Pacifismo utopistico e realismo politico

1.

Mancano pochi giorni alla scadenza dell'ultimatum posto dagli Stati Uniti all'Iraq. Nell'attesa di un evento destinato, forse, ad incidere sul mondo e sui rapporti tra i paesi occidentali più di quanto si possa pensare, non è inopportuno riflettere sul dibattito tra pacifisti e fautori della guerra che va avanti ormai da qualche mese.

Il campo dei fautori è eterogeneo. Ad un estremo si danno persone che, ancora oggi, ritengono la guerra la levatrice della storia. Il presidente Bush e alcuni membri del suo staff rientrano in questa categoria. La loro tesi è che la guerra contro l'Iraq, e in futuro contro altri Stati-canaglia, non è solo necessaria, ma ha addirittura un fine umanitario. Essa, infatti, è destinata, nello stesso tempo, a debellare la pericolosità di un regime che punta alla produzione e all'uso di strumenti di distruzione di massa e a restituire al popolo iracheno la libertà e la dignità soffocate da un brutale dittatore.

All'estremo opposto, si danno persone che non negano che la guerra, con il suo inevitabile carico di vittime innocenti, sia un male da scongiurare. Essi però ritengono che, in alcune circostanze storiche, quale quell'attuale, essa sia dolorosamente inevitabile e necessaria: in breve, un male minore.

Comune al fronte dei fautori della guerra è il principio del realismo politico, vale a dire la necessità di affrontare i problemi storici nella loro oggettività, prescindendo da valori astratti e utopistici. Tale principio implica che, laddove si configura un pericolo, è inutile disquisire sulla sua genesi o minimizzarlo. Occorre intervenire chirurgicamente per estirpare il male ed evitarne la diffusione.

Due luoghi comuni sono ricorrenti nelle argomentazioni dei fautori della guerra. Il primo, di maniera, consiste nello specificare che essi sono contro la guerra, nel senso che non la amano né la ritengono positiva in sé e per sé, ma solo necessaria com'extrema ratio. L'extrema ratio è la guerra definita difensiva, giusta o preventiva. E' inutile far presente loro che si tratta di giudizi di valore o di punti di vista. Se si tenta di farlo, ci si ritrova di fronte al luogo comune per eccellenza, l'argomento retorico che taglia la testa al toro. Chi può dubitare del fatto che la guerra al nazismo è stata giusta e che, se l'Europa non fosse stata neghittosa, una guerra preventiva al nazismo nascente avrebbe evitato la tragedia del conflitto mondiale?

Debellare quest'argomentazione non è difficile. L'ascesa di Hitler e il consenso entusiastico del popolo tedesco al suo operato si sarebbero potuti evitare se, dopo la prima guerra mondiale, non fossero state imposte alla Germania condizioni tali per cui i tedeschi avrebbero dovuto lavorare per alcune generazioni unicamente per pagare le riparazioni agli stati vincitori, e se non si fosse proceduto alla definizione di confini territoriali dell'ex-impero austro-ungarico che subordinava quote rilevanti di tedeschi al dominio dei polacchi e degli ungheresi.

Prevenire - si sa - è meglio che curare. Ma se la prevenzione politica fallisce, com'evitare il ricorso alle armi? In un mondo globalizzato, gli strumenti d'intervento sono molteplici. Il primo essenziale sarebbe quello di porre sotto controllo il traffico delle armi, la cui produzione è massima nei paesi occidentali. Il secondo, come insegnano sia le vicende di Bin Laden che di Saddam Hussein, sarebbe quello di non armare potenziali nemici futuri per sconfiggere quelli attuali. Il terzo è la diplomazia e il consenso dell'opinione pubblica. Nell'era mediatica, la possibilità di tenere puntati i riflettori su di una zona del mondo, promuovendo la desistenza delle parti in conflitto esiste, anche se essa richiede un impegno dei pacifisti a tutto campo e non solo in funzione antiamericana.

Il realismo politico implica il ricorso alla guerra come soluzione dei fallimenti della politica. Ma, date le circostanze attuali, tale soluzione può rivelarsi un rimedio peggiore del male.

2.

Il pacifismo continua ad essere deriso come un orientamento ideologico di anime belle, che non vogliono fare i conti con la realtà. Questa critica non è priva di fondamento. Il pacifismo cristiano, di fatto, quali che siano i suoi meriti, è un pacifismo ideologico, che richiama gli uomini a riconoscere d'essere tutti accomunati dalla fratellanza in Cristo. Si tratta di un messaggio di altissimo significato morale, ma la cui incidenza non può che essere scarsa nei tre quarti del mondo che non è cristiana. Il pacifismo laico, d'altra parte, in passato per più aspetti è consistito nel rifiuto di principio della politica di potenza. Rifiuto di grande valore morale esso stesso, ma astratto nel momento in cui quella politica si configura come una realtà.

