i controlli, sulla base di anomalie del lobo temporale. Gli studi di imaging non hanno generato ampiezze dell'effetto medie più grandi di 0,59 e hanno rivelato incoerenze maggiori (inclusa la variazione nella direzione del cambiamento per il volume e l'attivazione delle strutture del lobo temporale). In contrasto, gli studi post-mortem (che erano troppo pochi nella letteratura del lobo frontale per essere analizzati in questo modo) hanno avuto ampiezze dell'effetto medie più robuste (d = 0,86 e 0,92), il primo dato riferito ai numeri e alla densità ridotti delle cellule ip’pocampali piramidali e il secondo al ridotto volume ippocampale e corrispondente a circa il 50% di non sovrapposizione. Insieme a queste differenze nella struttura e funzione corticale, vi è anche la prova di un coinvolgimento subcorticale. Non si tratta di una scoperta sorprendente, data la comunicazione estesa tra le strutture corticali e sottocorticali a servizio delle funzioni cognitive, emotive e comportamentali. Il diminuito volume tala’mico (specialmente del nucleo talamico mediale dorsale) dovuto alla perdita cellulare (Heckers, 1997; Pakkenberg, 1990), il diminuito numero di neuroni nel nucleo anteroventrale (Danos et al., 1998), e il diminuito flusso sanguigno (Hazlett et al., 1999) sono stati tutti descritti, ma ancora le scoperte non sono complete (Portas et al., 1998). Il volume dei gangli della base è stato mostrato essere diminuito, aumentato o normale (Heckers, Heinsen, Geiger e Beckmann, 1991; Keshavan, Rosenberg, Sweeney e Pette’grew, 1998) e sensibile all'uso dei farmaci (Chakos et al., 1994); si è rilevato che la loro attività era aumentata o diminuita (Liddle et al., 1992). Gli studi post-mortem hanno indicato un aumento del numero dei neuroni nello striato (Beckmann e Lauer, 1997), un ridotto numero di neuroni in una parte dello striato (il nucleo accumbens; Pakkenberg, 1990), o un cambiamento nell'organizzazione sinaptica dello striato (in particolare, il caudato; Kung, Conley, Chute, Smialek e Roberts, 1998).
Vi sono stati alcuni tentativi di spiegare le scoperte neuroanatomiche attraverso la divisione dei soggetti secondo la sintomatologia. Liddle (1992) ha determinato che i sintomi positivi sono associati alla riduzione del volume del lobo temporale e all'aumentato flusso sanguigno, mentre i sintomi negativi sono associati al diminuito flusso sanguigno corticale prefrontale. Comunque, Carpenter, Buchanan, Kirkpatrick, Tamminga e Wood (1993) hanno scoperto che, sebbene i pazienti con sintomatologia negativa estensiva (ad esempio, la sindrome da deficit) avessero più anomalie del lobo frontale, sia quelli con le sindromi da deficit sia non da deficit presentavano anomalie del lobo temporale. Liddle (2001) ha poi condotto una rassegna di scoperte di attività cerebrale regionale associata con i tre cluster di sintomi che aveva ricavato da un'analisi fattoriale (Liddle, 1992). Ha scoperto associazioni tra (1) la distorsione della realtà con aumentata attività nel lobo mediale temporale, nella corteccia frontale laterale sinistra, e nello striato ventrale, e una diminuita attività nella corteccia cingolata posteriore e nella corteccia temporoparietale laterale sinistra; (2) la disorganizzazione con l'aumentata attività nella corteccia cingolata anteriore destra, la corteccia prefrontale mediale, e 0 talamo, e una diminuita attività nella corteccia frontale ventrolaterale destra e nella corteccia parietale; e (3) la povertà psicomotoria con l'aumentata attività nei gangli della base e la diminuita attività nella corteccia frontale e nella corteccia parietale sinistra. Così, persino dividere i soggetti in base ai tipi di sintomi non chiarisce il quadro facilmente.
Per citare un ricercatore di rilievo in quest'area (Gur, 1999) in relazione alla lateralità, ma applicabile alla schizofrenia in generale: "Uno può vacillare... tra l'essere sopraffatto dalla quantità di dati che sono confluiti sull'argomento... e sentire un po' di esasperazione davanti alla pochezza di risposte solide a domande che sembrano piuttosto rudimentali" (p. 8).4
Scoperte neurochimiche
A un certo punto, è sembrato che vi fosse una scoperta fisiologica che potesse spiegare la schizofrenia in modo parsimonioso, simile alla scoperta che i deficit nell'insulina rendevano conto della miriade di manifestazioni del diabete. Questa scoperta era che i primi farmaci utilizzati nel trattamento della schizofrenia funzionavano bloccando i recettori del neurotrasmettitore dopamina (Carlsson e Lindqvist, 1963, come citato in Bentall, 2004) e le successive scoperte che l'efficacia del farmaco antipsicotico era connessa all'affinità per i recettori della dopamina (specificatamente i recettori D2; Creese, Burt e Snyder, 1976; Seeman, 1987). Un supporto aggiuntivo all'eccessiva attività della dopamina come causa dei sintomi schizofrenici è l'osservazione che l'anfetamina (che stimola i recettori della dopamina) conduce a psicosi, compresa l'ideazione paranoica e le allucinazioni visive (Angri’st e Gershon, 1970; Connell, 1958, come citato in Bentall, 2004). La psicosi può anche sviluppare dall'uso di altri agonisti della dopamina, inclusi quelli per trattare il disturbo di Parkinson (Jenkins e Groh, 1970). Un altro supporto all'ipotesi include una scoperta, che ha usato una forma radioattiva di un precursore della dopamina, di aumentata sintesi di dopamina nello striato (vedi Bremner, 2005).
I neuroni che producono dopamina sono stati trovati in quattro principali percorsi nel cervello, molti originati nel tronco encefalico (il supporto alla base del cervello che lo connette al midollo spinale). Di massima importanza qui sono (1) il tratto nigrostriatale, che va dalla substantia nigra (una struttura del tronco encefalico coinvolta nel movimento) allo striato dorsale; (2) il tratto mesolimbico, che va dall'area tegmentale ventrale (anche nel tronco encefalico) allo striato ventrale (incluso il nucleo accumbens), la corteccia entorinale (che fornisce input all'ippocampo) e l'amigdala; e (3) il tratto mesocorticale, che va dall'area tegmentale ventrale alla corteccia, in particolare la corteccia frontale. Alcune funzioni putative della dopamina includono il rinforzo del comportamento attraverso meccanismi di ricompensa (Fibiger e Phillips, 1974; Lippa, Antelman, Fisher e Canfield, 1973) e l'aumento del rapporto degli stimoli segnale-rumore in modo da accrescere l'importanza o la salienza di particolari stimoli (Kapur, 2003). Molte di queste aree che ricevono input di dopamina sono proprio quelle che risultano alterate nella schizofrenia. Infatti, vi sono state scoperte di innervazioni dopaminergiche alterate nelle cortecce frontali e temporali (rivisto da Gur e Arnold, 2004).
Non c'è un accordo universale sull'ipotesi della dopamina. Alcune argomentazioni contrarie includono il fatto che molti pazienti non migliorano con l'uso di antipsicotici, nonostante la conferma del blocco della dopamina (Coppens et al., 1991). Gli studi post-mortem (van Kämmen, van Kämmen, Mann, Seppala e Linnoila, 1986) e l'esame dei metaboliti della dopamina nel fluido cerebrospinale (Post, Fink, Carpenter e Goodwin, 1975) non hanno dimostrato in maniera affidabile la scoperta di un aumento della dopamina in coloro che soffrono di schizofrenia (McKenna, 1994). Gli studi postmortem hanno trovato aumenti nei recettori della dopamina, ma questa scoperta potrebbe essere dovuta all'uso di farmaci. (Il cervello reagisce al blocco dei recettori, che è l'effetto dei farmaci antipsicotici, producendo più recettori). La imaging dei recettori della dopamina ha mostrato un aumento nella densità dei recettori D2 (incluso lo striato; Abi-Dargham et al., 2000) in persone con schizofrenia non sottoposte a farmaci (Wong et al., 1986), ma altri non hanno riscontrato questo fenomeno (Fadre et al., 1987). La meta-analisi di Heinrichs (2001) conferma la mancanza di scoperte coerenti per le anomalie della dopamina, in particolare la conta dei recettori. Comunque, ha scoperto un'ampiezza dell'effetto media vasta e coerente (d = 1,37) per le densità dei recettori D2 nei soggetti trattati con i farmaci. Il rischio è che il farmaco può produrre aumenti nelle densità dei recettori come un fattore confusivo. Egli nota che uno studio (Seeman et al., 1984) ha scoperto una distribuzione bimodale in cui un gruppo aveva una densità di recettori che li distingueva completamente dai controlli, in una maniera che sembrava essere indipendente dall'uso di farmaci.
Un altro argomento contro l'ipotesi della dopamina è che il blocco dei recettori della dopamina si verifica nell'arco di ore dall'assunzione dei farmaci, ma gli antipsicotici di solito impiegano settimane per esercitare i loro effetti clinici (Johnstone, Crow, Frith, Carney e Price, 1978). Questo argomento è stato contrastato da Bunney (1978), che sosteneva che i neuroni della dopamina compensano il blocco dei recettori della dopamina mediante l'aumento del loro tasso di attivazione. Comunque, questa ipereccitazione conduce a uno stato in cui è difficile produrre potenziali d'azione (l'attività elettrica lungo l'assone che porta la trasmissione del segnale da parte del neurone). Questo fenomeno è noto come blocco della depolarizzazione e si verifica nel corso di settimane, un tempo equivalente a quello che gli effetti clinici dei farmaci antipsicotici necessitano per verificarsi.
La mancanza di effetti benefici dei primi farmaci antipsicotici sui sintomi negativi suggeriva che l'eccessiva attività della dopamina non fosse connessa alla schizofrenia, in generale, ma solo ai suoi sintomi positivi. Weinberger (1987) ha contrastato questa visione con l'ipotesi che, nella schizofrenia, vi può essere una diminuzione dell'attività dopaminergica nelle proiezioni alla corteccia (in particolare, la corteccia frontale), che genera una minore inibizione da parte della corteccia delle strutture sottocorticali, conducendo così a un aumento nell'attività dopaminergica sottocorticale.
Le distruzioni nei sistemi degli altri neurotrasmettitori sono state proposte come possibili cause dei sintomi della schizofrenia. Il glutammato è un comune neurotrasmettitore eccitatorio, e l'acido gamma-aminobutirico (gaba) è un neurotrasmettitore inibitore ubiquitario. Un tipo di ricettore per il glutammato, il recettore N-metil-D-aspartate (NMDA), è bloccato in parte dalla fenciclidina (pcp), producendo una sindrome molto simile alla schizofrenia con caratteristiche sia dei sintomi positivi sia negativi. Alcune scoperte supportano il modello dell'ipoattività della NMDA nella schizofrenia (Goff e Wine, 1997; Javitt e Zukin, 1991), inclusi la imaging del cervello e gli studi post-mortem (rivisto da Hirsch, Das, Garey e de Belleroche, 1997; Tamminga, 1998). Gli studi post-mortem hanno anche implicato il gaba dato che vi è un aumento dei recettori gaba-a avvolti nella corteccia cingolata così come dei recettori gaba alterati nella corteccia prefrontale, ippocampo e gangli della base (rivisto da Bremner, 2005; Gur e Arnold, 2004). Una difficoltà nel provare a individuare un neurotrasmettitore rispetto a un altro come causa dei sintomi è che i sistemi di neurotrasmettitori spesso interagiscono in modi che rendono difficile determinare la causa e l'effetto (ad esempio, si veda West, Floresco, Charara, Rosenkranz e Grace, 2003 per l'interazione di dopamina e glutammato).
La serotonina (5-idroxitriptamina, 5-ht) e l'acetilcolina (Ach) sono altri due neurotrasmettitori implicati nelle manifestazioni della schizofrenia. Come la dopamina, le loro sorgenti sono localizzate in aree circoscritte del cervello, ma proiettano ampiamente a siti in tutto il cervello. I neuroni contenenti serotonina sono stati trovati nel nucleo del rafe nella linea mediana del tronco encefalico e proiettano alla corteccia, all'ippocampo, allo striato, al talamo, e ad altre aree. Si pensa che i farmaci antipsicotici atipici più recenti esercitino i loro effetti sui sintomi negativi mediante il blocco dei recettori 5-ht2A trovati nelle terminazioni dei neuroni della dopamina. Presumibilmente, il blocco di questi recettori aiuta a rilasciare più dopamina e a contrastare gli effetti collaterali dei farmaci antipsicotici, quali movimento e cognizione rallentati, mimando i sintomi negativi. Inoltre, gli effetti allucinogeni dell'acido lisergico dietilammide (lsd) si crede derivino dal suo ruolo come agonista (stimolante) dei recettori 5-ht,a. Gli studi post-mortem hanno mostrato diminuiti legami 5-ht2A/c nella corteccia frontale e aumentati 5-ht1a nelle cortecce prefrontali e temporali, anche se le scoperte non sono state coerenti. Uno studio di imaging con la pet di soggetti che non avevano mai assunto farmaci non ha dimostrato cambiamenti nei recettori 5 ht2A/c ma aumenti nei 5-ht]A nella corteccia mediale temporale (si veda Bremner, 2005). Meta-analisi di studi sia della serotonina sia del glutammato rivelano ancora meno coerenza degli studi sulla dopamina (Heinrichs, 2001). Gli studi tendevano a produrre ampiezze dell'effetto in direzioni opposte.
Un altro neurotrasmettitore candidato, Ach, è stato trovato negli interneuroni in tutto il cervello e nei muscoli. Gruppi di cellule contenenti Ach sono stati trovati in aree alla base del cervello, note come nuclei della base, nella banda diagonale di Broca e nel setto. Queste cellule proiettano alla corteccia. Vi è una correlazione inversa significativa tra la gravità dei sintomi della schizofrenia e i numeri dei recettori muscarinici (un tipo di recettore Ach) nella corteccia frontale e nello striato. L'altro tipo di recettore Ach è il ricettore nicotinico. I recettori di questo tipo che contengono subunità a7 sono stati proposti come la causa del fumo pesante tra quelli con schizofrenia. Si crede che la nicotina nelle sigarette serva come automedicazione per correggere alcuni deficit nel funzionamento di aree contenenti questi recettori (Adler et al., 1988). Il nucleo accumbens ha una densità particolarmente alta di questi tipi di recettori (O'Donnell e Grace, 1999).
