CLASSICI DELLA FILOSOFIA
COLLEZIONE DIRETTA DA
NICOLA ABBAGNANO
SCETTICI
ANTICHI
A cura di
ANTONIO RUSSO
UNIONE TIPOGRAFICO-EDITRICE TORINESE
© De Agostini Libri S.p.A. - Novara 2013
INDICE DEL VOLUME
Introduzione
Nota bibliografica
PIRRONE
TIMONE
LA CRISI
DELL’ACCADEMIA ANTICA
ARCESILAO
LACIDE
CARNEADE
CLITOMACO
FILONE DI LARISSA
ANTIOCO DI ASCALONA
GLI ACADEMICA DI CICERONE
ENESIDEMO
AGRIPPA
FAVORINO
SCETTICISMO E MEDICINA
INTRODUZIONE
Ai carissimi “dommatici“
Aurelio Petroni e Carlo Aliberti
1. Attualità dello scetticismo greco. – 2. Linguaggio e costume
scettici. – 3. La tragedia teoretica della scepsi antica. – 4.
Dialettica scettica. – 5. Epistemologia scettica. – 6.
Rivoluzionarismo scettico. – 7. Difficoltà di lavoro sulle
testimonianze scettiche e criteri della presente raccolta. – 8.
Caratteristiche della presente traduzione. – 9. Breve quadro storico
dello scetticismo antico nelle sue linee generali.
1. Il contributo che lo scetticismo – tanto nella sua facies antica
quanto in quella moderna e contemporanea – ha dato al pensiero
filosofico suscita vivissimo interesse nella cultura del nostro
tempo. L’uomo di oggi, infatti, in maniera singolarmente
contraddittoria è partecipe di conoscenze, di creazioni e di
soluzioni che lo colmano di sicurezza e di orgoglio e, nello stesso
tempo, è disincantatamente consapevole dei limiti, delle
infondatezze e della precarietà del suo sapere e della sua stessa
esistenza e soffre della provvisorietà e del rapido superamento di
tante soluzioni e risposte che solo ieri gli sembravano definitive.
Il bisogno di rimettere tutto in discussione, di rimescolare
continuamente le carte del pensiero e dell’azione, di ritornare a
ricercare e ad indagare rimuovendo da sé la gioia passeggera
dell’εϑρηϰα e respingendo generosamente la piatta serenità
dell’ignava ratio, i risvolti di vario genere – affettivi, morali,
economici, politici, sociali – derivanti dallo storicismo, che pur
crede di aver trovato il bandolo dell’intricata matassa e poi,
mostrando certe sue miserie, ora accetta deterministicamente tutto
ciò che il dio-storia gli offre ed ora vuole tutto capovolgere, le
stesse drastiche opzioni fatte per non più logorarsi nell’incertezza
e le stesse posizioni prammaticamente assunte nell’illusione di aver
trovato il modo di controllare le fughe del puro pensiero, sono
tutti sintomi palesi di una scepsi che ora stimola ed ora paralizza,
ora ci affranca da errori, da miti e da pregiudizi ed ora, invece,
ci lascia in balia del nulla e della disperazione.
L’umana tendenza alla scepsi, che si era già profilata molto prima
di Pirrone di Elide e che non finirà con Husserl, sembra quasi
menarci a concludere – come oltre mezzo secolo fa ebbe a scrivere
Bertrand Russell nei suoi Saggi scettici – che la logica «dovrebbe
essere insegnata nelle scuole allo scopo di insegnare agli uomini a
non ragionare, giacché, se essi ragionano, ragionano quasi
certamente in maniera sbagliata». E col passare del tempo la
scaltrezza scettica, rifacendosi – anche senza saperlo – all’antico
Metrodoro di Chio, il quale affermava che noi non sappiamo lo stesso
nostro non-sapere, ci va imponendo – come afferma ancora il
matematico-filosofo inglese – di «essere scettici persino nei
confronti del nostro scetticismo» e di opporre la nostra «volontà di
dubitare» alla dommatizzante e prammatistica «volontà di credere».
Ma, in tal modo, il dubbio e l’epochè pervengono a pretese
abbastanza esagerate: l’atteggiamento dello scienziato o del
filosofo quanto più è sottoposto al dubbio tanto più aspira a
mutarsi in quella dubbiosità razionale che, in contrasto con
l’irrazionale certezza, «se potesse essere generata – osserva
Russell – basterebbe ad inaugurare l’età dell’oro».
Così si demitizza per mitizzare daccapo, e la scepsi – nel proporre
le sue incessanti aporie – ci rende (almeno è questo il nostro
augurio) criticamente creativi!
Nella sua ricca storia lo scetticismo – attraverso una serie di
pensatori che vanno da Pirrone a Husserl – non si limita a suscitare
dubbi e perplessità, ma intende anche trovare, precisare e persino
imporre le proprie «categorie», rinsaldare ed emendare la propria
«metodologia», quando addirittura non si è spinto a costituire,
scandalosamente, un vero e proprio «sistema». Tuttavia il sottofondo
etico-speculativo dello scetticismo è rimasto identico attraverso i
millenni, quantunque gli strumenti di lavoro e le «tecniche»
cogitative degli Scettici abbiano subìto metamorfosi e vicissitudini
notevolissime non solo tra un’epoca e un’altra, ma persino nel breve
spazio di una generazione, come si può riscontrare tanto nel nostro
secolo quanto da un attento studio di una singola fase della scepsi
ellenica.
Un quadro storico-evolutivo dello scetticismo potrebbe – col solito
rischio delle schematizzazioni – assumere grosso modo l’aspetto di
un trittico: la prima fase sarebbe quella classico-greca, che si
estenderebbe per oltre mezzo millennio dall’età di Pirrone a quella
di Sesto Empirico; la seconda sarebbe quella classico-moderna, che
si estenderebbe per oltre trecento anni dalla crisi della civiltà
rinascimentale e da Montaigne fino alla problematica post-kantiana;
la terza, che è quella in cui stiamo vivendo, avrebbe inizio con la
crisi dell’idealismo moderno e dello scientismo positivistico,
troverebbe motivi di sviluppo nelle contraddizioni immanenti a varie
ideologie dommatiche spesso molto ben mascherate — esistenzialismo,
fenomenologia, marxismo e vari altri indirizzi prammatici o
epistemologici – e continuerebbe ad operare di giorno in giorno,
senza appagarsi ancora – per la sua stessa vitalità – di una sintesi
storica. E quest’ultima fase va promuovendo, ad ogni piè sospinto e
con tonalità diverse, la finale defenestrazione degli «ultimi
residui» della metafisica, degli «universali», dei «valori eterni»,
ma nello stesso tempo – come se non lo sapesse – favorisce certe
nuove assunzioni di metafisiche, di universali e di valori, magari a
titolo di operai provvisori e con lo spregiudicato proposito di
licenziarli senza preavviso quando avranno espletato il loro
servizio, senza però avvedersi che a questi lavoratori, astutamente
sfruttati, bisognerà pagare almeno il giusto salario per la preziosa
opera da loro prestata.
Notevoli sono le differenze che contraddistinguono le tre grandi
fasi storiche della scepsi. Da una parte sembra che, col corso del
tempo, lo scetticismo sia andato assumendo posizioni sempre più
radicali ed abbia esteso l’epochè anche a ciò che prima era rimasto
inconcusso o era stato messo in bilico soltanto di straforo;
dall’altra parte, però, la crescente radicalizzazione scettica
presenta, come contropartita, non pochi risvolti dommatici che nelle
fasi precedenti o erano stati del tutto assenti o si erano
presentati soltanto di straforo. Così, ad esempio, gli Scettici
dell’età humiana erano generalmente d’accordo nel respingere la
«disperazione pirroniana» e, mentre vibravano all’oggettività della
natura un colpo che era mancato agli Scettici greci, lasciavano –
allo stesso Hume già prima che a Kant – una preziosa eredità di
ordine costruttivamente scientifico. E il filosofo scozzese – come è
stato ben rilevato dal nostro Dal Pra – nella sua concezione di una
«scienza della natura umana» sosteneva che lo spirito riesce a
conservare sempre un certo grado di certezza e che l’istinto arresta
la forza distruttiva del pirronismo e salva la ragione dallo scacco
finale. Indulgente verso il probabilismo del vecchio Carneade fino
al punto da affermare che ogni conoscenza si risolve in probabilità,
Hume, che pur doveva tanto agli Scettici antichi e persino a
Cicerone, sosteneva che il loro scetticismo «totale» era una «mera
curiosità», lo chiamava «gioco pirroniano» e gli contrapponeva una
scepsi moderata e controllata. La scepsi del nostro tempo, infine,
sviluppatasi sulla «crisi delle scienze», nel sostenere che il
pensiero moderno non ha saputo spingere a fondo il suo originale
radicalismo, trova il proprio epicentro – come ha dichiarato Husserl
– nell’«ego dell’epochè», quale «principio vitale del ϑαυμάζειν
filosofico». Così la scepsi fenomenologizzante del nostro tempo ha
avuto maggiori rapporti simpatetici con Cartesio e con Kant che non
con Pirrone, con Carneade o con lo stesso Hume.
La diafonia, che con grande soddisfazione gli Scettici antichi
rilevavano nelle svariate costruzioni dommatiche, è divenuta
anch’essa un vitale e drammatico privilegio degli Scettici, e la
stessa terminologia scettica – che costituisce l’onore e il vanto di
quegli acuti creatori di linguaggio che furono i Greci – ha trovato
un’applicazione sorprendentemente ricca di contraddizioni ed aspetta
ancora lo studioso di filologia moderna che ne faccia l’analisi con
la stessa diligenza metodologica con cui la filologia classica ha
lavorato su un solo pensatore dell’antichità. Una filologia seria e
non pretensiosa che intendesse orientarsi nel ginepraio della scepsi
contemporanea con la stessa sobrietà e con la modestia con cui sta
lavorando da decenni un Karel Janáček sui testi greci farebbe anche
un’eccellente opera di ricostruzione e di chiarificazione
filosofica.
Senza negare minimamente l’originalità della scepsi del nostro
tempo, anzi per premunirla dal rischio fin troppo facile di sfondare
porte aperte, ci sembra che vada sottoposta alla nostra attenzione
la straordinaria articolazione della scepsi antica. E se lo
scetticismo è un momento ineliminabile nella vita dell’uomo (persino
Cristo dubitò e si sentì abbandonato dal Padre), noi, anche per
quanto concerne questo prezioso e contraddittorio lato della nostra
esistenza e del nostro pensiero, «con i Greci ci sentiamo a casa
nostra», come affermava lo Hegel per la filosofia in generale. E la
triade hegeliana di Stoicismo, Scetticismo e Coscienza Infelice può
indubbiamente costituire una falsariga pericolosa per eventuali
schematizzazioni ed esasperazioni dialettiche, ma ha l’indiscutibile
merito di avere imposto alla nostra attenzione l’attualità dello
Scetticismo greco e di aver dato, in modo concreto e dinamico, la
prima e, forse, la più profonda spiegazione di uno degli aspetti più
delicati e suggestivi del pensiero umano.
2. Il linguaggio filosofico con cui noi ci esprimiamo sarebbe monco
se ne escludessimo tutte le parole e le espressioni che gli sono
state donate dallo Scetticismo greco con le accezioni e le
significanze che, pur nella vasta Entwicklung storica, sono rimaste,
nella loro essenza, salde come pietre miliari. Anche se quasi tutti
quei termini – come la diligenza degli studiosi ha dimostrato –
avevano già una loro storia presso più antichi indirizzi filosofici,
furono gli Scettici a dar loro una fissazione logico-speculativa e
una risonanza etico-affettiva destinate a conservarsi costanti pur
nella mobilità viva delle applicazioni. Parole come afasia,
adiaforia, apatia e metropatia, atarassia, aporia, epochè,
acatalessia, antilogia, probabilità, verosimiglianza, isostenia,
diafonia, tropo, epilogismo, cause procatartiche e, finanche,
«fenomeno» sottintendono tutto un lavorio del pensiero che si è reso
sempre più padrone delle proprie strutture e che assiduamente ha
creato un castello di problemi e di incertezze non meno ricco ed
articolato dei diversi castelli fabbricati dai Dommatici. Se,
inoltre, a questa terminologia aggiungiamo il ricco contributo che
gli Scettici seppero desumere dalla Medicina Empirica nell’ultima
fase della loro storia, riscontriamo già in parole ed espressioni
come autopsia, istoria, passaggio del simile, descrizione,
distinzione (διαστολή) e così via, la presenza di un metodo di
indagine sperimentale che ha una sua logica e una sua validità
embrionalmente moderne, quantunque la nostra prudenza critica non
sia disposta a troppo facili entusiasmi.