Il pacifismo laico oggi però può assumere una nuova configurazione. Esso può passare dal registro dell'utopia a quello di un'analisi precorritrice del futuro.

Le stesse argomentazioni addotte da Colin Powell nel corso del suo intervento all'ONU depongono a favore di questa possibilità. Nel momento in cui egli mostrando una fialetta di antrace, ha fatto presente che con essa sola si potrebbe arrecare un danno grave ad un'intera popolazione, egli ha fornito senza volerlo un avallo al pacifismo moderno.

Con l'invenzione delle armi chimiche e batteriologiche di distruzione di massa, l'umanità ha fatto un salto di qualità, in negativo, che non comporta altra alternativa che l'abbandono della guerra come soluzione dei fallimenti della politica. Nella misura in cui, infatti, la guerra non si pone più solo sul terreno del confronto tra eserciti, ma può essere portata avanti terroristicamente con effetti micidiali da gruppi, movimenti e addirittura singoli individui, essa non rimedia più a nulla, anzi può incancrenire le motivazioni e la determinazione dei terroristi.

E' di certo un paradosso che la stessa tecnologia che ha promosso la costruzione di armi sempre più micidiali, sia ora giunta a produrne alcune, molto meno ingombranti di carri armati, missili e portaerei, che richiederanno necessariamente di procedere non verso uno Stato mondiale di polizia, con poche nazioni autorizzate a possederle, ma verso una comunità mondiale affrancata definitivamente dalla guerra e dalla logica della guerra, che, affidando alla forza la distribuzione della ragione e del torto, ha poco a che vedere con la giustizia e tanto meno con la democrazia.

Il pacifismo, non inteso come rifiuto di questa o quella guerra, bensì come superamento della logica della guerra e della produzione di armi, si può ritenere un passaggio obbligato dell'umanità o, se si vuole, la guarigione da una lunga "malattia".

La prospettiva utopistica del pacifismo si pone oggi, insomma, nei termini di una possibilità storica per quanto remota.

3.

Definire come malattia un fenomeno come quello della guerra che ha segnato profondamente la storia umana, e ha conosciuto i momenti più tragici non in un remoto passato bensì nel corso del secolo scorso, può apparire ideologico. In nome di cosa negare che tale fenomeno attesta l'esistenza di un'aggressività umana innata, che può essere orientata da motivazioni le più disparate, dal semplice esercizio della legge del più forte alla difesa degli interessi legittimi minacciati dal nemico e, infine, alla prevenzione di un male peggiore?

Intanto la guerra non è un fenomeno naturale, ma culturale. Tra gli animali non umani la guerra, come scontro tra gruppi opposti, non esiste, mentre esiste il conflitto come confronto, eccezionalmente morale, tra singoli individui. Quando tale confronto avviene all'interno della stessa specie, esso poi è regolato, nella massima parte dei casi, da meccanismi innati di inibizione che impediscono la soppressione del rivale. Nell'uomo tali meccanismi non sono venuti del tutto meno. Essi residuano sotto forma di sensibilità, vale a dire come capacità di identificarsi nell'altro come simile, che esclude la possibilità di sopprimerlo. Ma l'efficacia della sensibilità dipende: primo, dal fatto che essa sia coltivata; secondo, dal contatto diretto, interpersonale con l'altro; terzo, dall'assenza di condizionamenti culturali che promuovono la rimozione della sensibilità e l'estraneazione dell'altro, vale a dire la sua identificazione come nemico o addirittura una "cosa" che non merita alcun rispetto.

La verità di questi assunti può essere facilmente ricavata da uno dei topoi più ricorrenti nella storia del cinema. C'è un individuo che minaccia sadicamente di morte un altro. Costui si difende, riesce a prevalere e si trova nella condizione di potere uccidere l'altro. Quest'ultimo perde la sua tracotanza, si appella all'umanità dell'avversario e, per pietà, chiede che gli sia risparmiata la vita. Una riflessione su questo topos potrebbe servire a capire la natura umana, nelle sue contraddizioni, riconducibili allo scarto tra natura e cultura, più di tanti sterili dibattiti sull'aggressività umana.

La guerra si fonda, dunque, sull'estraneazione dell'altro, dovuta ad un difetto di rapporto interpersonale e alla cultura che misconosce la comune appartenenza alla specie umana e, al limite, può giungere alla demonizzazione dell'altro.

