Settecento: Poeti preromantici



Melchiorre Cesarotti


Nacque a Padova nel 1730. Scrittore fecondissimo e fautore degli ideali illuministici, pubblicò nel 1801 l'edizione definitiva in 4 volumi delle traduzioni italiane delle poesie composte dallo scozzese James Macpherson, a partire dal 1760, sotto il falso nome di Ossian, leggendario bardo gaelico del III secolo. Diffuse in Italia la "moda ossianica", che divenne componente essenziale del preromanticismo. Alle sue traduzioni attinsero Alfieri, Monti, Foscolo e Leopardi. Morì nel 1808.


Angelo Mazza


Nacque a Parma nel 1741. Fu indirizzato dal Cesarotti allo studio dei poeti inglesi. Insegnò greco. Scrisse due volumi di poesie, nelle quali si provò nelle varie possibilità della poesia tra Sette e Ottocento. Morì nel 1817.


Giuseppe Bottoni


Originario di Siena, è noto esclusivamente per aver tradotto tra il 1771 e il 1775 le Notti di Young.


Giovanni Fantoni


Originario di Fivizzano di Lunigiana, visse tra il 1755 al 1807. Ebbe una vita molto avventurosa. Manifestò idee giacobine e democratiche, che lo portarono in carcere nel 1799. Seguì la moda di Young e di Gessner. Tentò di applicare ai versi italiani la metrica classica.


Ignazio Ciaia


Nato a Fasano, in Puglia, nel 1766. Trasferitosi a Napoli per frequentare l'università, fu contagiato dalle idee rivoluzionarie che venivano dalla Francia. Incarcerato dal 1795 al 1798, nel 1799 ebbe parte nel governo della Repubblica Partenopea. Quando questa cadde, fu impiccato (ottobre 1799). Di lui si conserva una manciata di rime di argomento patriottico e amoroso.


Diodata Saluzzo Roero


Vissuta a Torino tra il 1774 e il 1840, trasferì temi e atmosfere della poesia europea nelle forme e nei metri della poesia italiana settecentesca, attestandosi in questo modo come una degli ultimi rappresentanti della moda ossianesca.


Ambrogio Viale


Ligure, visse tra il 1770 e il 1805. Nella sua poesia combina gli influssi frugoniani con il visionarismo di Varano e il gusto ossianesco e younghiano.



MELCHIORRE CESAROTTI



I


Colma



È notte: io siedo abbandonata e sola


sul tempestoso colle: il vento freme


su la montagna, e romoreggia il rivo


giù dalle rocce, né capanna io veggo


che della pioggia mi ricovri: ahi lassa!


Che far mai deggio abbandonata e sola


sopra il colle de' venti? Luna, o luna,


spunta dalle tue nubi; uscite, o voi


astri notturni, e coll'amico lume


me conducete ove il mio amor riposa,


dalle fatiche della caccia stanco.


Parmi vederlo: l'arco suo non teso


giacegli accanto, ed i seguaci cani


gli anelano all'intorno: ed io qui sola


senza lui deggio starmi appo la rupe


dell'umido ruscel? Sussurra il vento,


freme il ruscel, né posso udir la voce


dell'amor mio. Sàlgar mio ben, che tardi


la promessa a compir? l'albero è questo,


questa è la rupe e 'l mormorante rivo.


Tu mi giurasti pur che con la notte


a me verresti: ove se' ito mai,


amor mio dolce? ah con che gioia adesso


l'ira del padre e del fratel l'orgoglio


fuggirei teco! Lungo tempo insieme


furon nemiche le famiglie nostre;


ma noi, caro, ma noi non siam nemici.


Cessa, o vento, per poco, e tu per poco


taci, o garrulo rio: lascia che s'oda


la voce mia, lascia che m'oda il mio


Sàlgar errante: o Sàlgar mio, rispondi,


chiamati Colma tua: l'albero è questo,


questa è la rupe: o mia diletta speme,


son io, son qui: perché a venir sei lento?


Ecco sorge la luna, e ripercossa


l'onda risplende; le pendici alpine


già si tingon d'azzurro, e lui non miro;


né de' suoi fidi cani odo il latrato


forier della venuta: afflitta e sola


deggio seder. Ma che vegg'io? chi sono


que' duo colà sopra quell'alta vetta?


Son forse il mio fratello e l'amor mio?


Parlate, amici miei: nissun risponde,


freddo timor l'alma mi stringe. Oimè!


Essi son morti; dalla zuffa io veggo


le spade a rosseggiar. Sàlgar, fratello,


crudeli! ah mio fratello, e perché mai


Sàlgar mio m'uccidesti? Ah Sàlgar mio,


perché m'hai dunque il mio fratello ucciso?


Cari entrambi al mio cor, che dir mai posso


degno di voi? tu fra mill'altri, o Sàlgar,


bello su la collina, e tu fra mille


terribile, o fratel, nella battaglia.


