IL TEATRO DI PIRANDELLO

Introduzioni alle opere (in ordine cronologico)

da http://www.pirandelloweb.com/
INTRODUZIONE

Nel luglio del 1916, dopo il fortunato esito di Pensaci, Giacomino! Pirandello scriveva al figlio Stefano: "... La commedia 'Pensaci, Giacomino!' ha avuto una serie di repliche con esito felicissimo e correrà certo la penisola trionfalmente. Musco è entusiasta della parte... Ho preso l'impegno di scrivergli un'altra commedia per il prossimo ottobre, e spero di mantenerlo, benché il teatro, come tu sai, mi tenti poco".

E in effetti Pirandello giunse al teatro relativamente tardi, dopo aver scritto alcuni romanzi e centinaia di novelle, e quasi controvoglia. Tuttavia il teatro costituì, in qualche misura, lo sbocco naturale dell'arte pirandelliana.

Non solo perché all'epoca in cui Pirandello si dedicò precipuamente alla composizione drammatica - gli anni intorno alla prima guerra mondiale - le novelle contenevano già un impianto teatrale fatto di intensi, quasi frenetici dialoghi; ma anche perché tutto lo sviluppo della sua tematica artistica conteneva un elemento di teatralità. Il concetto cardine del suo pensiero  estetico, quello di umorismo - così com'egli lo aveva elaborato nel saggioL'umorismo del 1908 - sfociava nel convincimento che la vita fosse una buffonata, una finzione molto simile a quella che si svolge sul palcoscenico.

Da questo punto di vista appare assai poco accettabile la tesi esposta da Luigi Russo, secondo la quale:

"Il teatro, succeduto nella vita spirituale dell'artista quand'egli aveva in gran parte vuotato la sua anima e dato sfogo alle sue più genuine ispirazioni, non poteva essere che una forma divulgativa o una complicazione intellettuale del primitivo problema artistico".

E' indubbio che con il teatro Pirandello arricchisce, e quindi complica e in qualche modo appesantisce, la sua tematica più genuina. Ma non si tratta di un mero procedimento tecnico, di una descrizione delle novelle; si tratta, piuttosto, di una chiarificazione interiore che lo conduce a una dimensione creativa nuova e più elevata, il cui perno è costituito dal rapporto tra realtà e finzione, tra persona e personaggio, tra normalità e anormalità.

In questo senso, possiamo distinguere tre fasi nello sviluppo dell'opera drammatica pirandelliana.

Particolarmente importante per la comprensione del primo periodo che giunge fino al 1918 e comprende commedie come Pensaci, Giacomino!, Lumíe di Sicilia, Liolà, Il berretto a sonagli - èPensaci, Giacomino!. Come scrive Mario Baratto: "L'individuo che vuol far apparire delle ragioni personali, più meditate, non conformiste, accetta già, se si guardi bene, non solo di apparire, ma di essere anormale. Al tipico si sostituisce allora l'originale, lo strano...".

Da una parte l'anormale diventa una sorta di ascesso che la società tende continuamente a riassorbire come un male episodico: mentre esso è il prodotto costante della sua normalità...

Dall'altra la psicologia tesa e maniaca, la pazzia latente ed espressa, è una realtà interiore connessa a una condizione umana: l'individuo è sempre insidiato da un conflitto interiore insanabile.

Il professor Toti, il protagonista di Pensaci, Giacomino!, è il tipico personaggio pirandelliano di questo periodo: un egocentrico piccolo borghese che non riesce ad acquistare consapevolezza storica della propria condizione. Tuttavia, rispetto ai personaggi delle commedie più naturalistiche, d'ambiente siciliano, entra qui un elemento dialettico: il farsesco, il comico diventa anormale e quindi si contrappone alla normalità dell'ambiente, mettendola radicalmente in discussione.

La conseguenza di questo dramma è però la frustrazione dell'individuo, la sua impotenza ad agire. Questo si nota, per esempio, nell'ambito dei rapporti sentimentali e sessuali. I personaggi pirandelliani cercano il paradosso, si assumono l'incarico di offendere a ogni costo la sensibilità morale della borghesia, ma non sperimentano mai l'amore. Si limitano a una serie di esercitazioni verbali intorno a che cosa potrebbe essere l'amore senza mai coglierlo.

La seconda fase del teatro pirandelliano - che giunge fino al 1927 e comprende le maggiori opere pirandelliane, dal Giuoco delle parti ai Sei personaggi in cerca d'autore, da Enrico Quarto aVestire gli ignudi - ruota intorno al problema del rapporto con la realtà.

Dice Pirandello: "La vita allora, che si aggira piccola, solita, tra queste apparenze, ci sembra quasi che non sia davvero, che sia come una fantasmagoria meccanica. E come darle importanza? Come portarle rispetto?".

E' su queste domande che il teatro pirandelliano prende un nuovo respiro: esasperando cioè i conflitti tra apparenza e realtà, fra normalità e anormalità, fra individuo e mondo esterno, che nelle commedie del primo periodo dava luogo - per esprimerci in chiave psicoanalitica - a uno stato perenne di ansietà, determinato dall'incapacità di interpretare tutte le percezioni che affluiscono dal mondo esterno, nella seconda fase genera uno stato di schizofrenia. Cioè, il personaggio pirandelliano si chiude ermeticamente in se stesso.

La dialettica tra anormalità e normalità stessa si spezza; l'anormalità diventa sistema di vita, incurante del rapporto col mondo. Il rapporto fra apparenza e realtà assume dimensioni tanto più tragiche quanto più, come scrive Silvio D'Amico, "Pirandello rinnega addirittura il 'penso, quindi sono' di Cartesio: per lui neanche pensare significa essere".

Qui sarebbe lecito chiedersi: ciò non finisce col distruggere l'essenza della grande poesia tragica, la nobiltà del dolore? Ma appunto qui vuole essere l'originalità del Pirandello drammaturgo; appunto da questa impossibilità di una tragedia egli trae la più disperata delle tragedie, la sua.

L'ultimo periodo del teatro pirandelliano - che, da Uno, nessuno e centomila giunge sino ai Giganti della montagna - nasce da una crisi profonda dello scrittore e della sua arte.

L'individuo pirandelliano, il personaggio, scopre la sua inadeguatezza nell'affrontare la realtà; l'isolamento soggettivistico in cui opera lo conduce continuamente allo scacco, anzi a una sconfitta che si verifica ancor prima della lotta. Nella Favola del figlio cambiato, e ancor più nei Giganti della montagna, la coerenza ideologica dell'arte pirandelliana si dissolve nell'ambiguità, in una sorta di grandioso sdoppiamento: mentre si eleva l'elegia all'individualità destinata a sparire, condannata da forze cieche e brutali che la frantumano, entrano in gioco, come protagonisti, entità collettive, personaggi corali ai quali spetta l'ultima parola.

Nello stesso tempo, si scioglie la contrapposizione fra arte e vita.

L'arte, come momento privilegiato, è destinata a sparire; ma forse potrà essere sostituita dalla creatività generale, cioè da un mondo che viva secondo ritmi e leggi di armonia e di bellezza.

Questa grande utopia è presente nelle parole con cui Stefano Pirandello, su indicazione del padre morente, ricostruisce il finale dei Giganti della montagna"Non è, non è che la Poesia sia stata rifiutata; ma solo questo: che i poveri servi fanatici della vita, in cui oggi lo spirito non parla, ma potrà pur sempre parlare un giorno, hanno innocentemente rotto come fantocci ribelli, i servi fanatici dell'arte, che non sanno parlare agli uomini perché si sono esclusi dalla vita, ma non tanto poi da appagarsi soltanto dei propri sogni, anzi pretendendo di imporli a chi ha altro da fare, che credere in se stessi".


"LA MORSA"

EPILOGO IN UN ATTO

Dramma in un atto. Scritto probabilmente nel 1892, fu pubblicato per la prima volta nel 1898 col titolo L'epilogo e riveduto in occasione di una nuova edizione nel 1914, in cui ebbe il titolo definitivo. Rappresentato per la prima volta nel 1910 insieme a Lumie di Sicilia dalla compagnia di Nino Martoglio, segnò l'esordio teatrale di Pirandello. L'intreccio, basato sul classico triangolo borghese, è stato ripreso dall'autore nella novella La paura, pubblicata per la prima volta nel 1898 e poi inclusa nell'Appendice alle Novelle per un anno (ed è uno dei rari casi in cui la stesura della novella segue quella del testo teatrale). Nel 1918 ne venne messa in scena una versione in dialetto siciliano ('A morsa).

Lo schema del dramma è apparentemente naturalistico-borghese: Giulia sposa Andrea Fabbri, che per non doversi vergognare della ricchezza di Giulia, si getta nel lavoro perché vuol essere lui, con le sue sole forze, a costruire una casa ricca, degna della moglie. Ma così non risponde al bisogno d'amore, di vita di Giulia, la spinge inconsapevolmente all'adulterio. Andrea scopre il tradimento della moglie e si trasforma in accanito inquisitore, caccia di casa la moglie, le toglie i figli, fino a portare Giulia all'estremo gesto del suicidio. Il triangolo del teatro verista borghese in realtà è sconvolto: infatti, i confini tra colpevolezza e innocenza, tra dubbio e certezza, tra verità e menzogna, tra condanna e punizione, sono sfumati; i ruoli degli stessi personaggi sono plurivalenti, veri e propri caratteri, in particolare Giulia che è "carnefice" e vittima persino di se stessa.

Tecnicamente l'opera inizia "in medias res" e lo spettatore viene a conoscenza del dramma attraverso il fitto e concitato dialogare dei personaggi, che più parlano e meno si comprendono, ognuno chiuso nel suo "universo".

Quest'opera, quindi, anticipa alcune tematiche che Pirandello svilupperà nella produzione successiva, specialmente il mito sociale dell'onore nella Sicilia del primo novecento.

"LUMIE DI SICILIA"

COMMEDIA IN UN ATTO

Nel 1910 viene messo in scena, al teatro Metastasio di Roma, una delle opere meno rappresentate dal panorama teatrale italiano: "Lumie di Sicilia" di Luigi Pirandello.

Atto unico, esemplare preciso del teatro verista nazionale, descrive una dimensione tipica dei caratteri umani e dei rapporti che rimangono tali solo nell’immutabilità delle situazioni. Definita da Gerardo Guerrieri "un’amarissima Traviata pirandelliana", la pièce si propone come schema umano della distruzione delle illusioni di fronte alla realtà. Da ricordare l’originalissima versione romana "Agro di limone" di Ettore Petrolini, del 1923.

La lumia è il frutto di una pianta del genere Citrus con fiori rosa, molto profumato e simile per il sapore acidulo al limone.

Micuccio Bonavino è vissuto per lunghi anni con il ricordo della sua amata Teresina di cui lui stesso ha scoperto le doti canore e che ora, divenuta famosa, gira il mondo raccogliendo successi. Se non fosse stato per lui, umile suonatore di ottavino della banda comunale, Teresina sarebbe rimasta in paese a condurre la sua misera vita. Micuccio invece, non solo ha aiutato a sopravvivere, con il suo misero stipendio, lei e la madre Marta, ma, a prezzo di grandi sacrifici, l'ha fatta studiare vendendo addirittura un suo piccolo podere per acquistarle un pianoforte. Micuccio ha alimentato il ricordo di Sina, come ora si fa chiamare Teresina, mantenendola viva dentro di lui ma cristallizzandola a quando era una povera e semplice ragazzina siciliana con una bella voce, innamorata di lui. Ora egli scoprirà come il tempo e la vita possono far cambiare una persona sino a renderla del tutto diversa da quella che era e come l'amore può continuare a vivere in un persona mentre nell'altra muore a poco a poco. Dopo un lungo e faticoso viaggio in treno, durato due giorni, Micuccio vuol fare una sorpresa a Sina e si presenta, malmesso per il viaggio, nella sua lussuosa casa in una città del Nord, proprio nel momento in cui si sta preparando una serata in onore della famosa cantante. L'ingenuo Micuccio, che si stupisce del lussuoso ambiente dove ormai vive Sina, vedrà sgretolarsi a poco a poco l'immagine che ha conservato di lei. Persino i domestici lo relegano in anticamera, dove gli farà compagnia la zi' Marta che ha conservato il ricordo delle sue umili origini e che tenterà di far capire a Micuccio come ormai Teresina, che ha condotto una vita molto lontana da quei costumi contadini in cui egli continua a credere, non sia più adatta a lui. Ma solo l'improvvisa comparsa di Sina, sfavillante di gioielli e vestita lussuosamente con una provocante scollatura, convince Micuccio della verità, a cui finora non aveva voluto credere in nome del ricordo che conservava di lei. Reagisce allora con rabbia e con fierezza quando Sina vorrebbe prendere e sentire il profumo delle lumie che egli ha portato dalla Sicilia: lei non ne è più degna ed egli le dona invece alla madre; e a Teresina in lacrime, caccia nel seno il denaro, che gli era stato prestato per superare una malattia che lo aveva colpito, e che egli era venuto onestamente a restituire. Solo il denaro ora ha importanza per Sina:

« Per te, c'è questo, ora. Qua! qua! ecco! così! E basta! - Non piangere! - Addio zia Marta! - Buona fortuna!. »

"IL DOVERE DEL MEDICO"

DRAMMA IN UN ATTO

Commedia in un atto scritta nel 1911, tratta dalla novella Il gancio (1902), a cui fu successivamente cambiato il titolo ne Il dovere del medico (1911). Il testo della commedia fu pubblicato nel gennaio del 1912 in "Noi e il Mondo" e successivamente nel 1926 per i tipi dell'editore Bemporad.

La prima rappresentazione si ebbe a Roma , nella Sala Umberto, il 20 giugno 1913, ad opera della "Compagnia Teatro per tutti" diretta da Lucio D'Ambra e Achille Vitti. Si narra la storia di un tradimento coniugale, in sé anche abbastanza banale, in quanto dettato non da una autentica passione improvvisamente sorta, quanto piuttosto da una semplice inclinazione maschile alle, diciamo così, distrazioni, alle "storie di una notte".

Adriana Montesani, giovane borghese benestante, moglie felice del brillante Tommaso Corsi, vede un giorno interrompersi bruscamente la sua felicità allorché il marito viene urgentemente riportato a casa in barella perché ferito al petto da un colpo di arma da fuoco. A riportare Tommaso a casa è lo stimatissimo dottor Vocalòpulo che, chiaramente in imbarazzo davanti alle pressanti domande di Adriana in merito alla ferita, inizialmente attribuisce la stessa all'infelice esito di un duello.

Ma il frenetico susseguirsi degli eventi (l'arrivo impetuoso della severissima madre di Adriana, infuriata con Tommaso, la presenza strana di un giornalista, la folla di curiosi accalcatisi sul portone di casa Corsi e, soprattutto, la presenza dei gendarmi), illumina Adriana sulla ben più amara verità: Tommaso è stato ferito da un sostituto Procuratore del re, che lo aveva sorpreso insieme alla moglie in atteggiamento inequivocabile. A sua volta, per difendersi, egli aveva fatto fuoco con la pistola che portava sempre con sé, causando la morte del marito tradito. Da quel momento, attorno al capezzale di Tommaso in grave pericolo di vita si dipana una complessa trama di reazioni emotive e di giochi mentali: Adriana rifiuta di accogliere in sé la visione di un marito fedifrago, giudicando il tutto come una scappatella "…una debolezza, nella quale nessun uomo forse sa o può guardarsi dal cadere".

La madre di Adriana, a sua volta, si erge in un implacabile e inappellabile giudizio di condanna morale; il dottor Vocalòpulo vede innanzi a sé non un paziente da curare, ma la possibilità di accrescere la sua già notevole fama mediante il merito di aver salvato uno stimatissimo cittadino; il suo assistente, il dottor Sià, da uomo mediocre qual è, vive di riflesso, cercando di ritagliarsi una sia pur minima porzione di gloria accanto al suo mentore, mentre il giornalista, Vivoli, gestisce la cronaca dell'accaduto con tutto il cinismo possibile.

Tutto ciò, di per sé non molto insolito, è terreno preparatore per il gioco di paradossi che Pirandello ancora una volta ci offre.

Alla fine, Tommaso guarirà dalla ferita, ma sarà allora il momento in cui gli si farà presente da parte di Vocalòpulo, di Adriana e dell'illustre avvocato Cimetta, appositamente convocato, che deve affrontare un processo per omicidio, tanto più delicato in quanto omicidio di un Regio Procuratore. Qui scatta il tema pirandelliano: Tommaso, uomo forte, sicuro di sé, perfino solitamente troppo pieno di se stesso, darà la colpa di tutto a Vocalòpulo, colpevole di avergli salvato la vita. Perché, dirà Tommaso, gli è stata salvata la vita, se poi non potrà fruirne a suo piacimento, dato che finirà in prigione? Qual è il merito di questo medico che, salvandolo dalla morte, lo ha restituito a una vita che, in buona sostanza, non è più sua, ma del magistrato giudicante? Cosa importa il dovere del medico di salvare la vita del paziente, se conseguenza di ciò è far finire lo stesso alla berlina? Tutto ciò porta all'inevitabile assurdità del finale, in sé perfino un po' macabro: in seguito allo sforzo dovuto all'ira, la ferita di Tommaso, pure ormai convalescente, si apre, ma quando il dottore, davanti ad Adriana, davanti a Cimetta, si muove per arrestare il fiotto di sangue che sgorga, un gemito rabbioso di Tommaso lo ferma ed egli tristemente, con lucidissima rassegnazione afferma: "Ha ragione (…) Hanno sentito? Io non posso, non debbo…"

"LA RAGIONE DEGLI ALTRI"

COMMEDIA IN TRE ATTI

Dramma in tre atti. Scritto nel 1899 e messo in scena per la prima volta nel 1915, intitolato dapprima Il nido e poi Il nibbio, se non così. Era tratto dalla novella Il nido (1895, poi inclusa nell'Appendice alle novelle).

La vicenda è quella di un giornalista, Leonardo Arciani, che, a causa della sterilità della moglie Livia, intreccia una relazione con una vecchia fiamma, Elena, dalla quale ha una figlia. Livia reagisce decisamente per riavere il marito. Ritrovandolo però padre di una bambina, sostiene di dover portare via, ad Elena, non solo l'amante, ma anche la piccola. Convince quindi la donna che tutto è per il bene di sua figlia, che avrebbe così una famiglia ricca e "in regola".

Con la formazione di questa nuova famiglia (saranno effettivamente felici?), si conclude l'opera.

Con “La ragione degli altri” compare per la prima volta una tematica costante di Pirandello: l'annullamento di sé per la felicità dell'altro. E per annullamento, qui, non s'intende abnegazione, ma piuttosto la cancellazione della propria personalità per la personalità degli altri, delle proprie ragioni per le ragioni degli altri.

Ambientato nella Roma d’inizio secolo, “La ragione degli altri” è il primo lavoro in tre atti del drammaturgo agrigentino; lavoro che risente pesantemente dell’ambiente culturale dell’epoca. E proprio in quell’ambiente, decisamente restio a tutte le novità che non siano celebrative del regime, Pirandello si “inserì” con la stessa funzione di un carico di dinamite, andando a scardinare, cioè, la società italiana dal suo interno. Infatti laddove il naturalismo metteva al centro della sua indagine “il fatto” qual era, Pirandello decentrando “il fatto”, ovvero destinandolo ad elemento di contorno, metteva al centro della sua indagine le molteplici reazioni psicologiche dei personaggi. Per questo, Pirandello, affidò al suo teatro il tormento dell’uomo che vede intorno a sé una realtà in cui non è possibile comunicare, cioè fondare un vero rapporto di comunione di valori e verità tra due persone; soprattutto in una società fondata su convenzioni che si volevano eterne anche nell’ingiustizia e nell’errore.

Ecco allora la protagonista della pieces, Livia, progettare la più grande delle vendette: il perdono! (l’accoglienza del marito - traditore - e della figlia di lui), stimolando, così, la composizione di una famiglia, in modo illegittimo.

Livia urla ad alta voce contro una società che ha messo al centro la famiglia…al di là della verità, al di là delle reali dinamiche interne, al di là della felicità, ma solo come stato immutabile…referente di una società in decadenza…

E quest’urlo che diventa un campanello d’allarme sembra dirci: “Voi che avete biasimato una figlia nata da un donna non moglie, non biasimerete una figlia che vive con una donna non madre!”.

da teatroteatro.it

Lenti rintocchi di campana – ticchettio sommesso di orologio - cupe note in sordina. Sonorità che sottolineano il tempo che incombe, lunghe pause che scandiscono imbarazzi, tensione, segreti taciuti. Un linguaggio formalmente datato ma attuale nella descrizione dei contenuti che procede attraverso paradigmi mentali; circonlocuzioni iperrazionali che illustrano efficacemente l’impossibilità di comunicare; l’accettazione di una realtà poliedrica che determina l’annullamento di sé per poter accettare la ragione degli altri.

“Curioso come gli altri vedano ciò che noi non vediamo”.

E’ questo uno degli assiomi fondamentali dell’etica pirandelliana, che non analizza mai le questioni morali ma solo le reazioni dei personaggi dinanzi agli eventi. Livia, moglie annullatasi per evitare lo scandalo, “fredda, impossibile, sublime” nel suo assurdo subire i fatti, rassegnatamente inchiodata ad una “apparenza di vita che si regge sul silenzio”, ha conservato il proprio ruolo di facciata agli occhi della società.

Leonardo, marito schiavo del suo stesso bisogno, ha commesso un errore irreparabile e una volta terminata e scontata la colpa non gli resta che subirne le conseguenze ed il castigo.

Elena, amante prima e madre poi, costretta a rinunciare sia all’uomo che alla figlia in quanto il contesto sociale non le riconosce né il ruolo di moglie né quello di genitrice. Solo il padre di Livia, al di fuori del meccanismo perverso di questo triangolo, conserva i tratti di una semplice ed accorata spontaneità, e non si capacita di ciò che vede, non potendo accettare un principio secondo il quale, incredibilmente, gli atti non offendono mentre le parole vanno sussurrate con discrezione.

La chiave del dramma non è tanto nel tradimento quanto nel silenzio imposto allo sdegno, nel comportamento di Livia, che dopo la scoperta ha “troppo taciuto, e nel silenzio troppo ascoltato la ragione degli altri”. Ma una volta squarciato il velo di questa silente condizione, sarà proprio la moglie abbandonata a rivendicare con crudele raziocinio la propria verità. La dicotomia tra il ragionare – che immobilizza - ed il fare, impossibilitato dalle convenienze, trova soluzione in una assurda situazione in cui “torto o ragione è tutt’uno”: la bambina verrà riabilitata, cresciuta in una famiglia “ufficiale” e potrà beneficiare del nome del padre legittimo e del patrimonio della madre putativa.

E la vendetta sta paradossalmente nella comprensione prima, e nel proporre questa soluzione atroce poi, come Livia stessa ammette: “la ragione per cui sono venuta senza astio né odio è più crudele dell’odio stesso”.

Alla fine la ragione superiore sembra essere il bene della figlia, inteso ancora una volta come ufficialità del ruolo; il male è di essere padre e madre al di fuori di una famiglia “regolare” e riconosciuta, e in contrapposizione a ciò, il bene è dare alla bambina la luce, la ricchezza, il nome del padre. Secondo la ragione degli altri, cioè di una società borghese, formale, stereotipata, l’antitesi sostanziale sta in una vita alla luce del sole “secondo regole” ed una condanna all’oblio perenne. Così in nome del “bene della bambina” si consuma un gesto di mostruosa crudeltà che vede sconfitti tutti i personaggi e che non lascia speranze alcune di una vita secondo i sentimenti.

"CECÈ"

COMMEDIA IN UN ATTO

Commedia in un atto unico scritta nell'estate del 1913 quando Pirandello si trovava a Girgenti per stare vicino alla moglie Antonietta.

La prima rappresentazione si ebbe il 14 dicembre del 1915 a Roma al Teatro Orfeo, ad opera della Compagnia del "Teatro a sezioni" di Ignazio Mascalchi e Arturo Falconi.

La commedia narra, in maniera insolitamente comica per lo stile del drammaturgo, la storia di un viveur, Cecè, capace di imbrogliare la gente senza farsi alcuno scrupolo. Un umorismo quindi che si potrebbe definire cinico per il sottofondo di situazioni ambigue ed immorali da cui si sviluppa. Fu al personaggio dell'imbroglione pirandelliano che Sergio Tofano si ispirò per la macchietta del "bellissimo Cecè", personaggio dei fumetti nato nel 1917, come un azzimato damerino che comparve per svariati decenni nelle storie del Signor Bonaventura sulle pagine del Corriere dei Piccoli.

E' un testo inconsueto nella produzione di Pirandello: un’esile commedia di ambiente alto-borghese, un divertimento lontano dalle caratteristiche del suo teatro impegnato, con un’azione scenica dal ritmo veloce e una vicenda scherzosa messa in moto dal protagonista Cecè. Sullo sfondo della capitale, teatro di corruzione politica, si muove il protagonista, Cecè, degno rappresentante di quel sottobosco di favori e di quel clima clientelare, che diventato abitudine di vita, non è neanche più avvertito come riprovevole e negativo. Il giovanotto è un simpatico gaudente di 35 anni, irrequieto e vivace, privo di scrupoli morali e dotato di brillante immaginazione; quando il commendator Squatriglia,un facoltoso uomo d’affari abituato a servirsi di “conoscenze” importanti, si reca a ringraziare Cecè per un grosso favore ricevuto per suo tramite, quest’ultimo progetta di ricorrere a lui, con una fantasiosa trovata, per farsi restituire tre cambiali di grande valore date a una giovane donna di facili costumi, Nada.

Cecè ha scommesso con alcuni amici che sarebbe facilmente riuscito a entrare nelle grazie di lei e, per ottenere il suo scopo, le ha dato tre cambiali che ora vorrebbe riavere indietro; su richiesta di Cecè il commendator Squatriglia convince Nada che le cambiali non valgono nulla e le rifonde, a parziale compenso, una cifra assai minore.

A questo punto la spregiudicata fantasia di Cecè organizza un altro piano: fa credere a Nada di essere stata raggirata da un usuraio senza scrupoli, che ora tiene in pugno Cecè con il possesso delle sue cambiali, per cui la giovane e ingenua ragazza si sente in dovere di compensare Cecè, per il danno procuratogli, sia con la modesta somma avuta da Squatriglia, sia con la sua “generosità” di amante.

Il testo ha un tono gaio e leggero, ma anticipa un tema fondamentale del teatro e della narrativa di Pirandello, quello delle molteplici sfaccettature dell’individuo, introdotto da un discorso di Cecè:

“Perché mi ammetterai che noi non siamo mica sempre gli stessi! Secondo gli umori, secondo i momenti, secondo le relazioni, ora siamo d’un modo, ora d’un altro.”

Una leggerezza e un brio, insoliti in Pirandello, illuminano con una gustosa verve comica una situazione di ambiguità e immoralità...

"PENSACI GIACOMINO !"

COMMEDIA IN TRE ATTI

Commedia scritta nei primi mesi del 1917, tratta dalla novella omonima, originariamente pubblicata sul Corriere della sera del 23 febbraio 1910 e poi trasposta in una versione teatrale in siciliano: successivamente venne tradotta in italiano. La composizione in siciliano fu realizzata per soddisfare le richieste di Angelo Musco che fu anche protagonista assieme a Elio Steiner e Dria Paola della riduzione cinematografica Pensaci, Giacomino! del 1936.

Tipici topoi pirandelliani riemergono con grande efficacia nell'opera: l'incapacità dello Stato, i paradossi esistenziali dell'individuo (doppi ruoli, crisi di identità) e i dilemmi che scaturiscono dalle sanzioni decise da parte della società.

Del testo dialettale si conservano tuttavia due copioni manoscritti di mano di Giuseppe Murabito, suggeritore e copista della Compagnia di Angelo Musco.

La prima rappresentazione avvenne il 10 luglio 1916, al Teatro Nazionale di Roma.

La versione in lingua italiana comparve sulla rivista «Noi e il Mondo».

Tra i più celebri interpreti della commedia vi furono, oltre ad Angelo Musco, anche Sergio Tofano e Salvo Randone.

La commedia è ambientata in una «cittaduzza di provincia».

Nel primo atto il settantenne professor Agostino Toti, insegnante di storia naturale nel locale ginnasio, prima di ritirarsi in pensione, ha deciso di prendere moglie per mettere fine alla sua lunga solitudine.

Infatti per lui l'unica compagnia è la propria ombra, ma precisa: «A casa, il sole non c'è, e non ho più con me neanche la mia ombra». Se il magro stipendio di insegnante non gli ha consentito prima di mantenere una famiglia, ora da vecchio vuole scegliersi una moglie giovane per obbligare il governo a pagare la pensione non soltanto a lui per i pochi anni di vita che gli restano ma, dopo la sua morte, anche alla moglie.

L'attenzione del professor Toti cade su Lillina, sedicenne figlia del bidello Cinquemani, il quale è onorato della scelta, senonché Lillina è stata sedotta da un ex alunno del professore, Giacomino Delisi, un giovane «scioperato», e ora attende un figlio.

L'incresciosa circostanza sembra compromettere il progetto del vecchio; ma, poiché il bidello scaccia la figlia disonorata, il professor Toti soccorre la ragazza accogliendola in casa sua.

Nel secondo atto il professore ha sposato Lillina ed è nato il bambino Ninì, su cui Toti riversa un affetto di padre, anzi di nonno, dal momento che il padre naturale, Giacomino, frequenta liberamente Lillina che potrà sposare quando sarà vedova.

Intanto, per un'insperata eredità lasciatagli dal fratello morto in Romania Agostino Toti è diventato ricco, ha depositato il denaro nella Banca Agricola cittadina e come maggiore azionista ha potuto impiegarvi Giacomino. La serenità regnerebbe nella particolare famiglia del professor Toti, se le malelingue del paese non la insidiassero.

Portavoce del pettegolezzo cittadino è il direttore del ginnasio, il cavalier Diana che chiede a Toti di porre fine allo scandalo che investe l'istituzione scolastica, mettendosi finalmente a riposo.

Ma il professore non sente ragione e accetta «la guerra» con tutto il paese maldicente.

Un'altra ombra è venuta però a oscurare la felicità familiare.

Lillina sta male perché da tre giorni Giacomino non viene a trovarla.

La sorella maggiore di Giacomino, Rosaria Delisi, bigotta e bacchettona, «ha messo sossopra tutta la gente di chiesa sacerdote per sacerdote», per sottrarre il fratello alla situazione irregolare.

Il prete don Landolina si reca in casa del professore e con parole melliflue gli chiede di rilasciare alla sorella di Giacomino - che è riuscita a convincere il fratello a non frequentare più Lillina - un «piccolo attestato» sulla infondatezza di tutte le dicerie.

Il professore rassicura il sacerdote.

Nel terzo atto Toti, con il piccolo Ninì per mano, si reca in casa Delisi per mettere Giacomino di fronte alle sue responsabilità.

Il giovane si lascia sfuggire di essersi fidanzato; allora il vecchio «vacilla, come per una mazzata, sul capo» e per un momento cede allo sconforto, ma poi lo ammonisce:

«Io sono buono, ma appunto perché sono così buono, se vedo la rovina d'una povera donna, la rovina tua, la rovina di questa creaturina innocente, io divento capace di tutto! Pensaci, Giacomino!».

E minaccia il giovane di farlo licenziare dalla banca e di presentarsi con il bambino in casa della fidanzata, per scuoterne la coscienza.

Giacomino prova a protestare, ma il vecchio prende Ninì «e glielo appende al collo. Giacomino non resiste più; lo abbraccia; lo bacia sulla testa» e, rivolto alla sorella, dice: «Non posso più sciogliermi, Rosaria! Lasciami andare!».

Al padre Landolina - che è presente alla scena e si interpone gridando: «Giacomino, io credo...» - il professor Toti ribatte, zittendolo: «Che crede? Lei neanche a Cristo crede!».

Alla prima rappresentazione, il pubblico romano fu coinvolto dallo scioglimento patetico dell'azione, superando l'iniziale disagio per l'«immoralità» della vicenda, che già aveva scandalizzato nel 1910 i lettori della novella pubblicata dal Corriere della sera.

Il giudizio della critica, che assegnò la commedia al genere «grottesco», fu in complesso positivo.

Lo spettacolo ebbe tre repliche consecutive a Roma e sette a Milano; in sei mesi l'autore ne ricavò più di 2000 lire.

Il testo siciliano ebbe il suo protagonista naturale in Angelo Musco, che nel 1936 ne interpretò un adattamento cinematografico di Guglielmo Giannini, diretto da Gennaro Righelli.

La versione in lingua (rappresentata al Teatro Valle di Roma il 25 aprile 1932) ebbe invece come interprete esemplare Sergio Tofano, che diede al professor Toti le sembianze argute dell'autore. Importante è stata l'interpretazione di Salvo Randone, che dal 1975 legò il suo nome a quello del protagonista per più stagioni teatrali.

Il rapporto fra la novella originaria e la commedia è stato così precisato da Gaspare Giudice: «Nella commedia, la condanna morale, da elemento secondario, si fa argomento principale. Pensaci, Giacomino! diventa una rappresentazione dell'ipocrisia della società e del vittorioso battersi di un piccolo eroe contro di essa».

Per questo, Pirandello, affidò al suo teatro il tormento dell’uomo che vede intorno a sé una realtà in cui non è possibile comunicare, cioè fondare un vero rapporto di comunione di valori e verità tra due persone; soprattutto in una società fondata su convenzioni che si volevano eterne anche nell’ingiustizia e nell’errore.

"LIOLÀ"

COMMEDIA CAMPESTRE IN TRE ATTI

INTRODUZIONE

N' Sicilianu

La commedia fu scritta in dialetto siciliano nell'agosto del 1916 e messa in scena il 4 novembre 1916 dalla Compagnia comica siciliana di Angelo Musco, che interpretò la parte del protagonista.

Nel 1935 venne portata in scena una riduzione di Liolà in dialetto napoletano, adattata da Peppino De Filippo con la partecipazione di Luigi Pirandello, che assistette anche alle prove.

La prima avvenne al Teatro Odeon di Milano il 21 maggio, con Peppino nel ruolo di Liolà, Eduardo in quello di Don Emilio (trasposizione dello Zio Simone) mentre Titina De Filippo nel corrispettivo di Tuzza.

La scena venne spostata dalla campagna agrigentina a quella amalfitana.

Nelle quattro repliche il pubblico e la critica stentarono a comprendere la parlata girgentina dei dialoghi. L'autore si rese conto delle «difficoltà del dialetto siciliano strettissimo perché campagnolo» e provvide a una traduzione italiana inserita nel volume Liolà.

Commedia campestre in tre atti: Testo siciliano e traduzione italiana a fronte, del 1928 è una nuova edizione in lingua pubblicata a Firenze.

Scritta durante la prima guerra mondiale, in un passaggio doloroso della vita dell'autore angosciato dalla prigionia in un campo di concentramento del figlio Stefano e dalle sempre più frequenti crisi della malattia mentale della moglie Antonietta.

In una lettera al figlio prigioniero Pirandello si compiaceva del suo lavoro:

«L'ho scritta in 15 giorni, quest'estate, è stata la mia villeggiatura. È così gioconda, che non pare opera mia».

La vicenda di Liolà è ispirata ad un episodio del capitolo IV de Il fu Mattia Pascal.

Ha per protagonista Neli Schillaci, detto Liolà. Nome e soprannome erano già stati attribuiti ad un altro personaggio: Neli Tortorici, nella novella La mosca.

La società contadina descritta da Pirandello nella commedia, richiama, per certi versi le tematiche verghiane, quelle caratterizzate dalla brama di possesso per le ricchezze materiali, per la terra, per la roba.

In questo mondo rurale, piccolo nel suo egoismo e ipocrisia, grandeggia e agisce da elemento sovvertitore la figura panica di Liolà, un semplice bracciante che, senza alcun interesse per il benessere materiale, vive senza remore la sua sessualità, sconvolgendo allegramente e senza neppure accorgersene, le regole grette e meschine della morigerata società in cui vive.

Come in altre opere di Pirandello, proprio colui che appare il colpevole trasgressore delle norme sociali è invece il giusto e generoso riparatore dei torti subiti da chi è stato ingannato: aiutando Mita ad essere riammessa in casa del marito, mettendola incinta quasi per burla, Liolà, seguendo spensieratamente la sua natura, ristabilisce la giustizia.

L'azione si apre nella «campagna agrigentina» in settembre, mentre le contadine sono intente a schiacciare le mandorle nel podere della zia, Croce Azzara, sorvegliate dal cugino, lo zio Simone Palumbo, «ricco massaro» sessantenne. Zio Simone sposato in seconde nozze con la giovane Mita, è in pena perché dopo quattro anni di matrimonio non ha ancora un figlio a cui lasciare la «roba». Sul vecchio, ossessionato dal cruccio della mancata paternità, convergono le trame dei giovani, Tuzza, Liolà e Mita, in un incrocio di ripicche e vendette.

Tuzza è la figlia di zia Croce e nipote di zio Simone.

Liolà è un giovane bracciante, canterino e seduttore, «cento ne vede e cento ne vuole», che ha reso madri tre ragazze della contrada e allegramente si è tenuto i bambini, affidandoli a sua madre, la zia Ninfa. Mita è una povera orfana che zio Simone ha sposato per avere il sospirato erede e che ora disprezza per la sua presunta sterilità.

Tuzza per far dispetto a Mita, che prima di sposarsi trescava con Liolà, si è lasciata sedurre da lui e ne è rimasta incinta. Liolà, «solo per coscienza» ne chiede la mano, ma viene respinto perché Tuzza non si fida di un marito che sarebbe «di tutte» e progetta piuttosto, con la complicità della madre, di farsi riconoscere il figlio dallo zio, vecchio ma ricco, facendo leva sulle sue velleità mascoline.

Nel secondo atto lo zio Simone, che si è lasciato raggirare, con stolida fierezza grida in faccia alla moglie che il figlio di Tuzza è suo e ora «deve lasciarle tutto, ché gli ha dato la prova che non mancava per lui».

Mita, per sottrarsi alle furie del marito, si rifugia dalla zia Gesa, vicina di casa di Liolà.

Il giovane contadino e Mita sono ora accomunati da motivi di rancore nei confronti di Tuzza, l'uno perché è stata sdegnata la sua offerta di nozze riparatrici, l'altra per l'intrigo del figlio attribuito a don Simone, che le porterà via il marito e la «roba».

In un dialogo con la ragazza Liolà le offre le sue risorse di amante prolifico per dare al vecchio marito quel figlio tanto sospirato, così «come sta per averlo da Tuzza». Mita rifiuta, ma la sera gli apre la porta di casa.

Nel terzo atto (un mese dopo, al tempo della vendemmia) zio Simone può finalmente annunciare che la moglie gli ha dato la «consolazione» di un figlio legittimo.

Il vecchio, gratificato, vorrebbe ora indurre Liolà a prendersi in moglie Tuzza, ma Liolà rifiuta perché sposandola gli «sarebbero morte nel cuore» tutte le canzoni per coscienza può solo prendersi il figlio, affidandolo, come gli altri tre, a sua madre.

Tuzza, scornata e furibonda, gli si scaglia addosso con un coltello. Liolà, che ha riportato solo un graffio di striscio, la consola cantandole a dispetto: «Non pianger, Tuzza, non t'addolorare! Tre, e uno quattro - e gl'insegno a cantare!».

Alla commedia mancò il successo, perché nel finale, notò sull'«Avanti!» Antonio Gramsci, «per il pubblico ci voleva il sangue o il matrimonio»; tuttavia aggiunse: «è il prodotto migliore dell'energia letteraria di Luigi Pirandello, è una farsa che si riattacca ai drammi satireschi della Grecia antica, Mattia Pascal, il melanconico essere moderno, vi diventa Liolà, l'uomo della vita pagana, pieno di robustezza morale e fisica».

Per Gaspare Giudice, sotto il profilo letterario, il personaggio di Liolà è «un precipitato poetico» a cui non «si devono chiedere testimonianze né certificati naturalistici».

Il personaggio, dopo l'interpretazione di Angelo Musco, che lo riprese ancora nel 1935, quand'era ultrasessantenne, è stato interpretato da vari attori: nel 1935 da Peppino De Filippo; nel 1939 da Michele Abruzzo, erede siciliano di Musco; nel 1942 da Vittorio De Sica; nella stagione 1956-57 da Giorgio De Lullo; nel 1959 e nel 1968 da Turi Ferro; ancora nel 1968 da Domenico Modugno.

Dalla commedia Antonio Rossato ricavò un libretto per l'opera musicata da Giuseppe Mulè rappresentata al Teatro San Carlo di Napoli il 1° febbraio 1935.

Una Libera riduzione cinematografica fu diretta nel 1963 da Alessandro Blasetti; sceneggiatura di Elio Bartolini Blasetti e altri; interpreti Ugo Tognazzi (Liolà), Giovanna Ralli, Anouk Aimée, Pierre Brasseur, Elisa Cegani, Dolores Palumbo.

"COSÌ È (SE VI PARE)"

COMMEDIA IN TRE ATTI

Opera teatrale, tratta dalla novella La signora Frola ed il signor Ponza, suo genero, contenuta nella raccolta Una giornata.

Rappresentata per la prima volta il 18 giugno 1917 al Teatro Olympia di Milano, dalla Compagnia di Virgilio Talli, per quanto l'autore ne avesse comunicato la conclusione al figlio Stefano due mesi prima. Pirandello ne presentò una nuova edizione arricchita nel 1925, adattandola alla rappresentazione teatrale modificandola quasi completamente.

Il titolo, dal sapore ironico, racchiude la problematica esistenziale che Pirandello affronta nella storia: l’impossibilità di avere una visione unica e certa della realtà. Il tema sarà attentamente sviscerato nel romanzo del 1926, Uno, nessuno e centomila, ma appare già chiaro in questa commedia nelle parole proferite da Lamberto Laudisi:

«Io sono realmente come mi vede lei. — Ma ciò non toglie, cara signora mia, che io non sia anche realmente come mi vede suo marito, mia sorella, mia nipote e la signora qua — … Vi vedo affannati a cercar di sapere chi sono gli altri e le cose come sono, quasi che gli altri e le cose per se stessi fossero così o così».

Queste battute poste a inizio commedia, quasi un’introduzione fatta dall’autore stesso per chiarire quale sia il punto cruciale di tutta la vicenda, mettono subito il lettore o lo spettatore di fronte a una prospettiva diversa che li allontana dal banale pettegolezzo. Per Pirandello quindi l’uomo non ha una propria essenza a priori, l’uomo diventa una persona solo sotto lo sguardo degli altri, assumendo tanti ruoli e tante maschere, quante sono le persone che lo vedono.

La commedia è suddivisa in tre atti, scissi a loro volta in sei scene il primo e nove i restanti.

«Ho finito la mia parabola in tre atti Così è (se vi pare)», scriveva Pirandello al figlio Stefano, il 18 aprile 1917.

Dopo la prima rappresentazione, Pirandello ne scriveva alcuni giorni dopo alla sorella Lina: «E' stato veramente un grande successo, non dico per gli applausi, ma per lo sconcerto e l'intontimento e l'esasperazione e lo sgomento diabolicamente cagionati al pubblico. Quanto ci ho goduto!».

Così è (se vi pare) comparve a stampa, con la definizione di «parabola», sulla «Nuova Antologia», nel volume I della prima raccolta delle Maschere nude.

Nel 1925 Pirandello modificò quasi ogni battuta, arricchì enormemente le didascalie e inserì nuovi effetti comici, mostrando così di aver fatto proprie le preoccupazioni sceniche espresse a suo tempo da Talli (quando questi gli scriveva di «temere che manchi al lavoro, per la sua efficacia rappresentativa, qualche difetto che forse lo farebbe trionfare»); e ne allestì una nuova messinscena per il Teatro d'Arte con l'interpretazione di Egisto Olivieri (Laudisi) Marta Abba (Frola), Lamberto Picasso (Ponza).

L'azione scenica è ambientata negli interni borghesi della casa del consigliere Agazzi. La pettegola curiosità provinciale si appunta sul comportamento di un nuovo impiegato dell'Agazzi (giunto da poco in città), scrutandolo con sguardo implacabile e sospettoso, giudicandolo strano e facendolo oggetto di una vera e propria investigazione. L'impiegato, di nome Ponza, vive con la moglie all'ultimo piano di un caseggiato periferico, mentre la suocera, signora Frola, abita in un elegante appartamentino a fianco degli Agazzi.

Ponza, al centro delle chiacchiere del paese, appare a tutti come un «mostro» che impedisce alla Frola d'incontrare la figlia, da lui tenuta chiusa a chiave in casa, e persino di ricevere la visita degli Agazzi.

Il consigliere si reca perciò dal Prefetto, esponendogli i fatti e le relative dicerie, per avere «l'opportunità di chiarire questo mistero, di venire a sapere la verità», come dice egli stesso, rincasando, a moglie e figlia e ad altri conoscenti li riuniti. Questa sua affermazione suscita però il riso del cognato, lo scettico Lamberto Laudisi, che difende i nuovi venuti dalla «insoffribile» e «inutile» curiosità dei presenti, tentando di convincere costoro dell'impossibilità di conoscere gli altri e, più in generale, la verità.

Le argomentazioni di Laudisi - in questa come in successive occasioni - sono però recisamente rifiutate, con l'accusa che esse portano alla follia e dalla follia sono originate. La signora Frola, ora costretta a visitare gli Agazzi, è sottoposta al «supplizio» di un vero e proprio «interrogatorio» sulla vita familiare sua e dei suoi cari, già dolorosamente provati (tant'è che vestono tutti a lutto) dall'ecatombe che un terremoto ha provocato nel loro paesino della Marsica. Per «tentare una via di scampo», per sottrarre se stessa e loro all'inchiesta che li investe, la Frola giustifica l'esagerata possessività del genero nei confronti della moglie. Subito dopo il commiato della Frola, si presenta anche Ponza che, costretto dalla posizione gerarchica, si scusa ma, nel contempo, protesta per la «violenza» dell'indagine a cui è sottoposto e da cui si dice costretto a rivelare, per evitare equivoci, il doloroso segreto della pazzia della signora Frola. Ella è impazzita per la morte della figlia Lina, prima moglie di Ponza, e si è convinta che Giulia, la seconda moglie di Ponza, sia sua figlia ancora in vita. Ponza e la sua seconda moglie si prestano, caritatevolmente, a una finzione che li costringe alla serie di precauzioni che hanno ingenerato i sospetti del paese.

Sconcertati dalla rivelazione, i presenti si sentono tuttavia rassicurati dalla spiegazione ricevuta, fino a quando, poco dopo, si ripresenta la signora Frola che, accorgendosi di essere trattata come una povera pazza, si dice costretta a rivelare ciò che prima aveva tentato di nascondere: il pazzo è Ponza, almeno per quanto riguarda la convinzione che sua moglie Lina si chiami Giulia e sia una seconda moglie. Alteratosi di mente per la lunga assenza da casa della moglie, ricoverata in una casa di cura, Ponza, quando ella tornò, non la riconobbe e non l'avrebbe più accolta in casa se non si fossero finte delle seconde nozze, come se si fosse trattato di un'altra donna. Mentre tutti, sbalorditi, non sanno più cosa pensare e a quale verità credere, prorompe il riso di Laudisi: una risata che suggellerà anche gli atti successivi. La ricerca delle prove che consentano di risolvere il mistero, avviata dal consigliere Agazzi, dà l'occasione a Laudisi di illustrare il senso della parabola pirandelliana: quando egli polemizza con la fiducia nell'oggettività dei «dati di fatto» della realtà e sostiene la pari realtà del «fantasma» della costruzione fantastica soggettiva e, quindi, l'insolubilità dell'enigma (prima scena del secondo atto); quando dialoga con la propria immagine allo specchio, il proprio doppio inconoscibile, il «fantasma» che tutti «portano con sé, in se stessi», senza badarci, per andare «correndo, pieni di curiosità, dietro il fantasma altrui» (terza scena del secondo atto); quando irride due signore curiose per la loro ingenua, fiduciosa pretesa di conoscibilità del reale (quarta scena del secondo atto).