Questi termini non sono tanti atomi tra loro dissociati, ma trovano
una saldatura e costituiscono quasi un’organica costellazione ad
opera di ciò che Sesto Empirico chiamava «costume scettico», ossia
ad opera di uno stato di coscienza, di un comportamento e di un
atteggiamento che distinguono inconfondibilmente chi fa professione
di scetticismo da ogni altro pensatore. Il dissidio tra teoria e
pratica, che già gli antichi oppositori dello Scetticismo mettevano
in evidenza per dimostrare l’inconsistenza delle posizioni
drasticamente epochizzanti. non poteva sfuggire all’acume degli
Scettici stessi. Costoro non solo vivevano e continuavano la loro
mortale esistenza al pari degli altri uomini, ma nelle loro dottrine
esprimevano quel loro costume che, come avrebbe detto Eraclito, è
«per l’uomo il demone». Mitezza e tolleranza, individualistico
riserbo e disposizione moderatamente filantropica, nonostante la
professione volontaristica dell’indifferentismo, risultano quasi i
contrassegni costanti del «costume scettico», e questi contrassegni
non sono affatto avulsi dalle posizioni teoriche, ma talora ne
costituiscono il fondamento e la guida, talora la risultanza. Mentre
noi pensiamo che la vita stessa è una smentita dello scetticismo, lo
Scettico greco non solo viveva il suo scetticismo, ma anche la sua
vita: perciò commettiamo errore di valutazione critica noi moderni,
quando pretendiamo di sovrapporre alla Weltanschauung
scettico-antica o il nostro intramontabile teoreticismo o certe
ermeneutiche prammatistiche che con troppa facilità sembrano aprire
tutte le porte.
Le nostre simpatie ideologiche possono provocare in noi un errore
analogo a quello che Sesto rimproverava ad Enesidemo quando diceva
che secondo costui «lo Scetticismo era una via verso l’Eraclitismo».
Anche noi, infatti, abbiamo visto nell’indagine scettica una via o
verso il pensiero cristiano o verso l’idealismo dialettico o verso
la filosofia della prassi o verso la fenomenologia intuitiva o
empirica. Così facendo abbiamo fatto violenza ai poveri e miti
Scettici antichi e, nella nostra voglia di utilizzarli ad ogni
costo, abbiamo sacrificato le loro reali dimensioni, con sommo
scandalo dei puri filologi.
Questo nostro bisogno di dialettizzare e di utilizzare lo
scetticismo a nostro uso e consumo ha quasi la stessa diffusione del
vecchio luogo comune secondo il quale tutto il tormento teoretico
degli Scettici rivela la propria inconsistenza quando si devono fare
i conti con la prassi: se Cicerone fosse stato scettico davvero, non
avrebbe né disoccultato né dissolto la congiura di Catilina! In
realtà, però, la «prassi» scettica, intesa come costume, ha molte
coincidenze con la tragedia teoretica: essa le dà umana consistenza,
porge i contenuti reali alle articolazioni del pensiero, evitandogli
di disperdersi, come esso è tentato a fare, nelle schermaglie
eristiche e vivendone la catastrofe e la catarsi.
Lo Scettico antico, che è ben lungi dal proclamare un primato della
ragion pratica, è fornito di una sua etica che, con fermezza e
talora con pervicacia, riesce a sussistere ed a persistere, mentre
si va svolgendo il dissidio della ragione. Il costume scettico,
insomma, partecipa intensamente dell’agnosticismo del pensiero.
Epoché ed atarassia si scambiano spesso le parti di fine e di mezzo,
si determinano quasi reciprocamente: l’una è già presente nell’altra
con una sorta di sintesi teoretico-pratica che lascia delusi noi, ma
non l’antico pensatore scettico.
Di qui venne fuori il carattere salutifero di cui lo Scetticismo
ebbe consapevolezza già con Pirrone di Elide, di qui l’accostamento
scettico-accademico dell’opera liberatoria di Carneade ad una vera e
propria fatica di Ercole, di qui certi bagliori mistici che sembrano
ma non sono affatto strani soprattutto in una scepsi che non
sottovaluta la suggestione dei ricordi platonici, di qui la stessa
convergenza di scetticismo e medicina come terapia materiale e
spirituale dell’uomo.
3. Lo scetticismo dei Greci ha in sé un ritmo e una compostezza che
furono una singolare costante della civiltà di quel popolo. Qualcosa
di apollineo aleggia in quel bisogno scettico di astenersi dal
penetrare nelle cose non-evidenti, nell’arcano abisso degli ἄδηλα,
nel goethiano «regno delle madri». Ma al di sotto di quel ritmo e di
quella compostezza si agita lo stimolo dionisiaco, come era già
accaduto nell’età di Sofocle. L’imperturbabile serenità di Pirrone,
il sale attico dell’Accademia spesso molto ben assaggiato anche da
Cicerone, la vivacità arguta di quel Sesto Empirico che fu dotato di
uno spiccatissimo senso dell’humour e dell’ironia sono doti
spirituali che riescono a dare un classico panneggio al dramma che
si svolge nella storia dello Scetticismo greco.
E questo Scetticismo è soprattutto una tragedia teoretica.
La collisione è gnoseologica. Ed a soffrirla è il soggetto, che
subisce certe affezioni da parte di un qualcosa che gli è estraneo,
da un qualcosa che gli «appare» con evidenza e che poi si nasconde;
il soggetto vuole penetrare quell’apparenza, si rende conto che essa
non può essere solo un’illusione o un’allucinazione, ma ogni suo
tentativo di penetrazione lo lascia impotente. Il πάϑος c’è ed è
reale; anche la visione è innegabile; ma la loro scaturigine rimane
occulta. Forse tutto si sta svolgendo dentro di lui? Ma la risposta
è anche qui negativa: se all’infelice Oreste la sorella Elettra
appare come un’Erinni ed egli la scaccia da sé, c’è pur sempre un
qualcosa che gli appare, che si muove, che egli confonde, nella sua
follia, con un’Erinni.
Al di fuori del soggetto c’è un’incognita, c’è un quid che a modo
suo esiste, ma di cui ci sfugge l’essenza. Mai con chiarezza di
intenti o con consapevolezza lo scettico greco osa spingersi alla
negazione dell’esistenza di una φύσις. Se egli negasse o
soggettivizzasse questa datità esistenziale avrebbe di già risposto,
in un certo qual modo, alle sue perplessità, come ha fatto lo
scetticismo moderno. Ma lo Scettico antico rimane, in fondo, un
naturalista al pari degli aborriti Dommatici. La natura sta lì, di
fronte a lui, impenetrabile ed arcana. Tanti filosofi hanno fatto un
vano lavoro di Sisifo per sviscerarne il segreto, come l’eroe
tragico ha tentato vanamente di afferrare la volontà del destino, di
prendere il fato per la gola e di sconfiggerlo con la propria
energia morale. Temerariamente essi hanno creduto di aver vinto, ma
hanno solo edificato fantomatici castelli di opinioni
contraddittorie. Lo Scettico non intende imperversare contro
l’impegno di questi pensatori né deridere la loro costanza
indagativa, giacché anche lui è un ricercatore. Egli vuole solo
colpire la loro sicumera, la loro confusione di «opinione» e
«scienza», di arbitrio e necessità. Il Dommatico dice: «La natura
esiste e la sua essenza è, finalmente, questa». Lo Scettico, nello
sfoderare le proprie argomentazioni contro siffatta scoperta,
risponde che l’essenza non è affatto quella che dice il Dommatico,
ma non giunge mai alla conclusione drastica: «Epperò la natura non
esiste affatto» e tanto meno egli ha l’ardire prometeicamente
moderno di asserire: «Epperò la natura è una mia proiezione o
un’umana costruzione».
Fondamentalmente naturalista al pari del Dommatico, lo Scettico
gioca sul medesimo terreno dell’avversario e non presume che si
possa giocare anche altrove. Il Dommatico spiana a modo suo quel
terreno, è convinto di averlo ben conosciuto, vi scorge una legge,
sia essa meccanicistica o teleologistica. Lo Scettico, invece,
studia quel terreno nelle sue manifestazioni, ma, non appena si
inoltra al di là di queste, si avvede che tutto gli sfugge. Egli,
allora, procede con tutta la serie sconfortante ed eroica delle sue
negazioni e delle sue aporie.
Le sue negazioni colpiscono concetti fisico-metafisici come
l’esistenza e l’essenza del divino, della causa, del tempo, del
luogo, del corpo, del pensiero, del numero, del nascere e del
perire, ma non arrivano mai a demolire l’esistenza di una φύσις:
questa esiste innegabilmente, anche se noi ne ignoriamo l’essenza.
Quando il dommatico Parmenide aveva identificato la natura con
l’essere «uno, immobile ed immutabile», era stato, molto prima dei
Pirroniani, più violento di loro nei riguardi di essa, ed i «fisici»
pluralisti ne furono ben presto consapevoli e, dopo qualche secolo,
Aristotele affermò che Parmenide aveva «soppresso d’un sol colpo
l’intera natura» e le corse in aiuto, da fedele erede della
tradizione ionica, con un’espressione che sembra avere implicanze
protagoreoscettiche: σῶζειν τά φαινóμενα! Ma salvare i fenomeni non
vuol dire affatto dare ragione a Protagora e al suo fenomenismo che
affermava la coesistenza attuale dei contrari. Contro il
fenomenismo, infatti, Aristotele fu anche più duro del maestro
Platone nel portare avanti quell’«Iliade filosofica» che erano i
libri della sua Metafisica.
Anche gli Scettici, da Timone a Sesto Empirico, erano tutti
d’accordo nel tentativo di «salvare i fenomeni» dalla distruzione
generale e talvolta si complimentavano con i fenomeni stessi, ne
esaltavano il vigore, ne descrivevano le sfaccettature. In realtà
salvavano dal marasma non il fenomeno, ma soltanto se stessi,
venendo meno in loro – erano uomini – quel «coraggio della verità»
che, in un momento di debolezza, era venuto meno persino all’eroica
Antigone. L’accorto Protagora aveva evitato la catastrofe accettando
il sensismo con tutte le sue contraddizioni ed implicitamente
negando quel principio di non-contraddizione intorno a cui gravitava
e avrebbe gravitato sino alla fine il pensiero ellenico. Gli
Scettici, invece, come non negarono l’esistenza della φύσις, così
non negarono affatto quel principio né lo discussero mai ex
professo, neppure, forse, in certi momenti «eraclitei» a noi poco
noti della loro storia. Quel principio, anzi, fu usato de facto da
loro per smascherare le incoerenze dei Dommatici. È sintomatico il
fatto che, da tutte le testimonianze scettiche rimaste in nostro
possesso, non ci sia neppure una riga dalla quale si evinca che il
parmenideo ed aristotelico principio di non-contraddizione non ha
validità alcuna. Anche se qualche vampata eraclitea non dovette
mancare nel focolare di Enesidemo, si trattò di una vampata che si
riferiva più al flusso delle apparenze e delle rappresentazioni che
non alle leggi del pensiero. Difatti dalle numerose pagine
«enesidemee» di Sesto Empirico noi vediamo che il principio di
non-contraddizione gioca un notevole ruolo sia nella tropologia sia
nella battaglia anti-aitiologica sia nella demolizione di molte
categorie fisiche ed etiche.
Gli Scettici, insomma, non risolsero la loro tragedia teoretica col
fenomenismo né, tanto meno, anticiparono la moderna fenomenologia, e
quegli squarci che, da Timone a Sesto, sembrano brevi inni al
fenomeno vanno attentamente studiati e considerati non come un
epilogo, bensì come un episodio, ancorché non irrilevante, della
tragedia teoretica. Del resto, se essi si fossero appagati del
fenomeno, avrebbero in gran parte chiuso il libro delle aporie e
avrebbero creato, alla men peggio, un loro «sistema» fenomenologico.
Ma, nonostante la ricchezza delle loro indagini nel campo delle
rappresentazioni – ove il merito principale va assegnato a Carneade
–, essi si guardarono molto bene dal farlo.
Rimanendo preclusa agli Scettici la via della φύσις nella sua
essenza e non essendo possibile l’effettiva conoscenza dell’oggetto,
rimaneva da percorrere la via della soggettività, del «senso
interno», della conoscenza dell’uomo o, insomma, di quella che il
Mondolfo, con molta efficacia e con suggestive motivazioni, ha
chiamato «la comprensione del soggetto umano». In questo campo i
πάϑη – che gli Scettici, accostati dalla tradizione ai Cirenaici,
studiarono con molta finezza – giocano un ruolo quasi analogo a
quello che i φαινóμενα giocano nel campo dell’indagine sulla natura
e sull’oggetto. La lezione apollineo-socratica del «conosci te
stesso», filtrata soprattutto negli Scettico-accademici dalla
mediazione «zetetica» di Platone, fu ben recepita dalla scepsi
antica. Come Aristotele ed i Peripatetici, col loro bisogno di
«salvare i fenomeni», avevano inciso notevolmente sulla mentalità
scettica nel campo delle indagini naturali, così il binomio
Socrate-Platone, col suo costante invito all’esame del soggetto
indagante e vivente, influì sulla spiritualità scettica senza, però,
creare quell’antropocentrismo che tanto piace a molti moderni, ma
piuttosto favorendo indagini di ordine psicologico, epistemologico,
antropologico e persino sperimentali che, nonostante il sigillo
immancabile dell’epoche, sono ben più feconde di certi trionfalismi
umanistici ai quali siamo oggi avvezzi.