Parlate, o cari, la mia voce udite,


figli dell'amor mio: lassa! son muti;


muti per sempre, e son lor petti un gelo.


Ah per pietà dalla collina ombrosa,


ah dalla cima dell'alpestre rupe,


parlate, ombre dilette, a me parlate:


non temerò: dove n'andaste, o cari,


a riposarvi? in qual petrosa grotta


troverò i cari spirti? Alcun non m'ode;


né pur si sente una fiochetta voce


volar per l'aere, che s'affoga e sperde


fra le tempeste del ventoso colle.


Misera! io siedo nel mio duolo immersa


fra le lagrime mie, fra i miei sospiri,


ed attendo il mattino. Alzate, amici,


la mesta tomba agl'infelici estinti,


ma non la chiudan le pietose mani,


finché Colma non vien; via la mia vita


fugge qual sogno: a che restarne indietro?


Qui poserommi a' miei diletti accanto,


lungo il ruscel della sonante rupe.


Quando sul colle stenderà la notte


le negre penne, quando il vento tace


su l'erte cime, andrà 'l mio spirto errando


per l'amato aere, e dolorosamente


piangerò i miei diletti: udrà dal fondo


della capanna la lugùbre voce


il cacciator smarrito, e ad un sol tempo


e temenza e dolcezza andragli al core:


ché dolcemente la mia flebil voce


si lagnerà sopra gli estinti amici,


del paro entrambi a lo mio cor sì cari.




II


Elegia sopra un cimitero di campagna



Parte languido il giorno; odine il segno


che il cavo bronzo ammonitor del tempo


al consueto rintoccar diffonde.


Va passo passo il mugolante armento


per la piaggia avviandosi: dal solco


move all'albergo l'arator traendo


l'affaticato fianco, e lascia il mondo


alle tenebre e a me. Già scappa al guardo


gradatamente, e più e più s'infosca


la faccia della terra, e l'aer tutto


silenzio in cupa maestade ingombra.


Se non che alquanto lo interrompe un basso


ronzar d'insetti e quel che il chiuso gregge


tintinnio soporoso al sonno alletta.


E là pur anco da quell'erma torre,


ch'ellera abbarbicata ammanta e stringe,


duolsi alla luna il pensieroso gufo


di quei che al muto suo segreto asilo


d'intorno errando, osan turbare i dritti


del suo vetusto solitario regno.


Sotto le fronde di quegli olmi, all'ombra


di quel tasso funèbre, ove la zolla


in polverosi tumuli s'inalza,


e ciascun riposto in sua ristretta cella,


dormono i padri del villaggio antichi.


Voce d'augello annunziator d'albori,


auretta del mattin che incenso olezza,


queruli lai di rondinella amante,


tonar di squilla o rintronar di corno


non gli alzeran dal loro letto umìle.


Più per essi non fìa che si raccenda


il vampeggiante focolar; per essi


non più la fida affacendata moglie


discorrerà per la capanna, intesa


di scarso cibo ad apprestar ristoro.


Non correran festosi i figliuoletti


al ritorno del padre, e balbettando


vezzi indistinti aggrapperansi a prova


sul ginocchio paterno, a côrre il bacio,


della dolce famiglia invidia e gara.


Quante volte cadeo sotto i lor falci


la bionda messe! l'ostinata zolla


quante dei loro vomeri taglienti


cesse all'impronta! come lieti al campo


traean cantando gli aggiogati bovi!


come al colpir delle robuste braccia


gemeano i boschi disfrondati e ignudi!


No, della rozza villereccia gente


le pacifìche ed utili fatiche,


le domestiche gioie e 'l fato oscuro


non dispregiarlo, Ambizion superba;


né sdegni il Fasto con sorriso altero


della semplice e bassa Povertade


gli oscuri sì ma non macchiati annali.


Pari è di tutti il fato: avito ceppo


nella notte de' secoli nascoso,


pompa di gloria e di possanza, e quanto


può ricchezza ottener, donar beltade,


tutto sorprende inevitabil punto,


e ogni via dell'onor guida alla tomba.


Vano mortal, non recar loro ad onta


se su i sepolcri lor trofeo non erge


la pomposa Memoria ove per l'alte


volte dei tempii ripercossa echeggia


canora laude. Ah l'ammirato busto


o l'urna effigiata al primo albergo


può richiamar lo spirito fugace?


può risvegliar la taciturna polve


voce d'onore? o adulatrice lode


il freddo orecchio lusingar di Morte?


Ma che? negletto in questo angolo oscuro


un cor già pregno di celeste foco


forse è riposto, e qualche man possente


a regger scettro di fiorito impero


o ad avvivar l'armoniosa cetra,


rapitrice dell'anime gentili.