Per risolvere l'enigma, gli Agazzi fanno incontrare, con uno stratagemma, genero e nuora mettendoli così a confronto. Ne deriva una scena di concitata violenza in cui l'esasperato Ponza aggredisce la Frola, rimproverandola di calunniarlo e gridandole che la figlia è morta. Appena la donna si allontana, però, Ponza, immediatamente ricompostosi, si scusa del «triste spettacolo» offerto, facendo intendere di aver recitato la parte del pazzo - gridando la verità come se fosse una pazzia - proprio per mantenere l'illusione in cui vive la Frola.

Nel terzo atto, dopo il definitivo fallimento della ricerca di prove certe tra i pochi superstiti del terremoto, l'intervento del Prefetto costringe Ponza - che protesta contro l'intollerabile «inquisizione accanita, feroce sulla sua vita privata» - a condurre in casa Agazzi sua moglie, l'unica in grado di risolvere l'enigma.

La donna «in gramaglie, col volto nascosto da un fitto velo nero, impenetrabile», premettendo che la sventura va tenuta nascosta perché il pietoso rimedio sia efficace, afferma di essere la figlia della signora Frola e, insieme, la seconda moglie del signor Ponza; per sé «nessuna»: «io sono colei che mi si crede».

La successiva battuta, seguita dalla già ricordata risata conclusiva, è di Laudisi:

«Ed ecco, o signori, come parla la verità! / Volgerà attorno uno sguardo di sfida derisoria. / Siete contenti?».

L'interpretazione canonica riporta la parabola allo scettico relativismo pirandelliano che, già formulato ed eretto a poetica nel saggio su L'umorismo, troverà definitiva espressione in Uno, nessuno e centomila, che Pirandello stava allora scrivendo e con il quale esistono significativi riscontri (per esempio, nella scena di Laudisi allo specchio).

La visione umoristica della vita qui trasportata sulla scena, nel punto di vista di Laudisi - uno dei primi personaggi ragionatori del teatro pirandelliano - implica elementi di critica al positivismo e, insieme, di critica alla doxa e alla conseguente morale del pubblico cui l'alter ego dell'autore rivolge la propria sfida derisoria.

«Tutta la mia opera è stata sempre così, e sarà così: una sfida alle sue opinioni e soprattutto alla sua quieta morale... o immorale», aveva scritto Pirandello a Talli.

La sottolineatura dell'accanita sopraffazione degli altri insita nel dogmatismo delle opinioni correnti ha dato luogo alla lettura critica del «teatro-inquisizione», del palcoscenico

pirandelliano come «poliziesco luogo di tortura, ove gli uni si fanno carnefici degli altri» (Giovanni Macchia). La componente di critica filosofica, ideologica e sociale convive però con quella fantastica, nell'intento di realizzare l'opera dell'umoristico «critico fantastico» pirandelliano.

Antonio Gramsci, nella sua cronaca teatrale sull'«Avanti!» del 5 ottobre 1917 , colse appieno quest'intento: «parabola è un qualcosa di misto tra la dimostrazione e la rappresentazione drammatica, tra la logica e la fantasia» (un «misto» che però egli stroncò, in quell'occasione, definendolo un «mostro»: né dramma né dimostrazione della tesi relativistica che, per giunta, egli liquidò come «una sciocchezza»). Il «fantasma» di cui parla Laudisi è anche quello dell'arte e lo conferma il termine stesso, al centro di alcune ricorrenti riflessioni estetiche dell'autore; il «meraviglioso supplizio d'aver davanti, accanto, qua il fantasma e qua la realtà, e di non poter distinguere l'uno dall'altra» (di cui parla sempre Laudisi) va dunque riferito anche all'illusione, alla verità fantastica, del teatro.

Straordinario il successo dell'opera all'estero, a partire dal 1924: Berlino, Oporto, San Paolo.

A Parigi (nella messinscena di Charles Dullin al Teatro Atelier) l'opera segnò il culmine della fortuna di Pirandello in Francia, intrecciata alle vicende del cosiddetto "pirandellismo". Tra gli innumerevoli allestimenti italiani sono da ricordare almeno quelli di Orazio Costa (1952), Giorgio De Lullo (1972), Massimo Castri (1979), Giancarlo Sepe (1982).

"IL BERRETTO A SONAGLI"

COMMEDIA IN DUE ATTI

N' Sicilianu

Commedia in due atti, che riprende le tematiche delle due novelle del 1912 La verità e Certi obblighi, pubblicate entrambe sul «Corriere della sera». Scritta nell'agosto 1916 in lingua siciliana per l'attore Angelo Musco con il titolo A birritta cu' i cianciareddi e messa in scena dalla compagnia di Angelo Musco a Roma, al Teatro Nazionale, il 27 giugno 1917, davanti a un pubblico non numeroso ma soddisfatto, fu poi replicata per tre sere.

I lavori per la rappresentazione della pièce furono caratterizzati dalle continue tensioni tra Musco ed il professore, appellativo col quale l'attore chiamava Pirandello. I conflitti erano dovuti alle diverse aspettative: la commedia doveva, secondo Pirandello, concentrarsi sui paradossi del personaggio e dell'esistenza, mentre Musco voleva, da attore abituato a rappresentazioni brillanti, sottolinearne l'aspetto comico.

Avvenne così che, avendo il ruolo di capocomico, Musco riuscì a portare in scena una versione accorciata di parecchio. A detta della maggior parte degli studiosi, i tagli operati da Musco alla versione siciliana sarebbero la causa di un fatto abbastanza curioso: la versione italiana, preparata alcuni anni più tardi da Pirandello, corrisponde all'incirca alla versione ridotta, messa in scena dalla compagnia di Musco. Il professore infatti avrebbe perso nel frattempo il manoscritto con la versione originale in siciliano.

La versione abbreviata non s'incentra più su quello che è il personaggio principale della commedia in siciliano, cioè Beatrice, ma tende invece a mettere in risalto Ciampa, cioè il suo antagonista. Comunque, nell'estate del 1918 Pirandello terminò la versione in italiano che fu rappresentata il 15 dicembre 1923 al teatro Morgana di Roma dalla compagnia di Gastone Monaldi. Gli effetti comici della versione in siciliano erano andati in buona parte perduti. A causa del notevole ritardo della prima rappresentazione, il pezzo riscosse tiepidi consensi.

Diversi personaggi di questa commedia si trovano in una situazione di dilemma, di tipiche situazioni paradossali in cui l'individuo resta quasi senza via di uscita. Fana, la vecchia balia, è al corrente del fatto che Beatrice voglia denunciare l'adulterio del marito e quindi sarebbe suo dovere, come fedele domestica della famiglia, quello di evitare che accadano disastri riferendo tutto al fratello di Beatrice, Fifì, perché la convinca a non fare pazzie; ma non può farlo proprio perché serva obbediente non può opporsi a Beatrice che glielo ha proibito.

Il delegato Spanò dovrebbe accettare la denuncia, ma sa che, se adempie al suo dovere di funzionario, si metterà contro il cavaliere, che è in pratica il suo padrone. Ciampa ama la moglie ma deve tollerare l'adulterio da parte del cavaliere cui egli è asservito: egli ama profondamente la sua donna ma nello stesso tempo pensa di ucciderla.

Meno ricco di conflitti è il caso di Beatrice, ma il suo atteggiamento privo di dubbi o ripensamenti viene presto punito. Un tema sicuramente di primo piano è quello che emerge dalla novella Certi obblighi ripresa dalla commedia: l'individuo è costretto a difendere il suo prestigio sociale, il pupo, quel pupazzo con cui nascondiamo la meschina realtà di ognuno di noi, anche a costo di pagare un prezzo altissimo sino al punto che Ciampa, per mantenere integro il suo onore, potrebbe essere costretto ad uccidere la moglie (fatto che accade effettivamente nella principale novella ispiratrice della commedia, La verità).

L'azione ha luogo in una cittadina siciliana, nel salotto della casa del cavalier Fiorìca «riccamente addobbato all'uso provinciale».

La signora Beatrice, convinta che il marito, un banchiere privato, la tradisca con Nina, giovane moglie di un dipendente - lo scrivano «quarantacinquenne» Ciampa, che occupa un appartamentino attiguo e comunicante col Banco - ha preparato un piano per far scoppiare lo scandalo.

Il piano è ingegnoso: il cavalier Fiorìca, di ritorno la sera da Catania, troverà libero il campo per appartarsi con l'amante perché la signora Beatrice avrà provveduto ad allontanare Ciampa, inviandolo a Palermo con il pretesto di una commissione. La polizia, preavvertita, potrà fare irruzione nell'appartamentino, sorprendendo i due amanti in flagrante adulterio.

La signora Beatrice espone il piano al delegato di polizia Spanò, uomo di fiducia della sua famiglia.

Spanò esita ad accettare una denuncia compromettente per l'onorabilità del cavalier Fiorica, persona stimata e influente in città, ma alla fine cede alle pressanti insistenze della moglie. Beatrice fa quindi chiamare Ciampa per affidargli la commissione. Lo scrivano, che si presenta con «occhi pazzeschi, che gli lampeggiano duri, acuti, mobilissimi dietro i grossi occhiali a staffa», sospettando un intrigo, tenta di sottrarsi all'incarico e cerca di convincere la signora a parlare con lui senza infingimenti.

Ciampa, scrivano e intellettuale, ha elaborato una personale teoria dell'agire sociale dettata dalle sue esulcerazioni esistenziali, che espone alla signora Fiorìca:

«Deve sapere che abbiamo tutti come tre corde d'orologio in testa. La seria, la civile, la pazza. Soprattutto, dovendo vivere in società, ci serve la civile; per cui ci sta qua, in mezzo alla fronte. - Ci mangeremmo tutti, signora mia, l'un l'altro, come tanti cani arrabbiati. - Non si può. E che faccio allora? Do' una giratina così alla corda civile. Ma può venire il momento che le acque si intorbidano.

E allora... allora io cerco, prima, di girare qua la corda seria, per chiarire, per rimettere le cose a posto, dare le mie ragioni, dire quattro e quattr'otto, senza tante storie, quello che devo. Che se poi non mi riesce in nessun modo, sferro, signora, la corda pazza, perdo la vista degli occhi e non so più quello che faccio! ».

Ma Beatrice, determinata a vendicarsi del marito, non si lascia convincere a girare la corda seria «per rimettere le cose a posto», perché ritiene Ciampa consenziente alla tresca. Lo scrivano prima di partire per Palermo, per svolgere l'incarico, tenta ancora inutilmente di disinnescare il progetto insensato della padrona.

Nel secondo atto scatta la trappola.

Nina Ciampa e il cavalier Fiorìca vengono sorpresi l'una con un «decolté eccessivo», giustificato dalla stagione calda, e l'altro in «maniche di camicia - decentissimo», sul punto di lavarsi le mani. I due vengono tuttavia arrestati, l'una per il decolté, seppure esibito in casa, l'altro per resistenza. Ma nel merito, assicura il delegato Spanò, il verbale è negativo e il cavaliere sarà prontamente rilasciato.

Dal momento che il marito è stato in qualche modo punito, la signora Fiorìca è ora soddisfatta. Non ha considerato però la reazione di Ciampa, che piomba stravolto nel salotto per rivendicare la sua condizione dolente di uomo non più giovane, innamorato della moglie, che ha potuto «sottomettersi fino al punto di spartirsi l'amore di quella donna con un altro uomo». Lo scrivano assicura che, se prima dello scandalo avesse potuto parlare francamente con la signora Beatrice della incresciosa situazione, egli si sarebbe licenziato e trasferito altrove. Ma la donna, dominata dalla gelosia, ne ha ignorato le ragioni, dando in pasto alla gente il suo doloroso segreto.

Ora a Ciampa non resta che vendicare il tradimento palese, ammazzando moglie e amante, poiché un verbale «negativo» della polizia non può certo cancellare i sospetti e le chiacchiere: «resto col verbale, che non c'è stato nulla? E debbo sopportarmi che tutti, domani, vengano a dirmi in faccia, con occhi dolenti: "Non è stato nulla, Ciampa: la signora ha scherzato"». Poiché tutti in casa tentano di minimizzare il comportamento di Beatrice come un gesto di pazzia, Ciampa è folgorato da un'idea: la signora si finga veramente pazza così i sospetti che hanno provocato lo scandalo risulteranno dettati dalla follia. Solo la pazzia conclamata della donna può ora disarmare la sua mano.

E tenta di persuaderla così: «Niente ci vuole a far la pazza, creda a me! Gliel'insegno io come si fa. Basta che lei si metta a gridare in faccia a tutti la verità. Nessuno ci crede e tutti la prendono per pazza!».

Incalzata dalla paradossale provocazione di Ciampa che le chiede di «farsi tre mesi di villeggiatura» in una casa di salute, per dissipare i sospetti e restituirgli la dignità, la signora libera la corda pazza dandosi a incontrollate escandescenze e gridando in faccia a Ciampa la verità della sua condizione di «becco».

Verità non credibile, consentita solo ai pazzi.

E «mentre tutti fanno per portar via Beatrice, che seguita a gridare come se fosse impazzita davvero», Ciampa «si butta a sedere su una seggiola in mezzo alla scena, scoppiando in un'orribile risata, di rabbia, di selvaggio piacere e di disperazione».

Quasi un anno trascorse dal tempo della scrittura a quello della rappresentazione della commedia perché, alla lettura del testo, Angelo Musco aveva manifestato varie perplessità.

«Le ragioni di tanto timore si devono trovare», scrive Gaspare Giudice, «nelle lunghe battute filosofico-buffonesche che pronuncia Ciampa nel primo atto e che sono alla base del suo personaggio. Ciampa era il portatore in teatro per la prima volta, a chiare lettere, del "pirandellismo"».

Antonio Gramsci, recensendo la commedia, vi riscontrò «poca intensità: la dimostrazione soverchia l'azione, la diluisce, la svanisce. Il sofisma, il paradosso non acquista pregio nel dialogo».

Per Leonardo Sciascia, invece, Il berretto a sonagli rappresenta «la più perfetta commedia di Pirandello».

Dopo l'interpretazione di Musco, che gradualmente la escluse dal repertorio, la commedia trovò un interprete congeniale in Eduardo De Filippo, che nel 1936, per volontà dell'autore, ne trasse una riduzione in dialetto napoletano.

Nel 1963 Il berretto a sonagli venne ripreso da Turi Ferro.

Nel 1984 Luigi Squarzina ne curò la regia per l'interpretazione di Paolo Stoppa, reintegrando i tagli operati da Angelo Musco.

"IL PIACERE DELL'ONESTÀ"

COMMEDIA IN TRE ATTI

Commedia in tre atti ispirata dalla novella Tirocinio (1905):

Composta nell'aprile-maggio 1917 e rappresentata la prima volta nello stesso anno al Teatro Carignano di Torino con protagonisti Ruggero Ruggeri e Vera Vergani.

Come già in Pensaci Giacomino e in Ma non è una cosa seria Pirandello usa l'espediente del falso matrimonio su cui si confrontano personaggi costretti a togliersi la maschera dietro la quale hanno ingannato se stessi e gli altri. rivelando così il vero volto della varia umanità dei protagonisti. Chi finora era apparso al sommario giudizio degli altri un disonesto a cui affidare un'azione infame si rivela invece una persona rispettabile e chi agli occhi dei buoni borghesi godeva di alta considerazione, un marchese di alto lignaggio, si manifesta per quello che é: un uomo infido e mediocre nelle azioni e nei sentimenti. La sottesa critica alla borghesia benpensante valse alla commedia il giudizio positivo di Antonio Gramsci che avendo assistito alla "prima" scriveva: «C'è nelle sua commedie uno sforzo di pensiero astratto che tende a concretarsi sempre in rappresentazione, e quando riesce, dà frutti insoliti nel teatro italiano di una plasticità e d'una evidenza fantastica mirabile. Così avviene nei tre atti del "Piacere dell'onestà"».

Il piacere dell'onestà porta avanti, con una ferocia dialettica che non disdegna il sentimento, i temi che sono da sempre alla base del teatro pirandelliano: la differenza fra l'essere e l'apparire, fra la maschera sociale e chi si è veramente, il bisogno di aver stima di se stessi, il sentimento che può nascere in situazioni proibitive. È il caso di Angelo Baldovino, nobile spiantato di fama non limpida, giocatore incallito dal passato ricco di rovesci finanziari, perdigiorno pronto a tutto, ma anche uomo pieno di mistero, intelligente, colto e pieno di fascino. Tocca a lui, su invito di un vecchio compagno di scuola, cercare di salvare il marchese Colli, sposando la giovane Agata che lui ha ingravidato.

"Sposerò per finta una donna, ma sul serio io sposo l'onestà": quell’apparenza di onestà che gli viene richiesta, infatti, spinge via via Baldovino a comportarsi in modo specchiato, mentre tutti gli altri intorno continuano ad essere i mascalzoni di sempre. Il "marito di comodo" vuole assaporare il piacere dell'onestà "convenzionale" e vuole portare fino in fondo questa scelta esistenziale, anche quando cade in una trappola tesagli dalla famiglia allo scopo di farlo uscire di scena.

Lui, burattino per convenienza e marito di facciata, si vendica del perbenismo borghese, riuscendo ad imporsi con intelligenza sulla meschinità imperante. Sarà allora che Agata, conquistata dalla trasparenza del suo comportamento, arriverà a nutrire per lui una specie d’amore, scegliendo di condividere il destino di quell'uomo tutto d'un pezzo. Così, quello che era nato come un inganno sociale si trasforma nell'unione vera di due esseri: la maschera è stata sconfitta e, per una volta, trionfa la vita.

ANALISI DELLA COMMEDIA

Diciamocelo pure: accettare di maritare una donna messa incinta da un uomo già sposato per coprire la relazione dei due amanti, non è certo il preludio ideale per chi intende dimostrare la propria virtù. In effetti, Angelo Baldovino è scelto a tal proposito dal marchese Fabio Colli proprio perché uomo fallito, di quelli che non hanno nulla da perdere in statura e dignità sociale, e che anzi ha tutto da guadagnare da un simile accordo; un individuo quindi, almeno in apparenza, facilmente soggiogabile al disegno dello stimato nobiluomo. Tutto a posto, dunque: la rispettabilità del marchese è salva come la "paternità" del figlio, la moralità dell'amante Agata, la posizione della madre di lei, la benedizione del parroco, se non fosse che... Angelo Baldovino per la prima volta in vita sua prende un incarico con serietà, pensando di rendersi utile alla vita della ragazza, e pone quindi condizioni "tiranniche" per garantire la situazione che si è venuta a creare e di cui si sente in qualche modo il segreto custode, a partire dal nome del figlio che impone alla famiglia pur non essendone il vero padre. In pratica, assolve il proprio compito immorale con estrema onestà e puntigliosa coerenza, al punto da esasperare il marchese il quale finisce con un maldestro tentativo di tendergli una trappola: crea una società, invita Baldovino a farne parte, cerca con un intrigo di farlo figurare un ladro. Ma Baldovino lo scopre, smaschera proprio davanti alla moglie la sua manovra, facendo anche intendere il rischio corso dal buon nome del figlio se fosse andata in porto. Per Baldovino s'infrange l'incantesimo che si era venuto a creare a seguito dell'accordo, intende comunque andarsene, ma tutti lo pregano di rimanere. Alla fine vince l'amore di Agata per lui, che si rende definitivamente conto della meschinità del marchese. Il lieto fine è garantito, anche se emerge come uno spettro un'amara constatazione: nell'accettare questo amore, in fondo cade l'onestà con cui Baldovino aveva stipulato il patto iniziale, dilemma che aveva avvolto come tela drammatica tutti i ripensamenti del protagonista. Strano a dirsi, ma in un periodo critico della Grande Guerra che vide una grande coesione nazionale, Pirandello con grande coraggio iniziò il suo percorso di denuncia delle falsità e contraddizioni della "stimata" società, scrivendo questa commedia in tre atti nella primavera del 1917, che fu poi rappresentata per la prima volta al Teatro Carignano di Torino il 27 novembre dello stesso anno - un mese dopo la disfatta di Caporetto! - con protagonisti la coppia Ruggeri-Vergani. Ma l'arte, si sa, non può mai essere del tutto circostanziale, troppo spesso guarda al di là del presente, e in questo l'autore fu in buona compagnia, come dimostrano infatti le opere figurative dei primi decenni del Novecento che appaiono nella geniale scenografia "a specchi" di Paolo Bregni, una costruzione avveniristica che rispetta la barocca entrata centrale già descritta nelle didascalie dell'opera e quindi voluta dal drammaturgo siciliano.

Antonio Gramsci - 1917

«Il piacere dell’onestà» di Pirandello al Carignano.

Luigi Pirandello è un «ardito» del teatro. Le sue commedie, sono tante bombe a mano che scoppiano nei cervelli degli spettatori e producono crolli di banalità, rovine di sentimenti, di pensiero. Luigi Pirandello ha il merito grande di far, per lo meno, balenare delle immagini di vita che escono fuori dagli schemi soliti della tradizione, e che però non possono iniziare una nuova tradizione, non possono essere imitate, non possono determinare il cliché di moda. C’è nelle sue commedie uno sforzo di pensiero astratto che tende a concretarsi sempre in rappresentazione, e quando riesce, dà frutti insoliti nel teatro italiano, d’una plasticità e d’una evidenza fantastica, mirabile. Così avviene nei tre atti del Piacere dell’onestà. Il Pirandello vi rappresenta un uomo che vive la vita pensata, la vita come programma, la vita come «pura forma».

Non è un uomo comune questo Angelo Baldovino. È stato un briccone, è un relitto, secondo le apparenze. Non è, in verità, che un uomo verso il quale la società ha avuto il torto di essere tale per cui la «pura forma» è in realtà adeguata al resto della realtà. Il Baldovino si innesta nella commedia in un ambiente favorevole e vive la sua vita. Diventa il marito legale di una nobile signorina che è stata resa madre da un uomo ammogliato. Accetta la parte, ponendosi degli obblighi di onestà, e ponendone agli altri, e sviluppa il suo pensiero. Diventa subito ingombrante: il suo pensiero si realizza per sé, ma scombussola tutto l’ambiente e arriva a questo punto morto preveduto dal Baldovino, ma paradossale per gli altri; è necessario che il marchese Fabio, il seduttore, diventi ladro, perché la «pura forma» si sviluppi in tutta la sua logica, e Baldovino appaia essere il ladro, pur rimanendo accertato per tutti gli interessati che il vero ladro è il marchese, e che non impunemente si accettano dei contratti in cui la logica e la volontà uno deciso a rispettarla, sono elementi essenziali. Arrivati a questo punto di scomposizione e di dissoluzione psicologica, la commedia ha uno svolto pericoloso, e un po’ confuso. Le reazioni sentimentali hanno il sopravvento: la bricconeria effettiva del marchese Fabio prende un risalto di una evidenza umoristica catastrofica, e la moglie putativa diventa moglie effettiva e appassionata del Baldovino, che non è un briccone un galantuomo, ma solo un uomo che vuole essere l’uno e l’altro, e sa essere effettivamente galantuomo, lavoratore, perché queste parole non sono che attributi contingenti di un assoluto che solo il pensiero e la volontà creano e alimentano. La commedia di Pirandello ha avuto un crescendo di applausi, dovuto alla virtù di persuasione insita nel processo fantastico dell’intreccio. Ruggero Ruggeri sosteneva la parte del Baldovino, la Vergani quella della signorina, poi signora Agata Baldovino, il Martelli quella del marchese Fabio. Col Pettinello e la Mosso presentarono un insieme interpretativo ottimo, ciò che contribuì a far rilevare meglio il dialogo serrato e pieno di scorci della commedia.

l'«Avanti!» 29 novembre 1917

"MA NON È UNA COSA SERIA"

COMMEDIA IN TRE ATTI

Commedia in tre atti, composta tra il 1917 (forse agosto) e il febbraio 1918, ispirata alle novelle La Signora Speranza (1902) e Non è una cosa seria (1910). La prima rappresentazione fu al Teatro Rossini di Livorno il 22 novembre 1918 con la Compagnia di Emma Gramatica. Il testo della commedia fu pubblicato dall'editore Treves di Milano nel 1919.

Con lo stesso titolo, dalla commedia ne sono stati tratti un film del 1921 diretto da Augusto Camerini e uno del 1936 diretto da Mario Camerini (di cui lo stesso regista ha realizzato nel 1938 una versione tedesca (Der Mann, der nicht nein sagen kann).

La trama si basa sulla paradossale decisione presa da Memmo Speranza, dongiovanni impenitente, di prendere moglie per non correre il rischio di sposarsi: vale a dire contraendo un matrimonio apparente, valido solo sul piano giuridico. Il singolare espediente eviterà infatti a Memmo, appena scampato alla morte nell'ennesimo duello con un "mancato cognato", ulteriori rischi matrimoniali, con relative complicazioni, vista la sua natura volubile che lo porta ad innamorarsi con estrema facilità ma poi, altrettanto rapidamente, a stancarsi del rapporto.

La moglie prescelta è Gasparina, proprietaria di una pensione, donna umile e sottomessa, convinta di non esercitare nessuna attrattiva sugli uomini. E se per Memmo il matrimonio con Gasparina non è certo una cosa seria, è serissimo il patto che stringe con lei di consentirle una vita serena e agiata in una casetta di campagna di sua proprietà, sottraendola alle fatiche della pensione.

La volubilità di Memmo lo porterà, alla fine, ad innamorarsi di Gasparina che, da donna insignificante e trasandata, è diventata bella e desiderabile. Egli si rende conto, dopo aver rincorso donne superficiali e leggere, che vale la pena di trasformare quel matrimonio in una cosa seria.

Scriveva Emilio Cecchi:

"E' ormai antica sapienza che nelle commedie di Pirandello il sipario si alza quando tutto quello che doveva accadere, in senso di "avventura", "intrigo", "fatto" è già accaduto e, aggiungiamo, il sipario cade quando tutto quello che dovrà accadere, per conseguenza di quell'avventura, di quell'intrigo, di quel fatto, comincia appena ad avere inizio".

L'antefatto, in Pirandello deriva dalla concezione che lo scrittore ha del dramma, egli vuole farlo scaturire da situazioni mature, intense, in personaggi i quali abbiano già provato la loro umanità a contatto con le convenzioni sociali, e siano esperti dei loro istinti, delle debolezze materiali, oppure guidati da una, oscura per loro, tradizione di affetti e di doveri.

Ciò vale per i due protagonisti di Ma non è una cosa seria dove per Memmo Speranza, gaudente in continue "ricadute" sentimentali, l'unica soluzione è quella di sposare una donna della quale non è innamorato in quanto ciò sarebbe cosa seria, ma impalmando, così per gioco, Gasparina, una insignificante, timida, mortificata donnetta senza aspirazioni e senza femminilità. Moglie vera, non sarà per lui, neanche per un momento. Ma sul nome dello Speranza funzionerà da ipoteca. Con quel matrimonio, che non è una cosa seria, egli eviterà il matrimonio vero, irto di doveri, di noia, costoso, mutilatore e limitatore della libertà di amare e di godere al quale il nostro eroe tiene moltissimo.

Prova evidente, dunque, Memmo Speranza di un umano dissidio tra sostanza e apparenze, tra propositi e conseguenze, tra determinazioni logiche e spontaneità di reazione sentimentale. L'altra, Gasparina (sprezzantemente denominata da alcuni clienti della Pensione Totterra che lei gestisce, Gasparotta, Scarparotta) invece soffre di una tragedia più modesta, nulla sa dell'antitesi tra logica e sentimenti non pesa su di lei alcun fatto insolubile: Memmo dà vita a un problema che si converte in ironia, Gasparina ha sicuramente più ampie possibilità sentimentali e umane. E la sua serenità di vittima, squisitamente borghese, sarà redenta con delicati e poetici colori di freschezza ed ingenuità da far ripensare gli accusatori di Pirandello di deciso intellettualismo. E quando Memmo Speranza ha, con la sua trovata, svuotato il matrimonio del sentimento e ha preso davanti a esso una posizioni da padrone, ecco il meccanismo perfetto e razionale del suo "gioco" ritorcersi contro di lui. Scoprendo dopo qualche mese la "nuova" Gasparina rifiorita, rivedendo in lei una donna vera, ancora nuova all'amore, il nostro Speranza si incaponisce a tenersela (anche perché non dovrà nemmeno fare la fatica di sposarsela in quanto già sua moglie) per godere quello strano mistero di grazia e di bellezza interiore che nessuno conosce o ha conosciuto, ma che solo lui conoscerà. Ed ecco che l'ironia si trasforma in comicità: di una comicità maschia, franca secca e potente, tutto un luccichio di cerebralità. Nasce nel modo in cui certe cose serie, ad un tratto, perdono la serietà e le cose che non sono diventano serie, sta nel mostrarsi degli stessi fatti e degli stessi personaggi ora sotto una luce, ora sotto un'altra sicché prima ci convinciamo che sono ridicoli e subito dopo sentiamo che il nostro riso è ingiusto perché abbiamo, invece, il dovere di provare per loro un poco di pietà. Naturalmente una comicità simile non è tonda, spensierata, genera un'allegria aspra, un'allegria crudele e gli stessi personaggi, tutti, travolti dall'impeto e dal convulso, sono anch'essi impazienti, irritati, clamorosi: quando la comicità si alza di tono, anch'essi sono costretti ad alzare la voce. Ecco: in una ambientazione tradizionale, tipi e personaggi non tutti compiuti, altri sbozzati, altri lasciati indecisi partecipano a questo concerto dei due protagonisti in tutta la fascinosa bellezza e vivacità di cui Luigi Pirandello ha dato prove forse più mature nel Piacere dell'onestà, Il giuoco delle parti, Sei personaggi in cerca d'autore, senza togliere a Ma non è una cosa seria il posto che le spetta tra le più interessanti, stimolanti, originali del teatro contemporaneo italiano.

"IL GIUOCO DELLE PARTI"

COMMEDIA IN TRE ATTI

Commedia in tre atti scritta nel 1918. L'opera è citata anche in un altro lavoro di Pirandello, i Sei personaggi in cerca d'autore: il gruppo teatrale che anima il dramma sta facendo infatti le prove proprio per questa commedia. La commedia, tratta dalla novella Quando si è capito il giuoco del 1913, fu pubblicata su la Nuova Antologia e nelle edizioni dei Fratelli Treves nel 1919.

Scritto per Ruggero Ruggeri, Il giuoco delle parti è uno dei capolavori di Luigi Pirandello, il quale nel 1913 scriveva a un amico: «Chi ha capito il giuoco non riesce più a ingannarsi; non può più prendere né gusto né piacere alla vita».

E Leone Gala appare come la compiuta incarnazione di chi "il giuoco lo ha capito" veramente. Esemplare personaggio di "ragionatore" pirandelliano, egli realizza in sé la poetica che lo scrittore enuncia nel saggio L'umorismo, basata sul riconoscimento e sullo smascheramento delle finzioni sociali e personali.

Ma Il giuoco delle parti si propone anche come una riflessione critica sull’essenza stessa del teatro borghese "basato su triangoli amorosi, onori traditi e duelli" che Pirandello svuota delle passioni per giocare – proprio come fa Leone, suo "alter ego", con il guscio d’uovo nel secondo atto – con le esteriorità dei ruoli (amante, moglie, marito, anche padre e madre), in un'allusiva ambiguità sempre oscillante tra la convenzionalità e il suo provocatorio rovesciamento, sia sul piano teatrale sia su quello sociale.

La vicenda si svolge in un arco temporale ben delimitato: sera-giornata successiva-alba seguente. L’ambientazione è claustrofobogenica: un triangolo amoroso che la donna, Silia, cerca di rompere nel tentativo di spingere il marito a battersi (e morire) in un duello. Egli accetta di sfidare l’avversario scelto da sua moglie, ma con un sofistico ragionamento il mattino dopo sostiene di aver già fatto la propria parte, quella dello sfidante, riservando all’amante di sua moglie il tragico onere di scendere in campo per difenderne l’onore.

Il giuoco delle parti - Analisi

Il concetto pirandelliano della vita e del cristallizzarsi delle norme e spiegato con l'esempio dell'uovo: il dentro dell'uovo è il contenuto, la vita, che si prende, si vede (« si beve»), la vita con tutta l'urgenza dei suoi interessi e la varietà dei suoi motivi; il guscio è il concetto astratto delle cose, la loro forma vana ed esteriore che va buttata via. Leone Gala è marito solo di forma, ha la «maschera» di marito, marito solo per concetto astratto, un guscio è niente altro; egli allora cerca la vera sostanza della vita nella sua raffinata cucina: di cui egli vuole fare appunto lo scopo, la sostanza della vita stessa, filosoficamente incredulo e scettico verso qualsiasi forma di vita sociale verso i cosiddetti valori, a cui gli uomini fingono di credere secondo il loro basso opportunismo.

Altro concetto che il dramma pirandelliano vuole sottolineare è il contrasto tra le forze ideali, i sentimenti, le passioni da un lato e la ragione dall'altro: passione e sentimenti vanno imbrigliati, regolati e di volta in volta svuotati, man mano che essi urgono in noi; però a questo modo si rischierebbe di rimanere internamente vuoti, senza un «pernio», ed esternamente golfi, incerti e vuoti agli occhi del mondo, allora e necessario riempire con una zavorra quel vuoto, lo spazio lasciato libero nel nostro spirito dal dissolversi di quei valori, e necessario ;ancorarsi a qualche cosa, costituirsi il «pernio» intorno a cui far ruotare la nostra vita, sia pure il piacere della buona cucina, per esempio: a questo modo ci sarà facile liberarci dal male che In vita può farci, « alienarci », guardar vivere gli altri. E' in certo senso riproposta la teoria gentiliana dell'autoctisi, cioè del voler risolvere le situazioni che si presentano drammaticamente ed intorbidate dalle passioni, svuotandole di ogni drammaticità attraverso il sottile e puro ragionare e mettendone a nudo la loro psicologia, che a noi parrebbe complicata, ma che alla fine si risolve in giuoco facile e chiaramente scoperto.

C'è da osservare però che la olimpica serenità di Leone Gala e a volte solo apparente; perché c'è in lui un interno rodio e il sottile gusto della vendetta; sembra che sotto le forme della più fredda e rigida razionalità della convenzionalità degli atti egli sia sempre innamorato di sua moglie e costretto a rituffarsi nella vita dalla quale egli crede di potere astrarre.

Per questo aspetto il personaggio si spoglia dell'astrattezza a cui sembrerebbe confinato per acquistare una intensa umanità, che lo avvicina al lettore e allo spettatore. Il dramma è scarno ed essenziale, rigidamente orientato verso la tesi: perfino il variopinto e clownesco episodio degli ubriachi notturni conduce diritto allo scopo.

Guido Venanzi e figura di contrasto rispetto n quella del protagonista: legnoso, incerto, scolorito fino alla scena finale, nella quale accetta la sua parte e in certo senso si riscatta ai nostri occhi.

E come Belcredi dell'Enrico IV: gli amanti seduttori sono in Pirandello molto spesso presentali sotto cattiva luce o addirittura come degli imbecilli. E, indubbiamente ancora un segno della moralità intrinseca dell'opera pirandelliana: non vale la pena di sporcarsi, di «tradire» i valori dell'umanità, come la famiglia, l'amicizia, il matrimonio, per restare delusi e svuotati.

L'inquieta ricerca "dell'altra" anima gemella e giuoco che alla fine conduce ad una più amara e delusa solitudine. Il dramma viene giudicato una tipica composizione del teatro borghese di fine Ottocento ed ante prima guerra mondiale, il triangolo solito del lui, lei e l'altro.

Senza dubbio lo schema è questo, ma tutta la problematica, le "conclusioni" pirandelliane ci portano in un terreno nuovo, che sta decisamente ormai al di fuori del teatro borghese tradizionale ed è in polemica con esso.

Il giuoco delle parti - Riassunto

Il giuoco delle parti, che Pirandello compose tra il luglio e il settembre 1918, traendolo dalla novella Quando s'è capito il giuoco (1913), andò in scena il successivo 6 dicembre, al Teatro Quirino di Roma, con Ruggero Ruggeri (Leone Gala), Vera Vergani (Silia), Amilcare Pettinelli (Guido Venanzi).

Dopo un'anticipazione (terza scena del secondo atto) su «Il Messaggero della Domenica» dell'8 dicembre 1918, il testo fu pubblicato sulla «Nuova Antologia».

Il primo atto della commedia è ambientato nel salotto della casa di Silia, di sera. Silia, moglie separata di Leone Gala, discute con Guido Venanzi, suo amante e amico del marito, della propria insoddisfazione di donna che vorrebbe vivere senza vedersi nel «maledetto specchio che sono gli occhi degli altri», dal quale si sente rinchiusa - come anche da se stessa - «in una carcere» soffocante. Questo sentimento di paralisi, che Leone le fa vivere come prova dell'impossibilità di una vera libertà, è invece per lei, che non ne ha la necessaria consapevolezza, un «incubo» vissuto per colpa del marito.

Leone Gala, giunto poco dopo in visita, illustra al Venanzi una concezione della vita che, in antinomia con quella di Silia, si fonda sul vedersi vivere e non attribuisce la colpa a nessuno se non alla vita stessa, ai fatti che diventano per tutti una prigione; un fatto è anche il matrimonio: «la parte assegnatami da un fatto che non si può distruggere, resta: sono il marito». Leone rivela a Guido che, dopo aver «molto sofferto», egli ha «capito il giuoco» della vita e ha trovato «il rimedio per salvarsi», per difendersi «dal male che la vita fa a tutti, inevitabilmente»: non vivere più, vuotarsi della vita - come si vuota un uovo - per guardarla «da fuori» e godersene lo spettacolo, trovando, nel contempo, un perno a cui fissarsi per «restare in piedi come quei buffi giocattoli, che tu puoi buttar come vuoi: ti restan sempre ritti per il loro contrappeso di piombo». Andato via Leone, Silia, esasperata, ne fantastica l'omicidio, e poco dopo coglie l'occasione che le si presenta di realizzarlo - per di più nel rispetto delle convenzioni - quando alcuni giovinastri ubriachi irrompono in casa, convinti di entrare nel bordello dell'appartamento a fianco e, dunque, di trovarsi al cospetto della prostituta Pepita.

Silia ride dell'equivoco; poi, per «una diabolica idea», decide di recitare la parte (che ella legge nello sguardo eccitato degli uomini) di donna fatale, amante e prostituta. Silia si finge Pepita e, alle prime esplicite avances di Aldo Miglioriti, noto spadaccino - mentre Venanzi, nella stanza a fianco, tarda a intervenire -, dapprima placa i giovani, poi chiude a chiave il Venanzi e, davanti ai vicini fatti accorrere, fingendo l'indignazione «d'una signora per bene» e respingendo le accorate richieste di perdono dei giovani, esige una riparazione cavalleresca dello scandalo. Silia intende così costringere il marito a battersi in duello.

Il secondo atto si trasferisce in casa di Leone, in una «strana sala da pranzo e da studio» dove egli soddisfa i bisogni dello spirito e del corpo. Poco dopo l'arrivo di Guido - che, incerto tra la parte di amante e di amico, vuole prevenire Leone - sopraggiunge Silia. Le schermaglie dialettiche fra i tre confermano il loro gioco delle parti che essi avrebbero più volte occasione, invece, di smascherare. Leone accetta di sfidare Miglioriti; Guido di fare da padrino: successivamente, violando il codice cavalleresco e gettando la maschera dell'amico, egli impedirà ogni accomodamento e pattuirà un duello all'ultimo sangue.

Silia, indispettita dal comportamento di Guido, in preda al rimorso, sorpresa e ammirata dal coraggio del marito ma esasperata dalla sua consueta e inattaccabile indifferenza, rimane sola con lui. Leone si tiene fisso alla sua maschera di freddo ragionatore, una parte che egli recita anche con se stesso e che gli dà il coraggio («non già davanti a un uomo, che è nulla; ma davanti a tutti e sempre»), la forza di soggiogare passioni e istinti quando insorgono, come fa con «le belve il domatore nei serragli».

A Silia che, sospettando in lui una minore indifferenza nei suoi confronti, cerca di fissarsi al perno del suo ruolo di donna e gli propone di passare la notte insieme, Leone oppone un rifiuto che ribadisce la forza della sua leonina indifferenza.

Il terzo atto inizia all'alba del giorno dopo con l'arrivo del dottor Spiga e, poi, dei padrini Venanzi e Barelli, accolti dal servitore Filippo mentre Leone ancora dorme. Svegliato e rimproverato per il ritardo, Leone svela il piano messo in atto «perfettamente secondo il giuoco delle parti»: a lui, come marito, spettava il compito formale della sfida, mentre quello di battersi in duello spetta ora a Venanzi. Dietro la maschera del marito riappare così il volto (la più profonda maschera) del ragionatore svuotato d'ogni passione, che ride delle regole dell'onore cavalleresco, del duello, del coraggio.

Barelli, che aveva prima ammirato l'audacia di Leone, ora lo accusa di cinismo; Guido accetta, infine, la parte assegnatagli dai fatti. Al primo smascheramento di Leone ne segue un secondo, più profondo, quando sopraggiunge Silia alla quale Leone rivela il volto, i gesti e le parole delle passioni in lui nuovamente insorte: l'intento vendicativo, punitivo, del disonore già subito. Mentre Silia fugge prevedendo la morte di Guido, Filippo serve la colazione, ma Leone, assorto, «non si muove».

«Chi ha capito il giuoco non riesce più a ingannarsi; non può più prendere né gusto né piacere alla vita», scriveva Pirandello in una lettera a Filippo Surico, in forma di autoritratto, tra il 1912 e il 1913.

Leone Gala è la più compiuta incarnazione del personaggio che ha capito il gioco, del ragionatore che realizza la poetica de L'umorismo, basata sul riconoscimento e sullo smascheramento delle finzioni sociali e personali.

«Il sistema delle relazioni sociali e familiari è contemporaneamente accettato, cioè recitato, e rifiutato con un sistema di segnali di un'altra recita sotterranea. Se la prima recita ha un vincitore e un vinto: Leone Gala che punisce la moglie attraverso l'amante, la seconda non ha vincitori: a Silia che fugge terrorizzata corrisponde l'immobilità di Leone, segno del suo non procedere, non muoversi, non vivere» (Franca Angelini).

Va aggiunto, a sottolineare la complessa ambiguità del testo, che il gioco delle parti è duplice (davanti agli altri e davanti a se stessi) e che all'umorismo del personaggio filosofo, alter ego dell'autore, si aggiunge l'umorismo della rappresentazione: il gioco condotto da Pirandello con il teatro a lui contemporaneo, evidente fin dal titolo, analogo a quello che Leone rappresentata con l'immagine dell'uovo. Pirandello svuota dalle passioni il teatro borghese basato su triangoli, onori traditi, duelli; e gioca con il guscio vuoto delle parti, dei ruoli di amante, moglie, marito (e di padre e madre), con un'allusiva ambiguità oscillante tra convenzionalità e profonda sfida a essa, sia sul piano teatrale sia su quello sociale.

"LA PATENTE"

COMMEDIA IN UN ATTO

Commedia in un atto scritta nel 1917 con il titolo A' patenti, destinata alla rappresentazione teatrale in lingua siciliana per l'attore Angelo Musco che la recitò per la prima volta il 23 marzo 1918 al Teatro Alfieri di Torino e successivamente il 19 febbraio 1919 al Teatro Argentina di Roma. Il dramma ripropone il tema della novella dallo stesso titolo composta nel 1911. Una nuova versione della commedia in lingua italiana fu redatta tra il dicembre 1917 e il gennaio 1918.

La commedia fu pubblicata nella Rivista d'Italia del 31 gennaio 1918 e in volume dai fratelli Treves, Milano, 1920.

Ne La patente emergono alcune tematiche care a Pirandello come gli intrecci relazionali fra gli individui, resi alterati, inquinati dai pregiudizi e dai preconcetti e soprattutto dalle proiezioni che vengono applicate sui soggetti bersaglio in base alle apparenze, alle esteriorità, ai giudizi superficiali e di convenienza. L'uomo per sopravvivere è costretto a crearsi delle apparenze,sia su se stesso sia sugli altri. In parte per deresponsabilizzarsi, per tranquillizzarsi e per esorcizzare i misteri della vita, della morte e dell'uomo. L' etichetta, la maschera, il ruolo plasmati dagli altri sono talmente penetranti da risultare incancellabili e talvolta pure inalterabili. Una delle tragedie dell'uomo è proprio quella di doversi aggrappare, per sopravvivere, proprio a queste maschere fino al punto da immedesimarsi completamente in esse, da restarne assorbito fino alla scarnificazione della propria personalità.

Ed ecco che il protagonista della Patente si ricuce su misura gli abiti dello iettatore, e non contento ancora delle nuove sembianze, rivendica il diritto di rifondare, come un nuovo Noè, le basi dei tessuti sociali, troppo orribili per essere conservate.

L'insoddisfazione del protagonista si può accomunare a tutti gli uomini, viventi un'epoca di svolte, di incertezze, e pur privi di un doveroso e profondo senso della vita.

La trama de "La Patente", è piuttosto esile ma si impone all’attenzione dei lettori che irrimediabilmente ne risultano affascinati e ugualmente respinti.

E’ la storia dolorosa e grottesca di Rosario Chiàrchiaro: , un povero padre di famiglia che la voce popolare ha designato come iettatore e al quale non resta che rivolgersi alla giustizia, rappresentata dalla persona del giudice D’Andrea, uomo semplice e buono, profondamente lacerato, però, dal conflitto fra il senso del dovere e la consapevolezza che talvolta il codice e la procedura possono divenire strumento di sopraffazione sociale. Con tragica solennità e munito di una logica paradossale, la vittima non chiede alla giustizia di essere liberato dalla persecuzione, bensì il riconoscimento ufficiale del suo ruolo , la patente appunto, che gli permetta di professionalizzare quel malaugurato mestiere ed evitare così che la famiglia e lui stesso vivano e muoiano nell’indigenza.

Come accade per la maggior parte dei racconti e dei drammi pirandelliani, anche questo lascia in bocca un sapore aspro ed amaro, come una pietà cattiva, o una saggezza scettica, o una complicità subdola. La coscienza odierna è disposta ad accettare la nausea di Sartre o la noia di Moravia, perché nelle loro immagini essa si sente come giustificata, perfino blandita e vi trova, assai spesso, il proprio alibi morale, ma nel mondo rappresentato dal Pirandello, non c’ è connivenza, non c’ è possibilità di franchigia o di narcosi. Gli individui che cadono nell’orbita pirandelliana sembrano ribaltati dalla vita, anche Rosario Chiàrchiaro: sembra essersi staccato d’improvviso dalla realtà, per ritrovarsi sul proscenio della sua coscienza, assolutamente solo e segnato da un marchio indelebile. Egli assiste dentro di sé ad una di quelle metamorfosi ovidiane che tramutano le agili membra nella rigidità del tronco, dei rami, delle radici; staccatosi dal flusso rapinoso della realtà, egli non ha più modo di riprendere il ritmo del vivere. Come il protagonista della patente, ciascuno di noi ha una "maschera", una "forma" in cui resta imbrigliato e che spesso è imposta dalla stoltezza e dalla crudeltà di chi ci circonda. Con quest’arte dolente e ossessiva, Pirandello è riuscito ad anticipare i miti spenti e squallidi dell’umanità di oggi e dell’odierna letteratura: la solitudine dell’uomo, l’incapacità a comunicare, la remora a vivere ed esplicarsi, l’avvento dell’irrazionale, del patologico, dell’inconscio, il senso inconciliato dell’incognito, del vuoto, della morte.