Fu soprattutto l’ala accademica dello Scetticismo antico ad avere il
merito di approfondire l’analisi dell’io conoscente, delle
rappresentazioni soggettive con tutti i loro risvolti psicologici ed
emotivi. Pur tra la durezza paradossale delle loro negazioni – di
dommatismo negativo parlarono, a tale proposito, i Neo-pirroniani –
gli Accademici prepararono la costruzione dell’uomo interiore,
attraendo l’attenzione di Agostino, che errò nel tracciare una sua
«storia» dell’Accademia, ma ne capì meglio di ogni diligente
filologo certe esigenze e certi aspetti drammatici. Raffinati e
coltissimi indagatori del soggetto umano, gli Scettico-accademici
meditarono a lungo sui nostri poteri cognitivi, sui limiti
invalicabili di questi poteri, sui tumulti interiori della nostra
coscienza, sulla nostra esigenza di svincolarci dal determinismo,
dalle superstizioni, dai raggiri della fortuna e del caso. Essi non
parlarono, come i loro studiosi seguaci dell’età umanistica, della
dignità e dell’eccellenza dell’uomo, ma piuttosto delle incertezze,
delle perplessità e dei rischi come in un gioco al tavoliere: ma
proprio per questa loro pensosa consapevolezza sono andati ben oltre
quella retorica che spesso ci accompagna quando parliamo «de
homine».
Mentre l’ala accademica dello Scetticismo ha impostato questo tipo
di problematica, l’ala empirica, talvolta non assente anche sotto i
platani di Academo, ma, in genere, potenziata ed arricchita dai
rapporti critico-dialettici con la tradizione aristotelica e
dall’apporto dei contributi tecnico-scientifici – soprattutto da
parte della medicina –, andava enucleando, dalla catastrofe del
pensiero speculativo, certe metodologie di ricerche e di interventi
che arricchivano il discusso patrimonio conoscitivo e facevano
aumentare le possibilità operative dell’uomo. Rinviando la sua resa
finale, l’eroe scettico-empirico, per così dire, provava e
riprovava, non si limitava all’ispezione diretta (αὐτοψία), ma
procedeva per tentativi sperimentali (παρατήρησις), epochizzava, ma
non desisteva dall’indagine (ζήτημα).
Eppure tutto questo non eliminava l’incubo della tragedia. Lo
scettico-empirico sapeva di giocare al tiro a segno nel buio. Come
la natura – verità esterna – continuava, nella sua essenza, a
rimanere «celata nell’abisso» secondo l’antico adagio di Democrito
che riscosse singolare fortuna dai tempi di Pirrone a quelli
dell’«empirico» Sesto, così anche l’uomo – verità interna – rimaneva
essenzialmente un mostro più complicato di Tifone e non possedeva
alcun chiaro requisito per essere assunto come «criterio di verità».
Ancora una volta Protagora, col suo facile umanesimo, aveva torto:
il soggetto non solo non poteva conoscere l’oggetto, ma doveva, suo
malgrado, ridurre anche la conoscenza di sé stesso e il motto
apollineo-socratico rimaneva un pio voto augurale, come certi cori
tragicamente gioiosi di Sofocle venivano cantati nell’imminenza
della catastrofe.
Tragedia teoretico-gnoseologica, dunque, quella dello Scetticismo
greco: ma tragedia per nulla vuotamente intellettualistica. Essa non
era suscettibile di correzioni e di raddolcimenti postumi, ed ancora
oggi ci si presenta nella sua composta oggettività quasi impedendoci
di modernizzarla. Qual dramma, infatti, ha in sé un qualcosa di
ontologico, anche se il suo essere e il suo pensiero ci sono giunti
a frammenti, come un’antica opera plastica. Eppure in questa sua
ontologicità, che è tipica del pensiero ellenico in generale,
palpita la vitalità storica di oltre mezzo millennio di indagini e
di rifiuti, di delusioni e di ricerche, come vedremo esaminando ad
uno ad uno i principali episodi storico-evolutivi con le loro
continuità e con i loro contrasti.
4. Gli Scettici antichi ebbero consapevolezza di questa tragedia del
pensiero soltanto quando tiravano le somme della loro indagine,
mentre durante la loro ricerca, nel condurre avanti le polemiche,
rivelavano di possedere uno spiccato senso di fiducia in sé stessi e
nelle loro posizioni filosofiche. La «disperazione pirroniana», di
cui hanno spesso parlato e alla quale hanno cercato di porre rimedio
gli Scettici moderni, può sembrare, perciò, piuttosto un consuntivo
critico che una realtà di fatto emergente dalle analisi particolari.
Dalle numerose testimonianze in nostro possesso risulta, anzi, che i
pensatori scettici, oltre a possedere un’efficacia polemica
eccezionale nel portare innanzi sempre più sistematicamente le loro
negazioni, erano anche ricchi di una verve tutt’altro che tragica:
Timone preferiva l’incisività aggressiva e vivacissima della satira;
Cicerone, nell’esporre e nel patrocinare in varie sue opere
filosofiche il pensiero scettico-accademico, manifesta una quasi
gioiosa vitalità e un arguto senso dell’umorismo; Sesto Empirico,
che ci ha lasciato nei suoi scritti la Summa dello Scetticismo
antico, è uno scrittore sorprendentemente vivido, incisivo, acuto,
ironico e persino comicamente beffardo. Aristocle, Numenio, Fozio,
che ci hanno trasmesso preziose testimonianze e penetranti rilievi
critici, parlavano di ciarle e di vaniloqui a proposito dei filosofi
scettici ed erano in piena buona fede nel fare questi loro ostili
rilievi che noi non ci sentiamo di condividere: essi, infatti,
vedevano nelle posizioni scettiche solo l’espressione di una
bizzarria mentale e linguistica e un’ostentazione polemico-sofistica
e non già una reale e profonda condizione dell’uomo e del pensiero.
Però altri autori non scettici, ma molto sensibili alla problematica
dello scetticismo, hanno acutamente espresso l’autenticità di quel
dramma che accompagnò il declino del pensiero classico: anzitutto
va, qui, tenuto presente Filone Ebreo, che dà parecchi segni di aver
vissuto l’esperienza scettica tanto nei suoi lati neoaccademici
quanto in quelli enesidemei e che trovò uno sbocco alle sue crisi
umane e filosofiche nella mistica biblico-platonica. E, dopo Filone,
Lattanzio e soprattutto Agostino videro nello Scetticismo greco, e
particolarmente in quello degli Accademici, quasi un provvidenziale
disegno per la costruzione di una nuova fede e di un nuovo modo di
pensare sulle rovine di una civiltà ormai esaurita.
Nell’abbracciare la causa della negazione persino nei momenti di
costruttività lo Scettico, che non può non essere polemico contro
gli altri filosofi, rifugge – da buon greco – dalle lacerazioni
interiori e riesce a dare serenità a tutti i suoi movimenti e quasi
il carisma della necessarietà epurativa e benefica a tutte le sue
demolizioni. Ciò dipende dal fatto che egli sa vivere la tragedia
teoretica con quel lucido distacco contemplativo che è molto raro
nei pensatori moderni. Viene così spiegata la presenza nello
Scetticismo di un patrimonio che può sembrare ingombrante ed
inutile: i sofismi, l’eristica, una consumatissima dialettica
sfruttata fino all’esasperazione, proprio mentre se ne proclamano
l’infondatezza e l’inutilità.
È giudizio concorde degli studiosi moderni che Pirrone, l’enigmatico
fondatore dello Scetticismo greco, sia stato un adialettico; ma come
pensare che su di lui, amante dell’afasia, non abbiano influito i
ragionamenti dei Megarico-eretriesi? Già prima che l’Accademia
assumesse posizioni scettiche, lo Scetticismo non poteva non avere
una sua dialettica, che poi si ingigantì quando entrò in campo la
possente armatura discorsiva di Platone a servizio dell’acatalessia
e della sospensione dell’assenso. La dialettica era concepita come
l’«arte dei contrari» e, con buona pace del genio hegeliano, non
mirava affatto ad una sintesi: essa era disponibile per mettere in
risalto il pro e il contro di ogni realtà e di ogni soluzione e,
così concepita, non poteva non menare all’isostenia e, quindi,
all’epoche. Certi slanci sintetici della dialettica di Platone –
slanci idealisticamente prodotti da Eros – erano già stati sedati
dalla Topica e dalla Retorica di Aristotele, il quale, pur essendo
un grande dialettico e pur facendo pesare la dialettica (come
avrebbe notato duramente il Gomperz) anche nelle indagini
sperimentali, ridimensionò l’«arte dei contrari» escludendola,
almeno intenzionalmente, dalle pure ricerche logiche degli
Analitici.
Gli Scettici applicarono la dialettica in quell’accezione che le
aveva dato Aristotele, senza ammettere, però, che il momento
dialettico dell’indagine fosse superato da quello analitico. Mentre
gli Stoici, partendo dalle indagini aristoteliche sul sillogismo,
pervennero, attraverso la mediazione teofrastea, alla formulazione
del sillogismo ipotetico che in parte acutizzava il formalismo
dell’Organon e in parte offriva spunti geniali alla pura ricerca
scientifica, gli Scettici tacquero, forse anche ignorandone le
articolazioni particolari, della sillogistica aristotelica e
respinsero con aspre polemiche quella stoica. Così quegli acuti
dialettici che furono gli Stoici erano tenuti sotto scacco
continuamente dagli altrettanto acuti dialettici della scepsi. Gli
Stoici ebbero la singolare caratteristica di mescolare interessanti
indagini filosofiche con fantasiose costruzioni di ordine fisico,
metafìsico e morale. Tutto questo non sfuggiva all’acuta e tagliente
dialettica scettica, la quale si limitava alle antilogie,
epochizzava ogni tipo di sillogistica, non risparmiava qualsivoglia
costruzione fisica, metafìsica o etica.
I Neo-accademici sfoderarono le loro armi dialettiche fino al punto
da non sapere più essi stessi, col passare del tempo, come usarle
per colpire gli avversari, e si andarono confondendo, in una
parabola discendente, con gli aborriti Stoici: gli stessi
responsabili di questo appeasement, come Filone di Larissa,
reagivano contro le conseguenze da loro inizialmente promosse e
l’Accademia, dopo aver svolto il suo ruolo con molto prestigio,
usciva dalle scene della tragedia scettica ed andava ad imbarcarsi
per altri lidi, pur mostrando di tanto in tanto, come si riscontra
in Plutarco e in Favorino, certe nostalgie per il buon tempo antico
di Arcesilao e di Carneade.
Ma la dialettica non abbandonava la scena scettica. I Neo-pirroniani
ruppero con l’Accademia, ma ne assimilarono e ne rinnovarono l’arte
dei contrari, dando ad essa nuovo vigore. Enesidemo, che fu il genio
fondatore del Neo-pirronismo e che quasi certamente si era nutrito,
prima del distacco, della dialettica accademica, continuò l’opera di
Carneade nel dare un’organica sistemazione a tutto il pensiero
scettico nei vari settori della ricerca che, a quei tempi, si
divideva ormai per consuetudine secolare in logica, fisica ed etica.
E Fozio, nello scrivere il riassunto dell’opera principale del
pensatore scettico, notava, nella sua avversione contro l’autore,
che costui aveva fatto qualcosa di utile a quelli che vogliono
esercitarsi nella dialettica, anche se non utile alla verità.
Forse Sesto, partendo dalle indagini della Medicina Metodica o di
quella Empirica, credette per qualche tempo che ormai con la
dialettica, macchinosa eredità del dommatico Platone anche se
camuffata di istanze scettiche, bisognasse farla finita. Expellas
naturam furca, tamen usque recurret. Osservatore acuto e quasi
divertito di innumerevoli particolari della natura che egli
raccoglie non solo dagli studi scientifici dei medici, suoi compagni
di lavoro, ma persino dai mirabilia dell’immensa letteratura
pseudo-scientifica dell’età post-alessandrina e romana, quando
utilizza queste sue ricche e talvolta divertite osservazioni a scopo
scettico, non può non ricorrere anche lui alla dialettica. Quel tono
di pamphlet che aveva animato Timone soprattutto nei Silli torna ad
animare gli stupendi saggi sestiani contro i professori di scienze
ed arti. Il grammatico si difenderà dagli attacchi di Sesto dicendo
che costui sa fare dialettica, ma non grammatica, e lo stesso
discorso farà lo studioso di aritmetica e di geometria, quando
Sesto, con infernale spirito dissolutivo, colpisce senza risparmio
le pitagoriche scienze del numero e della grandezza. E, se fosse
risuscitato Aristotele, avrebbe detto che Sesto mostra scarsa
conoscenza degli Analitici con quel suo tentativo di decapitare ogni
indagine logica riducendola alla Topica o addirittura agli Elenchi
sofistici.