Sol non aprì Dottrina ai loro sguardi


il suo misterioso ampio volume


delle spoglie del Tempo altero e carco.


La freddolosa Povertade il sacro


foco ne sperse, ed inceppò dell'alma


l'agile vividissima corrente;


ché molte gemme di serena luce


disfavillanti l'oceàn rinserra


nell'ime grotte, e molti fior son nati


a vagamente colorarsi invano


non visti, e profumar l'aer solingo


di loro ambrosia genial fragranza.


Questa zolla, chi sa? forse ricopre


rustico Hamdeno, che de' patri campi


al picciolo tiranno oppose il petto.


Là forse giace inonorato, ignoto


Miltone agreste, e Cromoel poc'oltre,


cui non bruttò della sua patria il sangue.


Attrar con lingua imperiosa i plausi


d'attonito senato, ire, minacce


di tiranni sfidar, bear contrade


coi doni d'ubertà, legger negli occhi


d'intenerito popolo confuso


la grata istoria de' suoi fatti egregi


vietò la sorte a que' negletti ingegni.


Pur se basso natal rattenne il volo


delle innate virtù, represse ancora


di vizi e di misfatti il germe e l'esca.


Fortunata impotenza a lor non diede


per mezzo il sangue farsi varco al trono,


né di pietade al meschinello in faccia


chiuder le porte, né affogar le strida


di coscienza roditrice e 'l foco


dell'ingenuo pudor spegnersi in petto,


né del lusso e del fasto arder sull'are


incenso acceso all'apollinea face.


Lungi dal folle vaneggiar del volgo,


dai desiri infiniti e gare insane,


non traviâr giammai le innocue genti


dal sentier di natura, e per la cheta


della vita mortal solinga valle


tennero un corso tacito e tranquillo.


Or a guardar le fredde ignobili ossa


dall'ingiurie del ciel, qui presso eretto


di fragil terra un monumento, adorno


di rozze rime e disadatte forme,


dal molle cor del passaggero implora


picciol tributo di sospir pietoso.


I lor nomi, i lor anni, informe scritto


d'inerudita musa, all'ombre oscure


servon di fama e d'eleghi dolenti.


E sparse miri le pareti intorno


di sagrate sentenze a scolpir atte


ne' rozzi petti il gran dover di morte.


Poiché chi tutta mai cesse tranquillo


in preda a muta obblivion vorace


questa esistenza travagliosa e cara?


chi del vivido giorno i rai sereni


abbandonò senza lasciarsi addietro


un suo languente e sospiroso sguardo?


Ama posar su qualche petto amato


l'alma spirante, e i moribondi lumi


chieggono altrui qualche pietosa stilla.


Fuor della tomba ancor grida la voce


della natura, e sin nel cener freddo


degli usati desir vivon le fiamme.


Ma tu, che serbi ricordanza e cura


d'obbliati mortali e in questi versi


la lor semplice istoria altrui disveli,


che fia di te? Se in queste piagge errando,


pien d'un alto pensier che lo desvia,


qualche spirto romito al tuo conforme


chiede mai del tuo fato, in tali accenti


forse avverrà che di lanuta greggia


qualche canuto pascitor risponda:


"Spesso il vedemmo all'albeggiar del giorno


scoter le fresche rugiadose stille


con frettoloso passo, e farsi incontro


sull'erma piaggia a' primi rai del sole.


Sotto quel faggio, che in bizzarri scherzi


colle barbe girevoli serpeggia,


sdraiar soleasi trascuratamente


in sul meriggio, muto muto e fiso


lì su quell'onda che susurra e passa.


Presso quel bosco, or con sorrisi amari


già seco stesso barbottando arcani


fantastici concetti, or s'aggirava


mesto, languido, pallido; l'aresti


detto uom per doglia trasognato, o folle


per cruda sorte, o disperato amante.


Spuntò un mattin; sopra l'usato poggio,


lungo la piaggia, sotto il faggio amato


più non si scorse; altro mattin succede,


né sul rio, né sul balzo, né sul bosco


più non apparve; il terzo giorno alfine


con mesta pompa e con dovuti ufìzi


a lenti passi per la strada al tempio


lo vedemmo portar: t'accosta, e leggi


(ché ciò solo a te lice) il verso inciso


in quel sasso colà ch'è mezzo ascosto


da quel folto spineto: <Il capo stanco


qui della terra in grembo un garzon posa


alla fortuna ed alla fama ignoto.


Bella scienza la sua culla umìle


non ebbe a sdegno, e di gentile impronta


melanconia nell'anima marchiollo.


Larga avea carità, sincero il core,


largo a' suoi voti guiderdon pur anco


concesse il Cielo: alla miseria ei diede


quanto avea, una lagrima; dal Cielo


ebbe, quanto bramava, un fido amico.


