L'AIFA, la potente Associazione di famiglie di bambini affetti da ADHD, ce l'ha fatta. Ai primi di marzo, l'Agenzia Italiana del Farmaco, presieduta da un ex dirigente di Farmindustria - la lobby delle multinazionali farmaceutiche -, ha deciso in via definitiva a favore della reimmissione in Italia del Ritalin (metilfenidato) e dello Strattera (atomoxetina) per il trattamento dei disturbi di comportamento infantili caratterizzati da deficit di attenzione e iperattività.
Per quanto sicuramente rispondente agli interessi delle case farmaceutiche, la decisione era nell'aria e, nonostante la ferma opposizione di alcuni movimenti (tra cui Giù le Mani dai Bambini), in qualche misura "fatale". Non avendo i bambini alcun potere decisionale, la cura dei loro disturbi è affidata ai familiari e ai medici. L'AIFA si è fatta, in questi anni, portavoce delle famiglie di bambini affetti da ADHD, e ha raccolto un consenso maggioritario. I medici, di fronte alla continua richiesta dei genitori di una "cura" per i loro figli ingovernabili, hanno lentamente adottato il protocollo terapeutico messo a punto negli Stati Uniti. Le industrie farmaceutiche, che hanno di sicuro sponsorizzato l'AIFA, non hanno avuto difficoltà a operare pressione sui politici per convincerli della necessità di un provvedimento "umanitaristico". Ci deve pure essere - è stato il leit-motiv della propaganda - una risposta alla sofferenza dei piccoli e delle loro famiglie.
La decisione dell'Agenzia Italiana del farmaco è stata presa anche sull'onda di dati statistici i quali attestano che l'ADHD, disturbo identificato come neuropsichiatrico e trattato con farmaci per alcuni anni solo negli Stati Uniti, se colà è in crescita esponenziale, si sta diffondendo come un'epidemia anche fuori dei confini del Nuovo Mondo. Francia, Svezia, Corea e Giappone sono i Paesi in cui si registra un più netto aumento dei casi. Dal 1993 al 2003 le diagnosi di ADHD e le prescrizioni dei farmaci si sono triplicate.
In nessun paese del mondo i casi di ADHD raggiungono le percentuali inquietanti degli Stati Uniti (5-8% della popolazione infantile). La crescita delle diagnosi in altri paesi ha contribuito, però, a togliere alla sindrome l'etichetta di un disturbo associato alla società e allo stile di vita a stelle e strisce e a convalidare il concetto per cui si tratta di una malattia vera e propria: una malattia che sta diventando, per le industrie farmaceutiche, un'altra gallina dalle uova d'oro, dato che si calcola in 2-3 miliardi di dollari il giro di affari che attualmente la riguardano.
Penso che, nell'immediato, non ci sia molto da fare contro questo trend, che s'iscrive nell'ambito di una civiltà - quella industriale o postindustriale - la quale, in maniera sempre più marcata, rifiuta l'analisi dei problemi che il suo sviluppo produce (tra i quali l'aumento continuo del disagio psichico) e li affronta su di una base pragmatica. In rapporto all'ADHD, come peraltro avviene per i disturbi psichici negli adulti, il problema si riduce alla sintomatologia e al modo più immediato ed efficace per contenerla o debellarla: il farmaco.
é senz'altro vero che, date le ancora precarie conoscenze sul funzionamento cerebrale e sui nessi tra soggettività e ambiente, l'analisi dei disturbi del comportamento o di quelli psichici si confronta con una complessità che non facilmente può portare a formule di soluzione immediatamente efficaci, come pure che le linee di soluzione che derivano da tale analisi sembrano richiedere piuttosto una nuova programmazione sociale riferita all'allevamento dei bambini e agli stili di vita degli adulti: un obbiettivo, insomma, che comporta una rivoluzione culturale e una riorganizzazione pressoché completa della struttura sociale.
Ciò non di meno, l'accettazione dello stato di cose esistente, compreso l'uso sintomatico degli psicofarmaci, non può prescindere dalla necessità di portare avanti un'analisi critica della realtà umana.