Lo Scetticismo greco – veramente greco nella sua essenza – nasce con
la negazione della dialettica ad opera di Pirrone e muore con la
negazione della dialettica ad opera di Sesto. Ma quella negazione è
essa stessa una posizione dialettica, trova una sua metodologia
nell’arte dei contrari, perviene alla sospensione dell’assenso quasi
esclusivamente ad opera di istanze antilogistiche che gli fanno ben
vedere la pagliuzza nell’occhio del «fratello» dommatico e frenano
ogni intento costruttivo anche se accompagnato da cautela e
circospezione. Zenone di Elea non intendeva dare una dimostrazione
dell’unico essere di Parmenide, ma solo negare ogni forma di
cangiamento e di molteplicità: a tale scopo egli creò la dialettica.
Lo Scetticismo greco accetta la lezione zenoniana, la sviluppa con
tutta la raffinatezza culturale dovuta a molti secoli di indagini
filosofiche, ne utilizza la «feconda sterilità» e con essa giunge al
proprio esaurimento.
5. Secondo lo Scettico antico non è per nulla esatto ritenere che
l’epoché sia la fine di ogni ricerca. La sospensione dell’assenso e
del giudizio, infatti, è come un’ancora levata che mette in
movimento la nave staccandola dall’immobilità della certezza. È,
invece, il Dommatismo la morte della ricerca, giacché esso,
pascendosi dell’illusione di avere ormai tutto risolto, non si sente
più disposto a riprendere la faticosa via dell’indagine. La
concezione a noi contemporanea della vita «come ricerca», pur avendo
un’origine storica molto recente, può sembrare quasi preconizzata
dagli antichi «zetetici», che non si annagavano mai dei risultati
conseguiti e, come dice esplicitamente Sesto, a differenza dei
Dommatici e degli Accademici continuavano ad indagare.
Ciò non vuol dire affatto che lo Scettico non abbia avuto la
tentazione di sospendere ogni indagine allo stesso modo con cui egli
sospende ogni giudizio. L’emblematico Pirrone, forse, giunse a
questa conclusione ed abbandonò la ricerca per vivere
paradossalmente quella «salvezza» che la sua afasia gli aveva
donato. Ma lo stesso saggio di Elide, come non fu insensibile
all’acuminata dialettica dei Megarico-eretriesi, così non si
sottrasse completamente al fascino di quel grande indagatore che era
stato Democrito, il quale aveva meritato l’elogio del suo avversario
Aristotele perché, a differenza dei Platonici, non si era limitato a
λογιϰῶς σϰοπεῖν ma aveva saputo φυσιῶς σϰοπεν, ossia non aveva
risolto lo studio della realtà naturale in un gioco puramente
dialettico-cogitativo, ma lo aveva condotto con una metodologia
adeguata alla natura stessa. Quali che fossero le conclusioni
dommatiche cui Democrito era pervenuto, l’atomismo aveva apportato
al modo di indagare una importante riforma che gli Scettici non
potevano non apprezzare, sebbene respingessero il dommatismo degli
atomi e del vuoto e le implicazioni matematicistiche di siffatta
dottrina.
La filosofia greca, fin dalle sue origini, si era comportata con
l’indagine scientifica come Saturno che divorava i suoi stessi figli
o come l’Urano esiodeo che, per troppo attaccamento alla consorte
Gea, impediva che dal seno della feconda divinità uscissero fuori i
frutti da lui generati. Opponendosi alle forme mitiche, i filosofi
ellenici gettarono le basi dell’indagine scientifica, ma la loro
ἐπιστήμη rimase sostanzialmente legata al λóγος con somma fortuna
per la ricerca filosofica, ma con grave danno per le cosiddette
scienze empiriche, che spesso dovettero pagare un considerevole
scotto alla loro madre filosofia, e con danno ancor più grave per
gli sviluppi della tecnica scientifica e per le sue applicazioni,
verso cui gli Elleni provavano quasi un’aristocratica ripugnanza.
Il miracolo della filosofia greca poggia su questa singolare
contraddizione che gli studiosi del nostro tempo, sulle orme del
Farrington, stanno cercando di smantellare con zelo eccessivo e, in
gran parte, infecondo. Gli Scettici ebbero sentore della tragica
precarietà di quel miracolo, e la stessa ricchissima epistemologia
aristotelica, che pur da Teofrasto a Stratone si andava sempre più
fisicizzando e accorciava le distanze che la separavano dagli
Atomisti, non sembrava a loro soddisfacente. Perciò essi sentirono
il bisogno di un’antifisica, quantunque non avessero alcuna idea che
bisognasse edificare una nuova epistemologia. E se di Pirrone non
sappiamo con precisione quale fu l’atteggiamento contro i «fisici»,
sappiamo, invece, che furono già vive le istanze di Timone contro
costoro e, forse, Sesto Empirico, quando col passare dei secoli
affrontò lo stesso problema sia nel terzo libro degli Schizzi sia
nei due ampi trattati Contro i fisici, era convinto di rinverdire le
istanze timoniane anche se in una diversa temperie storica.
Non furono meno sensibili alla problematica epistemologica gli
Accademico-scettici, che non obliterarono mai la loro provenienza
platonica, anche se non ne accettavano più i risvolti dommatici. Una
certa mentalità matematica, antitetica a quella
biologico-naturalistica dei Peripatetici, serpeggia nella
«ragionevolezza» (εϑλογον) di Arcesilao e ancor più nel «probabile»
(πιϑανóν) di Carneade e dei suoi seguaci fino a Filone di Larissa.
Carneade mise in dubbio il celebre assioma matematico che due
grandezze uguali ad una terza siano uguali tra loro, suscitando le
postume ire di Galeno, ma le strutture del suo probabilismo poggiano
sul gioco dei dadi e suggeriscono il primo arcaico spunto a quel
calcolo delle probabilità che ha trovato la più rigorosa ed estesa
applicazione nelle scienze fisiche del nostro tempo.
Nel corso del loro divenire storico gli Scettici si resero conto che
la loro indagine epistemologica anti-dommatica non riusciva a
svincolarsi dalle aborrite scienze pitagoriche, e perciò i
Neo-pirroniani imboccarono un’altra via e si andarono sempre più
accostando alla medicina, ossia alla scienza meno propensa ad
arrendersi di fronte all’acribia dei numeri e delle grandezze.
Aristotele, che mai aveva oppugnato l’indagine matematica e che su
di essa aveva costruito l’ossatura della sua sillogistica, si era
impegnato, spesso con durezza polemica, a liberare le scienze della
natura dall’ipoteca matematicistica cui le sottoponevano i
Platonici. Gli ultimi Scettici radicalizzarono la posizione polemica
di Aristotele e intesero buttar via l’acqua sporca insieme col
bambino, ossia il matematicismo insieme con la stessa matematica. E
questo loro radicalismo fu tanto più significativo quanto più le
scienze matematiche non solo venivano spuriamente rifocillate dalle
insorgenze neo-pitagorizzanti ed embrionalmente neo-platonizzanti,
ma corroborate delle grandi ricerche dei matematici alessandrini.
Non è da escludere che il bisogno di rompere i ponti con l’Accademia
nascesse non solo dal fatto che gli Accademici, prima di arrendersi
alla Stoa con Antioco di Ascalona, erano giunti al «dommatismo
negativo», ma anche dalle preferenze «scientifiche» di questi spuri
eredi di Platone, mentre i Neo-pirroniani avevano altre preferenze
«scientifiche», come si venne sempre più chiarendo nel corso storico
della scepsi da Menodoto a Sesto Empirico. Il predominio della
medicina nell’ultima fase dello Scetticismo greco sta a significare
un atteggiamento preferenziale di carattere epistemologico: il
camuso, come avrebbe detto Aristotele, riprende il sopravvento sul
curvo, concedendo soddisfazione ai sensi e riscattando l’intelletto
dalla schiavitù matematica e accogliendo soprattutto i contributi
dell’ἱστορία in campo storico, etnologico, geografico, zoologico,
botanico e così via.
In tutti questi settori le scienze dell’età ellenistico-romana
avevano fatto progressi notevolissimi: il primo slancio fu dato a
loro dalle imprese di Alessandro e dall’équipe culturale che lo
accompagnava; poi erano venuti gli illuminati Cesari, eredi a modo
loro del Macedone, e le stesse esigenze pratiche del mastodontico
impero richiedevano indagini empiriche e concrete applicazioni
tecniche. Ma accanto a questo sviluppo scientifico-tecnologico non
mancavano le bizzarie fantasiose dei raccoglitori di favole, e gli
Scettici, che non si lasciavano sfuggire una virgola per colpire le
inconsistenze dei Dommatici, erano spesso pronti ad accogliere,
accanto ai solidi contributi delle varie scienze della natura e
dell’uomo, anche certe favole che oggi ci fanno sorridere.
Nell’esposizione dei famosi dieci tropi di Enesidemo fatta da Sesto
Empirico ci sorprende la strana mistione di preziosi contributi
raccolti dalle varie scienze con certe fanfaluche che il finissimo
scrittore riporta con tanta naturalezza da farci nascere il sospetto
di un suo divertissement e da suscitare la convinzione che quel
mondo ionico in cui si erano sviluppate l’Odissea e i racconti di
Erodoto non volesse proprio esaurirsi anche quando il mondo antico
si avviava alla fine.
L’ancora levata, simbolo dell’epoche, faceva inoltrare il battello
scettico per mari diversi e l’ultimo grande scettico, Sesto
Empirico, mostra talora di essere animato dalla stessa curiosità
dell’antico Ulisse. Accanto ai contributi delle scienze gli ultimi
Scettici sono disponibili ad accogliere anche i mirabilia: si
servono degli uni e degli altri, per sottoporre, poi, tanto gli uni
quanto gli altri al loro affilato rasoio non appena si profili in
loro l’ἄδηλον e il tendenziale ordinarsi in una costruzione
dommatica. Senza nulla negare alla profonda originalità della
metodologia scettico-empirica specialmente per i suoi rapporti con
la scienza medica, siamo oggi abbastanza lontani dal vedere in essa
prefigurati uno Stuart Mill o altri positivisti, come si faceva
all’inizio del nostro secolo. Tagliando certi ombelichi e
liberandoci da certe fascinationes non facciamo un danno alla
sorprendente e contraddittoria vitalità della scepsi antica, ma ne
scopriamo meglio le reali dimensioni senza farne una nostra
mancipia.
Gli Scettici avvertirono tutta l’importanza del problema
epistemologico quasi con lo stesso acume con cui avvertirono quella
del problema gnoseologico. Anche nel settore dell’epistemologia
trovarono la strada già tracciata dai Dommatici, soprattutto dai
seguaci di Platone e di Aristotele. Ma essi, come nel campo della
gnoseologia e della logica rimasero negatori del sistema senza
staccarsi dal sistema, così, nel campo delle scienze, del loro
significato, del loro metodo e dei loro reciproci rapporti, misero
in luce le più sconcertanti aporie, ma non concepirono affatto
un’epistemologia nuova.
Non bisogna cercare ad ogni costo una pars construens: ormai Bacone
– al quale spesse volte la critica ha voluto con varie forzature
accostare specialmente l’ultima fase dello Scetticismo greco – è
parecchio distante da noi: eppure anch’egli costruì meglio quando
demolì gli idola! In un certo senso, entro i limiti delle distanze
storiche, anche gli Scettici «costruirono» molto bene la loro
epistemologia quando esaminarono, con perplessità filosofica, i
limiti e le carenze, i contributi e le conquiste delle varie scienze
che gli antichi avevano prodotto e che avevano inteso sistemare in
un cosmo armonioso, ma anche angusto.
6. Se certi parametri dialettici o epistemologici attualmente in
vigore non sono adatti a farci comprendere la dialettica e
l’epistemologia dello Scetticismo antico, ancor meno adatti sono
certi parametri di ordine pratico-politico, a meno che non vogliamo
ritirarci dall’indagine con amarezza e disillusione.
Abbiamo notato che gli Scettici furono rivoluzionari e –
contraddittoriamente – conservatori nel ritenere impossibile la
soluzione del problema gnoseologico e, nello stesso tempo, nel
rimanere strettamente legati alle posizioni gnoseologistiche;
abbiamo notato anche che essi utilizzarono tutte le loro immense
risorse dialettiche per demolire la logica antica, ma non
concepirono la dialettica in modo sostanzialmente diverso da come
l’aveva concepita il suo fondatore Zenone di Elea; abbiamo, infine,
notato che essi, nell’introdurre un salutare turbamento
nell’epistemologia antica, non giunsero fino a scardinarla, ma
fondarono le loro indagini sugli stessi cardini su cui
quell’epistemologia si era andata costruendo. Lo stesso discorso si
può estendere sul piano della vita pratica e degli umani rapporti.
Gli Scettici sembrano fautori di una singolare «rivoluzione
permanente» quando respingono l’«arte della vita» e quando
epochizzano ogni definizione del bene e del male mostrandone le
contraddizioni ed esasperandone il relativismo. Valori e disvalori
fanno continuamente lo scambio delle parti, come avviene, anche di
solito nella ridda delle opinioni contrastanti nel campo della
«logica» e della «fisica». I sostegni teologici della morale vengono
tolti di mezzo, giacché ogni teologia è impossibile e
contraddittoria; ma anche i sostegni naturalistici vengono
eliminati, giacché la natura non si lascia conoscere nella sua
essenza, ma si limita a colpirci soltanto con le sue contraddittorie
apparenze. Tanto meno si può ritenere valido il fondamento
umanistico-trascendentale dell’uomo non solo perché una siffatta
categoria non era stata speculativamente ben definita neppure dai
Dommatici antichi, ma anche perché ogni tentativo antropocentrico, a
meno che non volesse appagarsi dell’uomomisura, trionfalisticamente
asserito da Protagora, andava ad impigliarsi nelle antilogie
gnoseologiche circa l’essenza dell’uomo stesso.