I merti suoi, le sue fralezze ascose


da quel che le ricopre augusto abisso


non cercar di ritrarre: e quelli e queste


in palpitante dubitosa speme


al suo Padre, al suo Dio posano in grembo.>"



ANGELO MAZZA



I


L'idea armonica



Tu ancor nome non eri, ed ella in giro,


fra le archetipe eterne eterna idea,


per musici intervalli 'l ciel volgea


su lo stellante lucido zaffiro.


Spinte indietro da lei l'ombre spariro,


ove chiuso l'inerte orbe giacea;


le forme intanto, che natura crea,


raggiavan tocche dal vital suo spiro.


Dal numer, che non ha vita d'altronde


che da se stesso, accompagnata impose


modo a l'aere, a la terra, al foco, a l'onde.


Stati contrari e qualità compose;


al disegno di lei ciascun risponde,


tal che fûro armonia tutte le cose.




II


L'entusiasmo



Qual ignoto mi porta impeto, e dove?


son io libero spirto o a' membri affisso?


In un punto trasvolo etra ed abisso,


e la folgore accendo in mano a Giove.


Fors'è 'l sacro furor che fa sue prove


in me, quai vider già Tebro ed Ilisso,


maggior del fato che a' mortali è fisso;


maggior di lei che in su la rota move?


D'affetti intanto e di pensieri ondeggio,


in uno quasi mar che cela il lito,


e nulla fuor che vision non veggio.


Quando il confin, cui circoscrisse il dito


dell'eterno, m'arresta; e qui vagheggio


in caligin l'idea de l'infinito.



III


Alla morte



Muto chiaror di pallida lucerna


me non vedrà vegliar le notti, immoto


gli occhi pensosi in su le carte, ond'alto


fanno quaggiù rumor le scole e i sofi.


Troppo dal ver, da sapienza troppo


disviano costor; e se pur d'essi


talun ne segna il desiato calle,


è difficile, è lungo: agevol, breve


a me lo addita sapienza; seco


movo io colà, dov'ella mostra il vero.


Com'è profondo quell'azzurro, in cui


l'etere si colora, e stan librate


fiammelle innumerabili, infinite,


che non perdon scintille! oh come i suoi


cerchi rimisurando empie le nuove


falcate corna il gelido pianeta,


che tal non torna mai qual si diparte!


Dorme lo spirto di favonio, e tace


l'equabil lago, nel cui vitreo seno,


riscintillando a me, sceser le stelle.


Nebulosa caligine ricopre


quanto suolo colà stendesi a destra


dirubandolo al guardo; offresi a manca


vista di monumenti, a' quai le sponde


squallor di stagnante acqua accerchia e lambe.


Questa, che morte in suon lugubre onora,


d'umido musco e d'ellera tenace


avviticchiata torre, a cui di costa


percuoton raggi lividi di luna,


scorta si fa de le mie luci incerte.


Impresso di tristezza alto pensiero


stammi grave su l'alma, ora ch'io questi


sepolcri appresso al destin sacri, e mentre


in su quest'ossa d'onor degne io muto


l'orme leggieri, interna voce ascolto:


"Questi morti già vissero; stagione


verrà che tu che vivi andrai sotterra."


Questi tessuti di flessibil giunco


feretri da nessun nome segnati,


che interrompono il suolo, a me fan chiaro


ove giace l'inopia e la fatica.


Quelle operose lastre e in cerchio rotte


ricoprono color che senza lode


e senza infamia di natali, oscuri


vissero, e scarsa ambizion li punse.


Debile schermo da l'obblio vorace


stanno i lor nomi su le pietre incisi;


fama passavi sopra, e de gli amici,


che lor denno seguir, li rade il piede.


Quest'urne magne, che redato orgoglio


rilevò in marmo, dove l'ossa han pace


sott'archi da colonne ardue sospesi,


queste, su cui scoltura ha stanco il maglio


e lo scalpello, effigiando busti


e simulacri in lagrime, son queste


del fasto miserabile gli avanzi.


Tal de' grandi è il destin. Tromba di fama


empiere in vita, e non udirne il suono,


che lusinga per lor figli e nepoti.


Ma che! mentre pensoso io volgo il guardo


rinfoscasi la luna, apresi il suolo,


spettacolo improvviso! escono a l'aura,


respirata dai vivi, ombre vestite


de la cappa di morte, e a me rincontro


fansi pallide e languide, e ne gli occhi


stammi il vano drappello: una di tutte


suona voce: "O mortal, Morte conosci."


Qui da un tasso funèbre, onde zampilla


de gli estinti a le case atra rugiada,


odo gridar: "Bronzi, tacete il rauco


che fende il lago, funeral rimbombo;


mezza notte varcò." Rotta da un sordo


gemito cupo, di quell'arid'ossa,


che dormono là dentro esce tal voce:


"Ministra di spavento e d'orror donna


son io nel falso apprender de le genti;


io sono in lor pensier cima de' mali.


