Il caso Caleffi |
1. Sonia Caleffi, uninfermiera di 34 anni giudicata da tutti fragile e sensibile, ha confessato di avere ucciso cinque malati, tre dei quali terminali, ricoverati nellospedale di Lecco presso cui lavorava, iniettando aria nelle loro vene. La confessione riguarda la responsabilità oggettiva, non le intenzioni. La donna ha affermato che non intendeva uccidere, bensì aggravare le condizioni già critiche di pazienti gravi per dimostrare quanto era professionalmente brava e ottenere lapprezzamento dei medici. "L'ho fatto perché volevo sentirmi importante, essere qualcuno, smettere di essere considerata una nullità, stare al centro dellattenzione durante una situazione critica." Nonostante alcuni pazienti fossero terminali, non si è trattato di eutanasia. Sonia Caleffi non appartiene dunque alla categoria degli operatori sanitari - medici e infermieri - che, sia pure raramente, si sono assunti in Europa negli ultimi anni il ruolo di precursori della cultura della "buona morte". Per quanto contestabile, in quanto agito talora senza il consenso del paziente, tale ruolo ha una comprensibilità di ordine ideologico. La motivazione "narcisistica" addotta dalla Caleffi, darsi importanza giocando con la pelle degli altri, invece, di ordine strettamente privato, è manifestamente patologica e in qualche misura repellente. La donna ha tentato anche di "giustificare" il suo comportamento affermando: "Mai ho premeditato le mie azioni. In concomitanza allespletamento di manovre infermieristiche a pazienti gravi, senza saperlo spiegare nemmeno a me stessa, ho attivato manovre tali da peggiorare le condizioni degli stessi."In un'agenda però gli inquirenti hanno trovato le prove inequivocabili della premeditazione. La Caleffi teneva una sorta di cartella clinica dei pazienti su cui ha agito poi gli "interventi". Non si tratterebbe dunque di raptus ricorrenti ma di una "follia" lucida. Scoperta e posta di fronte a prove schiaccianti, Sonia Caleffi ha prontamente confessato, dichiarando il suo pentimento, prendendo atto della gravità dei fatti, chiedendo scusa ai parenti delle vittime e esprimendo il suo bisogno di essere aiutata. Tale pentimento repentino ha indotto qualche dubbio sulla sua autenticità. Ma c'è almeno un indizio che lo accredita. L'ultimo "intervento" la Caleffi lo ha realizzato in maniera a tal punto "teatrale" da far precipitare i sospetti che già gravavano su di lei. E' entrata infatti nella stanza di una paziente quasi centenaria, ha allontanato in malo modo i parenti, e ha iniettato l'aria nelle vene della paziente, che è spirata quasi immediatamente. Un comportamento del genere sembra attestare un bisogno inconscio di essere scoperta, messa in condizione di non nuocere e punita. Sarebbe questo l'unico indizio di umanità nel contesto di una follia lucida. Come accade spesso per i fatti di cronaca che colpiscono lopinione pubblica, i giornalisti si sono attivati per recuperare informazioni sulla vita, sui trascorsi, sulla psicologia di Sonia Caleffi. Le informazioni sono venute fuori in ordine sparso. Figlia unica di una famiglia piccolo-borghese, la Caleffi ha cominciato a soffrire di anoressia a tredici anni. La malattia è stata acuta per due anni, poi si sarebbe risolta grazie ad un aiuto psicologico. Ancora attualmente, comunque, la donna ha un peso inferiore alla media. I parenti affermano che fare linfermiera è stato sempre il suo sogno, fin dalladolescenza. Conseguito il diploma, comunque, la sua carriera non è stata affatto brillante. Essa ha cambiato di continuo lavoro, per decisione propria o perché, più spesso, è stata allontanata in seguito alle sue stranezze di carattere. Si assentava spesso per malattia. Si vocifera che avesse un atteggiamento inequivocabilmente seduttivo nei confronti dei medici. La malattia in questione sarebbe una depressione. La Caleffi è stata perpetuamente, per quanto discontinuamente, in cura presso psichiatri. Secondo quanto dicono i familiari e i conoscenti, ha una personalità estremamente fragile, immatura, insicura. Si è sposata giovanissima e ha divorziato presto. Conviveva da qualche tempo con un medico radiologo che non ha sospettato nulla. Solo a posteriori egli ha rievocato che, nel comunicargli il decesso di alcuni pazienti, la compagna era particolarmente emozionata. Lavorava allospedale di Lecco, in seguito ad un concorso, da circa due mesi. 2. Sulla base di questi indizi, non sembra possibile dire alcunché sul tragitto di unanima che giunge ad esprimere una motivazione in qualche misura comprensibile essere qualcuno