Costruendo i loro «sistemi» di etica sull’arte della vita i
Dommatici avevano, ciascuno a modo suo, trovato una soluzione ai
problemi pratici, sforzandosi di fondare città ideali (Platone) o
appagandosi di razionalizzare quelle reali coll’immunizzarle dalle
degenerazioni (Aristotele) o isolandosi nella propria individualità
nascosta (Epicurei) oppure, senza negare quest’ultima, aspirando ad
una città universale che risolvesse i problemi dell’uomo sociale
(Stoici). Questi vari atteggiamenti dommatici non potevano
riscuotere la simpatia degli Scettici, giacché partivano da una
petitio principii di fondo, da un aver risolto il problema dell’uomo
pratico prima di esserselo realmente posto.
La domanda «che fare?» si presentava con le stesse caratteristiche
della domanda «che pensare?». E come a questa seconda domanda gli
Scettici diedero le loro risposte rivoluzionarie e, insieme, molto
conservatrici, così si comportarono anche nel rispondere alla prima
domanda. La vita pratica non fu l’hic Rhodus hic salta dello
Scetticismo greco, come già pretendevano i Dommatici antichi e come
continuano a pretendere i bene ideologizzati studiosi moderni. Alle
«posizioni» teoretiche scettiche corrispondevano pienamente le
«posizioni» pratiche: era questo un diallelo che gli Scettici,
amanti delle confutazioni, non confutarono mai.
Come non si poteva respingere la logica antica quando si continuava
ad utilizzare il principio di non contraddizione, ma si poteva solo
evidenziarne le aporie, e come non si poteva respingere la fisica
antica quando non si negava l’esistenza della natura, ma si poteva
solo negare di conoscerla, così l’etica antica non poteva essere
capovolta dalla semplice negazione dell’«arte della vita», ma poteva
essere solo rimeditata e appalesata nei suoi sconcertanti paradossi.
Così il simbolico Pirrone praticò l’adiaforia, ma si guardò bene dal
fare attentati alle leggi della sua πóλις: visse santamente con sua
sorella, fece del bene ai suoi concittadini procurando loro anche
l’esenzione dalle tasse e, secondo Favorino, non c’era niente di
male se egli, praticante dell’afasia, esprimesse verdetti nei
tribunali. Gli Accademici continuarono a dare una gestione legale al
loro raffinato sodalizio in conformità con le istituzioni forse
stabilite già da Platone quando componeva le Leggi: essi educavano
oratori ed uomini politici, sapevano rintuzzare certe arroganze di
qualche diadoco di Alessandro e coraggiosamente con Carneade,
davanti all’intellighentia romana, seppero anche affermare che sotto
il nome di giustizia si celavano abilmente le rapine fatte in tutto
il mondo dai discendenti di Romolo: cosa che indusse Catone a far
preparare i bagagli al pericoloso filosofo. E il buon Cicerone
difendeva anche da scettico-accademico il suo operato politico e non
si pentiva di aver detto e ripetuto il suo compertum habeo a
proposito della congiura di Catilina fino a sentirselo ripetere come
un ritornello nelle assemblee popolari, nel senato e nella
conversazione riservata con Lucullo. Il povero Favorino ebbe brutti
grattacapi dall’imperatore Adriano e dall’entourage imperiale che
pure ostentavano il loro filellenismo, e si difese, senza venir meno
per questo al suo «pirronismo» che pur era malsicuro per altre
ragioni, ma non per incoerenza pratica. Infine Sesto Empirico, col
suo trattato Sugli dei, non intendeva minare affatto le basi del
culto, ma solo sostenere il suo scire nefas e non credeva di venir
meno allo scetticismo quando affermava che lo Scettico rispetta le
leggi ed i costumi della sua patria e vive in modo conforme ad essi.
Gli Scettici non furono rivoluzionari in campo pratico perché non
furono rivoluzionari in campo teorico. Se ci sono contraddizioni in
loro, non bisogna vederle tra teoria e prassi, ma all’interno della
teoria e all’interno della prassi.
Si è parlato di «conformismo scettico», forse col sottinteso
malanimo di chi avrebbe voluto che quegli antichi signori
abbracciassero la causa delle masse diseredate ed oppresse. Ma il
rasoio scettico serviva a rendere più levigato il volto del
pensatore, e le mani dello Scettico non erano idonee a vibrare alcun
colpo di maglio: l’esempio più appariscente ci è offerto ancora una
volta da Cicerone che detestava ogni rivoluzione più della dittatura
sillana!
Ma uno dei cardini dell’etica scettica era la difesa della comune
consuetudine (σγνήϑεια) e questa difesa veniva esercitata in ogni
settore: nell’uso del linguaggio contro gli accigliati grammatici
analogisti e contro la retorica pomposa e dotta delle scuole,
nell’uso delle varie scoperte ed invenzioni scientifiche contro
l’acribia aristocratica dei matematici, nella condotta della vita
contro certi aristocratici rigorismi moralizzatori che, come
avveniva nella Stoa, finivano col giustificare persino l’incesto.
Pare quasi che un sano spirito popolare e democratico aleggi spesse
volte nell’indirizzo scettico, persino nella sua fase accademica,
quando il geniale Carneade non rifuggiva da atteggiamenti
demagogici. Ma non facciamoci troppe illusioni! Gli Scettici non
praticavano affatto una «morale provvisoria» che poi dovrà essere
sostituita da un’altra morale quando le cose saranno diventate
manifeste e inequivocabili sul piano teoretico, e tanto meno si
sognavano un futuro «capovolgimento della prassi». A parer loro,
nella teoria non si addiverrà ad alcuna chiarificazione, e quindi
neppure nella prassi: le due incertezze procedono all’unisono e la
provvisorietà non è un segno esclusivo di ordine morale, ma permane
anche nelle indagini logiche e in quelle fisiche.
Lo Scettico non accetta il criterio delle maggioranze né in teoria
né in pratica: per questo lato egli recepisce ancora la lezione
aristocratica di Platone, e su questo punto insiste molto
chiaramente Sesto Empirico, che pur sembra, più di ogni altro
scettico antico, ricco di ariose aperture popolari e democratiche.
Tra il pensiero e l’azione dello Scettico antico sussiste una
mirabile coerenza: lo Scetticismo, insomma, non fu reazionario e
conformistico in pratica, ma rivoluzionario o almeno incisivamente
riformistico in teoria. Si potrà pure inorridire di fronte a questa
sua posizione che rimane omninamente bifronte e antilogistica, ma
non si può pretendere, direbbe quell’amante di proverbi popolari che
fu Sesto Empirico, di cavare ad ogni costo l’acqua dalla pietra, a
meno che non siamo noi ad innaffiare, più o meno abbondantemente,
l’asciutto e solidificato macigno.
7. Una raccolta delle testimonianze e dei frammenti degli Scettici
antichi va incontro a gravi difficoltà e difficilmente può essere
esaustiva o almeno soddisfacente. Da una parte infatti – ove si
eccettui il prezioso Corpus sextianum – si riscontra la mancanza
quasi assoluta di fonti dirette, dall’altra ci troviamo dinanzi ad
una profluenza di fonti indirette che, come quelle ciceroniane o
plutarchiane, saremmo tentati di chiamare bastarde, se non ce lo
vietasse il giusto rispetto per quei grandi scrittori, i quali ci
costringono continuamente all’imbarazzo della scelta per i continui
intrecci di ciò che è oro scettico con interventi, aggiunte,
emendamenti e chiarificazioni di ordine personale. Molti «saggi»
scettici, come Pirrone, Arcesilao e Carneade, non credevano nella
parola scritta e, al pari di Socrate, non intesero affidare ai
rotoli il loro pensiero; altri, come Timone di Fliunte con le sue
venticinquemila righe o Clitomaco con i suoi quattrocento libri,
scrissero tanto da provocare l’ira del tempo, il quale ne distrusse
quasi completamente le opere.
Poiché, pertanto, mettendo da parte il tanto discusso e sempre
discutibile Cicerone e l’accorto e diligente ma non «filosofo»
Diogene Laerzio, gli scritti più autorevoli in nostro possesso sono
quelli di Sesto Empirico, è difficile sottrarsi alla tentazione di
ridurre quasi tutto lo Scetticismo antico a Sesto e di presentare
una raccolta in cui le testimonianze sestiane facciano la parte del
leone. Anzi una vue d’ensemble dello Scetticismo, almeno quale esso
si configurava all’inizio del III sec. d.C., può sembrare che
risulti soprattutto dagli Schizzi pirroniani, giacché quest’opera di
Sesto, come ha osservato il Dumont, sarebbe le reflet pur et simple
d’une tradition e, quindi, raccoglierebbe in maniera concisa e
spesso brillante parecchi secoli di esperienza scettica. E in realtà
Sesto Empirico è, senza dubbio, un ottimo dossografo ed un abile
compilatore, come è stato spesso notato dai tempi del Brochard ai
nostri; ma questi suoi requisiti, che erano tipici di un’epoca molto
propensa all’erudizione e alla sommarizzazione, non gli impediscono
affatto di essere un pensatore originale, di intervenire
personalmente con rilievi, annotazioni e spunti polemici, anche
quando riporta il pensiero dei suoi predecessori. Anzi, poiché egli
visse l’esperienza scettica con maggiore partecipazione di Cicerone
e di Plutarco, la stessa incisività filosofica dei suoi interventi è
– ai fini della raccolta di testimonianze riferentisi ad altri
pensatori scettici – molto più insidiosa e deviante delle variegate
inserzioni ciceroniane, che spesso dovevano limitarsi alle
esemplificazioni oppure più di una volta esprimevano lo sforzo
oratorio di rendere facile e piano un pensiero la cui profondità
sfuggiva allo stesso oratore-filosofo. Non solo i trattati Contro i
dommatici e Contro i matematici, ma anche gli Schizzi sono opere
molto mature e lungamente meditate da un filosofo che intendeva non
tanto riportare il pensiero degli altri, quanto trarre le somme
personali di una filosofia che egli rendeva propria e alla quale
apportava un contributo innovatore. Perciò fondare quasi per intero,
come ha fatto il Dumont, una raccolta scettica su Sesto significa
dare dello Scetticismo antico una visione senza dubbio
intelligentissima e organica, ma anche unilaterale ed estrapolata
dal divenire storico. La storia della scepsi antica, infatti, non fu
priva di tensioni interne e lo stesso Sesto Empirico ce ne dà sicura
conferma quando mira ad escludere dallo Scetticismo ed a ridurre
quasi ai minimi termini il secolare e spesso drammatico contributo
dell’Accademia, mentre noi siamo convinti, con la grande maggioranza
degli studiosi moderni, che, senza l’apporto del pensiero
accademico, lo Scetticismo antico si sarebbe estinto con
l’eccentrica personalità di Timone di Fliunte.
Riservandoci di presentare a parte – come già abbiamo cominciato a
fare – l’opera omnia di Sesto per la prima volta in veste italiana,
crediamo opportuno utilizzare, nella presente raccolta, gli scritti
dell’Empirico soprattutto come fonte, con tutti i rischi ed i
pericoli che una simile operazione comporta quando viene eseguita
sul corpo vivo di un grande pensatore. Ampio spazio, invece, ci è
parso doveroso riservare ad altri autori, le cui testimonianze
spesso ci vietano di conferire il monopolio della iraditio sceptica
al pur amatissimo Sesto.
Lo sviluppo dello Scetticismo potrà apparire – come è nostro augurio
– nelle sue articolazioni storiche, nelle sue crisi e nei suoi
contrasti, nei suoi continui tentativi sintetici e nelle sue
dispersioni analitiche, come verrà di volta in volta precisato nelle
note introduttive a ciascuna delle quattordici sezioni della
presente raccolta. In tal modo la ricchezza dei problemi e la
versatile fecondità delle argomentazioni possono essere puntualmente
sottolineate, e ciò permetterà, anche a chi non è addetto ai lavori,
di acquisire la consapevolezza di quanto sia stata lenta ed
elaborata e stilisticamente anche composita la costruzione del
fantomatico castello scettico in oltre mezzo millennio di storia.
L’ingresso di quel castello era talora aperto aristocraticamente ai
soli specialisti, talora, invece, si aprivano tutte le porte, anche
quelle di servizio, perché respirassero aria di dubbio e di
sospensione letterati, scrittori, artisti ed eruditi di vario
genere, sebbene gli Scettici non pretendessero mai di avere per sé
una basilica dalle ampie navate, giacché il loro pensiero non si
divulgò mai fino al punto da diventare filosofia popolare.