Analisi dei personaggi

Un’attenta lettura del brano scopre, sotto il tono apparentemente umoristico,una profonda amarezza che svela la dolente partecipazione di Pirandello alla vita degli uomini:

"si sprofondava tanto in questa tetraggine, che gli occhi aggrottati, a un certo punto, gli si chiudevano.

Con la penna in mano, dritto sul busto il giudice D’Andrea si metteva allora a pisolare, prima raccorciandosi…

Appena, o per qualche rumore o per un crollo più forte del capo, si ridestava e gli occhi gli andavano lì, a quell’angolo del tavolino dove giaceva l’incartamento, voltava la faccia, e serrando le labbra, tirava con le nari fischianti aria aria aria e la mandava dentro, quanto più dentro poteva, ad allargar le viscere contratte dall’esasperazione, poi la ributtava via spalancando la bocca con un versaccio di nausea, e subito si portava una mano sul naso adunco a reggere le lenti che, per il sudore, gli scivolavano".

Non era ancora vecchio, aveva appena quarant’anni, un viso smunto , capelli crespi da negro, una fronte solcata da profonde rughe, erano gli elementi di spicco nella sua magra e misera " personcina", per Pirandello "un prodotto umano", venuto fuori da "intrecci di razze e da misteriosi travagli di secoli".

Il giudice D’Andrea dormiva poco, anzi non dormiva proprio, passava la notte alla finestra, a pensare mentre guardava le stelle e si smarriva nell’immensità del cielo, rapportandosi ad un ragnetto.

Era, però, molto scrupoloso e responsabile del suo ruolo, nessun incartamento giaceva dimenticato sul suo tavolino.

La figura del Chiàrchiaro: appare altamente drammatica. L’ignoranza e la superstizione hanno fatto di lui un disperato e perciò egli vuole ora rifarsi delle tante ingiurie subite in silenzio. La sua ribellione è comprensibile: è quella di un uomo che, ridotto alla disperazione, vuole gettare in faccia alla gente, crudele e superstiziosa, la sua sofferenza, il suo odio, e trarre dalla sua disgrazia il massimo profitto. Egli, però, sarà costretto a portare sul volto la maschera grottesca e tragica dello iettatore, quella maschera che gli uomini gli hanno crudelmente imposto.

A questo punto Chiàrchiaro: passa di colpo dal ruolo di macchietta a quello di eroe tragico e la sua situazione diventa emblematica della beffa della vita, delle menzogne in cui l’uomo si dibatte, incapace di sottrarsi alle grottesche regole che lo schiacciano, se non trova il modo di adattarsi.

Chiàrchiaro: si adatta: ormai ha accumulato "tanta bile contro la schifosa umanità" da poter compiere realmente gesti da iettatore.

Struttura della novella

Il motivo preminente della novella è quello della maschera, cioè degli schemi nei quali l’uomo o da solo, o per opera della società ,si rinchiude. Anche quella dello iettatore è una maschera nella quale Chiàrchiaro: è rinchiuso per l’incomprensione e per la cattiveria dei suoi simili. Come altri personaggi pirandelliani, anche il protagonista di questa novella tenta disperatamente la liberazione, sia pure in modo insolito. Chiàrchiaro: non cerca di svincolarsi dalla forma che gli è stata imposta ma, al contrario, di farla completamente sua.

Egli vuole una sconfitta in tribunale perché diventi ufficiale e legale che lui è un vero e proprio iettatore. Vuole la patente di iettatore e per questo si presenta dal giudice vestito nella foggia apposita.

Il paradosso di Chiàrchiaro: è che egli sta diventando la maschera della maschera, la marionetta della forma in cui l’ hanno rinchiuso. Ha cambiato volto, vestiti per trasformarsi nel burattino che gli altri pensano di lui: "…s’era combinata una faccia da jettatore, che era una meraviglia a vedere. S’era lasciata crescere su le cave gote gialle una barbaccia ispida e cespugliata; s’era insellato sul naso un paio di grossi occhiali d’osso, che gli davano l’aspetto di un barbagianni; aveva poi indossato un abito lustro, sorgigno, che gli sgonfiava da tutte le parti".

Solo in questo modo gli è dato di vendicarsi e mantenere la famiglia; egli sarà esattamente ciò che gli altri dicono. Ora non toccherà più a lui difendersi, saranno gli altri a doverlo fare: lo pagheranno perché stia lontano dai loro affari. Così la vittima si trasforma in vendicatore minaccioso nei confronti dei suoi stessi torturatori.

Chiàrchiaro: ha accumulato tanto odio che gli sembra di poter sprigionare con lo sguardo una reale potenza distruttiva.

Pirandello sfiora in questo finale una dimensione quasi surreale.

La novella può essere suddivisa in due parti.

1. Nella prima parte ritroviamo la descrizione del giudice D’Andrea dal punto di vista interno, quindi psicologico e morale. Questo tipo di descrizione mette in risalto la statura morale del giudice, difatti egli stesso si considera solo nella ricerca della verità.

2. Nella seconda parte della novella entra in scena lo iettatore, il signor Chiarchiaro, che incontra il giudice D’Andrea. Alla fine di questo colloquio si capisce che Chiarchiaro è consapevole del fatto che non potrà mai liberarsi della fama di iettatore, perché è vittima di una società che valuta gli uomini per ciò che sembrano e non per ciò che sono. In questo modo potrà sfruttare la sua fama negativa per ottenere un risarcimento economico per tutto quello che ha dovuto subire.

Emarginazione e sconfitta.

Entrambi i personaggi si ritrovano emarginati da un mondo che non li comprende e che li considera diversi quello che sono.

Così il gesto dell’abbraccio finale, è il segnale di una solidarietà dolorosa tra due uomini che hanno capito l’assurdo meccanismo della vita.

La vicenda è raccontata in terza persona, e all’inizio sembra essere una novella oggettiva.

Ma questa oggettività si perde dal momento in cui la vicenda è presentata dal punto vista del giudice.

Per quanto riguarda il linguaggio, Pirandello utilizza un lessico semplice che indica efficacemente non delle cose, ma delle impressioni e degli stati d’animo.

"L'INNESTO"

COMMEDIA IN TRE ATTI

Commedia probabilmente composta nel periodo settembre-ottobre del 1917 sulla base delle novelle Scialle nero, della raccolta con lo stesso titolo e L'altro filo, della raccolta In silenzio.

Il 29 gennaio 1919 fu rappresentata al Teatro Manzoni di Milano con protagonista Maria Melato nella parte di Laura Banti. Fu pubblicata nel 1922 dagli editori Fratelli Treves.

Per riuscire l'innesto bisogna che la pianta sia in succhio. Ad occhio aperto o chiuso, la gemma installata dà il suo frutto, mentre la pianta accoglie con tutto il suo amore ciò che non era in grado di produrre autonomamente. Non c'è memoria della gemma, non è importante da dove venga, ciò che conta è solo il frutto e l'amore che ci vuole per farlo crescere. Con grande anticipo sulla fecondazione assistita e l'utero in affitto, Luigi Pirandello sfiora un tema di grande attualità con il turbamento di un uomo che vede lottare onore e amore, tentando di trovare una via d'uscita ad un dilemma che da anni mette a dura prova le credenze morali della nostra società. Da una parte la sterilità, la violenza, la sottomissione della donna, la necessità di farsi mamma senza dimenticare di essere prima moglie. Dall'altra il desiderio di tenere ciò che il fato ha mandato, più o meno assecondato, accogliendo in sé il frutto dell'amore di un altro, lottando per farlo proprio, accettando di rinunciare a tutto per non smettere si sperare di contenerlo all'interno della coppia.

Una donna sposata da sette anni senza figli viene aggredita in una villa mentre dipinge. Quella pianta che non dava frutti improvvisamente germoglia. Il marito non può vendicare l'onta, l'inseminatore non ha lasciato altre tracce, la moglie ha subito e non può essere oggetto di vendetta. A chi credere? Quale istinto assecondare? Cosa mostrare ad una società che sa più di lui come stanno le cose? L'uomo in trappola si perde mentre la donna in cinta si fa determinata, caparbia, pronta a capire le ragioni dell'altro senza dimenticare di difendere quelle dell'uno che ora porta in grembo. L'affascinante tematica, così presente nella nostra vita contemporanea, trova nelle parole di Pirandello una soluzione di intensa spiritualità che scavalca la paura del giudizio altrui, e i propri egoismi per lanciarsi, senza retorica, a piene braccia nella gioia della nuova vita voluta dall'amore.

L'innesto è un'opera di Luigi Pirandello poco rappresentata, ma sicuramente a torto, perché pone delle tematiche di vita sul rapporto d'amore coniugale d'intensa attualità, si intende rappresentare l'opera in forma ridotta. La trama narra di una giovane coppia, Laura e Giorgio, appartenente alla buona borghesia, che vive la sua splendida storia d'amore, ma un incidente, penosissimo, cambia la loro vita: Laura, in una passeggiata nei boschi, subisce una violenta aggressione. L'episodio viene descritto dall'autore con una delicatezza e una leggerezza encomiabile. Evitando così l'acre riferire della scena della violenza e limitandosi a lasciar intendere lo stato d'animo di tutti dopo l'accaduto. Nessuna morbosità nell'evento, ma la perplessità, lo stravolgimento, la rabbia nel subire un colpo così forte all'amore che permeava i loro rapporti. E questo da parte di tutti.

Giorgio, in un primo momento vive la sua reazione rifiutando perfino di vedere la moglie, poi l'amore crea la strada della comprensione e dell'accettazione totale. Il colpo di scena successivo presenta un'altra realtà: Laura aspetta un figlio. Un giardiniere antico e saggio sembra dare il suggerimento giusto alla protagonista.

Vi sono momenti nella natura dove, anche fuori tempo, è possibile fare un innesto tra due piante, purché loro stesse, come essere viventi del creato, vivano un momento di impollinazione e di attaccamento, quindi di amore. Il bambino sarà da tutti accettato come proprio, perché concepito in stato di puro sentimento, tanto puro ed intenso da non essere intaccato da nessun evento estraneo. Esiste nell’arte del giardinaggio una forma di innesto che si pratica nel mese d’agosto e si chiama innesto a occhi chiusi. La pianta accoglie «amorosamente» il tallo, col quale la mano rude ma esperta del villano la violenta, lo assimila al suo amore, al suo desiderio di frutto, lo accoglie a «occhi chiusi », nutrendolo della sua follia, di tutta la sua vita che aspira alla maternità, alla creazione di nuove vite. Chi domanderà alla innocente pianta l’origine legittima della sua fecondità?

Anche la signora Laura Banti è una sterile pianta, violentemente aggredita da uno sconosciuto villano, la quale ha ricevuto a «occhi chiusi» il germe vitale che la renderà madre, e lo ha assimilato alla sua vita, al suo amore, e lo ha nutrito di tutto il suo spirito, del quale è essenziale parte lo spirito, l’amore e il corpo fisico del consorte legittimo. Solo che questo legittimo e ben individuato consorte ha i suoi scrupoli e la sua suscettibilità e la sua volontà che sono due con quelli della moglie e non solo uno come nello stesso fiore sterile il pistillo e il gineceo che compiono il rito fecondatore senza nulla generare.

Come venga superato lo stato d’animo di Giorgio Banti, come Giorgio Banti finisca col dividere la follia amorosa di sua moglie e accettare per suo (credere suo) il figlio nascituro, dovrebbe essere argomento di questi tre atti del Pirandello. Il quale non ha voluto e non ha osato affrontare apertamente la concezione elementare della commedia: un figlio è solo fisica generazione, mero prodotto di un accoppiamento casuale, oppure è amore essenzialmente, nuova vita che scocca dalla fusione intima permanente di due vite? E ha irrigidito un’azione, ricca di umanità e di liricità, intorno a una fredda metafora da giardinaggio, e ha finito col credere un po’ anch’egli, all’accostamento artificiale tra gli uomini e le piante e ha presentato questo problema sessuale, che poi fondamentale nella vita degli uomini, avvolgendolo in una artificiosa bambagia di dialogo a mezzi termini, ad accenni, a furtività sentimentali, accatastando tre gradi di vita in cui il problema si presenta (la pianta, una rozza villanella e la spirituale signora Banti), quasi non sapesse come esprimere al pubblico e come organare in atto la concezione che pure era chiara nella sua fantasia. Sono stentati i tre atti, prolissi nella loro secchezza e congestione. L’argomento è posto, ma non vivificato, la passione e la follia sono presupposte, ma non rappresentate. Pirandello non ha neppure realizzato una di quelle sue «conversazioni» drammatiche, che se non conteranno molto nella storia dell’arte, avranno invece molta parte nella storia della cultura italiana.

"L'UOMO, LA BESTIA E LA VIRTÙ"

APOLOGO IN TRE ATTI

Commedia, o, come dice lo stesso autore, un apologo in tre atti, scritta nel 1919, tratta dalla novella Richiamo all'obbligo (1906).

La prima rappresentazione della commedia si ebbe a Milano, al Teatro Olimpia, il 2 maggio 1919, ad opera della "Compagnia di Antonio Gandusio".

Il testo della commedia fu pubblicato nel settembre del 1919 nella rivista "Comoedia" e successivamente in volume nel 1922 da Bemporad.

Girato anche un film, nel 1953, diretto da Steno con interpreti Totò (Paolino De Vico): ed Orson Welles (Il capitano Perella). Pellicola effettivamente tratta dalla commedia omonima ma la cui trama viene in parte snaturata con finale diverso.

Momenti di forte comicità e di autentica poesia si mescolano in questa favola allegorica, una satira tragica e atroce di quella società che pratica una falsa onestà, che in apparenza accetta le norme comuni ma in segreto le trasgredisce.

Paolino, rispettabile professore privato, è l'uomo della vicenda: trasparente, come lo definisce l'autore, ma con una doppia vita, è infatti l'amante della signora Perella, la virtù in persona, moglie trascurata e infelice del Capitano di marina Perella, la bestia. In un susseguirsi di scene non prive di suspense, emerge perfidamente la vis comica pirandelliana.

La commedia, attraverso una simpatica e vivace satira farsesca, presenta la falsità e l’ipocrisia di una società bacata, costretta a nascondere problemi e sentimenti dietro la spessa e rigida copertura delle convenzioni sociali: tutto, al di fuori, deve risultare limpido e chiaro, secondo i canoni del perbenismo, mentre dei sentimenti che covano sotto la cenere niente deve trapelare all’esterno, la gente non deve sapere. L’importante è salvare le apparenze, costi quel che costi.

Con questo testo Pirandello sembra voler porre il proprio teatro su di un duplice piano: quello della commedia più indiavolata ed oppressiva, e quello "dell'apologo" morale, della favola tendente a rappresentare simbolicamente tipi e momenti eterni dell'agire umano.

Il titolo riassume in se stesso proprio tre aspetti più generali, tre modelli morali come.

L'uomo, che è il Professor Paolino, la bestia, che è il violento e irascibile Capitano Perella, la virtù che è la remissiva Signora Perella, moglie trascurata del Capitano e amante del Professore. Ma l'incontro scontro di questi modelli morali si dà in una strana situazione comica, come un problema teatrale che impegna il Professor Paolino: come costringere il Capitano, per una notte ad un incontro erotico con la moglie stessa, da cui egli (dotato di un'altra casa e di un'altra donna altrove): suole rifuggire, e per questo rimediare al pasticcio per cui la signora Perella è rimasta incinta.

E' un problema comico che ha molti illustri precedenti nella tradizione italiana, dalla novellistica boccaccesca al teatro del '500 dove numerosissime sono le commedie basate sulla organizzazione di incontri notturni all'insaputa e contro la stessa volontà di uno dei protagonisti.

Su questo problema comico Pirandello costruisce l'agitato movimento della sua commedia, fatta di scosse, sobbalzi, equivoci, aggressioni esilaranti, dove tutti i personaggi sembrano farsi guidare da un meccanismo artificiale, vivendo un'esistenza di marionette, di esseri meccanici, in un universo di cui il teatro rivela continuamente il carattere di finzione, di non coincidenza con la realtà...

L'uomo, la bestia e la virtù alla fine trionfano tutte e tre insieme, appoggiandosi, sostenendosi, e quasi integrandosi tra loro in perfetto equilibrio...

"TUTTO PER BENE"

COMMEDIA IN TRE ATTI

Commedia in tre atti. Scritta nel 1906 e messa in scena per la prima volta nel 1920.

È la storia di Martino Lori, un vedovo attaccatissimo alla sua unica figlia e alla memoria della moglie, il quale viene a sapere che quest'ultima aveva un amante, il quale è il vero padre della ragazza; e, rendendosi conto che ogni suo tardivo tentativo di rivalsa sarebbe destinato alla frustrazione, è costretto ad accettare la situazione senza reagire.

da Aprite il sipario.it

E' stata rappresentata la prima volta al Teatro Quirino di Roma il 2 marzo 1920 dalla Compagnia di Ruggero Ruggeri.

Nella vita di ogni individuo può verificarsi un fatto rivelatore di una verità che una volta conosciuta può completamente capovolgere tutte le prospettive e sconvolgere la sua esistenza. E' quanto è capitato a Martino Lori che, all'improvviso, dopo diciannove anni di certezze nella fedeltà della moglie, nell'onestà e nella bontà del suo superiore ed amico Senatore Salvo Manfroni, scopre che la moglie lo tradiva proprio con lui e che Palma Lori non è sua figlia. Egli aveva continuato a vivere spiritualmente unito con la compagna scomparsa, fino a recarsi ogni giorno al cimitero e aveva lasciato che della figlia si interessasse il senatore che le aveva dimostrato affetto fin da bambina e che sta provvedendo a maritarla bene con una ricca dote. Questo suo comportamento agli occhi degli altri era una falsa ostentazione per salvare la faccia e continuare a godere i vantaggi della sua irregolare situazione familiare, tanto che tutti, dalla figlia a Salvo Manfroni, pensano che egli esageri e ne sono nauseati. Quando scopre la verità capisce perchè tutti lo trattavano con disprezzo o con sopportazione; lo ritenevano un uomo spregevole che per avanzare nella carriera aveva permesso alla moglie di tradirlo col suo superiore. Disperato dice alla figlia: "ma che essere vile sono io dunque stato per voi?" S'accorge che la moglie "gli muore adesso, uccisa dal suo tradimento". Anche la figlia è sconvolta da tanta sincerità ed onestà così inattese che capovolgono l'immagine falsa che ella aveva di lui. Ora il miserabile è il senatore Salvo Manfroni che ha, non solo tradito l'amico e sedotta la moglie che alla fine era nauseata di lui e aveva amato con slancio il marito, ma si era anche appropriato degli appunti del padre di lei, noto scienziato, pubblicandoli in uno studio a suo nome.

Martino Lori può rinfacciare a tutti che non s'erano, contentati di crederlo soltanto un miserabile ma anche un imbecille: "Ma io ho potuto essere un imbecille, finchè ho creduto a cose sante e pure: all'onestà! all'amicizia! Ora no più!"

Potrebbe vendicarsi rovinando Manfroni, o costringendolo a dichiarare che Palma in realtà è figlia di Martino Lori. Ma sente l'inutilità di questa rivalsa e ancora una volta dà prova d'essere superiore agli altri... La salvezza gli verrà dall'affetto autentico che ora Palma ha per lui, dalla sincerità dei sentimenti in cui ha sempre creduto, che rendono la vita degna d'essere vissuta al di sopra della falsità, dell'ipocrisia, dell'interesse (Italo Borzi - Il Teatro di Pirandello - Newton - 1993).

Pirandello mostra in atto la metamorfosi di un personaggio, dall'incoscienza alla coscienza. Il processo inizia con il colpo di scena del secondo atto: il personaggio nasce, traumaticamente, da una improvvisa coscienza del nulla, da un sentimento del vuoto, nel quale l'intera vita di Lori s'è vanificata, compreso il tradimento della moglie ("Non m'ha tradito nessuno! Non m'ha ingannato nessuno!") Un vuoto che rischia d'essere riempito dai gesti più folli e terribili. Dopo il grido, la ricerca affannosa e balbettante d'una sortita, d'un risarcimento alla rapina della vita, e infine lo scatto del personaggio:

"Ah! ma quel pianto me lo paga! me lo paga! ora!".

Le varie vendette che Lori va escogitando si rivelano tutte impossibili. Dal crollo delle illusioni si salva soltanto un sentimento, l'amore di una donna: "L'unica cosa viva e vera, ch'io m'abbia avuto, dopo il delitto. Tutto il resto è stato inganno...".

Non resta per Liri che riprendere, e consapevolmente, la "commedia" recitata: fin allora senza saperlo. E il sipario cala sull'amara conclusione del "tutto per bene" secondo la morale vigente in un mondo corrotto come quello dell'ambiente sociale e politico della Roma giolittiana, qui colto nel suo momento di crisi.

Un mondo dipinto a fosche tinte e nel quale nessun personaggio maschile sembra salvarsi.

E' singolare che il titolo "Tutto per bene" sia stato inteso da tutti i commentatori nel senso di "tutto è bene quello che finisce bene!", mentre il senso letterale è esplicito sia nella novella che nel dramma: "per bene" sta per "pulitamente, come usa fra gente per bene".

Ulteriore conferma è nel titolo data alla versione sicialiana: "Con i guanti gialli".

"COME PRIMA, MEGLIO DI PRIMA"

COMMEDIA IN TRE ATTI

Commedia composta nel 1919, ispirata alle novelle Veglia, della raccolta In silenzio, e Vexilla regis..., della raccolta Il viaggio.

Rappresentata per la prima volta al Teatro Goldoni di Venezia il 24 marzo 1920 dalla Compagnia Ferrero-Celli-Paoli e pubblicata dall' Editore Bemporad nel 1921.

L’intera trama ha il suo punto centrale di riferimento in Fulvia Gelli, donna tormentata, coinvolta in situazioni che la fanno soffrire e che la portano persino a sdoppiarsi, per sostenere una situazione familiare nella quale il marito l’ha ricondotta, dopo essere stato da lei abbandonato, insieme con la figlia, da molti anni.

Fulvia era caduta molto in basso, aveva avuto numerosi amanti e aveva infine tentato di uccidersi perché schifata dall’esistenza che conduceva.

A soccorrerla casualmente sarà proprio Silvio Gelli il marito, diventato un celebre chirurgo, che la opera e la salva; si riavvicina a lei e durante la convalescenza la mette incinta; qui si compie la grande contesa tra Silvio Gelli e l’ultimo amante di Fulvia, Marco Mauri. Il comportamento di Fulvia è risentito e sprezzante: non vuole che il marito se la riprenda per rimorso di quello che le ha fatto: appena diciottenne l’aveva iniziata a pratiche amorose che hanno determinato in lei il cedimento ad altri uomini.

È, quindi, un amore morboso quello che lega il celebre chirurgo a sua moglie; la qual cosa capovolge negli spettatori il superficiale giudizio della gente che vedono nel Gelli quasi un santo e in Fulvia un donna poco degna di lui.

Il senso della commedia è nella volontà di Silvio Gelli di continuare il suo rapporto con la moglie, appena ritrovata, nella sua casa, insieme con la figlia che non l’ha nemmeno conosciuta e crede che la madre sia morta. Fulvia sarà costretta a sdoppiarsi, a essere Francesca la seconda moglie di Silvio e quindi matrigna di Livia che invece è figlia sua. Livia prova repulsione per lei e le rende difficile la vita, la ritiene una donnaccia che usurpa il posto di sua madre: «Mi fa schifo», afferma, «orrore, come se parlandomi, guardandomi, facesse ogni volta un tradimento a mia madre».

Soltanto la nuova maternità consola Fulvia dal rapporto torbido col marito e dalle continue offese della figlia.

Come sempre nelle commedie di Pirandello il personaggio che dovrebbe essere il peggiore finisce per risultare l’unico veramente umano, fra gente mediocre o falsa. Nella nuova maternità Fulvia ritrova la sua originaria purezza e si sente costretta a portar via la sua bambina da quella casa dove avrebbe dovuto vivere tra il malanimo della sorella e l’impostura del padre. Rivela la verità a Livia,e fugge verso la sincerità, l’autenticità dei sentimenti, oltre le barriere della falsità e dell’ipocrisia, alla ricerca di una vita migliore per la sue creature.

Pirandello focalizza la propria riflessione nell’approfondimento del tema della dissociazione dell’identità, proprio poco prima del suo successo internazionale con il “teatro nel teatro”. Questo è un testo che, ritenuto “minore”, è stato rappresentato poche volte, ma da grandi attrici (come ad esempio Anna Proclemer).

"LA SIGNORA MORLI, UNA E DUE"

COMMEDIA IN TRE ATTI

Commedia in tre atti ispirata dalle novelle La morta e la viva (1909) e Stefano Giogli uno e due (1910).

È stata composta nel 1920 ed è stata rappresentata la prima volta il 12 novembre dello stesso anno al Teatro Argentina di Roma dalla Compagnia Emma Gramatica.

La commedia fu pubblicata nel 1922 dall'editore Bemporad di Firenze.

Ancora una volta (vedi "La ragione degli altri"), Pirandello affronta il dramma dell'essere umano in cerca di una propria stabile identità, da opporre al giudizio contraddittorio degli altri e di se stesso.

Evelina Morli è Eva, la creatura libera e appassionata quale vive nella memoria del marito, o è Lina, una donna che la sventura ha reso silenziosa e schiva? Così il gioco delle forme, "illusioni necessarie" dell'essere, facendo risorgere nella protagonista un dualismo che pareva superato disgrega la sua personalità.

La signora Morli, impigliata in un duplice gioco delle parti, si accorge a un tratto di essere "due in una persona sola!" e sente sparire "quella illusione che ciascuno si fa, ricordando, di essere uno, sempre lo stesso". E qui Pirandello trova modo di affermare un suo principio: "La nostra personalità muta perennemente, e noi siamo per noi e per il prossimo perennemente diversi. La vita è mobilità inafferrabile: e quando questa mobilità si fissa, la vita si arresta".

Il dramma si conclude con un freddo ossequio al costume, in cui Pirandello esprime - così testualmente Silvio D'Amico - "un'accorata aspirazione a una luce vitale: se in una donna ci sono a contrasto due anime, la frivola e l'austera, ebbene, essa scelga l'austera". E, infatti, Evelina per la figlia rinuncia all'amore compiendo una scelta ardua, impostale dalla propria coscienza.

Riassunto

da Wikipedia

La signora Morli, una, è sinceramente innamorata del marito, e, due, altrettanto sinceramente ama il suo amante Decio: i due uomini naturalmente non condividono questo comportamento della donna che vive la vita di due persone in una, e la vorrebbero tutta per sè così come la vede ognuno di loro.

Per il marito la signora Evelina Morli è Eva, la donna con cui ha diviso un «amore spensierato e felice», per l'amante invece, che la chiama con la seconda parte del suo nome, è Lina e rappresenta un attestato di rispettabilità e serietà sociale, perché quando il marito della signora Morli è stato costretto a fuggire per motivi d'interesse, abbandonando moglie e figlio, è stato lui, l'onesto e rispettabile avvocato, ad accoglierli entrambi nella sua casa.

Quand'ecco che dopo quattordici anni di assenza, ritorna il marito: questi riconosce i meriti dell'avvocato e quindi afferma di non pretendere nulla, riconoscendo pacatamente la situazione di fatto tra il Carpati e sua moglie.

Quello che invece entra in agitazione è proprio Decio Carpati perché con il ritorno del marito apparirà a tutti chiaro l'irregolare e riprovevole legame che egli ha con la signora Morli.

La soluzione di questa incresciosa situazione sarà quella di convincere Ferrante ad andarsene da Firenze a Roma con il figlio Decio avuto da Evelina e questa, che continua ad amare ambedue gli uomini, rimarrà a Firenze con Titti, la figlia che nel frattempo ha avuto dall'avvocato. Ma a sconvolgere questa ipocrita soluzione sarà Decio che richiamerà la madre a Roma con l'espediente di dirsi gravemente malato. Evelina accorrerà dal figlio e scoperta la finzione non rimprovera il figlio anzi accetterà di buon grado l'occasione e si tratterrà a Roma dove potrà tornare ad essere Eva, la spensierata ed allegra moglie di Ferrante così diversa da quella Lina nel frattempo diventata seria e contegnosa per la vicinanza con l'avvocato. Sono quindi tutti felici a Roma per la famiglia regolare che si è ricomposta, in particolare Decio:

« Ma sai che per me sei tutta, tutta nuova mammina? Io ti sto conoscendo adesso, non ti ho mai veduta così. »

Ferrante quindi vorrebbe che la moglie ancora innamorata di lui restasse a Roma definitivamente ma Evelina decide di tornare a Firenze non solo per quanto deve a Decio ma soprattutto per non abbandonare la seconda figlia Titti. Rinuncerà quindi alla sua felice spensieratezza perché più forte in lei è il suo sentimento di madre.

"SEI PERSONAGGI IN CERCA D'AUTORE"

DRAMMA IN TRE ATTI

Scritto alla fine del 1920, fu rappresentato per la prima volta il 9 maggio 1921 al Teatro Valle di Roma, ad opera della Compagnia di Dario Niccodemi, dove ebbe un esito tempestoso. Molti spettatori contestarono la rappresentazione al grido di "Manicomio! Manicomio!". Fu importante, per il successivo successo di questo dramma, la terza edizione, del 1925, in cui l'autore aggiunse una prefazione nella quale chiariva la genesi, gli intenti e le tematiche fondamentali del dramma.

È considerata la prima opera della trilogia del teatro nel teatro, comprendente Questa sera si recita a soggetto e Ciascuno a suo modo.

da Corriere delle SfaMuse

I precedenti narrativi della commedia sono riconducibili a due novelle, La tragedia di un personaggio (1911) e Colloqui coi personaggi (1915); ma la fonte diretta è l'abbozzo di un romanzo, appena un paio di pagine, pervenuto in un "foglietto" databile al 1910-12.

La prima edizione di Sei personaggi in cerca d'autore, Commedia da fare, figura in Maschere nude - Teatro di Luigi Pirandello; fondamentale la quarta edizione del 1925, «riveduta e corretta con l'aggiunta di una prefazione». Nella «Prefazione» del 1925 l'autore spiega così la genesi della commedia: «Posso soltanto dire che, senza sapere d'averli punto cercati, mi trovai davanti, vivi da poterli toccare, vivi da poterne udire perfino il respiro, quei sei personaggi che ora si vedono sulla scena. E attendevano, lì presenti, ciascuno col suo tormento segreto e tutti uniti dalla nascita e dal viluppo delle vicende reciproche, ch'io li facessi entrare nel mondo dell'arte, componendo delle loro persone, delle loro passioni e dei loro casi un romanzo, un dramma o almeno una novella. Nati vivi, volevano vivere. E allora, ecco, lasciamoli andare dove son soliti d'andare i personaggi drammatici per aver vita: su un palcoscenico».

Trama

Il palcoscenico, che gli spettatori trovano entrando in teatro, si mostra con il sipario alzato, «senza quinte né scena, quasi al bujo e vuoto». Due scalette ai lati lo mettono in comunicazione con la sala. È in programma la prova mattutina del Giuoco delle parti.

Arrivano il Direttore-Capocomico e, alla spicciolata, gli Attori; ultima, attesa e bizzosa, la Prima Attrice. Inizia la prova.

L'usciere del teatro viene intanto ad annunciare al Direttore l'arrivo dei Sei Personaggi che dal fondo della sala, percorrendo il corridoio fra le poltrone, raggiungono il palcoscenico.

Sono: il Padre sulla cinquantina; la Madre «velata da un fitto crespo vedovile»; la Figliastra diciottenne, «spavalda, quasi impudente»; uno «squallido Giovinetto di quattordici anni»; una «Bambina di circa quattro anni»; e «il Figlio, di ventidue anni, alto, quasi irrigidito in un contenuto sdegno per il Padre e in un'accigliata indifferenza per la Madre».

Il Padre, che si fa portavoce del gruppo, dice, fra l'incredulità generale, che, gravati da «un dramma doloroso», essi sono personaggi in cerca d'autore. «Nel senso, veda», precisa al Capocomico, «che l'autore che ci creò, vivi, non volle poi, o non poté materialmente, metterci al mondo dell'arte. E fu un vero delitto, signore, perché chi ha la ventura di nascere personaggio vivo, può ridersi anche della morte. Non muore più!».

Rifiutati dall'autore, i personaggi propongono al Capocomico una «commedia da fare» , con un testo da concertare insieme sul dramma che urge dentro di loro. Così il Padre e la Figliastra cominciano a rivivere, sopraffacendosi reciprocamente, i passaggi dolorosi della vicenda che ha segnato le loro vite negate al mondo dell'arte. Dalle nozze fra il Padre e la Madre era nato il Figlio presto affidato a una balia di campagna. Il Padre, «uomo tormentato e tormentatore» aveva intanto notato una silenziosa intesa tra la moglie e il suo segretario e, preso dal «Dèmone dell'Esperimento» (annota con ironia il Figlio), aveva incoraggiato la loro unione. Dal nuovo legame erano nati la Figliastra, e poi il Giovinetto e la Bambina.

Il Padre si era interessato «con una incredibile tenerezza della nuova famigliuola», finché non si era trasferita in un altro paese; in particolare aveva seguito la crescita della Figliastra, attendendola spesso all'uscita della scuola.

Morto il compagno, la Madre era ritornata al paese d'origine con i tre figli e, per provvedere al loro sostentamento, si era adattata a fare lavori di cucito per Madama Pace, una «sarta fina», il cui atelier copriva in realtà l'esercizio di una casa d'appuntamenti. La consegna dei lavori era affidata alla Figliastra, che per la sua giovane età era stata adocchiata da Madama Pace, la quale, trovando sempre da lamentarsi della qualità del lavoro, riduceva il pagamento in modo da costringere la ragazza a integrarlo concedendosi ai clienti. Un giorno, «condotto dalla miseria della sua carne ancora viva», il Padre capita nell'atelier di Madama Pace; ma, proprio quando sta per compiersi l'«incesto» con la Figliastra, nella camera irrompe con un grido la Madre.

Dopo quel momento la famiglia si ricompone nella casa del Padre in un'atmosfera di tensioni incrociate e laceranti, con il Figlio legittimo che considera gli altri degli intrusi, compresa la Madre che non ha mai conosciuto.

Presi dalle reciproche recriminazioni, gli adulti finiscono per trascurare il Giovanetto e la Bambina.

La vicenda dei Sei Personaggi suscita vivo interesse nel Capocomico, che accetta la proposta del Padre di stendere una traccia per la prova degli Attori a cui vengono subito assegnate le parti. I Personaggi però non si riconoscono negli Attori che dovranno interpretarli. Un problema viene intanto sollevato dal Capocomico: l'assenza di Madama Pace, personaggio determinante per la scena dell'atelier. Il Padre offre la soluzione: si appendano agli attaccapanni di scena i cappellini e i mantelli delle attrici affinché, «attratta dagli oggetti stessi del suo commercio», la maitresse compaia. Infatti, come evocata, appare Madama Pace «megera d'enorme grassezza, con una pomposa parrucca di lana color carota e una rosa fiammante da un lato, alla spagnola».

A questa apparizione gli Attori e il Capocomico schizzano via dal palcoscenico per la scaletta laterale «con un urlo di spavento».

Ed ecco che, per prodigio d'arte, la Figliastra riconosce Madama Pace, le si accosta e con lei inizia sottovoce la scena in cui la maitresse le annuncia, in una buffa parlata mezzo spagnola e mezzo italiana, che un «vièchio senor» vuole «amusarse» con lei. Seguono l'entrata del Padre nella camera e il dialogo con la Figliastra, intonato a melliflua galanteria da una parte e nausea sdegnosa dall'altra. Il Capocomico, convinto dell'effetto, vuole subito far provare la scena agli Attori, ma la loro interpretazione, artificiosa e banale, provoca una fragorosa risata della Figliastra che non vi si riconosce, sicché il Capocomico consente che siano intanto i Personaggi a interpretare se stessi.

La scena tra la Figliastra e il Padre riprende fino all'arrivo della Madre e alla violenta interruzione prodotta dal suo grido straziato.

«Effetto sicuro!», garantisce il Capocomico entusiasta. Per provare la scena finale, viene allestito sommariamente l'ambiente di un giardino con una piccola vasca e due cipressetti contro un fondalino bianco. Nel giardino il Capocomico vorrebbe inserire una scena d'effetto fra la Madre e il Figlio, ma questi rifiuta con sdegno perché nella realtà non c'è stata alcuna scena tra loro. E' vero però che la Madre, entrata nella sua camera, aveva cercato, come sempre, ma inutilmente, un dialogo con lui, che per sfuggirle era uscito in giardino. E qui, con orrore, aveva visto nella vasca la bambina annegata, e mentre si precipitava per ripescarla, aveva scorto dietro gli alberi «il ragazzo che se ne stava lì fermo, con occhi da pazzo, a guardare nella vasca la sorellina affogata». A questo punto sul palcoscenico, come allora nella realtà, dietro lo «spezzato d'alberi» dove il Giovinetto stava nascosto stringendo qualcosa nella tasca, rintrona un colpo di rivoltella a cui segue il grido straziante della Madre.

Nello sconcerto degli Attori, che non sanno se il ragazzo sia morto veramente, se sia finzione o realtà, il Padre grida: «Ma che finzione! Realtà, realtà, signori! realtà!». A questo punto il Capocomico, indispettito per la giornata perduta, licenzia tutti e ordina a un elettricista di spegnere le luci, ma dietro il fondalino, come per errore, si accende un riflettore verde, che proietta le ombre dei Personaggi, meno quelle del Giovinetto e della Bambina. Vedendole, il Capocomico fugge dal palcoscenico, atterrito.

Spento il riflettore, il Figlio, la Madre e il Padre escono dal fondalino e si fermano in mezzo alla scena «come forme trasognate». Esce per ultima la Figliastra, la quale, ripetendo la sua scelta di perdizione, corre verso una delle scalette, si arresta un momento a guardare gli altri e con una stridula risata scompare dalla sala.

Commenti

Nella «Prefazione» apposta all'edizione del 1925 Pirandello fornisce un'interpretazione d'autore della commedia, chiarendone la genesi, gli intenti, le fondamentali tematiche, la natura dei personaggi e i rapporti che intercorrono fra loro.

Così scrive: «Io ho voluto rappresentare sei personaggi che cercano un autore. Il dramma non riesce a rappresentarsi appunto perché manca l'autore che essi cercano; e si rappresenta invece la commedia di questo loro vano tentativo, con tutto quello che essa ha di tragico per il fatto che questi sei personaggi sono stati rifiutati».

Pirandello, che aveva rifiutato il vissuto dei personaggi da lui concepiti, cioè la loro ragion d'essere drammatica, ne ha loro attribuita un'altra che essi non sospettano neppure, quella appunto di «essere in cerca d'autore». Personaggi rifiutati, ma non abbandonati dall'autore che ha sofferto con loro «l'inganno della comprensione reciproca fondato irrimediabilmente sulla vuota astrazione delle parole; la molteplice personalità d'ognuno secondo tutte le possibilità d'essere che si trovano in ciascuno di noi; e infine il tragico conflitto immanente tra la vita che di continuo si muove e cambia e la l'orma che la fissa, immutabile».

Li ha seguiti quei personaggi, «a loro insaputa», nel vano tentativo di rappresentarsi, intervenendo nel nodo cruciale dell'improvvisa apparizione di Madama Pace che poteva nascere «a quel modo soltanto nella fantasia del poeta, non certo sulle tavole d'un palcoscenico». Infatti l'Autore ha cambiato inavvertitamente la scena sotto gli occhi degli spettatori, mostrando su quello stesso palcoscenico la sua fantasia «in atto di creare».

Fortuna dell'opera

L'importanza dell'atto creativo di questo testo, il più originale e carico di futuro, non solo del teatro di Pirandello ma di tutto il teatro del Novecento, è stata peraltro riconosciuta dal pubblico e dalla critica, da Tilgher a Artaud e a Silvio d'Amico, da Macchia a Leone de Castris e a Borsellino. Dopo la tumultuosa prima al Teatro Valle di Roma, con Luigi Almirante nel ruolo del Padre e Vera Vergani in quello della Figliastra (in cui gli spettatori contrari inveirono gridando «Manicomio! Manicomio!»), la commedia fu ripresa a Milano, al Teatro Manzoni, il 27 settembre 1921. L'anno seguente, fu allestita a Londra al Kingsway Theatre (a cura della Stage Society) e a New York al Princess Theatre (a cura di Brock Pemberton); nel 1923 fu rappresentata a Parigi, alla Comédie des Champs-Elysées, da Georges Pitóeff, nella traduzione di Benjamin Crémieux; nel 1924 a Berlino, al Komódie Theater, da Max Reinhardt. L'allestimento parigino di Pitóeff, alla cui prova generale era presente l'autore, doveva risultare illuminante per la riscrittura dei Sei personaggi che Pirandello propose nella messinscena del suo Teatro d'Arte all'Odescalchi di Roma, il 18 maggio 1925, con Lamberto Picasso (il Padre), Marta Abba (la Figliastra) e Gino Cervi (il Figlio). Alla stagione 1963-64 risale la produzione della Compagnia dei Giovani diretta da Giorgio De Lullo, con Romolo Valli (il Padre) e Rossella Falk (la Figliastra). Dalla commedia Pirandello ricavò, con Adolf Lantz uno scenario cinematografico mai realizzato.

Denis Johnston ne trasse un libretto per l'opera in tre atti musicata da Hugo Weisgall, rappresentata a New York, City Center, il 26 aprile 1959.

INTRODUZIONE - 2

«Sei personaggi in cerca d’autore», sipario aperto sul «metateatro» pirandelliano.

da Fogli d'Arte

Uno dei testi più prestigiosi della tradizione teatrale italiana. Un dramma che contiene in sé tutte le future evoluzioni e trasformazioni della drammaturgia e della ricerca contemporanea. Uno spettacolo che raffigura una metafora insuperabile della condizione dell'uomo moderno, in bilico tra realtà e apparenza, verità e finzione. Un racconto di come vita e teatro possano incontrarsi su un palco, creando un magico e misterioso cortocircuito. Tutto questo è Sei personaggi in cerca d'autore (1921), prima opera della trilogia pirandelliana del «teatro nel teatro» (detto anche «metateatro»), completata da Ciascuno a modo suo (1924) e Questa sera si recita a soggetto (1928-1929). I precedenti narrativi di questo componimento teatrale, tra i più rappresentati e amati dal pubblico, sono da ricondurre alle novelle Personaggi (1906), Tragedia di un personaggio (1911) e Colloqui coi personaggi (1915); la fonte diretta è, però, l’abbozzo di un romanzo, appena due pagine pervenute in foglietto, databile al 1910-‘12. Nasce così in Luigi Pirandello l’idea di mettere in scena il meccanismo della creazione artistica nel momento e nell’atto del proprio farsi, la volontà di raccontare il passaggio dalla persona al personaggio. E’ rottura con la struttura tradizionale del dramma, con gli schemi correnti: quello decadente e accentuatamente simbolista di Gabriele D’Annunzio, quello verista di Giovanni Verga e Giuseppe Giocosa, ma anche quello crepuscolare di Ercole Luigi Morselli e quello grottesco di Rosso di San Secondo. L’innovazione non viene immediatamente compresa né dal pubblico né dalla critica: la prima nazionale dello spettacolo, tenutasi il 9 maggio 1921 al teatro Valle di Roma, con la compagnia di Dario Niccodemi, (tra i protagonisti ci sono Vera Vergani e Luigi Almirante), viene accolta al grido di «Manicomio, manicomio!». Lo shock prodotto negli spettatori è tale che l’autore, all’uscita del teatro, viene investito da una baraonda di proteste e urla: alcuni gli gridano «Buf-fo-ne! Buf-fo-ne!», altri gli danno del «criminale». Come spesso accade nel mondo della drammaturgia e, soprattutto, dell’opera lirica, il successo arriva solo con la seconda replica, tenutasi il 27 settembre dello stesso anno al teatro Manzoni di Milano, sempre per iniziativa della compagnia di Dario Niccodemi. Da allora i Sei personaggi in cerca d’autore esibiscono senza sosta il loro fascino sottile e originale, attestandosi come uno tra gli spettacoli più rappresentati e amati dal pubblico di tutto il mondo. Il testo viene tradotto presto in varie lingue: nel 1922 è già sul palco a Londra al Kingsway Theatre (a cura della Stage Society) e a New York al Princess (per iniziativa di Brock Pemberton); nel 1923 è la volta di Parigi, dove lo spettacolo è rappresentato alla Comédie des Champs-Elysées, per la regia di Georges Pitóeff (una regia, questa, che rimarrà nella storia del teatro per l’arrivo dei «sei personaggi» con il montacarichi di servizio, avvolti da una luce verdastra e totalmente vestiti di nero). Nel 1924 gli applausi arrivano da Vienna, con la messa in scena di Rudolf Beer al Raimund Theater, e da Berlino, dove a cimentarsi con l’allestimento del testo pirandelliano è Max Reinhardt al Komódie. Dall’anno dopo è la stesura della prefazione, pubblicata nella quarta edizione del testo; qui lo scrittore agrigentino fornisce un'interpretazione d'autore del dramma, chiarendone la genesi, gli intenti, le fondamentali tematiche, la natura dei personaggi e i rapporti che intercorrono fra loro. Questo scritto è importante per la ripresa dello spettacolo sulle scene romane (ripresa nella quale si trova anche un nuovo finale, quello ancor’oggi rappresentato): il 18 maggio 1925 il capolavoro pirandelliano ritorna, infatti, nella «Città eterna», questa volta al Teatro Odescalchi, in un allestimento che vede in scena Lamberto Picasso, Marta Abba e Mario Cervi. E’ la consacrazione definitiva e i Sei personaggi in cerca d’autore diventano anche una storia di registi e di attori: a farsi ammaliare dal testo sono Guido Salvini, Orazio Costa, Giorgio De Lullo, Giuseppe Patroni Griffi, Giorgio Strehler e Giulio Bosetti, da un lato; Vera Vergani, Lina Satri, Rossella Falk, Romano Valli, Sergio Tofano e Antonio Salines dall’altro, solo per fare qualche nome. La piéce pirandelliana affascina, però, anche fuori dai confini strettamente teatrali: ne nascono un soggetto cinematografico (mai realizzato), scritto dallo stesso Pirandello con Adolf Lantz, e un’opera lirica in tre atti, rappresentata a New York il 26 aprile 1959, con libretto di Denis Johnston e musica di Hugo Weisgall. Ma che cosa ha reso questo lavoro una delle pietre miliari del nostro teatro? La trama non ha, in realtà, caratteristiche particolari; ha accenti da feuilleton borghese familiare, da romanzo d’appendice. Sulle tavole di un palcoscenico, dove si stanno facendo le prove del dramma pirandelliano Il gioco delle parti, si presenta una tormentata famiglia, composta da un padre, una madre, un figlio, una figliastra, un giovinetto e una bambina. Questi personaggi chiedono al capocomico e agli attori di mettere in scena la loro fosca e intricata vicenda, intessuta di tradimenti, abbandoni, riconciliazioni, sofferenza, desideri di vendetta, fino al tragico epilogo finale: la morte di due membri della famiglia. Ciò che colpisce l’attenzione dello spettatore non è, dunque, l’intreccio della storia, fitta di luoghi comuni, quanto le illuminazioni metateatrali pirandelliane. Per usare le parole di Francesca Malara e Roberto Alonge nella Storia del teatro moderno e contemporaneo di Einaudi, lo scrittore agrigentino inizia con questo dramma il suo passaggio dal «teatro d’attore», tipico della tradizione ottocentesca, al «teatro di regia», caratteristico della nuova temperie novecentesca. L’enfasi declamatoria degli interpreti e gli intrecci leggeri e mondani di tradizione francese lasciano, dunque, spazio a un «teatro di idee», dove protagonista è la «vita nuda», cioè la vita senza la maschera dell’ipocrisia e delle convenzioni sociali. Un teatro nel quale un ruolo importante assume la figura del regista (allora ancora chiamato «capocomico»), sguardo esterno che dà una corretta lettura del testo, istradando in qualche modo un'autorizzata e privilegiata ipotesi di regia. In Sei personaggi scompare l’usuale suddivisione in atti e in scene ed appare, per la prima volta nel teatro di Luigi Pirandello, l’eliminazione della «quarta parete» di diderotiana memoria, cioè della parete trasparente che sta tra attore e pubblico, tra palcoscenico e platea. Una innovazione, questa, memore di certe soluzioni futuriste e dadaiste, che troverà la sua massima espressione nella rappresentazione simultanea dello spettacolo Questa sera si recita a soggetto, altra occasione importante per fare il punto sulla drammaturgia contemporanea. Con i Sei personaggi in cerca d’autore, Luigi Pirandello, inizia, dunque, il suo rifiuto fermo e netto della «scatola teatrale» ottocentesca. Con questi personaggi «nati vivi», con la loro storia drammatica fatta di un tradimento e di un mancato incesto - «una storia, questa, che sembra chiedere a gran voce di «entrare nel mondo dell’arte» - l’autore di Girgenti ci porta in un luogo fuori dal tempo. Racconta, per usare le parole di Enzo Lauretta in Luigi Pirandello. Storia di un personaggio fuori chiave, «un dramma che si conclude con quello che i filosofi esistenziali chiamano uno “scacco”, dopo il quale ai personaggi-fantasmi non rimane che l’informale, il nulla». Un dramma che è «illusione di realtà», dal momento che –afferma il Padre dei «sei personaggi», parafrasando quanto già scritto in Uno, nessuno e centomila - «è commedia della vita che non conclude, perché se domani conclude – addio - è finita».