Scoperte neuropsicologiche/psicofisiologiche
I test neuropsicologici e i metodi psicofisiologici, quali misurare ì'eye tracking e i potenziali dello scalpo, sono mezzi di valutazione delle abilità cognitive e di scoperta delle basi fisiologiche di queste abilità.
I test neuropsicologici creano un ponte tra i sintomi della schizofrenia e le basi neurobiologiche. Questi test furono originariamente sviluppati per determinare il funzionamento di specifiche regioni cerebrali tramite la rilevazione di deficit negli individui con note e localizzate lesioni cerebrali dovute a ictus, tumori e traumi fisici. Comunque, la performance a questi test di solito richiede l'uso di regioni cerebrali multiple, limitando così la loro specificità individuale. Inoltre, le lesioni, di solito, hanno effetti su più di una specifica regione cerebrale così come su fibre di passaggio non collegate funzionalmente all'area principale danneggiata. Tuttavia, visto che la performance ai test è diventata associata al danno di specifiche regioni cerebrali, i test sono stati applicati agli individui senza noti danni cerebrali localizzati (come nella schizofrenia) come modo per determinare quali regioni potevano essere affette. Con l'avvento delle tecniche di imaging cerebrale, sembrava ci fosse meno bisogno dei test neuropsicologici. Comunque, è stato presto scoperto che l'attività cerebrale a riposo era meno utile come fattore discriminante di quanto non fosse l'attività cerebrale durante la performance in un compito che richiedeva l'attivazione di specifiche regioni cerebrali.
Oltre a questo scopo dei test neuropsicologici, vi era la ricerca di marker neuropsicologici/psicofisiologici. Si tratta di test che misurano i deficit nella cognizione (attenzione, memoria, processo decisionale) che potrebbero fornire indizi per i processi psicologici (e potenzialmente neurofisiologici) che spiegano i sintomi della schizofrenia. Inoltre, i marker possono essere presenti nei membri della famiglia dei soggetti con schizofrenia, servendo così da indicatori di vulnerabilità alla schizofrenia (specialmente se i deficit continuano a verificarsi nei soggetti con la schizofrenia che non sono attivamente sintomatici; Green, 1996). Un dato test può avere sia lo scopo di elicitare attività cerebrali differenziali in regioni specifiche, sia servire come marker per la vulnerabilità, sia chiarire aspetti psicologici dei processi neurocognitivi. Inoltre, la performance di compiti cognitivi tende a essere un buon predittore di esito funzionale (persino più degli stessi sintomi).
Anche se i soggetti con schizofrenia possono mostrare una disfunzione neuropsicologica diffusa, forse dovuta a problemi motivazionali/attentivi che possono essere o meno correlati agli effetti dei farmaci, vi sono deficit più delineati nelle funzioni esecutive (incluse la motivazione e l'attenzione) e nell'apprendimento e nella memoria, che sono tipicamente associati alle regioni frontali e temporali (Cornblatt e Keilp, 1994; Gold, Randolph, Carpenter, Goldberg e Weinberger, 1992; Heinrichs e Zakzanis, 1998; Saykin et al., 1991).
Due test spesso considerati compiti frontali sono il Wisconsin Card Sorting Test e il Verbal Fluency Test. Nel primo, ai soggetti viene richiesto di determinare la regola alla base del posizionamento delle carte (con diversi numeri di forme di vari colori) in uno dei due mazzi. La regola si basa sul numero, colore, o forma, ma cambia senza avviso, dopo un certo intervallo temporale. I soggetti con la schizofrenia fanno bene alla regola iniziale, ma spesso falliscono nel cambiare le risposte appena la regola cambia. Come previsto, questo deficit di performance è associato a un ridotto flusso sanguigno nella regione frontale (Weinberger et al., 1986). L'ampiezza dell'effetto media (d = 0,88) corrisponde a una non sovrapposizione di circa il 50% (Heinrichs, 2001). Per il Verbal Fluency Test (che richiede la produzione del massimo numero di parole di una data categoria), la non sovrapposizione era di circa 0 60% (d = 1,09). Questa scoperta tralascia ancora un vasto numero di persone con schizofrenia con abilità del lobo frontale all'interno del range della normalità. Di nuovo, né un compito né una tecnica di imaging accurata e specifica abbastanza da differenziare i soggetti con schizofrenia da quelli senza è stata ancora sviluppata, o solo certi sottotipi di schizofrenia sono associati con la disfunzione del lobo frontale.
Una quantità di compiti misura i diversi tipi di attenzione. Il Digit Span Distraction Test (dsdt) richiede la concentrazione su stimoli target mentre si ignorano stimoli distrattori. Ai soggetti viene chiesto di ripetere una serie di numeri presentati oralmente e contemporaneamente di ignorare altri numeri presentati oralmente in sottofondo. I soggetti con schizofrenia hanno una prestazione scadente in questo compito (specialmente se è presente un disturbo del pensiero; Oltmanns e Neale, 1978). Il Contihuous Performance Test (cpt; Rosvold, Mirsky, Sarason, Bransome e Beck, 1956) richiede il processo attentivo di vigilanza, cioè l'attenzione prolungata. I soggetti devono premere un bottone quando un target o uno specifico pattern appare. Con il tempo, l'attenzione continuativa diminuisce. La performance è peggiore nei soggetti con schizofrenia, specialmente quando vengono somministrate le versioni difficili (Nuechterlein, Edell, Norris e Dawson, 1986). Nel Backward Masking Effect3 (bme), gli stimoli presentati immediatamente dopo gli stimoli target interferiscono con la percezione e il ricordo dei target (rivisto da Green, 1998). Questo effetto è più pronunciato in persone affette da schizofrenia. Le ampiezze dell'effetto medie per i compiti di attenzione vanno da d= 0,69 a 1,27, l'ultimo inerente il bme e con un'ampia non sovrapposizione del 65% (Heinrichs, 2001).
Nuechterlein e Subotnik (1998) hanno proposto una spiegazione parziale per i deficit attentivi elicitati da questi compiti. Loro pongono due tipi di problemi attentivi: uno è inerente alle fasi molto precoci, automatiche di elaborazione delle informazioni, come rappresentato da una scarsa performance ai test del bme e del cpt (versioni utilizzanti stimoli confusivi). Questo deficit continua persino senza la presenza di sintomi, indicando una vulnerabilità che può portare, sotto condizioni di stress, ai sintomi clinici. Il secondo tipo di problema attentivo è l'inabilità a usare la memoria attiva (memoria di lavoro) per guidare la selezione dell'informazione. Questo deficit è associato alla scarsa performance al dsdt e al cpt (versioni con target complessi). Questo tipo è più importante quando i sintomi sono attivi, così è più strettamente legato all'esordio dei sintomi.
I deficit in eye tracking (un'altra funzione frontale) sono stati a lungo osservati nei soggetti con la schizofrenia. In questo compito, il soggetto segue un target che si muove lentamente. I movimenti dell'occhio nell'inseguimento lento sono più irregolari in coloro che soffrono di schizofrenia. Questa anomalia può precedere l'esordio del disturbo e spesso è presente nei parenti (anche se non presente nella persona con schizofrenia; Holzman, 1991). Le meta-analisi sull'eye tracking hanno rivelato ampiezze dell'effetto medie di d = 0,75-1,03, essendo la maggiore ampiezza dell'effetto associata a un ampio ci, che indica così scarsa coerenza.
I test neuropsicologici per il funzionamento del lobo temporale sono numerosi, poiché la memoria è stata testata in una moltitudine di modi. I deficit della memoria verbale globale hanno prodotto una d media di 1,41 con una ridotta ci, indicando un'ampia e coerente scoperta di circa il 70% di non sovrapposizione tra quelli con schizofrenia e i controlli. Comunque, questo deficit può riflettere un'attività cerebrale più generale. Le misure della memoria verbale selettiva, riferita più direttamente al funzionamento del lobo temporale sinistro, esaminano le caratteristiche specifiche come il tasso di intrusione, di oblio, di ricordo e di riconoscimento, e mostrano una « media più bassa = 0,90 con un ampio ci, corrispondente a una sovrapposizione di circa il 50%.
Oltre ai compiti neuropsicologici, vi è un set di tecniche finalizzate a valutare il funzionamento cognitivo mediante la registrazione dei potenziali evento-correlati (erps). Gli erps sono registrazioni multiple dello scalpo dell'attività elettrica cerebrale media al fine di rilevare le caratteristiche risposte a stimoli consistenti in 'picchi' su una forma a onda. I potenziali sono definiti in base alla loro direzione (positiva o negativa) e latenza (in millesecondi) successiva all'esordio dello stimolo. Questa tecnica psicofisiologica fornisce un mezzo per determinare la natura della sequenza dei processi cognitivi in risposta agli stimoli. Anche se eccelle nella soluzione temporale, questo metodo non è buono per localizzare le funzioni cognitive in qualunque specifica regione cerebrale. Quando usate insieme alle tecniche di imaging cerebrale, comunque, possiamo aprire una porta, finalmente, per illuminare il decorso del tempo di attivazione in specifiche regioni cerebrali.
Un potenziale cerebrale che si verifica precocemente è il P50 (positivo, e 50 millisecondi dopo la comparsa dello stimolo). Due stimoli (ad esempio, dei suoni) presentati vicini genereranno una risposta P50 solo al primo suono. Questo è il fenomeno del filtro sensoriale, visto che il primo suono previene la risposta al secondo. Nei soggetti con schizofrenia, il filtro è fallimentare e vi sono due potenziali P50, uno in risposta a ciascuno stimolo. Una meta-analisi di studi P50 produceva una delle più grandi ampiezze dell'effetto medie (d = 1,55) nella serie delle meta-analisi di Heinrichs sugli studi di ricerca sulla schizofrenia, con una ristretta ci (Heinrichs, 2001).
Un altro compito comune usato per elicitare vari erps è il paradigma oddball,A in cui viene proposta una serie di due toni, con un tono presentato meno frequentemente dell'altro. Un'onda cerebrale, la P300, è maggiore nella risposta ali'oddball, stimolo infrequente. Vi è una mancanza di attivazione durante il compito oddball nel giro temporale superiore, il talamo, e nelle cortecce cingolata, parietale, e frontale nei soggetti con schizofrenia. Heinrichs (2001) riporta un'ampiezza dell'effetto media relativamente bassa (d = 0,70-0,80) per gli studi P300.
Come evidenziato da Bentall (2004), la maggior parte delle scoperte sopra citate non sono specifiche dei soggetti con schizofrenia, ma possono essere presenti, in qualche misura, nei soggetti con altre condizioni: soprattutto, disturbo bipolare, ma anche depressione psicotica. I deficit non sono associati spesso ai sintomi positivi delle allucinazioni e dei deliri, e quindi non possono fornire molte informazioni sulla patofisiologia di questi sintomi. Comunque, si sono dimostrati in correlazione con la gravità dei sintomi negativi e con il disturbo del pensiero (rivisto da Green, 1998) e possono aiutare a chiarire i processi neurocognitivi sottostanti a questi set di sintomi.
Confrontando le scoperte degli studi neurofisiologici con quelli neuropsicologici (cognitivi) e psicofisiologici, è utile esaminare una meta-analisi di Heinrichs (2001). Egli ha comparato le ampiezze dell'effetto e i ci per le scoperte che soddisfano i criteri di (1) risultanti da più di uno studio e (2) con almeno cento pazienti e controlli per studio, con i pazienti che hanno una diagnosi di schizofrenia. Ha determinato che i compiti cognitivi (neuropsicologici) erano i migliori a distinguere i soggetti con schizofrenia dai controlli, che i metodi psicofisiologici seguivano al secondo posto, e all'ultimo gli studi biologici. (Nel complesso, la scoperta più potente e coerente era il deficit di filtro sensoriale del P50). Heinrichs fornisce poche possibili spiegazioni per la sua conclusione. L'eterogeneità nelle presentazioni della schizofrenia potrebbe giustificare le discrepanze nelle scoperte. Comunque, ci si potrebbe aspettare che anche questo fattore interferisca con le scoperte cognitive. Un'altra possibilità presentata da Heinrichs è che i nostri metodi di misurazione dei correlati biologici non siano ancora sufficientemente avanzati per fornire risultati solidi e coerenti. Alla fine, abbiamo bisogno di cambiare il nostro modo generale di pensare in merito ai correlati biologici. A differenza degli ictus e dei tumori che esitano in afasia o neglect unilaterale, la schizofrenia può non essere causata da nessuna lesione localizzata, e può non essere caratterizzata da nessun deficit specifico correlato a quella lesione, ma piuttosto può coinvolgere una rottura nel funzionamento dei processi paralleli distribuiti, che non sono facilmente catturati dagli attuali meccanismi di imaging cerebrale. Egli crede che tali tecniche, come un mo’deling su un computer (Cohen e Servan-Schreiber, 1992; Hoffman e Dob’scha, 1989), possano essere necessarie per determinare come questi processi conducano ai sintomi.
Modelli teorici
Le scoperte neurofisiologiche, neuropsicologiche e psicofisiologiche dei correlati biologici della schizofrenia, anche se fossero dirette e coerenti, offrirebbero un confronto insignificante tra l'entità psicologica (disturbo o sintomo individuale) e una parte del cervello, se non fosse per i modelli teorici. Tali modelli sono costruiti per descrivere distinti ruoli funzionali di sistemi di componenti strutturali che interagiscono per produrre un meccanismo attraverso il quale si verificano i processi psicologici, e il loro malfunzionamento. Senza questi modelli teorici, sarebbe come descrivere dove si trovano in un'automobile le diverse componenti, e quale possa essere il loro scopo individuale, senza spiegare come interagiscono. Descrivere che il radiatore, che immagazzina refrigerante, si trova di fronte al motore, che produce energia rotatoria e che è vicino alla batteria, che fornisce energia elettrica, non illumina su come il radiatore refrigera il motore, il motore gira le ruote, e la batteria fornisce una scintilla per innescare la combustione nei pistoni del motore (così come le varie spie di accensione, la radio e gli altri componenti). La localizzazione della funzione non rivela, inoltre, come le singole parti producono le loro funzioni.
