L'Etica marxista

1.

Nel corso di un dibattito televisivo, ironicamente sotteso dalla sorpresa che oggi qualcuno temerariamente insista a definirsi comunista, Adriano Sofri ha rivolto a Fausto Bertinotti una domanda imbarazzante e insidiosa. Posto che - ha argomentato Sofri - non c'è più all'orizzonte la prospettiva di una rivoluzione e quindi di una società comunista, essere comunisti oggi non può significare altro che vivere secondo valori diversi e differenziati rispetto a quelli borghesi e cristiani, dominanti nel nostro mondo. Ora - ecco il nocciolo della domanda - quali mai sono questi valori, in cosa il comunista si distingue da tante brave persone cattoliche che praticano l'altruismo, la carità cristiana, l'amore del prossimo o da tanti laici che, viceversa, coltivano un individualismo temperato dal rispetto degli altri e delle leggi, e non indifferente nei confronti del bene comune?

La domanda posta è imbarazzante perché il comunismo, a partire da Marx, ha sempre puntato su di un "uomo nuovo", che vive secondo un sistema di valori radicalmente diverso rispetto a quello borghese e a quello cristiano, ma non è mai riuscito a caratterizzare sufficientemente questo sistema e a definire, dunque, le caratteristiche proprie e differenziali di un'etica marxista. Tutta l'opera di Marx, di fatto, è impregnata di valori morali incentrati sulla dignità umana. L'attribuzione all'uomo di due bisogni primari - la socialità e la libertà individuale -, che la tradizione filosofica considerava se non antitetici in opposizione, implica un'etica in nome della quale lo sviluppo e la realizzazione dell'individuo avviene in termini vantaggiosi per se stesso e per gli altri ("Nella comunità reale gli individui acquistano la loro libertà nella loro associazione e per mezzo di essa"). Il rifiuto della morale dell'edonismo borghese e della morale della rinuncia cristiana allude ad uno stile di vita semplice, austero e, nello stesso tempo, appagante e felice.

Ciononostante, Marx ha sempre rifiutato di considerare il comunismo come una necessità etica, che postulava, oltre al cambiamento delle condizioni oggettive di vita, una rivoluzione culturale e morale. Tanto meno egli ha preso in considerazione la possibilità che una rivoluzione del genere fosse necessaria al fine di promuovere una società comunista, vale a dire la fuoriuscita dal sistema borghese. Insistendo sulla necessità primaria di cambiare le condizioni oggettive di vita e dando per scontato che ciò avrebbe ipso facto prodotto una nuova etica, egli ha manifestato una sorprendente ingenuità. La sorpresa non va tanto riferita al presupposto per cui l'uomo è naturalmente "buono", vale a dire animato da un bisogno sociale radicale e da un altrettanto radicale bisogno d'individuazione. Quest'assunto può essere ancora oggi confermato in rapporto alla natura umana, alla programmazione evolutiva da cui è nato l'homo. La sorpresa sta nel fatto di non avere considerato il peso, a livello conscio e inconscio, delle incrostazioni storiche e culturali che hanno allontanato l'uomo dalla percezione della sua doppia natura di animale sociale dotato di un'identità differenziata da tutti gli altri.

Il problema dell'etica marxista si è posta, dopo Marx, in maniera contraddittoria. Da una parte, la rivoluzione sovietica ha prodotto una rimozione e una semplificazione brutale del problema, di cui Lenin malauguratamente si è fatto portavoce scrivendo: "Buono è ciò che serve alla vittoria della classe proletaria". Da un'altra parte, il revisionismo (Bernstein, Tugan-Baranovskij, Max Adler, Otto Bauer, ecc.), preso atto della vitalità del capitalismo e del pericolo che la classe operaia cedesse alla suggestione di un miglioramento del tenore di vita all'interno del sistema borghese, ha addirittura rovesciato la formula di Marx, identificando nella rivoluzione etica, incentrata sul principio kantiano dell'uomo come fine, l'indispensabile premessa per un radicale cambiamento sociale.

