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Teorie della Storia
Enciclopedia delle Scienze Sociali
(1998)
di Pietro Rossi
Storia, teorie della
Sommario: 1. La scoperta della storia come
processo unitario. 2. Concezioni cicliche e concezioni lineari. 3.
Progresso e decadenza. 4. Il 'senso' della storia. 5. La storia e le
'storie'. □ Bibliografia.
1. La scoperta della storia come processo unitario
La nozione di 'storia' come processo unitario, comprensivo delle
vicende degli uomini in tempi e luoghi diversi, e quindi coestensivo
con lo sviluppo stesso dell'umanità, è sorta in epoca successiva non
soltanto al concetto di storiografia, ma alla storiografia stessa.
Essa è infatti una nozione tipicamente moderna, che si è venuta
formando nel corso del Settecento, soprattutto nella sua seconda
metà, in concomitanza con la nascita di quella che Voltaire ha per
primo designato (nel titolo di un saggio del 1765) come "filosofia
della storia".
A partire da Erodoto la storiografia si è occupata di avvenimenti e
di azioni umane, di avvenimenti collegati da rapporti di successione
temporale e - in qualche misura - da rapporti causali, di ciò che
gli uomini hanno fatto in determinate circostanze, senza ritenere
che essi siano elementi di un tutto chiamato 'storia'. La
storiografia antica conosce tà genómena, le res gestae, ne indaga i
rapporti, ne ricerca le cause prossime o anche remote; la stessa
cosa vale per la storiografia medievale o per quella dei primi
secoli dell'età moderna. Anche quando Polibio si è proposto di
offrire un quadro unitario delle vicende politiche dell'antichità,
alla luce dell'ascesa della potenza romana, lo ha concepito come un
semplice aggregato, come una 'somma' di avvenimenti.
Il sorgere della nozione di 'storia' presuppone infatti due
condizioni strettamente legate tra loro: per un verso il passaggio
dalla storia di determinate vicende, circoscritte nel tempo e nello
spazio, per esempio dalla storia di una città o di una nazione, alla
'storia' tout court, dal plurale al singolare, o più precisamente al
singolare collettivo; per l'altro lo svincolamento delle res gestae
dalla historia, la loro assolutizzazione. È in questo periodo,
infatti, che nell'ambito linguistico tedesco si comincia a parlare
non più soltanto di Geschichten ma anche della Geschichte, e questa
viene concepita come indipendente dalla Historie. Lungi dall'essere
il puro e semplice oggetto della ricerca storica, la 'storia'
diventa così un oggetto a sé stante, una realtà sui generis che
dev'essere colta nella sua unità e nella sua articolazione. Ma a
questo scopo la storiografia risulta inadeguata; ed ecco sorgere
allora l'esigenza di una 'storia universale' e, al limite, di una
filosofia della storia che si colloca su un piano ulteriore rispetto
a essa. Ovviamente, questo trapasso non costituisce soltanto una
svolta concettuale; alla sua base vi è l'allargamento dell'orizzonte
storico che si compie in virtù delle esplorazioni oceaniche, della
scoperta del Nuovo Mondo, dei nuovi rapporti con l'Oriente, e quindi
la conoscenza di società e culture estranee a quella europea.
E proprio dalla consapevolezza che queste società sono passate
attraverso vicende diverse, che la loro storia è indipendente e
irriducibile al processo che dall'antichità greco-romana ha condotto
all'Europa moderna, sorge l'esigenza di una 'storia universale' in
grado di abbracciare anch'esse. Il saggio voltairiano sulla Philosophie
de l'histoire fornisce appunto un quadro della storia
dell'umanità dallo stato selvaggio alla civiltà non limitato
all'ambito europeo, e i primi capitoli dell'Essai sur les moeurs
et l'esprit des nations sono dedicati alla Cina e alle Indie,
alla Persia e agli Arabi.
L'unità della storia si presenta quindi, in primo luogo, come unità
di processo, come un processo che abbraccia le vicende dei singoli
popoli e li mette in rapporto tra loro. Come gli avvenimenti che
compongono la vita di un popolo, così i diversi popoli diventano
elementi di un insieme più vasto: le singole nazioni hanno i loro
costumi e il loro 'spirito' peculiare, ma s'incontrano e si
scontrano in un teatro comune.
La nozione di 'storia' risponde quindi, in primo luogo, a
un'esigenza di collegamento di processi distinti e differenziati.
Questa esigenza può essere soddisfatta attraverso la comparazione
dei modi di vita, delle strutture politiche, dei sistemi di credenza
- una comparazione rivolta a determinare le condizioni del sorgere e
della permanenza delle diverse forme di governo, come in
Montesquieu, oppure a distinguere ciò che deriva dalla 'natura'
degli uomini, non soggetta a mutamento, e ciò che è invece prodotto
della coutume, della consuetudine, come in Voltaire. Oppure può
essere soddisfatta considerando i singoli popoli come momenti
successivi di un unico processo, come anelli di una 'catena', e
magari vedendo nella loro vicenda individuale il ripetersi di un
ciclo comune, come nel giovanile saggio di Herder Auch eine
Philosophie der Geschichte zur Bildung der Menschheit (1774).
L'unità del processo non esclude però un'articolazione interna, sia
essa costituita da una pluralità di percorsi o di direzioni di
sviluppo oppure anche da 'unità' in esso comprese.
Soprattutto nelle formulazioni novecentesche della nozione di
'storia' il momento della pluralità appare sempre più marcato: ad
esempio, per Wilhelm Dilthey il mondo storico è una 'connessione
dinamica' che comprende in sé una molteplicità di connessioni
dinamiche rappresentate dai sistemi di cultura e dai sistemi di
organizzazione sociale, ma anche dalle epoche che in esso si
succedono, ognuna contrassegnata da propri valori e dalla tendenza a
realizzare determinati scopi.