Dal timor comandate esse in mia mano


poser la falce, e paventâr poi l'opra


del van timor; folli! men siate industri


a fabbricarvi di paura i sogni,


che non vi piomberà grave sul cuore


l'amara tanto vision di morte.


Morte è cammino, che sol mette a Dio,


tranquillo asilo, inviolabil porto


contro al furor del tempestoso mondo."


Dunque a che pro l'inanimata salma


vestir di bruno ammanto, e al non suo tetto


ombrar le porte di feral cipresso,


perpetuando ad arte i pensier tristi


di chi a noi sopravvive! a che que' veli


fastosamente a terra stesi, e d'armi


e canne, ombra d'impero, e de' cavalli


grave-traenti il lugubre ferètro


la mestissima pompa, e i brun pennacchi


su la bassa cervice alto-ondeggianti?


Forse la spoglia del suo meglio vòta


sente l'onor de' mesti uffici? Forse


a lo spirto è mestier pompa di duolo?


Quale ai tapin, che dal digiun consunti


vivi sepolti stagion lunga tenne


squallidezza di carcer senza lume,


d'almo conforto il cor s'allarga e brilla


di schietta gioia, se alfin loro è dato


risalutar il caro giorno e il sole;


così tutt'alme di virtude amiche,


al fuggir di quaggiù, diletto inonda


maggior d'ogni armonia placido e puro.


Incarcerate nel terrestre fango


chiuser d'amari dì novero breve,


che al disgregarsi la di fragil ossa


e di nervi congiunti immagin, s'apre


interminato a' loro sguardi immenso


di letizia teatro: esse le piume


rapidissime levano, e inabissano


ne l'increata inenarrabil luce.



GIUSEPPE BOTTONI



DA "LE NOTTI"



Non è forse una vasta immensa tomba


il mondo istesso? È la gran madre antica


per sé sola infeconda; e quanto in essa


nasce da quanto si scompone e sface


ha l'origine sua. Quanto è de' sensi


alimento e piacer, tutto è sostanza


che più vita non ha. L'uomo si pasce


di morte spoglie altrui, come su quelle


nasce, vegeta il verme. E qual si trova


polve, che un dì delle vitali forme


rivestita non fosse? Il curvo aratro


frange degli avi nostri i tristi avanzi.


Questi fa poscia nelle altere messi


Cerere biondeggiar. Con questo dono


si rifanno da noi con varie guise


della macchina i danni. I più scoperti


strati d'ogni terren ceneri sono


degli abitanti suoi, e la sua volge


esterna spoglia il nostro globo in giro


tutta composta di color che vivi


vide l'antica età. Da noi si ride,


si festeggia da noi sulle ruine


del germe umano, ed in composta danza


più sepolte città talun calpesta.


Allor che sciolta da' suoi lacci l'alma


poggia coll'ali sue sovra le stelle,


sugge il sole da noi quanto ci resta


di nutritivo umor. Prende la terra


ciò che al nascer prestò. Preda è de' venti


quanto rimane, e ogni elemento ha dritto


sulla spoglia di noi. Dell'uom gli avanzi


spargonsi in grembo di natura, e morte


vanta ovunque vassalli e leggi e trono:


ma dell'uomo il pensier non serve a lei.


Né l'uomo sol, ma l'opre sue di morte


sentono i colpi, e muor quel marmo illustre


che vita gli rendea. Segno non resta


della tomba superba, e i regni ancora


periscono con lei. Que' vasti imperi


e di Grecia e di Roma or sono un nome,


e la scienza di noi forma di quelli


un misero epicedio. Ah morte, ah dove


mi porta il mio pensier? Stridere io sento


sovra i cardini lor le ferree porte


di quel tuo regno, ove degli astri il lume


non giunge a penetrar. Ne' vasti gorghi


scende lo sguardo, e qual di scettri e d'ostri


folla vede colà! Quante ruine,


che l'una all'altra fa coperchio e base!


Quanti incensati re sotto l'infrante


urne, credute già del veglio edace


vincitrici superbe! E quante osserva


arti sublimi, i cui vivaci allori,


la cui gloria passò! Qual vasto io veggio


scorrer d'illustri etadi ordine antico!


Scorrono informi, e quai marosi inquieti


i fantasmi di quelle; un l'altro incalza,


l'un nell'altro si perde, e in seno a quelle


di varie genti e numerose, io miro


vortice tenebroso. A me davante


passare io veggio abbandonate e triste


l'ombre de' morti eroi. Sembra che fisi


sieno a sprezzar quell'aura altera e vana


che li pasceva un dì. Lancian di volo


un guardo di pietà sovra i viventi,


che si credono saggi, e quei che ancora


d'orgoglioso splendore empion la terra.