SAGGIO

Andrea Camilleri - Il Padre nei Sei Personaggi e il padre di Pirandello

da "Biografia del figlio cambiato"

L'ARRIVO DI DON STEFANO

Morta la moglie, don Stefano è rimasto solo i suoi figli si sono fatte le loro famiglie. In più, la sua salute è peggiorata: mezzo cieco, cammina con difficoltà, ha bisogno d'assistenza. Certamente ci saranno stati scambi di lettere tra i figli per trovare una sistemazione decorosa al vecchio padre, ma alla fine si risolve di seguire la consuetudine siciliana che è quella che il padre, quando rimane vedovo ed è malato, vada ad abitare in casa della figlia maggiore, magari se questa è maritata. Così don Stefano, facendosi accompagnare dal figlio Giovanni, va da Lina a Roma dove lei si è trasferita con la famiglia. Lina gli mette a disposizione una stanzetta del suo appartamento che è proprio sotto a quello dove abita Luigi. Sicuramente ci sarà stato un diverbio tra Luigi e la sorella: Lina non è in condizioni economiche da far fronte ai bisogni di don Stefano e Luigi si sarà impegnato a dare un contributo alle spese. E una partecipazione alla quale non può sottrarsi anche se lo volesse: gli "tocca", come si dice dalle sue (e mie) parti, è un atto dovuto. Ma si viene a creare una situazione logistica che, di certo, nei primi tempi, avrà messo a disagio Luigi che col padre aveva da tempo interrotto i rapporti. La villetta pigliata in affitto si trova in via di Pietralata, è circondata da un giardinetto e vi si arriva per una fangosa impraticabile viuzza quasi campestre. Una foto di quegli anni ci mostra don Stefano nel giardino, tutt'e due le mani serrate attorno al bastone, la coppola, gli occhi stretti darrè gli occhiali, magro di vecchiaia e di malattia, e dietro si scorge la villetta dove abita coi familiari. Diventano quindi inevitabili gli incontri col padre, soprattutto quando egli va a scambiare quattro chiacchiere con la sorella Lina alla quale è sempre stato legatissimo. E spesso avrà visto, dalle finestre di casa, don Stefano aggirarsi con passo malfermo nel giardino, avrà visto la profonda trasformazione fisica di quell'uomo che nella sua memoria vive ancora giovane, attivo, violento. E qualche altra volta l'avrà visto addormentato sulla panca del giardinetto o su una poltroncina di vimini portata lì apposta. Dormiva... col capo calvo, incartapecorito, reclinato indietro penosamente... Ma era un sonno ben diverso, il suo. Sonno a bocca aperta, di vecchio stanco e malato. Le palpebre esili pareva non avessero più forza neanche di chiudersi sui duri globi dolenti degli occhi appannati. Le narici s'affilavano nello stento sibilante del respiro irregolare che palesava l'infermità del cuore. Il viso giallo, scavato, aguzzo... con quel filo di bava che pendeva dal labbro cadente... Che crudeltà, che crudeltà di spettacolo, quel sonno di vecchio! Era pure nella miseria infinita di quel corpo stremato in abbandono la dimostrazione più chiara delle verità nuove che gli s'erano rivelate.

La citazione è tratta da una novella intitolata La fede, raccolta in volume nel 1922. Racconta di un giovane prete che sente di aver perduto la fede e vuole andarlo a dire a un vecchio sacerdote dal quale dipende, ma lo trova addormentato. E le verità nuove che gli s'erano rivelate nella novella si riferiscono naturalmente alla crisi di fede del giovane prete. Ma l'amaro sonno del vecchio don Stefano non avrà a sua volta rivelato una verità nuova a Luigi? Del resto, la madre-personaggio glielo aveva già detto nel Colloquio del 1915: Guarda le cose anche con gli occhi di quelli che non le vedono più! Ne avrai un rammarico, figlio, che te le renderà più sacre e più belle.

E prima aveva raccontato, parlando del marito: Avevo già ventisette anni e non volevo più sposare; mi toccò sposare perché lui lo volle, lui che poteva imporsi al mio cuore con la bella persona e più, in quei fervidi anni, con l'animo che voi figliuoli gli conoscete, per cui ancora, vecchio, esulta e si commuove come un bambino per ogni atto che accresca onore alla patria...

E certamente Luigi l'avrà visto commuoversi e piangere, lì, nel giardinetto per le belle notizie della guerra vittoriosa.

Ecco, taliàrlo e ritaliàrlo, quel padre, soprattutto lui, come una delle cose che vanno guardate con altri occhi: forse con gli occhi coi quali un autore guarda un probabile personaggio. Come, del resto, è già capitato con la madre.

IL CONFRONTO

Del resto, personaggio don Stefano lo era già stato nei tre atti della Ragione degli altri, incentrati sul rapporto del padre con la cugina ex fidanzata. Nella realtà, quell'episodio era indissolubilmente legato a un gesto: quello di Luigi che sputa in faccia all'amante del padre mentre questi se ne sta nascosto dietro una tenda e se ne vedono solo le punte delle scarpe.

Ora si tratta di strappare quella tenda, portare alla ribalta colui che vi sta dietro, ricrearlo come personaggio visto non più con gli occhi allora offesi di figlio, ma con quelli di autore, altri occhi. Per fare ciò però, più che una lunga e attenta osservazione, occorre un confronto continuo, quotidiano. Ed è un confronto che si svolge su due piani: quello della realtà del padre vecchio e di Luigi padre a sua volta e quello della memoria, quando Luigi era il figlio che non voleva riconoscersi come tale, un figlio cambiato. È di quegli anni una novella dal titolo emblematico, Quando si comprende. Si svolge in uno scompartimento ferroviario, è il dialogo tra una coppia di genitori che vanno a salutare il figlio che parte per la guerra e gli altri viaggiatori. A un certo momento uno di questi dice: I figliuoli vengono, non perché lei li voglia, ma perché debbono venire; e si pigliano la vita; non solo la loro, ma anche la nostra si pigliano. Questa è la verità. E siamo noi per loro; mica loro per noi. E quand'hanno vent'anni... ma pensi un po', sono tali e quali eravamo io e lei quand'avevamo vent'anni. C'era nostra madre; c'era nostro padre; ma c'erano anche tant'altre cose, i vizii, la ragazza, le cravatte nuove, le illusioni, le sigarette...

E siamo noi per loro; mica loro per noi: l'ha duramente sperimentata sulla propria pelle la verità di quest'asserzione. Si è impegnato fino a mettere a rischio la sua dignità perché Stefano fosse liberato dal campo di concentramento boemo; si è reso quasi ridicolo agli occhi di un generale protestando a favore del figlio Fausto; ha dovuto spedire in esilio Lietta per salvarla dalla furia della madre... Ma cosa ne ha ottenuto? Avverte già da adesso che Fausto saprà sempre mettere una certa distanza tra lui e le cose che fa sia come uomo che come pittore, prescindendo dall'affetto filiale; sa che Lietta è pronta ad abbandonarlo perché sente ingiusto l'esilio al quale l'ha costretta. E Stefano ha seguito i consigli che lui gli ha mandato per posta, soprattutto quello di non pensare? O forse questa invadente, amorosa paternità sempre presente non solo negli atti ma magari nei pensieri dei figli è una forma di violenza simile nella sostanza, anche se diversa nella forma, a quella che don Stefano era abituato a esercitare nella sua famiglia? Domande, dubbi, perplessità. E gli torna insistente alla memoria l'episodio chiave della rottura col padre, quando lo sorprese con l'amante.

"Rimase in lui un segreto cruccio di colpa e di rimorso", scrive Gaspare Giudice. E lo stesso Pirandello, tornando sull'episodio nella novella del 1923, intitolata Ritorno, dice che da un pezzo si sentiva pungere segretamente dal rimorso d'aver lasciato il padre... senza volersene curare. E adesso che se lo vede davanti ogni giorno, così malridotto, a che livello sale il disagio, il "segreto cruccio"? E poi, soprattutto: perché allora il quattordicenne Luigi non strappò la tenda limitandosi a sputare sulla donna? Sarebbe stato così facile e anche logico, naturale, in preda come era al disgusto e alla crudele intransigenza della giovinezza. Non lo fece per non incontrare gli occhi del padre? Perché quel corpo nascosto dalla tenda restasse senza un volto che eternamente si stampasse nella memoria? Intuiva già da allora che un giorno sarebbe arrivata l'ora della ragione, l'ora di quando si comprende?

IL PADRE

Il dramma per me è tutto qui, signore: nella coscienza che ho, che ciascuno di noi - veda - si crede "uno" ma non è vero: è "tanti", signore, "tanti", secondo tutte le possibilità d'essere che sono in noi.- "uno" con questo, "uno" con quello - diversissimi! E con l'illusione, intanto, d'esser sempre "uno per tutti", e sempre "quest'uno" che ci crediamo, in ogni nostro atto. Non è vero! Non è vero! Ce n'accorgiamo bene, quando in qualcuno dei nostri atti, per un caso sciaguratissimo, restiamo all'improvviso come agganciati e sospesi: ci accorgiamo, voglio dire, di non esser tutti in quell'atto, e che dunque un'atroce ingiustizia sarebbe giudicarci da quello solo, tenerci agganciati e sospesi, alla gogna, per una intera esistenza, come se questa fosse tutta assommata in quell'atto! È la battuta nodale del Padre nei Sei personaggi in cerca d'autore. Certo, i motivi necessari all'abolizione della figura paterna sono stati tanti, ma non c'è dubbio che il punto forte è rappresentato dall'avere Luigi agganciato e sospeso il padre nell'atto d'averlo sorpreso con l'amante. E subito dopo questa battuta, il Figlio (che qui in parte è lo stesso Luigi) ripropone la sua estraneità dalla famiglia, il suo essere diverso, cambiato, come ancora credeva allora:

IL FIGLIO (scrollandosi sdegnosamente)

Ma lascia star me, ché io non c'entro!

IL PADRE

Come non c'entri?

IL FIGLIO

Non c'entro, e non voglio entrarci, perché sai bene che non son fatto per figurare qua in mezzo a voi!

IL GRANDE PUZZLE

Lo scrittore Amaldo Frateili ricorda che Pirandello, appena finito di scrivere i Sei personaggi in cerca d'autore radunò, molto emozionato, gli amici per leggere loro il lavoro. Nessuno ne sapeva niente o quasi, lo stesso autore pareva sorpreso dalla violenza e dalla rapidità con la quale l'opera aveva voluto imporre la sua nascita. Dice Frateili:

"Appena finito di scrivere i Sei personaggi Pirandello venne a leggere il lavoro a casa mia. C'era il figlio Stefano, Silvio D'Amico, Alberto Cecchi, mi pare Mario Labroca e due o tre altri... fummo presi e sconvolti non solo dalla commedia, ma anche dalla passione che Pirandello metteva nel recitarla... Quella era una recitazione nella quale egli sosteneva la parte di tutti i suoi personaggi e viveva intensamente, quasi dolorosamente, tutte le loro passioni, amore e odio, gioia e dolore, estasi e ironia... la sua voce a udirla da un'altra stanza, pareva non di una, ma di dieci persone... Alla fine... discutevamo come energumeni intorno a Pirandello".

Certo, su quest'opera che rappresenta "la quintessenza del dramma moderno" (Szondi), è quasi ridicolo spendere qui parole. Ci limitiamo a dire che forse essa segna la ricomposizione di quel gigantesco puzzle che è stato l'intreccio tra la vita di Pirandello e la sua opera di scrittore in un continuo va e vieni dalla realtà alla sua trasfigurazione. Nell'acuta commemorazione che di Pirandello fece Massimo Bontempelli all'Accademia d'Italia il 17 gennaio 1937, è detto che "tutto il teatro di Pirandello è una denuncia di conseguenze". E aggiunge: "Molti anni prima, notate, molti anni prima dei Sei personaggi, egli aveva già scritto queste chiare parole: La natura si serve dello strumento della fantasia umana per proseguire la sua opera di creazione. E chi nasce mercé questa attività creatrice che ha sede nello spirito dell'uomo, è ordinato da natura a una vita di gran lunga superiore a quella di chi nasce dal grembo mortale di una donna. Chi nasce personaggio, chi ha la ventura di nascere personaggio vivo... Insomma, i personaggi sono le sole verità. Col personaggio l'umanità ha ritrovato l'inconfondibile, l'immodificabile, l'indistruttibile, l'eterno. Cioè, la certezza. Il Padre dei Sei personaggi, lui che come persona è il più sbattuto degli uomini, può alzare il capo con supremazia quando dice al Direttore: Io sono vero, voi no".

Già, il Padre è vero, una certezza appunto, perché diventato personaggio, mentre il Direttore vive solamente sulle tavole del palcoscenico. Questo personaggio del Padre nel quale "si esprime la verità più intima di Pirandello" (Szondi), verità resa più forte da una sorta di commistione, di osmosi tra l'autore e il personaggio del Padre. Sotterranei, profondi, esili canali che trasportano linfa vitale dall'uno all'altro, e rendono difficile, nel loro intrecciarsi, l'identificazione dell'appartenenza. E, sotto questa luce, la Premessa scritta a posteriori appare come un malriuscito tentativo di depistaggio, come se l'autore volesse lavarsene le mani, addebitando tutto alla Fantasia con la "F" maiuscola. Ma non serve, quella Premessa, non basta.

IL CAPOCOMICO

E dov'è il copione

IL PADRE

È in noi, signore. Battute come queste:

... Guardi - la mia pietà, tutta la mia pietà per questa donna (indicherà la Madre) è stata assunta da lei come la più feroce delle crudeltà!

LA MADRE

Ma se m'hai scacciata.

IL PADRE

Ecco, la sente? Scacciata! Le è parso ch'io l'abbia scacciata!

LA MADRE

Tu sai parlare; io non so... Ma creda, signore, che dopo avermi sposata... chi sa perché!

(ero una povera, umile donna ... )

IL PADRE

Ma appunto per questo, per la tua umiltà ti sposai, che amai in te, credendo... (S'interromperà alle negazioni di lei; aprirà le braccia, in atto disperato, vedendo l'impossibilità di farsi intendere da lei, e si rivolgerà al Capocomico) No, vede? Dice di no! Spaventevole, signore, creda, spaventevole la sua (si picchierà la fronte) sordità, sordità mentale! Cuore, sì, per i figli! Ma sorda, sorda di cervello, sorda, signore, fino alla disperazione!

Quale memoria reale si portano appresso? Più che al momento di crisi coniugale tra donna Caterina e don Stefano quando questi si mise nuovamente con l'ex fidanzata, esse sembrano riferirsi, sia pure in una diversa situazione, al rapporto tra Antonietta e Luigi quando, scoperta l'incapacità della moglie a seguirlo sulle vie dell'Arte, la «scaccia», ossia la relega alle sole funzioni di madre.

E ancora, questa battuta del

Padre:

Ora lei intende la perfidia di questa ragazza? M'ha sorpreso in un luogo, in un atto, dove e come non doveva conoscermi, come io non potevo essere per lei; e mi vuole dare una realtà, quale io non potevo mai aspettarmi che dovessi assumere per lei, in un momento fugace, vergognoso, della mia vita! Questo, questo, signore, io sento soprattutto!

non è certamente un rimprovero che Luigi rivolge a se stesso per avere per anni e anni inchiodato, crocefisso il padre a un solo gesto, a un momento fugace della sua vita, a un errore?

E nella battuta della

Figliastra: Grida, grida, mamma!... Grida, come hai gridato allora!

quell'allora certamente si riferisce alla vicenda vissuta dai personaggi nella fantasia dell'autore, quando stavano in una sorta di limbo della creazione, ma forse c'è nel grido della Madre che sorprende la Figliastra tra le braccia del marito una terribile eco del grido disperato di Antonietta allorché la follia le fece supporre un legame incestuoso tra Luigi e la figlia.

"Il fine dei Sei personaggi" ha affermato Jean-Michel Gardair "consiste in questo processo di discolpa del Padre per incriminazione del Figlio, attraverso la sovrapposizione fantasmatica di due scene: l'incesto e l'adulterio. Se questo testo è, in effetti, fondamentale nell'opera di Pirandello, è per ragioni opposte a quelle che egli elabora consapevolmente. Pirandello finge di credere che egli ha 'rifiutato' questi personaggi perché non lo interessavano e perché non avevano nulla a che fare con il suo dramma personale, per insistere, invece, sulla novità teorica e sulla maestria della sua creazione. Ora confessa egli stesso di aver scritto questa pièce in stato di trance e sotto il peso della necessità. Infatti, tutto l'apparato concettuale della pièce (conflitto attori-personaggi, impossibilità di drammatizzazione dei fantasmi in assenza dell'autore ecc.) non serve qui che a mascherare il desiderio (di Pirandello) di accusarsi (di discolpare il Padre) in pubblico. Desiderio che sfociò nel memorabile gesto con il quale Pirandello getta la maschera in occasione della prima (catastrofica) dei Sei personaggi: per la prima volta nella sua vita si presenta in scena a salutare il pubblico, ed è proprio per affrontare i fischi."

Continua ancora Gardair a proposito della morte della Bambina e del suicidio del Giovanetto: "Non si può non sottolineare che l'età dei due fanciulli, quattordici e quattro anni, corrisponde, da una parte, all'età in cui morì una sorella minore di Pirandello, dall'altra, alla stessa età che aveva egli stesso all'epoca della scena trasposta in Ritorno, all'indomani della quale un'altra delle sue sorelle minori era diventata improvvisamente demente. Infine, con il sinistro scoppio di risa della Figliastra, con la quale termina la pièce, Pirandello attira su di sé per sempre la vendetta di Antonietta, troppo sagace Erinni, che ha espiato con la follia il terribile privilegio della chiaroveggenza".

Le tessere di un puzzle che miracolosamente si compongono in un disegno unitario dopo anni di sofferte prove, lampi di luce che tornano a innestarsi nella loro origine prismatica. Tanti, troppi i sotterranei legami, talvolta espliciti, talvolta appena accennati, altre volte solo intuiti e non si sa se valga la pena di portarli tutti alla luce. Ma una cosa mi pare certa: il colpo di rivoltella col quale il Figlio giovinetto pone fine ai suoi giorni, uccide anche un'illusione giovanile voluta perpetuare a lungo negli anni con ostinazione, con caparbietà: quel colpo di pistola fa scomparire il figlio cambiato, se è mai esistito; ora Luigi sa con dolorosa certezza che il sangue che scorre nelle sue vene è quello di suo padre. Lo scambio del figlio nella culla non c'è mai stato: se adesso Luigi volesse raccontare nuovamente la storia che da picciliddro gli contò la cameriera Maria Stella, quella storia la chiamerebbe, senza esitazioni, una "favola".

LA SERA DELLA PRIMA

Il mutupèrio che si scatenò al romano Teatro Valle la sera del 9 maggio 1921, in occasione della prima rappresentazione dei Sei personaggi da parte della Compagnia diretta da Dario Niccodemi, è stato raccontato e descritto decine e decine di volte.

Annotò Adriano Tilgher nella sua recensione apparsa sul quotidiano "Il Tempo" del giorno appresso:

"Moltissime chiamate alla fine del primo e del secondo atto, alla fine del quale Pirandello fu evocato alla ribalta, non so più quante volte. Ma, a dir vero, fu successo imposto da una minoranza ad un pubblico disorientato e perplesso, e, in fondo, voglioso assai di capire.

Al terzo atto però, il più fiacco di tutti, e che finisce in modo assurdo, si scatenò una tempesta cui i fautori del lavoro tennero validamente testa. E così finì una serata che fu veramente di battaglia per tutti, per l'autore, per gli attori, pel pubblico e, anche, pei critici".

Chiaramente, Tilgher assegna la responsabilità della caduta al terzo atto, che giudica fiacco e assurdo e oltretutto ripetitivo:

" ... il terzo atto in fondo, non fa che 'piétiner sur la place' del secondo, che questo si risolve tutto nella discussione prolissa di una tesi estetica non troppo brillante di novità: che la vita non è il teatro".

A molti anni di distanza, e dal suo punto di vista, anche Peter Szondi scriverà che il terzo atto è una "conclusione pseudodrammatica".

Ci sarebbe molto da ragionarci sopra, sul discusso terzo atto, ma non è questo il posto.

In realtà, scrivendo di un pubblico "disorientato e perplesso", Tilgher (che sarà colui che vestirà di una teoria filosofica il teatro di Pirandello) ci racconta la mezza messa.

Gli spettatori sì rimasero disorientati inizialmente quando, entrando nella sala, videro che il sipario era aperto e che sul palcoscenico non c'era traccia di scenografia, alcuni si fecero persuasi che lo spettacolo era stato rimandato, anche perché c'era un macchinista che inchiodava qualcosa. A quei tempi, vedere dall'interno la macchina teatrale, osservare ciò che succede dietro le quinte non incuriosiva, ma disturbava, dava disagio. Gli spettatori dall'iniziale disorientamento passarono sì alla perplessità quando sentirono dire al Capocomico la provocatoria battuta:

Che vuole che le faccia io se... ci siamo ridotti a mettere in iscena commedie di Pirandello, che chi l'intende è bravo, fatte apposta di maniera che né attori né critici né pubblico ne restino mai contenti?

L'atteggiamento del pubblico mutò in peggio all'entrata dei sei personaggi. Gli spettatori, a sentirli entrare dalla porta di fondo sala, la stessa dalla quale erano entrati loro, dovettero voltarsi indietro dalle poltrone sulle quali erano seduti, furono costretti cioè ad andare contro all'orientamento stesso della sala, come se fossero stati obbligati a leggere un rigo di un romanzo fatto stampare a bella posta a rovescio dall'autore. E ancora: questi personaggi stavano occupando lo spazio riservato agli spettatori, camminavano nel corridoio tra le poltrone, si fermavano a discutere con gli attori quasi sui piedi degli spettatori seduti in prima fila. Le prime violente reazioni nacquero da quegli spettatori che volevano difendere il loro "territorio", era una rivoluzione, il sovvertimento di un ordine stabilito. A un certo punto lo scontro tra la minoranza dei sostenitori e la maggioranza dei dissenzienti si fece anche fisico, volarono cazzotti, si distinse il giornalista Orio Vergani, pugile dilettante, amico di Pirandello e la cui sorella, Vera, interpretava la parte della Figliastra (splendidamente, ricordano le cronache), si distinse anche un poeta, Arnaldi, che sfondò a spallate la porta di un palco nel quale stavano alcuni fischiatori. Molte le grida di "buffone", di "manicomio". Pirandello, che si era portato appresso la figlia Lietta, sembrava scialarsela di quello che stava capitando, tanto che alla fine del terzo atto si presentò alla ribalta, quasi a ringraziare per i fischi e i dissensi. Pare gli abbiano lanciato contro delle monetine. Siamo più che convinti che la maggioranza degli spettatori dissenzienti oscuramente intuì che qualcosa d'irreversibile stava succedendo quella sera al Valle, che da lì a poco o a molto il teatro non sarebbe più stato uguale a prima. La loro fu la difesa di un'idea di teatro che quella sera veniva scardinata.

Pirandello attese un'ora a uscire con la figlia dal Valle, molta gente lo aspettava fuori e non pareva animata da intenzioni amichevoli. Quando si decise, uscì "per la porta di servizio, sul vicolo, un losco vicolo di gatti morti" (Vergani). Voleva raggiungere inosservato la fermata del tram, l'arrivo di un tassì avrebbe potuto insospettire i facinorosi. Andò diversamente. Scrisse Orio Vergani: "Uscì, con la figlia a braccetto. Nella luce del primo lampione fu riconosciuto. Lo si circondò per difenderlo. Belle dame ridevano ripetendo, con le bocche laccate: 'Manicomio!'. Eleganti giovani incravattati di bianco sghignazzavano e insultavano. La figlia, al braccio del padre, tremava e non riusciva quasi a muovere un passo. Altra gente accorreva, fischiando e ridendo. Anche i pizzardoni non sapevano se dovevano intervenire per 'quel matto di Pirandello'. Un tassì si avvicinò. Pirandello, nella luce della piazzetta, riceveva in viso, con le labbra appena toccate dall'ironia, gli insulti. Noi si doveva evitare di venire alle mani, finché non fosse partita l'automobile. Fece salire la figlia. Poi montò a sua volta e nel quadrato del finestrino mentre dava l'indirizzo della casa lontana e mesta dove, all'indomani, avrebbe ripreso a lavorare, si vide ancora il suo viso. I giovanotti eleganti lanciavano delle monetine. E le signore anche, aprendo in fretta le loro preziose borsette. Odo ancora il rumore del rame sul selciato, il riso e l'oltraggio".

Va detto che a Milano, la sera del 27 settembre dello stesso anno, la commedia, recitata dalla stessa compagnia, venne seguita dal pubblico con intensa concentrazione e terminò con un trionfo. I milanesi avevano avuto tutto l'agio per prepararsi avendo potuto nel frattempo leggere il testo stampato.

Quella sera, nella piazzetta dietro il Valle, tra coloro che circondano Pirandello e la figlia per proteggerli dagli eccessi degli spettatori inferociti, c'è un giovane che scambia qualche occhiata con la scantatissima Lietta. È Manuel Aguirre, addetto militare all'Ambasciata cilena di Roma.

NOTE:

macari, magari - anche

taliàrlo e ritaliàrlo – guardarlo e riguardarlo

mutupèrio – offese urlate da una massa che inveisce contro qualcuno

picciliddro – piccolino, bambino

racconta la mezza messa – dice le cose a metà

scantatissima - spaventatissima

© Rizzoli RCS

"ENRICO IV"

COMMEDIA IN TRE ATTI

Commedia in tre atti scritta nel 1921 e rappresentata il 24 febbraio 1922 al Teatro Manzoni di Milano dalla Compagnia Ruggero Ruggeri. Considerato il capolavoro teatrale di Pirandello insieme a Sei personaggi in cerca di autore, Enrico IV è uno studio sul significato della pazzia e sul tema caro all'autore del rapporto, complesso e alla fine inestricabile, tra personaggio e uomo, finzione e verità.

INTRODUZIONE 1

da Opere Letterarie del 900 Italiano

In una lettera del 21 settembre 1921, Pirandello propose la «tragedia in tre atti» Enrico IV, non ancora scritta, a Ruggero Ruggeri e, alla sua risposta affermativa, la ultimò in due mesi (le fasi della composizione sono testimoniate da alcuni manoscritti, tra i pochissimi pervenutici). Affidata alla neonata Compagnia Ruggeri-Borelli-Talli, la tragedia andò in scena al Teatro Manzoni di Milano, il 24 febbraio 1922, con Ruggero Ruggeri (Enrico IV), Gilda Marchiò (Matilde, parte rifiutata da Lyda Borelli), Romano Calò (Belcredi), Egisto Olivieri (Genoni). Ruggeri, per tutta la vita, riprese costantemente la parte, facendone il proprio cavallo di battaglia. Dopo alcune anticipazioni (la più ampia il finale del secondo atto in «Comoedia», l'opera comparve nel vol. IV della seconda raccolta delle Maschere nude: quest'edizione, alquanto scorretta, fu rivista ed emendata da Pirandello per la successiva edizione del 1933.

Nel giugno 1925 Pirandello mise in scena, con la Compagnia del Teatro d'Arte, un allestimento che si segnalò per le imponenti scene di Virgilio Marchi e che fu ripreso fino al 1928, con diverse distribuzioni delle parti. La tela si leva su una scena che rappresenta «quella che poté essere la sala del trono di Enrico IV nella casa imperiale di Goslar», ma con un particolare stridente, che rivela l'ambientazione contemporanea della tragedia: «due grandi ritratti a olio moderna; di grandezza naturale, avventano dalla parete di fondo».

Anche le prime battute di due valletti e quattro giovani aristocratici smascherano immediatamente l'apparenza della scena e dei costumi, rivelando allo spettatore (con il primo di una lunga serie di segnali metateatrali) che si sta svolgendo un'imprecisata recita, non dissimile da «una rappresentazione storica, a uso di quelle che piacciono tanto oggi nei teatri».

Il dialogo iniziale illumina l'ambientazione della rappresentazione: le vicende dell'imperatore Enrico IV di Germania, la lotta per le investiture con papa Gregorio VII, Canossa e la marchesa Matilde di Toscana; e suscita la percezione di una prima alea, semischerzosa, di follia e l'attesa di un qualche evento connesso all'arrivo di alcuni ospiti. Il dialogo dei nuovi arrivati consente la ricostruzione dell'antefatto, riassunto come segue dall'autore (nella citata lettera a Ruggeri):

«Circa venti anni addietro alcuni giovani signori e signore dell'aristocrazia, pensarono di fare per loro diletto, in tempo di carnevale, una "cavalcata in costume" in una villa patrizia.Uno di questi signori s'era scelto il personaggio di Enrico IV; e per rappresentarlo il meglio possibile s'era dato la pena e il tormento d'uno studio intensissimo, minuzioso e preciso, che lo aveva quasi per circa un mese ossessionato.... Sciaguratamente il giorno della cavalcata, mentre sfilava con la sua dama accanto nel magnifico corteo, per un improvviso adombramento del cavallo, cadde, batté la testa e quando si riebbe dalla forte commozione cerebrale restò fissato nel personaggio di Enrico IV.

Non ci fu verso di rimuovere quella fissazione, di fargli lasciare quel costume in cui s'era mascherato: la maschera, con tanta ossessione studiata fino allo scrupolo dei minimi particolari, diventò in lui la persona del tragico imperatore.... Sono passati venti anni. Ora egli vive, Enrico IV in una villa solitaria: tranquillo pazzo. Ha quasi cinquant'anni.

Ma il tempo in lui non è più passato ai suoi occhi e nel suo sentimento: s'è fissato in lui, il tempo. Egli già vecchio è sempre il giovine Enrico IV della cavalcata. / Un bel giorno si presenta nella villa a un nipote di lui, il quale seconda la tranquilla pazzia dello zio, a cui è affezionatissimo, un medico alienista. C'è forse un mezzo per guarire quel demente: ridargli con un trucco violento "la sensazione della distanza del tempo". La tragedia comincia adesso».

Alla ricostruita corte di Enrico IV (il protagonista che non ha nome né identità al di fuori di quella della parte in cui s'identifica) sono dunque giunti il marchesino Di Nolli, suo nipote, e il dottor Genoni nonché la marchesa Matilde Spina, un tempo da lui corteggiata, con l'amante Tito Belcredi e con la figlia Frida. Donna Matilde, il dottore e Belcredi si fanno annunciare, vestiti con i costumi dell'epoca, a Enrico IV, la cui, ritardata, entrata in scena acquista il senso della temuta apparizione di una «terribile maschera» che non è «più una maschera, ma la Follia».

Enrico IV, che ha un evidentissimo trucco giovanile e indossa «sopra la veste regale un sajo da penitente, come a Canossa», chiede loro l'intercessione nei confronti del pontefice e rivolge loro dei discorsi - sulle velleità, le finzioni, la maschera, il ricordo, la vita da cui egli è escluso - carichi di sensi reconditi che impressionano e commuovono particolarmente la marchesa. Il secondo atto rappresenta i preparativi della messinscena terapeutica diretta dal dottor Genoni: Di Nolli e Frida si sostituiranno ai ritratti dell'innominato nei panni di Enrico IV e di donna Spina in quelli di Matilde di Canossa. Frida, identica alla madre da giovane e vestita con il costume allora da lei indossato (e dunque il «ritratto, vivo»), di notte e all'improvviso, si presenterà a Enrico IV insieme con la marchesa. Nel frattempo, travolto dalle passioni ridestate dall'irruzione degli altri nella sua vita di uomo solo, Enrico IV rivela ai suoi consiglieri di non essere pazzo ma di simulare la pazzia in una recita che, però, non ha fini di burla, ed è come vera, sia perché la pazzia rivela le verità che la società nasconde, sia perché la finzione che costituisca un inganno anche per se stessi diventa vera. Il terzo atto inizia con l'illusione terapeutica, interrotta quando si diffonde la notizia della finzione del protagonista.

Il «grande Mascherato», senza più la sua duplice maschera di Enrico IV e della Follia, subite «le accuse e il dileggio per quella che tutti credono una sua beffa crudele», reagisce aggrappandosi ancora alla parte e, nel contempo, viceversa, confessando la verità: pazzo davvero (per la caduta che, rivela, fu provocata deliberatamente da qualcuno dietro di lui), rinsavì dopo molti anni, ma non credette più possibile tornare a vivere: a sedersi «con una fame da lupo a un banchetto già bell'e sparecchiato». Egli, che già da giovane aveva dovuto sopportare il dileggio altrui e la sopraffazione dell'epiteto di pazzo, assunse perciò volontariamente il ruolo di folle e l'abito d'imperatore, «caricatura, evidente e volontaria di quest'altra mascherata, continua, d'ogni minuto, di cui siamo i pagliacci involontari».

La tensione creatasi, ripetizione di quella passata, sfocia in un'ultima, tragica, vera finzione del protagonista che, per riprendersi la vita non vissuta, ghermisce la giovane Frida, come se fosse la Matilde desiderata in gioventù. Belcredi, il quale non crede né alla pazzia, nuovamente inscenata, né alle affermazioni del protagonista, interviene per difendere la giovane, ma Enrico IV lo uccide con la spada e si richiude di nuovo, «per forza» e «per sempre», nella sua parte, nella sua vera e finta follia. L'Enrico IV è un'opera centrale nel teatro di Pirandello in quanto, come Uno, nessuno e centomila, che si può dire quasi parallelo (tanto che dal manoscritto del romanzo, non a caso, alcune pagine - in parte già pubblicate, come anticipazione, sulla rivista «Cronache d'attualità» - passarono alla tragedia), è un riepilogo dei temi pirandelliani: la maschera, la verità e la finzione, l'illusione, il vivere e il vedersi vivere, la follia.

È un'opera centrale, ancora, nella sua dimensione autoriflessiva, e quasi esplicitamente metateatrale. Essa è, al contempo, un unicum o quasi, per più versi, per la sua natura di tragedia, per il linguaggio elevato e l'ambientazione aulica, connessi alla tradizione del dramma storico. Enrico IV costituisce l'equivalente, novecentesco e pirandelliano, dell'Amleto di Shakespeare.

Ruggero Ruggeri aveva riportato in scena dal 1915, prima ancora di divenire interprete pirandelliano, un Amleto che, secondo la testimonianza di Piero Gobetti, era pirandelliano ante litteram; inoltre, rappresentando l'Enrico IV, Ruggeri «lavorò sulla sua tradizione: mantenne il costume nero del principe danese», al punto dunque che determinante in quella rappresentazione «non tanto una tradizione letteraria quanto una teatrale» (Franca Angelini). La figura del «grande Mascherato» che recita, metafora dell'attore, la ricchezza di virtuosismi tecnici della rappresentazione - basti pensare che il protagonista recita contemporaneamente due e talora tre parti: «la Follia» personificata e il «tragico imperatore» che, a sua volta recita la parte del penitente - hanno fatto de l'opera un banco di prova per ogni grande attore (in Italia, oltre a Ruggeri e a Lamberto Picasso, anche Renzo Ricci, Memo Benassi, Salvo Randone, Tino Carraro, Romolo Valli, Giorgio Albertazzi), contribuendo così alla sua grande fortuna, anche all'estero, pari almeno a quella dei Sei personaggi.

Adattamenti cinematografici.

Nel 1943 Enrico IV con la regia di Giorgio Pastina; sceneggiatura di Pastina, Vitaliano Brancati, Fabrizio Sarazani e Stefano Landi (Stefano Pirandello) musiche di Enzo Masetti; interpreti Osvaldo Valenti Clara Calamai, Luigi Pavese, Enzo Biliotti. Nel 1983 Enrico IV, con la regia di Marco Bellocchio; sceneggiatura di Marco Bellocchio con la collaborazione di Tonino Guerra; musiche di Astor Piazzolla; interpreti Marcello Mastroianni, Claudia Cardinale, Leopoldo Trieste, Paolo Bonacelli.

ENRICO IV - INTRODUZIONE 2

Da Italia Libri

Enrico IV è la recita di una recita. Finzione di una finzione, forse per questo appare così autentica. Enrico, il personaggio della tragedia, mette in scena sul palco il perpetuarsi di una situazione storica imbarazzante: l’umiliazione del ventiseienne imperatore di Baviera, costretto a un’estenuante attesa, nell’inverno del 1077, fuori dalle mura di Canossa, mentre Matilde di Toscana, nel ruolo inevitabilmente ambiguo del negoziatore, si adopera presso il Papa Gregorio VII, per ricucire lo strappo fra Chiesa e Impero. Questo dramma, che nella realtà storica si consumò in due giorni, nella tragedia pirandelliana dura vent’anni. Potenza della nevrosi.

«Circa vent’anni addietro, alcuni giovani signori e signore dell’aristocrazia pensarono di fare per loro diletto, in tempo di carnevale, una “cavalcata in costume” in una villa patrizia: ciascuno di quei signori s’era scelto un personaggio storico, re o principe, da figurare con la sua dama accanto, regina o principessa, sul cavallo bardato secondo i costumi dell’epoca. Uno di questi signori s’era scelto il personaggio di Enrico IV; e per rappresentarlo il meglio possibile, s’era dato la pena e il tormento d’un studio intensissimo, minuzioso e preciso, che lo aveva per circa un mese ossessionato».

Con queste parole Luigi Pirandello, in una lettera del 1921, presentava l’antefatto della nuova tragedia che stava scrivendo al grande Ruggero Ruggeri, l’interprete che desiderava, e che ottenne, nel ruolo principale. Nel corso della cavalcata Enrico, che monta accanto alla bella ma frivola Matilde, di cui è innamorato, cade da cavallo, rimanendo intrappolato nel ruolo che sta impersonando. Rinchiuso in un esilio dorato dalla sorella, insieme a quattro servitori che si prestano al giuoco nel ruolo di consiglieri segreti, l’uomo porta avanti la bizzarra rappresentazione che, con il tempo, assume i tratti di una normale quotidianità. Passano vent’anni e la sorella di Enrico, che non si è mai capacitata della pazzia del fratello, sul letto di morte richiede che gli amici rappresentino ancora una volta la scena, per mettere il malato, con uno stratagemma, di fronte al tempo trascorso, in un estremo tentativo di strapparlo alla follia. Questo è il piano che i cinque personaggi hanno in mente quando si portano alla villa dove è rinchiuso Enrico: Matilde, ormai donna matura; sua figlia Frida, immagine vivente della Matilde di un tempo, Carlo Di Nolli, figlio della sorella di Enrico e fidanzato di Frida; Tito Belcredi, allora rivale di Enrico e oggi amante di Matilde; ultimo viene il medico «alienista», a cui spetta la supervision "scientifica" dell'operazione. Nel primo atto, al cospetto di Enrico, Matilde, Belcredi e il medico, travestiti in abiti storici, subiscono la conversazione di Enrico che, pur discorrendo di vicende riguardanti un ambito di 850 anni addietro, li confonde con l’attualità ambigua delle sue affermazioni. Una parte del secondo atto è passata così dal gruppo a interpretare e cercare contraddizioni e conferme nelle tranquille parole del malato. Ma il fuoco cova sotto la cenere. Congedati temporaneamente i suoi ospiti, il furore di Enrico esplode: «Buffoni! Buffoni! Buffoni!». Il principe svela ai servitori allibiti la verità. «Non capisci? non vedi come li paro, come li concio, come me li faccio comparire davanti? Buffoni spaventati».

E con la verità, affiora la sua stramba filosofia:

«Dovevate sapervelo fare da voi l’inganno; non per rappresentarlo davanti a me, davanti a chi viene qua in visita di tanto in tanto; ma così, per come siete naturalmente, tutti i giorni, davanti a nessuno, [...] Per quanto orrendi i miei casi, e orrendi i fatti; aspre le lotte, dolorose le vicende: già storia, non cangiano più, non possono più cangiare, capite?

Fissati per sempre: [...] il piacere, il piacere della storia, insomma, che è così grande!».

Nel terzo atto, la resa dei conti.

La grandezza di Pirandello è anche quella di aver messo in scena l’alienazione in un tempo in cui (1922) la psicanalisi è ancora scienza in fasce, un po' come Italo Svevo di lì a poco farà con il suo Zeno (1923). Enrico è un alienato, messo al margine della società dei suoi simili, di cui subisce la diversità. La sua colpa è quella di affrontare la vita con troppa serietà e pretendere di essere preso sul serio da chi serio non vuole essere, come testimoniano le parole di Matilde, che nel primo atto afferma:

«Risi di lui. Con rimorso, anzi con vero dispetto contro me stessa, poi perché vidi che il mio riso si confondeva con quello degli altri - sciocchi - che si facevano beffe di lui».

L’errore è quello di credere veramente che la «società» consista in un giuoco cooperativo volto a edificare e a sviluppare opere e civiltà. Piuttosto essa appare più spesso un giuoco antagonista, in cui i mediocri, che sono i più, alleano le loro insufficienti forze per ostacolare chi, considerato capace, rispecchia la loro mediocrità. «Conviene a tutti far credere pazzi certuni, per avere la scusa di tenerli chiusi. Sai perché? Perché non si resiste a sentirli parlare».

La tragedia pirandelliana è stata presa a simbolo della campagna che ha portato, in Italia, alla controversa legge 180 detta «Basaglia», dallo psichiatra che la patrocinò,: alla chiusura dei manicomi e alla reintegrazione forzata dei malati psichici nella società. Al contrario, la riforma ebbe nello scrittore e psichiatra Mario Tobino un deciso oppositore, come velatamente traspare anche dalle pagine del suo Per le antiche scale. Il personaggio di Enrico è stato visto per lo più come un personaggio positivo, che sceglie di autoemarginarsi, piuttosto che integrarsi in una società conformista; ma non mancano i critici che vedono in Enrico «la dimensione di rinuncia, di autorepressione, di rifiuto della vita e del sesso, in una parola di pulsione di morte». Il curatore dell’edizione Mondadori del 1993, Roberto Alonge, sembra pensarla così, quando cita: «Enrico è “impazzito” non per aver perduto la donna, ma per non dover affrontare il rischio di conquistarla e di averla» (Gioanola). L’amore di Enrico per Matilde è strumentale. Egli vede il matrimonio come il passaporto, se non per la normalità, almeno per la conformità. Matilde però esita, non perchè non lo ricambi o non lo stimi, ma perchè non è disposta ad affrontare il rischio di avvallare le «qualità» di lui contro tutti gli altri, che lo chiamavano pazzo anche prima che lo fosse, contro Belcredi, che punse il suo cavallo per farlo imbizzarrire e che nel finale catartico viene punto a sua volta, trafitto senza speranza (il grido finale di Matilde non lascia adito a dubbi), lui, «spadaccino temutissimo», dalla spada acuta e vendicativa della follia, nella quale Enrico si rifugia poi definitivamente

ANALISI - Le finzioni di Enrico IV. Un'analisi del dramma Enrico IV di Luigi Pirandello.

di Pia Schwarz Lausten - Università di Copenaghen

da tidsskrift

Pirandello scrisse l'Enrico IV né 1921 (la prima edizione è del 1922), meno di un anno dopo la stesura del famoso capolavoro Sei personaggi in cerca d'autore, in cui la scomposizione e la sperimentazione scenica arrivarono al punto estremo. Enrico IV è uno dei testi più geniali e affascinanti di Pirandello forse per la sua felice combinazione di riflessione filosofica e intensità drammatica. Inoltre esso si svolge contemporaneamente a più livelli scenici o testuali, di cui si possono individuare almeno tre che sono da prendere in considerazione: un livello psicologico-sentimentale da dramma borghese ottocentesco, che comprende tra l'altro i conflitti interpersonali; un livello astratto da dramma contemplativo dove le vicende di Enrico possono assumere valore allegorico; e un livello metateatrale, un discorso sulla possibilità della tragedia stessa, che è il risultato delle riflessioni dell'autore sui modi della conoscenza artistica nel moderno. Credo che il senso dell'opera si debba trovare a livello astratto e metateatrale (come hanno già suggerito R. Alongé e R. Luperini). Perciò sarà anche importante analizzare la funzione della follia del protagonista. Spesso è stato messo in rilievo il lato tragico della sua follia e del suo vivere nella maschera eterna. Ma la mia ipotesi è. che la sua finzione della follia non abbia un valore così univocamente negativo, e che - invece di un fenomeno concreto, psichiatrico come vorrebbe il critico Elio Gioanola - sia da considererare un discorso più astratto, con un significato soprattutto simbolico.

Finzione e realtà

L'intero dramma ruota intorno ad un sottile gioco ambiguo tra finzione (il tempo e lo spazio medievale) e realtà attuale, «in una villa solitaria della campagna umbra ai nostri giorni.» Il protagonista vive da 20 anni isolato in una villa, prima credendo poi fingendo di essere l'imperatore tedesco Enrico IV (1050-1106). La spiegazione di questo modo di vivere si trova negli antefatti, fuori dalla cornice testuale del dramma. Il protagonista aveva partecipato ad una mascherata insieme a degli amici durante la quale è caduto da cavallo ed è impazzito. Tutti si erano mascherati da personaggi storici, lui aveva scelto Enrico IV perché la donna di cui era innamorato aveva scelto per sé la parte di Matilde di Toscana - nemica di Enrico IV. In questo modo egli poteva rimproverare indirettamente alla donna amata la sua crudeltà, ma soprattutto poteva avere l'occasione di gettarsi ai suoi piedi come fece l'imperatore a Canossa. La sua follia, che durò 12 anni, consistette nel credere di essere veramente Enrico IV. Per assecondarlo i parenti gli costruirono un ambiente medievale con quattro valletti. Un giorno, però, otto anni prima dell'inizio dell'azione del dramma, egli guarì ma scelse di lasciare tutto com'era, facendo finta d'essere ancora un pazzo che si crede Enrico IV.