Tale necessità è ribadita dal fatto che, come è già accaduto nell'ambito della psichiatria per gli adulti, la neuropsichiatria infantile tenta di giustificare l'assunzione dell'ADHD come malattia vera e propria sulla base di ricerche (sponsorizzate) che giungono univocamente alla conclusione che i fattori ambientali sono collaterali alla genesi dei sintomi, che va ricondotta ad una disfunzione genetica della struttura e del funzionamento del cervello.
é superfluo aggiungere che tali ricerche adottano e utilizzano ampiamente l'ideologia adattiva, secondo la quale se in un determinato contesto sociale e culturale alcuni soggetti manifestano dei disturbi, mentre la maggioranza sembra in una certa misura sviluppare moduli di comportamento adattivi, ciò significa tout-court che l'ambiente non è patogeno. I soggetti disadattivi sono, dunque, disfunzionali o malati.
Parto da questo aspetto per proporre un'analisi del problema che ne rispetti e valorizzi la complessità.
2.
I bambini che manifestano disturbi del comportamento che rientrano nell'ambito dell'ADHD e diventano di conseguenza invadenti, intrattabili, incoercibili, incorreggibili, ecc., sono in grande maggioranza - come riconoscono i genitori e gli insegnanti - esseri dotati di capacità intellettive superiori alla media. Sono insomma bambini estremamente "svegli", le cui capacità intuitive sembrano attestare spesso anche un'emozionalità molto ricca.
Se li si vede in azione, appaiono quasi stupidi, in conseguenza del deficit di attenzione, e "selvaggi", vale a dire assolutamente incapaci di valutare le conseguenza della loro iperattività a carico degli altri o, addirittura, intenzionati a comprometterne l'equilibrio: a provocarli e a farli arrabbiare.
Sono, dunque, bambini in genere iperdotati e, ciò nonostante, disturbati. Come spiegare questa contraddizione?
Prima di tentare di fornire una risposta, occore aprire una parentesi. In un articolo pubblicato su Internet da un docente, è scritto: "Di queste "malattie", "deficit di attenzione" (ADD) e/o "iperattività/impulsività" (ADHD) secondo psichiatri e neuropsichiatri avrebbero sofferto fra gli altri lo scrittore di favole più famoso del mondo Hans Christian Anderson, l'autore di "Alice nel paese delle meraviglie" Lewis Carroll, tre dei più grandi musicisti di tutti i tempi Ludwig Van Beethoven, Amadeus Mozart e Sergei Rachmaninoff, i grandi pittori spagnoli Salvador Dalì e Pablo Picasso, Leonardo da Vinci e Galileo Galilei, il fondatore della fisica classica Issac Newton, lo scopritore delle leggi dell'elettromagnetismo classico James Clerk Maxwell, il genio della fisica teorica e premio Nobel Stephen Hawkins, l'imperatore di Francia Napoleone Bonaparte, il presidente degli USA John F. Kennedy, il cantante e chitarrista dei Nirvana Kurt Cobain (drogato con Ritalin perché "ipercreativo e ribelle "). Malati o geniali?".
Penso che la lista sia approssimativa e anche discutibile, ma non priva di fondamento. Se dovessi aggiungere ad essa una personalità la cui biografia conosco abbastanza bene per permettermi una diagnosi aggiungere C. Darwin, bambino e adolescente poco incline a dedicarsi allo studio, incoercibile nella sua passione di stare all'aria aperta e di osservare con passione rocce, piante, animali, oppositivo nei confronti della volontà del padre che voleva avviarlo verso la carriera ecclesiastica, tanto indocile da scegliere alla fine quello che all'epoca era il rimedio per le anime irrequiete: darsi alla vita del mare. Trovata la sua via, la passione per la scienza, Darwin si è trasformato in un'implacabile "macchina" da lavoro intellettuale.
E' ovvio che non tutti i bambini che manifestano i disturbi dell'ADHD sono geni. E' fuor di dubbio però che molti di essi sono iperdotati.
Prescindendo da una malattia neurologica fatalmente associata ad un'iperdotazione, c'è da chiedersi se i loro comportamenti non siano una viscerale e inconsapevole forma di protesta contro uno stato esistente di cose incompatibile con le loro doti, con le loro potenzialità di sviluppo e con la loro vocazione ad essere.