GIOVANNI FANTONI



I


A Maurizio Solferini



Morde l'Erìdano più basso l'argine,


carezza zeffiro l'erbette tenere,


scherzando seggono sul verde margine


le nude Grazie e Venere.


Del rivo placide l'onde si frangono,


i prati vedovi di fior s'adornano,


cangiate l'attiche sorelle piangono,


le chiome al bosco tornano.


La fronte ingenua del volto pallido


di rughe spoglia, Maurizio amabile;


terror dei giovani, lascia lo squallido


flagello inesorabile.


Te lieti aspettano gli amici, splendono


d'argento candide le mense e fumano,


i vini in limpido cristallo scendono


e gorgogliando spumano.


Conca non chieggoti di malabarica


miniera lucida, preziosa figlia,


non d'aureo Malaga, non d'anni carica


iberica bottiglia.


Pochi mi bastano versi, che fingano


gl'inimitabili modi d'Orazio,


per cui le torbide cure si spingano


sul vasto mar Carpazio.


Vieni, e dimentica l'ingrate voglie;


l'etadi rapide fuggon qual raggio;


il crine cingiti di verdi foglie;


chi a tempo scherza è saggio.



II


A Giorgio Viani



Ozio agli dei chiede il nocchier per l'onde


del vasto Egeo, se il ciel fremendo imbruna,


se negra nube minacciosa asconde


gli astri e la luna.


Ozio, Viani, chiede il Medo e il Trace,


ozio il cultore dell'eoe maremme;


ma, oh Dio! non ponno comperar la pace


l'oro e le gemme.


Onor, ricchezza a dissipar non vale


gli aspri tumulti dell'umane menti


e le volanti per le regie sale


cure frementi.


A parca mensa vive senza affanno


chi cibi in vasi savonesi accoglie,


né i cheti sonni a disturbar gli vanno


sordide voglie.


Che mai cerchiamo, sconsigliati, quando


son pochi i lustri della nostra etade?


Cangiar che giova, della patria in bando,


clima e contrade?


Sale la nave, del destrier sul dorso


con noi la cura torbida si asside,


agil qual cervo e più veloce in corso


d'euro che stride.


Godi il presente, l'avvenir trascura,


soffri gl'insulti dell'avverso fato:


non puote il figlio della polve impura


esser beato.


Nei dì robusti l'Alessandro sveco


cadde, Vittorio illanguidì vecchiezza;


me oblia la morte, mentre forse è teco


tutta fierezza.


A te sorride per la spiaggia erbosa


Flora, e le messi più d'un campo aduna;


e presto in dote recherà una sposa


nuova fortuna;


lo spirto tenue del latino stile


a me la Parca consegnò benigna,


ed insegnommi a disprezzar la vile


turba maligna.



III


A Bartolommeo Boccardi



Che solo il ricco sia felice e alberghi


l'onor nell'oro, in povertà vergogna,


sogno è del volgo e dei potenti inerti


util menzogna.


Nella virtude il vero onor risiede,


e sol beato è chi d'avara sete


in cuor non arde e sa frenar l'edaci


brame indiscrete.


Placido il sonno ama le case agresti


e i poggi lieti per i fiori e l'erbe,


e le invidiate dei monarchi fugge


torri superbe;


ché per la reggia, dei custodi ad onta,


volan le cure del poter tiranne,


timide in faccia all'indifesa soglia


delle capanne.


Sprezzo, Boccardi, di rimorsi madre


inutil copia d'ambizioso argento:


libero e ricco per mediocri voglie


vivo contento,


o a me ricetto dian gli aviti lari,


o dell'amico la magion ventosa


che scuopre in seno all'ampio mar l'alpestre


Cirno nevosa,


o il frigid'Equi e di feraci ulivi


gli audeni colli densamente bruni,


o il curvo lido che flagella inquieta


l'onda di Luni.


La mia pietade è cara al cielo, ai figli


del nobil fango la mia musa è cara:


musa d'inganno e di viltà nemica,


di lode avara:


cinta di quercia il lungo crin s'appoggia


su l'arpa, avvezza a trionfar degli anni,


applaude al merto, ama la plebe oppressa,


odia i tiranni.



IV


Su lo stato d'Europa nel 1787



Cadde Vergennes; del germano impero


l'eroe vecchiezza nella tomba spinse;


Pace smarrita coprì il volto, e cinse


Marte il cimiero.


Rise Discordia; non chiamato auriga


saltò sul carro apportator di guerra,


e con un guardo misurò la terra


dalla quadriga.


"All'armi, all'armi!" con sembiante orrendo


gridò sferzando i corridor fuggenti;


"All'armi, all'armi!" replicâr le genti


stolte fremendo.


D'allor, percossa da maligna sorte,


par che di sdegno tutta Europa avvampi;


spira sui mesti abbandonati campi


aura di morte.


Tinge di tema l'avvilita faccia,


scherno del Prusso, il Batavo discorde,


le labbra il Franco per vergogna morde,


l'Anglo minaccia.