I motivi per cui ciò è potuto accadere sono noti. Il processo di diffusione della specie umana sul pianeta ha creato nicchie ambientali e culturali che hanno modificato i caratteri somatici dei gruppi (circostanza, questa, che ha rappresentato il presupposto del razzismo) e hanno determinato la produzione di culture etnocentriche, le cui capacità di comunicazione reciproca sono progressivamente diminuite. E' su questo sfondo che si sono definite originariamente le guerre tribali ed etniche, che successivamente si sono avvalse anche di elementi inerenti le diverse religioni. La definizione degli Stati non ha fatto che peggiorare le cose, sovrapponendo agli odi interetnici l'ambizione di potere dei governanti e gli interessi particolari.

Non è certo per caso che la massima drammaticità del fenomeno della guerra è da ricondursi alla nascita del servizio di leva, al nazionalismo, al patriottismo alimentato ad arte, e alle difficoltà di comunicazione tra i diversi gruppi linguistici.

Ricondurre la guerra all'aggressività umana è un non senso. Il soldato inviato in guerra, tranne che non sia stato addottrinato, non ha alcun particolare motivo di conflitto con coloro che dovrà affrontare sulla base del principio vita mea mors tua. Egli obbedisce agli ordini, fa il suo dovere, al limite sente l'urgenza soggettiva di difendere la sua patria.

La guerra come fenomeno culturale implica che, nonostante la sensibilità, la specie umana è dotata di una libertà di scelta comportamentale che, tra l'altro, implica anche la possibilità di sopprimere il simile. Ma questa, che pure si è realizzata, non è una necessità iscritta nel suo corredo genetico: è solo uno dei tanti aspetti che definiscono la libertà umana come una dimensione che, per essere indefinita, va canalizzata culturalmente. La canalizzazione nella guerra, pur essendo di antica data, definisce uno scacco dell'umanità: una "malattia" culturale, appunto, che permette di assegnare sinora all'uomo il tragico trofeo della specie animale peggiore che abbia finora prodotto l'evoluzione culturale.

4.

Sulla base di queste considerazioni, la possibilità di un cambiamento culturale radicale su scala mondiale che ponga fine alla guerra e alla logica della guerra non si può ritenere astratta. Per procedere in questa direzione occorrerebbe, però, una programmazione su scala mondiale di grossa portata. Si tratterebbe anzitutto di riconoscere il problema, e sancire che la guerra, in qualunque sua forma, è un male che attesta l'arretratezza culturale dell'umanità. In secondo luogo, occorrerebbe, sulla base del principio per cui non si possono dare conflitti tra gruppi, etnie, stati che non abbiano altra soluzione che non sia il conflitto armato, intervenire localmente per trovare le soluzioni pacifiche possibili. Sarebbe infine necessario distogliere risorse dall'investimento in armi e impiegarle a fini sociali, sterilizzando, almeno in parte, le ragioni di una rabbia che ormai pervade l'intero pianeta. Da ultimo, sarebbe importante capire che, se la globalizzazione comunicativa comporta una prospettiva di un cambiamento culturale radicale nella storia dell'umanità, ciò significa riconoscere che ogni cultura ha i suoi valori e i suoi difetti e muovere verso il riconoscimento della necessità di una cultura globale integrata, che rispetti le diversità dei gruppi ma ne sterilizzi gli aspetti che determinano l'etnocentrismo e l'estraneazione dell'altro.

Un progetto del genere, che consegnerebbe perennemente alla storia coloro che se ne facessero carico, non sembra avere attualmente alcuna concreta possibilità di realizzazione. La nazione più potente del mondo sta procedendo sulla via di una pax assicurata dalle armi e dalla potenza economico-militare che non sembra potere assicurare alcuna stabilità ad un mondo inquieto e in fermento. L'utopia del pacifismo, però, per le ragioni cui ho accennato, non sembra più vincolata all'opposizione ad una guerra, bensì si orienta verso il riproporre il superamento della guerra e della sua logica come fine della preistoria dell'umanità.

Molti studenti sono disaffezionati alla storia che viene ancora ammannita nelle scuole sotto forma di un'inesorabile sequela di conflitti bellici. Studiare la storia diventerebbe più produttivo se si cogliesse il fatto che la storia dei conflitti, ciascuno deputato a risolvere un problema, ha finito per intossicare il mondo di un nodo di rivendicazioni, di fantasie di riscatto e di rabbie vendicative che non è sormontabile in alcun altro modo che non sia quello di sancire la guerra come crimine comunque illecito, come crimine contro l'umanità e il suo bene più prezioso: la possibilità d'estendere a tutti gli abitanti del pianeta, indipendentemente dall'etnia, dalla religione e dalla lingua, gli stessi diritti che ciascuno riconosce come suoi propri.

La messa al bando della guerra avrebbe lo stesso significato epocale della messa al bando della schiavitù, che ha segnato la storia dell'umanità per circa quattro millenni. Nulla, data la sua indefinita libertà, è impossibile per l'uomo nel bene come nel male.

Marzo 2003