sotto forma di comportamenti cinici e delinquenziali, dunque ingiustificabili. L'essere qualcuno è una motivazione molto diffusa, a livello giovanile, che spesso assume la configurazione di una necessità soggettiva, per cui essa va realizzata ad ogni costo. Per come si pone a livello di vissuto, oggi, tale motivazione rivela un'intima contraddizione. Essere qualcuno, nel senso proprio della parola, implica avere una personalità a tal punto differenziata da distinguersi dalle altre. Per quanto possa essere riconosciuta dagli altri, una personalità differenziata è caratterizzata da un'immagine interna che comporta un senso di valore intrinseco. La differenziazione è imprescindibile da un certo grado di autonomia, talora rilevante, rispetto all'ambiente. Al limite una personalità autonoma è in grado di tollerare anche un giudizio sociale negativo senza squilibrarsi. Nel nostro mondo, in maniera più spiccata a livello giovanile, lessere qualcuno dipende invece totalmente dalle conferme esterne, dal giudizio sociale positivo: si riduce in pratica allo stare al centro dellattenzione, vale a dire allimmagine che un soggetto riesce a dare di sé, corrisponda questa o meno al suo valore intrinseco. E un paradosso della nostra società che il culto dellindividuo autorealizzato si fondi sulla dipendenza dalle conferme esterne che egli riesce a conseguire, anche al limite mascherandosi e falsificandosi. E intrinseco al bisogno di essere qualcuno, così comesso si pone oggi, il pericolo di sentirsi una nullità se il soggetto non è investito da un giudizio sociale positivo. Ciò conferma che quel bisogno coincide con una struttura di personalità che non dispone di alcun grado dindipendenza psicologica, vale a dire di unimmagine interna minimamente stabile. Si può dire di più. Sentirsi una nullità in difetto di conferme esterne attesta che se si dà, a livello inconscio, unimmagine interna, essa è univocamente negativa. In assenza di conferme il soggetto sperimenta questa negatività sotto forma di insignificanza del proprio essere. Ammesso che le cose stiano così per quanto riguarda la Caleffi, nessun problema è risolto. Una personalità dipendente dal giudizio sociale tende solitamente ad essere conformista, almeno in rapporto ad un gruppo di riferimento, a rispettare le norme, le regole e le convenzioni sociali per ottenere lapprovazione altrui. La Caleffi, viceversa, le ha sfidate, addirittura agendo comportamenti di rilievo penale. Qual è il senso di una contraddizione del genere? La matrice originaria di questa contraddizione potrebbe essere ricondotta all'esperienza anoressica che, manifestatasi a livello adolescenziale, ha segnato l'esperienza di Sonia Galeffi. Lanoressia, come ho scritto in Star male di Testa, è sottesa da motivazioni complesse, che fanno capo univocamente al conflitto tra dipendenza e indipendenza. La dipendenza anoressica è riconducibile quasi sempre ad un orientamento perfezionistico di fondo, che implica per lappunto essere quello che gli altri vogliono che il soggetto sia. Tale orientamento è di solito mascherato dal fatto che il soggetto cosciente fa corpo e si allea con le istanze perfezionistiche interiorizzate, fino al punto di ritenere il perfezionismo una scelta di vita. Nella misura in cui invece esso implica una penosa subordinazione alla volontà altrui, reale e interiorizzata, il bisogno dindipendenza si realizza nel rapporto con il cibo, che si attesta su di un registro più o meno tenacemente oppositivo rispetto alle sollecitazioni sociali rivolte ad indurre un normale apporto calorico. Un soggetto anoressico è, in altri termini, preda della volontà altrui in tutto e per tutto tranne che per quanto riguarda il "dovere" di mangiare. Sul piano relazionale, la "bulimia" confermativa determina un atteggiamento di accondiscendenza e spesso di disponibilità totale nei confronti degli altri; sul piano alimentare, viceversa, l'anoressico manifesta una determinazione che non cede minimamente al turbamento e al dolore che il suo comportamento produce nei familiari. Per un verso, insomma, l'anoressico sembra dotato di una sensibilità sociale che gli impedisce di prescindere dalle aspettative altrui; per un altro, legato al cibo, egli sembra totalmente insensibile nei confronti di esse. Il superamento del problema alimentare non significa necessariamente il superamento del conflitto che lo sottende, che comporta, nello stesso tempo, la subordinazione alla volontà altrui, funzionale a soddisfare un bisogno divorante di conferma, e un orientamento più o meno oppositivo. Se