Libero arbitrio e Neurobiologia


1.

La Neurobiologia ambisce ormai ad assumere un ruolo egemonico tra le discipline che affrontano tematiche che riguardano la struttura dell’essere umano: come funziona la mente? In che rapporto è il funzionamento del cervello con la coscienza? Che cos’è l’Io, come funziona e dove risiede?

Essa ritiene di poter dare una risposta scientifica a tali quesiti, vale a dire basata sui dati che affiorano dai numerosi centri di ricerca che si dedicano allo studio della struttura e delle funzioni cerebrali.

Il problema, come ho già rilevato, è che quei dati non parlano da soli, non hanno l’evidenza per cui in un qualunque laboratorio fisico si può ripetere l’esperimento di Galileo sulla caduta dei gravi e giungere a dimostrare la legge che la governa. 

I dati neurobiologici vanno interpretati, e l’interpretazione, almeno sino ad oggi, dipende dai presupposti ideologici cui fanno riferimento i ricercatori, che non dipendono dal laboratorio ma dalla loro visione del mondo.

Per comprovare questo, basta tenere conto del dibattito, che va avanti ormai da anni, sul libero arbitrio, vale a dire sul grado di autentica libertà di cui dispone un uomo nell’agire scelte e decisioni, da cui discendono i comportamenti che le realizzano.

Il dibattito contrappone i deterministi, secondo i quali la libertà è in gran parte un’illusione dell’Io, perché i comportamenti umani dipendono in maniera causale dal funzionamento del cervello, e gli indeterministi, secondo i quali, viceversa, essendo il cervello un sistema complesso, il suo funzionamento comporta numerose possibilità di scelte equiprobabili che, per trasformarsi in comportamento, postulano una decisione dell’Io.

Non si tratta di posizioni contrapposte e senza sfumature. I deterministi, pur sottolineando i vincoli che il cervello con la sua organizzazione neuronale pone al libero arbitrio, non escludono del tutto che in una certa misura esso possa esistere; gli indeterministi, pur facendo riferimento al cervello come un sistema di indefinita complessità, non negano che la sua organizzazione ponga dei limiti all’esercizio della libertà intesa in senso proprio.

Il dibattito, insomma, ha sormontato ormai lo scoglio di posizioni nettamente contrapposte e si articola in riferimento ad uno spettro di possibili combinazioni tra vincoli neurofisiologici e libertà psicologica. Lo spettro riconosce comunque una cesura al di qua della quale prevale il riferimento ai vincoli e al di là quello al potere decisionale dell’io.

Il problema del libero arbitrio è di antica data ed è stato affrontato, direttamente o indirettamente, da quasi tutti i filosofi che si sono succeduti nel corso del tempo. La sua assunzione sotto l’egida della neurobiologia è piuttosto recente.

Quest’articolo mira a valutare il reale apporto della neurobiologia non già alla soluzione (di là da venire), ma alla chiarificazione del problema.

Il sasso nello stagno è stato lanciato da Dawkins che, nel suo libro più famoso (Il gene egoista), ha affermato letteralmente: “noi siamo macchine per la sopravvivenza, ciechi robot programmati al solo scopo di trasmettere le egoiste molecole note come geni.” Al determinismo genetico si è poi associato di recente un determinismo neuronale o neurogenetico, che Crick ha espresso attraverso un aforisma divenuto immediatamente famoso e che suona: “Non sei altro che un ammasso di neuroni.”

Il radicalismo di queste affermazioni non deve ingannare. Entrambi gli autori concedono qualche valore alla libertà. Nel passo conclusivo del suo libro, Dawkins sostiene che “soltanto noi abbiamo il potere di ribellarci contro la tirannia delle nostre potenti molecole riproduttive.” Crick, addirittura, a conclusione del L’ipotesi sorprendente, identifica il Libero arbitrio in un’area cerebrale nota come “solco cingolato anteriore”. E’ evidente che, per sfuggire all’accusa di essere rozzi deterministi, sia Dawkins che Crick cadono in contraddizione. Se non siamo altro che vettori, robot  ciechi programmati per trasmettere i nostri geni egoisti, da dove viene il potere di ribellarci? Come può, poi, un’area del cervello, organizzata come le altre che ci determinano, preservare il libero arbitrio?

2.