L'unità della storia è però suscettibile di un'interpretazione più
forte, cioè come unità non soltanto di processo ma anche di
soggetto. Il suo modello classico è costituito, com'è noto, dalla
filosofia della storia di Hegel, per la quale la Weltgeschichte è la
realizzazione progressiva del Weltgeist, dello 'spirito del mondo',
attraverso il succedersi dei diversi 'spiriti dei popoli'. Essa
comporta una duplice riduzione all'unità: delle manifestazioni di
vita di un popolo nel suo corso storico a un soggetto costituito
appunto dal particolare 'spirito' di quel popolo, e dei diversi
'spiriti dei popoli' a un soggetto di cui essi sono momenti. Ma
comporta pure, per altro verso, una considerazione degli individui
come strumenti dello 'spirito del mondo', sia che essi
contribuiscano alla vita di un determinato popolo, assolvendo così
una funzione 'conservatrice', sia che svolgano invece un'azione
trasformatrice nel passaggio dall'uno all'altro 'spirito del
popolo'.
Ma la filosofia della storia hegeliana non è l'unica concezione del
processo storico che faccia appello a un soggetto unitario. Analogo
è, per esempio, il ruolo dell'umanità in Auguste Comte, o
dell'evoluzione nella vulgata positivistica di ispirazione
spenceriana. In tutti questi casi l'unità del processo storico trova
il proprio fondamento nell'unità del soggetto che si realizza nel
suo corso.
Ma l'unità della storia può essere concepita anche come unità di
fine. Il processo storico può cioè essere inteso come un succedersi
di momenti orientati verso la realizzazione di uno scopo, poco
importa che gli individui ne siano consapevoli oppure no, e il suo
significato esser riposto in questa realizzazione. Ancora una volta
Hegel offre un modello di questa concezione: la considerazione degli
individui come strumenti dello 'spirito del mondo' non si riduce
infatti alla constatazione, di per sé ovvia, che il risultato
dell'agire individuale è di solito diverso dall'intento che i
singoli individui si propongono; essa comporta che i loro bisogni e
i loro interessi diventino il mezzo con il quale si compie lo
sviluppo dell'autocoscienza.
Il fine della storia può però essere concepito in modi differenti:
può cioè esser concepito come intrinseco al processo storico, oppure
come assegnato a esso dal di fuori, dalla natura, o ancora come
stabilito da un essere superiore che lo dirige così come governa,
con le sue leggi, la natura stessa.
Nel primo caso la storia viene considerata come un processo
teleologicamente orientato in forma autonoma, contrassegnato dal
trapasso da un originario stato 'selvaggio' di esistenza dell'uomo a
uno stato di barbarie e quindi di 'civiltà', o finalizzato al
conseguimento della libertà o alla soppressione dello stato di
alienazione prodotto dalla proprietà dei mezzi di produzione e dalla
conseguente riduzione del lavoro umano a merce.
Nel secondo caso la storia viene invece considerata come 'parte'
integrante della natura, sottoposta alle medesime sue leggi oppure a
leggi che ne costituiscono una specificazione, e più precisamente
come una fase - di solito come l'ultima fase - di un processo
evolutivo che dal mondo inorganico conduce a quello organico, e
dalla vita alla coscienza.
Nel terzo caso la storia viene a configurarsi come l'attuazione di
un piano provvidenziale che ha come fine il regno di Dio, sia esso
realizzabile sulla terra o in un mondo ultraterreno.
Queste diverse forme di unità si presentano variamente combinate
nella cultura moderna; né esse hanno trovato diritto di cittadinanza
soltanto in ambito filosofico. Al contrario, concezione della storia
e concezione della società sono strettamente intrecciate, e il loro
rapporto condiziona in origine l'impostazione e le direzioni di
ricerca delle scienze sociali, o almeno di alcune di esse.
Se la sociologia ottocentesca ha largamente impiegato un modello
interpretativo di carattere dicotomico, fondato sulla
contrapposizione tra il vecchio e il nuovo sistema sociale,
l'antropologia ha ripreso lo schema della successione di stato
selvaggio, barbarie e civiltà che era stato elaborato nei secoli
precedenti. In entrambi i casi la storia si presenta come un
processo unitario, anche se articolato in 'sistemi' o tipi di
società strutturalmente diversi a cui i fenomeni sociali possono
venir ricondotti.
2. Concezioni cicliche e concezioni lineari
Se la nozione di storia è relativamente recente, la presenza di una
concezione della storia più o meno esplicitamente elaborata è un
fenomeno ricorrente, se non in tutte, certamente in gran parte delle
società e delle culture a noi note.
Basterà fare qui un paio di esempi, volutamente tratti da ambiti
geografici lontani. In molte società africane il tempo è segnato
dalla morte del sovrano, che comporta l'interruzione delle strutture
del potere politico e anche il trasferimento fisico della capitale:
ogni sovrano fissa la sede del potere in un luogo diverso da quello
dei suoi predecessori. Lo spazio reca l'impronta del susseguirsi dei
sovrani, e conserva quindi, attraverso i segni umani sulle cose, il
ricordo del passato, o almeno del passato prossimo. Analoga è la
funzione della distribuzione territoriale dei lignaggi o
dell'edificazione di tumuli funerari, e via dicendo. Siamo così di
fronte a una specie di spazializzazione del tempo storico, l'unica
specie di memoria possibile in una società priva di scrittura. Nella
società maya, invece, i libri profetici ci presentano una
suddivisione del tempo in periodi di duecentocinquantadue anni, che
comportano ognuno l'inizio di un nuovo ciclo. Siamo qui di fronte a
una concezione della storia largamente diffusa, che vede nelle
vicende umane il ripetersi di un medesimo processo.