La storia successiva del marxismo ha lasciato aperto questo problema. Gli ultimi abbozzi di un'etica marxista si possono ricondurre a Marcuse e a Agnès Heller. Entrambi però non fanno altro che esaltare la libertà umana, senza fornire un modello etico compiuto.

Com'era prevedibile, Fausto Bertinotti ha riconosciuto la pertinenza della domanda, ma si è abilmente sottratto ad essa, riconducendo il discorso sul piano politico.

Nonché pertinente, la domanda è ineludibile, ma non per i motivi addotti da Sofri il quale, deluso nelle sue giovanili aspettative rivoluzionarie dal basso, e pervenuto ormai ad un rassegnato catastrofismo, assegna al comunismo il ruolo di una sorta di riserva indiana di nostalgici che continuano a ritenersi diversi dagli altri non si sa bene per quali ragioni. Il problema è ben più serio.

Se il comunismo fosse rimasto fedele ai valori etici che esso implica, semplicemente non si sarebbe realizzato nella forma in cui si è realizzato e non sarebbe andato incontro ad un fallimento. Nulla, infatti, è più estraneo a quei valori della logica per cui il fine giustifica i mezzi, che è stata il fondamento di una pratica politica la quale, in nome dell'obbiettivo di realizzare una società egualitaristica, ha più o meno gravemente trascurato o violato i diritti umani. Non è una sottigliezza rilevare immediatamente che, nell'ottica marxista, i diritti umani non coincidono immediatamente con i diritti dell'individuo così com'essi sono definiti nell'ottica liberale. Questa, infatti, privilegiando i diritti di libertà (di parola, di pensiero, di opinione, di religione, ecc.) e di appropriazione (vale a dire la possibilità per l'individuo di privatizzare risorse sociali senza limiti in nome delle sue capacità), pone in secondo ordine i diritti economici (il diritto ad un lavoro, ad un tenore di vita dignitoso, ecc.), quelli sociali (la sicurezza, la previdenza, le cure mediche, ecc.) e quelli culturali (pari opportunità di sviluppo per tutti), che - riconosciuti sulla carta - di fatto vengono spesso sacrificati.

Nell'ottica dell'etica marxista, viceversa, la gerarchia dei diritti viene ad essere rovesciata. E' assolutamente immorale che un solo cittadino muoia di fame o un solo bambino debba rinunciare, per il suo status di nascita, a sviluppare appieno le sue potenzialità se, nello stesso contesto sociale, si danno ingenti patrimoni privati o privilegi che consentono a qualcuno di vivere nel lusso e nello spreco, dunque cannibalicamente, succhiando il sangue degli altri. Il ribaltamento della gerarchia dei diritti umani non comporta, almeno in teoria, né una repressione della libertà né un'espropriazione generalizzata, bensì solo dei vincoli che impediscano l'uso della libertà e della proprietà a danno degli altri. Tali vincoli, però, non possono essere definiti e esercitati arbitrariamente dallo Stato. Essi vanno realizzati in nome di una comunità di cittadini che, per esempio, rifiuta od emargina chi, al suo interno, esprime teorie - razziste o fasciste - che negano la pari dignità degli esseri umani, o chi dà spazio al suo interesse egoistico a scapito degli altri.

Anche da questo punto di vista, dunque, la necessità di una comunità che abbia maturato un consenso maggioritario sui valori di fondo dell'etica marxista appare necessaria. Nella realtà delle esperienze di socialismo "reale" tale consenso non c'era o era minoritario. Ciò ha consentito arbitri di ogni genere.

Ci si può giustamente chiedere come si sia arrivati a tanto partendo da un pensiero che esaltava i diritti umani e riteneva necessaria la loro realizzazione sostanziale, in opposizione al formalismo che governava e governa la civiltà borghese. Rispondere che ciò è accaduto perché, di quei diritti, veniva negato il più importante - il diritto di proprietà -, è quanto mai superficiale. Marx ha criticato quel diritto solo nella forma borghese di appropriazione privata di risorse sottratte alla proprietà comune e utilizzate per sfruttare gli esseri umani. L'abolizione d'ogni tipo d'oppressione dell'uomo sull'uomo è il valore etico supremo del marxismo.