Sulla sponda opposta, si situa Steven Rose, che merita una lunga citazione tratta dalla relazione che ha presentato a gennaio nell’ambito del Festival tenutosi a Roma sulle scienze della mente (intitolato appunto Sconfinata Mente):

“L’”uman agency”, la capacità dell’uomo di agire liberamente, è qualcosa che ha a che vedere con l’autonomia di poter compiere azioni in quanto persona, non in quanto robot, e le azioni di quella persona non sono riducibili alle proprietà di un ammasso di neuroni. Non si tratta qui di un dibattito tra laici e religiosi o tra neurobiologi e filosofi; è perché abbiamo la capacità di agire liberamente che siamo considerati responsabili delle nostre azioni, sia in senso morale sia in senso legale.

Pertanto non deve stupire che è proprio nell’ambito della giurisprudenza che i recenti progressi neuroscientifici sono presi quanto mai seriamente. Il sistema legale si è sempre domandato con perplessità se un individuo ritenuto colpevole di un reato abbia agito mens rea –con sanità di mente e in modo intenzionale – o se sia stato afflitto da qualche particolare coercizione interna o esterna, che ne ha inficiato la responsabilità.

Pertanto nel sistema legale inglese i bambini non possono essere ritenuti responsabili delle loro azioni al di sotto dei dieci anni di età, perché si presume che non siano abbastanza maturi per poter distinguere tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Persino nell’età adulta, ad ogni buon conto, anche colui che abbia ucciso qualcuno non dovrebbe essere incriminato per omicidio qualora soffra di qualche anormalità psichica (indipendentemente dal fatto che tale stato derivi da una condizione legata a un arresto o un ritardo dello sviluppo psichico o sia invece imputabile a qualsiasi causa inerente, o sia stata infine indotta da malattia o lesione), in quanto la responsabilità mentale delle sue azioni o delle sue omissioni ne è compromessa in modo sostanziale. In simile circostanza, infatti, non sarei “io” a compiere liberamente un’azione: avrei ricevuto l’ordine di porla in atto dal mio cervello, che eventualmente potrebbe essere stato influenzato da un qualsiasi motivo ritenuto giuridicamente accettabile nella definizione di cui sopra.

Ciò nondimeno, se la “facoltà agente”, la capacità di agire liberamente, è compromessa da immaturità o lesione cerebrale, ne consegue che anche la “normale” facoltà di agire è cerebro-dipendente e gene-dipendente. E’ stato pertanto sostenuto che la predisposizione al bere o ad agire impulsivamente e compiere reati sarebbe quindi ereditaria. E che anche qualora non lo fosse, a tutti i nostri atti, intenzionali o meno,  dovrebbe corrispondere una precisa situazione cerebrale, e anteriormente a ciascuna azione dovrebbe esservi un tratto genetico o cerebrale che la determina, una sorta di conformazione neuro-anatomica particolare o un piccolo scarto dei livelli neurotrasmettitori o neuromodulatori, come nei disturbi non trattati del metabolismo della dopamina nell’infanzia, che si dice lascino presagire una futura scelleratezza.

Noi neurobiologi possiamo ritenere scientificamente insensati i tentativi delle corti nei tribunali di praticare una distinzione tra le situazioni in cui una persona è “libera di agire”, e pertanto è da ritenersi colpevole, e quelle in cui essa è obbligata ad agire – e pertanto non è responsabile delle proprie azioni -, e riteniamo che codesti tentativi creano distinzioni improponibili, che il progresso scientifico e gli avvocati penalisti della difesa si sforzeranno senza sosta di smontare. Per quanto mi riguarda, io faccio presente che il buonsenso legale – che attribuisce la responsabilità al soggetto in tutti i casi tranne quelli nei quali un’azione è stata chiaramente determinata in maniera dominante da fattori che esulano dal controllo dell’agente – ha maggior senso dal punto di vista filosofico e può aiutarci ad evitare alcune delle tesi riduzioniste più estreme, alle quali la nostra scienza si è assuefatta. Inoltre, se si ritiene che questo abbia senso per ciò che riguarda l’aspetto legale, forse altresì dovrebbe esserci di aiuto in altre aree, meno tangibili.

Nel cercare di ridefinire e al tempo stesso di suffragare il concetto di libertà di agire dell’uomo, io respingo il dualismo implicito che separa “me” dal mio cervello – o per meglio dire dal mio sistema cerebrale/corporeo – rifiutando al contempo di buttare la facoltà agente nel cestino delle idee sbagliate. La confusione concettuale che ha contrapposto il determinismo e il libero arbitrio è profondamente radicata nel nostro modo di pensare perché la neurobiologia, come qualsiasi altra scienza moderna, si è sviluppata a partire dal contesto delle tradizioni giudeo-cristiane.