Siamo ben lontani dal pretendere di aver esaurito tutte le
testimonianze scettiche lasciateci dall’antichità e dall’erudizione
bizantina: esse avrebbero richiesto più di un grosso volume,
specialmente se accompagnate da chiose e commenti e corredate dalle
risultanze paleografiche, le quali, quantunque lascino a bocca
asciutta il «filosofo», sono indispensabili ad un esauriente
restauro del variegato affresco scettico. Lo scopo principale del
presente volume non è quello di essere consultato, bensì quello di
essere letto, sicché l’interessante fenomeno filosofico della scepsi
antica possa apparire nel suo svolgimento ora nervoso e teso, ora
pacato e lento, come la bonaccia che gli Scettici vedevano apparire
con Pirrone.
Il filologo è pregato di usarci indulgenza se non sono state
riportate tutte le testimonianze, se ci siamo limitati a riportare
solo in nota o addirittura a citare quelle che ci sono sembrate
minori o spesso semplicemente ripetitive o trascurabilmente
differenziantisi da quelle che abbiamo ritenute maggiori. La stessa
indulgenza si chiede, per converso, se non sono stati espunti certi
passi chiaramente introdotti dai trasmettitori delle testimonianze,
come era consuetudine del loquace Marco Tullio. Non ci è sembrato
segno di buon gusto togliere loro la parola mentre cercavano di
portare anche la propria acqua al mulino scettico: perciò li abbiamo
lasciati parlare, anche se, opportunamente, ne abbiamo annotato il
personale intervento.
Già per qualche scettico (come Carneade) o per qualche pensatore
aggirantesi nella costellazione scettica (come Antioco) esistono
attualmente raccolte di testimonianze e frammenti più o meno
complete; ma non sempre chi vien dopo fa meglio, e talvolta filologi
della statura di Hermann Diels hanno anche peggiorato qualche
situazione, come nel caso della collectio dei Silli di Timone, che
già avevano avuto migliore trattamento dal Wachsmuth. Ma il nostro
presente lavoro non ha affatto pretese dielsiane, e non solo perché
non riporta i testi classici, ma si limita a tradurli: esso intende
proporre una conoscenza filosofico-culturale e dare alle
testimonianze raccolte un certo filo conduttore che, forse, è
abbastanza tenue – e non per colpa del solo raccoglitore –, ma, ci
auguriamo, non del tutto disorientante.
8. Nell’eseguire le traduzioni sui testi che di volta in volta
indichiamo in nota nelle premesse alle singole sezioni, abbiamo
cercato di tener presente che gran parte degli autori da tradurre
furono non solo ottimi o almeno discreti «filosofi» e tecnici del
linguaggio della scuola, ma anche grandi scrittori, molto differenti
tra loro nello stile, nel linguaggio, nella concezione della vita,
nelle situazioni storiche: basterà pensare che da Timone a Fozio
intercorre quasi un millennio e mezzo! Tutte queste differenze non
andavano smarrite in un criterio di tradurre astrattamente univoco,
ma meritavano di essere rispettate e sottolineate sia per dare
un’idea della varietà dei colori assunti dalla tavolozza scettica
nel suo corso storico sia per non far perdere di vista i diversi
modi in cui lo Scetticismo venne esposto, rivissuto, criticato o
apprezzato da quegli antichi autori che ci hanno lasciato la
possibilità spesso precaria di conoscerlo. Testimonianze come quelle
che Eusebio raccoglieva da Aristocle e da Numenio o, anche, come
quella del patriarca Fozio, per certe loro acutezze e per certi loro
risvolti critici, hanno ben poco da invidiare alla tanto scaltrita
«saggistica» del nostro tempo, anche se i mezzi tecnici a
disposizione erano allora molto rudimentali.
Il traduttore, perciò, ha dovuto fare il suo mestiere di accorto
camaleonte, e se questa sua consapevolezza lo farà apparire
rispettoso delle varie individualità, egli potrà anche estrinsecare
la sua devozione a Giacomo Leopardi che conobbe e rivisse molto
personalmente questa regione del mondo antico, ne risofferse le
aporie da lui già intuite negli anni dello studio «matto e
disperatissimo» e poi rimeditate in tutto il resto della sua
esistenza e, più di tanti benemeriti studiosi oggi addetti ai lavori
nelle varie parti del mondo, può ancora dare un contributo ad una
conoscenza vivamente partecipata dello Scetticismo greco.
Il modo di filosofare degli Scettici, anche nei momenti più
serratamente tecnico-argomentativi, non si espresse per mezzo di una
astratta unità stilistica (basti pensare alla grande differenza che
intercorre, ad esempio, tra le argomentazioni anti-teologiche del De
divinatione ciceroniano e quelle della prima parte del trattato
sestiano Contro i fisici, che pur risalivano entrambe alla fonte
comune Carneadeo-clitomachea). E fu un bene che quest’astratta unità
mancasse e che lo Scetticismo non fosse mostruosamente monolitico,
come rimangono, alla fine dei conti, certe ferree costruzioni del
pensiero moderno. Ciò, tuttavia, non impedisce a molte cadenze
fondamentali della meditazione scettica di ripresentarsi come un
wagneriano Leit-motiv in tutto il corso di una tetralogia in cui fa
da prologo l’antico Pirronismo e i cui grandi episodi sono
costituiti dalla scepsi accademica, dal Neo-pirronismo dialettico di
Enesidemo e dal crepuscolo riepilogativo del cosiddetto
Neo-pirronismo empirico di Sesto. Modulazioni scettiche si
ripresentano in contesti storici diversi con le stesse cadenze dei
primi tempi, come il simbolico collo della colomba, il remo
spezzato, la torre che da lontano appare rotonda e da vicino
quadrata e il numero delle stelle. Se, con tutti i difetti che vi si
potranno riscontrare, la presente traduzione avrà saputo indicare
almeno «l’ombra del beato regno» scettico nella molteplicità anche
linguistica delle sue determinazioni e nell’unitarietà di certe sue
fondamentali istanze, l’operaio che ha eseguito il lavoro potrà
essere contento della sua giornata.
9. Lo svolgimento storico dello Scetticismo antico si determinò in
tre fasi diverse e, nello stesso tempo, comunicanti tra loro: quella
antico-pirroniana, quella accademica e quella neo-pirroniana.
Ciascuna di queste fasi è contrassegnata da un notevole movimento
interno in cui si manifestano la vitalità e le crisi dell’indirizzo
scettico, come cercheremo di rilevare nelle varie sezioni della
presente raccolta. Qui ci limitiamo a riassumere schematicamente le
principali caratteristiche di queste fasi al solo scopo di offrire
al lettore non troppo provetto una sorta di quadro sinottico,
avvertendolo che ovviamente siffatti quadri, anche quando
obbediscono ad una tradizione critica molto valida, hanno sempre
qualcosa di approssimativo e di logoro.
Il Pirronismo originario o antico ebbe come suo fondatore e come suo
personaggio emblematico Pirrone di Elide (365/0-275/0 a. C.), il
quale sostenne e praticò con grande coerenza l’afasia, l’adiaforia e
l’apatia e che non fu affatto privo di addentellati culturali col
pensiero filosofico a lui precedente e contemporaneo, anche se non
possiamo dire con sicurezza che abbia dato uno sviluppo
tecnico-speculativo alla sua filosofia, giacché l’istanza
etico-salutifera ci sembra abbia avuto una prevalenza notevole su
tutto il resto.
Devoto ammiratore e continuatore di Pirrone fu Timone di Fliunte
(325/0-235/0 a. C.), personalità molto diversa da quella del suo
maestro e modello. Timone, infatti, concepì la filosofia come una
battaglia difensiva dello Scetticismo contro le varie filosofie
dommatiche ed anche contro la scepsi accademica inaugurata da
Arcesilao, che a lui sembrava composita e zeppa di contraddizioni.
Egli diede inizio anche ad una critica embrionalmente
scettico-sistematica contro le varie scienze (specialmente contro la
«fisica») e contro le varie arti, suggerendo probabilmente non pochi
spunti ai Neo-pirroniani.
Dalle poche testimonianze raccolte soprattutto da Diogene Laerzio
sappiamo che l’irrequieto e battagliero Timone ebbe anche una certa
sua scuola, ma in essa non ci fu alcuna personalità di rilievo e,
perciò, possiamo inferire che l’antico Pirronismo ebbe con lui il
suo exploit ma anche la sua fine, quantunque le esigenze pirroniane
circolassero come sottofondo sia nel pensiero medio e neo-accademico
sia al di fuori di questo in non bene individuati pensatori o gruppi
di pensatori e già facesse il suo corso l’indirizzo medico-empirico
in maniera parallela allo Scetticismo.
La fase accademica della scepsi fu molto ricca e varia: le sue
istanze filosofiche si intrecciano con quelle dell’antico
Pirronismo, ma non si confondono mai pienamente con esso, anche se
ci sembra esagerato ripetere col Brochard che essa sarebbe stata
quale fu, anche nel caso che Pirrone non fosse mai esistito.
L’accademia antica, fondata da Platone ed ereditata da Speusippo, da
Senocrate e da Polemone, pur conservando e forse esasperando il
proprio spirito dommatico, non nascondeva contrasti ed incrinature
che sottintendevano il bisogno di un radicale rinnovamento, e già
con Crantore, amico di Arcesilao, si nota la presenza di una
problematica etica ricca di reminiscenze platoniche, ma anche
foriera di sviluppi aporetici.
Con Arcesilao di Pitane (315-240 a. C.) la scuola di Platone vive la
sua prima rivoluzione. Si ha, così, la Seconda Accademia o Accademia
Media, la cui vita dura fino all’intervento di Carneade. L’Accademia
arcesilea si contraddistingue anzitutto per la sua interpretazione
scettica del pensiero di Socrate: l’acatalessia, l’analogismo e
l’epochè trovano qui la loro consistenza logico-dialettica,
accompagnati dalla concezione della «ragionevolezza» (εϑλογον), che
non è solo una soluzione pratica della scepsi, ma è essa stessa da
inserire nella problematica dialettico-teoretica.
La durezza delle posizioni scettiche di Arcesilao non poteva avere
ricco svolgimento senza ulteriori riforme: la personalità piuttosto
mediocre di Lacide (280-210 circa a. C.), forse molto ingiustamente
ridicolizzata dagli avversari, ne è una prova.
La Terza Accademia o Accademia Nuova ebbe come suo protagonista
Carneade di Cirene (219/4-129 a. C.), che rispettò l’acatalessia,
l’antilogismo e l’epoché di Arcesilao, ma conferì ad essi una
impostazione nuova, introducendo l’istanza probabilistica e
sviluppandola in tutta una rete di situazioni culturali e di
problemi nei vari settori della filosofia (logica, fisica ed etica).
Carneade, infatti, è il primo sistematore del pensiero scettico in
chiave probabilistica e in lui permane l’esigenza platonica della
diairesis e della classificazione al solo scopo di fondare una sorta
di probabilismo generale e di prospettare una soluzione
approssimativa dei diversi problemi in chiave probabilistica per
quanto si riferiva alla speculazione teoretica e in chiave di
verosimiglianza per quanto si riferiva alle situazioni pratiche.
La consumata abilità dialettica e le insuperabili doti oratorie di
Carneade non impedirono, però, il profilarsi di una crisi
all’interno della Nuova Accademia. Così, mentre Clitomaco di
Cartagine (187-110 a. C.) si sforzò, pur tra certe dichiarate
incomprensioni del difficile pensiero del maestro, di conservare
intatto lo spirito del carneadismo, altri Accademici, e in
particolare Metrodoro di Stratonica, si avviarono ad una
interpretazione più elastica e conciliante di quello stesso
pensiero. Né tardarono a prendere sempre più il sopravvento certi
elementi retorici che Carneade e, ancor più di lui, Arcesilao
avevano teoricamente oppugnato, ma di cui avevano fatto non
passeggero uso.
Di qui nacque l’esigenza di rifondare ancora una volta la gloriosa
scuola di Platone.
Si ebbe così la Quarta Accademia ad opera di Filone di Larissa
(160?-79/8 a. C.), il quale sente il bisogno di recuperare Platone e
di non negare l’assoluta oggettività della verità. Filone ricomincia
a civettare col Dommatismo, mentre gli Stoici, eterni avversari
dell’Accademia, attenuano i loro rigori dommatici con Panezio e con
Posidonio. Filone giunge persino a non negare in astratta teoria la
catalessia, inferendo, senza saperlo, un colpo ad Arcesilao ed a
Carneade; ma, nello stesso tempo, egli è convinto assertore del
probabilismo di quest’ultimo e, sotto il profilo retorico, ne
diffonde la poco solida concezione della verosimiglianza. Πιϑανóν ed
εἰϰóς vanno a confondersi tra loro, fino al punto che, poi,
Cicerone, ammiratore teorico e difensore di Filone, userà i due
termini in maniera indifferente.
Le perplessità di Filone, quel suo far concessioni con notevole
larghezza al Dommatismo o esplicitamente o implicitamente e quel suo
ritirarle dopo averle fatte, imposero ancora una volta la
rifondazione della scuola di Platone.