I modelli proposti per spiegare la schizofrenia variano da generali illustrazioni di come alcuni sintomi possono essere prodotti a descrizioni più dettagliate, cercando di spiegare le diverse presentazioni di questo disturbo attraverso la riproduzione dello sconvolgimento di interazioni complesse tra componenti multiple (strutture cerebrali, sistemi di neurotrasmettitore, processi paralleli distribuiti).
Meehl: il modello della schizotassia
La premessa base di Meehl (1962, 1990) è che la vulnerabilità alla schizofrenia sorge da un singolo gene della schizotassia e che la piena espressione della schizofrenia dipende da numerosi altri geni e dall'ambiente sociale, con le sue intrinseche ricompense e punizioni. Il gene produce una personalità schizotipica che si trasforma in schizofrenia solo se geni come quelli per l'introversione, l'ansia, la ridotta energia, la passività, o altri, sono anche presenti nel contesto di un tipico, ma impegnativo, milieu sociale. Il singolo gene della schizotassia produce di per sé quello che Meehl chiama 'ipocrisia', un'ipersensibile conduzione nervosa in risposta a stimoli che si verificano lungo tutto il sistema nervoso centrale. L'ipocrisia porta a un 'declino cognitivo' in cui l'informazione non è incanalata in percorsi distinti, ma piuttosto si assembla in maniera confusa. Anche se il fenomeno affligge tutte le regioni cerebrali, solo certe funzioni cognitive (quelle inerenti l'integrazione dell'informazione) sono notevolmente danneggiate. L'intelligenza generale può continuare praticamente senza ostacoli, mentre l'allentamento delle associazioni con connessioni causali di idee (come visto nel disturbo del pensiero) è un'importante caratteristica del declino cognitivo. Quando questo deficit cognitivo interferisce con il funzionamento sociale, vi è un 'movimento contrario' attraverso il quale le esperienze sociali ostili conducono al ritiro e ai sintomi negativi. Il declino cognitivo può anche produrre sensazioni insolite che conducono ad allucinazioni e deliri, gli ultimi considerati come spiegazioni delle sensazioni. Queste spiegazioni non sono ritenute molto differenti dai pregiudizi cognitivi comunemente riscontrati, dagli errori e dalle distorsioni viste nella popolazione generale (ad esempio, le credenze sull'oroscopo, le aspettative di vincere alla lotteria). Comunque, alcuni deliri possono essere più direttamente collegati al declino cognitivo se coinvolgono connessioni tra eventi non correlati (ad esempio, un estraneo su un autobus che tossisce, mentre una persona con la schizofrenia sta pensando di lasciare casa, viene interpretato come segnale che lui o lei dovrebbe lasciare casa).
Phillips e Silverstein: il modello di coordinazione cognitiva
Oltre alla localizzazione di alcune funzioni del cervello in specifiche regioni cerebrali, vi sono estese connessioni all'interno di tali regioni e tra di esse che aiutano a integrare queste funzioni. Secondo Phillips e Silverstein (2003), quando queste connessioni sono deficitarie, vi è un'interruzione nella coordinazione cognitiva, che porta ai sintomi della disorganizzazione, come visto nel disturbo del pensiero nella schizofrenia. La coordinazione cognitiva è necessaria per realizzare funzioni come raggruppare item in unità, gestire l'attenzione selettiva (ovvero il mantenimento della separazione tra unità), e utilizzare l'informazione contestuale per chiarire il messaggio e, quindi, limitare le interpretazioni potenziali del significato di uno stimolo a quelle rilevanti nel contesto attuale, basato sulle esperienze precedenti. La scorretta operazione di questi processi cognitivi è associata al pensiero disorganizzato. Si pensa che la distruzione delle fibre connettive responsabili della coordinazione cognitiva tra e all'interno delle regioni cerebrali corticali sia dovuta al ridotto flusso di ioni nei recettori NMDA. Questo modello non rifiuta i numerosi studi che suggeriscono il potenziale coinvolgimento dei sistemi dopaminergici nella schizofrenia, ma piuttosto si concentra sui possibili contributi dei sistemi glutaminergici attraverso la corteccia. Gli autori notano che, nonostante i recettori glutaminergici siano ubiquitari nella corteccia, sono concentrati soprattutto nella corteccia prefrontale, nell'ippocampo e nei gangli della base.
Hoffmann: il modello di elaborazione distribuita in parallelo
Sono state usate simulazioni al computer per testare i modelli del cervello in termini di funzioni cognitive. Un modello generale di funzionamento cerebrale è che le reti neuronali interagiscono attraverso le regioni cerebrali in modo multidirezionale. Hoffman e i suoi colleghi (Hoffman e Dobscha, 1989; Hoffman e McGlashan, 1993) hanno usato questo approccio per sostenere l'idea che la disfunzione neurologica associata ai sintomi della schizofrenia coinvolga una scarsa comunicazione tra le regioni corticali, dovuta a un eccessivo pruning di fibre collaterali assoniche, in particolare nella corteccia prefrontale, durante l'adolescenza. La simulazione al computer assodata al pruning delle connessioni tra le aree corticali produceva 'foci parassitari , cioè aree nella corteccia dove l'informazione è ripetutamente generata in un modo che non tiene conto degli input di altre aree corticali. L'attività di questi foci produce la percezione secondo cui i pensieri, le immagini e le idee sono create involontariamente in una maniera simile a come i movimenti involontari durante gli attacchi sono prodotti da un'attività cerebrale incontrollata nelle aree motorie corticali. I deliri di controllo, i deliri in generale, e le allucinazioni sono il risultato dell'attività di questi foci parassitari. Se l'attività ripetitiva dei foci parassitari produce output senza significato, vi può essere un blocco del pensiero, un ritiro del pensiero, e sintomi negativi quali l'avolizione.
Kapur: il modello della salienza
Kapur (2003) presenta un modello in cui l'eccesso di rilascio dopaminergico conduce a un'esagerazione del suo ipotizzato "ruolo centrale... per mediare la 'salienza' di eventi ambientali e rappresentazioni interne" (p. 13). Questo significa che l'individuo con schizofrenia attribuisce un significato più importante del normale agli stimoli del mondo esterno, così come ai pensieri provenienti dall'interno. Questa onnipresente maggiorazione di significato crea confusione perché nella mente vi sono troppi item di interesse per poterli gestire con efficacia. L'individuo, quindi, si crea spiegazioni (nella forma di deliri) per rendere conto di questa strana esperienza soggettiva. Le allucinazioni possono essere causate da "l'esperienza diretta di una salienza anomala delle rappresentazioni interne" (p. 13).
Walker e Diforio: il modello di risposta allo stress
Secondo il modello di Walker e Diforio (1997), la vulnerabilità alla schizofrenia nasce da tre componenti: (1) un iperattivo sistema di dopamina (e possibilmente) glutammato; (2) un'iperattiva risposta hpa allo stress, che conduce a un eccesso di glucocorticoidi che accentuano l'iperattività del sistema di dopamina; e (3) un ippocampo danneggiato pre-/perinatalmente che genera una mancanza di feedback inibitorio al rilascio di glucocorticoidi. Questi tre sistemi interagiscono in modo che la distruzione di uno porta al deterioramento dell'altro. I normali elementi di stress della vita bastano ampiamente a esacerbare queste anomale risposte ormonali e di neurotrasmettitori. I sintomi positivi potrebbero derivare dall'aumento dell'attività dopaminergica, mentre i sintomi negativi possono essere risposte adattive per ridurre lo stress. Il tipico aumento di rilascio di cortisolo durante l'adolescenza può giustificare l'esordio della piena espressione sintomatica in questo periodo.
Weinberger: il modello di neurosviluppo
Weinberger (1987) afferma che la schizofrenia deriva da una lesione cerebrale pre-/perinatale (geneticamente e/o ambientalmente prodotta) che non è evidente fino al normale sviluppo neurologico, e i comuni elementi di stress (specialmente quelli che sopraggiungono durante la prima età adulta) portano alla sua piena espressione. La lesione si presenta nel lobo prefrontale (nonostante altre localizzazioni potrebbero essere in realtà coinvolte). Nello sviluppo normale, la corteccia prefrontale dorsolaterale raggiunge la maturità nella prima età adulta, con un aumento parallelo nell'attività dopaminergica che controlla l'aumento contemporaneo nell'attività dopaminergica limbica (inclusa mediale temporale). Nei soggetti con schizofrenia, questo livello di maturazione interagisce con la lesione latente, producendo un deficit nell'attivazione dopaminergica della corteccia frontale attraverso le strutture del mesencefalo. La corteccia frontale ipoattiva non è in grado di inibire l'eccessiva attività dopaminergica nel lobo temporale mediale. I fattori di stress ambientali contribuiscono al surplus di attività limbica e all'insufficiente attività frontale. La prima conduce ai sintomi positivi, la seconda porta ai sintomi negativi.
Grace: il modello del nucleo accumbens
Grace e colleghi (O'Donnell e Grace, 1998, 1999; West e Grace, 2001) descrivono un modello complesso centrato sulla struttura basale del tronco encefalico, il nucleo accumbens. Questa piccola regione cerebrale è localizzata in un'intersezione di proiezioni dell'ippocampo, della corteccia prefrontale, dell'amigdala e del tratto dopaminergico mesolimbico, aree implicate come possibili loci di alterazione nella schizofrenia. Secondo questo modello, l'input glutaminergico prefrontale al nucleo accumbens modula l'input dopaminergico in una maniera che influenza l'attività dei circuiti frontali-sottocorticali. Inoltre, l'ippocampo e l'amigdala controllano gli accessi nel nucleo accumbens che permettono ai circuiti frontali-sottocorticali di attivarsi. Nella schizofrenia, la disfunzione frontale porta a una mancanza di modulazione glutaminergica dell'influenza dopaminergica sui circuiti frontali-sottocorticali. Questa ipoattivazione porta a una diminuzione del comportamento, del pensiero e dell'emozione manifestata sotto forma di sintomi negativi di avolizione, alogia e appiattimento affettivo.
I sintomi positivi (in particolare, la distorsione della realtà) sono dovuti ad attivazioni ippocampali alterate, che portano all'apertura di meno accesi nell'accumbens, con uno spostamento verso una maggiore preponderanza dell apertura degli accessi controllati dall'amigdala (e quindi maggiore attenzione agli item correlati alla paura come nella paranoia) o all'apertura di accessi controllati in modo inappropriato, che portano a segnali contestuali non corretti incorporati nella situazione presente.
Il disturbo del pensiero, secondo Grace e colleghi, è causato da una diminuita attività dell'accumbens (ridotti livelli tonici dopaminergici), e ciò porta a una ridotta inibizione del globus pallidus, che normalmente inibisce i nuclei reticolari talamici. Vi è perciò un'aumentata inibizione dei nuclei reticolari talamici, che diminuisce il loro ruolo nel filtrare gli input sensoriali al talamo, e causa difficoltà nel mantenimento del focus e dell'organizzazione del pensiero.
Frith: il modello dell'azione intenzionale
Frith (1992) spiega che le azioni possono verificarsi come risposta a contingenze esterne (stimulus intentions) o come risultato di decisioni interne basate su obiettivi e piani (willed intentions). Un sistema centrale di monitoraggio distingue tra i due quando le azioni vengono messe in atto. Nella schizofrenia, vi è un deficit in questo sistema centrale di monitoraggio, tale che le azioni intenzionali vengono interpretate come derivanti da contingenze esterne. Questa percezione errata produce deliri di controllo (la convinzione che le proprie azioni siano causate da altri) e, a causa del considerare i pensieri come un tipo di azione, l'inserzione del pensiero (la convinzione che i propri pensieri siano causati da altri). Anche le allucinazioni sono conseguenza della percezione che i propri pensieri siano prodotti esternamente. Un'incapacità di valutare correttamente l'intenzione degli altri porta a deliri di riferimento e deliri paranoici. I sintomi negativi coinvolgono un meccanismo differente: un deficit nella produzione di azioni intenzionali, che lascia le azioni maggiormente dipendenti dall'input dello stimolo (ad esempio, una persona con avolizione che ha bisogno di qualcun altro che lo incoraggi per alzarsi dal letto e fare una passeggiata).
I correlati cerebrali di questo modello includono le strutture frontali (la corteccia prefrontale dorsolaterale, l'area motoria supplementare, e la corteccia cingolata anteriore) che attivano le strutture dei gangli della base (striate), che poi producono azioni. Le strutture frontali mandano scariche corollarie anche alle regioni cerebrali posteriori responsabili della percezione, e ciò fa apparire l'azione autogenerata. Le disconnessioni qui producono la percezione errata secondo cui le azioni intenzionali sono prodotte da fonti esterne; di conseguenza, si verificano i deliri e le allucinazioni. Quando le connessioni frontali-striatali sono distrutte, i sintomi negativi si sviluppano.
Cohen: il modello di controllo cognitivo
L'elaborazione delle informazioni può essere rallentata se vi è un inadeguato controllo cognitivo delle funzioni coinvolte, secondo Cohen e colleghi (Braver, Barch e Cohen, 1999; Braver e Cohen, 1999). Nel loro modello, il controllo cognitivo è "l'abilità di mantenere correttamente e aggiornare le rappresentazioni interne di informazioni del contesto rilevanti per il compito" (Braver, Barch e Cohen, 1999, p. 312). La disorganizzazione nel pensiero e nell'azione, così come i deficit nei compiti cognitivi, possono derivare da un inadeguato controllo cognitivo (Cohen e Servan-Schreiber, 1992).
Il controllo cognitivo è principalmente funzione della corteccia prefrontale. Danni nell'attenzione, nelle funzioni esecutive, e nella memoria di lavoro ed episodica, possono tutti essere ricondotti a un comune deficit nella "rappresentazione interna e nell'uso di informazioni del contesto al servizio dell'esercizio di un controllo sul comportamento" (Braver et al., 1999, p. 314). La corteccia prefrontale è centrale in questa funzione di aggiornamento e mantenimento del contesto.