Nel corso del dramma il rapporto tra finzione e realtà subisce dei cambiamenti: durante la mascherata, prima della caduta dal cavallo, il ruolo d'Enrico era ovviamente pura finzione. Tutti recitavano una parte da loro scelta. Poi, con la follia, finzione e realtà coincidevano nella coscienza de protagonista. Infine, dopo la sua guarigione, egli distingue di nuovo tra il ruolo e la realtà, ma solo per sé, non agli occhi degli altri per i quali egli mantiene l'illusione della follia. Enrico ha scelto di continuare la recita del ruolo storico e della follia, e questa finzione è la sua unica realtà. Non ha un'identità più autentica, è solo personaggio (un personaggio moderno) chi recita un altro personaggio (storico), scomparso come «persona». Il protagonista ha quindi due facce o maschere con cui svolgere la sua recita ambigua: il personaggio moderno e quello storico, l'imperatore Enrico IV. Queste suo carattere ambiguo traspare già nella lista dei personaggi, dove il protagonista, a differenza degli altri, viene presentato come: ... Enrico IV - una disposizione tipografica singolare - dove il nome del ruolo storico, della finzione, ha preso il posto del nome vero reale. La realtà risulta uguale alla finzione.

Enrico ha scelto di rifugiarsi nella dimensione storica, già scritta, per trovare quella consistenza e sicurezza che l'esistenza comune non gli ha potute dare. Quello che all'inizio è una situazione causata da un «caso», diventa la sua scelta esistenziale dopo la guarigione (cito da L.Pirandello: Enrico IV. Oscar Mondadori, 1986, p. 202.) Sostituendo la sua precedenti identità reale con una maschera, con una vita fittizia, irreale, ma storicamente ben definita, egli riesce a fissare lo spaventoso flusso temporale della vita in una forma. La dimensione storica, (il medioevo, in cui tra l'altro si credeva ancora in qualcosa) viene contrapposta all'epoca moderna, alla vita attuale che non è così sistemata, coerente e accessibile all'interpretazione e alla conoscenza: il modo di vivere di Enrico assume quindi anche valore di contestazione nei confronti della volgarità e dell'insensatezza del presente.

Dovevate sapervelo fare per voi stessi, l'inganno; non per rappresentarlo davanti a me(...); sentendovi vivi, vivi veramente nella storia del mille e cento, qua alla Corte del vostro imperatore Enrico IV! E pensare (...) gli uomini del mille e novecento si abbaruffano intanto, s'arrabattano in un'ansia senza requie di sapere come si determineranno i loro casi, di vedere come si stabiliranno i fatti che li tengono in tanta ambascia e in tanta agitazione. Mentre voi, invece, già nella storia! con me! Per quanto tristi i miei casi, e orrendi i fatti; aspre le lotte, dolorose le vicende: già storia, non cangiano più, non possono più cangiare, capite? Fissati per sempre: che vi ci potete adagiare, ammirando come ogni effetto segua obbediente alla sua causa, con perfetta logica, e ogni avvenimento si svolga preciso e coerente in ogni suo particolare. Il piacere, il piacere della storia, insomma che è così grande!

La scelta della recitazione come realtà, la difesa dell'immobilità della storia significa qui la salvezza e la liberazione dall'angosciosa mancanza di senso tipica del moderno.

Tragedia storica?

Apparentemente Enrico IV è una tragedia - almeno così l'aveva sottotitolato Pirandello al principio. Ma è davvero una tragedia? E come si congiungerebbe con l'idea espressa dall'autore ad esempio nel saggio sull'Umorismo (1908) e ne Il fu Mattia Pascal (1904), sull'impossibilità della tragedia nel mondo moderno?

Se, nel momento culminante, proprio quando la marionetta che rappresenta Oreste è per vendicare la morte del padre sopra Egisto e la madre, si facesse uno strappo nel cielo di carta del teatrino, che avverrebbe? (...) Oreste sentirebbe ancora gl'impulsi della vendetta, vorrebbe seguirli con smaniosa passione, ma gli occhi, sul punto, gli andrebbero lì, a quello strappo, donde ora ogni sorta di mali influssi penetrerebbero nella scena, e si sentirebbe cader le braccia. Oreste, insomma, diventerebbe Amieto. Tutta la differenza, signor Meis, fra la tragedia antica e la moderna consiste in ciò, creda pure: in un buco nel cielo di carta. (Pirandello: Il fu Mattia Pascal. Oscar Mondadori, 1986, p. 162-163.)

La tendenza dell'uomo moderno a 'vedersi vivere' come da fuori e avvertire la finzione teatrale del proprio ruolo è conseguenza del mondo relativizzato in cui tutti i fenomeni (anche l'identità dell'individuo)

«o sono illusorii, o la ragione di essi ci sfugge, inesplicabile. Manca affatto a nostra conoscenza del mondo e di noi stessi quel valore obiettivo che comunemente presumiamo di attribuirle. È una costruzione ¡llusoria continua.» (Pirandello: L'Umorismo. Oscar Mondadori, 1986, p. 154.)

La scissione tra i fatti e il loro senso rende impossibile la tragedia che e si inoltra l'assolutezza passionale e la perfetta identificazione dei personaggi e del proprio ruolo. L'esperienza teatrale di Pirandello si basa sulla coscienza dell'impossibile del dramma nell'epoca moderna e sulla conseguente caduta della sua aura. Gli obiettivi principali nella ricerca di Pirandello sono infatti «l'autonomia piena dei personaggi dall'autore e la dissacrazione e momento artistico», cioè uno smascheramento di tutti gli artifici teatrali che ci giunge sino ad una «destrutturazione dell'atto scenico» (R. Luperini: Introduzione a Pirandello. Edit. Laterza 1992, p. 87-88).

Ciò è in coerenza con la poetica dell'umorismo il cui metodo essenziale è la scomposizione delle apparenze, l'individuazione del «contrario» di ogni gesto o parola, per rispondere ad un bisogno di cogliere e mettere in evidenza le contraddizioni della realtà. L'umorismo di Pirandello è contro ogni aspirazione a un'armonia e a un'istintività «naturali», e mette invece in rilievo l'artificialità dell'arte. In Enrico IV sembra salvo «il principio generale della tragicità come azione: esemplare recitata intorno al potere, o, comunque, nelle case dei potenti» (Giorgio Bàrberi Squarotti: Le sorti del «tragico». Ravenna 1978, p. 174.)

I personaggi appartengono all'aristocrazia, all'alta borghesia o al clero; spazio è quello tradizionale, una reggia; le tre unità aristoteliche sono rispettate; il dramma si conclude con un omicidio. E la vita dell'imperatore Enrico IV è piena di eventi drammatici e tragici: «stoffa, oh, stoffa da cavarne non una ma parecchie tragedie, la storia di Enrico IV la offrirebbe davvero». E' tuttavia una conferma ambigua: di quale Enrico si tratta? del personaggio storico o di quello moderno? La tragedia infatti è lontana, nei libri di storia, e gli eventi tragici de storia non vengono mai rappresentati. La tragedia storica non si può rappresentare sul palcoscenico, è solo una finzione nella finzione. Il «re» è un comune borghese che finge da otto anni di essere Enrico IV (re di Germania grande e tragico imperatore!» p. 129), in uno scenario realizzato solo per lui. I personaggi non arrivano mai a rappresentare le tragedie della storia del medievale, sono - con un chiaro paragone ai Sei personaggi in cerca d'autore - «come sei pupazzi appesi al muro, che aspettano qualcuno che li prendi che li muova così o così e faccia dir loro qualche parola.» (p. 132). C'è forma e ci manca il contenuto.

Inoltre, l'illusione realistica della recita storica di Enrico viene continuamente rotta con la sua messa in evidenza della maschera: il trucco esagerato; la parrucca visibile; le sue battute prefissate, cioè le citazioni dai libri di storia, che vengono spesso alternate o interrotte dalle battute appartenenti ad un altro livello stilistico, quello del personaggio moderno. Enrico entra ed esce dal ruolo come vuole. Anche l'arredamento del palcoscenico mette in evidenza il carattere di finzione dell'ambito storico (i mobili antichi contrapposti ad es. ai quadri recenti). La finzione dell'ambito storico e tragico è un carnevale o una mascherata come quella che la causò. Ma mentre alla base della mascherata fatale c'era la non-serietà («babele», «burla»), Enrico era già ed è tuttora più serio degli altri, e con la vera follia egli aveva rivoltato quel gioco in seria verità. Si può forse dire che la tragedia era praticabile e realizzabile solo nella vera follia - che però non vediamo mai rappresentata sul palcoscenico. Solo qui coincidevano la realtà presente e il passato tragico nella coscienza di Enrico. La follia aveva spezzato la mascherata con la sua serietà e tragicità.

Tragedia borghese?

Se la tragedia storica non si può rappresentare, a quale livello testuale si trova? Al centro dei drammi borghesi si vede spesso una situazione familiare o altri rapporti sentimentali. Anche qui, al livello che appartiene alla tradizione del dramma borghese e naturalistico ci sono elementi sentimentali come la follia, l'amore, la vendetta. Nel tempo attuale, presente, si svolge un dramma causato da un menage a tre. Belcredi viene ucciso alla fine perché è il rivale in amore, e perché è colpevole della disgrazia di Enrico (indirettamente veniamo a sapere che è stato Belcredi a far cadere il cavallo di Enrico). Ma non è qui il vero significato del dramma. Questi elementi patetici funzionano quale materiale di riuso, e come dimostrato da Lone Klem, alcuni di essi sono stati aggiunti alla fine della stesura del testo, forse per favorire la digeribilità del testo (Lone Klem: «Ingenting er sandt. Efterskrift til Enrico IV». in: Lene Waage Petersen e Jorn Moestrup (eds.): L Pirandello, Vol. I+II. Copenaghen 1989, p. 225.)

A prima vista è tragico il destino del protagonista la cui vita è scivolata via a causa degli anni di pazzia. Tutto quello che non ha vissuto lui, l'hanno vissuto gli altri, mentre è stato chiuso dentro. Ora, nel confronto improvviso con le persone del suo passato, traspare infatti in alcune battute di Enrico un tono emotivo e malinconico, di rancore nei confronti degli altri. Sono momenti in cui egli sembra non poter resistere ad una esperienza tragica del proprio destino: Monsignore, però, mentre voi vi tenete fermo, aggrappato con tutte e due le mani alla vostra tonaca santa, di qua, dalle maniche, vi scivola, vi scivola, vi sguiscia come un serpe qualche cosa, di cui non v'accorgete. Monsignore, la vita! E sono sorprese, quando ve la vedete d'improvviso consistere davanti così sfuggita da voi; dispetti e ire contro voi stesso; o rimorsi; anche rimorsi. Ah, se sapeste, io me ne son trovati tanti davanti! (...) A voi, Pietro Damiani, invece, il ricordo di ciò che siete stato, di ciò che avete fatto, appare ora riconoscimento di realtà passate, che vi restano dentro - è vero? come un sogno. E anche a me - come un sogno ... (p. 165-167).

Queste battute indicano certo la presenza di una dimensione tragica a livello psicologico-esistenziale che però non viene veramente rappresentata nel suo insieme, solo indirettamente in piccoli frammenti. Le battute vengono presto alternate da un altro tono stilistico, quello recitato dai libri di storia:

Tutt'a un tratto infuriandosi e afferrandosi il sajo addosso:

Questo sajo qua! (...) Domani a Bressanone, ventisette vescovi tedeschi e

lombardi firmeranno con me la destituzione di Papa Gregorio VII ....

Enrico si riprende e rientra pienamente nel ruolo del re, nella sua finzione. Il suo sentimento tragico non si può mantenere né rappresentare. Egli è uno che si vede agire e recitare un ruolo, come Oreste nel teatrino delle marionette. Il suo rancore non è abbastanza profondamente sentito, e viene sopraffatto dal piacere tutto intellettuale e a lungo goduto della sua commedia. Quando si smaschera ai servitori, infatti, lo fa con «gaja prorompente frenesia», non con amaro risentimento. C'è quindi una doppiezza in Enrico, tra il suo modo tragico-patetico di esprimersi (anche se solo indirettamente) in certe battute, e contemporaneamente il suo distacco dai propri sentimenti. Secondo alcuni critici l'aspetto tragico e assurdo del dramma si trova nel destino di Enrico, simbolo delle condizioni esistenziali dell'uomo. Egli sarà come dice anche lui la caricatura, evidente e volontaria, di quest'altra mascherata, continua, d'ogni minuto, di cui siamo i pagliacci involontarii (indica Belcredi) quando senza saperlo ci mascheriamo di ciò che ci par d'essere ... (p. 215). Ma nel radicalizzare questa recita continua, nella sua totale estraneità al mondo normale, nel suo distacco dai sentimenti e dalle ipocrisie degli altri, nella scelta volontaria e cosciente di una vita contemplativa, Enrico si oppone invece attivamente a ciò che è la tragedia della vita normale. Sono tragiche le condizioni esistenziali dell'uomo moderno con la labilità della vita, l'impossibilità di trovarvi una sicurezza stabile e definitiva, la relatività, anche nei rapporti interpersonali, che comporta incomunicabilità e solitudine: Guai se vi affondaste come me a considerare questa cosa orribile, che fa veramente impazzire: che se siete accanto a un altro, e gli guardate gli occhi (...) potete figurarvi come un mendico davanti a una porta in cui non potrà mai entrare: chi vi entra, non sarete mai voi, col vostro mondo dentro, come lo vedete e lo toccate; ma uno ignoto a voi, come quell'altro nel suo mondo impenetrabile vi vede e vi tocca ... (p. 199)

Ma nemmeno questa «tragedia» della normalità si può rappresentare interamente sul palcoscenico. E la dimensione tragica del destino di Enrico, che traspare in piccoli frammenti e flashes nelle sue battute, è troppo ambigua per costituire l'unico significato del dramma. Qui, come altrove, Pirandello salva il suo protagonista dalla tragedia.

Tragedia astratta

Il senso del testo si trova invece se lo si considera une «tragedia astratta», con l'espressione di R. Alongé. La soluzione di vita di Enrico diventa emblema di un modo di vivere particolare, tipico per molti degli (anti-)eroi di Pirandello. Anche il suo gesto finale rientra in una lettura simile. Enrico IV rappresenta in forma drammatica problemi e temi che già avevamo visto in altri testi, ad es. Uno, nessuno, centomila (1925), il romanzo che Pirandello stava per concludere nel 1922 e che tratta in modo un po' più teorico la condizione dell'uomo nel mondo relativizzato. Il rifiuto di Enrico della società e la sua esclusione dalla stessa hanno molti tratti in comune con quello degli altri «matti» nell'opera di Pirandello. Anche Enrico è un personaggio «umoristico» nel senso che non è in grado di fondare un autentico conflitto tragico. E' uno degli innumerevoli personaggi di natura contemplativa, estranei al mondo intorno. Si «vedono vivere», si sdoppiano come davanti a uno specchio, come l'artista «umorista» di Pirandello:

In certi momenti di silenzio interiore, in cui l'anima nostra si spoglia di tutte le finzioni abituali, e gli occhi nostri diventano più acuti e più penetranti, noi vediamo noi stessi nella vita, e in se stessa la vita, quasi in una nudità arida, inquiétante; (...) allora la compagine dell'esistenza quotidiana, (...) ci appare priva di senso, priva di scopo; (Pirandello: L'umorismo. Oscar Mondadori, 1986, p. 160-61.)

Il folle e l'attore sono appunto le due figure rappresentate dal protagonista, e si caratterizzano per la distanza non solo dall'esistenza reale, in cui sono immersi gli uomini comuni, ma anche dai propri sentimenti che vivono sdoppiati, come da fuori: quella subitanea lucidité di rappresentazione lo poneva fuori, a un tratto, d'ogni intimità col suo stesso sentimento, che gli appariva - non finto, perché era sincero - ma come qualche cosa a cui dovesse dare li per li il valore... (p. 149)

Enrico «s'esaltava spesso», ma «si vedeva subito, lui stesso, nell'atto della sua esaltazione» (p. 149). Come Moscarda (di Uno, nessuno, centomila) e Serafino Gubbio (del romanzo Quaderni di Serafino Gubbio operatore, 1925) egli ha lo sguardo intenso e pungente, la risata folle, il «parlato continuo» (quasi delirico), ed è infatti già - prima dell'incidente che causa la sua vera follia - un diverso, un mezzo pazzo agli occhi degli altri. Neanche nell'amore le cose gli andavano bene. A donna Matilde facevano paura quegli occhi che la guardavano «con una contenuta, intensa promessa di sentimento duraturo.» (p. 148)

Enrico era già dapprima un attore bravo, e diventa magnifico (da folle) con la maschera di Enrico IV. Ha sempre avuto la vocazione di recitare, invece di vivere la vita. «L'essere attori vuoi dire per Pirandello, entrare in una parte fino al punto da scomparire come persona, (...) a prezzo della rinuncia ad una vita propria, come esemplarmente si verifica in Trovarsi, il dramma di un'attrice che vive veramente solo quando si cala in una parte, al punto da non esserci più come io quando è fuori scena.» (Elio Gioanola: «Mito e follia nell'«Enrico IV»». in: AA.W.: La «persona» nell'opera di L. Pirandello, Roma, 1990, p. 133.)

Come lo specchio di Moscarda e la macchina fotografica di Serafino Gubbio, la maschera di Enrico è la cosa che prima lo aliena completamente, nella vera follia, e che poi funziona da «gradino» o da mezzo per salvarsi, per porsi fuori dal mondo circostante. Si può dire che Enrico sceglie la finzione come soluzione al problema del rapporto tra io e la realtà. Egli dimostra che l'autenticità è un'ideale irraggiungibile e che la finzione vissuta coscientemente è meglio della normalità vissuta incoscientemente. La fine del testo, specialmente il gesto violento di Enrico, ha dato luogo ad interpretazioni diverse. Il dramma finisce in modo aperto, come tanti altri testi pirandelliani. Ritorna matto Enrico IV? O uccide Belcredi in un momento di lucidità fingendo di essere matto? Il gruppo di persone venuto da fuori, con a capo lo psichiatra, vuole fare un esperimento che deve togliere Enrico dalla follia in cui credono che si trovi. Confrontandolo con una copia fedele di sé stesso e di donna Matilde com'erano 20 anni prima, durante la mascherata, gli vogliono far venire uno shock. Come se fosse un orologio, che si può rimettere in moto e riprendere il tempo da dove si era fermato. Lo shock dovrebbe renderlo cosciente degli anni trascorsi. Quest'esperimento costituisce l'intreccio scenico, e si svolge su un altro livello, (quello psicologico dei conflitti interpersonali), rispetto a quello su cui si trova già Enrico, nella sua dimensione astratta, al di là di quel modo di ragionare degli altri (psicologico, 'meccanistico').

Enrico abbraccia improvvisamente la giovane Frida ridendo come un pazzo. Lei è spaventata, e quando arrivano Belcredi, Di Nolli e il Dottore per strappargli Frida dalle braccia, egli «si fa terribile» e ordina ai quattro valletti di trattenerli:

Belcredi (si libera subito e si avventa su Enrico IV): Lasciala! Lasciala! Tu non sei pazzo!

Enrico IV (fulmineamente, cavando la spada dal fianco di Landolfo che gli sta presso): Non sono pazzo? Eccoti! E lo ferisce al ventre, (p. 219)

Nel tumulto che sorge Donna Matilde grida che Enrico è pazzo, Belcredi grida che non è pazzo. Tutti escono e quando da fuori si sente un grido di donna Matilde più acuto degli altri, a cui segue il silenzio, Enrico dice «Ora sì...per forza... (...) qua insieme, qua insieme... e per sempre.»

Considerando il gesto di Enrico a livello del dramma psicologico, naturalistico, sembra che Enrico si spaventi veramente a vedere donna Matilde (e Belcredi) dopo tutto questo tempo, che venga strappato dalla sua finzione e spinto a commettere l'ultimo gesto. Lo shock lo renderebbe incapace di controllare il suo comportamento, come un «lampo di follia» che lo acceca e lo butta in balia degli istinti e del rancore. Il colpo del dottore sarebbe riuscito, si avrebbe un cortocircuito («notte») nella sua mente e «i suoi atti alla fine del dramma (sarebbero) pazzi» (Lone Klem: Dramaets krise hos Pirandello. Copenaghen, 1977.) Sarebbe quindi per pura necessità e costrizione (e non per scelta) che rimane isolato (prigioniero) nella sua pazzia alla fine. La finzione funzionerebbe come giustificazione dell'atto criminale, «fuga, alibi imposto dal rigurgito di un vitalismo incontrollabile.» ( R. Barilli: Pirandello. Una rivoluzione culturale. Milano 1986, p. 246.) La tragedia consisterebbe nella fissazione eterna del suo ruolo, della maschera-forma, la «reclusione eterna nell'illusione».(M. Bradbury: Da litteraturen blev moderne. Gyldendal, Copenaghen, 1989, p. 250.) Enrico esce sì dalla sua «fredda» armonia per entrare nel caos del mondo normale, ma che il suo atto sia risultato di «forze irrazionali su cui non è padrone (...) forze vitali dentro di lui che non conosceva e che d'improvviso accechino la sua coscienza maltrattata» non credo.(Klem 1977, p. 230.) L'interpretazione psicologica fondata sul motivo del tempo perduto, la giovinezza trascorsa, il rancore, oppure la vita degli istinti rimossi che lo raggiunge, è insufficiente e un modo troppo naturalistico di spiegare il gesto violento e l'intero dramma di Enrico. L'ambiguità ed i problemi interpretativi specialmente della fine di Enrico IV si possono infatti considerare come il risultato dell'incompatibilità tra due diversi tipi di concezione della vita e dell'uomo, quello naturalistico e quello del movimento moderno che lo ha sostituito. La distinzione di R.Luperini a questo proposito tra punto di vista psicologico e conoscenza allegorica, può essere utile qui. Secondo lui lo squilibrio nell'io e nel suo rapporto con il mondo non è solo una condizione psicologica o un disturbo psichiatrico, ma «è la situazione tipica della conoscenza per l'allegorista moderno, da Baudelaire a Pirandello.» (R. Luperini: Introduzione a Pirandello. Edit. Laterza, 1992, p. 98.) Il significato del dramma supera la sfera individuale per assumere un significato più universale a un livello allegorico. Il gesto violento dell'omicidio è simbolico più che tragico. Se l'omicidio fosse il risultato di una vendetta amara, di gelosia, guidato dall'irrazionalità degli istinti, allora tutto ciò che rappresenta la scelta esistenziale di Enrico, la scelta della recitazione come realtà e della vita contemplativa, tutto ciò perderebbe validità. L'omicidio è l'artificio dell'autore per far tagliare tutti i ponti a Enrico con il resto del mondo, per confermare il suo rapporto di distacco con la realtà, la sua finzione e il suo diritto a starsene fuori, a contemplare l'insensatezza della normalità, gli intrighi degli altri etc. Enrico difende la finzione della pazzia, come un luogo esistenziale più «sincero». Il dramma diventa quindi espressione di una visione di vita anti-naturalistica, moderna, e forse «decadente». (cfr. M. Nojgaard: En hypotese om Enrico IV. Randbemœrkning til Lone Klem's Pirandello-disputats. NOK 62, Romansk Institut, Odense, 1984). Gli atti di Enrico sono coscienti alla fine, e egli ne sarebbe perciò moralmente responsabile, ma ciò non ha importanza. L'omicidio rende «reale» e credibile la finzione, ora gli altri possono credere che sia pazzo per davvero: «Tu non sei pazzo!» (...) «Non sono pazzo? Eccoti!» E lo uccide. Enrico non uccide Belcredi perché è impazzito, ma per poter rimanere nella (finzione della) follia, al suo livello di vita preferito, quello contemplativo, astratto. A livello allegorico la vita di Enrico è un lucidissimo e disperato tentativo di difendere la propria finzione, che è anche un rifiuto e uno smascheramento della vita normale. Il dramma è esempio del fatto che la finzione è l'unica vita possibile per lui, non c'è nessuna vita più autentica al di fuori di essa, solo altre finzioni. Quando Enrico si «spoglia», non è un segno di debolezza o per costrizione, ma per dimostrare che ha scelto liberamente la «corda pazza» (del Berretto a sonagli). Non è la pazzia «calda» recitata da Beatrice, ma il principio è lo stesso: la follia - anche quella finta - ha delle potenzialità che non hanno né la corda seria, né la corda civile. Enrico sceglie di rimanere nella sua finzione della follia, «e viverla con la più lucida coscienza» (p. 214), perché è una dimensione più rassicurante e meno ipocrita della vita degli altri. Loro non sono coscienti di portare maschere, pretendono di sapere la verità:

Sono guarito, signori: perché so perfettamente di fare il pazzo, qua; e lo faccio, quieto! Il guaio è per voi che la vivete agitatamente, senza saperla e senza vederla la vostra pazzia, (p. 216)

Enrico espone infatti la propria maschera, ci gioca coscientemente, la esagera volutamente, per dimostrare il suo carattere fittizio, per far vedere l'assurdità nel fatto che tutti si fissino nel proprio «concetto», nell'immagine di sé, senza esserne coscienti — credendo che sia la verità. Enrico non cerca di nascondere la tintura dei capelli, al contrario di donna Matilde che postula che la finzione sia vera.

Voi, Madonna, certo non ve li tingete per ingannare gli altri, né voi; ma solo un poco - poco poco - la vostra immagine davanti allo specchio. Io lo faccio per ridere. Voi lo fate sul serio, (p. 166)

La sua scelta non è semplicemente una fuga dalla vita, è di carattere allegorico in quanto mette in dubbio le norme, le regole, lo stesso senso della vita normale. E' una ribellione che rifiuta la «mascherata, continua, d'ogni minuto, di cui siamo i pagliacci involontarii (...) quando senza saperlo ci mascheriamo di ciò che ci par d'essere - l'abito, il loro abito, perdonateli, ancora non lo vedono come la loro stessa persona.» (p. 215). L'isolamento di Enrico nella villa è il compimento concreto e finale di uno stato già presente, in cui ha sempre vissuto, come estraneo al mondo circostante. Ora, nella finzione, Enrico non ha più conflitti col mondo circostante. Il conflitto arrivò al suo culmine durante la cavalcata carnevalesca dove venne anche «risolto», in un primo momento negativamente e tragicamente con la vera pazzia; e dopo, con la guarigione, la maschera lo aiuta a distaccarsi dai drammi banali della vita normale.

Ma che vuoi che m'agiti più ciò che avvenne tra noi; la parte che avesti nelle mie disgrazie con lei (...) la parte che lui adesso ha per voi! - La mia vita è questa! Non è la vostra! (p. 217)

Enrico rifiuta l'idea che hanno gli altri di lui come un «poverino già fuori del mondo, fuori del tempo, fuori della vita», (p. 194) E' vero che vive fuori dal mondo normale, ma porta in sé in un certo senso il tempo e la vita, anche se fermati nel momento storico. Come lo fanno tanti altri personaggi pirandelliani, Enrico ha costruito un mondo o modello suo fuori dal tempo e dal mondo normali come difesa dalla realtà - e per sostituirla - non per «incorniciare il vuoto» (Klem 1977, p. 461.) Ha scelto una forma non come involucro vuoto, ma come mezzo per strutturare l'esperienza e l'esistenza umana altrimenti inafferrabili e fluide. La soluzione di Enrico, la sua ricreazione della vita, non è una fuga, come si è detto, dalla vita, ma vuole dimostrare l'assurdità della vita in generale, la miseria dell'uomo a un livello metastorico, universale. Come gli altri «matti» pirandelliani Enrico rappresenta una dimensione astratta, forse metafisica, scelta come soluzione. E' un tentativo di trascendere il fluire del tempo, e il gruppo di visitatori costituisce un irrompere del tempo contro lo sforzo del protagonista di trascenderlo. E contro il suo sforzo di decidere sulla propria identità, che può anche significare scegliere di essere senza identità, o di avere un'identità fittizia.

La follia

Da quest'ottica interpretativa è importante l'analisi del concetto della follia che diventa interessante soprattutto a livello astratto, cioè al di fuori del livello psicologico e diagnostico. Secondo E. Gioanola, invece, l'universo di Pirandello, sia della vita interiore dell'autore sia dei testi sarebbe schizoide. Cioè l'io sarebbe diviso come conseguenza dell'angoscia di impazzire sul serio. E nella ricerca dell'io vero il soggetto abbandona assieme alle forme anche la vita e va verso una purezza che coincide con l'astrazione, con il lontano, con il vuoto, con il nulla. La divisione schizoide difende dalla follia vera e propria ma non porta affatto alla salvezza, raggelando il soggetto in una sideralè lontananza dagli altri, dal mondo, dalla vita (Gioanola 1990, p. 126.) Gioanola interpreta le vicende in un'ottica psicanalitica, sostenendo che nell'opera e nella vita di Pirandello «la follia rappresenta più una possibilità che una condizione, ma questa possibilità è la condizione di tutta l'opera». Il suo punto di partenza è che esiste tra vissuto personale e scrittura una serie di strette omologie strutturali. L'interesse verso i problemi della psiche dell'uomo non è solo culturale, o dovuto alla follia della moglie, Antonietta, ma secondo Gioanola sintomo della profonda angoscia della psicosi latente nell'autore stesso. I personaggi divisi, i «matti» sarebbero da interpretare come un'esorcizzazione contro la pazzia potenziale in Pirandello. Perfino la poetica dell'umorismo - che sembra diventare un discorso psichiatrico in Gioanola — si adatta alle «esigenze di una psicologia turbata» (Gioanola: Pirandello. La follia. Genova, 1983, p. 50). Mentre la normalità psichica dimostra un'identità tra io e corpo, nello stato schizoide c'è un distacco dal corpo e quindi dalla vita, secondo questo punto di vista. La corporeità è essenziale all'identificazione, e il sentire il proprio corpo fuori dei confini dell'io implica la possibile perdita del principio d'identità, come innumerevoli volte si da nell'opera pirandelliana. Quando Pirandello parla di follia intende, secondo Gioanola, la condizione di chi, chiuso nelle difese dell'io diviso, intraprende la strada dell'ascesa verso l'assoluto dell'io vero (Gioanola 1990, p. 125-126.) Enrico infatti vive, come altri «matti» di Pirandello, lontano dalla vita dei sentimenti in una dimensione ascetica e riflessiva da santo. Può darsi che Enrico si possa considerare un esempio di una psiche schizoide,come lo vede Gioanola. La dissoluzione del personaggio sarebbe la difesa contro l'annullamento totale del soggetto, che respinge o espelle una parte del sé, il lato «pericoloso», minaccioso, che diventa quindi il doppio, ossia «proiezioni negative e persecutorie del sé». Anche la fine del dramma si spiega con questa dissociazione schizoide dell'io. E' uno sdoppiamento dove - per proteggersi dalla vera psicosi - Enrico si è diviso in due. Durante la divisione ha espulso la parte della «bestia», l'io impuro e falso, che rappresenta il corporeo, la sessualità, i bassi istinti etc., per avviarsi verso la perfezione dell'io puro, ascetico. Belcredi sarebbe così l'alter ego, il doppio maligno e persecutore di Enrico che ritorna. L'arrivo di Belcredi e Matilde diventa un ritorno del rimosso, di fantasmi (come quelli che Enrico sogna la notte). Enrico uccide per gelosia, ma «è geloso essenzialmente della propria immagine». Con ciò si tocca secondo Gioanola «la problematica scottante dell'omosessualità», in quanto la gelosia esagerata nel linguaggio freudiano sarebbe collegata all'omosessualità (Gioanola 1983, p. 149-152.) La lettura di Gioanola presenta delle conclusioni probabilmente valide, ma si ferma a un primo livello di diagnosi psicologica, e presenta anche qualche debolezza. Il discorso sulla divisione, sul doppio etc. è piuttosto l'antefatto psicologico del dramma, non il dramma stesso. Da Gioanola la follia dei personaggi pirandelliani viene letta in chiave abbastanza letterale e negativa: i «folli» soffrono, sono freddi, l'attività mentale è una condanna, la ricerca dell'autenticità fuori del corpo li porta all'ascesi, lontani dal flusso vitale. Vengono contrapposti ad una follia «calda», la sfrenatezza della cultura carnevalesca rappresentata da Belcredi & co., la pazzia «agitata e torbida dei «viveurs» marionette deformi di quella «grande pupazzata» che è la vita.» (Gioanola 1990, p. 138.) Uno dei punti chiavi di Gioanola è che questa scissione tra anima e corpo, tra vivere e pensare, trova il suo parallelo nella critica di Pirandello della «logica», chiamata «macchinetta infernale» e «veleno» nel suo saggio sull'Umorismo:

L'uomo non ha della vita un'idea, una nozione assoluta, bensì un sentimento mutabile e vario, secondo i tempi, i casi, la fortuna. Ora la logica (...) tende appunto a fissare quel che è mobile, mutabile, fluido; tende a dare un valore assoluto a ciò che è relativo.(p. 162-163)

Gioanola riduce i matti a pura logica, con il loro parlare polemico e continuo. E l'attività mentale esagerata dei «matti» sarebbe da intendere come negativa di fronte all'ideale flusso vitale. A mio avviso, Gioanola ignora tuttavia che la logica rifiutata da Pirandello è un'altra, non quella dei matti, che è l'antilogica, anticonformista e volubile, ed è proprio quella che esprime le sue idee ad esempio sulla necessità del mantenere e rendere visibili i contrasti nell'uomo e nel mondo. Trovarsi davanti a un pazzo significa: trovarsi davanti a uno che vi scrolla dalle fondamenta tutto quanto avete costruito in voi, attorno a voi, la logica, la logica di tutte le vostre costruzioni! - Eh! che volete? Costruiscono senza logica, beati loro, i pazzi! O con una loro logica che vola come una piuma! Volubili! Volubili! (Enrico IV p. 198) Secondo Gioanola i matti sono vittime del loro «implacabile razionalismo», isolati, disinteressati, senza vita, la follia è uguale alla morte. Egli sottolinea il lato negativo e pessimistico della loro follia, che certamente è presente, ma è solo una mezza verità. Infatti, nel 1924, in una risposta a un giornalista, Pirandello dice a proposito della psicologia dei pazzi: Logica, no. Il pazzo costruisce senza logica. Essa è forma e la forma è in contrasto con la vita. La vita è informe e illogica. Perciò io credo che i pazzi siano più vicini alla vita. Niente c'è di fissato in noi. Noi abbiamo dentro tutte le possibilità. Tanto è vero che da noi impensatamente e improvvisamente può scappare fuori il ladro, il pazzo...; (G. Giudice: Luigi Pirandello. Torino, 1963, p. 354.)

Nei testi di Pirandello i «matti» (si tratta molto spesso di follia simulata) non sono privi di sentimenti. Ridono e piangono per gioia o dolore, e anche se rinunciano alla sessualità, la loro logica non è quella fredda, negativa e formale del mondo razionale che, proprio per esorcizzare o «disarmare» la follia costruisce mascherate come quella di Enrico e dei suoi «amici». I matti invece sospendono gli usuali significati, facendo calare su di essi gli interrogativi e i dubbi di chi vi cerca un significato universale. Enrico dice ai normali:

Sì, qua è una burla: ma uscite di qua, nel mondo vivo. Spunta il giorno. Il tempo è davanti a voi. Un'alba. Questo giorno che ci sta davanti - voi dite - lo faremo noi! Sì? Voi? E salutatemi tutte le tradizioni! Salutatemi tutti i costumi! Mettetevi a parlare! Ripeterete tutte le parole che si sono sempre dette! Credete di vivere? Rimasticate la vita dei morti! (p. 195)

Se i ragionamenti dei matti fossero da considerarsi negativi e sintomi di vera «pazzia», come lo vede Gioanola, non ci sarebbe nemmeno coerenza tra la poetica dell'umorismo e i testi letterari di Pirandello. Si toglierebbe validità al suo discorso poetico, dato che le teorie vengono spesso formulate tramite i matti. I matti sono spesso i portavoci dell'autore. Non ci si può limitare a giudicare la logica dei matti come negativa e morbosa. È proprio la loro estraneità e capacità di astrazione che sospende il senso comune, mostrando la «follia» della vita associata di ogni giorno, la sua insensatezza. Pirandello «ragiona di pazzia in termini di psichiatria pre-freudiana» sostiene Gioanola. Pirandello era infatti influenzato dalle teorie sulle «alterazioni della personalità» di alcuni medici-filosofi francesi (Binet, Ribot), teorie in cui non è tanto una questione di io vero o falso, quanto una battaglia tra molti io differenti (cfr. ad esempio Remo Bodei: «Un episodio di fine secolo», in: ATQUE, materiali tra filosofia e psicoterapia, n. 1, 1990, p. 91-105.) I personaggi di Pirandello consistono, in conformità con quella teoria, di «una aggregazione «sincronica» di elementi non tra loro coerenti», e secondo Gioanola sono «perciò potenzialmente schizoidi». Invece si potrebbe dire che Enrico ha lasciato predominare un altro io, e dimostra così - invece della malattia - la presenza delle possibilità di cambiare personalità che l'uomo possiede. Invece di vedere la dissociazione del soggetto come malattia mentale, la si può interpretare come una sospensione dell'idea stessa di soggetto. Il processo di dissoluzione del soggetto si riconosce in molti personaggi pirandelliani, e comporta tra l'altro il venire meno della distinzione tra la sfera del soggetto e quello dell'oggetto. Vivendo come pura maschera, Enrico viene «oggettivato», come succede ad esempio anche a Moscarda ( in Uno, nessuno, centomila ad esempio: «Sono quest'albero. Albero, nuvola; domani libro o vento: il libro che leggo, il vento che bevo. Tutto fuori, vagabondo.» La sua coscienza si apre alla sfera oggettiva, qui intesa come il ruolo del personaggio storico le cui vicende egli lascia vivere in sé. Enrico non ha più un nome proprio, rinuncia ad una vita propria e scompare come soggetto.

Meta-teatro

Enrico IV si propone come un discorso meta-teatrale, come metafora di se stessa e di ogni rappresentazione teatrale. Più che un conflitto a livello interpersonale tra Belcredi e Enrico, o un conflitto nella psiche di Enrico, sembra svolgersi un conflitto tra diversi tipi di rappresentazioni o visioni teatrali. E' come se con Enrico IV succedesse una distruzione degli elementi drammatici tipici ad es. del dramma psicologico, per fare posto ad una «tragedia astratta» (R. Alongé: Pirandello tra realismo e mistificazione. Guida Editori, 1977, p. 246.) Il dramma diventa così una testimonianza della stessa crisi formale del contemporaneo Sei personaggi in cerca d'autore. La tragedia (anche quella astratta) non è teatrabile, e in questo senso il secondo atto è la fine ideale del dramma, è come un suggello della tragedia astratta, che poi viene messa in crisi nel terzo atto. Nel terzo atto, con gli elementi tecnici e le luci che si accendono d'improvviso, entra in scena la «commedia sentimentale», creata e vissuta dagli altri che cercano di coinvolgere Enrico. Sembra un tentativo di drammatizzare. All'improvviso Enrico si trova su un altro tipo di palcoscenico, quello a cui ha rinunciato già da tanto tempo, cioè quello dei drammi psicologici, degli intrighi interpersonali. Il terzo atto ha la funzione di contrapporre i due tipi di dramma, la commedia sentimentale e il dramma astratto come lo ha dimostrato R. Alongé. Dunque, Belcredi è il rivale di Enrico anche e soprattutto nel senso metateatrale siccome è lui a trascinarlo giù ad un livello banale, via dalla dimensione contemplativa, dal dramma astratto, forzandolo a recitare la commedia patetica. Belcredi irride la finzione di Enrico chiamandola burla, commedia, puerilità etc. Vuole smascherare Enrico perché egli rappresenta un mondo, e meta-testualmente un tipo di dramma, sovversivo e inaccettabile per il mondo comune. Enrico lascia per un po' il suo ruolo e il linguaggio folle, cioè le battute prefissate della storia, per compiere l'omicidio che è l'unica via d'uscita dalla crisi, una crisi tra due tipi di dramma, una crisi nella stessa struttura teatrale. La commedia sentimentale rischia di distruggere il dramma astratto. Perciò Enrico deve uccidere Belcredi e con lui tutto ciò che rappresenta, per liberarsi definitivamente di quel tipo di dramma. Non era rappresentabile la tragedia classica, storica. E bisognava anche rompere con quella psicologica-sentimentale che non si poteva veramente mettere in scena, se non per frammenti intercalati nel gioco dei vari livelli stilistici. Perciò Pirandello le sostituisce con un dramma astratto e metateatrale, in cui sono evidenti la scomposizione e la distruzione degli elementi drammatici, ed in cui le vicende di Enrico assumono senso soprattutto al di là del livello psicologico.

Conclusione

Nella prima parte dell'articolo ho cercato di dimostrare che - anche se l'Enrico IV è chiamata una tragedia - vi ha luogo invece una scomposizione degli elementi drammatici che la rende una «tragedia astratta» e metateatrale. La finzione di essere pazzo e di credersi Enrico IV è l'unica realtà del protagonista, ma non è univocamente il polo negativo o tragico di una vita autentica e normale. Egli difende l'immobilità e la certezza della storia, che risulta una liberazione dalle angosce dell'esistenza moderna in cui non si da un senso delle cose. L'omicidio finale non è perciò, secondo me, guidato dalla follia o dall'irrazionalità degli istinti, come sostiene Lone Klem, ma è il suo tentativo di difendere la finzione, la «follia» che è la sua ragione, un mezzo per completare il suo distacco critico e cognitivo dalla «normalità». La seconda metà dell'intervento consiste soprattutto in una discussione della interpretazione psicanalitica di E. Gioanola. Secondo me ci sono alcuni elementi importanti che vengono ignorati nella sua analisi della follia. Soprattutto il fatto che la logica rifiutata da Pirandello (perché essa tende a fissare la mutabilità e la relatività della vita) non è la logica dei matti. La logica dei matti è invece volubile e anticonformista, ed è spesso portavoce delle teorie di Pirandello, come è il caso in Enrico IV.

Pia Schwarz Lausten

"L'IMBECILLE"

COMMEDIA IN UN ATTO

Commedia in un atto, della quale s'ignora la data di composizione.

Il dramma è ispirato alla omonima novella del 1921. La commedia fu rappresentata per la prima volta al Teatro Quirino di Roma il 10 ottobre 1922.

Ne L’imbecille vi è tutta l’Italietta provinciale già intrisa di quel fervore partitocratico così vibrato e ottuso da produrre, di lì a poco, l’oscura semenza del fascismo. L’imbecille è uno straordinario spaccato dell’Italia che si avvia in marcia verso una Roma sempre più nera ed è anche un quadro convulso e paradossale dell’animosa faziosità politica che ci fa scoprire la viltà dell’inganno, il rovesciamento del senso della realtà. È una satira politica condotta con piglio grottesco e triste ironia, e che non nasconde una sottile protesta morale contro certi costumi politici mai veramente dimessi. Sia nella novella, da cui pure intendiamo partire, sia nel testo teatrale, Pirandello indugia con abile arguzia sulla vacuità dei giudizi umani quando sono dettati da una cieca e ottusa ambizione, in netto contrasto con la diversa posizione di chi, ormai prossimo alla morte, vede le cose con superiore distacco.

Con L’imbecille Pirandello affronta i conflitti tra verità assoluta e illusione, tra coraggio e rifiuto di ciò che esiste sotto i nostri occhi, e getta il seme corrosivo e polemico che avrà una preziosa fioritura nel teatro contemporaneo. La vicenda si svolge nella redazione del giornale di provincia, la "Vedetta Repubblicana", un piccolo quotidiano politico la cui redazione è nella stessa casa del suo direttore Leopoldo Paroni, in un piccolo paese, Costanova, attraversato da un’accesa lotta politica tra due fazioni contrapposte.

Le ore che precedono l'uscita nelle edicole sono frenetiche: i redattori portano concitate informazioni di uno scontro di piazza tra i sostenitori di opposti partiti politici. Il direttore discute animatamente della situazione di tensione del paese, quando all'improvviso sopraggiunge la notizia che il comune amico Lulù Pulino, già collaboratore della redazione e gravemente ammalato, colto da depressione e disperazione, ha deciso di togliersi la vita impiccandosi.

Il direttore del giornale commenta cinicamente l’evento, accusando la vittima di essersi comportato da "imbecille" morendo inutilmente, senza neanche approfittare della sua scelta estrema per eliminare il leader politico dell’opposta fazione:

« Doveva far di meglio! Stavamo a dir questo tra noi. Dato che si doveva uccidere per fare un bene a sè, poteva far prima un bene anche agli altri, al suo paese, andando a uccidere a Roma il nemico di tutti, Guido Mazzarini! Non gli sarebbe costato nulla, neanche il viaggio; glielo avrei pagato io, parola d'onore! Così è morto proprio da imbecille! »

Ma questo impietoso giudizio gli costerà caro poiché talvolta il carnefice e la vittima si confondono: il "furbo" può in un attimo apparire "imbecille", e "l’imbecille" "furbo", attuando così un virtuale ed inatteso "scambio della maschera". Nella vita noi non siamo mai al sicuro e non possiamo conoscere la verità... neanche su noi stessi.

Lo scontro politico è degenerato al punto che l'avversario politico si è mutato in nemico da eliminare uccidendolo. Un redattore, Luca Fazio, chiede al direttore di potergli parlare in privato. Paroni spera che Luca faccia quello che quell'imbecille di Pulino non ha fatto; ma si sbaglia: anche Fazio è molto malato e, per non essere considerato stupido come il suo collega suicida, dice di aver accettato l'incarico da Mazzarini di uccidere il direttore. Paroni non gradisce questa inversione di ruoli che lo mette nella condizione di vittima politica e, da vile qual è, si raccomanda, piange e implora pietà da Luca che trova uno stratagemma:

« LUCA: Nè credo d'essere un imbecille se non ti ammazzo. Ho pietà di te, della tua buffoneria. Ti vedo ormai, se sapessi, da così lontano! E mi sembri piccolo e carino, anche, sì, povero omettino rosso, con quella cravatta lì... - Ah, ma sai? la tua buffoneria però la voglio patentare. »

Costringerà il direttore a mettere per iscritto le sue cialtronesche considerazioni sul povero Pulino e si ucciderà facendosele trovare indosso in modo che diventi di pubblico dominio la crudele imbecillità di Paroni.

"L’imbecille" e' uno straordinario spaccato dell’Italia, o, meglio, de "l’Italietta" provinciale intrisa di quel fervore partitocratico così vibrato e ottuso, che si avvia in marcia verso un difficile futuro, in un quadro convulso e paradossale che ci fa scoprire la viltà dell'inganno ed il rovesciamento del senso della realtà.

Pirandello indugia con abile arguzia sulla vacuità dei giudizi umani, quando sono dettati da una cieca e ottusa ambizione, in netto contrasto con la diversa posizione di chi, ormai prossimo alla morte, vede le cose con superiore distacco.

Con "L’imbecille" Pirandello affronta i conflitti tra verità assoluta e illusione, tra coraggio e rifiuto di ciò che esiste sotto i nostri occhi, e getta il seme corrosivo e polemico che avrà una preziosa fioritura nel teatro contemporaneo.