Si giunse così alla Quinta Accademia ad opera di Antioco di Ascalona
(13o/20-68 a. C.), ma il suo mite fondatore non la chiamò
nuovissima, bensì «antica», quasi a voler significare che le varie
crisi, acutizzate già dall’intervento di Arcesilao e poi ripetutesi
con Carneade e con l’incostante Filone, erano finite e che si
ritornava alle pure fonti platoniche. L’acatalessia, l’antilogismo,
l’epoche, il probabilismo e la teoria del verosimile vennero ormai
messi da parte. Sembrò che gli Stoici avessero vinto la loro
battaglia dommatica, ma, in realtà, Antioco, che si conservava
«accademico», era convinto che la battaglia fosse stata vinta dalla
sua scuola, giacché gli Stoici erano anch’essi discendenti del
divino Platone al pari di lui stesso e dei Peripatetici.
In realta, forse, l’Accademia aveva vinto, come piaceva a Cicerone,
che ammirava tanto Filone quanto Antioco, entrambi suoi maestri ed
amici. Ma chi ne usciva fuori malconcio era lo Scetticismo. Esso
continuava a serpeggiare con le sue aporie, faceva ancora sentire la
sua presenza nella storia posteriore di un’Accademia più o meno
lata, come si avverte in Filone di Alessandria (30 circa a. C. -50
d. C.), in Plutarco (46 circa - 125 d. C.) e nella variegata
personalità di Favorino di Arelate (80 circa – 160 d. C.). Ma ormai,
dopo la svolta impressa da Antioco, l’Accademia si avvia ad altri
lidi per approdare o nel Neo-pitagorismo o nel Neo-platonismo o nel
mondo suggestivo della religiosità e della mistica, dando, infine,
l’addio non solo alla scepsi, ma a tutto il pensiero antico.
Di fronte a questo stato di cose che già si profilava con la
restaurazione antiochea dell’Accademia «Antica» venne ad insorgere
il Neo-pirronismo, che costituisce la terza grande fase di sviluppo
dello Scetticismo antico e che, mentre intende rifarsi
all’autenticità scettica di Pirrone e di Timone, non può negare
l’apporto delle esperienze e delle indagini «scettiche» delle varie
Accademie, quantunque si proponga di tagliare i ponti con queste.
Protagonista della restaurazione pirroniana fu Enesidemo di Cnosso o
di Ege (seconda metà del I sec. a. C.), il quale, dopo essersi
formato anch’egli nell’Accademia e dopo aver probabilmente
attraversato una fase eraclitea o, almeno, essersi posto con
profondità il problema di una interpretazione dell’Eraclitismo in
chiave scettica, ricondusse lo Scetticismo alle sue fonti
originarie, ne raccolse e ne sistemò la tropologia, esaminò
sistematicamente l’impossibilità di fondare la conoscenza sia sulla
sensazione sia sulla rappresentazione comprensiva sia sugli
strumenti della logica quali l’induzione e la deduzione. Enesidemo,
inoltre, condusse un esame critico delle principali nozioni fisiche,
soprattutto della causalità, che era uno dei cardini delle
costruzioni naturalistiche dei Dommatici e che lo Scetticismo
precedente non aveva demolito sistematicamente. Le stesse indagini
scettiche Enesidemo estese anche all’etica, completando l’opera
organica intrapresa soprattutto da Carneade, ma respingendone
nettamente l’impostazione probabilistica. Il metodo dell’indagine
enesidemea rimase, comunque, quello dialettico-antilogistico, ed in
ciò egli si avvalse ancora dell’esperienza accademica,
utilizzandola, però, ed indirizzandola in direzione di una scepsi
totale.
Una rigorosa impronta logica diede al Neo-pirronismo anche la
misteriosa figura di Agrippa (vissuto tra il I e il II sec. d. C.)
non solo per i suoi cinque tropi altamente speculativi, ma anche per
il movimento circolare che egli conferì alla tropologia scettica.
Già prima dell’opera scettica di Enesidemo e già durante lo
svolgimento della scepsi accademica, la Medicina Empirica, che
faceva risalire le sue origini fino all’età presocratica,
approfondiva le sue ricerche metodologiche che coincidevano con
quelle degli Scettici non sempre in modo casuale o semplicemente
parallelo. E nella «scuola» fondata da Enesidemo venne sempre più a
determinarsi, quasi in contrasto col solitario speculativismo di
Agrippa, la confluenza di Scetticismo e di Medicina Empirica, finché
con Menodoto di Nicomedia (80/90-150/160 d. C.) e col suo quasi
coetaneo Teoda si ebbe la consapevole fusione dei due indirizzi, e
il Neo-pirronismo, avvalendosi della metodologia medico-empirica,
assunse un volto anch’esso empirico, benché non mancasse di notare
elementi dommatici anche nella medicina menodotea e vivesse talora
l’incertezza di un’adesione senza dubbio feconda, ma anche rischiosa
ai fini della difesa ad oltranza dell’epoche e dell’acatalessia.
Ciò spiega un certo tentennamento di Sesto Empirico (140/160-220/230
d. C.), medico e filosofo, il quale oscillò tra Medicina Metodica e
Medicina Empirica e che poche notizie ci ha lasciato sulla
metodologia medico-empirica, mentre il preziosissimo corpus dei suoi
scritti, pervenutoci nella sua massima parte, costituisce la
principale miniera da cui attingiamo la nostra conoscenza dello
Scetticismo greco in tutta la sua ricca problematica speculativa e
in tutto il suo storico svolgimento.
Sesto continua in gran parte l’opera scettico-radicale di Enesidemo,
cerca di immunizzarla dai rischi dommatici, soprattutto per certi
rapporti – destinati a rimanere ancora misteriosi – di Enesidemo con
la tradizione eraclitea, sulla quale gli aborriti Stoici avevano pur
fondato una buona ala del loro composito castello dommatico. Oltre a
ciò egli vede nella dialettica, su cui Enesidemo aveva articolato le
sue indagini, un duplice pericolo, ossia l’incapacità di demolire i
sofismi e l’eristica e, nello stesso tempo, un logicismo di fondo
che non può non essere dommatico, anche se quella dialettica rimane
sempre aperta con le sue antilogie del pro e del contro. Sesto, alla
fine dei conti, non vede completamente tagliato l’ombelico che una
volta aveva legato Enesidemo all’Accademia, e alla metodologia
dialettica intende sostituire l’indagine empirica del fenomeno,
quale si era profilata e si era andata sistemando ad opera di
Menodoto, di Teoda e di Erodoto di Tarso, suo diretto maestro.
Comunque Sesto, che fu medico, fu anche e soprattutto filosofo, ed è
abbastanza sintomatico il fatto che le principali notizie sulla
metodologia empirica non le conosciamo direttamente da lui – che
forse pur ne parlò in opere perdute –, bensì da Galeno (129-201 d.
C.), il quale, pur sensibilissimo alle indagini molto acute degli
Empirici, rimase alla parte opposta della barricata, anzi fu il
sistematore dell’indirizzo dommatico e ne fu la voce più autorevole
per circa un millennio e mezzo.
Non dobbiamo, però, credere che l’empirismo di Sesto sia tutto oro
colato e non dobbiamo farci più certe illusioni in merito al suo
«sperimentalismo». Sesto fu, al pari di Enesidemo, un acutissimo
dialettico e smantellò molte costruzioni scientifiche con le armi
delle antilogie, come avevano fatto, prima di Enesidemo, già
Arcesilao e Carneade. Né egli rifugge dagli erismi e dai sofismi nel
condurre le sue battaglie anti-dommatiche, ma se ne serve con
consumata abilità. Termini come εϑλογν (ragionevole), εἰϰóς
(verosimile), πιϑανóν (probabile) appaiono molto spesso alla fine
delle sue argomentazioni demolitorie, e si tratta di un frasario
accademico che egli – pur anti-accademico – non riesce ad eliminare
oppure a sostituire con stilemi pienamente empirici. Ciò prova che,
quando egli si sente alle strette, non può non rifugiarsi sotto i
platani di Academo. C’è, insomma, anche in lui la logica della
negatività che egli rimproverava agli Accademici, ma di cui non
poteva liberarsi. La sua serenità di uomo, di pensatore e di
scrittore spesso brillante non riesce a nascondere questa
fondamentale angoscia tra empiria e logos, e perciò con lui lo
Scetticismo antico, ripercorrendo tutte le sue tappe ed assumendo
anche il volto del catalogo e della compilazione, trae
definitivamente le sue somme e si esaurisce.
ANTONIO RUSSO
Salerno, 25 aprile 1977
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Le edizioni dei classici utilizzati come fonti della presente
raccolta sono di volta in volta citate nelle note introduttive alle
singole sezioni.
PIRRONE
Pirrone di Elide (365/0-275/0 a. C.) fu considerato da tutti gli
Scettici dell’antichità – e in particolare dal movimento
neopirroniano iniziatosi con Enesidemo e conclusosi con Sesto
Empirico – come il fondatore della loro ἀγωγń, quantunque già prima
di lui, nel corso della filosofia greca e persino nei poemi omerici,
non fossero mancati motivi e spunti di ordine scettico. Mentre,
però, la personalità umana di Pirrone balza viva e netta dalle
notizie biografiche raccolte e trasmesse da Diogene Laerzio, non
emerge con altrettanta chiarezza da tutta la tradizione antica
l’autentico suo pensiero filosofico o, come è stato più volte
affermato, la sua rinuncia a filosofare. Di qui il grave rischio o
di assegnargli più di quello che gli appartiene o di defraudarlo del
suo, e di qui anche la nostra incertezza nel derivare gran parte
dello Scetticismo greco da una posizione teoretica oppure da
un’opzione di ordine morale1.
È innegabile, comunque, che i Pirroniani dell’età imperiale romana,
dietro l’esempio di Enesidemo, sia per umiltà filosofica sia per
dare autorevole convalida alle loro polemiche anti-dommatiche e
anti-accademiche, fecero risalire al vecchio saggio di Elide gran
parte del loro stesso pensiero (e ciò è capitato parecchie volte nel
corso secolare della filosofia da Platone esaltatore ed annunciatore
del vangelo socratico fino ai nostri giorni); ma può essere altresì
plausibile che nel pensiero di Pirrone fu presente almeno un certo
numero di addentellati o, se non altro, il punto di partenza anche
di ordine speculativo per le ulteriori posizioni scettiche.
Se stiamo alla tradizione, non siamo in nessun modo autorizzati a
credere che Pirrone fosse una specie di santone incolto; anzi egli
ci risulta essere stato molto sensibile a correnti filosofiche e
culturali del suo tempo, da lui seguite con vigile attenzione
critica.
Anzitutto furono abbastanza stretti i suoi rapporti con la cerchia
democritea, la quale, dietro l’esempio del filosofo di Abdera,
negava la validità della conoscenza sensibile, considerava la verità
come celata in un profondo abisso e, benché non rinunciasse alla
fede nell’atomismo, andava assumendo, specialmente con Metrodoro di
Chio, posizione sempre più scetticheggiante2. Pirrone fu molto amico
del democriteo Anassarco, che, come ci risulta dalla tradizione3,
aveva un temperamento simile al suo e nutriva per lui la massima
stima. L’ɛὐϑυμίη e l’ἀϑαμβίη, su cui si fondava l’etica democritea,
ci fanno già pensare, specialmente per il loro carattere
individualistico, all’ἀπάϑɛια e all’ἀταραξία pirroniane e furono
quasi certamente trasmesse, quantunque in chiave retorica, ad
Epicuro da quel Nausifane, discepolo di Pirrone, che il filosofo di
Samo ebbe come maestro e che molto ostentatamente disprezzava4.
In secondo luogo non è da escludere in maniera perentoria l’influsso
esercitato su Pirrone dai Megarici5, che Platone aveva chiamati
«amici delle idee» e che, attraverso un recupero dialettico
dell’eleatismo, giungevano a conclusioni paradossali e, specialmente
dopo la scissione che li fece trasferire in parte ad Eretria e in
parte nel paese di Pirrone, si diedero all’eristica, acutizzando
anche in tal modo la crisi dell’eredità socratica. La loro
dialettica fascinosa ed ambigua non poteva lasciare del tutto
indifferente il saggio di Elide, soprattutto per quanto essa aveva
in sé di negativo e di demolitorio.
In terzo luogo Pirrone visse un’esperienza culturale nuova, quasi da
pioniere, al seguito di Alessandro Magno: quella suggestiva della
sapienza indiana che fin dai tempi remoti, anche se indirettamente,
aveva fornito ai Greci alcuni lati della loro civiltà e che ora si
presentava col crisma della novità e con un’attrattiva destinata ad
avere un notevole seguito fino al tardo Ellenismo6. Questo mondo
spirituale del tutto e del nulla, della suprema conoscenza e della
suprema ignoranza, dell’ascesi e della salvezza, del massimo rigore
morale e, altresì, della rinuncia dovette apparire a Pirrone quasi
come a lui elettivamente affine, anche se egli non poté penetrarlo
in profondità.