Scende il Sabaudo, a nuovi acquisti intento,


sul contrastato rustico confine;


cinta d'olivo ancor Liguria il crine,


corre al cimento.


Guata la Grecia, e nuove schiere appresta


l'adriaca donna all'auspurghese invito,


mentre di Libia fulminando il lito


l'ire ridesta.


Gli antichi duci sul Tibisco aduna


dell'Istro il forte e i gran pensieri occulta;


dal freddo Ponto Caterina insulta


l'odrisia luna.


Impugna l'asta e alfin prorompe, all'onte


fremendo, il Trace al minacciato danno;


le bende al molle oriental tiranno


tremano in fronte.


Per pochi lustri ancor duci e tutori,


re dell'oppressa umanità che langue,


dal crin togliete, di paterno sangue


lordi, gli allori.


Ma, aimè, d'estinti la campagna è piena!


Veggo chi spira, e chi rivolto al cielo...


Musa, ricopri di pietoso velo


l'orrida scena.



IGNAZIO CIAIA



È notte alfine: la diurna scena


d'orror più grato ricoperta io miro,


e alfin qui solo sulla mia catena


seggo e respiro.


Ombre di pace, e tu dell'ombre, o muto


padre, o Silenzio, di una miser'alma


sia questo canto a voi dolce tributo,


dolce a me calma.


Aura serena che dal monte spiri


e il crin m'agiti e passi, oh! sul mio duolo


fermati; non faran pochi sospiri


tardo il tuo volo.


Qual noto suono di percossa sponda


vien di là, dove il colle in mar declina?


Ahi! forse è il lido amato, e forse è l'onda


di Mergellina.


Fiamma in minute fiaccole distinta


sulla città soggetta al guardo è duce;


ma, oh Dio! forse le larve accesa e tinta


han quella luce.


Forse col sangue chi di sangue vive


nuove registra vittime innocenti;


e il pallor nota, segna i detti e scrive


anco i lamenti.


Madre, tu chiudi in dolce pace il ciglio!


Sposa, tu dormi ed ami!... Ah, in questo istante


forse a te cruda mano invola il figlio,


e a te l'amante!


O notte, l'ali più funeste e gravi


su questa parte della terrea mole


deh! stendi, come allor quando regnavi


senza del sole.


Parlò già Gallia col tonante editto


e vita e pace e libertà ne manda.


Deh! t'alza, o Scozia, al gran vessillo invitto,


alzati Irlanda.


Sidney, Sidney, tu dall'orror dell'urna


parla, deh! parla alla tua patria ingrata:


svegliala, e in seno a lei corri notturna


ombra placata.


D'Ossian l'arpa dov'è? Guerrier cantore,


squarcia alla nube tua l'atre gramaglie.


Virtù già cerca d'uniforme ardore


inni e battaglie.


Gallia, chi t'ama di catene è cinto:


già l'urna e il ferro la vendetta chiama;


Gallia, t'affretta: se più tardi, estinto


vedrai chi t'ama.


Ma da quest'ossa s'udrà suono ognora


plauder cogli anni al tuo destin felice:


Orfeo fu spento, e la sua voce ancora


chiama Euridice.


Addio, Gallia, tu vivi e saggia imperi,


e me ognor di tue glorie infiammi e pasci;


ma pria che varchin l'Alpi i tuoi guerrieri


guarda chi lasci.


Ma, oh Dio! nel sen qual fremito si estolle?


Qual pallid'alba dal Vesevo appare?


Salve, o luna, tu sei: mostrati al colle,


mostrati al mare.


Adduci a me la sospirata pace;


vieni augurio felice al mio dolore,


vieni, e cortese di un languor che piace


scendimi al core.


E mentre io poso alla caverna in seno,


tu per conforto della mia costanza


pingimi, o luna, i dolci sogni almeno


della speranza.



DIODATA SALUZZO ROERO



LE ROVINE



Ombre degli avi, per la notte tacita,


al raggio estivo di cadente luna,


v'odo fra' sassi diroccati fremere,


che il tempo aduna.


Incerte l'orme, nella vasta ed arida


strada segnata dall'età funesta,


tremante affretto; ché dei prischi secoli


l'orror sol resta.


Eccomi al varco: non più altero scopresi,


vana difesa della patria sede,


il fatal ponte, né alle trombe armigere


alzar si vede.


Ahi vaste sale! qui gli eroi che furono


stavan seduti della mensa in giro;


del trovatore qui su cetra armonica


s'udia sospiro.


Qui sconosciuta la trilustre vergine


ignota ai prodi sen vivea secura,


e sol ne' sogni palpitava l'anima


vivace e pura.


Qui al suon dell'armi, che laggiù squillavano,


in aureo manto la consorte antica


forte vestiva al forte duce impavido


elmo e lorica.