L'input dopaminergico alla corteccia prefrontale influenza l'attività della corteccia prefrontale impedendo l'entrata dell'informazione contestuale in modo da permettere l'aggiornamento di questa informazione ed evitare l'interferenza di informazioni irrilevanti. In generale, i sistemi dopaminergici nel cervello svolgono la funzione di " [fornire] all'organismo i mezzi per imparare, predire, e rispondere appropriatamente a eventi che portano a una ricompensa" (Braver et al., 1999, p. 317). I contributi a questo compito complessivo cambiano a seconda dei vari destinatari (limbico, striatale, corticale) dell'input dopaminergico. Specificatamente, l'input dopaminergico alla corteccia prefrontale fornisce l'aggiornamento dell'informazione contestuale e la protezione contro le interferenze. Nella schizofrenia, vi sono disturbi nell'attività delle proiezioni della dopamina alla corteccia prefrontale che portano alla perseveranza (dovuta a una mancanza di informazione aggiornata che guida il comportamento), all'inserzione di informazioni irrilevanti che possono distruggere l'uso di informazioni importanti, o al danneggiamento nel mantenimento dell'informazione. I deficit cognitivi e la disorganizzazione sono il risultato di queste distruzioni.
Gray e Hemsley: il modello di programma motorio
Gray, Feldon, Rawlins, Hemsley e Smith (1991) propongono un complesso modello neurofisiologico per spiegare l'ipotesi psicologica di Hemsley (1987a), così come per integrare questo modello con quelli di Frith (1978) e di Weinberger (1987). Hemsley postula che "un comune percorso finale" può essere un "fallimento nell'integrare materiale immagazzinato in maniera contestualmente appropriata con l'attuale input sensoriale e i programmi motori in corso" (Hemsley, 2005, p. 43). Questo concetto è usato da Gray Per sviluppare un modello che spieghi i sintomi positivi della schizofrenia come una distruzione nell'operazione scorrevole di programmi 'motori' pianificati (compresi i pensieri, l'attenzione concentrata, l'eloquio e le azioni fisiche).
I programmi motori richiedono di (1) mantenere un certo step fino a quando è completato (circoli corticotalamostriatali), (2) monitorare se il reale risultato di uno step corrisponde al risultato atteso (sistema settoippo’campale), (3) completare uno step (input dopaminergico al nucleo accum’bens), e (4) passare allo step successivo nel programma (nucleo accum’bens). Inoltre, il contenuto specifico di ciascuno step ha bisogno di essere determinato (caudato), basandosi sulle contingenze di rinforzo (amigdala). Associazioni irrilevanti devono essere inibite (striato), mentre importanti e inaspettate intrusioni devono essere notate (sistema settoippocampale). Alla fine, il coordinamento di queste attività è richiesto per il suo appropriato funzionamento (corteccia prefrontale).
Nella schizofrenia, stimoli irrilevanti interferiscono con il processo di un programma motorio a causa di una disfunzione nella connessione dall'ippocampo attraverso il subiculum fino al nucleo accumbens, e/o a causa dell'eccesso di dopamina che porta alla terminazione del programma motorio pianificato, lasciandolo esposto all'intrusione di stimoli nuovi/irrilevanti. Il disturbo del pensiero e i problemi attentivi possono verificarsi quando vi è un'iperattenzione a stimoli che sono irrilevanti per l'attuale programma motorio. Questi stimoli possono includere pensieri che distolgono un programma di linguaggio dai suoi obiettivi prefissati (ad esempio, deragliamento, assonanza). I deliri sorgono come un modo per spiegare gli eventi a cui viene dato un significato inappropriato a causa della loro intrusione nella consapevolezza. Le allucinazioni implicano un'intrusione nella memoria a lungo termine di item erroneamente interpretati come generati dall'esterno (Hemsley, 1987b).
Riassunto e commenti
I primi quattro modelli descrivono un'alterazione nel processo cognitivo come base dei sintomi della schizofrenia. Il declino cognitivo, la mancanza di coordinazione cognitiva, i foci parassitari e l'ipersalienza portano tutti a un pensiero disorganizzato e a sensazioni/esperienze insolite (che sono razionalizzate in una maniera delirante e/o formano allucinazioni), limitando direttamente l'output funzionale (nel linguaggio, nell'affettività, nell'attività) o producendo reazioni di accomodamento di ritiro e passività. Questi modelli non tentano di spiegare distruzioni anatomicamente localizzate nella schizofrenia, ma piuttosto postulano che la disfunzione nasca da problemi nei circuiti basilari del cervello (che sono sostanzialmente simili in tutte le regioni corticali), come la densità neuronale, l'organizzazione neuronale o la comunicazione anomala tra le cellule, causata da alterazioni nell'attività eccitatoria e/o inibitoria dei neurotrasmettitori. Quindi, vi può essere un problema in uno o più algoritmi cognitivi di base o in operazioni eseguite dal cervello che danneggiano l'elaborazione di informazioni in regioni cerebrali multiple (e quindi i processi sensoriali e integrativi di più alto ordine). Questi modelli non offrono tutti una chiara percezione di come le anomalie cognitive conducano ad allucinazioni e deliri, ma si concentrano primariamente sulla disorganizzazione di base dei processi cognitivi. In alcuni di questi modelli, le allucinazioni, i deliri e i sintomi negativi sono visti come fenomeni compensatori che sorgono in risposta alle anomalie di rete.
Il modello di Walker e Diforio non tenta di spiegare come nascono i sintomi della schizofrenia, ma piuttosto come l'aumentata attività dopaminergica derivi dai fattori di stress e dal malfunzionamento dei sistemi del corti’solo. Le prove che li supportano, comunque, sono limitate ad alcuni soggetti con schizofrenia, e quindi non possono essere una spiegazione omnicomprensiva. (Comunque, si veda il capitolo 14 di questo volume).
I restanti modelli introducono un dettaglio più anatomico al quadro. Anche se quello di Weinberger e quello di Grace non offrono una speculazione sufficiente sulla transizione dalla disfunzione fisiologica alla disfunzione psicologica, gli altri compiono quest'impresa. Una difficoltà con questi due modelli è che non si completano del tutto tra loro. Il modello di Grace coinvolge i sistemi fronto-sottocorticali sia per i sintomi positivi sia negativi, mentre quello di Weinberger designa il sistema frontale come correlato ai sintomi negativi e il sistema sottocorticale come corrispondente ai sintomi positivi. Tuttavia, vi è una certa sovrapposizione, e i modelli futuri probabilmente incorporeranno aspetti di entrambi questi due modelli.
I restanti tre modelli (quelli di Frith, Cohen, e Gray e Hemsley) assegnano mansioni psicologiche a varie regioni cerebrali e descrivono come queste strutture interagiscono mentre svolgono le rispettive funzioni. Gli ultimi due, in particolare, presentano simili modelli psicologici dell'intrusione di stimoli irrilevanti nel processo di informazione immagazzinata, influenzando in tal modo le attività intenzionali. Le strutture cerebrali coinvolte sono simili nei due modelli, ma le funzioni di ciascuna struttura e le specifiche interazioni reciproche sono diverse. Quello che è importante di questi tre modelli è il tentativo di correlare processi psicologici ipotetici a processi fisiologici.
Usiamo questo stesso approccio nel nostro modello, presentato nel capitolo 14, ma postuliamo una deficienza nella capacità integrativa complessiva del cervello, piuttosto che interazioni di disfunzioni localizzate, come causa della schizofrenia. In questo modello, la schizofrenia ha origine nell'insufficienza cognitiva e nell'ipersensibilità allo stress. Questi deficit conducono iperattivazione di schemi disfunzionali (responsabili dei sintomi positivi) e al risparmio di risorse (in parte responsabili dei sintomi negativi).
Qunando tutti questi modelli saranno verificati, modificati e aggiornati, co le differenze chiarite da conferme o disconferme empiriche, emergerà un quadro più chiaro dell'attuale enigma che è la schizofrenia.
Riassunto
Diversamente dal diabete di Tipo 1, dalla corea di Huntington, o dal disturbo post-traumatico da stress, la schizofrenia non si è rivelata causata da un singolo malfunzionamento fisico, un disordine genetico, o un evento ambientale. Molto più simile alla sindrome del colon irritabile, la fibromialgia e la depressione maggiore, la schizofrenia è un cluster di sintomi che può tradursi in un disturbo o un gruppo di disturbi correlati. Può essere un'entità categoricamente separata, che si verifica solo in coloro che possiedono i fattori necessari alla sua presentazione, o può essere una delle estremità dello spettro in cui tutti possiamo trovare un posto.
Quello che sembriamo conoscere è che vi è una componente poligenetica nell'eziologia della schizofrenia; che le complicanze ostetriche e i fattori di stress ambientali si aggiungono alla probabilità di contrarre questo disturbo; che vi sono distruzioni in parti del cervello: soprattutto nella corteccia frontale, nel lobo temporale (incluso l'ippocampo e l'amigdala), nelle aree sottocorticali (ad esempio, il nucleo accumbens), e nei sistemi di neurotrasmettitori (ad esempio, i sistemi dopaminergici e glutaminergici), che probabilmente sorgono nel precoce sviluppo neuronale ma non causano differenze molto evidenti fino a quando l'ulteriore maturazione neuronale emerge nell'adolescenza; e che un'interazione atipica di queste regioni cerebrali porta a un'atipica interazione dell'individuo con la società, a causa di una costellazione di sintomi e alterazioni cognitive.
Il compito più importante per i neurobiologi è principalmente duplice: determinare (1) quali fattori contribuiscono veramente all'eziologia della schizofrenia, sia essa un disturbo singolo o multiplo, e (2) come questi fattori interagiscono per causare le manifestazioni esterne della schizofrenia. Il compito più importante dei terapeuti cognitivi è applicare le scoperte della neurobiologia al trattamento psicoterapeutico della schizofrenia. Questo può essere utile in numerosi modi: (1) sviluppo di nuove tecniche di terapia cognitiva basate sulle scoperte neurofisiologiche; (2) supporto per l'uso di specifiche e attuali tecniche di terapia cognitiva; (3) aiuto nel decidere tra differenti approcci cognitivi; (4) apprezzamento dei potenziali limiti degli interventi della terapia cognitiva; e (5) comprensione più ampia della complessità della schizofrenia.
[...]
Un modello cognitivo integrato di schizofrenia (pp. 330-352)
Nonostante molti anni di ricerca e innumerevoli articoli scientifici, il costrutto della schizofrenia è ancora ricoperto di mistero. È una malattia unica o un conglomerato di numerose malattie differenti? Qual è la sua eziologia? Vi è un percorso comune o vi sono percorsi multipli per una piena espressione del disturbo? È stato stabilito bene che nessuna serie di anomalie biologiche o psicologiche è stata riscontrata esclusivamente nella schizofrenia (specificità) o comprende tutti i casi (sensibilità). Nonostante ciò, vi sono sufficienti aspetti comuni tra le caratteristiche cliniche, le anomalie neuroendocrine e le aberrazioni psicologiche da giustificare la formulazione di un provvisorio modello di percorsi evolutivi del disturbo o dei disturbi.
La presentazione clinica della schizofrenia include quattro serie separate di sintomi o comportamenti: deliri, allucinazioni, disturbo del pensiero/eloquio e sintomi negativi (John, Khanna, Thennarasu e Reddy, 2003). Nonostante le analisi fattoriali abbiano coerentemente dimostrato che le prime due serie si basano su un fattore comune, spesso denominato 'distorsione della realtà', è difficile discernere connessioni significative tra la serie di sintomi. Inoltre non è chiara la relazione di questi sintomi l'uno con l'altro, così come con la più ampia disfunzione cognitiva, ad esempio rispetto all'attenuato esame di realtà e ai deficit neurocognitivi. In questo capitolo proviamo ad affrontare le seguenti domande: quali processi possono giustificare la diversa, e apparentemente non connessa, sintomatologia, e la sua relazione con anomalie strutturali e neurofisiologiche? Vi è un comune denominatore tra la disfunzione cognitiva e i sintomi? Quali percorsi conducono allo sviluppo del disturbo? Noi esploriamo queste domande in termini di interazione di funzionamento cerebrale inadeguato; esperienze di vita avverse; reazioni psicofisiologiche eccessive e loro relazione con le anomalie cognitive, affettive e comportamentali caratteristiche della schizofrenia.
Solo recentemente i ricercatori hanno tentato di integrare le scoperte neurofisiologiche con un modello cognitivo della schizofrenia (Bentall et al., in corso di stampa; Broome et al., 2007a; Broome et al., 2005; Garety, Bebbington, Fowler, Freeman e Kuipers, 2007). In questo capitolo, proviamo a incorporare le più rilevanti scoperte neurocognitive nel nostro modello integrato. Nonostante le scoperte sperimentali siano, al momento, insufficienti a fornire una validazione del modello proposto di schizofrenia, una formulazione teorica può offrire una cornice per la comprensione della fenomenologia della schizofrenia, suggerire strade per la ricerca futura e fornire alcuni indizi sui modi in cui la terapia cognitiva per la schizofrenia può aiutare a migliorare i sintomi di questo disturbo. Di conseguenza, questo capitolo mette in risalto lo sviluppo, la sintomatologia e la terapia della schizofrenia da una prospettiva cognitiva e neurofisiologica. Quando sono disponibili, vengono fornite scoperte empiriche a supporto della terapia.
Riassunto del modello integrato
Precedenti studi hanno mostrato che specifiche regioni del cervello e specifiche funzioni (ad esempio, memoria a breve termine e funzione esecutiva) giocano un ruolo centrale, in particolar modo nella formazione dei sintomi negativi e nella disorganizzazione del pensiero (Heydebrand et al., 2004; Kems e Berenbaum, 2003); queste scoperte, comunque, non spiegano i deliri, le allucinazioni e la perdita di consapevolezza della malattia. Noi adottiamo il punto di vista secondo cui una prospettiva più ampia sulla schizofrenia può essere più illuminante di un'attenzione esclusiva su specifici domini funzionali o regioni cerebrali. Sebbene i test di attenzione, memoria, funzione esecutiva e flessibilità siano utili indicatori di deficit neurocognitivi, non misurano direttamente la distruzione nelle funzioni integrative complessive del cervello. Basati sull'analogia con la funzione cardiaca danneggiata, i concetti più ampi di 'insufficienza' cognitiva, 'decompensazione' e 'fallimento' possono essere applicati alla complessa interazione dei fattori predisponenti neurobiologici, ambientali, cognitivi e comportamentali nello sviluppo della schizofrenia. Implicita in questo costrutto è la nozione che la combinazione di due fattori (cioè, un eccessivo carico cognitivo) derivanti da convinzioni ipersalienti e risorse cognitive marginali (risultanti da una deficienza in molti domini della funzione cerebrale) interferisce con la valutazione adattiva e l'integrazione di esperienze interne ed esterne. Come mostrato nella Figura 14.1, la decompensazione delle funzioni cognitive vacillanti porta allo sviluppo dei sintomi specifici della schizofrenia.