A essa si contrappone la concezione lineare della storia, la quale
considera le vicende umane come una successione caratterizzata dalla
relativa novità di quanto accade.
Le due immagini che esse presuppongono, quella del tempo come
'cerchio' e quella del tempo come linea o come 'freccia',
costituiscono i modelli più generali di interpretazione della
storia. E tra questi il modello ciclico, che riflette per un verso
il ritmo del giorno e della notte, per l'altro verso l'alternarsi
delle stagioni e dei raccolti, è certamente il più antico; esso
comporta l'assimilazione delle vicende umane a quelle naturali o, in
altri termini, l'indistinzione tra 'natura' e 'cultura'. Le sue
radici affondano nel pensiero mitico, nelle cosmologie che esso ha
elaborato, come appare chiaro nel caso della cultura greca.
Sarebbe però un errore mettere la concezione ciclica e la concezione
lineare in un rigido rapporto di successione, come se l'affermarsi
della seconda significasse l'abbandono o, peggio ancora, il
superamento della prima. E altrettanto erroneo sarebbe attribuirle
in maniera esclusiva all'una o all'altra società, all'una o
all'altra cultura, quando esse piuttosto coesistono, pur prevalendo
di volta in volta e dando così la loro diversa impronta al modo di
concepire la storia di un'intera epoca.
Di queste due opposte concezioni si è spesso indicata l'origine da
un lato nella cultura antica, dall'altro nella tradizione
ebraico-cristiana e, in particolare, nella visione teologica di
matrice agostiniana; si è cioè ritenuta propria dell'antichità una
visione ciclica del tempo, mentre si è attribuito al giudaismo e al
cristianesimo l'elaborazione di una visione lineare. Anche a
prescindere dalla diffusione assai più ampia della concezione
ciclica, che travalica largamente i confini del mondo europeo,
un'interpretazione del genere appare però il frutto di una
semplificazione arbitraria.
Non c'è dubbio che il pensiero greco abbia elaborato teorie cicliche
sia a livello cosmologico, come nel caso della dottrina stoica (ma
già presente in Empedocle o anche in Platone) del 'grande anno' che,
dopo aver ripetuto in maniera sempre identica un determinato
processo, si conclude in una deflagrazione universale, sia in ambito
più propriamente politico, come nella dottrina che istituisce un
rapporto di successione tra le diverse forme di governo. Ma in esso
si possono rintracciare anche teorie che concepiscono lo sviluppo
dell'umanità come un processo di decadenza a partire da
un'originaria età dell'oro, come in Esiodo, o da una costituzione
perfetta, come in Platone, oppure come un cammino progressivo dallo
stato ferino alla civiltà, come in Lucrezio. In generale, poi, la
storiografia greca e quella romana non si ispirano a una concezione
generale della storia: l'orizzonte di Polibio è costituito - se si
prescinde dalla ripresa della teoria ciclica delle costituzioni che
compare nel libro VI - non dalla storia dell'umanità ma dal processo
di espansione di Roma a spese delle città greche, dei regni
ellenistici e della potenza cartaginese.
Né, d'altra parte, la concezione lineare della storia costituisce la
caratteristica distintiva della visione ebraica della storia, e
neppure di quella cristiana. A base della prima vi è piuttosto la
nozione di un 'patto' con Dio, il dio degli eserciti che accompagna
il popolo ebreo nelle sue vicende ora portandolo alla vittoria sui
nemici, ora invece punendolo per le sue colpe, e che adempirà con
l'invio di un messia la promessa del riscatto dall'oppressione -
dove l'idea dell''elezione' si combina con l'aspettativa
dell'avvento del 'regno di Dio' sulla terra. La continuità del
racconto biblico riflette appunto la convinzione dell'intervento
costante della divinità a sostegno del proprio popolo. E alla base
della visione cristiana vi è l'assunzione di un evento
straordinario, l'incarnazione di Dio in Cristo e il suo sacrificio,
come evento centrale della storia, come spartiacque tra l'umanità da
redimere e l'umanità redenta, al di là del quale si apre il tempo
della speranza in un regno non più terreno ma ultraterreno.
Più che il carattere lineare, è il rapporto con la salvezza che
costituisce la base della visione cristiana della storia, qual è
stata elaborata a partire da Agostino e da Orosio. Ciò comporta una
finalizzazione della storia intera alla storia della salvezza, la
quale consente di recuperare la teoria della successione degli
imperi - che compare, per esempio, nel sogno di Daniele, ma che era
largamente diffusa nella cultura ellenistica - e di considerare
l'unificazione politica del mondo civile sotto l'impero di Roma come
condizione della diffusione del messaggio cristiano. E, per quanto
riguarda non il passato ma il futuro, comporta una prospettiva
escatologica la quale può dar luogo all'attesa di una imminente fine
del mondo, e quindi del giudizio finale, oppure - come in Gioacchino
da Fiore - all'attesa di una età, il 'regno dello spirito', che deve
seguire al secondo regno, quello inaugurato dall'avvento di Cristo.
Sarà l'età moderna a segnare l'affermazione della concezione
lineare, il più delle volte declinata nei termini di un processo
positivo, di un graduale avanzamento dell'umanità verso un livello
di vita superiore. Anche qui, però, occorre guardarsi dal vedere nel
mondo moderno la presenza esclusiva della concezione lineare.