Ritenere che questo valore si sarebbe potuto realizzare in virtù di un cambiamento politico senza che questo corrispondesse ad una rivoluzione etica, che deve realizzarsi nelle singole coscienze, è stato l'errore di Marx. Riproporre dunque oggi il tema dell'etica marxista non significa altro che riavviare un processo storico finito in un vicolo cieco, e ritenere che un nuovo sistema di valori, condiviso socialmente, sia la premessa indispensabile per un cambiamento radicale della società. Occorre, in breve, riconoscere senza paura la fondatezza dell'analisi dei revisionisti, integrandola ad un livello più alto.

So bene che un'affermazione del genere avrebbe prodotto in Marx uno dei suoi proverbiali scatti d'ira. In qual modo - questo, immagino, sarebbe stato il suo discorso - i valori etici possono modificare le condizioni oggettive di vita dei lavoratori? In qual modo essi possono porre rimedio all’alienazione, economica e psicologica, alla disuguaglianza, alle ingiustizie distributive, alla manipolazione ideologica, allo scarto tra democrazia formale e democrazia sostanziale?

E' evidente che l'etica non modifica immediatamente le condizioni oggettive di vita, e non può incidere nel renderle soggettivamente più tollerabili se sono disumane. E' vero però che se la partecipazione comunista degli operai e di tutti coloro che, consapevolmente o inconsapevolmente, sono oppressi dal sistema capitalistico non ha una valenza etica, si riduce cioè alla lotta, peraltro indispensabile, rivolta a rendere quelle condizioni più tollerabili, c'è il rischio (puntualmente verificatosi) che il successo, almeno parziale, di tale lotta, induca immediatamente l'adozione di uno stile di vita borghese. Il cambiamento etico, che concerne le singole coscienze, e quello della struttura sociale sono dunque intimamente correlate. Posto però che il secondo non è immediatamente possibile e, come ha dimostrato l'esperienza del socialismo reale, non produce di necessità il primo, privilegiare questo non sembra irragionevole.

Il problema dell'etica marxista, del resto, come ha intuito Sofri, si pone proprio adesso, in un periodo in cui la prospettiva di un'altra società appare, se non utopistica, estremamente remota. E si pone in termini molto semplici: vivere da comunisti oggi significa coltivare il sogno di un mondo a venire, e lottare, nella misura in cui è possibile, in questa direzione, o non significa anche adottare un sistema di valori diverso da quello corrente e attenersi ad esso, sperimentando una nuova etica, prima ancora che si diano le condizioni oggettive di vita per cui essa possa essere adottata da un'intera società? Se questa nuova etica esiste, essa può essere praticata solo da un'élite che ha raggiunto uno status sociale minimamente rassicurante o da qualunque soggetto che non intende vivere né da cristiano né da borghese?

Per affrontare questi problemi, non bisogna aver paura di riconoscere gli errori storici del comunismo. Non parlo di quelli dello stalinismo che, commessi in nome di Marx, si possono ritenere aberranti in rapporto allo spirito e alla lettera del suo pensiero. Parlo piuttosto di quelli realizzatisi nei paesi occidentali, laddove essere comunisti ha significato essenzialmente aderire alla linea di un partito, lottare contro le ingiustizie, odiare il fascismo e la borghesia, essere atei e anticlericali, esibire - in alcuni casi - la propria diversità, senza mai fare i conti con una soggettività impregnata di contraddizioni. Troppi comunisti hanno riversato nella nuova ideologia il loro inesausto bisogno di una fede assoluta; troppi hanno occultato nella rabbia pure giusta contro il sistema capitalistico un orientamento intollerante e sprezzante nei confronti degli avversari; troppi hanno espresso, in famiglia e nei rapporti interpersonali, atteggiamenti tradizionalisti, conservatori e, al limite, autoritari; troppi hanno usato il comunismo per alimentare, al di là della rabbia critica, una certa inclinazione alla violenza e alla sopraffazione; troppi, infine, sono caduti nella scissione tra vita politica e vita civile, coltivando scrupolosamente i loro interessi individuali. Il '68, che ha colto alcune di queste contraddizioni, non le ha risolte. Anzi, ha esasperato l'intolleranza e il disprezzo nei confronti dei cattolici e dei borghesi, e ha opposto alla disciplina di partito un modo di essere che, per anticipare un mondo nuovo, si è risolto in una miscela di ribellismo antiautoritario fine a se stesso, anarchismo, narcisismo, cinismo, culto della violenza rivoluzionaria, che si è espressa infine nella "follia" del brigatismo.