L'esaurimento nervoso è presagito da un'iper-reattività allo stress, da impercettibili deficit cognitivi e da tendenze al ritiro dagli altri individui. Quando i fattori di stress si accumulano, la risultante cascata neuroendocrina ha un impatto tossico sulle funzioni cerebrali, portando, ad esempio, all'eccessiva attivazione di certe regioni cerebrali da parte della dopamina e, probabilmente, di altri neurotrasmettitori. Questa iperattivazione impone un carico significativo sulle risorse cognitive limitate. Così, la progressiva deplezione delle risorse cognitive marginali stabilisce la traiettoria dall'insufficienza cognitiva alla decompensazione cognitiva e, in casi gravi, al fallimento cognitivo. Questo andamento è manifestato clinicamente dalla comparsa di convinzioni deliranti e allucinazioni, da un lato, e da una diminuita capacità di valutarle realisticamente, dall'altro. Sebbene la progressione del disturbo sia caratterizzata da un'attenuazione delle risorse cognitive, i pazienti conservano riserve cognitive sufficienti per svolgere le operazioni meno impegnative della vita di tutti i giorni. Questa riserva è insufficiente, comunque, per le operazioni più complesse e faticose coinvolte nell'esame di realtà delle convinzioni ipersalienti e delle interpretazioni errate. I sintomi negativi possono essere dovuti, in parte, alle ridotte risorse per pianificare e svolgere le attività; possono anche servire come mezzo per proteggere le riserve cognitive. Il sistema di conservazione è rappresentato dalle aspettative negative, da una minore motivazione e dall'evitamento sociale, cosi come dalla generale riduzione dell'attività costruttiva (per una discussione sulla riserva cognitiva in altre condizioni, si veda Stern, 2002).
Gli errori cognitivi giocano un ruolo significativo nel passaggio da una vulnerabilità costituzionale a uno stato prodromico, fino alla psicosi manifesta. Le distorsioni cognitive che ne derivano portano a valutazioni estreme di situazioni di vita avverse, e alla conseguente formazione di schemi patogeni (che incorporano le convinzioni e le rappresentazioni distorte). Gli schemi cognitivi disfunzionali diventano ipersalienti e 'dirottano' il sistema di elaborazione dell'informazione, che pregiudica ulteriormente le interpretazioni delle esperienze della persona. Queste interpretazioni errate si conformano al contenuto delle convinzioni, incorporate all'interno degli schemi cognitivi. L'iperattivazione degli schemi (associata alla disregolazione neurochimica) porta a un pensiero aberrante incontrollato, che, a causa delle deficitarie risorse cognitive, non viene sottoposto a verifica. Le convinzioni ipersalienti e l'ideazione associata all'attivazione del sistema dopa- minergico, e probabilmente di altri neurotrasmettitori (ad esempio, il glutaminergico), vengono rappresentate in forma di deliri e allucinazioni; le attitudini fallimentari di vecchia data e le aspettative negative (associate alla deficienza della dopamina nella corteccia prefrontale) sono strumentali alla produzione dei sintomi negativi.
Predisposizione e sviluppo della schizofrenia
Il modello diatesi-stress (Zubin e Spring, 1977) per molte decadi ha guidato gli studi sullo sviluppo della schizofrenia. Un'ampia letteratura rende testimonianza della diatesi nella schizofrenia. Varie combinazioni di fattori contributivi stabiliscono la vulnerabilità costituzionale: avversità genetiche, prenatali e postnatali, fattori di stress psicosociali e problemi neuroevolutivi e neuroendocrini nell'adolescenza e nella prima età adulta (Walker, Kestler, Bollini e Hochman, 2004). Un danno all'ippocampo è stato individuato non solo come contributo alla vulnerabilità, ma anche come fattore nella precipitazione e nel mantenimento della psicosi (Walker et al.). Anche la perdita di materia grigia, dovuta alla riduzione (McGlashan e Hoffman, 2000) e alla disregolazione dei sistemi di neurotrasmettitori (Walker e Difo- rio, 1997), sembra giocare un ruolo nella predisposizione e nel mantenimento della psicosi. Alcuni studi hanno documentato l'impatto dei disturbi dell' attività del circuito neurale sulle componenti della percezione, cognizione e comportamento (Jarskog e Robbins, 2006). Tali disturbi sono manifestati da misurabili problemi cognitivi della funzione esecutiva e della memoria di lavoro, così come dalla formazione di sintomi della schizofrenia. L'effetto cumulativo di questi problemi, e di altri non ancora identificati, contribuisce evidentemente alla riduzione dell'insieme disponibile di risorse cognitive (Nuechterlein e Dawson, 1984).
Nonostante la prevalenza della schizofrenia sia stata stimata approssimativamente intorno all'1% della popolazione generale, sono state identificate prevalenze più alte di sintomi psicotici isolati (5% di prevalenza) o di esperienze psicotiche più ampiamente definite (15% di prevalenza) (Cougnard et al., 2007). Studi prospettici (ad esempio, Owens e Johnstone, 2006; Cougnard et al., 2007) hanno fornito prove per un modello interattivo di sviluppo della psicosi. Inoltre, il trauma psicologico, in generale, è stato associato allo sviluppo della psicosi (Spauwen, Krabbendam, Lieb, Wittchen e van Os, 2006). Cougnard et al. (2007) hanno rilevato che le espressioni non cliniche di sporadiche esperienze psicotiche interagivano con specifici fattori di rischio ambientali per la psicosi (uso di cannabis, trauma nell'infanzia e vita urbana) nel causare la persistenza anomala di sintomi psicotici nei partecipanti, ed eventualmente la necessità di un trattamento. I fattori di rischio ambientali agivano ulteriormente sulla produzione di psicosi clinica. Questi problemi e sintomi esistono chiaramente in forma subclinica in individui vulnerabili allo sviluppo del disturbo, ma fanno la loro comparsa più florida solo in una proporzione di casi relativamente piccola, specialmente quelli esposti a esperienze traumatiche.
Diverse prove supportano l'ipotesi della continuità. Studi epidemiologici, ad esempio, mostrano un continuum tra segni subclinici e sintomi negli individui ad alto rischio e sintomi pienamente manifestati nei soggetti con il disturbo conclamato. Altri studi mostrano che certi tratti, come il nevroticismo e l'attribuzione delle voci ad agenti esterni, predispongono un individuo alla psicosi (Escher, Romme, Buiks, Delespaul e van Os, 2002a). Inoltre, vi sono prove che l'accumulo di condizioni stressanti#minori possa far precipitare il disturbo, o esacerbare i sintomi, durante un periodo quiescente.
Un modo per determinare in generale la diatesi della psicosi, e nello specifico della schizofrenia, è investigare se vi sono caratteristiche fenotipiche e genotipiche di questo disturbo negli individui con sintomi subclinici (come nel disturbo schizotipico), nei parenti di questi individui e nei pazienti. Una rassegna di Myin-Germeys, Krabbendam e van Os (2003) presenta prove convincenti di una continuità tra i sintomi psicotici subclinici nella popolazione generale e i sintomi nei pazienti clinicamente diagnosticati con psicosi (si veda anche Lincoln, 2007; Schurhoff et al., 2003). Questi autori presentano anche prove di una continuità eziologica tra gli individui della popolazione generale e i pazienti con psicosi, così come similarità tra la schizo- tipia e la psicosi. Le stesse dimensioni cliniche (sintomi positivi, negativi e disorganizzati) caratterizzano sia la schizotipia sia la psicosi. Inoltre, fattori psicosociali, come abuso infantile e scarso adattamento all'aumentato livello di stress di vita urbana, sono associati con entrambe le sindromi. L'uso della cannabis è associato sia alla schizotipia sia alla psicosi. Gli individui schizo- tipici che fanno uso di cannabis mostrano una disinibizione attentiva simile a quella riscontrata in pazienti con la dimensione positiva della psicosi.
Anche il nevroticismo, caratterizzato da un'esagerata reattività allo stress, una propensione all'ansia, sintomi depressivi e labilità autonomica è un fattore di rischio per la psicosi in età adulta. I pazienti con psicosi, e i loro parenti di primo grado, sono caratterizzati da aumentati livelli di nevroticismo. Inoltre, il nevroticismo sembra contribuire al rischio di sviluppare sintomi simil-psicotici. Anche studi genetici sembrano supportare l'ipotesi di una continuità. Gli studi sui gemelli e sui gruppi familiari di psicopatologia hanno mostrato una significativa trasmissione genetica e familiare della dimensione tipica dei sintomi negativi e della disorganizzazione. Inoltre, i sintomi positivi, in pazienti con psicosi non affettiva, sono correlati alla schizotipia positiva nei loro parenti, e i sintomi negativi sono predittivi della schizotipia negativa nei loro parenti. Le caratteristiche neuroevolutive e neuropsicologiche dei pazienti con schizofrenia sono state riscontrate anche in individui con schizotipia, così come nei parenti di primo e secondo grado dei pazienti (Schurhoff et al., 2003). Varie anomalie psicologiche, quali l'aumentata conduttanza cutanea e i precoci deficit del filtro sensoriale, sono state trovate sia nella schizofrenia pienamente manifestata sia nella schizotipia. Infine i sintomi negativi, negli individui ad alto rischio e nei pazienti schizofrenici, mostrano lo stesso tipo di atteggiamenti fallimentari (si veda il capitolo 5).
Riassumendo, vi è un'ampia continuità nella predisposizione alla schizofrenia degli individui non trattati e dei parenti dei pazienti nella comunità, così come nei pazienti a cui è stata diagnosticata la schizofrenia, che coinvolge: sintomi simil-psicotici; fattori eziologici, ambientali e demografici; nevroticismo; atteggiamenti disfunzionali; genetica; problemi neurocognitivi; aberrazioni psicofisiologiche.
Fattori di stress e iper-reattività neuroendocrina
La relazione tra stress e psicosi è stata studiata da molti ricercatori. I risultati generali hanno indicato che l'andamento della psicosi è influenzato meno da grandi eventi di vita, relativamente rari, e più dall'insieme di piccoli eventi, molto più diffusi, che si verificano nella vita quotidiana (Malia e Norman, 1992). Lo stesso può essere vero per i fattori di stress che portano al primo episodio psicotico. Monroe (1983) ha riportato che, in generale, gli eventi giornalieri minori hanno un impatto sui sintomi psicologici. Mal- la, Cortese, Shaw e Ginsberg (1990) hanno riferito un'associazione tra gli eventi di vita minori e i tassi di ricaduta nella schizofrenia, e Norman e Malta (1991) hanno mostrato la relazione tra eventi di vita minori e stress soggettivo in questi pazienti. Inoltre, Myin-Germeys, van Os, Schwartz, Stone, e Delespaul (2001) hanno rilevato cambiamenti nell'umore dei pazienti con psicosi, e nei loro parenti di primo grado, dopo uno stress minore.
Una serie di articoli supporta la nozione che gli individui ad alto rischio di psicosi manifestano un'iper-reattività allo stress (Myin-Germeys, Delespaul e Van Os, 2005; Walker, McMillan e Mittal, 2007). Tale iper-reattività continua, attraverso la fase prodromica, fino al periodo psicotico pienamente attivo, e può contribuire alle ricadute. Le prove empiriche dell'iper-rea- zione fisiologica allo stress nella psicosi hanno un supporto considerevole in letteratura (ad esempio, Corcoran et al., 2003; Walker e Diforio, 1997). Gli individui schizotipici, ad esempio, mostrano problemi di pensiero analoghi a quelli riscontrati nella schizofrenia e, allo stesso tempo, iper-reagiscono fisiologicamente allo stress (Walker, Baum e Diforio, 1998). Inoltre, valutazioni di minaccia sociale sono correlate a un eccessivo rilascio di cortisolo (Dickerson e Kemeny, 2004).
Un importante studio di Myin-Germeys et al. (2005) ha usato l'esperienza di un metodo di campionamento per studiare l'associazione tra eventi di vita minori e sintomi psicotici. I ricercatori hanno rilevato che la presenza di fattori di stress minori è chiaramente associata all'intensità delle esperienze psicotiche, con un livello più alto della media di predisposizione alla psicosi, in due gruppi: i pazienti con una diagnosi di psicosi in uno stato di remissione e i parenti di primo grado dei pazienti con una diagnosi di disturbi psicotici. Poiché i risultati erano basati su analisi a sezione trasversale dei dati, non è stato possibile stabilire una relazione causale. Comunque, un'interpretazione plausibile è che i fattori di stress minori causano un aumento nell'intensità dei sintomi psicotici. Gli autori propongono che la sensibilizzazione in relazione allo stress ambientale potrebbe essere interpretata alla luce dell'ipotesi della sensibilizzazione della dopamina dei sintomi psicotici; sottolineano l'iper-responsività dei neuroni della dopamina a stimoli ambientali, in cui persino l'esposizione a moderati livelli di stress è associata a un'eccessiva dopamina.
Corcoran et al. (2003) riassumono le scoperte a supporto di un'ipotesi proposta da Walker e Diforio (1997), secondo cui l'asse hpa costituisce un fattore di rischio del sistema endocrino-neuronale nell'inizio e nell'andamento della psicosi schizofrenica. Un aumento nei livelli del cortisolo (presumibilmente dovuto all'impatto dello stress sull'asse hpa) è stato associato all'esordio della psicosi. Vi è anche una correlazione tra l'età media di esordio dei disturbi psicotici e l'aumento nei livelli del cortisolo durante l'adolescenza e la giovane età adulta, fornendo prova circostanziale alla teoria di Walker e Diforio (1997) sulla relazione tra lo stress e. il cortisolo e la psicosi. Walker et al. (2007) riportano sempre maggiori prove che il sistema hpa-ippocampale sia sregolato nei pazienti con schizofrenia e altri disturbi psicotici, e che questo, almeno in parte, sia dovuto a fattori ambientali. Basano in parte la loro tesi su scoperte fatte su gemelli monozigoti discordanti. Riferiscono che il danno hpa-ippocampale precede l'esordio del disturbo clinico. Inoltre, nei pazienti giovani al primo episodio, mai stati trattati, il volume dell'ippocampo è ridotto e il cortisolo elevato. Infine, il volume ip- pocampale continua a diminuire non appena il disturbo diventa più cronico (Velakoulis et al., 2006).