Concezione ciclica e concezione lineare continuano a sussistere
entrambe, sebbene in misura diversa; e trovano entrambe alimento
anche nello sviluppo del sapere scientifico. L'astronomia ha offerto
un sostegno sia alla concezione ciclica, con la visione della
rivoluzione dei pianeti intorno al sole, sia alla concezione
lineare, con la teoria laplaciana della genesi del sistema solare da
una nebulosa originaria. E se la geologia ha contribuito anch'essa,
determinando le epoche successive della terra e la comparsa delle
diverse specie animali, all'affermarsi della concezione lineare, lo
studio dei minerali ha rimandato piuttosto a leggi immanenti che
sembrano in contrasto con essa. Più di recente, la nozione di ciclo
è stata impiegata dalla teoria economica per designare l'alternarsi
di periodi più o meno lunghi di espansione e di periodi di
stagnazione nell'economia capitalistica, ed è stata collegata - con
Schumpeter - al processo di innovazione.
La maggior parte delle teorie della storia formulate a partire dal
Settecento mira, a ogni modo, a determinare una linea di sviluppo
dell'umanità a cui ricondurre le vicende particolari dei singoli
popoli. Ciò comporta per un verso l'integrazione in un quadro
unitario anche delle società extraeuropee, per l'altro verso la
considerazione dell'Europa moderna come culmine di un processo del
quale queste altre società diventano - in una prospettiva universale
- momenti preparatori. Non mancano, è vero, tentativi di declinare
al plurale la nozione di 'civiltà'; ma essi rimangono allo stato di
semplici enunciazioni.
Ancora nel corso dell'Ottocento l'evoluzionismo, applicato al mondo
storico, mette capo all'individuazione di una linea di sviluppo
comune sia alle società storiche, sia (in ambito antropologico) alle
culture 'primitive'. Soltanto nel XX secolo si avrà un parziale
ritorno alla concezione ciclica, sulla base dell'assunzione di un
modello organicistico; ma ciò avverrà - come vedremo - lasciando
cadere, e anzi respingendo apertamente, il presupposto dell'unità
del processo storico.
Sovente, poi, nelle teorie della storia concezione ciclica e
concezione lineare si combinano, e sono compresenti in uno stesso
autore. Se la visione del processo storico come cammino verso la
civiltà è indubbiamente una concezione lineare, ancora nella prima
metà del Settecento s'incontra una teoria come quella vichiana dei
'corsi' e dei 'ricorsi', che prevede il ritorno dell'umanità - una
volta pervenuta alla 'ragione spiegata' - al primitivo stato di
barbarie, la sua caduta in una 'barbarie seconda'. Poco importa se
questa barbarie sia differente da quella originaria, in quanto
l'umanità è stata nel frattempo illuminata dalla 'verità' della
religione cristiana; e poco importa se tale nozione sia stata
formulata allo scopo di spiegare una particolare epoca storica, cioè
il Medioevo. Resta il fatto che la 'storia ideale eterna' che
costituisce il modello di sviluppo di tutte le nazioni prevede un
ritorno all'indietro, il quale segna l'inizio di un nuovo ciclo.
Né il modello ciclico è assente nelle filosofie della storia che si
affermano nella cultura tedesca alla fine del XVIII secolo. La
posizione del giovane Herder è, ancora una volta, emblematica. Al
ciclo storico prodotto dalla 'corrente meridionale', che ha avuto
inizio nell'Oriente e si è concluso con il crollo dell'Impero
romano, ha fatto seguito secondo Herder un nuovo ciclo, prodotto
dalla 'corrente settentrionale', che ha i suoi protagonisti nei
popoli nordici e, in particolare, in quelli germanici. La stessa
vicenda di ogni singolo popolo è concepita come un processo di
sviluppo e poi di decadenza, nel corso del quale esso realizza le
proprie potenzialità - in maniera completa il popolo greco, in
maniera incompleta gli altri. Il ciclo diventa così un elemento
interno a un processo che presenta, nel suo insieme, un carattere
lineare.
3. Progresso e decadenza
L'età moderna, al pari delle teorie della storia da essa prodotte, è
però contrassegnata non tanto da una concezione lineare quanto da
una sua variante specifica: quella che concepisce il processo
storico come uno sviluppo positivo, come graduale accrescimento e
miglioramento dell'umanità, e quindi come 'progresso'. Progresso e
decadenza costituiscono infatti i due poli opposti della concezione
lineare della storia.
Soprattutto nell'antichità si incontrano numerose teorie che vedono
invece nella storia dell'umanità un processo negativo, il distacco
sempre più marcato da uno stato originario di perfezione. Queste
teorie hanno la loro base nell'immagine di un''età dell'oro' che sta
all'inizio della storia dell'umanità: un'immagine che ha origine nel
pensiero mitico e che ha trovato la sua prima espressione letteraria
in Esiodo. Anche Platone, però, pone la costituzione ideale,
delineata nella Repubblica, all'inizio di un processo di
degenerazione che attraverso l'aristocrazia, la timocrazia,
l'oligarchia, la democrazia, mette capo alla tirannide, la quale
costituisce la forma peggiore di governo.
A queste teorie si contrappongono quelle che - all'inizio dell'età
moderna - collocano la perfezione dell'umanità al termine del suo
sviluppo, come risultato di quello che Bacone chiama l'"avanzamento
del sapere" e di un corrispondente perfezionamento anche morale
della natura umana.