Per rispondere al quesito, riprendo alcune considerazione che ho fatto in Sei Introverso e negli articoli scritti per la LIDI sui corredi genetici individuali.
Insistere a pensare che vengano al mondo esseri umani diversi tra loro per intelligenza e sensibilità la cui normalità è attestata solo dal fatto di riuscire a canalizzare le loro potenzialità entro il modello normativo proposto dalle famiglie, dagli insegnanti e dall'Istituzione scolastica è un errore ideologico, che può appoggiarsi solo su di una prova: quella appunto per cui la maggioranza dei bambini (bene o male) sviluppa un adattamento al modello.
In realtà, una riflessione sui corredi genetici porta a pensare che la Natura provveda a produrre, in tutte le società, almeno due categorie di soggetti che hanno difficoltà adattive: gli introversi, che sono quasi tutti iperdotati, e una quota di estroversi. La percentuale di introversi rispetto alla popolazione oscilla intorno al 5-7%. Quella di estroversi iperdotati probabilmente (non essendo stata presa in considerazione - che io sappia - da nessuno) dovrebbe essere pari o di poco inferiore.
Avanzo l'ipotesi che i bambini affetti da ADHD appartengano in grande maggioranza ad una di queste due categorie.
Si tratta di un'ipotesi che, però, è destinata a rimanere sterile se non si riesce a capire perché l'iperdotazione - sia essa introversa o estroversa - si trasforma in un disadattamento all'ambiente e infine in un comportamento manifestamente disturbato.
3.
Prima di tentare di formulare un'ipotesi neurobiologica a riguardo, mi preme fare una considerazione di ordine generale.
Nessuna analisi della condizione umana - normale o patologica che sia - può prescindere dal fatto che l'uomo è un prodotto. A differenza di Marx, che riferiva questo termine all'influenza dell'ambiente sociale su di una natura umana generica, quindi modellabile a piacere, oggi occorre dire che l'uomo è il prodotto dell'interazione di tre fattori: il corredo genetico individuale, unico e irripetibile, anche se caratterizzato da alcune potenzialità comuni a tutta la specie; le influenze ambientali, riconducibili alle risorse - affettive, economiche e culturali - che gli educatori devono investire nel processo dell'allevamento, e che si traducono in un "lavoro" orientato a promuovere la maturazione di una personalità adulta; e il modo psicologico con cui il soggetto interagisce con l'ambiente e utilizza le opportunità di sviluppo che gli vengono offerte.
Nessuno oggi è in grado di quantificare il peso di questi fattori. é evidente, però, che, se tutti e tre sono importanti, il secondo ha un rilievo particolare, dato che, in difetto di un investimento di risorse, non si dà lo sviluppo di un essere umano né l'acquisizione dell'autoconsapevolezza.
Il "lavoro" effettuato dagli educatori si riconduce a circostanze soggettive, economiche e culturali estremamente eterogenee, ma è accomunato da un obbiettivo univoco. Gli educatori sono agenti sociali cui è affidata dalla collettività la produzione di un cittadino, vale a dire di un soggetto capace di inserirsi, di interagire e di definire i suoi ruoli all'interno di un determinato contesto socio-culturale. Ciò non significa che essi costruiscano cittadini in serie, ma che, semplicemente, pur tentando di rispettare le caratteristiche individuali, non possono prescindere da un modello normativo né dal pensare che esso abbia un significato assoluto.
Il problema è che tale modello, il cui intento è la produzione di un cittadino medio, si rivolge appunto al bambino assumendolo come predisposto a realizzare quell'intento.
Ora è senz'altro vero che la maggioranza dei bambini vengono al mondo con un corredo genetico che comporta potenzialità - emozionali e intellettive - che rientrano in un range medio. La natura, però, produce anche bambini - introversi ed estroversi - che hanno potenzialità superiori alla media. Applicato a questa fascia di bambini, il modello normativo cui ho fatto cenno è e non può essere che disfunzionale.