"VESTIRE GLI IGNUDI"

COMMEDIA IN TRE ATTI

Commedia in tre atti scritta tra l'aprile e il maggio del 1922. Fu rappresentata per la prima volta al Teatro Quirino di Roma il 14 novembre 1922 ad opera della Compagnia Maria Melato e Annibale Betrone.

da Press Release

Scritta nel 1922 ispirandosi sia a un fatto di cronaca sia a un racconto di Luigi Capuana, Vestire gli ignudi e' una commedia con 6 personaggi: il romanziere Ludovico Nota, la signora Onoria, affittacamere, il giornalista Alfredo Cantavalle, il tenente di vascello Franco Laspiga, il console Grotti ed Ersilia Drei.

La commedia ha un antefatto che si ricostruisce ed emerge a poco a poco attraverso il dialogo rotto e concitato. Ersilia Drei era istitutrice in casa del console italiano a Smirne e di sua moglie. Conosce, tramite la famiglia, il tenente di marina Laspiga. Passano una notte d'amore e il tenente riparte giurandole eterna fede. Ella resta ad attenderlo a Smirne. Un giorno, la bambina a lei affidata precipita dalla terrazza e muore. Ersilia, scacciata, giunge a Roma dove apprende che il tenente sta per sposare un'altra. E' senza soldi, si avvelena. Viene trasportata in ospedale e si salva. Intervistata da un giornalista, racconta la sua versione dei fatti.

L'articolo viene pubblicato su tutti i giornali della città destando grande attenzione e commozione. Ersilia diventa improvvisamente un personaggio da rotocalco. E' a questo punto che Pirandello fa partire la sua commedia, da quando cioe' lo scrittore Ludovico Nota offre ospitalità a Ersilia, appena dimessa dall'ospedale, con l'intenzione di scrivere un romanzo sulla sua storia. Ersilia, travolta, denudata, accetta l' invito, forse per ricominciare una nuova vita. Essere qualcosa. Gli altri personaggi, con la loro verità piena e radicale, irrompono nella stanza, chi per giustificarsi, chi per riparare, chi per possedere, chi per tutti comunque per cercare di far pubblicamente 'bella figura', per 'vestirsi' di un abitino rispettabile. Le carte si confondono. Chi continua a mentire? Forse Ersilia? Perche'? Per il piacere d'ingannare? Per vendicarsi? Per costruirsi la sua storia come se l'era immaginata? Avvinghiati al proprio brandello di esistenza, questo rispettabile coro di assedianti, a turno, cerca di penetrare la strategia difensiva della vittima, sfoggiando un'ampia gamma di accerchiamenti e seduzioni. Gli scontri svelano un'animalità mai confessata diffondendo nell'aria il senso torbido della carne. Alla fine l'ondata dell'assedio non puo' che rifluire perche' si tratta di "una sventura che deve restare nascosta". L'intera vicenda si consuma interamente in una squallida stanza d'affitto. E' un interno anomalo, "aperto", irrequieto, che si mette continuamente in comunicazione con l'esterno: la strada e la sua fragorosa vitalità. A tratti, la vicenda viene interrotta e 'scomposta' bruscamente da un'invasione di rumori, oggetti, presenze, musiche: i segnali della vita che continua. La strada. Ecco la grande antagonista. I personaggi lottano cosi' anche per ritagliarsi uno spazio minimo entro cui poter agire, senza essere schiacciati dalla pressione dell'esterno. In questa commedia troviamo il grande dilemma fra la Vita e la Forma: la vita si ribella al tentativo di forzarla in una forma prestabilita. "Nessuno e' cio' che appare e nessuno e' in grado di apparire come vorrebbe", la maschera cade dal volto che ne e' coperto. Mescolando tragico e comico, Pirandello scandaglia qui fino all'estremo gli abissi dell'anima, affondando le mani nelle nostre pulsioni primigenie, in fondo piu' bestiali, vertigine e abisso in cui non ci possiamo arrestare.

Annig Raimondi

VESTIRE GLI IGNUDI - Introduzione 2

da ChiAmaRoma.it

E’ in una Roma post bellica e pre fascista, che si consuma il dramma di Ersilia Drei una donna che vanamente tenta di riscattare, anche attraverso la menzogna, i fallimenti della sua vita. Un dramma al femminile che, nella lettura del regista, rivela la sua modernità non tanto nel rapporto di questa donna col mondo maschile, quanto nel confronto tra individui in una società che impone regole e meccanismi ai quali, in definitiva, è impossibile sfuggire.

Una sperduta bestiolina che si trovi in mezzo ad una frotta di cani randagi, che, più è mansa e più le saltano addosso, l’addentano così Onoria, uno dei personaggi del dramma, descrive Ersilia, donna in balia dell’aggressività e dell’interesse altrui, ma anche di se stessa e della sue pulsioni, che la portano oltre le barriere del comune ben pensare.

E nel tentativo di salvare questa vita, sceglie la via della menzogna e alla fine della morte, che sola può riportare la verità e riscattarla davvero. E nel finale, è la viva morte di Ersilia a vincere, sulla morta vita degli altri personaggi.

La scena di impatto metafisico, una serie di strutture verticali variamente dislocate, rappresenta il labirinto della memoria all’interno del quale galleggiano pochi elementi naturali: una macchina da scrivere, una poltrona, dei vecchi giornali, sottolineando da una parte l’universalità del dramma di Ersilia, che si perde cercando la sua strada nel labirinto della vita, dall’altra rimandando al contesto storico in cui questo dramma pirandelliano si svolge.

Una giovane donna, Ersilia, alle dipendenze del Console di Smirne come governante di sua figlia, incontra un giovane marinaio il quale, dopo una notte d’amore e pur alimentando speranze per un futuro insieme, l’abbandona per poi fidanzarsi con un’altra donna.

Ma è prima che lei possa scoprirlo che il Console, a sua volta approfitta di lei e delle sue naturali pulsioni, di nascosto dalla moglie. Sarà un drammatico incidente, la morte della bambina, a svelare la tresca tra i due. Costretta a partire, Ersilia giunge a Roma, dove conosce un anziano scrittore che con la scusa di scrivere la sua storia e il suo dramma, decide, di farle da compagno per sfuggire alla solitudine. Una promessa d’amore non mantenuta, una violenza ancillare, il tentativo prostituirsi, anche questo paradossalmente fallito, un’ultima menzogna raccontata per ritrovare una dignità sociale, porteranno la donna a trovare nel suicidio, l’unica via per svelare finalmente la verità: quella di una vita vissuta al di fuori dei meccanismi di una società chiusa che non ammette diversità e debolezze. Una morte che si consuma davanti a tutti i personaggi del dramma ai quali alla fine Ersilia si rivolgerà svelando finalmente la sua verità:

Volli farmela per la morte, almeno, una vestitina decente. Perché mentii? Per questo lo giuro! Non avevo potuto averne una per la vita che non mi fosse strappata dai tanti cani che mi sono saltati addosso, che non mi fosse imbrattata da tutte le miserie più basse e vili (..) Ebbene no non ho potuto avere neanche questa. No! Morire nuda! Scoperta, avvilita e spregiata. E ora andate, andate. Lasciatemi morire in silenzio: nuda.

VESTIRE GLI IGNUDI - Introduzione 3

da Controluce.it

Vestire gli ignudi è l’opera pirandelliana dove spicca il dramma della pietà umana. In altri drammi di questo autore viene alla luce la solitudine che avvolge ed esaspera l’uomo e lo lascia nudo e indifeso. E’ necessario vestirci di qualcosa, del velo dell’illusione, come ha tentato di fare la giovane Ersilia, per coprire la delusione della vita. Lo scrittore Ludovico Nota con la sua umanità, la comprensione fraterna offre alla giovane un rifugio sicuro e sereno. Il giornalista Cantavalle, che impersonifica la spietata curiosità umana, mette invece a nudo i segreti dell’animo della giovane Ersilia, distruggendone le dolci illusioni che si era create per sostenere la vita.

La fede cristiana di Pirandello, fa sì che l’autore nelle sue opere metta in risalto la carità e l’amore che gli uomini dovrebbero avere verso gli infelici. Infatti la giovane Ersilia può essere paragonata all’adultera che tutti volevano lapidare, come racconta il Vangelo, come nell’opera pirandelliana è vittima degli egoismi altrui. E’ proprio in un mondo così concepito che la comprensione umana e la carità fraterna di pochi, appaiono improduttivi e vengono sommersi dalla marea dell’egoismo e dell’incomprensione altrui. L’atteggiamento di Pirandello verso il personaggio di Ersilia è benevolo, egli concede infatti alla finzione lo stesso valore della realtà. Tuttavia la debole e fragile mente di Ersilia è sottoposta a forti contrasti tra la realtà e i suoi piani inerenti alla vita; per questo l’autore è costretto a condannarla. Quest’opera è un insieme di sequenze sceniche che si fermano sui particolari e sul simbolismo; ma nel suo insieme è ricca di motivi che la rendono uno dei capolavori pirandelliani che lascia maggiormente turbati e che costringe il lettore ad un’accorta analisi e ad una conseguente riflessione.

Proprio questo è lo scopo principale delle opere di Pirandello, cioè la riflessione che porta verso le conclusioni a conferma della sanità istruttiva e morale del teatro. In questa commedia tutti i personaggi hanno la loro importanza nello svolgimento dell’opera, ciascuno ha la sua parte più o meno importante, ma tutte sono necessarie a far capire la drammaticità della commedia. I personaggi di Ersilia e del giornalista Alfredo Cantavalle sono nettamente in contrasto tra loro. Il primo rappresenta la fragilità innocente di una ragazza che si innamora e eccede alle richieste dell’amato, il quale l’abbandona. La disperazione e l’ingenuità della sua anima, presa da sconforto, la portano a trasformarsi in amante del suo padrone, ma quando viene cacciata di casa comprende l’errore da lei commesso, ne sente tutta la vergogna e ne ha paura; paura che la gente scopra il suo segreto, additandola e accusandola. Decide così di porre fine ai suoi giorni, ma viene salvata. La sua storia commuove tanta gente, tra questi lo scrittore Nota che l’accoglie in casa. E’ qui che entra in scena il secondo personaggio, il giornalista Cantavalle, al quale l’autore fa impersonificare la spietata curiosità degli uomini. Infatti egli vuole scoprire a tutti i costi i segreti della giovane anima, distruggendone le dolci illusioni che le sostengono la vita. Ecco la differenza contrastante dei due personaggi: il primo preferisce morire piuttosto che mettere a nudo i segreti della propria anima, provando vergogna per quanto a commesso; l’altro, con la sua spietata curiosità, cerca solo di riempire pagine di giornale senza curarsi delle conseguenze che ne possano derivare.

Questa commedia scritta nel 1922, sembra nata da un fatto di cronaca dei giorni nostri: la stampa spesso, pur di pubblicare una notizia, non valuta se questa possa ledere la dignità dell’uomo. Proprio per questo Pirandello nelle sue opere lascia molto spazio all’atteggiamento caritatevole e alla riflessione, affinché l’uomo comprenda di non dover alzare troppo facilmente la mano per scagliare la prima pietra, ma la tenda invece in soccorso di chi ne ha bisogno.

Questa commedia di Pirandello ben congeniata, con un dialogo sciolto e pieno di toni drammatici, è la storia di Ersilia Drei, giovane governante del console italiano a Smirne, la quale si innamora di un ufficiale di marina Franco Laspiga. Come spesso accade, Ersilia crede ciecamente in lui e si lascia sedurre, ma il giovane ufficiale riparte senza dare più notizie di sé, lasciandola nella disperazione. Il console Grotti approfitta delle condizioni fragili della ragazza: la solitudine e l’angoscia che la opprimono; la frenesia e i sensi accesi della relazione con l’ufficiale, per far sì che ella ceda alle sue richieste, vincendo la sua riluttanza e diventandone l’amante. Un giorno nefasto però avvenne un fatto grave che sconvolse la vita della giovane governante.

Mentre era intenta a giocare con la figlia del console sul terrazzo di casa, questi preso da improvvisa passione la costringe a seguirlo, lasciando la bimba incustodita, che stava arrampicata su una seggiola. La piccina di soli cinque anni sporgendosi precipitò giù sfracellandosi al suolo. La madre, accorsa alle urla, vide la bimba morta e scoprì nello stesso momento anche la vergognosa tresca del marito con la governante. Ersilia fu cacciata di casa e dovette abbandonare Smirne.

Non sapendo dove andare giunse a Roma, prese alloggio in uno squallido albergo e presa dalla disperazione si offrì al primo umo che aveva incontrato per strada, poi in preda allo sgomento per la sua vita inutile e macchiata dal peccato, tentò il suicidio, ma venne soccorsa in tempo.

Come accade nelle grandi città i giornali s’impossessarono della notizia nel modo più curioso e pettegolo. Pubblicarono la storia del tentato suicidio per una delusione amorosa, come la giovane dichiarò. Ella volle coprire con una pietosa bugia la nudità squallida e colpevole della sua vita, amante sedotta da due uomini ha voluto per un attimo indossare quell’abito di fidanzatina che aveva sempre sognato. L’opinione pubblica credette a questa storia, ci credette anche lo scrittore Ludovico Nota che provò pietà accogliendola in casa, le offrì quel calore umano che lei non conosceva. In questo modo egli pensò di coprire quel nudo fattaccio di cronaca dando alla giovane una vita serena. Ma la cronaca giornalistica non glielo consentì raccontando il tentativo di suicidio, facendo i nomi dell’ufficiale Laspiga e del console Grotti, i quali chiaramente si precipitarono in casa del romanziere Nota per incontrare Ersilia. Nel primo credette effettivamente alla versione che diedero i giornali del tentativo di suicidio per delusione d’amore, e commosso dal gesto di lei si offrì di riparare abbandonando la sua nuova fidanzata; il console invece, preso dall’ardente passione per lei, cercò di convincerla a tornare a vivere con lui. Purtroppo l’arrivo di queste due persone, che a proprio modo voleva aiutare la povera Ersilia, fece scoprire i retroscena del fattaccio e quel velo romantico, quell’abito da fidanzatina della quale la giovane si era voluta vestire, vengono svelati. Alla giovane non rimane che morire davvero e questa volta nuda, senza quella veste di purezza che si era voluta tessere per la morte e non per la vita, per lasciare un puro ricordo di lei e non per vivere tra la gente con quell’orribile colpa nel cuore.

"L'UOMO DAL FIORE IN BOCCA"

COMMEDIA IN UN ATTO

Atto unico, perfetto esempio di un dramma borghese nel quale convergono i temi dell'incomunicabilità e della relatività della realtà.

Non se ne conosce la data di composizione, fu rappresentato per la prima volta il 21 febbraio del 1923 al Teatro degli Indipendenti di Roma dalla Compagnia degli «Indipendenti» diretta da Anton Giulio Bragaglia.

Siamo all’inizio del ventennio fascista, metafora della morte della liberta’ e del patto sociale che supporta la democrazia.

Sara’ infatti la voce di Mussolini ad aprire lo spettacolo, voce che si scioglie in un suono suadente di mandolino. È un colloquio fra un uomo che si sa condannato a morire fra breve, e per questo medita sulla vita con urgenza appassionata, e uno come tanti, che vive un'esistenza convenzionale, senza porsi il problema della morte.

L’opera, breve ma intensa e significativa, ripropone al lettore il luogo comune secondo cui alcuni beni si apprezzano solo nel momento del bisogno e nel momento in cui rischiano irrimediabilmente d’esser persi. E’ questo in breve il tema di fondo dell’opera: un uomo, dall’identità sconosciuta e irrilevante, scopre inaspettatamente d’esser vittima di un epitelioma, un male che lo condanna a morte. Egli lo descrive con minuzia; il suo nome è più dolce di una caramella, e ben si adatterebbe ad un fiore; si tratta però di un fiore maligno che gli è spuntato su un labbro e che lo costringe a pochi mesi di vita. Ma l'uomo non è disperato, non si lascia morire prima del tempo, non vive con angoscia i suoi ultimi giorni e vive la vita guardando la realtà con un’altra mentalità.

Da questo momento il suo comportamento subisce un cambiamento repentino e deciso: il suo modo di vedere il mondo, d’osservare la propria vita e quella degli altri cambia radicalmente; ogni accadimento banale e ripetitivo del quotidiano diventa improvvisamente di spaventosa e vitale importanza. Si rende conto che questi momenti saranno gli ultimi che potrà vivere e godere, ed è questa consapevolezza che lo porta ad attaccarsi incondizionatamente ad essi ed a giudicarli preziosi quanto importanti.

La scena si svolge in un caffè notturno di un piccolo paesino sconosciuto, dove l’uomo dal fiore in bocca e l’avventore, i due comprimari protagonisti, sono seduti ad un tavolino. L’avventore, un uomo comune, che la monotonia e la banalità della vita quotidiana hanno reso piatto e vuoto, dichiara “di aver perso per un minuto il treno” e adesso si ritrova nell’oscurità del paesino in attesa che faccia giorno per ripartire col treno successivo. E’ in questa realistica circostanza che incontra l’uomo dal fiore in bocca, col quale resta a dialogare tutta la notte. Nel dialogo-monologo che si dipana, una voce conduce il gioco e con la forza della disperazione, ma anche con inaspettata delicatezza, ridisegna la mappa della vita, attraversa le banalità quotidiane per ritrovarne i dettagli insieme più futili e lancinanti nella loro bellezza essenziale.

L’uomo “dal fiore in bocca” – terribilmente condannato da una malattia il cui nome pare uno scherzo amaro – osserva ogni cosa con sguardo ossessivo, attento al minimo particolare, vorace, ma anche ironico.

È lo sguardo di chi sa di avere poco tempo ancora per vivere, ma tempo sufficiente per riscoprire l’essenziale. Uno sguardo allucinato e chiaroveggente che ormai distingue in modo implacabile ciò che spesso noi tutti, nell’abitudine monotona e irresponsabile che la quotidianità induce, abbiamo sotto gli occhi senza neppure accorgercene: la Vita.

Il testo, viene qui trasformato in un monologo allucinato e toccante, durante il quale l’attore e il personaggio attraversano con tesa inquietudine e divorante malinconia il paesaggio dell’esistenza: alla distrazione dei molti che non si accorgono di vivere si contrappongono la lucida acutezza e lo sguardo passionalmente attento ai dettagli di chi ha i giorni contati. L’estenuante bellezza della vita, in ogni suo prezioso istante, diventa l’ossessivo tormento di un uomo che intraprende il suo ultimo amaro viaggio. Dai guai familiari esposti dall’avventore, l'Uomo dal fiore in bocca prende subito spunto per iniziare una serie di riflessioni sull'esistenza, sull’importanza della quotidianità e dei dettagli delle cose.

Ciò che all'inizio potrebbe sembrare nient'altro che una fissazione maniacale per i particolari, che lo porta a fare una minuziosa descrizione del modo di incartare gli oggetti da parte dei ragazzi dei negozi e della disposizione dei mobili delle sale d’aspetto dei dottori, si rivela in itinere qualcosa di molto più profondo e tragico: l'unico punto di contatto con la vita rimasto all’uomo prima di morire Le immagini normali, le vetrine dei negozi, la gente per strada, diventano il simbolo stesso della vita che scorre; essa scorre per tutti, anche e soprattutto per coloro che, colpevolmente, non si fermano ad assaporarne ogni dettaglio, anche quello apparentemente più insignificante.

Solo quando è troppo tardi si rendono conto della vera essenza della vita e della sua fugace bellezza, e solo allora quell’ingordigia della vita che avrebbero dovuto sempre possedere, gli si manifesta in tutta la sua prepotenza.

Egli da una parte detesta la moglie perché questa vorrebbe tenerlo in casa con sé, accudendolo fino alla morte, non facendogli mancare nulla e negandogli, inevitabilmente, quel gusto della vita che egli ora va cercando in tutte le piccole cose di ogni giorno. Dall’altro lato però il suo profondo legame con questa è espressamente reso noto dalla continua ricerca della sua ombra, della sua presenza. Su questo scenario di pietà e dolore si conclude lentamente la vicenda, rappresentata idealmente dalle ultime parole dell'Uomo, chiaro segno di un'estrema volontà di attaccamento alla vita e di speranza, tramite il proprio permanere nella memoria altrui. La gran voglia dell’uomo di conoscere la vita al punto di immaginarla trova riscontro nelle battute conclusive del protagonista che rivolgendosi all’avventore, afferma: " E mi faccia un piacere, domattina, quando arriverà. Mi figuro che il paesello disterà un poco dalla stazione. All'alba, lei può fare la strada a piedi. Il primo cespuglietto d'erba su la proda. Ne conti i fili per me. Quanti fili saranno, tanti giorni ancora io vivrò. Ma lo scelga bello grosso, mi raccomando. Buona notte, caro signore.” Un bar aperto tutta la notte, vicino alla stazione dei treni: uno spazio liminare, un tempo in bilico sul confine dell’alba. Questo è lo scenario. Quasi un non-tempo e un non-luogo in cui s’incontrano tre personaggi ombra l’uno dell’altro: un ‘pacifico avventore’, l’uomo ‘dal fiore in bocca’ e la misteriosa moglie di quest’ultimo. Il protagonista si trova proprio in questa situazione, solo di fronte alla morte; sola è anche sua moglie, il cui capo appare solamente due volte di sfuggita da dietro un cantone nel corso della commedia. Nel protagonista è viva una fortissima contraddizione: da un lato egli prova una profonda pietà per quella donna, che non ha altra colpa che quella di volergli stare accanto fino alla fine dei suoi giorni; dall'altro però, non può tollerare, per via della sua nuova visione del mondo, quella che lui stesso definisce la “macabra ferocia del suo comportamento”.

"LA VITA CHE TI DIEDI"

TRAGEDIA IN TRE ATTI

Tragedia in tre atti, concepita per Eleonora Duse, ispirata dalle novelle La camera in attesa: (1916) e I pensionati della memoria: (1914). Rappresentata per la prima volta al Teatro Quirino di Roma nel 1923 fu successivamente pubblicata nel 1924 dall'editore Bemporad.

Nell'immediato secondo dopoguerra, la commedia fu portata in tournée in Sudamerica dalla Compagnia di Emma Gramatica e Luigi Pavese,: che la rappresentò al Teatro Municipal di Santiago del Cile: con nel cast l'attrice italo-cilena Jole Fano. Tema centrale della commedia è l'amore materno capace anche di nutrirsi semplicemente del ricordo, facendo a meno della presenza fisica, di un figlio che è rimasto lontano dalla madre per sette anni. Su questo amore senza condizioni si intesse il dialogo con gli altri personaggi che esprimono il loro giudizio su i sentimenti materni con un commento, come accade all'inizio del dramma, che richiama la funzione del coro della tragedia greca. Scritta da Pirandello per Eleonora Duse, "La vita che ti diedi: " appare alla lettura di oggi estremamente attuale, perché approfondisce con grande acutezza la complessità dei rapporti madre-figlio all'interno di una famiglia borghese, dove l'arrivo di una giovane donna scatenerà le ambiguità nascoste della madre che arriverà a gesti di violenza e perfino di ricatto pur di non perdere l'amore del figlio. Con questa pièce Pirandello, svelandoci i lati più misteriosi della figura materna, ci trascina in una storia insieme emozionante e ironica estremamente attuale, approfondendo non solo la tragedia di una madre, ma la tragedia della “personalità materna: ”, generica, assoluta, senza faccia: cerca il sublime della maternità. Tutto ruota intorno al ritratto della protagonista, la madre, Donn’Anna Luna, che ha vissuto sette anni col figlio lontano, immaginandolo e sognandolo come lo aveva conosciuto quando era con lei. Quando lui ritorna si trova di fronte un’altra persona, un estraneo, diverso da come aveva continuato a pensarlo in quel lungo periodo della sua assenza. Subito dopo egli muore e la madre rifiuta di accettare l’accaduto, ha la sensazione che il morto sia un altro, che suo figlio “tornerà: ”. Questa sua illusione viene alimentata dall’arrivo della giovane Lucia Maubel, amante del figlio scomparso, che giunge alla sua ricerca poiché attende un bambino da lui, e alla quale Donn’Anna ne nasconde la morte, sostenendo che è partito e deve tornare. L’incontro tra le due donne rivela la lucida follia della madre che arriverà perfino al ricatto pur di non perdere l’amore del figlio. Solo quando Lucia, appresa la morte dell’amato, scoppia a piangere e ricorda che quando era partito era sciupato e malato, Donn’Anna raggiunge la consapevolezza che il figlio non c’è più.

La vita che ti diedi

Note di Regia. Luigi Squarzina - 2004

Senza voler mettere in discussione l'acceso disperato protagonismo della figura di Donn'Anna, sarebbe riduttivo sacrificare ad essa la singolare intrigante complessità de "La vita che ti diedi: ", un'opera che Pirandello concepisce e scrive nel pienissimo delle sue forze creative. Segnaliamo come chiave di lettura la sequenza centrale del secondo atto, prima dell'arrivo di Lucia, l'amante del figlio di Donn'Anna morto ormai da dieci giorni e di cui la madre si rifiuta di accettare la morte avvenuta sotto i suoi occhi: il morto è "un altro: ", il figlio "tornerà: ". E' una sequenza originale e inquietante.

Queste tre scene nelle quali Donn'Anna è fisicamente assente - tranne, nella prima, una sua breve presenza semisilenziosa e "un po' in disparte, nell'ombra: " - confermano l'ispirazione lirica e concettuale al tempo stesso che sorreggeva l'autore in ogni momento. Dapprima Donna Fiorina, la sorella di Donn'Anna, riscontra con tremore ("sbigottimento: ", "come un incubo: ") su di sé e sui suoi figli, che rivede a distanza di un anno, la capacità della vita di farci "altri: " da quelli che ci consideriamo stabilmente, e crediamo che il nostro prossimo sia capacità che non aveva ammesso e di cui non aveva inteso il tragico senso quando Donn'Anna gliene parlava nel dialogo/monologo del primo atto.

Poi, nella scena "vuota e buia con quel solo riverbero spettrale: " proveniente dalla stanza del figlio, "senza il minimo rumore, la sedia accostata davanti alla tavola da scrivere si muoverà come se una mano invisibile la girasse: " e "la lieve cortina davanti alla finestra si solleverà... come scostata dalla stessa mano, e ricadrà: ".

E' rarissima, forse unica nel corpus teatrale pirandelliano, una simile oggettivazione dell'invisibile, verrebbe fatto di accreditarla al paranormale se non riflettessimo che l'autore vuole dirci (e dunque, a teatro, mostrarci in azione) quello che proprio ci dice nella didascalia: "(Chi sa che cose avvengono, non viste da nessuno, nell'ombra delle stanze deserte dove qualcuno è morto.) ", e ce lo dice nell'ironia di una parentesi...

Il terzo segmento della sequenza è il dialogo sulla luna, da non pochi definito leopardiano, fra la vecchia servente Elisabetta e il vecchio giardiniere che è all'esterno e di cui sentiamo solo la voce. Il giardiniere ripete ingenuamente e saggiamente certe parole del figlio tonato a casa, come sapremo al finale, "a morir: e"; "...notte è qua per noi, ma la luna non la vede, perduta lassù nella sua luce... ". Nell'insieme sono dieci minuti, non di più, di pura estasi teatrale, per preparare l'apparizione più attesa: l'amante, il cui destino è in gioco, colei "che non sa: ", che "è voluta venire: ", e noi non sappiamo perché.

"La vita che ti diedi: " nasce nel 1922-23, viene rappresentata nel '23 , pubblicata nel '24 e deriva liberamente da una novella del 1916, "La camera in attesa", dove una madre ha un figlio andato in guerra, la guerra di Libia, e lì scomparso. Disperso, morto? La madre e le tre sorelle hanno fiducia e continuano a tenere pronta la stanza del figlio, curandola ogni giorno in ogni dettaglio come se da un momento all'altro dovesse ritornare, finché è la fidanzata a perdere ogni speranza e a mettersi con un altro, cagionando la fine dell'illusione.

Questo non ricorda, anche nel titolo, un film del 2001 che ci ha commosso?

"L'ALTRO FIGLIO"

COMMEDIA IN UN ATTO

Commedia tratta dall'omonima novella del 1902. Non si conosce la data della composizione del dramma che fu rappresentato al Teatro Nazionale di Roma il 23 novembre del 1923 ad opera della Compagnia Raffaello e Garibalda Niccòli.

Ancora una volta Pirandello tratta un tema a lui molto caro: quello della maternità. Il sottofondo storico della commedia è rappresentato dal fenomeno della grande emigrazione meridionale e siciliana nei primi anni del 1900.

"L'altro figlio" racconta la tragedia di una poverissima madre che si aggrappa al ricordo, idealizzato ma sempre presente, dei suoi figli partiti in cerca di fortuna e ormai dimentichi delle loro origini. Essa ha un "altro" figlio, presente e amorevole, concepito in circostanze tragiche che essa non riconosce come suo, e preferisce morir di fame e stenti che anche solo vederlo in lontananza.

Il personaggio di questa madre fugge dalla realtà tragica e potenzialmente vantaggiosa per lei in un mondo di ricordi e di idealizzazioni, procedendo sul filo della follia senza mai caderne.

Maragrazia, umile donna del popolo di un paese siciliano, vedova e ridotta a mendicare , soffre perché non riceve notizie dei due figli emigrati in America e ormai dimentichi, per la ricchezza raggiunta, della loro stessa madre. Scrive loro tramite un'amica, che in seguito l'abbandonerà, di essere disposta, per invogliarli a tornare, a donar loro lo stesso casale di poco valore dove lei abita; ma i figli neppure rispondono.

Con lei vive un altro figlio, sinceramente affezionato, buono, con una bella famiglia e una bella casa. Egli vorrebbe prendersi cura di lei, ma la donna non lo considera veramente suo. Infatti questi è il frutto di uno stupro che la donna ha dovuto subire da parte di un brigante,lo stesso che uccise suo marito. Maragrazia si rende conto che proprio questo figlio non voluto meriterebbe quell'affetto che lei riserva invece ai figli lontani diventati dei criminali e ingrati con la povera madre ma sente di non poter cambiare il suo affetto perché «é il sangue che si ribella», tanto è forte il legame naturale e materiale che sovrasta ogni sentimento e il disgusto per l'uomo che uccise il marito e la mise incinta.

"CIASCUNO A SUO MODO"

COMMEDIA IN DUE O TRE ATTI CON INTERMEZZI CORALI

Commedia scritta nel 1923, rappresentata la prima volta il 22 maggio 1924 al Teatro dei Filodrammatici di Milano, dalla Compagnia Niccodemi.

da Wikipedia:

L'opera fa parte della cosiddetta trilogia del teatro nel teatro, preceduta da Sei personaggi in cerca d'autore e seguita da Questa sera si recita a soggetto.

La rappresentazione della commedia, così come indicata dall'autore, si svolge in due spazi scenici differenti: il palcoscenico da un lato, e i luoghi generalmente utilizzati dal pubblico, come l'ingresso, il foyer e la sala, dall'altro.

Secondo il critico teatrale Eligio Possenti (1886-1966), la commedia mette in risalto la contraddizione interna di ogni essere umano tra le proprie azioni e le motivazioni «dell'altro che è dentro di noi e viene chissà di dove e determina 'non si sa come' i nostri atti».

Il motto Ognuno a suo modo riportato sul campanile della chiesa di Coazze si pensa che abbia ispirato l'opera. Lo sdoppiamento tra i personaggi e i loro atti è ottenuto tramite la contemporanea presenza, in sala e sul palcoscenico, dei protagonisti di un caso di cronaca. Ad ogni calare di sipario i protagonisti 'reali' delle vicenda (che viene rappresentata, da altri attori, sul palcoscenico) si accalorano, inveendo contro l'autore e la commedia. Il gioco teatrale si svela nel finale, quando, inaspettatamente, i personaggi della 'realtà' e quelli della 'finzione' si riuniscono per l'uscita finale. Questa commedia, la meno fortunata della trilogia metateatrale, è una riflessione molto in anticipo sui tempi sul rapporto tra arte e realtà. Questo tema verrà approfondito da altri nei decenni successivi, reso attuale dallo sviluppo dei mezzi di comunicazione di massa.

Nel meccanismo creato da Pirandello la rappresentazione viene influenzata da presunti fatti reali, ma succede anche l'opposto: la realtà viene modificata dalla finzione scenica, tanto da spingere i personaggi presenti in sala ad arrivare alle stesse conclusioni di quelli che recitano sulla scena. Secondo Giovanni Calendoli «Ciascuno a suo modo propone il gioco dell'infinito rapporto che si stabilisce tra la realtà e la rappresentazione, illustrando l'implacabile suggestione che la rappresentazione artistica esercita sulla realtà, plasmandola a sua somiglianza».

da Opere Letterarie del Novecento Italiano

La commedia, composta fra l'aprile e il maggio del 1923, riprende e pone in discussione un episodio del romanzo Quaderni di Serafino Gubbio operatore, pubblicato con il titolo Si gira nel 1915: il tragico triangolo sentimentale fra il pittore Giorgio Mirelli, l'Attrice russa Varia Nestoroff e il barone Aldo Nuti. La prima rappresentazione, avvenuta il 22 o 23 maggio 1924 fu preceduta da un battage pubblicitario orchestrato dall'autore, che in un'intervista rilasciata a «Comoedia» il 15 gennaio aveva alimentato la curiosità sull'opera definendola «la più strana, la più imbrogliata, la più difficile a capirsi fra tutte le mie commedie»; e, poco prima dell'apparizione sulle scene ne aveva fatto pubblicare il testo nel vol. IX delle Maschere nude per provocare un anticipato giudizio dei critici da poter riprendere nel «Primo intermezzo corale» della commedia.

Ciascuno a suo modo, dice una didascalia, è una commedia a chiave, «costruita cioè dall'autore su un caso che si suppone realmente accaduto e di cui si siano occupate di recente le cronache dei giornali: il caso della Moreno, del barone Noti e dello scultore Giacomo La Vela che si è ucciso per loro»; lo stesso triangolo dei Quaderni con due nomi mutati.

L'azione inizia all'esterno del teatro in cui gli spettatori saranno informati da un «Giornale della Sera» della scandalosa trovata di Pirandello di ispirarsi a un fatto di cronaca e delle sgradevoli ripercussioni che potrebbe avere sul corso della serata.

Inoltre, fra il botteghino e il ridotto, sono presenti due protagonisti del tragico caso, l'attrice Amelia Moreno e il barone Noti, intervenuti, la prima per misurare «fin dov'è arrivata la tracotanza dello scrittore», il secondo per rivedere la donna a cui si sente tuttora legato. Il sipario si alza sul salone dell'antico palazzo nobiliare di donna Livia Palegari al termine di un ricevimento. Donna Livia è preoccupata per il figlio Doro che la sera precedente, in casa di amici, nel corso di una discussione con l'amico Francesco Savio, ha preso le difese dell'attrice Delia Morello (l'attrice Moreno, nella presunta realtà), rivelando la propria inclinazione verso una donna di dubbi costumi. Doro Palegari ha sostenuto che l'attrice, alla vigilia delle nozze con il giovane pittore Giorgio Salvi (nella realtà lo scultore Giacomo La Vela) si era data a Michele Rocca (il barone Aldo Nuti del fatto di cronaca), amico e futuro cognato di Salvi, proprio nell'interesse del fidanzato, per dissuaderlo, in modo traumatico, da un matrimonio che lo avrebbe reso infelice, senza prevederne certo il gesto suicida. L'opinione di Savio, invece, è che la donna abbia agito con deliberata perfidia verso il fidanzato. Doro intanto, riflettendo sulla discussione della sera precedente, ha rivisto il suo giudizio e si è convinto della giustezza delle posizioni dell'amico Francesco. Ma Savio, sopraggiunto in casa Palegari, dichiara di aver mutato a sua volta opinione e di essere rammaricato del diverbio. I due amici si ritrovano ancora in conflitto, ma su posizioni invertite. Doro, sentendosi provocato, dà del «pagliaccio» all'amico e viene sfidato a duello. Delia Morello, intanto, si reca da Doro per ringraziarlo della generosa difesa assunta nei suoi riguardi e per essere stata compresa nel profondo. Doro le ripete però le accuse di perfidia sostenute contro di lei da Francesco Savio e che lui stesso ha finito per condividere, lasciandola perplessa circa i veri motivi del suo comportamento. La donna, in ogni caso, intende evitare un duello assurdo. Tanto assurdo che Doro, alla fine del primo atto, si chiede perché dovrà battersi: «Ma perché? Per una cosa che nessuno sa quale sia, come sia: ne io, né quello - e nemmeno lei stessa!». Segue, nel corridoio che conduce al palcoscenico, il «Primo intermezzo corale» in cui si confrontano le opinioni dei critici e degli spettatori sullo spettacolo, «qualcuno favorevole» e «molti contrari». Tra gli spettatori si inseriscono prima il barone Noti, che protesta perché in teatro, quella sera, si è insegnato «a calpestare i morti e a calunniare i vivi», e poi la Moreno, che vorrebbe andare in palcoscenico per punire l'infamia di quello spettacolo indecoroso.

Il secondo atto si apre in una sala di casa Savio, dove Francesco si prepara al duello assistito da un maestro di scherma e dai padrini. Sui fatti accaduti e sui repentini cambiamenti di opinioni interviene Diego Cinci, amico di entrambi i contendenti e portavoce del «pirandellismo» dell'autore. Cinci - che, nello sforzo di comprendere gli uomini, si è ridotta «l'anima, a furia di scavare, una tana di talpa» - sostiene che la vita è «una tale rapina continua, che se non han forza di resistervi neppure gli affetti più saldi, figuratevi le opinioni le finzioni che riusciamo a formarci, tutte le idee che appena appena, in questa fuga senza requie, riusciamo a intravedere!». Viene annunciata intanto la visita di Delia che, determinata a scongiurare lo scontro, è ricevuta da Francesco Savio. Sopraggiunge poi Michele Rocca, «macerato dai rimorsi e dalla passione», il quale fornisce una diversa versione dell'accaduto. Era stato lui a prendere l'iniziativa di sedurre Delia, per dimostrare all'amico Giorgio «la pazzia che stava per commettere» sposandola e assicura che lo stesso Salvi lo aveva sfidato a dargli la prova della leggerezza della donna promettendogli «che avuta la prova, si sarebbe allontanato da lei, troncando tutto. - E invece, si uccise!». Intanto Francesco Savio, dopo il colloquio con l'attrice, fra le proteste dei padrini decide di rinunciare al duello. Ecco che riappare in scena Delia; Michele, «quasi gemendo» la invoca e, tra lo stupore dei presenti, i due amanti «s'abbracceranno freneticamente», scoprendo «la segreta violenta passione da cui forsennatamente fin dal primo vedersi l'uno e l'altra sono stati attratti e presi, e che han voluto mascherare davanti a sé stessi di pietà e di interesse per Giorgio Salvi, gridando d'aver voluto, ciascuno a suo modo e l'una contro l'altro, salvarlo».

Nel «Secondo intermezzo corale», ancora nel stesso corridoio del teatro, si sparge la voce che Amelia Moreno ha schiaffeggiato la prima attrice perché si è riconosciuta nel personaggio di Delia Morello e si dice che abbia schiaffeggiato anche l'Autore. Si scatena un putiferio. Gli attori sono intenzionati ad abbandonare il teatro per protesta, mentre il Direttore del Teatro e l'Amministratore della Compagnia tentano inutilmente di trattenerli. Tra la folla il barone Nuti protesta gridando: «Due cuori alla gogna! Due cuori che sanguinano ancora, messi alla gogna!»; e, scorgendo la Moreno - che da parte sua si è lamentata con il Capocomico per l'orrore di essersi vista rappresentata sulla scena -, le si lancia incontro scongiurandola di tornare con lui. La donna tenta di divincolarsi ma poi gli si abbandona, facendo senza volerlo - osserva Uno spettatore intelligente - «quello che l'arte aveva preveduto». Al Capocomico non resta che licenziare il pubblico perché «la rappresentazione del terzo atto non potrà più aver luogo». Soluzione obbligata perché come in uno psicodramma, i protagonisti del fatto di cronaca, vedendosi rappresentati dall'arte, ne hanno ripetuto le sequenze prendendo coscienza della loro passione. Se prima l'arte si è ispirata alla cronaca, in un'indissolubile circolarità, è poi la vita a imitare l'arte, spiegandosi a se stessa.

La prima messinscena allestita nel 1924 a Milano, dalla Compagnia Niccodemi - con Vera Vergani, Luigi Cimara (nei doppi ruoli di Moreno-Morello e di Nuti-Rocca) e Sergio Tofano ("attore brillante", nella parte di Diego Cinci) - ebbe, in complesso, accoglienza favorevole. Nello stesso anno la commedia fu replicata a Torino e a Roma. Una ripresa di una sola sera, il 26 gennaio 1928, si ebbe al Politeama Giocosa di Napoli a cura del Teatro d'Arte diretto da Pirandello, con Marta Abba, Tina Abba, Rodolfo Martini, Flavio Diaz, Lamberto Picasso e le scenografie di Virgilio Marchi. Al 1961 risale un nuovo allestimento curato da Luigi Squarzina.

La critica ha espresso riserve su questo testo: Domenico Lanza definì subito i personaggi della commedia «un'accolita di morbosi cerebrali, pazzi o semipazzi, decadenti della volontà, tormentatori di sé e degli altri, svuotati d'ogni persuasiva umanità e congegnati artificialmente con puri meccanismi dialettici».

Gaspare Giudice, tra gli studiosi più recenti, considera Ciascuno a suo modo un'«abilissima manipolazione del disordine (o normalizzazione del disordine) che si fa pura bravura».

"LA GIARA"

COMMEDIA IN UN ATTO

N' Sicilianu

Rielaborata in dialetto agrigentino nell'ottobre del 1916 per un breve adattamento teatrale in un atto unico che venne rappresentato per la prima volta a Roma al Teatro Nazionale il 9 luglio del 1917 dalla Compagnia di Angelo Musco.

Il pezzo ritornò sul palcoscenico di Roma, in lingua italiana, il 30 marzo del 1925, con una versione scritta presumibilmente nello stesso anno. La storia rappresentata ripercorre con umorismo molti dei temi cari allo scrittore agrigentino, tra cui la molteplicità dei punti di vista, l'ambiente siciliano e i conflitti interpersonali.

Racconto, commedia, in italiano, in siciliano, “La giara” rappresenta una delle vette creative di Luigi Pirandello. Non appesantito dalle dicotomie riscontrabilissime nella produzione del siciliano – flusso/forma, maschera/volto, tempo/durata, comicità/umorismo – il racconto si snoda in una progressione di colpi di scena godibilissimi fino allo scioglimento finale, all’apoteosi. Commedia in un atto unico del 1916 ripresa dalla novella composta nel 1906 e pubblicata nella raccolta Novelle per un anno nel 1917.

Vicino ai canoni del verismo (addirittura i fratelli Taviani, nell’episodio omonimo del film “Kaos”, fanno convergere nella rappresentazione brani della novella “La roba” di Verga), “La giara” sa essere completo racconto, felice rappresentazione di caratteri e di paesaggi. Da un punto di vista narrativo, non ideologico, è quanto di meglio Pirandello abbia scritto.

La comicità di questo racconto, il cui motivo fu ripreso da Pirandello in una commedia in un atto, dallo stesso titolo, è inesauribile. Don Lolò Zirafa, il protagonista della vicenda, è ricco e taccagno. Vede dappertutto nemici che vogliono depredarlo della sua roba, ed essendo di carattere litigioso, non perde occasione di citare in giudizio i suoi presunti avversari spendendo una fortuna in liti e facendo spesso perdere la pazienza al suo consulente legale, che non vede l'ora di toglierselo di torno. Dopo l'acquisto di una enorme giara per conservare l'olio della nuova raccolta, accade un fatto strano: per ragioni misteriose, il grosso recipiente viene ritrovato perfettamente spaccato in due: fatto che fa montare Zirafa su tutte le furie. La giara potrà essere riparata da Zi' Dima, un artigiano del posto che si vanta di avere inventato un mastice miracoloso: ma Zirafa non si fida ed insiste affinché il conciabrocche renda più sicura la saldatura usando anche dei punti di fil di ferro.

Ciò colpisce profondamente l'artigiano nel suo orgoglio: convinto che i suoi meriti siano sottovalutati, egli è infatti sicuro che il suo prodigioso mastice sia più che sufficiente a fare un buon lavoro.

Costretto ad obbedire al padrone ed in preda all'ira, Zi' Dima si mette all'interno della giara per eseguire più comodamente la riparazione, ma si distrae dimenticando che la giara ha un collo molto stretto.

Così, terminata la riparazione, resterà bloccato all'interno. Ne nasce subito una lite: Zi' Dima vuole in ogni caso essere pagato per la perfetta riparazione, mentre Zirafa si dichiara disposto a pagarlo ma vuole essere risarcito per il fatto che per liberarlo bisognerà rompere la giara. Don Lolò infatti decide di pagare il conciabrocche per il suo lavoro, non per senso di giustizia ma per non essere in torto di fronte alla legge.

Ma Zi' Dima non cede e, ricevuto il suo compenso, si rifiuta di dare qualsiasi risarcimento. Non sapendo come risolvere la situazione, don Lolò si rivolge per l'ennesima volta al suo avvocato che gli consiglia di liberare Zi' Dima, altrimenti correrà il rischio di essere accusato di sequestro di persona.

Il parere non riceve affatto l'approvazione di Don Lolò Zirafa, che ritiene responsabile Zi' Dima del fatto di essersi balordamente imprigionato nella giara che, una volta rotta per liberarlo, non potrà più essere riparata. Il cocciuto conciabrocche, a sua volta, si rifiuta di risarcirlo affermando di essere entrato nella giara proprio per mettere i punti che don Lolò aveva preteso: se si fosse fidato del suo mastice miracoloso, ora avrebbe la sua giara come nuova.

Piuttosto che pagare, preferisce restare dentro la giara dove dice di trovarsi benissimo; e lì infatti passerà tranquillamente e allegramente la notte, fra canti e balli dei contadini ai quali, servendosi proprio del denaro ricevuto da Don Lolò, ha offerto vino e cibarie. In preda alla rabbia, per il danno e la beffa, Don Lolò Zirafa finisce per tirare un poderoso calcio alla giara che si romperà definitivamente e Zi' Dima, così involontariamente liberato, avrà partita vinta.