Questo schema di scoperte è coerente con la tesi secondo cui il disturbo indotto dallo stress nel sistema hpa-ippocampale può influenzare l'espressione della psicosi negli individui vulnerabili. La sottoregolazione dello stress cronico dell'asse hpa, che non riesce a moderare la secrezione di cortisolo, porta alla morte cellulare nell'ippocampo. Walker et al. (2007), inoltre, mostrano che l'attività della dopamina è aumentata dal rilascio del cortisolo, e che questo può rendere conto delle apparenti esacerbazioni dei sintomi psicotici durante l'esposizione allo stress. Ulteriori prove supportano la teoria di Walker e Diforio (1997). Ad esempio, un aumento dei livelli di cortisolo si verifica prima della ricaduta psicotica. Inoltre, i livelli baseline di cortisolo hanno una correlazione con la gravità dei sintomi al follow-up (Walker, 2002). Evidentemente, lo stress, come indicato dai livelli di corti- solo, è un precursore, e non una conseguenza, della psicosi.
Riassumendo, basandosi su un ampio numero di studi (riassunti in Broome et al., 2007b; Garety et al., 2007), è possibile formulare un plausibile percorso neurofisiologico verso la psicosi. La riduzione del volume ippo- campale, come risultato di qualunque combinazione di eventi ambientali prenatali e postnatali (Walker et al., 2004), predispone l'individuo a un eccessivo rilascio di cortisolo e allo stress correlato. L'ipercortisolismo può ridurre ulteriormente il volume ippocampale. Dato che l'ippocampo controlla il sistema dopaminergico mesolimbico, il danno porta a una sensibilizzazione della dopamina. L'iper-reattività del sistema dopaminergico è un fattore cruciale nella precipitazione della psicosi. Questa progressione è favorita dalla disfunzione del circuito corticolimbico, che genera una ridotta frenata dell'attività della dopamina da parte dei lobi prefrontali. L'idea che lo stress, il cortisolo elevato e il danno ippocampale siano correlati è stata applicata anche a una teoria dell'eziologia della schizofrenia come conseguenza di un trauma dell'infanzia/ptsd (Read, van Os, Morrison e Ross, 2005).
il ruolo della valutazione nelle reazioni di stress
Gran parte della ricerca sulle risposte biologiche allo stress degli individui tendenti alla psicosi postula una sequenza diretta dalla diatesi ali 'evento stimolante fino alla risposta neuroendocrina. La letteratura, comunque, indica che la risposta allo stress è mediata dalla valutazione dell'evento; cioè, un evento diventa un fattore di stress in virtù del significato a esso attribuito (Pretzer e Beck, 2007; Lazarus, 1966).
Dickerson e Kemeny (2004) approfondiscono i modi in cui le valutazioni cognitive influenzano la fisiologia, attivando specifici processi cognitivi e le loro basi del sistema nervoso centrale. Il talamo e i lobi frontali (ad esempio, la corteccia prefrontale), in primo luogo, integrano e valutano la rilevanza o il significato del potenziale fattore di stress. Valutazioni di minaccia e di incontrollabilità, ad esempio, possono portare a risposte emotive, attraverso ampie connessioni dalla corteccia prefrontale al sistema limbico. Le strutture limbiche (ad esempio, l'amigdala e l'ippocampo), che si connettono all'ipotalamo, servono come percorso primario per l'attivazione dell'asse hpa. Quest'ultimo è avviato dal rilascio ipotalamico dell'ormone che libera corticotropina (crh), che stimola la ghiandola pituitaria anteriore a rilasciare l'ormone adrenocorticotropina (acth). Quest'ormone, a sua volta, stimola la corteccia adrenale a secernere il cortisolo nel flusso sanguigno. Dickerson e Kemeny (2004) concludono, sulla base di un'ampia meta-analisi, che le condizioni sperimentali che più coerentemente attivano l'asse hpa (valutazione e incontrollabilità) sono rilevanti per le valutazioni della minaccia. Queste scoperte sperimentali sono congruenti con il rapporto di Horan et al. (2005), secondo cui la valutazione di incontrollabilità degli eventi di vita era più stressante per i pazienti con schizofrenia. La Figura 14.2 illustra il percorso delle valutazioni disfunzionali degli eventi di vita verso i cambiamenti neurofisiologici, fino all'impatto tossico sulle funzioni cerebrali.
Gli individui predisposti alla psicosi valutano certe situazioni innocue in modo idiosincratico e, presumibilmente, si sentono più minacciati e stressati della persona comune. Freeman, Garety, Bebbington et al. (2005), ad esempio, riportarono che gli individui che ricevevano alti punteggi su una scala della paranoia tendevano a interpretare i personaggi del computer (avatar), in una scena di realtà virtuale, come ostili e cospiranti verso di loro. In questo studio, la tendenza ad attribuire un significato personale con sfumature paranoiche alle scene, che erano obiettivamente neutre, dimostra il focus auto-centrato dell'individuo e il pregiudizio paranoico, che converte una scena innocua in un'esperienza stressante. Uno studio successivo di Valmaggia et al. (2007) ha ottenuto risultati simili con un gruppo di individui ad alto rischio.
Transizione alla psicosi
Vi sono ovviamente numerosi percorsi che possono condurre alla schizofrenia. Molto spesso, i cambiamenti soggettivi più precoci coinvolgono alterazioni percettive, che possono comprendere modifiche nell'esperienza di sé e/o del mondo (Klosterkotter, 1992). Di solito, gli individui vulnerabili sperimentano anche una disfunzione neurocognitiva, prima dell'esordio dei sintomi psicotici (Walker, 2002). Gli individui a rischio, così come i pazienti, mostrano una serie di danni specifici rilevati nei test neurocognitivi: problemi attentivi, memoria di lavoro danneggiata, e funzione esecutiva difettosa (Walker et al., 1998; Nuechterlein e Dawson, 1984). Questi indici di insufficienza cognitiva impediscono l'adattamento accademico e sociale di questi individui e, quando combinati con l'ipersensibilità allo stress, creano condizioni rilevanti per lo sviluppo della schizofrenia. Tale disfunzione cognitiva sembra influenzare il loro funzionamento psicologico e la socializzazione, come manifestato da una diminuita motivazione (Cornblatt, Lencz e Kane, 2001). Evidentemente, la combinazione di queste difficoltà neurocognitive, psicologiche e sociali interferisce con lo sviluppo di abilità sociali fondamentali per l'età (si veda Broome et al., 2005) e la prestazione sociale e accademica. Tali problemi producono atteggiamenti negativi verso se stessi e gli altri, portando ad ansia sociale e depressione. A un certo punto, questi individui si ritirano volontariamente dalle interazioni sociali o sperimentano isolamento sociale da parte degli altri.
L'importanza del deficit cognitivo nella spiegazione sia delle scoperte di laboratorio sia di quelle cliniche nei pazienti con deliri paranoici è dimostrata dalle scoperte di Bentall et al. (2008), secondo cui i test sul deficit neurocognitivo in corso sono associati all'anticipazione della minaccia e alle convinzioni paranoiche. La rilevanza dell'anticipazione della minaccia è sintomatologicamente rappresentata da un'ansia eccessiva, dal progressivo senso di sconfitta sociale e accademica e dalla depressione.
Alcuni studi hanno mostrato che l'ansia e la depressione precedono frequentemente lo sviluppo della psicosi. Escher et al. (2002a) hanno scoperto che la combinazione di ansia e depressione è associata allo sviluppo di sintomi psicotici minori, durante il periodo prepsicotico, e Cannon, Caspi et al. (2002) hanno rilevato che i bambini preschizofrenici sperimentano eccessiva depressione e ansia sociale. Non appena l'individuo si avvicina all'esperienza della psicosi vi è un'alta probabilità di almeno un chiaro episodio di depressione nell'anno precedente l'ospedalizzazione (an der Heiden e Hafner, 2000).
Un fattore cruciale nella progressione verso la psicosi è lo sviluppo di schemi cognitivi disfunzionali che facilitano l'esordio di esperienze aberranti, quali allucinazioni e deliri. Le condizioni stressanti portano a convinzioni disfunzionali (ad esempio, "Sono inferiore", "Le persone sono contro di me") e, di conseguenza, a valutazioni cognitive disfunzionali di esperienze specifiche e comportamenti maladattivi (ad esempio, ritiro sociale). Questi problemi evocano esperienze più awersive che, a loro volta, consolidano le convinzioni e i comportamenti disfunzionali. Gli atteggiamenti di avversione sociale possono condurre a sospetto e a idee strane sulle altre persone, caratteristiche del disturbo schizotipico. Le ripetute valutazioni disfunzionali che derivano dai pregiudizi cognitivi aumentano la quantità di stress psicofisiologico. In ultimo, la combinazione tra i fattori di stress che attivano atteggiamenti disfunzionali e l'impatto che ne deriva sull'asse hpa, e la disregolazione del sistema dopaminergico guida la progressione verso uno stato psicotico.
Atteggiamenti fallimentari inerenti la performance portano alla perdita di motivazione, a interessi ridotti e a tristezza, caratteristici della depressione, o possono essere integrati in una struttura di personalità e manifestarsi come disturbo di personalità schizoide. Uno studio di Perivoliotis et al. (2008), ad esempio, ha mostrato che individui ad alto rischio, con atteggiamenti fallimentari inerenti la performance, tendevano a mostrare una bassa motivazione. Queste caratteristiche premorbose si cristallizzano nei sintomi negativi tipici della schizofrenia.
Come si sviluppano le convinzioni persecutorie e anomale e, in ultimo, i deliri a partire dalle rappresentazioni disfunzionali, come quelle caratteristiche della depressione e dell'ansia? La ricerca precedente ha mostrato che gii individui tendenti alla depressione hanno core belief negativi su se stessi, incorporati in schemi cognitivi (Beck, 1967). I pazienti ad alto rischio di schizofrenia sembrano avere simili credenze negative su se stessi. Barrowcloug et al. (2003), ad esempio, hanno scoperto che i pazienti con schizofrenia mostrano una bassa autostima, che si correla con i sintomi positivi. A differenza della depressione 'pura', comunque, la schizofrenia incorpora core belief negativi sugli altri e su se stessi (Smith et al., 2006). Il contenuto preciso dei deliri è correlato alla natura delle rappresentazioni di sé (ad esempio, vulnerabile, impotente o forte), e le rappresentazioni degli altri (ad esempio, maligni, intrusivi o controllanti). I deliri di persecuzione, ad esempio, sembrano derivare dalle convinzioni di vulnerabilità personale e da forti convinzioni riguardo un'intenzione maligna negli altri. I deliri di influenzamento (deliri anomali o di controllo) sembrano essere basati su rappresentazioni di sé come impotenti, e degli altri come potenti. La stessa disparità di potere sembra essere intrinseca al sistema di convinzione nei casi di allucinazioni uditive.
I contenuti di questi deliri persecutori e anomali hanno alcuni temi in comune con quelli dell'ansia, della depressione e della schizofrenia. L'impatto dei due concetti di minaccia (ansia) e sconfitta sociale (depressione) sullo sviluppo del sistema di convinzioni porta a rappresentazioni degli altri come minacciosi, rifiutanti o dominanti, e di sé come vulnerabili e impotenti. Queste due componenti concettuali (minaccia e sconfitta) del sistema di convinzione si consolidano, quando si accumulano esperienze awersive (ad esempio, prendere in giro, abusare, fare il prepotente, manipolare). Prese nell'insieme, le scoperte cliniche suggeriscono che, quando il funzionamento intellettivo è danneggiato, si verifica questa sequenza di eventi: gli individui sono inclini a mantenere l'errore fondamentale di attribuzione (Heider, 1958; Gilbert, 1991), che, automaticamente, attribuisce le esperienze di vita a cause esterne. A differenza degli individui normali, che respingono automaticamente le attribuzioni esterne errate, gli individui tendenti al delirio hanno grande difficoltà nel valutare le attribuzioni come pensieri, piuttosto che come rappresentazione accurata di una realtà esterna. Poiché molti di questi errori attribuzionali riguardano la minaccia, eccessivi ricordi di minaccia hanno più probabilità di essere incorporati nel sistema di rievocazione (Bentall et al., 2008). Inoltre, tali ricordi sono accoppiati ad aspettative di futura minaccia (Bentall et al., 2008). Questa fissazione sulla minaccia ha conseguenze patologiche.
I ricordi e le anticipazioni di minaccia conducono direttamente al sospetto e all'ansia (Freeman, 2007) e ad impostare interpretazioni errate di situazioni innocue come minacciose (Bentall et al., 2008). Gli individui vulnerabili diventano ¿pervigili verso le potenziali minacce sociali, e cercano segnali di intenzioni malevole, espressi in forma di sospetto. Le preoccupazioni che gli altri possano volerli danneggiare o controllare portano a un accumulo di 'prove', che presumibilmente supportano questa nozione. Più interpretano erroneamente il comportamento innocente degli altri, più forte diventa la convinzione che gli altri li hanno presi come bersaglio, e desiderano far loro del male o ferirli in qualche modo. I concomitanti atteggiamenti positivi verso gli altri, come la fiducia, tendono a diminuire. Alla fine, le rappresentazioni di sé come vittime e degli altri come carnefici si consolidano in deliri di persecuzione o di influenzamento. La modalità paranoica coopta il sistema di elaborazione dell'informazione al punto che eventi casuali, irrilevanti e insignificanti vengono interpretati come personalmente significativi. Quando più eventi sono interpretati in questo modo, i confini dei deliri si estendono, così che un numero crescente di situazioni viene percepito come diretto contro il paziente. Alla fine, questo focus egocentrico diventa così pronunciato che quasi tutti gli stimoli (rumori nella stanza accanto, veicoli che passano, o i giornalisti del telegiornale) portano messaggi diretti al paziente. Allo stesso modo, le interpretazioni delle esperienze soggettive (sofferenze e dolori, ronzii nell'orecchio ed esperienze anomale) possono essere attribuite alle azioni di entità esterne.
Le aspettative sulle intenzioni invadenti degli altri (così come l'immagine di sé dei pazienti come impotenti e la permeabilità della mente) giocano un ruolo centrale nella formazione dei deliri, a causa del loro profondo impatto sull'elaborazione dell'informazione. All'inizio, queste convinzioni rendono l'individuo sospettoso delle intenzioni altrui: "mi stanno criticando? Vogliono controllarmi?". Come risultato del loro sospetto, i pazienti tendono a interpretare erroneamente i comportamenti degli altri come non amichevoli, e così le convinzioni sulle intenzioni negative degli altri si consolidano. Il comune denominatore dei deliri di controllo e di influenzamento e delle allucinazioni patogene è la percezione di sé come permeabile o manipolato da potenti entità esterne (voci o agenti deliranti).