In realtà, noi viviamo al punto di intersezione di molteplici determinismi. La mia libertà di cenare al Ritz è determinata dal limite di credito concessomi, così come la mia libertà di sollevare un braccio è condizionata da una miopatia o da un mero blocco della spalla. Per ogni azione che compiamo è possibile individuare cause a molteplici livelli, dagli eventi neurali precedenti, alle consuetudini culturali, fino ai limiti finanziari imposti dall’economia di mercato. La questione scientifica più importante è quindi quella di comprendere a quale livello sia opportuno cercare una causa determinante dominante. Per comprendere e auspicabilmente curare la sindrome di Alzheimer dobbiamo studiare la biochimica della proteina precursore dell’amiloide piastrinica, ma sarebbe del tutto folle cercare di spiegare le cause dell’invasione dell’Iraq nel 2002 in termini di fluttuazione dei livelli di neurotrasmissione nel cervello del Presidente Bush. Per concludere, e sintetizzare la mia posizione, noi siamo liberi di agire e di determinare il nostro destino, anche se non in situazioni di nostra scelta.”

Nel corso dello stesso festival, Michael Cazzaniga ha espresso un orientamento simile a quello di S. Rose. Nella sua relazione, egli muove dal riferimento ad una giuria popolare americana, impegnata a stabilire, in maniera inflessibile e pragmatica,  se l’imputato ha o no commesso il delitto di cui è accusato. Negli Stati Uniti raramente viene chiesto ai giurati di considerare se un imputato non è incriminabile per incapacità di intendere e di volere, e quando ascoltano una difesa di questo tipo di solito la respingono. Essi, insomma, in rapporto al contesto culturale di appartenenza, giudicano sulla base del concetto di responsabilità individuale oggettiva. Un concetto chiaro e distinto, che, però, secondo Cazzaniga, dovrà fare a breve i conti con un ostacolo legato allo sviluppo della neurobiologia. Cito integralmente:

“[Tale ostacolo] si presenta sotto forma di una domanda che non smettiamo mai di porci: noi, intesi come genere umano, siamo dotati di libero arbitrio? L’imputato ha commesso quel delitto efferato per libera scelta oppure è stato un fatto inevitabile, considerando la natura del suo cervello e i suoi trascorsi?

Oggi sappiamo che i cambiamenti nel cervello sono allo stesso tempo necessari e sufficienti per modificare la mente. Da pochi anni esiste addirittura un nuovo settore di ricerche, le neuroscienze cognitive, che si prefigge di studiare i meccanismi [che sottendono i comportamenti, compresi quelli criminali]. In virtù di questa realtà, molte persone si riscoprono ad interrogarsi su vecchi ritornelli, come il libero arbitrio e la responsabilità personale. In sostanza, secondo la logica, il cervello, un’entità fisica soggetta alle regole del mondo fisico, determina la mente. Ma il mondo fisico è determinato e dunque lo sarà anche il nostro cervello. Se quest’ultimo è determinato, allora vanno sciolti questi interrogativi: anche i pensieri che scaturiscono dalla mente sono determinati’ E il libero arbitrio, che a noi sembra di vivere in prima persona, è una pia illusione? E, nel caso in cui lo sia, dovremo rivedere il concetto di responsabilità personale delle nostre azioni? Sono dilemmi che da decenni turbano il sonno dei filosofi. Tuttavia con l’imaging cerebrale, i neuroscienziati possono indagare questi problemi, e cresce sempre più nel mondo giuridico l’esigenza di una risposta...

Gli studi [sinora effettuati] ci dicono che, nel momento in cui viviamo l’esperienza cosciente di qualcosa, il cervello ha già svolto il suo lavoro; che quando siamo consapevoli di prendere una decisione, il cervello l’ha già fatta accadere. E noi? Siamo tenuti all’oscuro? Una cosa è preoccuparsi della minore responsabilità dovuta a incapacità di intendere e di volere oppure ad una patologia cerebrale, ma il fatto è che oggi anche una persona normale sembra intrappolata nel determinismo. Dovremo rinunciare al concetto di responsabilità personale? Non credo. Andrà piuttosto operata la distinzione tra cervello, mente e persona.