questo conflitto si generalizza, investendo la vita di relazione nel suo complesso, si può realizzare nel corso del tempo una vera "dissociazione" interiore in seguito alla quale la fame di conferme viene soddisfatta con comportamenti strumentali, normativi, che sembrano attestare valori elevati, e il bisogno di opposizione si traduce in un sabotaggio, episodico o sistematico, di quei valori, che, al limite, può arrivare alla loro violazione. La pertinenza di queste considerazioni in rapporto a Sonia Caleffi si può ricavare dal fatto che il suo stare al centro dellattenzione dei medici tendeva a dare di lei l'immagine di un'infermiera-modello, attenta e capace, smentita però da un comportamento di segno opposto rispetto al principio deontologico elementare che governa ogni pratica di assistenza sanitaria: primum non nocere. 3. Il bisogno di stare al centro dell'attenzione, che si riconduce di solito al narcisismo, ha una gamma espressiva che, al limite estremo, comporta una vera e propria bulimia confermativa. L'esigenza di ricevere conferme dall'esterno, in questo caso, si pone come una motivazione incoercibile, una sorta di raptus che il soggetto deve soddisfare per non rischiare di stare male. A livello femminile, tale motivazione si esprime spesso nella forma di un atteggiamento perennemente seduttivo nei confronti degli uomini. Alcune donne si sentono vuote e insignificanti se nel corso di una giornata non riescono a catturare almeno lo sguardo desiderante di un uomo. Pare che Sonia Caleffi, nonostante un rapporto stabile con un partner, avesse un problema del genere. Il suo bisogno di stare al centro dell'attenzione, peraltro, sembrerebbe insistentemente riferito alla classe medica. Essa intratteneva una relazione con un medico, aveva un atteggiamento seduttivo nei confronti dei medici, creava situazioni di emergenza per essere apprezzata dai medici di turno. Come ogni forma di dipendenza patologica, la bulimia confermativa comporta una forte ambivalenza nei confronti della fonte a cui il soggetto si rivolge per alimentare la sua fame di conferme. Nella bulimia alimentare, tale ambivalenza è espressa in maniera evidente dall'ingestione del cibo seguita dal vomito. Nella bulimia confermativa l'ambivalenza si esprime in una forma più complessa. Essa riguarda infatti l'altro, da cui si attende la conferma, non meno che il soggetto stesso. Il bisogno d'indipendenza frustrato dall'esigenza incoercibile di ricevere conferme si realizza, infatti, di solito, per un verso, dimostrando che l'altro non è in grado di soddisfarlo in maniera completa, e, per un altro, mettendosi, paradossalmente, in condizione di attivare un rifiuto, Nelle situazioni più comuni, che riguardano la relazione con l'uomo, il soggetto avanza richieste crescenti di conferma fino al punto di dimostrare che l'altro è impotente a soddisfarle. Le conferme, peraltro, anche quando sono ricevute, cadono nel vuoto, non saziano mai, perché il soggetto ritiene inconsciamente di non meritarle. Nel caso di Sonia Caleffi, questa dinamica si è espressa in una forma drammatica. Creando situazioni di emergenza clinica, essa mirava a valorizzare se stessa e a concedere ai medici di dimostrare il loro valore salvando il paziente (circostanza che in alcuni casi pare che si sia realizzata); nello stesso tempo, agiva inconsciamente per metterli di fronte alla loro impotenza e, a lungo andare, per denunciare la sua incompetenza e cattiveria. Per capire questo aspetto, occorre ricondursi alla scissione di cui parlavo prima. E' evidente che un soggetto che l'alberga senza esserne consapevole non può non avere un'immagine interna di sé negativa. Egli infatti intuisce di falsificarsi, di voler apparire agli occhi degli altri in una luce straordinariamente positiva, ma sente che dietro le apparenze c'è qualcos'altro, qualcosa di negativo che occorre tenere celato. Può darsi che non arrivi a capire di cosa si tratta, ma la percezione della negatività basta a promuovere un comportamento cosciente sempre più mascherato. In conseguenza di questa difesa, la dinamica conflittuale si autoalimenta fino ad un limite critico raggiunto il quale possono prodursi vari fenomeni. Uno è la depressione, che congela quella dinamica e punisce il soggetto per la sua negatività. Un altro è il crollo della maschera che può fare affiorare repentinamente la negatività, sotto forma di acting out antisociale. Un terzo è la possibilità che la bulimia confermativa e il bisogno di liberarsi dalla sensibilità al giudizio sociale che lo sottende si condensino, vale