2.

Marx stesso ha fornito en passant, e forse senza rendersene conto, il fondamento primario dell'etica comunista, laddove afferma che se un uomo è un bue, egli può tranquillamente disinteressarsi di ciò che capita agli altri. Se non è un bue (forse sarebbe meglio parlare di un pachiderma), è difficile che egli possa rimanere indifferente nei confronti di coloro che patiscono ingiustizie e vivono in condizioni oppressive o alienate.

Il fondamento dell'etica marxista è dunque la sensibilità sociale, una qualità naturale che, se non viene repressa, porta ad identificarsi con l'altro e a com-patire la sua sofferenza. E' importante considerare che, nell'ottica marxista, l'identificazione con l'altro non è una virtù. La sua matrice, infatti, è la consapevolezza intuitiva che ogni soggetto ha della propria dignità, dei suoi diritti e dei suoi bisogni. Tale consapevolezza induce naturalmente ad attribuire agli altri gli stessi diritti e gli stessi bisogni.

La sensibilità sociale produce dunque un sentimento d'uguaglianza morale, che non contrasta per nulla con la consapevolezza della diversità individuale (in termini di potenzialità naturali, competenze acquisite, ecc.). Tale sentimento determina un rifiuto viscerale di qualunque condizione, vissuta in prima persona o da altri, indegna dell'uomo, tanto più se essa è prodotta dall'azione diretta o indiretta di altri esseri umani.

Si tratta di una qualità del tutto estranea all'etica borghese che, in nome dell'affermazione individuale e della competitività, la reprime nella sua espressione sociale. Ciò non significa ovviamente che ogni borghese sia un mostro d'egoismo. Egli semplicemente ritiene che la differenziazione sociale, che è all'origine delle disuguaglianze, sia una legge di natura. In conseguenza di questo, anche se può avere slanci d'umanità e agire occasionalmente in maniera altruistica, egli è più incline a tutelare i propri diritti che non quelli degli altri. L'universalità dei diritti umani, propri dell'etica borghese, riguarda inoltre i diritti politici (la libertà di parola, di opinione, di voto, di confessione religiosa, ecc.) non quelli radicali - i diritti economici e sociali - dai quali discende immediatamente una condizione di vita umana o infraumana.

Coltivare anziché reprimere la sensibilità sociale, dal punto di vista marxista, non ha nulla a che vedere, ovviamente, con l'altruismo cristiano. Questo fa riferimento alla comune origine divina, induce a vedere nell'altro il fratello e promuove un atteggiamento compassionevole e caritatevole. L'etica marxista vede nell'altro il simile per natura, vale a dire un soggetto dotato della stessa propria dignità e degli stessi bisogni. Non è dunque la pietas religiosa che determina il legame sociale d'identificazione, ma il senso di giustizia fondato sulla pari dignità degli esseri umani.

L'identificazione con l'altro come simile comporta, di certo, la condivisione della sua sofferenza, ma in un'ottica del tutto diversa rispetto al cristianesimo. La sofferenza umana, così come ciascuno può sperimentarla dentro di sé o riconoscerla negli altri, ha due diverse origini. C'è una sofferenza prodotta dall'uomo e dalla struttura sociale, ratificata com'effetto inevitabile delle leggi oggettive dell'economia e com'espressione della lotta per sopravvivere, che va lottata sistematicamente perché essa è solo la conseguenza dell'egoismo privato e della logica del profitto, che promuove il vantaggio dell'uno a svantaggio dell'altro.