Noi siamo liberi e responsabili delle nostre azioni, a differenza del nostro cervello, che non lo è. Le neuroscienze metteranno a nostra disposizione nuovi modi per capire il comportamento. Quello però di cui dovremmo renderci conto è che, persino se la causa di un atto (penale o di altro tipo) è spiegabile con il funzionamento del cervello, ciò non significa che l’autore dell’atto vada assolto. Sulla base delle cognizioni offerte dalle neuroscienze contemporanee e sulle assunzioni di concetti giuridici, credo nel seguente assioma: il cervello è un congegno automatico, governato da regole e determinato; invece le persone sono agenti personalmente responsabili, liberi di prendere le loro personali decisioni.”

3.

Devo dire onestamente che le argomentazioni di Rose e di Cazzaniga sono tutt’altro che soddisfacenti. Il paradosso per cui i neurodeterministi tirano fuori dal cilindro di una concezione meccanicistica del cervello un grado di libertà che non si vede quale fondamento possa avere, fa il paio con il salto logico per cui gli antideterministi ricavano dall’identificazione del cervello con un sistema complesso il concetto di persona, vale a dire di un soggetto dotato di autoconsapevolezza e di libertà.

E’ evidente che l’antideterminismo è, intuitivamente, più vicino alla verità. In questo momento, sto digitando questo testo sulla tastiera. Seguo il filo dei miei pensieri che devo organizzare operando delle scelte perché il discorso risulti sensato e abbia una qualche unità. La mia coscienza è impegnata a porre ordine in un flusso che scorre in gran parte sotterraneamente. Allo stesso tempo essa deve ordinare un’attività caotica (come ogni attività creativa) che si svolge a livello inconscio e trasformarla nella linearità delle parole scritte. A tal fine, si avvale di un’altra attività in gran parte incoscia: la ricerca in un vocabolario depositato dentro di me, ma che io non sarei mai in grado di mettere sulla carta, delle parole adatte. Via via che il discorso prende forma, io riconosco in esso il prodotto della mia libertà di pensiero, che ha tratto un phylum dal caos dei contenuti di pensiero presenti in me, e si è realizzata sulla base del concorso di un certo numero di meccanismi inconsci. Non ho difficoltà a riconoscere che il mio cervello, con i suoi meccanismi inconsci, ha svolto un ruolo importante, ma se il mio io cosciente (comunque si intenda questo termine) non si fosse impegnato nel coordinarne e indirizzarne l’attività verso un fine, questo scritto non avrebbe visto la luce.

La libertà dell’io, inteso almeno come coordinatore di un’attività cerebrale “caotica”, è dunque un dato di fatto inoppugnabile, non meno dell’altro per cui questa funzione di cooordinamento è esposta a molteplici rischi di fallimento.

Se ci si chiede però come essa possa essere intesa sotto il profilo neurobiologico, si entra in un ginepraio di problemi che non può essere risolto semplicemente distinguendo il cervello, la mente e la persona.

Cercherò, dunque, di illustrare alcune ipotesi che, a  mio avviso, possono essere più pregnanti di quelle solitamente avanzate dagli antideterministi, nell’intento di illuminare i nessi impliciti nel salto logico tra cervello e persona.

Anzitutto, anche se è superfluo affermarlo, non esiste il cervello come oggetto di studio astratto. Esiste sempre e comunque il cervello di un determinato soggetto con una sua storia e una carriera di vita intrecciata con un determinato ambiente d’interazione.

Il cervello astratto, cui fanno riferimento alcuni neurobiologi, è un organo prodotto da una lunga evoluzione naturale, che ha delle caratteristiche genetiche e funzionali che consentono di definire l’appartenza di chi lo possiede alla specie umana. Ma questo organo non è né potrà mai essere oggetto di studio perché esso funziona e fornisce prestazioni in singoli individui che sono immersi in un contesto storico e culturale.

Ciò non significa ovviamente che l’indagine del funzionamento dei cervelli individuali non possa pervenire a conclusioni che hanno una validità universale, che pongono in luce cioè degli aspetti strutturali e funzionali che si possono ritenere comuni a tutti i cervelli, quindi specie-specifici. Queste conclusioni, però, vanno prese sempre cum grano salis, perché la possibilità di attribuire alla natura ciò che di fatto è il frutto dell’interazione con l’ambiente è immanente.

I cervelli dunque esistono solo come organi di soggetti immersi nel fluire di un processo caratterizzato dal peso crescente delle modificazioni ambientali prodotte dall’uomo, vale a dire della cultura.