Le teorie del progresso fanno spesso ricorso all'analogia tra
sviluppo dell'individuo e sviluppo del genere umano, e concepiscono
perciò quest'ultimo come una sequenza di periodi o di fasi
corrispondenti alle diverse età dell'uomo. Per Bacone, e dopo di lui
per molti 'moderni', l'antichità rappresenta l'infanzia
dell'umanità, mentre il mondo moderno ne rappresenta la maturità. La
prova della superiorità dei moderni rispetto agli antichi è indicata
nella possibilità di avvalersi dell'esperienza di questi ultimi, di
accrescere il patrimonio di sapere da essi acquisito e tramandato
nel corso dei secoli. Il 'tempo' stesso diventa così fattore di
progresso, o per lo meno il suo metro; e il futuro si presenta
quindi, ad esempio in Condorcet, come un terreno aperto al progresso
indefinito dell'uomo, a un miglioramento destinato a modificare la
sua stessa natura fisica e morale. In seguito il posto che un popolo
occupa nel tempo verrà fatto coincidere con il grado di sviluppo che
esso rappresenta nel cammino ascendente dell'umanità.
Per Hegel ogni popolo è un momento nel processo di realizzazione
dello 'spirito del mondo', e quindi nel cammino verso la libertà -
dalla libertà di uno solo contrapposta alla schiavitù degli altri
negli imperi dispotici dell'Oriente alla libertà di pochi nel mondo
antico, e infine alla libertà di tutti nel mondo germanico. E la
linea ascendente del tempo viene a coincidere con la direzione del
cammino dello 'spirito del mondo' da Oriente a Occidente, dagli
altopiani asiatici in cui si svolge l'esistenza sempre eguale di
popolazioni nomadi alle pianure fluviali che vedono il sorgere
dell'agricoltura e la nascita delle città, fino alle zone costiere
del Mediterraneo, centro della storia universale. La coincidenza
delle coordinate temporali e di quelle spaziali contraddistingue
così una visione del processo storico in cui non c'è posto, né può
esserci, per arresti o per un ritorno all'indietro del cammino
dell'umanità.
Anche Marx ricorre a variabili geografiche nel determinare, almeno
nella fase iniziale, le formazioni economiche della società; e nel
passaggio dall'una all'altra vede all'opera un processo cumulativo,
rappresentato dallo sviluppo della divisione del lavoro che
contrassegna il processo produttivo.
Ma l'analogia tra sviluppo dell'individuo e sviluppo del genere
umano si prestava a essere utilizzata anche in senso opposto, in
funzione non di una teoria del progresso ma di una teoria della
decadenza. Dopo la maturità l'individuo invecchia e giunge a morte,
attraverso un declino più o meno lungo. Mentre le teorie del
progresso mettono da parte questa fase terminale, le teorie della
decadenza fanno leva su di essa per affermare il necessario declino
di ogni popolo, una volta pervenuto al suo pieno sviluppo. È il
caso, per esempio, di Vico, ma anche di altri autori che,
riflettendo soprattutto sulla storia dell'antichità e sulla caduta
dell'Impero romano, ne traggono la conseguenza dell'inevitabilità
della decadenza, o quanto meno vedono all'opera nella storia
dell'umanità un intreccio costante di progresso e decadenza.
Pur essendo concetti 'polari', infatti, non sempre progresso e
decadenza si escludono. Teoricamente si può pensare a un progresso
che comprende periodi di decadenza, e viceversa. Se questa seconda
possibilità è forse soltanto ipotetica, la prima è tutt'altro che
rara. Il progresso tende a rovesciarsi nel suo opposto: questa tesi
è fatta valere da Montesquieu allorché considera la decadenza romana
come il risultato naturale della potenza e della grandezza di Roma.
Sulla stessa linea anche Gibbon istituisce un rapporto tra
prosperità e caduta, tra ascesa e declino. Prima di Condorcet le
teorie settecentesche del progresso riconoscono dunque l'esistenza
di periodi di stasi o di declino: anche l'Europa, dopo la caduta
dell'Impero romano, è andata incontro a un lungo declino da cui è
uscita faticosamente e di recente, da un lato con la nascita della
scienza moderna e lo sviluppo di nuove tecniche rivolte al dominio
della natura, dall'altro con il nuovo assetto politico fondato sulle
monarchie nazionali. Al pari che nel passato, anche in futuro
l'umanità potrà conoscere arresti nel suo sviluppo, periodi di
declino.
David Hume considera naturale la decadenza dei popoli una volta che
abbiano raggiunto uno stato di perfezione, mentre Adam Ferguson
propone meccanismi istituzionali che facciano fronte al pericolo di
una decadenza simile a quella del mondo antico. Così l'alternarsi di
progresso e di decadenza consente anche il recupero di una visione
ciclica: solo che questa non si riferisce più all'umanità nel suo
complesso, ma ai singoli popoli. Il progresso dell'umanità si
realizza pertanto attraverso il ciclo ascendente e discendente dei
popoli che, in modo analogo agli individui, sono destinati a
decadere dopo aver raggiunto la loro maturità.
4. Il 'senso' della storia
Alle diverse teorie fin qui delineate, sia a quelle che scorgono
nella storia il ripetersi di un medesimo ciclo sia a quelle che la
concepiscono come un movimento lineare in senso positivo o negativo,
come progresso o come decadenza o come un intreccio dell'uno e
dell'altra, è essenziale la ricerca del 'senso' della storia. Anche
questa ricerca precede il sorgere della nozione di 'storia' come
processo unitario. Alla base di essa stanno lo spettacolo della
transitorietà delle cose, delle alterne fortune degli uomini, delle
città e degli imperi, oppure il problema del significato
dell'esistenza individuale e della possibilità di 'salvezza':
l'interrogativo sul significato del rapporto tra l'uomo e la storia
può scaturire infatti dalle motivazioni più diverse, di carattere
politico o religioso o di altro genere, oppure essere oggetto di
elaborazione filosofica.