Ancor mi sembra udir sommesso piangere


fanciul, che l'elsa stringere volea


con debil mano, al ferro altrui terribile;


e nol potea.


Bambin minor d'un lustro egli qual siedasi


sul duro scudo rimirar qui parmi,


mentre le fanciulline i lacci intricano,


che annodan l'armi.


Il forte scudo verginella immobile


mirando andava, pien di fiori il grembo,


e lasciavasi i fiori in fervid'estasi


cadere a nembo.


Coprian lo scudo ed il bambin, che ingenuo


ridea tra' fiori e l'armi in dubbia sorte.


L'uom così ride sul sentier suo labile


fra scherzi e morte.


Salve, o sacra rovina. Ah! perché rapido


non diemmi il fato in quella età la vita?


La magna età ben si doveva ai palpiti


dell'alma ardita.


Nella mia destra d'Alighier la cetera


suonato avrebbe sui vetusti eventi.


Or soli a me giù dalla valle ombrifera


fan eco i venti:


giù dalla valle, ove, chi sa? s'udirono


due fratei d'armi ragionar d'amore,


strette le palme fra curvati salici


sul primo albore;


giù dalla valle, ove a tenzoni nobili


spinsero entrambi il corridor veloce,


l'un dell'altro scudiero e scudo ed anima,


e fama e voce.


Salve, o sacra rovina; io seguo, e schiudonsi


innanzi al lento e traviato passo


le doppie torri; io meditando siedomi


sul duro sasso.


Oh! come brune l'alte cime incurvansi


de' larghi muri, ove penètra appena


di luna un raggio, che la dubbia e pallida


luce qui mena.


Perché ferrate le finestre altissime,


ed è merlata la superba torre?


No, non qui 'l prode la lorica armigera


solea deporre.


Qui forse, mentre un molle riso ingenuo


la verginella in dolce sogno apria,


al bel raggio di luna, occulta e perfida,


l'oste venia.


Forse da quelle alte finestre videsi


entrar talvolta del castello avverso


il reo signor, all'empie smanie vindici


d'ira converso.


Forse qui stretto il suo pugnal, lentissimo


moveva il passo fra tacenti squadre,


e ai fanciullini sul materno talamo


svenava il padre.


E forse, ahimè! sulla sua cetra eburnea


il trovatore dell'età passata


lodò gl'iniqui, se con lor sedevasi


a mensa aurata.


Fors'anco in mezzo a quegli acerbi e bellici


costumi indegni, in ricca treccia e bionda


la rea consorte d'empie fiamme ardevasi


invereconda.


Qui sparse qui le disperate lagrime


furor geloso, d'ogni cuor tiranno;


quai furo i tradimenti, i colpi, i gemiti,


que' muri il sanno.


Pensier funesto, in me chi mai ridèstati?


Fuggiam dalle fatali alte rovine.


Raggio di notte, tu la via rischiarami


fra sassi e spine.


Tutte l'età di variate furono


vicende ignote spettatrici alterne:


fra stessi affetti le stess'opre sorgono


girando eterne.


Sol l'alma ardente, che d'intorno cercasi


invan la pace e le virtù soavi,


in un pensier d'amor tutte rivestene


l'ombre degli avi.


Addio, sacre rovine; allor che polvere


di voi non resti, gli obelischi e gli archi,


opra di noi, di questa polve andrannosi


pel tempo carchi.


E forse andranno vaneggiando i posteri


sul secol nostro lezioso e rio.


Il disinganno io m'ebbi, ombre terribili,


rovine, addio.



AMBROGIO VIALE



I



O mia sensibil troppo anima ardente,


che da te stessa ti divori e struggi,


e del dolor sino alla feccia suggi


l'inesauribil calice rovente,


perché del bene dell'umana gente


lasci che un van desio t'accupi e aduggi?


Dall'aspetto di lei perché non fuggi


in nude rocche, in balzo ermo e tacente?


Perché non cacci o non affoghi in culla


i laceranti affetti, ond'ha radice


l'ambascia che ti strazia e ti tormenta?


Ahimè che dove il cor soverchio senta,


ragion non vale! O anima infelice,


era pur meglio il non uscir dal nulla!



II


Per gentil donna che cantava di notte



O della notte bruna amabil figlia,


dolce, dolce è il tuo canto: a seducente


di passato piacer membranza ardente,


che attrista insieme e piace, egli somiglia.


Tal, pria che torni in ciel l'alba vermiglia,


il solitario passero dolente


per la mia rupe lusinghevolmente


i modi flebilissimi ripiglia.


Ah! segui dunque, segui il bel concento:


ei caccia il duolo, che mi preme tanto,


qual dense nebbie fuga alpino vento.


Nell'alma mia sconvolta egli raguna


mille soavi idee: dolce è il tuo canto,


amabil figlia della notte bruna.