Nella novella come nella commedia, traspare chiaramente la tematica della roba, ripresa dal Verismo verghiano, descritta con il morboso attaccamento di Don Lolò ai beni materiali: la sua funzione nella commedia, comunque, supera la visione del realismo verista, creando invece un effetto tragicomico. Alla figura di Don Lolò viene contrapposta quella di Zi' Dima, privo di poteri e risorse materiali, ma consapevole della dignità del lavoro che egli esegue con onestà e scrupolo e che considera unico per l'uso di quello che egli ritiene come una sorta di bene intellettuale: il suo miracoloso mastice. Nel rapporto antitetico tra due figure completamente diverse, entrambe poco conscie dei propri limiti, ma accomunate dalla stessa cocciutaggine contadina e mosse dai loro istinti, Pirandello riesce a creare una comicità basata su una situazione grottesca: una circostanza nella quale ciascuno dei due diventa al contempo debitore e creditore dell'altro. Dato che nessuno dei due contendenti può o vuole andare incontro all'altro, si arriva ad una situazione di stallo in cui non è più possibile distinguere chi abbia torto e chi ragione. Si tratta di un paradosso paragonabile a quello che ritroviamo ne Il giuoco delle parti pirandelliano. Il ritratto di Zi' Dima è di una immediatezza mirabile. Povero, dignitoso e chiuso nel suo orgoglio d'inventore non ancora patentato, è l'opposto di don Lollò che grida sempre, gesticola, si rincalca il cappellaccio bianco, si percuote il capo e le guance, sbraita: due macchiette, don Lollò e Zi' Dîma, d'un umorismo vivo e pittoresco. La posizione dei due protagonisti è questa: se don Lollò non fa uscire Zi' Dima dalla giara cade nel sequestro di persona..., ma per farlo uscire deve romperla..., perciò la vuole pagata da Zi' Dima..., questi però non vuol saperne di pagare: vi sarebbe piuttosto rimasto dentro fino a farvi i vermi..., ma in questo caso don Lollò lo avrebbe denunciato per alloggio abusivo. È uno dei tanti casi presentati dal Pirandello, dove all'elemento grottesco e comico, che nel racconto è predominante, si accompagna un sorriso amaro, appena accennato, di fronte alla squallida infelicità fisica e morale di Zi' Dima, il quale si dibatte, anche lui, tra la realtà dura della vita e l'illusione: il suo mastice nuovo, miracoloso, non gli darà il benessere e la gloria sperata..., ma finisce col prendere gusto anche lui alla sua bizzarra avventura, ridendone "con la gaiezza mala dei tristi".

"SAGRA DEL SIGNORE DELLA NAVE"

COMMEDIA IN UN ATTO

Atto unico scritto nell'estate del 1924 e derivato dalla novella Il Signore della nave del 1916, nella raccolta Candelora. La prima rappresentazione della commedia, il 2 aprile 1925, al Teatro Odescalchi di Roma segnò l'inaugurazione della compagnia "Teatro d'Arte", creata da Pirandello che annovererà in seguito, come prima attrice, Marta Abba. L'opera teatrale fu pubblicata ne Il convegno del 30 settembre 1924 (con illustrazioni che riproducono i bozzetti dei costumi) e successivamente nel 1925 con gli atti unici "L'altro figlio" e "La giara" dall'editore Bemporad di Firenze.

In occasione della prima rappresentazione della sua Compagnia, Pirandello volle un particolare allestimento spettacolare dell'opera: il palcoscenico venne collegato da una passatoia rialzata alla sala, passando nel corridoio tra le due file delle poltrone; dalla porta d'ingresso, alle spalle degli spettatori, entravano gruppi di attori e comparse che si dirigevano nella piazza, per partecipare alla sagra, affollata da paesani, bancarelle, prostitute, tra rulli di tamburi e grida di rivenditori. Sullo sfondo dominava la scena una chiesa. (fonte Wikipedia)

Risalta, in questo atto unico, l'interesse pirandelliano per la scenografia, il desiderio di una partecipazione della platea alla rappresentazione, l'ansia di cercare soluzioni corali e affrontare difficili problemi scenici.

Scrive Italo Siciliano: "Pirandello fece di tutto per interessare e possibilmente erudire i suoi spettatori... fu abile come nessuno nel suscitarne la curiosità e nel tenerne desta l'attenzione... gli presentò 'miti' e apologhi... abolì le distanze fra palcoscenico e platea... Per la rappresentazione di questa "Sagra" ricorre alla novità tecnica, al trucco, alla 'ficelle'...".

Neppure Pirandello sfuggì al gusto prettamente dannunziano di ribattezzare poeticamente luoghi e persone; e per questa "Sagra" si è ispirato a un'antica leggenda fiorita intorno alla dugentesca chiesetta di San Nicola, che sta in una piccola valle non distante dalle maestose rovine dei templi di Agrigento.

La trama è esile, ma le intenzioni dell'autore mirano a una conclusione precisa: l'esaltazione e il trionfo dello spirito sulla materia. E' un giorno di festa: una folla paesana colorita e vivace si muove tra le baracche della fiera campestre - marinai, prostitute, venditori ambulanti vanno e vengono tra i canti, le grida degli imbonitori, quasi una musica stridula e penetrante. E' un susseguirsi di scenette vivide, di minuscoli quadri, tra i quali uno spicca in particolare. Ha come centro tematico il grasso signor Lavaccara, amaramente pentito di aver mandato allo scannatoio un maiale da lui detto Nicola; e che piange il ricordo della sua misteriosa intelligenza. Un giovane pedagogo vuol fargli osservare come solo gli uomini, non le bestie, possiedano un'intelligenza, e tenta riferirsi a una dignità e compostezza di quanti li circondano. Purtroppo la tesi non è valida.

I due protagonisti, guardandosi intorno, vedono soprattutto la violenza, le forme orgiastiche, le sensualità ribalde alle quali cede, ormai scatenata, la folla. Ma all'arrivo della processione e ai solenni rintocchi della campana della chiesa, tutti cadono in ginocchio e si mettono a recitare, spaventati, il "mea culpa".

Scrive Gino De Sanctis, nel commento alla rappresentazione svoltasi ad Agrigento, nella piccola valle sotto la chiesa evocata da Pirandello (1951, regia di Tatiana Pavlova, coreografie di Lajos Houdj): "Si sa che questo dramma [...] è denso, teso, oscuro, senza respiro. Quando molti anni fa, con la "Sagra", si volle inaugurare il teatro Odescalchi, il corale dette gravi dispiaceri a Pirandello e agli organizzatori dello spettacolo.

Ma la Pavlova [...] ha ritentato l'impresa e ha voluto, nel grumo chiuso della materia teatrale, dipanarne le fila e stenderle alla comprensione del pubblico agrigentino. Ha usato ogni mezzo: ha piantato le sue tende teatrali sotto le mura di San Nicola... ha mosso con magistrale bravura cortei di miracolati, processioni di pellegrini, colonne di ballerini; ha animato la vicenda con diciotto pezzi musicali, fuochi d'artificio, giostre luminose...

Il successo non poteva essere più lusinghiero: sia la rappresentazione considerata una prova generale, sia la 'prima' che ha aperto le onoranze nazionali a Pirandello, hanno avuto un pubblico numerosissimo e plaudente... Il pubblico, sconcertato nel primo tempo dall'ermetismo del dialogo... e dalla messa in scena tutta trovate e sorprese, è stato poi - esattamente secondo le intenzioni dell'autore - obbligato a sentirsi partecipe della "Sagra"; alla fine ha accolto con sinceri e commossi applausi la conclusione filosofica e morale dell'opera».

"DIANA E LA TUDA"

TRAGEDIA IN TRE ATTI

Tragedia in tre atti composta tra l'ottobre 1925 e l'agosto 1926, dedicata a Marta Abba.

Fu rappresentata per la prima volta in lingua tedesca col titolo Diana und die Tud al teatro Schauspielhaus di Zurigo il 20 novembre 1926, nella traduzione di Hans Feist. Da segnalare la traduzione di Benjamin Crémieux (Parigi, 1951), e quella di Marta Abba (New York, 1949).

La prima rappresentazione in Italia fu affidata a Marta Abba con la Compagnia di Pirandello. L'attrice impersonò la protagonista nella prima del 14 gennaio 1927 al Teatro Eden di Milano. Il testo fu pubblicato nel 1927 per i tipi dell'editore Bemporad.

Dopo il 1917-'18, il teatro pirandelliano si richiama molte volte a un'approfondita indagine dei contrasti tra la Forma (intesa come convenzione di linguaggio, schematismo di pensiero, regola di costume) e la Vita. Questo dualismo, chiuso a effetti pratici, diventa spesso occasione per uno sviluppo della poetica pirandelliana, dà impulso a opere notevolissime, ma finisce per opprimere il "pathos" caratteristico di questo teatro, risolvendosi a volte in un conflitto di idee e valori astratti. "Diana e la Tuda" è centrata, appunto, sul contrasto tra il processo vitale in continua evoluzione e la forma dell'arte: che vorrebbe bloccarlo - immortalandolo - entro precisi confini.

E' il dramma che divide lo scultore Sirio Dossi dal suo vecchio maestro (e padre, secondo la voce comune), Nono Giuncano. Sirio sta lavorando a una statua di Diana, in cui vuole esaltare un'immagine di bellezza. Le lunghe pose stancano la modella Tuda. Nono Giuncano, che da anni ha distrutto tutte le sue opere, ammira nella giovane donna la forza vitale, sacrificata alla forma immota e fredda dell'arte. Sirio, per evitare che Tuda faccia anche da modella ad altri artisti - e in particolare a un mediocre pittore che sta eseguendo lui pure un'"immagine" di Diana - non esita a sposarla. Il loro matrimonio rimane però " in bianco" mentre l'amante di Sirio Dossi, Sara, continua a frequentarne lo studio e la casa, irritando, offendendo nell'anima la vitalissima Tuda. Questa, che nel frattempo si è innamorata del marito, intende come lo scultore voglia esprimere nella statua anche un'inquietudine e un tormento della femminilità insoddisfatta, umiliata; si dispone a vendicarsi. E lo fa nel modo che può maggiormente offendere il marito, posando nuda - cioè - per quel mediocre pittore. Sirio lo sfida a duello e lo ferisce, dopo aver distrutto il suo quadro. Tuda, "martoriandosi e logorandosi", dice Marco Praga, nel sentire "che fu uccisa come donna per essere trasformata in gelido marmo", infine, in una drammatica scena, si getta verso la statua. Sirio crede voglia distruggerla e la minaccia di morte. Allora Giuncano, mirando a impedire che Sirio risolva la Vita nella Forma, si slancia su di lui e lo strangola.

Atto primo - Studio dello scultore Sirio Dossi

La scena si svolge nello studio di Sirio Dossi, un giovane scultore, abbastanza ricco, tanto da poter vivere di rendita, che sta lavorando a una statua di Diana in cui vuole esaltare l’immagine della bellezza; posa per lui la modella Tuda che ad un certo punto, stanca, chiede un poco di riposo. Alla scena assiste Nono Giuncano, un vecchio artista che di Sirio è il maestro ed anche, secondo la voce comune, padre. Il dialogo è rapido: Tuda è una modella piena di vitalità e posa anche per altri artisti, ma Sirio è geloso, e lo manifesta soprattutto quando viene a sapere che un mediocre artista, Caravani, istigato da lei, s’è messo in testa di fare anche lui una statua di Diana. Il contrasto tra il vecchio e il giovane s’accende: per il primo “se vivere vuol dire morire ogni momento, mutare ogni momento” mentre la statua non muore e non si muta più, per il secondo la statua è vive nella sua immutabile bellezza da ammirare. Sopraggiungono intanto prima Sara, l’amante di Sirio, e poi Caravani, che vanno via insieme impedendo così che Tuda vada via con Caravani; Sirio le chiede allora di sposarla, solo per finire la statua e per evitare che Tuda faccia da modella anche ad altri artisti. è un matrimonio in bianco.

Atto secondo - Stessa scena del primo atto. Tuda in abito da sera

Tuda sta provando degli abiti con cappelli e pellicce con una sarta e una modista: gli stessi abiti provati sono disposti in modo da ricoprire le statue presenti nello studio; la scelta è difficile; tutte quelle spese sono una vera pazzia, fatte per punire Sirio per il suo atteggiamento. Arriva Sara, che apre la porta con la sua chiave (è ancora l’amante di Sirio Dossi) e resta sorpresa e un po’ sdegnata davanti a quel buffo spettacolo. È subito sfida fra le due donne, l’una armata del suo diritto d’amante, l’altra del suo diritto di moglie, anche se in bianco; e Tuda vorrebbe vendicarsi dei due amanti e di quello che le fanno soffrire. Arriva anche Giuncano, al quale Tuda si offre, pensando a consumare la sua vendetta contro Sirio, come modella non come moglie chiedendogli di prenderla con sé; ma Giuncano è cosciente della vitalità di Tuda e della sua vecchiaia, della sua esistenza senza vita: “La vita non mi deve riprendere”, esclama, e rivede in sé suo padre, un’immagine che lo perseguita: “Se sapessi che specie di ribrezzo provo, ora che vedo in me mio padre: sì, non so, come se avessero amato lui, non me: lui così - anche allora - quand’ero giovane. - Eh, le sapeva amare, lui, le donne; ne morì disperata mia madre! - Si vede che - questo corpo - quest’aspetto - le donne... Non te lo so dire! So, so ora, che non ero io - e che anche tutte quelle che amai dovettero a un certo punto accorgersene e si allontanarono da me, tutte, perché sotto questo corpo scoprirono me, diverso. - È più, più che ribrezzo; è odio, proprio odio. - Mi sembrerebbe di contaminare in te, così bella, la vita, con mani non mie.” L’atto si chiude con la Tuda che va via col misero pittore Caravani.

Atto terzo - Stessa scena degli altri due atti

Sara e Giuncano sulla scena. Tuda è scomparsa e Sirio la cerca disperatamente; si rivolge persino a Giuncano, suo presunto padre. Questa, che nel frattempo si è innamorata del marito, intende come lo scultore voglia esprimere nella statua anche un’inquietudine e un tormento della femminilità insoddisfatta e umiliata. Si dispone così a vendicarsi, e lo fa nel modo che può maggiormente offendere il marito: posando nuda - cioè - per quel mediocre pittore. Sirio lo sfida a duello e lo ferisce, dopo aver distrutto il suo quadro. Tuda, infine, in una drammatica scena, si getta verso la statua. Sirio crede voglia distruggerla e la minaccia di morte. Allora Giuncano, per impedire che Sirio risolva la Vita nella Forma, si slancia su di lui e lo strangola.

Marco Praga, da una recensione alla "prima" italiana della commedia: "La filosofia pirandelliana bisogna ponderarla un poco, e allora si riesce a penetrarvi dentro, a capirne il significato, ad appassionarsi ai problemi che essa pone e a valutarne le soluzioni. E' ciò che bisogna fare di fronte a un'opera come "Diana e la Tuda" per comprenderne il substrato, per apprezzarne l'idea informativa, per rendersi conto del principio filosofico che vi corre per entro... La favola, in sé, è di una chiarezza e di un'evidenza mirabili... Perché nella tragedia pirandelliana non ci troviamo di fronte ad un processo psicologico, sì bene ad un processo filosofico. E il principio filosofico da cui si parte... è rappresentato da Nono Giuncano... un personaggio importantissimo... un vecchio scultore che anni fa smise di scolpire e distrusse tutte le statue che aveva sino allora scolpite... Perché, dunque? Perché una tragedia si è prodotta nell'anima sua, nella sua mente: la tragedia nata dal contrasto ch'egli [...] ha visto tra la vita e la forma, la vita che evolve e si trasforma, la forma che immobilizza, che imprigiona...". Mosso da una profonda inquietudine, sempre alla ricerca di nuovi moduli per un nuovo teatro, tutt'altro che estraneo a suggestioni astratte, Pirandello tenta di formularle e svolgerle drammaticamente anche in quest'opera. Ma anche qui l'arte pirandelliana riesce soprattutto a far "vivere" davvero qualcosa che trascende ogni astrazione: specialmente il personaggio del vecchio scultore che troppo tardi sente tutta l'importanza del saper creare amando e soffrendo, dà forza a questo dramma.

"L'AMICA DELLE MOGLI"

COMMEDIA IN TRE ATTI

Tragedia in tre atti composta tra l'ottobre 1925 e l'agosto 1926, dedicata a Marta Abba.

Fu rappresentata per la prima volta in lingua tedesca col titolo Diana und die Tud al teatro Schauspielhaus di Zurigo il 20 novembre 1926, nella traduzione di Hans Feist.

Da segnalare la traduzione di Benjamin Crémieux (Parigi, 1951), e quella di Marta Abba (New York, 1949).

La prima rappresentazione in Italia fu affidata a Marta Abba con la Compagnia di Pirandello.

L'attrice impersonò la protagonista nella prima del 14 gennaio 1927 al Teatro Eden di Milano.

Il testo fu pubblicato nel 1927 per i tipi dell'editore Bemporad.

Dopo il 1917-'18, il teatro pirandelliano si richiama molte volte a un'approfondita indagine dei contrasti tra la Forma (intesa come convenzione di linguaggio, schematismo di pensiero, regola di costume) e la Vita. Questo dualismo, chiuso a effetti pratici, diventa spesso occasione per uno sviluppo della poetica pirandelliana, dà impulso a opere notevolissime, ma finisce per opprimere il "pathos" caratteristico di questo teatro, risolvendosi a volte in un conflitto di idee e valori astratti. "Diana e la Tuda" è centrata, appunto, sul contrasto tra il processo vitale in continua evoluzione e la forma dell'arte: che vorrebbe bloccarlo - immortalandolo - entro precisi confini.

Commedia tratta dall'omonima novella del 1894, composta nell'estate del 1926. Sicuramente la meno rappresentata in assoluto del drammaturgo, fu messa in scena per la prima volta al Teatro Argentina di Roma il 28 aprile 1926 dalla Compagnia Pirandello con Marta Abba protagonista cui Pirandello dedicò la commedia.Un testo estremamente attuale, che porta in primo piano l'analisi spietata di un gruppo di borghesi, mariti e mogli, dietro la cui apparente tranquillità si intravede uno scenario devastante, una forma felice pronta ad esplodere in un dramma di inusitata crudezza.

Tutto nasce dall'insana passione e gelosia di Venzi per Marta, passione che lo rende pronto anche ad uccidere un rivale immaginario. Marta, l'amica delle mogli, figura misteriosa che domina il gruppo, dietro un aspetto perbenista, svela una natura ferocemente ambigua, ignara e complice, destinata ad alimentare un dramma che si aggroviglia sempre di più, in un coacervo di sentimenti inespressi e malsopiti desideri.

In realtà, ciò che qui si racconta, è la vicenda di vite già per metà vissute, in cui le possibilità di riscatto si riducono e le scelte si presentano come il risultato definitivo di un'esperienza logorante che, negli anni, ha finito con l'accumulare rancori e veleni fino al delirio.

Un'umanità inasprita dall'impotenza dell'essere, che genera mostri di ambiguità e situazioni perturbanti. Vuole apparire normale e moderna, mentre al suo interno si annidano pulsioni primitive che squarciano difese e schermi, mettendo a nudo situazioni pericolose in una consunzione di vite segnate dalle illusioni perdute e da un'esistenza sprecata in un mondo di brillantina e bretelle, denti d'oro e nicotina. Il sentimento aleggiante di catastrofe imminente rimanda ai timori e alle tensioni perverse di un vecchio film "noir" in bianco e nero: il vortice di un thriller che coglie i suoi interpreti nell'atto di un'occasione cruciale che la vita e il teatro hanno preparato per loro.

È certo il dramma della gelosia, «di una gelosia pazzesca e furibonda», come parve a M. Praga, ma è soprattutto il dramma grigio di esistenze monche e irrealizzate, dove tutti i personaggi, non solo Francesco Venzi, appaiono sconfitti.

La stessa Marta, strana creatura tra innocente e sottilmente perversa, della perversione più pericolosa, quella psicologica, non sa neanche lei dove termini la sua disponibilità altruistica e dove cominci, invece, il desiderio di affermazione tramite l’imposizione surrettizia alle amiche dei suoi comportamenti, dei suoi gusti e delle sue scelte.Alla fine del dramma, Marta rimane in questa ambiguità, in questo ambivalente limbo e si chiude in una desolata sterilità, in una completa e ormai fatale solitudine: «Lasciatemi sola! voglio restar sola!   Sola,   sola,   sola!  »

"BELLAVITA"

COMMEDIA IN UN ATTO

Commedia in un atto unico composta nel 1926, tratta dalla novella L'ombra del rimorso (1914). La prima rappresentazione dell'opera avvenne al Teatro Eden di Milano il 27 maggio 1927 con la Compagnia Almirante-Rissone-Tofano.

Tratto dalla novella "L’ombra del rimorso", risalente al 1926 e che vede protagonista un altro uomo pirandelliano, il dolciere Bellavita, tradito per lunghi anni dalla bella moglie con il notaio Denora ed ora vedovo.

Ebbene Bellavita, con una forma sottile di vendetta, ha deciso di ossequiare in modo ossessivo l’amante della moglie, seguendolo come l’ombra del rimorso. E nemmeno la proposta da parte del notaio di provvedere a sue spese all’educazione del figlio Michelino, dissuaderà Bellavita ad ossessionarlo con la sua presenza.

Bellavita è un debole ometto che ha sopportato per lunghi anni l'aperta, e senza ritegno, relazione adulterina della bella e spregiudicata moglie con il notaio Denora. Morta la moglie traditrice è giunta l'ora della vendetta per Bellavita: egli però, semplice e umile pasticcere, non può scontrarsi apertamente con il ricco e potente notaio e allora escogita un meccanismo per coprirlo di ridicolo agli occhi della gente. Parato a lutto coglierà ogni occasione per mostrare il suo affetto per il notaio con cui vorrà condividere il dolore per la perdita della donna amata da entrambi.

Il notaio non può respingerlo apertamente perché sa di essere in torto con Bellavita, né può negare ciò che tutti sanno. Inutilmente tenterà di liberarsi dalla soffocante e grottesca presenza di Bellavita che singhiozzando lo implora di non abbandonarlo nel momento del comune dolore. Per rabbonire Bellavita e riacquistare la sua dignità, il notaio si offrirà di provvedere all'educazione di Michelino, quasi sicuramente suo figlio, ma il pasticcere rifiuterà e continuerà a seguire come un'ombra il notaio, ossequiandolo e onorandolo, ricordandogli così con la sua presenza il malfatto ai danni di un poveruomo.

«BELLAVITA:...E ora gli corro dietro; e per tutte le strade, inchini, riverenze, scappellate...Vado dal sarto! Mi ordino un abito da pompa funebre da fare epoca, e sù, dritto impalato dietro a lui, a scortarlo, a due passi di distanza! Si ferma; mi fermo: Prosegue; proseguo. Lui il corpo e io l'ombra! L'ombra del suo rimorso!...»

"SCAMANDRO"

COMMEDIA MITOLOGICA IN CINQUE EPISODI

Commedia scritta presumibilmente nel 1898 e pubblicata nel 1906, fu rappresentata per la prima volta il 19 febbraio 1928 a Firenze nel Teatro dell’Accademia dei Fidenti ad opera del "Gruppo Accademico".

Storia dell'opera

Scamandro assieme a Laomache fanno parte delle composizioni giovanili di Pirandello considerate dalla critica letteraria di trascurable importanza.

Questi due poemetti vennero pubblicati entrambi nel 1906.

Il primo di questi, Scamandro , dovrebbe essere stato scritto nel 1898.

Nel Laomache Pirandello tratta un tema ampiamente rappresentato nella sua produzione letteraria posteriore. Vi si racconta di una donna, altera e libera da ogni convenzione famigliare, una vera e propria amazzone, che con la maternità si trasforma in una dolce sposa.

Scamandro , un'opera a metà tra l'idillio e la farsa di Plauto, racconta di un ateniese che mascherandosi come il dio del fiume Scamandro seduce una giovane troiana che accingendosi al matrimonio si era recata al fiume per celebrare un rito propiziatorio per i prossimi sponsali.

Tutto alla fine si risolverà per il meglio tra battute ardite e riferimenti salaci.

Sebbene questi temi classici mitologici si riscontrino nelle poesie del giovane Pirandello e siano molto lontani dalla sua produzione letteraria posteriore, tuttavia i due poemetti vennero pubblicati nuovamente negli anni Venti, (Laomache nel 1928 e Scamandro nel 1929): segno evidente dell'intenzione di Pirandello che, volendo presentarsi nella nuova veste del "mitopoieta", l'autore di Lazzaro e de La nuova colonia , vuole avvalorare l'idea di un collegamento con il suo interesse originario per il mito che dalla sua giovinezza letteraria sarebbe giunto sino alla produzione più matura.

"LA NUOVA COLONIA"

DRAMMA MITOLOGICO IN UN PROLOGO E TRE ATTI

Dramma in un prologo e tre atti, scritto dal maggio del 1926 al giugno del 1926.

Dedicato a Marta Abba, compagna di vita dello scrittore per un lungo periodo della sua esistenza, è il dramma con il quale si inaugura la cosiddetta fase del teatro dei miti, corrispondente all'ultima stagione creativa di Pirandello e composto da una trilogia: La nuova colonia, definito mito sociale, Lazzaro, che rappresenta il mito religioso, e l'incompiuto I giganti della montagna, ossia il mito dell'arte.

Il mito fu rappresentato per la prima volta nel marzo del 1928 al Teatro Argentina di Roma dalla "Compagnia Pirandello", con interpreti Marta Abba e Lamberto Picasso.

La trama è ripresa dall'opera teatrale di Silvia Roncella, la scrittrice personaggio del romanzo di Pirandello Suo marito, pubblicato nel 1911.

La nuova colonia si distingue dalle altre commedie pirandelliane per essere diversa sia dai testi borghesi che dalle commedie di impianto metateatrale.

Racconta di una pletora di marinai disoccupati ai margini o dentro la malavita e quindi considerati irredimibili dalla società, che decidono di darsi nuova vita andando ad abitare una ex colonia penale, un'isola vulcanica ormai disabitata da tempo perché sta lentamente sprofondando in mare.

Tra gli accoliti di questo eterogeneo gruppo anche Dorò, il figlio del padrone locale Nocio, l'unico che prova sentimenti umani per Spera, una prostituta redenta dalla maternità, e Currao, uno dei marinai che diventa il capo dell'isola.

La nuova repubblica funziona a stento tra liti, pazzie e lussuria per la Spera che li ha seguiti sull'isola per smettere di fare la vita, e viene minata del tutto quando sull'isola giunge Padron Nocio con delle donne.

Ecco che il nuovo ordine sociale viene sovvertito dal ritorno dei vecchi attori sociali: Spera torna ad essere una prostituta, Currao vagheggia di sposare la figlia di Nocio e per questo è deciso a coronare l'unione adottando il figlio della Spera.

Ma l'isola sprofonda in mare lasciando in vita solamente Spera e il suo bambino.

da Spazio Teatro - Reggio Calabria

Il carattere popolare del testo, a partire dalla sua ambientazione (un borgo di pescatori, squallido e francamente non ben frequentato), così distante dalle ambientazioni borghesi che caratterizzano i testi più noti del drammaturgo siciliano (da Così è (se vi pare) a Come tu mi vuoi, dal Berretto a sonagli all’Enrico IV) o quelli metateatrali e surreali dei Sei personaggi in cerca d’autore o di Questa sera si recita a soggetto; l’aria che si respira nella Nuova colonia è più simile a quella di Liolà o de La giara, quindi più vicina alle novelle (anche sul piano cronologico), con una sottolineatura, però, più forte della componente drammatica, se non addirittura tragica.

Il profilo dei personaggi è forte e carico di passionalità, anzi proprio la repressione degli istinti si pone ad un certo punto come elemento catalizzante della narrazione.

Poveri, ladri e prostitute popolano La nuova colonia: un nucleo di diseredati, spinto con forza ai margini della società, che decide di cambiar vita e di esiliarsi da sé, per costruire una nuova società, un nuovo mondo, che se a primo acchito sembra prendere il carattere della ribellione, ad un’attenta lettura si rivela come ferma volontà di redenzione: darsi una seconda opportunità di liberarsi da un passato di illegalità, darsela da sé questa opportunità visto che la cosiddetta società civile non ci pensa neanche, avendoli marchiati a vita come reietti.

E qui risiede il secondo motivo d’attrazione: la riflessione sulla possibilità di ricreare una comunità garantendo regole giuste e democratiche.

Impresa ardua, quasi impossibile: la ferinità dell’animo umano tende ad avere la meglio, nonostante i tentativi più puri; la convivenza ribalta addirittura i valori individuali, facendo prevalere l’interesse ed un costante stato d’emergenza.

Una tematica quindi di un’attualità impressionante, addirittura profetica: è il 1928, data spartiacque fra le due guerre che hanno devastato l’Europa: la prima non avrebbe insegnato niente, visto che dopo vent’anni la “civiltà” sarebbe nuovamente caduta vittima di se stessa.

"LAZZARO"

DRAMMA MITOLOGICO IN TRE ATTI

Lazzaro fa parte dell'ultima produzione letteraria di Luigi Pirandello che si rifà al mito come ne La nuova colonia e ne I giganti della montagna. La composizione dell'opera risale al 1928 e fu rappresentata in Italia la prima volta a Torino nel dicembre del 1929 con la Compagnia di Marta Abba.

da Circolo Culturale Albatross

Il titolo - riferito chiaramente all'episodio evangelico - esplicita immediatamente il tema religioso del dramma, affrontato con sorpresa, e per la prima volta, dall'ateo Pirandello. Il tutto è però inserito in una vicenda più ampia che già il primo dei "miti" (questo è il secondo) aveva trattato, e cioè il contrasto tra una civiltà della madre, vitalistica, e una civiltà paterna, in questo frangente di tipo trascendentale, religioso-dogmatico. Diego e Sara, marito e moglie, si separano a seguito di numerose incomprensioni sorte spesso riguardo al trattamento dei due figli, Lucio e Lia. Lei si rifugia in una casa di campagna, scopre l'amore e inizia una nuova vita, basata su di una morale di tipo, per così dire, naturale. Lui, dogmatico difensore della religione, più che della fede, rimane in città assieme ai figli, di cui diviene l'unico educatore. Lucio e' mandato in seminario, mentre Lia, affidata alla cura delle suore, diviene incapace di camminare.

La trama fin qui espressa è l'antefatto del dramma, dramma che si apre col rifiuto della veste da parte di Lucio che scatena in Diego una violenta reazione in seguito alla quale, accidentalmente, muore. Riportato miracolosamente in vita dal dottore (di qui il titolo "Lazzaro"), Diego rasenta la pazzia, cercando una nuova base per poter vivere, poiché ormai, per lui, sono crollate tutte le certezze. Sarà Lucio a salvare il padre e a riconciliare la sua intera famiglia, riprendendo la veste e facendo il miracolo di guarire la sorella.

da Edizioni dell'Orso

Parlare di miti in Pirandello significa riferirsi alla sua ultima e forse meno frequentata produzione: La nuova colonia, Lazzaro e I giganti della montagna. Essi si pongono, all’interno della sua poetica, come laboratori sperimentali e come naturali tappe/compendio di soluzioni tecniche, in quanto alla forma e alla scena, e come fisiologiche focalizzazioni di scelte tematiche, in quanto al pensiero e al contenuto. Traguardo dell’intero cammino culturale dell’uomo Pirandello, i miti sono come un sicuro approdo dopo una lunga, tempestosa navigazione esistenziale, come un ubi consistam a lungo sperato contro ogni speranza, ma anche come un cifrario che custodisca e adombri, e allo stesso tempo sveli, offrendone un’indubbia chiave di lettura, gli estremi quesiti dell’uomo. In essi, infatti, i punti interrogativi, di cui è disseminata l’intera precedente produzione pirandelliana, tentano caparbiamente di diventare punti fermi. I miti pirandelliani, quindi, oltre ad essere una trilogia drammatica, costituiscono delle tesi programmatico-esistenziali, volte a illustrare un’unitaria e universale visione della vita. Così, essi racchiudono, frammisti all’immaginario e al sacro, i valori e gli ideali dell’esistenza, quasi ostensori dove la verità è, sì, manifestata ma anche relegata nello sfondo, e velata dai fregi preziosi e dal cristallo della teca; o loci conclusi dove l’Arte si è re-impastata a tal punto alla religio da non poterne essere più distinta. Lazzaro, dunque, che solo in maniera nominale e metaforica prende spunto dall’omonimo personaggio della vicenda evangelica essendo un’esemplificazione drammatica della resurrezione/rinascita fisica e interiore dell’uomo, rappresenta il tema della morte e dell’oltre. Meglio, racchiude, illuminate dalla luce della charitas del Cristo, le realtà oscure del fine e della fine della vita: la partenza dalla terra, l’esistenza dell’altro mondo e il ritorno da quello in questo.

L’opera fu rappresentata in prima assoluta a Huddersfield, in Inghilterra, il 9 luglio 1929. Ma la sua gestazione/composizione risale ad almeno un anno prima, al luglio del 1928. In Italia, invece, sarà messa in scena a Torino, al Teatro di Torino, della Compagnia di Marta Abba, cinque mesi dopo, il 7 dicembre 1929, riportando un enorme ed insperato successo. Pirandello stupì la critica, e stupisce anche noi a dire il vero, addentrandosi in un argomento nuovo e tanto delicato come quello religioso, ma ancora una volta il tutto è usato come base per una profonda riflessione sulla vita, sulla realtà e sulla comunicazione. Assistiamo nel dramma a uno svolgimento che ci porta da una condizione di assoluta immobilità (mancanza completa di comunicazione, di comprensione e, in ultimo, di vita) a una situazione di evoluzione, in cui sono gettati i germi per uno sviluppo positivo. Già dalle prime battute (dall'entrata in scena di Diego Spina) ci accorgiamo della staticità della situazione. Interessante a questo riguardo l'atteggiamento di Diego nei confronti di un primo miracolo, la resurrezione operata dal dottore della coniglietta bianca di Lia.

Diego nega anche davanti a ciò che giace sotto i suoi occhi, per non contraddire ciò su cui si è basata la sua vita: se la coniglietta è viva, allora vuol dire che non era morta.

("Non è possibile ... Non può essere vero ... E' segno che non doveva esser morta ... Io so che solo Dio può , per un miracolo, richiamare da morte a vita ... se la riporti nel suo laboratorio! ...)

Assistiamo quindi a un dogmatismo religioso che agisce come museruola della comunicazione, assolutamente chiuso alla comprensione e al dialogo.

Diego, avendo scelto la via della religione e avendo fondato sui dogmi di essa la propria vita, non può accettare che questa sia messa in discussione: sarebbe come rinnegare la propria intera esistenza, il senso stesso della propria vita. Ma proprio questo elimina, o contribuisce a eliminare, buona parte della possibilità di comunicare. Il suo fanatismo religioso lo isola, poiché Diego non capisce gli altri, come gli altri d'altro canto non capiscono Diego. Egli si pone come su di un alto piedistallo, distaccato da tutto e da tutti. Inoltre questa visione trascendentale, spinta all'eccesso e assolutamente chiusa in sé , toglie importanza alla vita stessa, poichè tutto è incentrato sul dopo, non sull'adesso, e la vita deve quasi portare alla sofferenza e alla catarsi dell'anima necessaria ad "acquisire" la vita dopo la morte. (Lucio: ... per non finire noi, annulliamo in nome di Dio la vita ... tu avevi chiuso gli occhi alla vita, credendo di dover vedere l'altra di là ... )

Tutta questa statica chiusura alla vita però viene incrinata da due eventi che, sebbene negativi, agiscono positivamente: Lucio rinuncia alla veste, Diego muore e poi risuscita.

Questi avvenimenti demoliscono le certezze dogmatiche su cui si era fondata la vita di Diego Spina: Diego non ricorda alcunché della propria morte. Nella e oltre la quale quindi non c'è nulla. Si cancella quella visione soprannaturale che lo ha sempre guidato, e la stessa interiorità dell'uomo si svuota. E' questo vuoto, che deve essere riempito, che spinge Diego alla ricerca di nuove sicurezze e quindi alla comunicazione, al rapporto produttivo con gli altri.

Lucio è la sintesi tra il mondo della madre e il mondo del padre: ha infatti vissuto secondo gli insegnamenti paterni, ma con una visione critica che l'ha portato a cogliere di quel mondo solo gli elementi positivi, a cui ha aggiunto l'amore per la vita presente nella concezione materna.

E Lucio si fa tramite della comunicazione, da un lato ridando al padre una base su cui fondare la propria rinascita (riprendendo la veste), dall'altro spingendo la madre al rapporto col mondo esterno, che era stato rifiutato con la chiusura in una realtà caratterizzata da una morale "naturale", cioè della terra (faticare, soffrire e gioire della terra).

(Sara: ... la vita, la vera vita che ha qui, fuori dalla città maledetta, la terra; questa vita che ora sento, perché le mie mani l'aiutano a crescere, a fiorire, a fruttare ...)

Lucio, alienandosi e sacrificandosi, grazie a un vero sentimento religioso di natura panteistica (probabilmente la religione a cui Pirandello maggiormente inclinava), fornisce al padre, riprendendo la strada che da lui gli era stata indicata, la convinzione di non avere sbagliato la sua intera vita. E riunisce in un unicum tutti i frammenti in cui si erano disgregate le certezze del padre.

"QUESTA SERA SI RECITA A SOGGETTO"

DRAMMA IN TRE ATTI

Dramma scritto tra il 1928 ed il 1929, è considerato la terza parte della trilogia che Pirandello dedica al teatro nel teatro, preceduta da Sei personaggi in cerca d'autore e Ciascuno a suo modo.

La prima rappresentazione assoluta si ebbe a Könisberg il 25 gennaio 1930 nella versione in tedesco tradotta dall'italiano da Harry Kahn col titolo Heute Abend wird aus dem Stegreif gespielt. La prima rappresentazione in Italia avvenne al Teatro Torino di Torino il 14 aprile del 1930 con una Compagnia appositamente costituita diretta da Guido Salvini.

da Opere Letterarie de Novecento Italiano

Il dramma, che riprende la novella «Leonora addio!» del 1910 (nella raccolta Il viaggio), fu scritto a Berlino tra la fine del 1928 e il 24 marzo 1929, data posta in calce alla prima edizione italiana, nel voi. XXVII delle Maschere nude.

L'edizione italiana era stata preceduta da quella tedesca nella traduzione di Heinrich Kahn e con una dedica al celebre regista Max Reinhardt.

La prima rappresentazione avvenne il 29 gennaio 1930 a Kónigsberg, nella Prussia Orientale, con la regia di Hans Karl Múller.

Pirandello, presente a una replica in marzo, ne riportò un'impressione favorevole.

«Tutto il teatro recita!», scrisse con entusiasmo a Guido Salvini, che avrebbe dovuto mettere in scena la commedia a Torino.

La locandina che annuncia lo spettacolo tace il nome dell'autore, ma intenzionalmente avverte che si svolgerà «sotto la direzione del dottor Hinkfuss con il concorso del pubblico che gentilmente si presterà».

Il sipario non è ancora alzato che in sala «giungono voci confuse e concitate, come di proteste di attori e di riprensioni da parte di qualcuno che voglia imporsi». Alcuni spettatori perplessi e indispettiti si chiedono cosa stia succedendo.

Arriva dal fondo della sala il dottor Hinkfuss, «un omarino alto poco più di un braccio, in frak, con un rotoletto di carta sotto il braccio». Hinkfuss sale sul palcoscenico e promette al pubblico, che spesso lo interrompe, una recita a soggetto sulla base di una «novelletta» di Pirandello sottoposta da lui a un trattamento scenico di cui si assume la piena responsabilità.

«L'azione», dice, «si svolge in una città dell'interno della Sicilia, dove le passioni son forti e covano cupe e poi divampano violente: tra tutte ferocissima, la gelosia. La novella rappresenta appunto uno di questi casi di gelosia, e della più tremenda, perché irrimediabile: quella del passato. E avviene proprio in una famiglia da cui avrebbe dovuto stare più che mai lontana la famiglia La Croce.

È composta dal padre Signor Palmiro, ingegnere minerario: Sampognetta come lo chiamano tutti perché, distratto, fischia sempre; dalla madre, Signora Ignazia, oriunda di Napoli, intesa in paese La Generala; e da quattro belle figliole, pienotte e sentimentali, vivaci e appassionate: Mommina, Totina, Dorina, Nenè».

Il Direttore passa alla presentazione dei personaggi.

Il vecchio Attore Brillante nella parte del Signor Palmiro; l'Attrice Caratterista in quella della Signora Ignazia; la Prima Attrice, Mommina; tre giovani attrici, le sorelle Totina, Dorina e Nenè; il Primo Attore, Rico Verri, giovane ufficiale di aviazione, frequentatore della famiglia La Croce, insieme con altri giovani ufficiali che corteggiano le ragazze.

Gli attori presentati con il loro vero nome protestano perché, già investiti nelle rispettive parti, si sentono così deconcentrati, ma il Direttore giustifica al pubblico quelle proteste come parte dello spettacolo.

Lo spettacolo inizia finalmente con una nota di colore locale siciliano, una processione religiosa che muove dal fondo della sala, diretta sul palcoscenico verso il portale di una chiesa che si scorge da un lato.

Di fronte alla chiesa figura un Cabaret, il cui interno viene mostrato attraverso un muro bianco reso trasparente con adeguati effetti di luce.

Nel Cabaret si suona il jazz; fra gli avventori c'è il Signor Palmiro, che, fatto oggetto di scherno dagli altri clienti, viene difeso da una pallida chanteuse in nero.

Sulla strada sopraggiungono la signora Ignazia e le figlie accompagnate dai giovani ufficiali diretti al teatro d'opera.

Intanto, per ordine del dottor Hinkfuss, il muro bianco ritorna opaco per fare da schermo alla proiezione cinematografica del finale del primo atto di un melodramma verdiano, mentre in un palco, lasciato vuoto nella sala, entrano «la signora Ignazia con le quattro figliuole, Rico Verri e gli altri giovani ufficiali», fra le proteste del pubblico, disturbato dalla loro entrata rumorosa.

Finita la proiezione, l'inesauribile Hinkfuss invita parte del pubblico a passare nel ridotto, dove in un «intermezzo» si potranno incontrare mescolati agli spettatori, i personaggi usciti dal palco, che continuano a dare scandalo con il loro comportamento, trasgressivo dei rigidi costumi provinciali.

A quelli che saranno rimasti in sala offrirà invece, con una «rappresentazione simultanea» a quella del ridotto, uno spettacolo inconsueto.

Infatti, sul palcoscenico il Direttore, fautore delle nuove risorse della scenotecnica e dell'illuminotecnica teatrale, ha fatto allestire per gratuita bizzarria una bella scena notturna che rappresenta un campo d'aviazione, «messo con mirabile effetto in prospettiva».

L'azione riprende nel salotto della famiglia La Croce. La signora Ignazia è in preda a un feroce mal di denti, circondata dalle figlie e dagli ufficiali, meno Rico Verri che è corso a una farmacia notturna in cerca di un calmante. Contro il mal di denti la signora Ignazia, dopo aver recitato senza beneficio l'Ave Maria, per lenire il dolore chiede ai giovani di cantare con forza il coro del Trovatore. Rico Verri, al suo rientro, ritenendo che gli altri lo hanno voluto allontanare per far baldoria, affronta con violenza i commilitoni e fa una scenata di gelosia a Mommina di cui è innamorato.

Entra in scena il signor Palmiro ubriaco, «con un viso da morto, le mani insanguinate sul ventre ferito di coltello», per un alterco al Cabaret, ma, nella confusione generale nessuno mostra di accorgersi di lui. Sentendosi «smontato» nella parte, se ne lamenta con il Direttore:

«devo venire a morir sulla scena, che non è facile per un attore brillante; nessuno mi fa entrare; trovo qua lo scompiglio; gli attori smontati; mancato l'effetto che mi ripromettevo di cavar fuori con la mia entrata».

Il dottor Hinkfuss gli chiede di ripeterla, ma ormai l'effetto è perduto e l'attore, per cui «l'entrata era tutto» affinché «la Morte ubriaca,» entrasse in lui, non riuscendo a morire credibilmente sulla scena, può solo raccontare la sua fine.

Davanti agli spettatori Hinkfuss si attribuisce il vanto della trovata della morte del signor Palmiro, mancante nella novella, per dare un seguito forte alla vicenda.

Infatti è dopo la morte del padre, con la famiglia in miseria, che Mommina si decide a sposare Rico Verri, un mostro di gelosia, che la porta nella sua città d'origine sulla costa siciliana, dove la segrega in casa con le due bambine che intanto sono nate.

Mentre il Direttore spiega tutto questo al pubblico, gli attori sono in subbuglio.

Non vogliono più recitare per le continue intromissioni del Capocomico; chiedono che vengano loro assegnate le parti scritte da interpretare o dal momento che non ci sono siano lasciati liberi di recitare a soggetto.

Hinkfuss viene così cacciato in malo modo dai suoi attori.

La scena riprende.

La Prima Attrice che deve ora impersonare Mommina, invecchiata e devastata nel corpo dopo le infelicissime nozze con Rico Verri, viene truccata con amorevole cura dalle attrici che interpretano la madre e le sorelle. Il trucco diviene la «vestizione» per la graduale immedesimazione nel personaggio. Legati dallo stesso martirio, Mommina e Rico Verri si affrontano nel loro carcere domestico, fra tre pareti velate dal buio. Verri è sempre «fosco», per l'inesausto rovello della gelosia; Mommina è sulle difese, per il penoso tormento delle parole del marito che indagano pensieri e ricordi in un delirante rimprovero del passato.

Oltre la parete, dal buio, interloquiscono la madre e le sorelle contro le accuse lanciate alla loro condotta da Rico Verri.

Dal sopraffarsi dei personaggi si apprende che, ridotte alla fame dopo la morte del padre, Totina è diventata cantante d'opera, Dorina è divenuta sempre più spudorata e Nenè fa la cocotte.

Riprende il tormentoso dialogo fra Rico Verri e Mommina.

In un raptus il marito, furibondo, afferra la moglie con una mano alla nuca «e la bacia, e la morde, e sghignazza, e le strappa i capelli, come impazzito accorrono, con le camicine lunghe da notte le due bambine spaventate, e s'aggrappano alla madre, mentre Verri fugge».

Mommina abbraccia le figlie piangendo la loro sorte, e intanto s'avvicinano alla parete «venendo fuori dal bujo, la madre e le sorelle sfarzosamente parate».

Dicono di trovarsi in città, perché Totina dovrà cantare nel teatro locale la parte di Leonora nel Trovatore. In una piena di ricordi, Mommina, ricostruisce «davanti alle due bambine sbalordite» la vicenda dell'opera verdiana e canta, con commozione e affanno crescenti, le arie più celebri, «finché il cuore mancandole, non la farà cader di schianto, morta». Poiché la Prima Attrice che interpreta la parte di Mommina non si rialza, gli altri attori che avevano proseguito la scena, le si fanno attorno allarmati; dalla sala invece «sopravvien entusiasta correndo per il corridojo, il dotto Hinkfuss che è rimasto a governar di nascosto tutti gli effetti di luce».

Finalmente la Prima Attrice si riprende e gli attori, dichiarando di essere destinati a «recitare parti scritte, imparate a memoria», dicono di non voler rischiare recitando a soggetto che, in un'incontrollata; immedesimazione nel personaggio, uno di lori «ci lasci la pelle» e, tra le imbarazzate protesa del capocomico, reclamano il ripristino del ruolo dell'autore.

Ma il dottor Hinkfuss con ostinazione conclude:

«No, l'autore no! Le parti scritte, sì, se mai, perché riabbiano vita da noi, per un momento, e... - rivolto al pubblico - senza più le impertinenze di questa sera, che il pubblico ci vorrà perdonare».

Dopo il successo di Kónigsberg, Questa sera si recita a soggetto venne riproposto in Germania il 31 maggio 1930 a Berlino, al Lessing Theater, con la regia di Gustav Hartung, ma ebbe un esito disastroso.

In Italia il dramma era stato presentato a Torino il 14 aprile da Guido Salvini, regista e scenografo dello spettacolo con Renzo Ricci nel ruolo di Hinkfuss.

Nel 1972 Luigi Squarzina ne curò un allestimento con la Compagnia del Teatro Stabile di Genova.

In occasione di questa ripresa, Alessandro d'Amico scrisse:

«La verità è che Pirandello in questo dramma che chiude idealmente la sua trilogia del teatro nel teatro parte dalla polemica in atto tra il regista e gli attori, ma per trascenderla, non per risolverla in favore di uno dei contendenti. La novità è altrove. È in ciò che Pirandello non aveva potuto affidare a nessun saggio e che solo sul palcoscenico sarebbe riuscito a mostrare: il momento in cui l'attore diventa lui personaggio (non, si badi, entra nel personaggio)».