a dire si esprimano sotto forma di un comportamento che dà spazio nello stesso tempo ad entrambi. Un comportamento del genere significa agire per ottenere la conferma violando regole, norme e convenzioni il cui rispetto, solitamente, permette di ottenerla. In Sonia Caleffi si è realizzata con evidenza questa terza possibilità. Essa ha agito in maniera criminale per soddisfare la sua fame di conferme e, nello stesso tempo, per rivelarsi immeritevole e indegna di esse. 4. Cercando di analizzare un fatto di cronaca, c'è sempre il rischio, dati gli scarsi elementi di cui si dispone, di costruire ipotesi fittizie. Ancora peggiore è il rischio che l'interpretazione venga assunta come una giustificazione. Non ripeterò quello che ho detto già più volte: per quanto espressivi di un disagio psichico, alcuni comportamenti criminali sono ingiustificabili. Ciò non toglie che essi devono essere interpretati. La criminalità psichiatrica, a differenza di quella comune, apre spiragli inquietanti sull'organizzazione del mondo interiore. Tale inquietudine non è però da ricondurre, come si pensa solitamente, alla scoperta di un'irrazionalità assoluta, né, come pensano gli psicoanalisti, alla scoperta di un caotico impasto di pulsioni che sottendono ogni esperienza soggettiva, e che sono in alcuni casi, per fortuna rari, si realizzano. L'inquietudine deriva piuttosto dal fatto che all'origine di comportamenti criminali, talvolta orribili, si danno dinamiche comprensibili e comuni a molte forme di esperienza psicopatologica. Il conflitto tra dipendenza e indipendenza è un conflitto di base in ambito psicopatologico: il suo esprimersi sotto forma di un'ambivalenza che comporta una fame di conferme dall'esterno e una lotta contro la fonte della conferma, la relazione con essa e, infine, contro il soggetto stesso che la esprime è moneta corrente che si ritrova in tutte le esperienze caratterizzate da dipendenza relazionale, da dipendenza da sostanze (alimenti, alcool, droga) e da dipendenza da non sostanze (gioco d'azzardo, consumismo compulsivo, ecc.). E' inevitabile chiedersi perché il conflitto tra dipendenza e indipendenza in alcuni, rarissimi casi giunga a promuovere comportamenti criminali. La risposta non è semplice. Una qualunque dinamica conflittuale psicopatologica ha una gamma espressiva prevedibile e una imprevedibile. E' prevedibile, per esempio, che una donna affetta da una bulimia confermativa rivolta ad un partner lo metta alla prova fino a dimostrare la sua incapacità di soddisfarla e agisca, paradossalmente, per indurre l'abbandono che teme. Il comportamento di Sonia Caleffi, che pure ha la stessa matrice, rientra invece nell'ambito dell'imprevedibilità. Le infermiere affette da una bulimia confermativa di solito si estenuano nei compiti assistenziali e rischiano di ammalare della sindrome burn-out piuttosto che danneggiare i pazienti. Tutt'al più esse possono talvolta compensare la dedizione totale con atteggiamenti repentini di insofferenza più o meno grave nei loro confronti. Il salto dal prevedibile all'imprevedibile è dovuto, come ho avuto già occasione di scrivere, ad un gioco congiunturale nel quale ha grande peso l'organizzazione della coscienza. Laddove si dà un conflitto sia l'inconscio che la coscienza lavorano per risolverlo. In assenza di una consapevolezza della struttura e del significato del conflitto, la coscienza, diversamente da quanto si pensa comunemente, è più pericolosa dell'inconscio. Per quanto scisso, infatti, l'inconscio tende a privilegiare l'indipendenza, riconoscendo in esso il bisogno più naturale nella personalità adulta. La coscienza, invece, tende a privilegiare la dipendenza e non legge i segnali attestanti che essa è un falso bisogno. L'atteggiamento della coscienza inesorabilmente alimenta il conflitto psicodinamico. Al di là di un certo punto critico, può avvenire che essa trovi una soluzione del conflitto che è un rimedio peggiore del male: la condensazione, che è equivalente al voler cogliere due piccioni con una fava. In questo caso, il comportamento esprime nello stesso tempo in forma solitamente manifesta il bisogno di dipendenza dalla conferma esterna e in forma latente un bisogno d'indipendenza che si traduce nella rivendicazione di una libertà anarchica, che non tiene più conto degli altri, delle regole, delle norme civile e morali e delle convenzioni. E' quanto è accaduto - penso - a Sonia Caleffi. Incredibile - si dirà - essendo essa in cura psichiatrica da anni. No comment. Gennaio 2005
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