Una prima impostazione del problema consiste nel ricondurre la
storia dell'umanità al corso naturale delle cose, nel concepirla
cioè come parte integrante della natura. In questa prospettiva le
vicende umane vengono considerate omogenee alle vicende di qualsiasi
altro elemento naturale; in particolare, l'essere umano viene
considerato analogo, nella sua struttura fondamentale, a qualsiasi
altro essere vivente. Questa impostazione è nettamente prevalente
nella concezione ciclica della storia, ma non è affatto esclusiva di
questa. L'evoluzionismo ottocentesco, ad esempio, ha visto nella
storia dell'umanità la fase ultima di un processo che ha avuto
inizio con l'evoluzione inorganica e con quella organica: essa
presenta rispetto a entrambe caratteristiche nuove, ma è in ogni
caso sottoposta a leggi evolutive, sia alle leggi generali
dell'evoluzione sia alle leggi specifiche dell'evoluzione
superorganica. Questa impostazione mette capo alla negazione del
'senso' della storia, o per lo meno alla negazione di un suo senso
specifico, che possa distinguersi da quello del processo generale
dell'evoluzione.
La ricerca del 'senso' della storia richiede infatti il
riconoscimento di una differenza tra esistenza umana e natura, tra
la collocazione dell'uomo nel mondo e il posto che vi occupano altri
esseri. Ma qui si apre una duplice possibilità, in quanto il
significato delle vicende storiche dell'umanità può essere
determinato nello sviluppo stesso oppure nel rapporto tra lo
sviluppo e un elemento esterno, trascendente il corso della storia.
Nel primo caso il 'senso' della storia coincide con la sua direzione
di sviluppo, solitamente intesa in termini positivi, come
miglioramento delle condizioni di vita o anche come perfezionamento
intellettuale o morale. Nel secondo caso il 'senso' della storia
viene individuato nella realizzazione di un 'piano' generale che non
è opera degli uomini ma che è stabilito dalla volontà di un essere
superiore, e alla cui realizzazione gli uomini possono, al massimo,
cooperare. La prima concezione si ritrova di solito nelle teorie
della storia come progresso; la seconda è indifferente
all'alternativa tra progresso e decadenza, in quanto li considera
entrambi in funzione di un piano provvidenziale.
La visione della storia come realizzazione di un piano a essa
esterno ha sempre, è chiaro, un fondamento religioso. Non però tutte
le religioni, e neppure tutte le 'religioni della redenzione' (per
avvalerci della categoria weberiana), attribuiscono un 'senso' alla
storia, né tanto meno le attribuiscono un significato
provvidenziale. Questa prospettiva è propria delle religioni
monoteistiche sorte sul tronco della tradizione ebraica che vedono
nella storia il teatro dell'agire divino, poco importa che questo
agire abbia la sua base nel patto stipulato con il 'popolo eletto'
oppure nell'esigenza di una redenzione dell'umanità dal peccato o
ancora nel comando di convertire gli altri popoli alla vera fede. È
stato soprattutto il cristianesimo a dar vita a una teologia della
storia incentrata sull'azione redentrice di Dio fattosi uomo, e
sulla subordinazione delle vicende umane allo scopo della salvezza
sia dei singoli sia dell'umanità nel suo complesso. Ne è nata una
visione del processo storico come scontro tra 'città del diavolo' e
'città di Dio', tra il peso del peccato originale e la grazia divina
che permette la salvezza, qual è quella delineata da Agostino; e ne
è derivato anche lo sforzo di ricondurre a questo disegno le vicende
degli imperi, considerati anch'essi strumenti dell'agire divino.
La concezione della storia come realizzazione di un piano
provvidenziale mette infatti capo a una considerazione del processo
storico come 'storia sacra'. Ma la storia sacra può essere
contrapposta alla storia profana, oppure inglobarla in sé, senza
possibilità di distinzione. Nel primo caso la storia sacra
costituisce una sezione verticale del processo storico, essa sola
fornita di 'senso': è la storia della 'città di Dio', costruita
muovendo dal racconto biblico della creazione del mondo al momento
centrale dell'incarnazione, per proseguire quindi nella storia della
Chiesa ritenuta istituzione sui generis di origine divina. In questa
maniera storia sacra e storia profana obbediscono a due logiche
diverse, in quanto la storia profana risulta irrilevante per la
realizzazione del piano provvidenziale, e quindi priva di
significato, oppure le viene attribuito un significato subordinato.
Nel secondo caso l'intero processo storico acquista 'senso', in
quanto ogni suo momento viene visto in collegamento con il piano
provvidenziale. Quando Herder indica nella storia dell'umanità "il
corso di Dio attraverso le nazioni", o Hegel concepisce la storia
universale come lo sviluppo dello "spirito del mondo", la storia
intera ne risulta sacralizzata - anche se, in quest'ultimo caso,
siamo piuttosto di fronte a una versione secolarizzata della
provvidenza. Provvidenza e progresso vengono infatti a coincidere;
lo sviluppo dell'umanità verso un livello di vita superiore rientra
anch'esso nel disegno divino.L'alternativa che vede il 'senso' della
storia nella direzione del processo storico si è fatta valere
soprattutto in seno alle teorie del progresso, che hanno
accompagnato il sorgere della nozione di 'storia' come processo
unitario. All'antitesi tra progresso e decadenza l'età moderna ha
sostituito quella tra progresso e provvidenza, facendo della
decadenza un momento interno di uno sviluppo progressivo.