C'è però anche una sofferenza esistenziale, riconducibile alla consapevolezza che ogni uomo ha, indipendentemente dalla sua condizione sociale, d'essere precario, vulnerabile, esposto alla possibilità di soffrire, e infine destinato a morire. A questa sofferenza, che consente di comprendere anche il nodo dell'evoluzione storica - la pretesa delle classi dominanti di privilegi finalizzati a vivere meglio e a vivere di più (aspetto, quest'ultimo, ancora comprovato dalla possibilità dei ricchi di accedere a cure mediche inaccessibili ai poveri) -, l'etica marxista risponde con la solidarietà sociale, che fa convergere le risorse di lotta contro il dolore e la malattia laddove esse necessitano, e con il richiamo ad una consapevolezza che fa del rifiuto della trascendenza un'orgogliosa rivendicazione del senso finito dell'esistenza e dei suoi limiti.

Non si tratta, però, nell'ottica marxista, di una consapevolezza stoica. Essa riposa sul sentire la propria vita come un'esperienza significativa nella misura in cui il soggetto riesce a realizzare pienamente le sue potenzialità individuali. Nell'ambito di questa realizzazione, non è di poco conto che tali potenzialità si esprimano anche in forma sociale, a vantaggio degli altri, e che tutti possano essere messi in condizione di realizzare le proprie.

Giungere a questa consapevolezza, che promuove nello stesso tempo l'individuazione e la socializzazione, estinguendo l'egoismo privato, che rivendica maggiori diritti per l'individuo in sé e per sé, postula un impegno costante di riflessione, che è imprescindibile da una tensione intellettuale rivolta a radicare la propria esperienza nell'orizzonte di un'antropologia rigorosamente laica, umanitaristica e mondana.

Non si diventa marxisti attraverso i libri, ma non si può diventare marxisti senza i libri, lo studio e l'analisi critica. L'uomo nuovo, infatti, non nasce se il singolo individuo non si libera delle tradizioni, dei valori e dei pregiudizi che porta dentro, spesso a livello inconscio, e che promuovono in lui la convinzione d'avere più diritti, più bisogni degli altri. I teorici morali borghesi identificano in questa convinzione l'espressione di un insormontabile egoismo primario, naturale. Essi confondono l'egoismo, che porta a strumentalizzare gli altri, con l'ego-centrismo. Quest'ultimo, naturale in quanto riferito alla consapevolezza intuitiva d'avere, come individuo, diritti inalienabili, non è per nulla in opposizione con una vocazione sociocentrica che assegna agli altri gli stessi diritti.

Un rinnovamento antropologico, che induca a sormontare l'egoismo, imputato all'uomo dal cristianesimo e alimentato come dimensione esistenziale primaria dalla cultura borghese, è il presupposto indispensabile per la costruzione di una società comunista.

3.

La traduzione pratica della sensibilità sociale marxista si fonda sul principio etico assoluto di considerare l'uomo come fine e mai come mezzo. Tale principio governa il modo in cui il soggetto marxista si rapporta a se stesso e agli altri.

L'assunzione di se stesso come fine implica scelte di vita che escludono la possibilità di usare le proprie potenzialità unicamente a scopo utilitaristico. La consapevolezza della propria finitezza impone di valutare come prezioso il tempo da vivere. Ma ciò non significa che esso debba essere investito secondo la logica produttiva propria del sistema borghese. Quale che sia il contesto nel quale vive, il marxista sente come un dovere il bisogno di coltivare le sue potenzialità nella direzione della valorizzazione universale di sé. Ciò implica l'investimento di una quota del tempo in attività che non sono immediatamente produttive: la coltivazione degli affetti e della socialità, l'impegno culturale ad ampio raggio, la pratica d'interessi significativi. L'etica marxista, per quest'aspetto, si riconduce al principio per cui l'uomo che coltiva se stesso, nella pienezza delle sue potenzialità, ne ricava felicità sul piano personale ma acquisisce anche un valore antropologico che è, di fatto, sociale, perché anche gli altri ne traggono vantaggio.