La storicità dei cervelli implica due aspetti che la neurobiologia trascura, e sono invece di straordinaria importanza.

Il primo aspetto fa riferimento al fatto che la complessità neurofisiologica del cervello si identifica con un’attività mentale, con una produzione continua e “caotica” di pensieri, emozioni, desideri, fantasie, ecc. gran parte dei quali scorrono al di sotto del livello della coscienza. Stabilire un nesso immediato tra funzionamento del cervello e soggettività cosciente trascura il fatto che tra l’uno e l’altra si dà un’attività mentale straordinariamente ricca, una rete infinitamente complessa di significati che rappresenta la trama in rapporto alla quale la soggettività cosciente si definisce come ordito.

Questa trama va considerata sotto tre aspetti. In parte essa è il prodotto dell’attività intrinseca cerebrale, in parte di significati che il soggetto eredita dalle generazioni precedenti (inconscio sociale), in parte infine di un patrimonio indefinito di memorie personali, depositate in profondità, una quota minima delle quali  è accessibile a livello cosciente.

Questo patrimonio non è solo di ordine cognitivo, vale a dire non si esaurisce nel significare il presente alla luce del passato, senza che il soggetto abbia sempre una piena consapevolezza di ciò. Esso rappresenta anche un potente deposito di motivazioni emotivamente connotate.

E’ un assioma della psicoanalisi che dietro ogni comportamento si dà una motivazione o, per dire meglio, un insieme di motivazioni. Questo concetto è di importanza fondamentale. Se infatti si prende atto che il cervello è depositario di indefinite motivazioni, solo alcune delle quali sono coscienti, non si stenta a capire che, per essere minimamente coerente, un qualunque comportamento richiede che tali motivazioni, spesso diverse, si organizzino gerarchicamente perché una di esse possa infine, sia pure relativamente, prevalere.

Il problema della libertà umana è posto in maniera corretta nel momento in cui ci si chiede come avviene questa organizzazione gerarchica. Il determinismo neurogenetico postula che sia il cervello a provvedere a gerarchizzare le motivazioni; l’indeterminismo che sia l’io.

Tenendo conto che le motivazioni in questione sono in parte consce e in parte inconsce, riesce immediatamente evidente che le due ipotesi non si contraddicono, rappresentando gli estremi di uno spettro indefinito, che va da un determinismo motivazionale inconscio, che si realizza saltando il potere di controllo dell’io, a un indeterminismo cosciente che implica una scelta tra alternative consapevolmente vissute e valutate.

Eccezion fatta per alcuni residui istintuali, che nell’uomo hanno scarso rilievo, il determinismo motivazionale inconscio è agito dalle strutture neuronali, ma solo nella misura in cui la carica emozionale delle motivazioni le attiva.

L’indeterminismo cosciente non va però sopravvalutato, poiché nulla prova che le motivazioni cui l’io fa riferimento esauriscono l’insieme delle motivazioni inerenti la scelta, né che esse siano le più importanti.

All’interno dello spettro cui ho fatto riferimento, la libertà intesa in senso proprio, come scelta volontaria tra alternative consapevolmente valutate, esiste ma si riduce a ben poco. Al di là di essa, però, non si dà un determinismo neurogenetico, bensì un determinismo motivazionale che fa capo ad un patrimonio di ricordi, emozioni e spinte comportamentali che agiscono al di fuori della sfera dell’io. Tale patrimonio è in gran parte appreso, anche se l’apprendimento non implica solo un’influenza ambientale, ma anche un modo di significare (emotivamente e cognitivamente) le informazioni che può avere delle matrici genetiche.

4.

Mi rendo conto che il discorso è complesso, ma, avendolo avviato, è meglio approfondirlo che lasciarlo in sospeso. C’è infatti un altro aspetto importante da considerare.

La teoria del cervello astratto fa riferimento al fatto che l’organizzazione neuronale corrisponde ad una programmazione genetica. Questa esiste di sicuro, ma è un fatto che, per realizzarsi in maniera tale da dare luogo ad un apparato mentale il cui funzionamento consente di riconoscere nel suo agente un essere umano, tale programmazione richiede l’interazione del cervello con un ambiente umano, vale a dire con un ambiente sociale e culturale. Non si sottolineerà mai abbastanza il fatto che l’umanizzazione del cervello, vale a dire la produzione di una mente, si fonda su potenzialità genetiche intrinseche che si fenotipizzano solo in virtù dell’interazione con l’Altro.