Un'obiezione che può essere anticipata è che le istituzioni educative, soprattutto la scuola, non possono prescindere dal fare riferimento al cittadino medio, dato che l'uguaglianza tra gli esseri umani è la matrice stessa da cui sono sorte: matrice che ne ha promosso l'estensione a tutta la popolazione.
Nulla, dunque, sulla carta, vieterebbe ai bambini iperdotati (posto che siano essi predisposti a sviluppare l'ADHD) di seguire un tragitto comune e poi, giunti ad una certa età, di differenziarsi dagli altri secondo la loro personale vocazione ad essere.
Il problema è che l'iperdotazione non è di ordine quantitativo, vale a dire non implica solo l'essere più intelligente o più ricco di emozioni rispetto alla media, bensì di ordine qualitativo. Essa comporta tempi e modi di sviluppo diversi rispetto alla media.
Faccio un solo esempio a riguardo. L'istituzionalizzazione precoce dei bambini, quella che Ph. Ariès ha definito il "grande internamento", è ormai una pratica consueta che corrisponde ai cambiamenti intervenuti nell'organizzazione della famiglia - la nuclearizzazione e la frequente necessità della donna di svolgere un'attività lavorativa. Per velare il fatto che di una violenza si tratta, è stata prodotta un'ideologia che assegna al bambino un bisogno di socializzazione precoce che l'istituzionalizzazione varrebbe a soddisfare. Tale bisogno esiste realmente: i bambini, nella storia dell'umanità, sono vissuti sempre in gruppo. L'istituzionalizzazione, però, risponde a tale bisogno con una scansione temporale, un affollamento e, inesorabilmente, regole di convivenza che non rispondono affatto ai bisogni infantili.
E' una realtà, che gran parte dei bambini si adattano - bene o male - alle istituzioni asilari e materne. Alcuni di essi, però, soffrono particolarmente del ritrovarsi chiusi dentro gli spazi asilari per molte ore: gli introversi, perché non sopportano l'affollamento, il rumore e gli scambi fisici; gli estroversi perché non tollerano le restrizioni e le regole "imposte".
L'istituzionalizzazione precoce, a cui segue quella scolastica, è solo un esempio di una pratica educativa ispirata ad un modello normativo. Essa pretende che, essendo destinati da grandi a svolgere un lavoro che, in molti casi, richiede la cpacità di stare chiusi in ambienti impiegatizi, commerciali o professionali per molte ore al giorno, che i bambini diano prova precocemente della loro predisposizione a diventare "cittadini".
Tutta la pratica educativa, però, è sottesa dal modello in questione.
Sarebbe ingenuo, poi, ignorare che i valori positivi di tale modello, riconducibili alle qualità che consentono l'inserimento sociale, sono ulteriormente minati dal fatto che la normalità cui essi fanno ossessivamente riferimento coincide sotterraneamente con due fantasmi che la minacciano: la devianza mentale e la devianza sociale. Gli educatori, anche senza rendersene conto, si rapportano ai bambini alla luce di questi fantasmi, ne esplorano e ne valutano i comportamenti con un occhio che per un verso è psichiatrico e per aun altro legalitario o giudiziario.
E' evidente che quest'ansia normativa non può non incidere sullo sviluppo degli introversi e degli estroversi iperdotati, i cui comportamenti, se si realizzano sulla base della loro vocazione ad essere, sono di fatto per alcuni aspetti "strani" o inquietanti.
4.
Ciò detto, penso che sia possibile formulare un'ipotesi neurobiologica sui disturbi che si fanno rientrare nell'ADHD e sull'effetto dei farmaci.
Occorre partire da un'esperienza che ogni essere umano si è trovato a fare in qualche momento della vita. Poniamo conto che un soggetto assista ad uno spettacolo poco interessante o partecipi ad una situazione sociale noiosa. Per quanto le reazioni individuali possano essere diverse, la più comune è la distrazione e un'irrequietezza motoria, che può essere provata a livello di arti inferiori o superiori, che esprimono allo stesso tempo il desiderio di sottrarsi ad un ambiene complessivamente frustrante.