Più che come risultato di un processo di secolarizzazione della
visione ebraico-cristiana della storia, come ebbe a presentarle Karl
Löwith, le teorie della storia come progresso costituiscono
un'alternativa radicale a essa, in quanto trasferiscono da Dio
all'umanità la capacità di organizzare le vicende umane in base a un
piano. Esse lasciano cadere non soltanto la distinzione tra storia
sacra e storia profana, ma la possibilità stessa di una storia
sacra. La storia diventa il cammino, più o meno continuo, attraverso
cui l'umanità si solleva dallo stato selvaggio, ancora visibile
nelle condizioni di esistenza delle popolazioni indigene del
continente americano, alla civiltà. E questo cammino non è governato
da alcun disegno provvidenziale; è il risultato dell'opera degli
uomini nel corso di innumerevoli generazioni, di un'opera dapprima
inconsapevole e poi sempre più consapevole. I fini che gli uomini
perseguono sono posti da essi stessi; le società si sono organizzate
sulla base di progetti umani, e la religione stessa è un prodotto
dell'uomo che ha contribuito all'incivilimento dell'umanità, così
come, quando si è associata al fanatismo e all'intolleranza, è stata
invece fattore di barbarie.
Entrambe queste alternative, però, fanno riferimento alla storia
considerata come processo unitario; presuppongono cioè un 'senso'
immanente o trascendente, che in qualche maniera sovrasta l'agire
del singolo individuo. Per questo motivo il declino delle teorie del
progresso, che si è compiuto a partire da metà Ottocento, ha messo
in crisi anche la ricerca del 'senso'.
Se nel processo storico non si può ravvisare una direzione più di
quanto vi si possa scorgere la realizzazione della volontà divina,
allora esso non ha neppur più un 'senso' immanente, intrinseco al
processo stesso; i suoi momenti non hanno altro significato al di
fuori di quello attribuito dagli attori del processo, dai singoli
uomini (o gruppi sociali). La storia riceve il proprio 'senso'
dall'agire degli uomini che la producono, o dal sapere storico che
ne interpreta, ricostruendole, le vicende. La ricerca del 'senso' si
risolve così nello sforzo umano di dare significato agli
avvenimenti, sia che questo sforzo venga compiuto all'atto di
produrli sia che ci si rivolga a essi assumendoli come oggetto di
indagine da parte della storiografia (e delle scienze sociali).
5. La storia e le 'storie'
L'abbandono della ricerca del 'senso' della storia va di pari passo
con la crisi della nozione di storia come processo unitario. Se la
scoperta di questa nozione ha costituito, dal Settecento in poi, la
base della filosofia della storia, il rifiuto di questa ha condotto
anche all'abbandono, o per lo meno a una riformulazione radicale, di
tale nozione.
Decisivo è stato, al riguardo, lo storicismo contemporaneo, a
partire da Dilthey. Il problema della storia si è trasformato
infatti nel problema della storicità dell'uomo, della sua capacità
di proporsi scopi e di produrre valori diversi da epoca a epoca, da
società a società. È così venuta meno la possibilità di concepire la
storia come unità, come totalità onnicomprensiva. A ciò si
affiancava un'altra svolta, non meno decisiva. La determinazione di
una linea unitaria di sviluppo comportava, come si è visto,
l'integrazione delle società extraeuropee in un quadro
storico-geografico che aveva il proprio centro di riferimento nella
società europea, considerata in una prospettiva fondata sul
postulato della continuità tra antichità e mondo moderno. Questa
integrazione era quindi, in realtà, un'assimilazione, che conduceva
a presentare quelle società come una specie di premessa alla marcia
avanzante della civiltà europea, oppure come direzioni di sviluppo
'bloccate' o quanto meno in ritardo rispetto a essa. E poco importa
che questa impostazione si accompagnasse talvolta al vagheggiamento
dell'Oriente biblico, come in Herder, o al mito di un'origine comune
dei popoli indoeuropei, come in Friedrich Schlegel. Se le teorie
della storia come provvidenza privilegiavano la tradizione
ebraico-cristiana, ed ereditavano quindi dall'Antico Testamento la
fede nella centralità del popolo ebreo, le teorie della storia come
progresso adottavano invece inevitabilmente una prospettiva
eurocentrica.
Il distacco da questa è cominciato con lo studio non tanto delle
società extraeuropee che avevano prodotto forme di civiltà diverse
da quella europea, quanto delle culture che venivano considerate
'primitive'. Se l'antropologia ottocentesca aveva delineato un
processo evolutivo articolato in stadi successivi, instaurando un
parallelo tra le tribù del continente americano e l'organizzazione
gentilizia vigente in Grecia e a Roma, e aveva indicato nella fase
arcaica della storia antica il momento di passaggio dalla barbarie
alla civiltà, la ricerca antropologica dei primi decenni del XX
secolo ha invece posto in luce l'individualità di ogni cultura, la
peculiarità dei modi di vita dei gruppi sociali che ne sono
portatori e dei sistemi di valori da essi riconosciuti. Il principio
storicistico dell'individualità veniva così applicato a ogni
società, con il risultato di mettere in crisi la riduzione a una
linea unitaria di sviluppo proprio là dove essa sarebbe stata forse
meno difficile.
La vera svolta avveniva però su un altro terreno, non scientifico ma
filosofico, ed era legata al venir meno della fiducia nella
sopravvivenza stessa della civiltà europea all'indomani di una
guerra fratricida come quella del 1914-1918. Il "tramonto
dell'Occidente" proclamato da Oswald Spengler si presentava come
caso particolare di un destino di morte comune a tutte le civiltà,
passate e presenti. E ciò presupponeva non solo la ripresa della
concezione ciclica, ma anche l'abbandono della nozione della storia
come processo unitario. L'umanità non è altro che un concetto
zoologico, e quindi non possiede una 'storia'; ciò che storicamente
esiste sono le singole culture, le quali nascono, si sviluppano e
decadono in modo uniforme, ma rimanendo irriducibili l'una
all'altra.