Questa circostanza è particolarmente importante per quanto concerne la sfera dei comportamenti morali, quelli cioè che richiedono una valutazione in termini di doveri sociali e di diritti individuali e sono orientati a realizzare una mediazione e un’integrazione tra questi due aspetti nell’intento di evitare di danneggiare l’altro o se stesso.

Nonostante si pensi che l’ambito dei comportamenti morali (nel cui ambito ricadono anche quelli che hanno un rilievo penale) sia fortemente influenzato dalla cultura, è fuor di dubbio che essi riconoscono una predisposizione naturale, geneticamente determinata, in virtù della quale il soggetto sente di avere diritti e, nello stesso tempo, attraverso il meccanismo dell’identificazione, sente che anche l’altro ne ha.

Una delle scoperte più rilevanti della neurobiologia contemporanea, a cui dedicherò un articolo a parte, riguarda l’esistenza dei cosiddetti neuroni a specchio, vale a dire di catene neuronali la cui attivazione consente di ricostruire dentro di sé il modo di essere, il comportamento e, forse, le motivazioni che sottendono il comportamento dell’altro. E’ evidente che questa scoperta dà un fondamento psicobiologico ai meccanismi di imitazione e di identificazione con l’altro posti in luce dalla psicoanalisi.

Sullo sfondo di questa doppia natura, geneticamente determinata, i moduli comportamentali di  relazione tra io e altro si definiscono in conseguenza delle condizioni ambientali e della storia personale sulla base di memorie e di motivazioni che rimangono, in larga misura, al di fuori della coscienza soggettiva.

L’importanza di questi aspetti in rapporto al problema del libero arbitrio non può essere minimizzata.

Il tenere conto del retroterra inconscio che sottende i comportamenti umani comporta anch’esso un radicalismo complementare a quello neurodeterministico. Se infatti si accetta il fatto che l’io agisce sulla base di un’organizzazione motivazionale che, in gran parte, è al di fuori del suo controllo, si può giungere facilmente a pensare che, in senso proprio, egli è raramente responsabile di ciò che fa.

Per non cadere in questa trappola, occorre distinguere la responsabilità oggettiva da quella soggettiva. La responsabilità oggettiva è riconducibile alle conseguenze sociali del comportamento che il soggetto agisce, e può essere ritenuta esistente laddove egli si renda conto di tali conseguenze. In pratica, se egli viola una norma o una legge, e si rende conto di stare agendo un comportamento infrattivo, egli si può ritenere responsabile.

La responsabilità soggettiva fa invece capo non già alla consapevolezza di quello che il  soggetto fa e delle sue conseguenze, bensì alla consapevolezza delle motivazioni che lo inducono ad agire quello piuttosto che un altro comportamento.

Tenendo conto della complessità motivazionale dell’apparato mentale umano, la responsabilità soggettiva si configura come uno spettro, ad un estremo del quale si dà una consapevolezza assente o minima (che non esclude ovviamente una razionalizzazione o una giustificazione cosciente), mentre all’altro estremo si dà una consapevolezza elevata o piena.

E’ evidente che, all’interno di questo spettro, il libero arbitrio concerne un ambito di comportamenti molto più ridotto rispetto a quello per il quale esso può essere invocato in termini di responsabilità oggettiva.

A nessuno penso che sfugga l’importanza di questi concetti che, se fossero adottati culturalmente, comporterebbero il superamento del determinismo e dell’indeterminismo in nome del riferimento dialettico al rapporto tra l’io cosciente e il bagaglio motivazionale conscio e inconscio con cui convive e che amministra. Tale riferimento indurrebbe senz’altro una riformulazione del problema della responsabilità individuale, che esiste ma in termini più ridotti rispetto alla capacità di intendere e di volere tradizionalmente definita. Al di là di questa riformulazione, poi, il problema più importante sarebbe quello di aumentare il grado di libertà reale delle persone fornendo loro strumenti per ampliare gli orizzonti della coscienza, in maniera tale che essi siano più possibile consapevoli del patrimonio motivazionale soggettivo.

Questa dotazione, peraltro, non basterebbe se non si associasse ad una programmazione socioculturale che, anziché negare o enfatizzare la libertà umana, la riconoscesse come un requisito dell’apparato mentale sempre precario, a rischio e bisognoso di essere tutelato e corroborato sia dai singoli individui che dalla collettività.