L'assunzione dell'altro come fine si riverbera sia nella vita privata sia in quella pubblica e lavorativa.

Gli affetti - amicali, parentali e sentimentali - sono desacralizzati nell'ottica dell'etica marxista. Ciò è dovuto alla consapevolezza, ricavata dalla psicoanalisi e dalla sociologia critica, che la sacralizzazione degli affetti si è associata e si associa spesso, nella pratica borghese, ad una mistificazione, conscia e inconscia, al di sotto della quale si sono date forme di strumentalizzazione e di manipolazione d'ogni genere.

L'etica marxista comporta la coltivazione e la valutazione dei rapporti privati in stretto riferimento alla loro qualità e autenticità, di cui sono responsabili gli agenti che interagiscono. Ciò significa anzitutto prendere atto che tutti i rapporti significativi di lunga durata comportano quote d'ambivalenza affettiva, vale a dire di conflitto, che vanno affrontate a viso aperto, sul piano comunicativo, in maniera tale da utilizzare le potenzialità del conflitto per aumentare la qualità dei rapporti stessi o per giungere ad una definizione più propria degli stessi, senza il ricorso alle strategie subdole e manipolatrici che sono proprie dell'etica borghese.

La conseguenza di questo principio è una tensione costante orientata ad evitare che i rapporti privati ricadano, consapevolmente o inconsapevolmente, sul piano dei giochi di potere. E' difficile esemplificare adeguatamente cosa significhi una tensione del genere. Del resto quest'articolo non intende formulare un prontuario del buon marxista. Le esperienze e i contesti ambientali sono diverse per cui ciascuno deve tentare d'inventarsi soluzioni concretamente praticabili. Un accenno però a due dimensioni fondamentali della vita privata è opportuno. Nel rapporto tra uomo e donna, lo sforzo di realizzare concretamente una situazione di pari dignità e di bandire ogni forma di "asservimento " e di "sfruttamento" deve essere costante, perché a questo livello le tradizioni culturali e le motivazioni inconsce incidono ancora in maniera profonda. Ciò significa, semplicemente, che l'uomo deve rinunciare ai suoi privilegi, che impongono alla donna responsabilità nella gestione domestica e vincoli della libertà, che vanno condivisi. La donna, per suo conto, deve disintossicarsi sia della tendenza ad assumere il ruolo di Grande Madre, che deresponsabilizza il partner, sia dalla tendenza opposta a scaricare su di lui una rabbia atavica per l'oppressione storica che è gravata sui soggetti femminili.

Nel rapporto con il figlio, il genitore non proietterà su di lui le sue aspettative narcisistiche, e non pretenderà per alcun aspetto, comprese le idee politiche, che egli cresca a sua immagine e somiglianza. Egli sarà onesto nel difendere le sue convinzioni, i valori in cui crede e le scelte di vita operate, ma si preoccuperà di fornire al figlio le condizioni ottimali per uno sviluppo della personalità che realizzi, quali che siano, le sue potenzialità e la sua vocazione ad essere.

4.

L'assunzione dell'altro come fine governa anche la vita sociale e lavorativa del marxista. Egli si astiene in ogni modo di usare gli altri o di strumentalizzarli. Se il suo ruolo è di lavoratore dipendente, egli fa il suo dovere nei termini del contratto, ma non si astiene dal rivendicare e dal tentare di affermare sia i suoi sia i diritti dei colleghi presso il datore di lavoro. Ogni forma d'inadempienza compensativa dello sfruttamento lavorativo è bandita, massimamente laddove, a livello pubblico, può realizzarsi. Lo sfruttamento, infatti, va sormontato attraverso la lotta sindacale e politica, e mai attraverso forme d'anarchia individuale che, inesorabilmente, ricadono sulle spalle di altri colleghi, e, a livello pubblico, riducono l'efficienza con il rischio di dare spazio alla logica della privatizzazione.