L'unità del processo storico si risolve così nella pluralità delle
culture. Questa pluralità è però suscettibile di una duplice
interpretazione. Quella di Spengler era un'interpretazione radicale,
la quale comportava, al limite, l'assenza di qualsiasi rapporto che
non si riduca a un contatto estrinseco, e quindi l'impossibilità di
comunicazione e di comprensione reciproca tra le culture. Tutte le
culture, indipendentemente dall'epoca in cui sono sorte, sono tra
loro contemporanee; soltanto più tardi, nelle opere apparse postume,
Spengler parlerà in maniera sempre più fantasiosa di 'catene' tra le
culture, di rapporti di successione.
Diversa, e in polemica esplicita con quella spengleriana, è
l'interpretazione di Arnold J. Toynbee, per il quale la storia è sì
storia di civiltà, ma è anche il luogo in cui queste si incontrano e
si scontrano, e in cui le civiltà posteriori ereditano il patrimonio
culturale di quelle che le hanno precedute. Anzi, Toynbee recuperava
l'unità della storia, anche se in una prospettiva religiosa. Se
Spengler riprende il concetto di ciclo applicandolo alle singole
culture, Toynbee finisce per postulare un progresso religioso
dell'umanità, considerando le varie civiltà come le 'ruote' che
consentono all'umanità di progredire verso un livello di esistenza
superiore.
Entrambe queste teorie della storia sono state, e con fondati
motivi, sottoposte a critica, ed è stata contestata l'attendibilità
di molte delle loro ricostruzioni; tuttavia esse hanno contribuito a
modificare in profondità il modo d'intendere il processo storico. Il
vecchio schema tripartito che vedeva la storia suddivisa in
antichità, Medioevo ed età moderna è stato relativizzato,
rivelandosi valido soltanto in riferimento all'ambito europeo. La
stessa continuità tra civiltà antica e civiltà moderna appare
problematica; né d'altra parte la cultura europeo-occidentale può
più esser considerata, se si tien conto dell'importanza dell'Impero
bizantino e della sua influenza nel mondo slavo, l'erede esclusiva
di quella greco-romana.
Che, al di fuori dell'ambito geografico europeo, si siano sviluppate
società e culture fornite di una fisionomia specifica, e che queste
abbiano percorso cammini differenti, è oggi una tesi unanimemente
riconosciuta. Del resto, anche un'interpretazione del processo
storico in chiave di progressiva razionalizzazione, qual è quella di
Max Weber, sottolinea la pluralità delle forme e delle direzioni di
tale processo, e il carattere unico dello sviluppo occidentale e del
suo esito. Se la concezione magica del mondo, legata alla struttura
del gruppo parentale, presenta una relativa omogeneità, il sorgere
delle religioni della redenzione e la diversità delle vie di
salvezza da esse indicate ha aperto la strada a un processo sempre
più divergente.
La pluralità delle culture e del loro processo storico non comporta
però necessariamente l'abbandono della nozione di 'storia', ma
piuttosto la sua articolazione in diverse 'storie' che sono in parte
indipendenti, e in parte invece s'intrecciano. E proprio
l'unificazione economica del globo - quella che Marx indicava come
la nascita di un 'mercato mondiale', e che va oggi sotto il nome di
'globalizzazione' - rende impossibile mantenere il postulato
spengleriano di una molteplicità irriducibile di culture.
La visione che si impone è piuttosto quella di un complesso rapporto
tra l'Occidente e il mondo, la visione di un processo che ha
condotto la società europea, nel corso dell'età moderna, a
svilupparsi in una maniera che le ha poi consentito di espandersi
sull'intera superficie della terra, e che ha costretto le altre
società a recepirne le acquisizioni e a reagire a essa. In questa
prospettiva Immanuel Wallerstein ha delineato la costruzione di
un'economia-mondo, a partire dalla metà del XV secolo, che tende a
inglobare progressivamente tutte le regioni riducendole a periferie
o a semiperiferie del 'centro' capitalistico del sistema economico
internazionale.
Se le teorie storiche del primo Novecento hanno posto in luce
l'autonomia delle società e delle culture, la loro irriducibilità a
un medesimo processo di sviluppo, le vicende posteriori -
soprattutto quelle della seconda metà del secolo - hanno portato in
primo piano l'esigenza di coglierne i rapporti, di determinare come
questi siano venuti configurandosi diversamente nel corso dei
secoli.
All'unità del processo storico si sostituisce così l'unità di un
quadro che permetta di render conto della diversità dei percorsi
seguiti dalle diverse società, ma anche del loro incontro nel
passato come nel presente. La nozione di 'storia' elaborata nel
corso del Settecento non viene quindi a cadere, ma sembra piuttosto
richiedere una profonda riformulazione. In questa visione di un
processo 'plurale' ma interrelato concetti come quelli di ciclo, di
progresso e di decadenza, a cui le tradizionali teorie della storia
facevano riferimento, risultano ormai di scarsa utilità, o quanto
meno richiedono di essere riformulati: la storia non costituisce un
ciclo, ma conosce cicli, soprattutto cicli economici; non è né
progresso né decadenza, ma conosce momenti di sviluppo e di declino
che riguardano il più delle volte non tanto le società nel loro
insieme, quanto aspetti e settori della loro vita.
L'intero apparato concettuale della nostra comprensione della
storia esige di venir adeguato non soltanto ai risultati della
ricerca storiografica e delle scienze sociali, ma anche alle
trasformazioni del mondo in cui viviamo.