L'elaborazione distorta delle informazioni impone il tipo di pregiudizi evidenziato nelle ricerche di depressione, ansia e altri disturbi: pregiudizi attentivi verso eventi congruenti con le convinzioni patogene, astrazione selettiva di questi eventi, distorsione ed esagerazione del loro significato, ed esclusione di spiegazioni alternative. Questi processi concorrono a sostenere la convinzione delirante (pregiudizio confermatorio). Il contenuto dell'interpretazione distorta e la conclusione riflettono naturalmente il contenuto delle convinzioni deliranti. Nel tempo, la convinzione non solo diventa fissa, ma si estende a una sempre più vasta gamma di eventi interni ed esterni, in un processo simile alla generalizzazione dello stimolo.
Quando si verifica il primo episodio di schizofrenia, gli schemi che incorporano queste convinzioni negative diventano ipersalienti; dominano l'elaborazione delle informazioni, producendo così interpretazioni altamente distorte del comportamento degli altri. Queste distorsioni, inoltre, mandano feedback e rinforzano gli schemi centrali. Quando questi schemi diventano iperattivi, le convinzioni incorporate diventano più estreme, non controllate dal normale esame di realtà, che opera nei disturbi non psicotici. Questa 'escalation' nel contenuto delle convinzioni può progredire, in un caso tipico, da "le persone non si curano di me" a "non sono amichevoli" a "vogliono perseguitarmi".
Riassumendo, il dirottamento dell'elaborazione delle informazioni, da parte delle convinzioni deliranti, porta ai pregiudizi che sono stati ampiamente dimostrati: un focus autoreferenziale, causale, attentivo, pregiudizi esternalizzanti, attribuzionali e confermatori. Processi simili possono essere identificati in altri tipi di pensiero paranormale e delirante.
La relazione dei deliri e della depressione con le allucinazioni
Una delle questioni più interessanti per gli studiosi è l'alto grado di associa- zone tra le allucinazioni e i deliri (Lincoln, 2007; Peralta, de Leon e Cuesta, 1992). Questo, all'inizio, appare inspiegabile, perché le allucinazioni sono esperite nel dominio sensoriale o percettivo, mentre i deliri implicano meccanismi cognitivi e concettuali. Quest'associazione è osservata non solo nei pazienti con schizofrenia, ma anche nelle popolazioni non cliniche (Stefanis et al., 2002; Lincoln, 2007). Allucinazioni che si presentano all'età di undici anni, ad esempio, che si verificano in circa l'8% dei bambini, è verosimile che progrediscano in pensiero delirante entro i ventisei anni, se le valutazioni iniziali delle voci assegnano la loro origine all'esterno, in una persona non amichevole, o nei loro genitori (Escher et al., 2002a). Allo stesso modo, Krabbendam e Aleman (2003) hanno riscontrato che i deliri sembrano in- terporsi tra le allucinazioni e la schizofrenia. Nel nostro lavoro con i pazienti ambulatoriali con schizofrenia, 30 su 34 pazienti con allucinazioni avevano anche deliri, mentre solo due pazienti avevano esclusivamente deliri.
La sequenza di allucinazioni, seguita in un momento successivo da depressione, costituisce un robusto fattore di rischio per la psicosi (Krabbendam et al., 2005). Come suggerito da Krabbendam e colleghi, la sensazione di essere intrappolati da un soggetto potente porta a un sentimento di impotenza. La convinzione della propria impotenza è un'importante caratteristica della depressione, e si riflette anche nel sentimento di impotenza del paziente nell'affrontare le voci onnipotenti. Così, l'attribuzione dell'esperienza allucinatoria a un'entità potente porta ai deliri cruciali delle allucinazioni, cioè che esse sono generate esternamente e sono incontrollabili (si veda anche Birchwood e Chadwick, 1997).
Il filo comune che attraversa il contenuto delle allucinazioni e dei deliri è c^e i pazienti sono oggetto di forze esterne, al di là del loro controllo. Le convinzioni patogene sul potere delle voci sono analoghe ai deliri di essere controllati, spiati e perseguitati. I pazienti con allucinazioni attribuiscono onnipotenza e onniscienza alle voci. Nel suo campione di pazienti con una lunga storia di schizofrenia, Lincoln (2007) ha scoperto che la tendenza alle allucinazioni era soprattutto in correlazione con i deliri di controllo, i deliri di influenzamento e le convinzioni sulla lettura del pensiero, inserzioni, eco e diffusione. Allo stesso modo, Kimhy et al. (2005) hanno scoperto che i deliri di controllo erano in correlazione con le allucinazioni, ma che non lo erano i deliri autoreferenziali e di persecuzione.
Sembra esservi un percorso speciale verso le allucinazioni in quegli individui che alla fine transitano nella psicosi, che hanno un'incidenza particolarmente alta di traumi infantili (Fowler, 2007). Perché c'è una tendenza sia alle allucinazioni sia ai deliri? Alcune volte, i pazienti hanno deliri senza allucinazioni, ma raramente esistono allucinazioni verbali nella schizofrenia senza convinzioni deliranti su di esse. (In effetti, l'esistenza di convinzioni deliranti sulle voci contribuisce a etichettare le allucinazioni come sintomo psicotico). I deliri e le allucinazioni nella schizofrenia hanno un comune orientamento interpersonale: il paziente è concentrato sul ricevere (in realtà interpretare) messaggi dall'esterno come sprezzanti, perseguitanti, invadenti e così via. Nei deliri, queste interpretazioni sono basate, da parte dei pazienti, sulle osservazioni del comportamento degli altri (ad esempio, i gesti, le espressioni facciali, la direzione dello sguardo o l'eloquio hanno un significato specifico e simbolico). Il loro mondo delirante è tanto reale quanto quello percettivo. La loro sensibilità al contenuto interpersonale si riflette nelle loro rappresentazioni di altri che parlano a loro (allucinazioni), su di loro (idee di riferimento), e li influenzano (deliri di controllo, interferenza, persecuzione). Nelle allucinazioni uditive, la comunicazione prende una forma verbale, che suggerisce che lo stesso meccanismo che abbassa la soglia dei pazienti per le interpretazioni persecutorie (esterne), abbassa anche la soglia per le voci.
Eventi traumatici durante l'infanzia sono a volte rappresentati nelle allucinazioni. L'esperienza traumatica, forse intrecciata ad altri eventi avversivi interpersonali dell'infanzia, fissa un'immagine di sé come impotente e degli altri come onnipotenti. Non solo l'abuso durante l'infanzia, ma anche l'esperienza della depressione sembra facilitare la persistenza delle allucinazioni (Escher et al., 2002b). È possibile discernere le stesse caratteristiche delle voci nella depressione e nel trauma infantile. Il contenuto della voce è diretto a disprezzare il paziente, e le stesse voci sono onnipotenti. Così, lo schema seguente si incentra sulla totale subordinazione del paziente agli altri. Le voci sintetizzano spesso i reali eventi traumatici, riproducendo le parole sia dei carnefice sia della vittima, come illustrato nel caso che segue.
Un uomo di venticinque anni affetto da schizofrenia sentiva due voci che parlavano a lui e di lui facendo generalmente commenti sprezzanti, quali 'frodo', 'femminuccia' o 'finocchio'. Una voce era quella di un bambino di dodici anni e l'altra di un bambino di sei anni. Prima dell'esordio della psicosi, il paziente era stato sottoposto a due ospedalizzazioni per depressione. Nell'intervista il paziente rivelò che, quando aveva sei anni, era stato sessualmente aggredito da un ragazzino di dodici anni. È interessante il fatto che non vedesse alcuna connessione tra questa esperienza e le voci. Come risultato di un trauma dell'infanzia, il paziente aveva un'immagine di sé come impotente e degli altri come più potenti. Quest'immagine portava il paziente a sentirsi vulnerabile e impacciato in presenza di altri. Interpretava le sue esperienze attraverso il modello (o schema) della subordinazione sociale. Tendeva a esagerare le esperienze negative e a interpretare quello che poteva essere un evento accidentale o incidentale come qualcosa diretto contro di lui. Alla fine, questa iper-reattività ai fattori di stress della vita quotidiana, così come ad altri più intensi (incluse le svalutazioni reali), portò a ospedalizzazioni per depressione e, successivamente, per deliri e allucinazioni. Il contenuto delle voci incorporò la prima immagine dell'infanzia, e riprodusse il significato che lui aveva attribuito a quell'esperienza, cioè che era non solo debole, ma anche spregevole (un 'finocchio'). Read, Perry, Moskowitz e Connolly (2001) hanno proposto che, come risultato dello stress, dell'aumentato cortisolo, e (principalmente) del danno ippocampale derivante da un trauma, aspetti di ricordi collegati al trauma possono rimanere non integrati o decontestualizzati. Ad esempio, un adulto con schizofrenia (con una storia di traumi nell'infanzia) può esperire una voce ostile, che è realmente un frammento ricordato di un'esperienza di abuso. Ma, poiché la traccia di memoria è decontestualizzata (cioè, disconnessa da altri aspetti/ricordi dell'esperienza), la persona esperisce solo una voce ostile, che può facilmente interpretare come una voce ostile esterna.
Il prototipo delle spiegazioni deliranti delle voci (cioè, il pregiudizio esternalizzante preventivo) esiste apparentemente prima di sentire le voci. Quando i pazienti sentono una voce per la prima volta, generalmente si guardano intorno per accertarsi della sua origine (possono controllare la reazione di altre persone e scoprire che queste non sentono le voci). Invece di prendere in considerazione che le allucinazioni uditive possano essere un fenomeno mentale, questi individui si fissano sulla convinzione che hanno una causa esterna (perché questo pregiudizio esplicativo si è già formato). La spiegazione esterna del fenomeno da parte dei pazienti sembra derivare dalle prime rappresentazioni di sé come oggetti passivi che subiscono l'influenza esterna di un altro potente. Tale concezione porta i pazienti a un singolare modo di dare spiegazioni causali: le esperienze interne sono causate da forze o entità esterne. I pazienti applicano questa modalità esplicativa per spiegare una varietà di esperienze paranormali, oltre alle allucinazioni: furto del pensiero, lettura della mente, inserzione del pensiero e così via. In effetti, l'intera gamma di ciò che viene etichettato come deliri di interferenza, di controllo o persecutori può essere compresa in termini di rappresentazioni di sé e degli altri, che rivolgono a cause esterne l'elaborazione delle informazioni. È interessante il fatto che i pazienti possono attribuire molto più potere alle voci stesse, che al loro presunto agente. Un uomo si sentiva totalmente subordinato alle voci allucinatorie di suo fratello, ma non si sentiva così impotente quando suo fratello gli parlava nella realtà.
Sebbene vi siano scarse prove, vi sono indicazioni di dati clinici secondo cui gli individui prepsicotici hanno già l'idea che gli altri li stanno controllando e osservando, e tendono a considerare se stessi come il bersaglio delle intrusioni 'intenzionali' dell'altro. Questa concezione si riflette nelle loro idee sulle allucinazioni, sui pensieri intrusivi e sui deliri.
La tendenza a fare attribuzioni esterne è certamente una caratteristica della popolazione in generale. Heider (1958) per primo ha spiegato questo fenomeno, ed è stato descritto a lungo da Gilbert (1991). Gli individui tendenti alla psicosi, presumibilmente a causa delle esperienze di vita avverse, hanno probabilità di iperinvestire in queste attribuzioni e, a causa del deficit cognitivo, sono meno in grado di valutarle e scartarle. Come mostrato nella Figura 14.3, la sequenza delle rappresentazioni negative e la conseguente elaborazione parziale delle informazioni portano alla formazione di deliri e allucinazioni.
Considerazioni teoriche e conclusioni
Le basi causali del limitato insight cognitivo e del pensiero disorganizzato della schizofrenia sembrano essere diretta conseguenza delle disfunzioni del sistema neurale. Il concetto dell'interazione tra una limitata capacità cognitiva (dovuta a deficit neurali) e lo stress aiuta a spiegare l'espressione dei sintomi, ma anche le difficoltà dei pazienti nel valutare e correggere le idee irrealistiche. Sebbene l'obiettivo sulle funzioni difettose, localizzate e specializzate del cervello, abbia, in anni recenti, dominato la ricerca su più alte funzioni cerebrali nella schizofrenia, Phillips e Silverstein (2003) fanno notare che queste funzioni localmente specializzate devono essere integrate dai processi che le coordinano, e propongono che il deficit di questi processi coordinanti possa essere centrale nella schizofrenia. Suggeriscono che quest'importante classe di funzioni cognitive può essere implementata da meccanismi come le connessioni a lungo raggio all'interno e tra le regioni corticali che attivano canali sinaptici e sincronizzano l'attività neurale oscillatoria nel cervello. Le capacità intellettive che questi meccanismi forniscono si sono dimostrate deficitarie nella schizofrenia.
Questa formulazione di Phillips e Silverstein (2003) suggerisce una concezione più ampia dei problemi nell'elaborazione cognitiva di alto livello nella schizofrenia, considerandoli non semplicemente come una conseguenza di deficit specifici, ma anche come un deficit delle funzioni integrative del cervello. La diminuita integrazione può essere rappresentata, a livello anatomico, come un pruning eccessivo, durante l'adolescenza, delle connessioni sinaptiche (McGlashan e Hoffman, 2000), o come un'ipofunzione dei recettori nmda (modulatori) (Olney e Farber, 1995). Studi su parenti non ammalati dei pazienti con schizofrenia suggeriscono anche che gli individui tendenti alla psicosi sono geneticamente dotati di competenze cognitive limitate (Gur et al., 2007), forse in conseguenza di un volume cerebrale più piccolo, specialmente nell'ippocampo (Boos et al., 2007). Il deficit non solo riduce le risorse per affrontare lo stress e le conseguenti valutazioni errate della realtà, ma aumenta anche la sensibilità alle esperienze di vita avverse, portando a convinzioni e comportamenti disfunzionali.