Se il ruolo lavorativo è autonomo, il valore della pari dignità comporta che il servizio fornito sia il migliore possibile per il cliente, che il compenso sia equo e contrattato e, in alcuni casi, che si tenga conto dello status e del reddito del cliente. In conseguenza di questo, il lavoratore autonomo marxista applicherà tariffe differenziate a seconda dello status del cliente. Insomma, mai e poi mai, in nome delle sue esigenze e delle sue competenze, toglierà il pane dalla bocca agli altri.

L'etica marxista comporta anche uno stile di vita fondato sull'austerità. In quest'ottica, infatti, la consapevolezza che il consumismo produce inesorabilmente diseconomie esterne, che ricadono a danno di qualcuno e, nella migliore delle ipotesi, a danno dell'ambiente, è assoluta.

L'austerità marxista nulla ha a che vedere con l'ascetismo cristiano. Il senso della vita marxista, che vede nell'orizzonte mondano l'unica dimensione concessa agli esseri umani, e per un tempo inesorabilmente limitato, comporta una partecipazione appassionata all'esistenza, che però privilegia la coltivazione delle potenzialità attive e creative rispetto al consumo passivo. Anche per quest'aspetto, un discorso compiuto rischierebbe di essere un formulario sterile di comportamenti "corretti". E' importante, però, tenere conto che, proprio sul terreno dello stile di vita quotidiano, si pongono le maggiori difficoltà di realizzare l'etica marxista, dati i condizionamenti molteplici imposti dalla società. Essenziale, non meno che faticoso, è riuscire ad identificare i falsi bisogni e a sormontarli in nome di quelli autentici. Come criteri meramente orientativi, se ne possono definire due: il rifiuto d'ogni spinta ad imitare il modello di vita borghese, incentrato ossessivamente sull'occhio della gente, in nome del bisogno di privilegiare l'essere rispetto all'avere; e il decondizionamento rispetto ad ogni forma di consumismo, intesa come appropriazione di beni o servizi che passivizzano. Perché la realizzazione di questi criteri non si riduca ad una forma di sterile anticonformismo, com'è accaduto nel '68, il rifiuto dei falsi bisogni e del consumismo deve avvenire in nome della riscoperta di una vita nel frattempo più semplice e più appagante. E' giusto che ciascuno identifichi e sperimenti le sue fonti d'appagamento. Rimane come principio di ordine generale che l'uomo è appagato dal partecipare e dall'agire piuttosto che dalla fruizione passiva di beni e di servizi.

Ma ciò non basta. Perseguendo l'obiettivo di una vita disalienata (almeno nella misura in cui è possibile), il marxista non può ripiegarsi narcisisticamente nel culto di sé. Lo sviluppo e le manifestazioni della sua personalità nella direzione dell'uomo universale preconizzato da Marx è imprescindibile dall'interessarsi al mondo, in tutti i suoi aspetti, e dall'acquisire strumenti critici che gli consentano di comprendere in maniera sempre più profonda la realtà storica.

Questo criterio dell'agire governa anche l'espressione politica dell'etica marxista. Il marxista sente come suo imprescindibile dovere partecipare all'evoluzione dialettica del mondo dandosi da fare in qualche modo. Questo significa in genere impegnarsi nell'ambiente di lavoro, nella militanza partitica, nei movimenti civili, nella testimonianza culturale, ecc. La pratica, eletta da Marx a metro di misura dell'adesione al comunismo, deve però realizzarsi nel rispetto della diversità individuale. Teoria e pratica sono indissolubilmente intrecciate nell'etica marxista, ma operare più nell'uno che nell'altro ambito dipende anche da predisposizioni di carattere. Non si può chiedere ad un estroverso di stare troppo a tavolino, né ad un introverso di fare l'agitatore.

Marx, tra l'altro, apparteneva più alla seconda che non alla prima categoria. Il suo sforzo di diventare un rivoluzionario attivo è stato meritorio, ma pagato ad un caro prezzo (psicosomatico), perché, pur vissuto come un dovere, contrastava con la sua passione dello studio. Da questo punto di vista, l'etica marxista corregge il suo fondatore. Non è vero che il mondo è solo da cambiare. Nessun cambiamento si darà e potrà essere immunizzato dal rischio della regressione burocratica se esso non si produce e non viene alimentato da una rivoluzione culturale permanente. In quest'ottica, come ha intuito Gramsci, il ruolo degli intellettuali che non si arrendono al mondo così com'è e lo analizzano criticamente è non meno importante di una militanza attiva sul piano politico.