Qual è il meccanismo neuorfisiologico che determina tali sintomi? Probabilmente occorre fare riferimento a due componenti: una legata al sistema della vigilanza, la cui attivazione coincide con l'attenzione, che implica una produzione di dopamina; l'altra, legata al sistema del piacere e del dolore, la cui attivazione può produrre interesse o noia, che implica un intreccio tra sistema dopaminico e sistema endorfinico.
E' lecito presumere che nei bambini che manifestano disturbi da ADHD i sintomi suddetti, sperimentati occasionalmente da soggetti normali, siano esasperati dall'interazione cronica con un ambiene complessivamente noioso o demotivante. Questo significa che alcuni bambini iperdotati né in famiflia né a scuola trovano modo di canalizzare adeguatamente le loro potenzialità, che evidentemente sono in maniera particolarmente intensa subordinate ad una logica motivazionale, tale per cui il soggetto può rimanere attento e interessarsi di qualcosa solo se sperimenta piacere.
La disfunzione in questione investirebbe dunque i sistemi dopaminergici e quelli endorfinici, che non riuscirebbero ad armonizzarsi. In pratica il sistema dopaminergico rimarrebbe in uno stato di attivazione, mentre quello endorfinico si disattiverebbe. Un meccanismo del genere basta a spiegare la disponibilità di un'energia che, non trovando i canali giusti per scorrere, disordina il comportamento, traducendosi in disattenzione e irrequietezza motoria.
Se questo è vero, l'effetto dei farmaci potrebbe essere spiegato. Il Ritalin è un eccitante del sistema nervoso che ha effetto calmante sulla sfera emotiva e comportamentale. La sua somministrazione consentirebbe all'energia fluttuante di scorrere in canali, però, che aumentano l'efficienza del soggetto, ma, attraverso l'effetto calmante sulla sfera motivazionale, disattivano le esigenze soggettive di provare piacere nel fare le cose.
I farmaci dunque renderebbero i bambini efficienti, almeno in una certa misura, ma frustrando la logica motivazionale che fa parte del loro corredo iperdotato.
In breve, i bambini iperdotati, in virtù dei farmaci, si normalizzano: riescono a fare le cose che fanno gli altri, ma rinunciando a provare piacere.
Perché l'effetto sintomatico può esser ritenuto utile ma anche potenzialmente pericoloso? L'utilità consiste nel fatto che la riorganizzazione del comportamento allenta, se non addirittura pone fine ad un perpetuo conflitto con l'ambiente, e consente al bambino di maturare sotto il profilo cognitivo. Questa maturazione può poi portarlo, via via che cresce, ad imboccare canali di sviluppo che danno spazio alla logica motivazionale.
Il pericolo è, però, che questa logica, intrinseca ad ogni corredo iperdotato, rimanga bloccata.
Come è possibile valutare tale pericolo? Tenendo conto, ovviamente, della carriera di vita dei bambini affetti da ADHD trattati con farmaci. Nonostante lo sforzo delle industrie farmaceutiche di investire imponenti cifre di denaro orientate a minimizzare gli effetti dei farmaci e a sopravvalutare i risultati, le statistiche inerenti la carriera di vita dei soggetti trattati non sono affatto confortanti. L'iperattività persiste in un numero rilevante di soggetti e si traduce spesso in comportamenti appetitivi di droghe, aggressivi e antisociali. Una quota di soggetti sviluppa anche una sintomatologia psichiatrica franca nell'ambito del cosiddetto disturbo bipolare o della cosiddetta schizofrenia.
C'è da presumere, dunque, che anche l'ADHD sia un'etichetta sovrapposta ad un problema reale che viene però male interpretato e mal gestito. Il richiamo della neuropsichiatria infantile alla necessità di associare al trattamento farmacologico un intervento multidimensionale, che incida anche sull'ambiente e sulla personalità dei bambini affetti da ADHD, per quanto intervenga, com'è consueto in ambito psichiatrico, dopo aver definito l'uso del farmaco come asse centrale del trattamento stesso è il solito escamotage per non riconoscere che le etichette nosografiche fuorviano la comprensione e la speigazione scientifica dei disturbi psicopatologici. Dire che in ogni disturbo c'è una componente genetica, una ambientale e una psicologica non è una spiegazione, ma una formula buona a tutti gli usi.