Avere una visione globale sul deficit della funzione integrativa totale del cervello può fare un po' di luce sui modi in cui si sviluppa la schizofrenia. Date le limitazioni della capacità cognitiva del cervello, i fattori di stress esterni aumentano il carico cognitivo, deviano le risorse per respingere l'impatto eccessivo dei fattori di stress e, di conseguenza, riducono le risorse disponibili per il mantenimento della flessibilità cognitiva. Sebbene certe funzioni cognitive, quali il vocabolario e l'apprendimento procedurale, possano essere preservate, il relativo deficit nelle funzioni psicologiche complesse, che richiedono maggiori risorse (come l'autoriflessività, l'automonito- raggio, il cambio di prospettiva basato sui cambiamenti nel contesto, la correzione delle interpretazioni errate e la reattività ai feedback correttivi degli altri) rimuove la barriera (cioè, un adeguato esame di realtà) allo sviluppo delle convinzioni disfunzionali (specialmente i deliri), e impedisce lo sviluppo di abilità interpersonali complesse.
I pazienti con schizofrenia, di solito, sono in grado di utilizzare con successo le loro abilità cognitive nel valutare le idee relativamente neutre o le idee errate di altre persone, ma mancano della capacità cognitiva di applicare quelle abilità alle proprie valutazioni altamente cariche, specialmente quelle associate alle convinzioni deliranti. Tale carenza porta ai concetti clinici di 'insight deficitario' e 'deficit nell'esame di realtà'. La capacità deficitaria di riconoscere le idee deliranti come irrealistiche (insight cognitivo) e, quindi, come sintomi di un disturbo sottostante (insight clinico), fornisce un indice per la diagnosi di schizofrenia.
Questa combinazione di carenza cognitiva e condizioni stressanti che ne derivano fornisce un percorso per il passaggio dallo stato prodromico alla decompensazione cognitiva, evidente nella sintomatologia della schizofrenia: l'iperattivazione degli schemi disfunzionali, insieme a un ridotto esame di realtà, è evidente nei deliri e nelle allucinazioni, 0 risparmio di risorse lo è nei sintomi negativi, e il crollo della struttura semantica organizzata è evidente nel disturbo formale del pensiero. La perdita di contesto descritta nei pazienti con disturbo del pensiero (Chapman e Chapman, 1973a) e con allucinazioni (Badcock, Waters e Maybery, 2007) può essere in parte attribuita alla relativa insufficienza di risorse disponibili per la memoria a breve termine, per l'aderenza alle regole di una comunicazione coerente, e per l'inibizione dell'intrusione di idee inappropriate. Il profondo disimpegno manifestato dall'alogia, dall'appiattimento affettivo e dal- l'anergia (la sindrome negativa) può essere visto come il risultato di un risparmio di risorse. Tale risparmio è evidente anche nella predilezione a fare associazioni facili ma erronee ai suggerimenti verbali (Chapman e Chapman).
Un simile indebolimento dell'inibizione cognitiva compare nel disturbo del pensiero, caratterizzato da deragliamento, perdita di riferimenti e così via, specialmente quando il paziente sta sperimentando uno stress esterno o sta discutendo un argomento emotivamente saliente. La disorganizzazione può essere vista anche come risultato di un rapido cambio tra i circuiti. Cioè, la mancanza dell'abilità integrativa nel cervello porta alla formazione di circuiti transitori relativamente casuali (Wright e Kydd, 1986; Gordon, Williams, Haig, Wright e Meares, 2001). In quest'ottica, la disorganizzazione è la disfunzione centrale nella schizofrenia, e gli altri sintomi rappresentano le compensazioni a questo deficit centrale. Ad esempio, Gordon et al hanno rilevato che il fattore 'distorsione della realtà' era associato a un au- meritata attività gamma (iperelaborazione) e alla formazione di stabili, ma aberranti, reti corticali ('foci parassitari'; Hoffman e McGlashan, 1993) che possono portare alle allucinazioni e ai deliri in risposta a stimoli target; il fattore 'povertà psicomotoria' è associato a un processo di 'chiusura' compensatoria, caratterizzato da una diminuita risposta a stimoli target (sottoelaborazione); ma il fattore 'disorganizzazione' era correlato a una diminuita risposta a stimoli non target. Queste scoperte suggeriscono che la disorganizzazione rappresenta il fallimento più profondo dell'integrazione. La disorganizzazione non è compensata da una coerente iper- o sotto-elaborazione, e si pensa che la natura rapida e transitoria dei circuiti che sono formati produca sintomi 'ebefrenici', quali disturbo del pensiero, movimenti insoliti e così via. Nella nostra formulazione, l'impoverimento delle risorse cognitive, associato alla schizofrenia, impedisce all'individuo di essere in grado di valutare accuratamente la natura dei sintomi positivi, causati da aberranti ma stabili circuiti, o le convinzioni fallimentari, associate alla chiusura riscontrata nei sintomi negativi.
Vi è un supporto sperimentale alla nostra formulazione clinica, visto che la ricerca ha dimostrato che, sotto un carico cognitivo, il funzionamento cognitivo dei pazienti con schizofrenia si deteriora (Nuechterlein e Dawson, 1984; Melinder e Barch, 2003). Le risposte pupillari difettose (mancanza di dilatazione; Granholm, Morris, Sarkin, Asarnow e Jeste, 1997) e le reazioni antisaccade (Curtis, Calkins, Grove, Feil e Iacono, 2001) sono proposte come prove indirette di risorse cognitive attenuate. Un indice più specifico della capacità integrativa del cervello è l'abilità di individuare il pensiero erroneo e riformulare le sue risposte. La Beck Cognitive Insight Scale misura indirettamente il deficit delle funzioni di livello superiore nella schizofrenia (Beck e Warman, 2004). L'alto grado di fiducia nelle interpretazioni irrealistiche di un soggetto e la mancanza di auto-riflessione sono indicativi di risorse cognitive limitate. Il processo di distanziarsi da convinzioni fortemente sostenute, valutarle e applicare regole di evidenza e logica presuppone un impiego sostanziale alle risorse cognitive. Questi processi richiedono l'integrazione di una serie di funzioni complesse rappresentate in diverse regioni del cervello. L'attenuazione delle risorse nella schizofrenia e il ridotto funzionamento integrato intralciano l'elaborazione necessaria all'esame di realtà delle convinzioni deliranti ipersalienti. La riduzione nella funzione esecutiva rappresenta un marker della ridotta abilità a testare la realtà delle convinzioni. Un modo per studiare il percorso dalla funzione esecutiva deficitaria ai deliri è esaminare la relazione tra l'insight cognitivo, la funzione esecutiva e i deliri. L'indice di eccessiva sicurezza ('fiducia in sé') nella realtà di esperienze insolite, e della capacità di considerarle in prospettiva ('autoriflessione'), come misurato dalla Beck Cognitive Insight Scale (Beck e Warman, 2004), si è rivelato utile nel dimostrare un legame tra la funzione ese- cutiva e i deliri. Nello specifico, la fiducia in sé è correlata con entrambe le forme di patologia, ed è un mediatore tra di esse (Grant e Beck, 2008a). Abbiamo anche riscontrato una moderata correlazione tra la funzione esecutiva deficitaria e la deficitaria auto-riflessione.
Altri studi (ad esempio, Beck et al., 2004) hanno trovato una correlazione tra la funzione esecutiva e i deliri in un campione di pazienti ospedalizzati, ma non nel gruppo dei pazienti ambulatoriali. Inoltre, la fiducia in sé è correlata, in maniera significativa, sia con il disturbo del pensiero sia con le allucinazioni (Grant e Beck, 2008a). Queste scoperte mostrano che l'ipersa- lienza delle convinzioni deliranti sommerge il debole esame di realtà, o che l'attenuato esame di realtà permette alle credenze di ottenere gradi accresciuti di convinzione. I sintomi negativi, dall'altro lato, sembrano essere basati su atteggiamenti fallimentari causati da esperienze negative, che derivano dall'impatto deleterio del deficit cognitivo sulla performance sociale e accademica (Grant e Beck, in corso di stampa).
L'insufficienza cognitiva, ovviamente, varia nel tempo ed è frequentemente migliorata, o compensata, dalla farmacoterapia, che riduce il carico cognitivo prodotto dai deliri e dalle allucinazioni. Gli individui predisposti alla schizofrenia spesso tentano di compensare i loro deficit; ad esempio, si proteggono dalle situazioni stressanti attraverso l'isolamento sociale (ad esempio, Lencz et al., 2004). Cionondimeno, le situazioni stressanti o le sostanze neurotossiche come i cannabinoidi possono, direttamente o indirettamente, diminuire le risorse cognitive accessibili e portare a una decompensazione cognitiva e alla ricomparsa dei sintomi.
Integrando le scoperte di ricerca degli individui schizotipici, quelli ad alto rischio di schizofrenia, le famiglie degli individui schizotipici e i pazienti con schizofrenia possono fornire una descrizione dei percorsi (o 'episodi') che portano ad almeno un sottotipo di schizofrenia. Il percorso descritto nella ricerca sui pazienti e le loro famiglie indica una predisposizione innata a sviluppare schizotipia positiva e negativa. Le scoperte su un impercettibile deficit cognitivo e sulla disorganizzazione subclinica nei membri della famiglia, così come negli individui con manifesta schizotipia, suggeriscono che queste caratteristiche cliniche hanno una base genetica. L'attrazione verso idee paranormali (ad esempio, lettura del pensiero, pensieri invadenti) riscontrata nei parenti dei pazienti con schizofrenia si riflette nei pazienti, che non solo credono nei fenomeni paranormali, ma li sperimentano realmente. Questo sottotipo schizotipico è caratterizzato meglio in termini di sintomi schneideraini di primo rango (Schneider, 1959).
L'altro percorso è la graduale riduzione delle risorse cognitive dovuta ai cambiamenti maturazionali (ad esempio, pruning delle connessioni in adolescenza), all'impatto dello stress nell'infanzia e nell'adolescenza (Read et al., 2001), e alla derivante "cascata neurochimica" (Corcoran et al., 2003;-
Il primo percorso può spiegare le idee bizzarre e il ritiro, e il secondo le difficoltà nel sottoporle all'esame di realtà.
Studi recenti di terapia cognitiva aggiuntiva al trattamento della schizofrenia indicano che è possibile migliorare i maggiori sintomi attivando 'le più alte funzioni cognitive' dei pazienti, quali distanziarsi dalle interpretazioni disfunzionali, valutare le prove ed esplorare spiegazioni alternative: sono tutte componenti essenziali dell'"insight cognitivo" (Beck e Warman, 2004). Granholm et al. (2005), ad esempio, hanno rilevato che l'insight cognitivo migliorava nei pazienti che ricevevano terapia cognitiva, ma non in coloro che ricevevano il 'solito trattamento'. Lo stesso tipo di tecniche introspettive è anche utile nell'identificare e modificare le convinzioni disfunzionali sottostanti. L'efficacia della terapia cognitiva nel migliorare le funzioni di più alto livello è di particolare interesse, perché sembra essere incoerente con la nozione che le convinzioni patogene sono rigide a causa delle loro basi neurali. Noi riteniamo che la terapia cognitiva attinga alla riserva cognitiva dei pazienti (Stern, 2002), attivando strutture cerebrali alternative o reti che, di solito, non sono impegnate. Landa (2006) e D. A. Silbersweig (comunicazione personale, 26 maggio 2006) hanno prove preliminari secondo cui la terapia cognitiva riduce la reattività dell'amigdala nei pazienti con schizofrenia paranoica cronica.
In conclusione, la schizofrenia può essere vista come un risultato dell'interazione ciclica tra una ridotta capacità di elaborazione, un'indebolita capacità integrativa neurale, eventi ambientali stressanti e conseguenti convinzioni e interpretazioni disfunzionali. Sebbene la terapia cognitiva possa non incidere sulla diatesi neurofisiologica di base (vulnerabilità) implicata nella schizofrenia, può modificare le convinzioni disfunzionali che ne derivano, proteggendo in tal modo dallo stress, dall'associata cascata fisiologica di effetti tossici e dalle esacerbazioni dei deficit neurocognitivi. I trattamenti psicoterapeutici, così come quelli farmacologici, possono diminuire gli schemi cognitivi iperattivi e rendere così disponibili le risorse per un ulteriore esame di realtà (compensazione cognitiva). L'osservazione che i pazienti possono essere allenati a modificare le convinzioni erronee che contribuiscono e aggravano i deliri, le allucinazioni e i sintomi negativi, suggerisce che la terapia è in grado di ridurre il carico cognitivo imposto dai sintomi deliranti e, di conseguenza, rende disponibili le risorse cognitive per affrontare ulteriormente i vari sintomi. La terapia cognitiva può anche ridurre il livello di attivazione e, quindi, indirettamente, rendere disponibili le risorse cognitive.
Molte proposizioni teoriche in questo libro sono facilmente dimostrabili. E già stato fatto qualche progresso nell'identificare certi core belief associato ai deliri di persecuzione (Fowler et al., 2006), alle allucinazioni e ai sintomi negativi (Grant e Beck, in corso di stampa). Uno studio potrebbe, ad esempio, esaminare la continuità dei core belief, durante la fase prodromi- ca e dopo la transizione in psicosi. Un altro studio potrebbe analizzare la relazione tra il contenuto dei pensieri automatici dei pazienti e le allucinazioni. Infine, gli studi di imaging cerebrale potrebbero mettere a confronto i cambiamenti relativamente alla combinazione di terapia cognitiva e farmacoterapia, e relativamente alla sola terapia cognitiva o farmacoterapia.
Inoltre, può essere valutata l'interazione tra risorse attenuate, indebolita capacità integrativa, atteggiamenti e valutazioni disfunzionali ed eventi di vita salienti nello sviluppo e nel mantenimento delle sfere dei maggiori sintomi, nella schizofrenia. Se la terapia cognitiva può rendere disponibili risorse latenti, il funzionamento di risorse aggiuntive dovrebbe essere evidente nel miglioramento che si riscontra sia nei test che misurano la capacità cognitiva, sia nella valutazione dell'abilità integrativa, come quelle che coinvolgono l'elaborazione del contesto o gli indici ìmri di connettività funzionale (Foucher et al., 2005; Zhou et al., 2007b; Liang et al., 2006). Nell'insieme, l'azione combinata di ricerca neuropatologica e psicologica, così come le osservazioni cliniche dei pazienti con schizofrenia, dovrebbero non solo migliorare la comprensione di questo complesso disturbo, ma fornire nuove e più efficaci modalità di trattamento.