"COME TU MI VUOI"

DRAMMA IN TRE ATTI

da Biblioteca dei Classici Italiani

È una commedia in tre atti, di cui s'ignora l'epoca della stesura, rappresentata la prima volta a Milano il 18 febbraio 1930.

Ispirata a una celebre vicenda giudiziaria, quella del famoso caso Canella-Bruneri che ha tenuto gli animi sospesi sulla vera identità della persona alla quale i due nomi erano attribuiti da opposti schieramenti, senza una convincente soluzione, la commedia trasferisce la problematica sull'identità di un personaggio femminile (Pirandello pensava all'interpretazione che ne avrebbe dato Marta Abba, cui la commedia è dedicata) contesa tra l'amante Carl Salter col quale vive a Berlino, e Bruno Pieri che ritrova in essa, Lucia, la sua moglie scomparsa. Nel testo la protagonista è chiamata l'Ignota: ballerina a Berlino nel dopoguerra fa vita notturna frequentando giovani gaudenti e si trova in casa insidiata dal vecchio scrittore Salter e anche dalla figlia di lui, ragazza ambigua e viziata. È una rapida ed efficace immagine della Berlino sconfitta che cerca di dimenticare la grande delusione subita.

L'italiano Boffi crede di riconoscere in lei Lucia, moglie del suo amico Bruno Pieri, scomparsa dopo che la loro casa fu occupata da soldati tedeschi durante l'invasione del Veneto. Tutti pensano che Lucia sia stata violentata e portata via o forse fuggita per la vergogna. l'Ignota sembra interessata e divertita dalla nuova situazione che si prospetta, risponde in maniera ambigua confondendo gli interlocutori. Poi confessa di non poterne proprio più della vita che conduce, di desiderare di fuggire da se stessa, dice di sentirsi «un corpo senza nome in attesa di qualcuno che se lo prenda» ed è pronta a offrirlo a chi le ridà un'anima; diventerà volentieri Cia per avere finalmente una vita nuova. È una fuga pirandelliana verso una possibile liberazione. Nella casa italiana zio Salesio e zia Lena la riconoscono per Cia; lei si offre totalmente a Bruno Pieri, felice di fargli ritrovare la moglie scomparsa. Ma il suo entusiasmo crolla quando sa che con la sua venuta il Pieri ottiene di riavere la casa che con l'attestato di morte di Lucia è passata alla sorella Ines.

Sente tutto «insudiciato» da questo «intrigo sporco d'interessi» e sintetizza a Bruno quale era stata la sua dedizione prima della frattura che s'è creata nel suo animo: «Sono venuta qua; mi sono data tutta a te, tutta; t'ho detto: Sono qua, sono tua; in me non c'è nulla, più nulla di mio; fammi tu, fammi tu, come tu mi vuoi». Sentiva d'essere diventata lei la vera Cia, lei che aveva voluto riconquistarsi una vita pura con l'amore di lui. Da questo momento in poi fa il contrario di chi vuol far valere la sua identità, si adopera a insinuare il dubbio in tutti, quando si trova di fronte alla sorella Ines e agli altri parenti, che invece sono tutti disposti a riconoscerla per Cia. E insiste su questa posizione quando arriva l'ex amante tedesco Salter, con un medico e una povera demente che pronuncia continuamente il nome Lena (che è quello della zia di Cia) presentandola come la vera Lucia. Si può credere senza prove ma «Qualunque certezza può vacillare - dice l'Ignota - appena il minimo dubbio sorge e non ci fa credere più come prima». Nonostante la spontanea repulsione che tutti i presenti hanno a riconoscere Lucia nella demente, l'Ignota cerca di alimentare i loro dubbi su se stessa. Alla fine abbandona la casa dove era naufragato il suo sogno di purezza e d'autenticità e torna col vecchio Salter, lasciando tutti nel dubbio sulla sua identità.

È veramente singolare come Pirandello riesca ad animare una storia da romanzo d'appendice con pungenti verità, con situazioni inattese che suscitano profonde riflessioni. Ti prende al laccio con una trama vecchia maniera e la sconvolge tutta per i non comuni comportamenti del protagonista, per la moderna mentalità che dimostra, mettendo in difficoltà tutti gli altri personaggi che stanno lì a rappresentare la mentalità comune. In questo modo dalla vecchia trama affiorano tante verità e una verità finale nuova. Nel nostro caso la tesi che è inutile arrovellarsi per conoscere la vera identità di una persona: nemmeno l'identità sociale e anagrafica è certa.

Italo Borzi

Riassunto

da Opere Letterarie del 900 Italiano

Pirandello compose Come tu mi vuoi tra il luglio e il novembre 1929 durante il volontario esilio berlinese, destinandolo e dedicandolo a Marta Abba. Egli enucleò l'opera da I giganti della montagna, al cui interno l'aveva ideata (lì sostituendola, poi, con La favola del figlio cambiato). Lo spunto è chiaramente connesso al caso giudiziario Bruneri-Canella (o dello "smemorato di Collegno" ), che ebbe grande rilievo di cronaca e appassionò l'opinione pubblica in quegli anni. La prima rappresentazione andò in scena al Teatro dei Filodrammatici di Milano, il 18 febbraio 1930, con la Compagnia di Marta Abba. A stampa comparve, in prima edizione, nel volume XXVIII della seconda raccolta delle Maschere nude e nel volume IV della terza raccolta.

Il primo atto è ambientato in casa dello scrittore Carl Salter, a Berlino e inizia con il ritorno di Elma (in compagnia di alcuni ammiratori ubriachi e del fotografo Boffi) dal locale notturno dove lei si esibisce come ballerina. La donna, maschera di moderna femme fatale, amante di Salter e occasionalmente anche della figlia di lui, irride il Boffi, un italiano che crede d'aver riconosciuto in lei la signora Lucia, moglie del suo amico Bruno Pieri, scomparsa da oltre dieci anni, dopo essere stata violentata dai soldati che avevano occupato la sua villa durante l'invasione austriaca del Friuli. Boffi vorrebbe convincerla a tornare con il Pieri, ora a Berlino, che non ha mai smesso di crederla in vita e di cercarla. Il testo non nomina la donna come Elma, bensì come «L'Ignota». Dei suoi trascorsi si sa poco o nulla: veneta, passata attraverso l'orrore della guerra e dell'invasione (dopo Caporetto), vedova, secondo quanto ha raccontato - probabilmente mentendo - a Salter. Più noto ma ugualmente indefinito è il suo presente: «la voluta inconsistenza della sua vita d'oggi» (inscritta nel significato del nome arabo: acqua) e il suo rifiuto di conoscersi («indispensabile, per poter sopportare quello che gli altri le fanno»), che i familiari di Lucia interpreteranno come un rifiuto di ricordare il passato: uno dei tanti casi di amnesia prodotti dal trauma bellico. Seguendo la narrazione fatta da Boffi del suo reale o presunto passato, l'Ignota mette in atto una forma di autoconoscenza che, dietro la maschera della vamp, sembra far apparire il volto di un'anima pura che prova disgusto - e ricorre perciò al suo proclamato «diritto a mentire» - per la vita viziosa che conduce. Tale disgusto, la crisi del legame con Salter - che, quasi impazzito, la tiene sotto la minaccia di una rivoltella - e, infine, il desiderio di «essere "una" un po' anche per sè», fanno sì che l'Ignota finga di essere Lucia Pieri («mescolando i suoi casi con codesta storia» per farla passare per sua, dice Salter). Fugge così dalla «pazzia» di una metropoli infernale per andare da un uomo che, però, giudica non meno «pazzo» per la sua convinzione di ritrovare «la stessa» donna perduta, mentre quella, dopo dieci anni e tutte le traversie passate, «non ci può essere più!». L'Ignota fugge anche «da se stessa»: «un corpo senza nome in attesa che qualcuno se lo prenda» per immettervi altri ricordi, un'altra vita. Salter tenta di uccidersi.

Il secondo atto si svolge a Villa Pieri, vicino a Udine, quattro mesi dopo, nel giorno in cui è attesa Ines, la sorella di Cia (come i familiari la chiamano), per il riconoscimento ufficiale che, annullando la dichiarazione di morte, porrà fine a complesse vicende ereditarie. L'Ignota parla ambiguamente agli zii della «commedia» che deve recitare e rievoca i momenti successivi al tentato suicidio di Salter: il suo rinnovato diniego di essere Cia a Bruno, sembratole già di per sé incerto; il suo pianto, interpretato come una sconfessione del diniego precedente, ritenuto finto. La buona fede degli anziani zii che per primi l'hanno riconosciuta, il loro desiderio di riavere con loro Cia, l'amore della zia Lena che le ha fatto da madre, sono tali che il discorso dell'Ignota non desta in essi la minima diffidenza. Proprio nell'Ignota, invece, s'insinua ora ll sospetto di una simulazione interessata di Bruno che, peraltro, sembra ora manifestare qualche dubbio sull'identità di lei (forse in buona fede o fingendo di esserlo); tale dubbio viene alimentato dalla notizia dell'imminente arrivo di Salter con una demente che egli proverà essere o la vera Cia. L'Ignota considera inaccettabile anche questo dubbio e rimprovera perciò a Bruno di badare troppo ai fatti e alle prove: Cia non esiste più (se vive è divenuta un'altra), mentre ella è diventata Cia, si è fatta Cia, dandosi tutta a lui (dicendogli «fammi tu, come tu mi vuoi»).

L'atto terzo, a Villa Pieri, una ventina di minuti dopo. Arrivata Ines, mentre l'Ignota tarda a farsi vedere, compare Salter con un medico, un'infermiera e una demente grassa, flaccida, dagli occhi immobili, che balbetta, senza intendere un verso abituale: Le-na. La pretesa identità della demente si basa su indizi labili; nondimeno ella suscita dubbi, che vengono fugati quando l'Ignota compare e Ines sembra riconoscerla come Cia ma che poi vengon? ridestati, volutamente, dall'Ignota stessa. E lei, infatti, a ravvivare il sospetto che i quattro mesi intercorsi dal suo arrivo siano stati necessari a studiare la parte assegnatale da Bruno. L'Ignota si vendica così del Pieri: sia che, in mala fede abbia voluto architettare un'impostura a cui ella rifiuta di prestarsi, sia che, in buona fede, abbia avuto il torto di non crederle per cercare delle prove di fatto che, ora, gli si ritorcono contro. Rimproverando a Salter di essere «un cattivo scrittore», autore di opere finte, l'Ignota rivendica poi la verità della propria finzione: «estro di vendetta contro la propria sorte», determinato da una forma di pazzia diversa da quella della demente, ma similmente originata dagli strazi della vita. In un momento che pare di suprema confessione quando ella risveglia un commovente ricordo della sorella, la finzione tocca il culmine scenico di verità. Subito dopo Elma smaschera l'impostura, sul piano dei fatti, dichiarando di avere recitato utilizzando alcuni appunti di Cia da lei casualmente ritrovati; al contempo, ella ribadisce, però, la verità della sua interpretazione, dell'identificazione fantastica che l'ha resa Cia: «Questo taccuino è mio, e me lo porto con me! Tanto più che strano!, anche la scrittura pare di mia mano!». Elma riparte con Salter lasciando tutti - in quanto legati alla verità dei fatti - nel dubbio, incapaci di credere e smarriti.

Come tu mi vuoi riprende per molti aspetti tra cui quello dell'implicita dimensione metateatrale - opere quali Così è (se vi pare) e Enrico IV. Il personaggio dell'Ignota, corrispettivo femminile del «grande Mascherato», si carica di tutte le consuete problematiche pirandelliane dell'identità, dello sdoppiamento tra coscienza e inconscio, dell'impossibilità di una conoscenza oggettiva, della follia, dell'illusione, nonché dei riflessi di altri memorabili personaggi femminili del teatro pirandelliano. Celebre l'adattamento cinematografico hollywoodiano del 1932, As you desire me, con la regia di George Fitzmaurice; sceneggiatura di Gene Markey; interpreti Greta Garbo, Melvyn Douglas, Eric von Stroheim; musiche di Herbert Stothart.

"TROVARSI"

DRAMMA IN TRE ATTI

Dramma in tre atti composto nel luglio-agosto del 1932.

Dedicato a Marta Abba che ne sarà interprete principale il 4 novembre 1932 al Teatro dei Fiorentini di Napoli.

L'opera fu pubblicata nel 1932 dall'editore Mondadori nella raccolta Maschere nude.

da Wikipedia

Trama

Il problema di ciò che ciascuno di noi veramente sia, prescindendo da come gli altri lo vedano, e da come, in un certo senso, lo facciano essere, è questione difficile da risolversi; ma tanto più complessa per chi, come la Donata Genzi della commedia, per la sua professione di attrice, deve assumere, di volta in volta, l'identità dei vari personaggi rappresentati sul palcoscenico.

Si sa, del resto, che tanto più sarà bravo l'interprete quanto più capace di fare sua la stessa personalità del personaggio rappresentato, dimenticando la propria.

La giovane Nina quindi contesta all'amica attrice di vivere nella falsità di una finzione perché Donata interpreta con tutta se stessa, anche personaggi dalle caratteristiche opposte.

Risponde Donata che non si tratta di finta falsità ma che invece quella : «É tutta vita in noi. Vita che si rivela a noi stessi. Vita che ha trovato la sua espressione. Non si finge più, quando ci siamo appropriati questa espressione fino a farla diventare febbre dei nostri polsi...lagrime dei nostri occhi, o riso della nostra bocca...»

Ma quando la commedia finisce e cala il sipario, l'attrice di fronte allo specchio del suo camerino «non si trova più»; finita la vita del personaggio rappresentato non sa più chi essa sia. Nella vita quotidiana essa si sente persa, non sa come deve viverla.

È questo senso di vuoto che spinge Donata a cercare la morte convincendo il giovane Elj Nielsen ad avventurarsi nel mare in tempesta. La barca dove si trovano i due fa naufragio ma il coraggioso svedese riesce a salvare Donata e se stesso.

L'attrice si dona al giovane uomo con lo stesso slancio dei suoi personaggi ed Elj, dal carattere avventuroso e anticonformista, risponde appassionatamente alla profferta di Donata.

Il rapporto tra i due però s'incrina, perché Donata non riesce a rinunciare alla sua intensa vita teatrale: essa ha bisogno di completare la sua vita reale con quella, altrettanto reale per lei, del teatro.

Ma accade che sul palcoscenico Donata non riesca ad esprimere più la stessa bravura, perché ormai ha una vita propria e recitando si rende conto che è a quella che sta pensando, di riproporre cioè nel suo rapporto amoroso con Elj, la stessa scena che si svolge sul palcoscenico.

Elj, che per la prima volta assiste a una recita di Donata, capovolge invece la situazione: crede che Donata approfitti dei loro sentimenti vissuti realmente per riproporli sulla scena, per usarli nella sua recitazione: è come se li mettesse in piazza agli occhi degli spettatori.

Elj esce disgustato dal teatro ed ora Donata, separata dalla vita reale, può condurre a termine la commedia con grande bravura svolgendo sulla scena una finzione dell'amore, una finzione più reale della realtà.

Donata rinuncia alla propria vita per vivere quella più reale dei suoi personaggi: la vita per l'arte è una vita esclusiva non consente altre forme di esistenza, esige una dedizione completa che avvolge l'artista nella sua superiore, disperata solitudine.

"QUANDO SI È QUALCUNO"

RAPPRESENTAZIONE IN TRE ATTI

Opera teatrale in tre atti, scritta tra settembre ed ottobre del 1932. Rappresentata per la prima volta al Teatro Odeon di Buenos Aires il 20 settembre 1933 con traduzione in spagnolo di Homero Guglielmini col titolo Cuando se es alguien.

Da Teatro.org

La prima idea di questo tardo, scarsamente conosciuto e ancora più scarsamente rappresentato dramma pirandelliano risale al 1930, quando Pirandello è a Berlino. Il Teatro d'Arte si è sciolto da poco; Pirandello vive come in esilio, patisce la solitudine e la vecchiaia che avanza. Marta Abba è lontana ed è anche il punto di riferimento dei suoi affetti e dei suoi rimpianti. L'opera nasce in questo clima di desolazione e di autocommiserazione, con una fortissima componente autobiografica.Composto di getto fra il settembre e l'ottobre del '32, Quando si è qualcuno è la storia di un amore represso fra la ventenne Veroccia e un cinquantenne poeta coronato (Qualcuno), che è però essenzialmente "autorepresso". L'autorepressione ha radici lontane in Qualcuno, affonda nel profondo della sua psicologia, ci riporta alla celebre dichiarazione pirandelliana secondo cui "la vita o la si vive o la si scrive". Lo confessa lo stesso Qualcuno in chiusura del secondo atto, allorché parla di "qualcuno a cui tutti i momenti, tutti, uno dopo l'altro, tanti, tanti, quelli di tutta una vita eran serviti per diventare appunto Qualcuno... Qualcuno che non può più vivere, cara, non può, se non per soffrirne". (Dalla prefazione di Roberto Alonge Quando si è Qualcuno ed Mondadori).

Come per Questa sera si recita a soggetto, il primo allestimento teatrale di Quando si è qualcuno non fu in italiano.

Lo spettacolo debuttò infatti in spagnolo il 20 settembre 1933 al teatro Odeon di Buenos Aires. La prima italiana, diretta dallo stesso Pirandello, fu allestita dalla Compagnia di Marta Abba e debuttò il 7 novembre 1933 al Teatro del Casino Municipale di San Remo. Da allora Quando si è qualcuno non è stato più rappresentato in teatro.

A 70 anni di distanza Massimo Castri lo metterà in scena come secondo allestimento pirandelliano del progetto del Teatro di Roma e del Teatro Biondo Stabile di Palermo.

Roberto Alonge

"Quando si è Qualcuno (e si è repressi…)"

Da danilovitale.com

Da ormai quarant'anni Pirandello fa parte, in maniera persino martellante, dei cartelloni dei teatri italiani, pubblici e privati, stabili e in-stabili. E tuttavia non c'è curiosità negli italici uomini di spettacolo (e nemmeno negli studiosi italiani, a dire il vero). Poco studiati e poco rappresentati sono infatti i testi dell'ultima stagione pirandelliana, quella che si svolge sotto la costellazione di Marta Abba, e, fra questi, a Quando si è qualcuno tocca la palma del disinteresse.

Un testo praticamente inedito per le scene, nonostante abbia la peculiarità (che in teoria dovrebbe risultare accattivante) di essere un'opera autobiografica, che in maniera scoperta (e quasi spudorata) dice l'amore di Pirandello per la sua interprete. Ho dimostrato che frasi intere di una lettera di Pirandello a Marta Abba del 1931 diventano battute di Quando si è Qualcuno, scritto nel settembre-ottobre del '32.

Come dire che Pirandello isola e mette da parte frammenti del suo epistolario d'amore che torneranno buoni per i testi teatrali ancora da scrivere. L'amore scoppia nel 1925, quando Pirandello si inventa capocomico del Teatro d'Arte di Roma, e Marta è la sua primattrice. Pirandello ha 58 anni, e Marta ne ha 25.

Da sei anni Pirandello ha chiuso in manicomio sua moglie, pazza al punto di immaginare una relazione incestuosa fra il marito e la figlia Lietta. Marta ha tre anni meno di Lietta. E' anche lei, e maggior ragione, figura filiale, e Pirandello è da sempre sotto il segno del fantasma dell'incesto, come ha mostrato genialmente Massimo Castri, sin da uno dei suoi primi spettacoli pirandelliani, sin da quel Così è (se vi pare) del 1979, che parve alla critica del tempo una provocazione inaudita, e che invece colpiva perfettamente nel segno). Certo, è curioso che nelle lettere Pirandello chiami ogni tanto Marta con l'appellativo di "figlia mia". Ed è parimenti curioso che, nell'inventare il plot di Quando si è Qualcuno, abbia bisogno di immaginare una relazione fra Qualcuno e la sorella della cognata di un suo nipote. Come dire che, in un modo o nell'altro, è sempre un pocolino di rapporto incestuoso che dà pepe alla situazione…

Amore contrastato e infelice, quello fra Pirandello e Marta, come sono sempre i legami fantasmaticamente incestuosi. Forse ci fu una notte d'amore, una sola, contrastata e infelice essa pure, nell'ottobre del '25, la misteriosa "atroce notte passata a Como", come scrive Pirandello in una lettera a Marta. Secondo Benito Orlani (che ha curato l'epistolario di Pirandello all'attrice), Marta si offrì, e fu il drammaturgo a sottrarsi. Ma all'indomani i ruoli si rovesciano: Pirandello la insegue, ed è Marta a fuggire. Per tre anni sono però costretti a stare insieme, legati all'esperienza del Teatro d'Arte, che Mussolini finanzia, ma non abbastanza da impedirne la chiusura, nel 1928. Pirandello sa bene che solo il teatro può unirli. Nel teatro è nato l'amore, e nel teatro può riavvitarsi. Marta tiene Pirandello a distanza; nelle lettere gli dà del lei, mentre lui le dà del tu.

Ma la speranza, si sa, è l'ultima a morire. Pirandello ha fatto un sogno: guadagnare con il cinema un sacco di soldi, da poter mettere in piedi una compagnia Pirandello-Abba senza più bisogno delle sovvenzioni di Mussolini.

Pirandello scriverà sceneggiature per il cinema internazionale, e forse anche Marta diventerà una stella cinematografica. Il sogno è contagioso, e Pirandello, nell'ottobre del '28, parte per Berlino (la capitale europea del cinema), portandosi dietro Marta (che si porta dietro la sorella Cele, a ogni buon conto…).

Per cinque mesi il Maestro e Marta vivono a Berlino in due stanze contigue (Marta e la sorella in una; Pirandello nell'altra), aspettando di firmare uno straccio di contratto, a conclusione di tante trattative, che però non arriva. Nel marzo del '29 Marta, frustrata, torna in Italia. Pirandello persiste nel suo sogno (che durerà fino alla morte, nel '36): sarà lui a guadagnare comunque tanti di quei soldi da poter pagare il Teatro di Marta Abba. Così Pirandello resta a vivere a Berlino; poi vivrà per un po' a Parigi.

E' il suo esilio volontario, la sua protesta contro il regime fascista, che non lo ha valorizzato sufficientemente.

Ma anche la sua protesta segreta contro Marta, che non lo vuole vicino a sé. Sta all'estero perché, in Italia, non potrebbe stare accanto a lei. Ma sta all'estero anche per riuscire ad attrarla, almeno sui tempi lunghi. Esalta l'aria libera dell'estero per affascinarla. La invita con insistenza a studiare le lingue, soprattutto l'inglese, per poter recitare sulle scene del mondo. L'Italia non merita l'arte drammaturgica di Pirandello, ma non merita nemmeno l'arte attorica di Marta Abba. Marta è partita da Berlino da un anno, e Pirandello le scrive, il 20 marzo del 1930:

"Qua pare che le cose si mettano molto bene. L'interesse per le cose mie cresce sempre più. Bisogna far grandi danari. Lavorare, lavorare… I giganti della montagna e poi un'altra diavoleria, che già mi balena… Una donna rossa, di sogno… la felicità… con un poeta, pupazzo di pezza, che ha una moglie pazza… che lo affoga in un pozzo. Staremo a vedere! La mia fantasia non è mai stata tanto fertile… Ma l'anima mia è in un'ansia terribile… come in preda a un vento che non so dove mi debba portare… Al porto della felicità? Ma quella moglie pazza… Forse la mia morte è vicina.”

E' il primo accenno che l'epistolario ci offre della genesi di Quando si è Qualcuno. Manca il titolo, ma c'è il "poeta", Qualcuno, definito "di pezza" (e nell'opera teatrale è il poeta ad autodefinirsi "fantoccio"); e c'è la "donna rossa", cioè Veroccia, che la didascalia dell'opera presenta "rossa di capelli, nasino ritto, occhi sfavillanti, tutta un fremito", chiarissina trasfigurazione di Marta, anche lei rossa di capelli. Ma si noti la definizione della commedia, "un'altra diavoleria". In una lettera del 6 aprile 1930 compare il titolo: "Ne ho pensato uno nuovo [di lavoro] che può aver per titolo Quando si è qualcuno. Cosa strana! Ho pensato il titolo in tedesco, la prima volta: Wenn man jemand ist". Ma poi, due giorni dopo, in una lettera dell'8 aprile 1930: "I giganti della montagna sono qua, a mezzo, sulla mia scrivania ingombra di carte. M'è entrato ora nella mente il diavolo di Quando si è Qualcuno…".

Ritroviamo lo stesso termine: diavoleria e diavolo, a connotare un'opera sfrontatamente autobiografica. Si rifletta sull'accenno alla "moglie pazza" della prima citazione, che non viene recepita veramente in Quando si è Qualcuno, ma che rimanda in modo del tutto trasparente alla moglie di Pirandello. Il fatto è che c'è un risvolto diabolico in Pirandello stesso, per la sua capacità di guardare dentro le caverne dell'inconscio. Lo dice lui stesso, in un'altra lettera alla Abba, da Parigi, il 27 gennaio 1931, mentre parla ancora di Quando si è Qualcuno (rimasto però sempre allo stato di abbozzo): "Io ho per mia disgrazia uno sguardo che penetra e due occhi da diavolo. Tu me li conosci bene".

Nell'intimità dell'epistolario Pirandello riesce a dire delle cose ardite, in qualche modo davvero impudiche. Per esempio già in questa del 15 aprile 1930, da Berlino, proprio nel torno di giorni in cui nasce e si solidifica l'idea di Quando si è Qualcuno: "Tutti i nemici si morderanno le dita. Il più giovane di tutti sono sempre io, sono sempre io, e finché campo il più giovane di tutti sarò sempre io, perché Dio me l'ha messa nel sangue e nel cuore e nel cervello questa eterna giovinezza VERA!". Il maiuscolo è dell'autore, e testimonia la fase di grande eccitazione del drammaturgo.

Il tema dell'artista vecchio che però è giovane lo ritroviamo pari pari nell'intreccio di Quando si è Qualcuno. Così grida il protagonista ai suoi giovani interlocutori: "Non posso essere - io - più giovine di tutti voi, e aver sentito in me ciò che in voi s'agita ancora inespresso - sentito! sentito! - tanto da esprimerlo prima di voi - e perché nuovo, altrimenti da come ho fatto finora?". E' la vicinanza del giovane partner femminile che porta allo scoperto ed esalta la dimensione giovanilistica della personalità di Qualcuno (con una ovvia trascrizione diretta del rapporto Pirandello-Abba).

Ho detto che l'idea della commedia germina nella fantasia pirandelliana già nel marzo del 1930, ma il drammaturgo si accinge a stenderla solo nel settembre-ottobre del 1932, cioè dopo che ha chiuso l'appartamento parigino (nel maggio del '32), accettando di ritornare a vivere in famiglia, a Roma, con i figli. Ritorno all'ordine; rinuncia, almeno inconscia, al sogno di vivere con Marta. Ma Pirandello fa un esame di coscienza spietato, riconosce il suo errore capitale; ritorna alla atroce notte di Como: Marta si è offerta, ed è stato lui ad avere paura (forse semplicemente paura del fantasma dell'incesto, nella misura in cui sentiva Marta come figlia-amante). Di qui lo slancio appassionato di Veroccia che urla al suo uomo: "Io che non ti mancavo? Io che m'ero data a te tutta - tutta - e tu lo sai - tu che non hai voluto, vile… - tu lo sai che m'ero data a te tutta, e non hai avuto il coraggio di prendermi, di prenderti la vita ch'io t'ho voluto dare - per te, per te che soffrivi di non averne nessuna, di non poter più nemmeno sperare di averne". Forse, davvero, Quando si è Qualcuno svela il mistero della atroce notte di Como, come ha ipotizzato Benito Ortolani.

...Qualcuno secondo Giorgio Albertazzi - 2003

Da danilovitale.com

Il "Qualcuno del titolo" è un grande scrittore, celebrato e ricelebrato, che secondo alcuni esponenti della giovane critica letteraria sarebbe ormai da imbalsamare ("un fantoccio da lasciare lì, posato a sedere davanti alla scrivania").

Ma l'amore per la giovane Veroccia (fantasma di Marta Abba?) spinge il grande scrittore a reinventarsi in un modo clamoroso, come dire che l'amore è capace di vincere sull'età, sui luoghi comuni, sul deja vu.

Il vecchio poeta diventa un giovane Werther: il plot non è tutto qui, naturalmente, ma questo è il punto di partenza essenziale.

Lui si fa da Qualcuno, Delago, per essere amato da lei (cioè si fa giovane, con il taglio di capelli, con il gioco). Poi, in seguito a un equivoco, una burla che è quasi un "giallo", ritorna Qualcuno e sa di non essere amato come tale, perchè non è persona: è un fantoccio, è un monumento, è inerzia, è mancanza di desiderio...".

"Albertazzi, lei deve fare Quando si è Qualcuno".

Questa è la frase con la quale mi accoglieva Marta Abba ogni volta che andavo a trovarla per parlare di Come tu mi vuoi, che avrei diretto nel 1967 con Anna Proclemer come protagonista.

E lei, sempre, implacabile:

"Albertazzi, lei deve fare Quando si è Qualcuno!".

All'epoca, non avevo letto il testo, per cui rispondevo genericamente che sì, forse, ci avrei pensato.

L'ho letto molto più tardi (leggere Pirandello mi costa sempre fatica, meno recitarlo), esattamente quando abbiamo deciso di metterlo in scena con la regia di Massimo Castri al Teatro di Roma, come spettacolo di chiusura a coronamento di una stagione pirandelliana del nostro Stabile, cominciata con i Quaderni di Serafino Gubbio operatore per la regia di Andrea Liberovici, circa un anno fa.

C'è chi dice che in questi ultimi tempi mi dedico troppo (Adriano, Peters) ad essere un vecchio sulla scena. Il fatto è che "Qualcuno" non è detto che sia vecchio: è celebre, osannato e "giubilato". Certo non è un ragazzo. E certo l'amore non condiviso o corrisposto in tempi diversi è, credo, uno dei temi di fondo del teatro di Pirandello. In questo caso poi, si tratta di uno struggente amore represso di un uomo maturo per una giovane e fatale creatura.

Non ho mai avuto un rapporto disinvolto con Pirandello: la forma del suo teatro, così chiusa nei punti e virgola, lineette, così scientificamente pensata, artificiosa, mi sembra un ostacolo, nel senso che le freccette vanno tutte in una direzione.

Il percorso, insomma, è obbligato. Sfuggire alla "trappola" non è facile.

Giorgio Albertazzi, Dicembre 2003

"LA FAVOLA DEL FIGLIO CAMBIATO"

FAVOLA IN TRE ATTI IN CINQUE QUADRI

RIASSUNTO

In un villaggio una donna piange la sua tragedia, le streghe le hanno rubato il figlio sostituendolo con un esserino deforme.

Una madre cieca nel suo dolore, non può vedere:

Se volete ascoltare questa favola nuova, credere a questa mia veste di povera donna; ma credete di più a questo mio pianto di madre per una sciagura per una sciagura. …Dio ci dà le pene, e Dio la forza per sopportarle.

Le amiche la confortano e la conducono da Vanna Scoma, una fattucchiera la quale assicura che il bambino si trova ben sistemato “in una casa di re” e consiglia di non cercarlo.

Passa qualche anno e gli avventori di un caffè del villaggio commentano l’arrivo di un principe, venuto in quel luogo per ritrovare la salute. Mentre gli uomini stanno discorrendo entra un giovane ottuso e deforme, chiamato Figlio di re: è il ragazzo che le streghe avevano lasciato nel villaggio.

Tra le risate generale il giovane dichiara la sua discendenza reale, ma sopraggiunge la madre che afferma di riconoscere nel principe appena arrivato il suo vero figlio.

Intanto i ministri che sono al seguito del principe commentano le cattive notizie giunte dalla corte: Il re è ammalato e il popolo è in rivolta.

Arriva Vanna Scoma e dichiara di sapere che il re è morto; il principe deve subito tornare in patria.

Il principe intanto si accorge di essere spiato dalla donna che non sa essere sua madre:

Che fai tu lì? Chi sei? Perchè mi guardi così?

Non posso dirlo.

Piangi, con occhi che ti ridono è strano; perchè?

Non posso dirlo.

Nemmeno chi sei?

Una donna di qui che aveva un tempo un figlio…

E io gli somiglio? Sento che con gli occhi guardandomi, mi tocchi come con la mano.

Invidio tua madre ch’ebbe questa fortuna.

Sopraggiunge Figlio di re che si getta contro il principe cercando di ucciderlo, ma costui riesce a evitare il colpo. Accorrono i ministri e insistono perché il principe parta e torni in patria. La donna però indica nel ragazzo deforme il vero erede al trono e il principe, stanco della vita di corte, invita i ministri ad accettare Figlio di re come loro sovrano:

Credete a me, non importa che sia questa o quella persona, importa la corona! Cangiate questa carta e vetraglia in una d’oro e di gemma di vaglia, il mantelletto in un manto , e il re da burla diventa sul serio, a cui voi v’inchinate. Non c’è bisogno d’altro, soltanto che lo crediate.

Egli resterà povero, ma felice, con la donna che lo crede suo figlio.

"NON SI SA COME"

DRAMMA IN TRE ATTI

Dramma in tre atti scritto nel 1934, ispirato dalle novelle Nel gorgo (1913), Cinci (1932) e La realtà del sogno (1914).

Ideato per essere interpretato dall'attore austriaco di origini italo-albanesi Alessandro Moissi, che però morì il 23 marzo 1935, prima della messa in scena che avvenne con la Compagnia Ruggero Ruggeri il 13 dicembre 1935 al Teatro Argentina di Roma.

da Biblioteca dei Classici Italiani

L'azione si svolge in un ambiente raffinato e lussuoso: il conte Romeo Daddi, pur innamoratissimo della moglie, improvvisamente in un attimo si è trovato a tradirla con un'amica di famiglia, Ginevra, moglie del suo più caro amico.

Si trova ora circondato da un insieme di macerie: sono stati travolti la sua volontà, il suo amore per la moglie, la sua lealtà verso l'amico.

Dove sono finiti questi princìpi e questi sentimenti?

Da dove è sorto l'impulso irrefrenabile quanto improvviso della passione accecante?

Queste domande angosciose assediano Romeo Daddi, che da questo «delitto innocente», è portato a ricordarne un altro che commise da ragazzo, uccidendo un suo coetaneo.

Riaffiora con una sconcertante precisione di particolari l'antico delitto; ma il problema per Romeo Daddi non è tanto il rimorso quanto l'investigazione torturante della ricerca della responsabilità.

Chi ha compiuto quelle azioni, se non è stato certo lui a volerle?

La scissione dell'io, entità non certo unitaria e monolitica, ritorna in questo dramma molto serrato e convincente nelle stravolte ma lucidissime argomentazioni del protagonista.

La parte animale dell'uomo, l'istinto vive una sua vita profonda assolutamente non riconducibile alla ragione, alle convenzioni, alle regole della società.

Ma per Pirandello non si può certo rimanere nell'abisso; la riemersione porta con sé il pesante fardello della responsabilità che l'uomo contemporaneo non può certo eludere.

A proposito di questo dramma Pirandello così si esprimeva in un'intervista a M. Missiroli:

« ... nel mondo morale la coscienza si risveglia come un giudice severissimo e intransigente nell'animo di chi ha infranto la legge. Il delitto appartiene alla natura, ma il momento veramente drammatico è quello della giustizia, ed è tanto più drammatico quanto più il tribunale è invisibile cioè nella coscienza ... ».

Maria Argenziano

"SOGNO (MA FORSE NO)"

COMMEDIA IN UN ATTO

Commedia in un atto unico scritta nel periodo compreso tra la fine del 1928 e l'inizio del 1929. L'11 gennaio del 1936 fu trasmessa per radio dell'EIAR (Ente Italiano Audizioni Radiofoniche). Fu rappresentata la prima volta il 22 settembre del 1931 su traduzione portoghese di Caetano de Abreu Beirão con il titolo Sonho (mas talvez nao) a Lisbona. In Italia, per la prima volta, il 10 dicembre 1937 a Genova, al Teatro "Giardino d’Italia", dalla Filodrammatica del Gruppo Universitario di Genova.

Il tema del sogno era stato già trattato da Pirandello nella novella La realtà del sogno nel 1937 ma con un'argomentazione diversa: nella novella i due ambiti del sogno e della realtà sono separati, nella commedia invece si intrecciano in modo inscindibile.

La grande influenza surrealista del periodo e alcuni temi tipici della sua drammaturgia fanno della piece un piccolo gioiello di inganni. Una moltiplicazione di piani che si intersecano e sviluppano un groviglio di verità e finzioni. I personaggi sognano accadimenti che noi scopriremo reali, ma con prospettive diverse da quelle che nella realtà succedono, tanto da lasciare anche lo spettatore nel dubbio di cosa sia realmente avvenuto e cosa il frutto di un incubo.

Una giovane signora desidera un vezzo di perle dall’amato, che con espedienti di vario genere tenta di acquistarlo, ma un amante di lei lo compra e glielo regala per primo. Questo piccolo pretesto è quanto basta per scatenare un riflesso di sensi di colpa e di verità supposte che albergano in tutte le coppie e sulle quali si architetta un carillon in cui si annida l’incapacità di comunicare e la costruzione della rappresentazione di sé che si vuole dare, che è il territorio di falsità costruite sulle quale ci si incontra.

Il testo appartiene a quella categoria di ambientazioni oniriche, tutte interne alla coppia, come Doppio sogno di Schnitzler e la sua più inquietante versione cinematografica Eyes wide shut, in cui le convenzioni sociali e i valori di una borghesia decadente mostrano il segno e cedono il passo alle inquietudini dell’uomo contemporaneo che, perse le certezze, vacilla alla ricerca di un’idea più complessa e completa di identità. I due protagonisti appaiono e scompaiono sulla scena e rincorrono come in un sogno le proprie voci che si propagano ecate in uno spazio irreale - ma sarà davvero un sogno….?

Trama

Più che l'argomento della commedia Pirandello sembra invece interessato a rendere scenograficamente sul palcoscenico l'atmosfera onirica che accompagna lo svolgersi dell'atto unico. Le annotazioni dell'autore riguardo le scene e i dialoghi sono quantitativamente maggiori, e verrebbe da dire qualitativamente migliori dal punto di vista della ricostruzione scenica, del testo vero e proprio della commedia. Si può affermare che in questa commedia Pirandello è più pittore che scrittore e la critica teatrale ha riconosciuto nella scenografia del Sogno dei veri e propri tratti espressionistici. Una giovane ed affascinante donna si sta stancando del suo amante e si sente invece nuovamente attratta da un precedente innamorato, allontanatosi ed ora tornato ricchissimo da lontani ed esotici paesi. Nel sogno, o piuttosto nell'incubo, la giovane vede se stessa strozzata dall'amante ingelosito che sulla morbida carne del suo collo traccia con le sue mani un solco livido come una sorta di collana, ben diversa da quella che la donna aveva ammirato e desiderato nella vetrina di un gioielliere. La donna si sveglia sospirando dal sollievo di essere uscita dall'incubo, quando la cameriera le porta una scatola che, mandata dal ricchissimo ex amante, contiene proprio la collana da lei tanto desiderata. Viene a visitarla l'amante geloso che le racconta di essere contrariato perché avrebbe voluto farle una sorpresa regalandole la collana di perle ma che il gioielliere l'aveva già venduta a qualcuno... La giovane fa finta di nulla e avvia un dialogo che sembra inizi a ripercorrere lo stesso tragitto del sogno (ma forse no).

"I GIGANTI DELLA MONTAGNA"

DRAMMA INCOMPIUTO IN TRE SCENE

Dramma incompiuto la cui stesura è datata intorno al 1933, anche se a quanto pare il pezzo era stato concepito, in forma embrionale, negli anni venti.

da Opere del Novecento Italiano

Al «mito» dei Giganti della montagna, rimasto incompiuto, Pirandello aveva cominciato a pensare fin dall'estate 1928, rilasciando anticipazioni alla stampa sulla nuova opera; ma solo tra il 1931 e il 1932 ne pubblicò un atto con il titolo “I Fantasmi” su due riviste, «La Nuova Antologia», e «Il Dramma».

Un secondo atto, con il titolo definitivo I giganti della montagna, apparve in «Quadrante».

Dell'ultimo atto rimane un abbozzo di «sedici righe tracciate su un mezzo foglio di carta formato commerciale».

La ricostruzione che di quest'ultimo atto incompiuto ne ha fatta il figlio Stefano, sulla base delle confessioni paterne, figura nella prima edizione del «mito» nel vol. X delle Maschere nude.

I giganti della montagna vennero rappresentati postumi il 5 giugno 1937, in occasione del Maggio Fiorentino, con la regia di Renato Simoni e l'interpretazione di Memo Benassi, Andreina Pagnani, Carlo Ninchi e Salvo Randone.

L'azione di questo «mito» dell'Arte si svolge in un «Tempo e luogo indeterminati: al limite fra la favola e la realtà».

Il Mago Cotrone, «un omone barbuto, dalla bella faccia aperta, con occhioni ridenti splendenti sereni», con in capo «un vecchio fez da turco», dimissionario dal mondo, «per il fallimento della poesia della cristianità», si è assegnata una singolare missione filantropica, quella di fornire l'alimento dei sogni a sei «scalognati», ospiti della misteriosa villa detta «La Scalogna», posta «agli orli della vita», in un'isola abbacinata dal sole.

Il personaggio di Cotrone è la replica mitica e sublimata di quello di Bombolo (anche lui con un «berretto rosso da turco» in testa), l'«apostolo» della giustizia della novella La lega disciolta, difensore degli sfruttati dall'avidità padronale.

Come il Mago, così alcuni «scalognati» sono riproposte di personaggi di precedenti testi pirandelliani.

Il Nano Quaquèo deriva dal lampionaio sciancato della novella Certi obblighi; il nome della Sgricia proviene da quello della vecchia serva di un prete della novella In corpore vili, ma a lei è attribuita una vicenda che riguarda il personaggio di un'altra novella, Lo storno e l'Angelo Centuno; Maddalena ha i tratti degradati di una figura della memoria girgentina dell'autore, già delineata in un «appunto» pirandelliano. Gli altri sono Duccio Doccia, Milordino e Mara Mara.

Cotrone offre ai suoi ospiti «una continua sborniatura celeste», inventa per loro la verità: «Tutte quelle verità che la coscienza rifiuta. Le faccio venire fuori dal segreto dei sensi».

Alla villa «La Scalogna» arrivano, pellegrini d'arte allo sbando i resti della compagnia della Contessa: Ilse, detta ancora La Contessa; Il Conte, suo marito; Diamante, la seconda Donna; Cromo, il Caratterista; Spizzi, l'Attor Giovane; Sacerdote e Lumachi.

Gli «scalognati» cercano di tenere lontano gli intrusi con sinistri effetti di luci e di suoni, «larghi fiati di luce, come lampi d'estate, accompagnati da scrosci di catene», e con apparizioni spettrali; ma Cotrone li incoraggia ad accogliere con generosità i comici sbandati.

Ilse, la Contessa, giunge esausta, «coi capelli sparsi, color di rame caldo», distesa sul carretto di fieno trascinato dall'attore Lumachi.

Di questa compagnia di teatranti, ora «affamati, randagi» il Conte s'era fatto impresario, sperperando il patrimonio per compiacere la moglie Ilse, Prima Attrice della compagnia.

Ilse è dominata da un'idea rovinosa: portare sulle scene La favola del figlio cambiato (dramma in versi di Pirandello musicato da Gian Francesco Malipiero nel 1934) che un poeta, morto suicida, ha scritto per lei.

La favola non ha incontrato il favore del pubblico e la compagnia s'è ridotta allo stremo, ma Ilse, sempre più invasata, non ha rinunciato al suo progetto.

Nelle vicinanze della villa non c'è però alcun paese che disponga di un teatro e per la notte gli attori accettano l'ospitalità di Cotrone.

Nel secondo «momento» a Ilse, rimasta nello spiazzo antistante la casa, il Mago mostra i prodigi del luogo; a un suo grido «la facciata della villa s'illumina d'una fantastica luce d'aurora», a un altro gesto appare il «languide sprazzo verde» delle lucciole.

Cotrone spiega così i fenomeni: «A noi basta immaginare e, subito le immagini si fanno vive da sé»; e propone di rappresentare fra gli «scalognati» La favola del figlio cambiato, «come un prodigio che s'appaghi di sé».

Ma la Contessa rifiuta perché l'opera del poeta, morto per lei, dovrà vivere in mezzo agli uomini.

Nel terzo «momento» la villa riserva altre magiche sorprese. In un vasto stanzone, detto «arsenale delle apparizioni» , la parete di fondo a tratti si fa trasparente visualizzando i sogni e i pensieri degli ospiti, mentre dei fantocci, abbandonati goffamente in un angolo, all'improvviso si animano dando corpo a quei sogni e a quei pensieri.

Il Mago rassicura Ilse: «Stia tranquilla, Contessa. È la villa. Si mette tutta così ogni notte da sé in musica e in sogno. E i sogni, a nostra insaputa, vivono fuori di noi».

Cotrone per aiutarla si offre di far rappresentare la Favola nel paese dei Giganti che abitano sulla vicina montagna in occasione di una grande festa di nozze.

I Giganti sono «gente d'alta e potente corporatura» dedita all'«esercizio continuo della forza» per la realizzazione di immani imprese che «non han soltanto sviluppato enormemente i loro muscoli, li hanno resi naturalmente anche duri di mente e un po' bestiali».

Non nascondendo la difficoltà del tentativo, Cotrone prova ancora a persuadere Ilse a rappresentare la Favola tra loro: «È fatta proprio per vivere qua, Contessa, in mezzo a noi che crediamo alla realtà dei fantasmi più che a quella dei corpi». E gliene vuole fornire un saggio invitandola a recitare un brano.

Ed ecco che alle prime battute dell'Attrice, attratte ed evocate dalle parole del testo, sulla scena che «s'illumina come per un tocco magico», compaiono due figure femminili del dramma che prendono a dialogare con lise, come uscite dalla fantasia del poeta. Il prodigio d'arte non basta a convincere la Contessa, e il Mago si dispone ad accompagnarla insieme con gli attori dai Giganti. A questo punto risuona potente, «fra grida quasi selvagge», il frastuono della cavalcata dei Giganti che scendono nel paese per la celebrazione delle nozze.

I muri della villa tremano, gli Attori sono atterriti.

Si conclude qui il testo compiuto da Pirandello.

Gli avvenimenti del quarto «momento» si ricavano dalla testimonianza del figlio Stefano, secondo il quale la rappresentazione della Favola avveniva davanti ai rozzi servi dei Giganti che, inferociti da uno spettacolo tanto lontano dalle loro possibilità di comprensione e di gradimento, si ribellavano aggredendo gli Attori e la Prima Attrice, il cui corpo agonizzante veniva portato via dai compagni, «spezzato come quello di un fantoccio rotto».

Con questo sacrificio doveva compiersi quella che Pirandello, in una lettera a Marta Abba, definiva «la tragedia della Poesia in questo brutale mondo moderno».

In occasione di quest'ultima ripresa Giorgio Strehler aveva annotato: «C'è un tema profondo, ricorrente, nella grande cultura greca-europea: quello dei mitici Giganti che vogliono impadronirsi del potere celeste, universale. Ma vengono sconfitti, proprio quando sembrano aver vinto. Questa radicata, inquietante presenza tocca l'ultimo Pirandello che in quest'opera incompiuta, la rappresenta nel teatro e nella poesia e la innesta dentro il tema più generale della Rappresentazione».