Rimane infine il problema etico del rapporto con gli avversari, con i conservatori dello status quo, vale a dire i qualunquisti che si adattano al sistema perché il mondo è sempre stato ingiusto e non potrà mai cambiare e gli integrati che ricavano privilegi e vantaggi dal mondo così com'è.

Questo problema è particolarmente complesso perché, a riguardo, nei testi di Marx, si trovano sia invettive bibliche minacciose e cariche di violenza sia giustificazioni sistemiche (come quando egli afferma che anche il capitalista è una ruota dell'ingranaggio).

L'etica politica marxista comporta un'accettazione radicale della democrazia ma in termini di moralità non di legalità. Il potere e le leggi vanno contrastate quando esse ratificano ingiustizie e privilegi. L'opposizione e la lotta escludono però nella maniera più assoluta l'esercizio della violenza fisica, incompatibile con la dignità dell'altro come persona. Si tratta di ricondursi costantemente al principio per cui gli uomini sono sempre migliori delle forme sociali in cui vivono. Ciò significa che quelle forme vanno anche aspramente criticate, ma senza che questo si traduca in disprezzo nei confronti di coloro che le adottano.

Ricordo in un’assemblea sessantottina, circa trent’anni or sono, di avere affermato, a rischio del linciaggio, che il disprezzo è un sentimento di destra. Non ho cambiato opinione. L'etica marxista comporta la necessità di potenziare al massimo grado la capacità di comprendere valori, scelte e stili di vita che - siano essi di matrice cristiana o borghese - si possono ritenere alienati, contro natura o disumani. Tale comprensione, che deve avvalersi di tutti gli strumenti storici, culturali e psicologici necessari a spiegare l'altruismo sacrificale e l'egoismo radicale, non inibisce ovviamente un giudizio critico sulle conseguenze oggettive dell'etica cristiana e di quella borghese. Essa, però, se portata fino a livelli profondi, rivela costantemente che gli uomini sono migliori delle forme sociali alienate entro le quali vivono, e permette di capire che la natura umana, con le sue duplici istanze di socialità e d'individuazione, può essere condizionata dai processi storico-sociali ma non radicalmente modificata.

5.

Decritta in questi termini, l’etica marxista sembra alludere quasi ad una forma di santità laica. Posto che realizzarla appieno richiede una costante tensione critica, e nessun imbarazzo nel riconoscere le contraddizioni in cui ci s’imbatte quotidianamente, il riferimento all'ascetismo è del tutto fuori luogo. La pratica dell’etica marxista produce anzitutto un profondo appagamento soggettivo, la consapevolezza di realizzare, attraverso la propria vita, l’umanità in ciò che essa ha di più specifico, elevato ed universale, e, infine, la coscienza di fare il proprio dovere secondo le leggi intrinseche alla natura umana. Queste, infatti, giusta la lezione di Rousseau, comportano nello stesso tempo un vivo interesse per sé e la ripugnanza nel veder soffrire o nel far soffrire il simile, cui si attribuisce una pari dignità. Non ci vuole molto a capire che queste due istanze della natura umana risultano dissociate nell’ambito dell’etica cristiana, per un verso, che postula il sacrificio anche radicale di sé a favore dell’altro, e nell’ambito di quella borghese per un altro, che enfatizza l’interesse per sé (o, al limite per il Noi) e minimizza, quando non azzera, quello per l’altro (o per il Voi).

Esiste, dunque, un’etica marxista, in una certa misura praticabile anche in un contesto sociale borghese. Essa comporta, naturalmente, qualche prezzo da pagare. Ma nulla vale l’appagamento di sentire di contribuire, in qualche misura, allo sforzo dell’umanità di fuoriuscire dalla sua preistoria.

Febbraio 2004