In quarto luogo, infine, non vanno del tutto sottovalutate le
giovanili tendenze artistico-letterarie di Pirrone: i suoi non certo
eccellenti lampadofori dipinti nel ginnasio di Elide e il suo poema
encomiastico per Alessandro, che nasceva sia dalla sua ammirazione
per il nuovo Achille sia dalla conoscenza diretta, appassionata e
continua della poesia omerica, quasi in antistrofìa col metodo
filologico alessandrino, che gli Scettici troppo corrivamente
avrebbero sempre messo in pessima luce dai tempi di Timone a quelli
di Sesto Empirico7.
Purtroppo, però, queste premesse culturali nella formazione e nella
παιδεία di Pirrone, pur aprendoci uno spiraglio nella sua
personalità, sono per noi di scarso aiuto, quando ci accingiamo a
fissare i cardini del suo pensiero filosofico. Seguendo le
indicazioni di Aristocle – ampiamente utilizzate e discusse dalla
moderna storiografia8 –, potremmo considerare il pensiero del più
autentico Pirronismo come convergente su tre problemi: 1) le aporie
in merito alla natura delle cose, alla loro verità e falsità, alla
loro apparenza fenomenica e alla loro realtà; 2) la posizione da
assumere per il mancato superamento di queste aporie; 3) il
conseguimento del fine della nostra umana esistenza.
Il primo problema rimane irrisolto in tutti i suoi aspetti e termina
in un totale scacco gnoseologico, giacché non possiamo andare oltre
le apparenze fenomeniche né possiamo costruire un pensiero
filosofico o scientifico sul fenomenismo, come aveva fatto Protagora
col suo dommatismo dell’homo mensura9. Questo scacco gnoseologico in
gran parte trova la sua attestazione mercé una ricca congerie di
«modi» che nascono dall’osservazione empirica e da acutissimi spunti
di pura speculazione. E sebbene sembri azzardato far risalire a
Pirrone la tropologia scettica in tutta la sua complessità o almeno
nella sua sostanzialità, non si può tuttavia escludere che Pirrone
stesso le abbia dato una qualche spinta iniziale10. È opportuno,
infatti, evitare di confondere le sue conclusioni misologiche con un
misologismo aprioristico, a meno che non ci si voglia agevolmente
sbarazzare del riconosciuto fondatore di un indirizzo filosofico che
si professava zetetico e indagativo11. D’altra parte, però, le fonti
di cui disponiamo mescolano quasi sempre Pirrone e Pirronismo in un
sol fascio, impedendoci più sicure precisazioni.
Quanto alla posizione da assumere in seguito al fallimento
gnoseologico, tutta la tradizione scettica posttimoniana usa il
celebre termine ἐποχή. Ma questo termine, che non si riscontra in
alcuno dei frammenti di Timone, quasi certamente nacque nell’ambito
della Stoa12. Pirrone, con molta probabilità, se dobbiamo credere ad
Aristocle13, parlava invece di ἀφασία, conferendo a questa parola
un’accezione tendenzialmente morale, essendo essa il punto di unione
tra lo scacco conoscitivo e il fine da assegnare alla nostra umana
condizione.
E questo fine è I’ἀπάϑειαἀταραξία l’imperturbabilità disgiunta da
ogni affezione, come già aveva fatto intravvedere Democrito e come
poi ripeteranno, con varietà di approfondimenti, gli Epicurei e gli
Stoici. Questo fine ultimo, strettamente legato all’indifferenza di
tutte le cose e per tutte le cose, non pretende la formulazione di
un codice etico ed esclude ogni casistica ed ogni determinazione
empirica della legge morale. Se dobbiamo prestar fede alla
tradizione accademica14, Pirrone venne a cadere col più paradossale
rigorismo, in una sorta di imperativo categorico contrastante con i
concreti bisogni etici dell’uomo, e perciò la sua «etica» venne
abbandonata al pari di quella degli Stoici più intransigenti, che
costituivano il polo opposto della humanitas un po’ rilassata dei
Peripatetici.
L’enucleazione di questi vari elementi di un «autentico» pensiero di
Pirrone ci fa sembrare alquanto semplicistica la conclusione che
egli sia stato soprattutto un moralista15. Non si può, però, non
notare come sia presente in lui la ricerca della salvezza da un
naufragio speculativo. E Timone, il suo più diretto e baldanzoso
allievo, sottolineò questo carattere suggestivo e nuovo del maestro
con accenti entusiastici che ci fanno pensare a quelli
«soteriologici» di Lucrezio nei riguardi di Epicuro. Se dovessimo
tracciare un profilo storico della soteriologia filosofica
pre-cristiana, dovremmo partire dal filone orfico-dionisiaco
presente in molti Presocratici e assegnare un posto di riguardo a
quel medico delle anime che fu Socrate, ma non potremmo passare
sotto silenzio il saggio di Elide, il quale, almeno per questo lato,
fu un socratico autentico e paradossale. Ciò, del resto, fu
avvertito non solo dai Pirroniani antichi e da quelli dell’età
imperiale, ma anche dagli stizziti Stoici, che trovavano in Pirrone
un loro competitore, e in appresso dai pensatori cristiani, che
consideravano futile, sofistica e falsa la salvezza offerta da
Pirrone, come si evince dal compiacimento di Eusebio nel riportare
le requisitorie anti-pirroniane di Aristocle.
Per quanto concerne la presente raccolta delle testimonianze, ho
preferito riportare il βίος di Diogene Laerzio16 nella sua
interezza, avendo esso – pur con le sue numerose oscurità di vario
ordine – una propria unità, ossia la compresenza in un unico
affresco di elementi biografici, dossografici e talvolta anche
embrionalmente e timidamente critici. È ovvio che il βίος laerziano
va letto con ogni cautela soprattutto per quanto si attiene al
pensiero di Pirrone. Diogene utilizza le più antiche fonti
biografiche e Timone, nonché Enesidemo, Favorino e Sesto, e lascia
noi nella difficoltà di secernere il grano di Pirrone da quello dei
Pirroniani, attratto, come è, da questi ultimi fino al punto da
sembrare anch’egli un seguace della loro ἀγωγή17. Se, però, vogliamo
fondarci su lui per ricostruire la filosofia di Pirrone, siamo
costretti a lamentarci non di qualche semplice svista di cronaca
(come quella dell’uccisione di Cotys da parte del mite filosofo di
Elide quando questi aveva solo cinque anni)18, bensì di una
confusione storiografica nel presentare dottrine che si erano andate
formulando e accumulando nel corso di mezzo millennio.
Ho fatto un parco uso della fonte sestiana19, perché ho inteso
limitarla alla problematica essenziale del Pirronismo antico e a
qualche notizia certa su Pirrone.
Le fonti ciceroniane20 si concentrano sul rigorismo
indifferentistico di Pirrone e rispecchiano la posizione critica
adottata dagli Accademici (da Arcesilao ad Antioco di Ascalona) nei
riguardi dell’assurda «etica» di un filosofo che essi in parte
accostavano al loro pensiero, in parte respingevano o, almeno,
emendavano con consumata abilità dialettica e con platonica
raffinatezza.
La fonte eusebiana21, infine, ritenuta indispensabile sotto il
profilo dossografico dalla più autorevole storiografia del nostro
tempo, è soprattutto una consummatio critica del Pirronismo. Essa,
anche se contribuisce solo limitatamente a farci conoscere il vero
pensiero di Pirrone, è ricca di pennellate quasi degne del migliore
Aristotele. Quel bisogno di fissare e di approfondire le aporie nei
più svariati settori della ricerca che era stato così impellente
nello Stagirita per la conquista di uno stato di agiatezza
speculativa22, viene invece sentito dai Pirroniani non già per
costruire una corretta e sicura gnoseologia e, quindi, una scienza
tetragona ai colpi del dubbio, ma solo per pervenire all’estinzione
della conoscenza e della scienza. Di qui l’acutezza ironica di
Aristocle, seguace del vecchio Liceo che aveva avuto quasi la stessa
storia semimillenaria dello Scetticismo e che si avviava – in
quell’epoca in cui era già nato il grande Alessandro di Afrodisia,
allievo di Aristocle – alla lettura accurata e al commento delle
opere più ardue di Aristotele. Di qui, anche, una certa acredine di
Eusebio nell’inquadrare i passi di Aristocle nella propria
requisitoria contro quegli indirizzi filosofici che, a suo avviso,
erano i più lontani dalla verità cristiana. Eppure era stato proprio
il Pirronismo, con la sua malcelata ansia salutifera e con
l’inadeguatezza dei mezzi di salvazione che esso offriva, a rendere
più penetrante e quasi indispensabile il messaggio cristiano negli
ambienti colti della tarda classicità.
1. Quest’ultima interpretazione ha avuto maggior successo nella
moderna storiografia critica. Il Brochard;, che pur brillantemente
rilevava l’istanza logica di Pirrone (Les sceptiques grecs, Paris,
19593, p. 66), concludeva a favore dell’ascetismo (ivi, pp. 75-6).
La sua conclusione trovasi esasperata in Robin (Pyrrhon et le
scepticisme grec, Paris, 1944, p. 22), ridotta a formula in Verdan
(Le scepticisme philosophique, Paris-Montréal, 1971, p. 19), molto
prudentemente emendata dal Dal Pra (Lo scetticismo greco, Bari,
19752, pp. 80-2) e ancora una volta ribadita dalla Stough (Greek
Skepticism, Berkeley-Los Angeles, 1969, pp. 28-31).
2. Gli stretti contatti di Pirrone col pensiero democriteo sono
stati particolarmente illustrati da von Fritz sia nella voce Pyrrhon
(«RE», XIX, coll. 94-5) sia in Democritos’ Theory of Vision, pp. 83
segg.
3. Cfr. DIOG. LAERT. IX, 63.
4. Nella voce Nausiphanes («RE», XVI2, coll. 2021-7) von Fritz ha
insistito sulla sostanziale fedeltà di questo retore-filosofo al
pensiero di Democrito e sulla possibilità di considerarlo come
tratto d’unione tra democritismo ed epicureismo (cfr., peraltro,
CRÖNERT, Kolotes und Menedemos, Leipzig, 1906, P. 174).
5. Cfr. DIOG. LAERT. IX, 61 = 203 A Döring.
6. Sui rapporti di Pirrone con l’Oriente e col fachirismo hanno
soprattutto insistito il Robin (Pyrrhon et le scepticisme grec,
cit., pp. 9 segg.) e M. M. Patrick (Greek Sceptics, II, cap. 6, New
York and London,1929).
7. Cfr. SEXT. EMP. Adv. math., I,281-282 e PFEIFFER, History of
Classical Scholarship, I, Oxford, 1968, pp. 97 segg., 170, 171. Per
il brillante trattato di SESTO, Contro i grammatici (= Adv. math.
I), che può considerarsi il coronamento di tutte le polemiche
antigrammaticali e letterarie degli Scettici da Timone (o, se si
vuole, da Pirrone) in poi, rinvio alle mie osservazioni in SESTO
EMPIRICO, Contro i matematici, pp. XIII-XX.
8. Cfr., a tale proposito, FERRARI, Due fonti sullo scetticismo
greco, «Studi italiani di filologia classica», XL, 1968, in
particolare pp. 206-7; DAL PRA, Lo scetticismo greco, cit., pp. 61
segg.; STOUGH, Greek Skepticism, cit. pp. 17 segg.
9. Cfr. SEXT. EMP. I, 216-219 e un’ampia discussione in G. CORTASSA,
La problematica dell’uomo-misura in Sesto Empirico,«Atti
dell’Accademia delle Scienze di Torino», CVII, 1972-73, pp. 783-816.
10. Come sostiene von Fritz (Pyrrhon, in «RE», coll. 101-4).
11. Il Robin (Pyrrhon et le scepticisme grec, cit., pp. 17 segg.)
nota in Pirrone persino certi sprinti ciarlataneschi che non erano
mancati in altri esponenti della filosofia greca (tali spunti
furono, del resto, un po’ malignamente già rilevati da Aristocle).
Ma un ben più ponderato giudizio sul «misologismo» di Pirrone è in
DAL PRA, LO scetticismo greco, cit., pp. 70-2.
12. Come è ampiamente dimostrato dal Couissin nell’articolo
L’origine et l’Évolution de l’έπο7ή «Revue des études grecs», XLII,
1929, pp. 373 segg., oggi accettato da quasi tutti gli studiosi. Di
opposto avviso rimane tuttora il voa Fritz (Pyrrhon, in «RE», col.
99).
13. Cfr. DAL PRA, Lo scetticismo greco, cit., pp. 67-70.
14. In particolare a Clitomaco, a Filone di Larissa e ad Antioco di
Ascalona, che furono le principali fonti dei passi ciceroniani
riportati infra.
15. Qualsiasi conclusione si tenti di trarre sul caposcuola dello
Scetticismo viene quasi pirronianamente epochizzata. Scrive di sé
stesso il Long (Hellenistic Philosophy, Duckworth, 1974, p. 17): «I
do not maintain that my outline of Pyrrhonism in this chapter is a
wholly accurate account of the historical Pyrrho». Purtroppo si
parla di corde in casa di impiccati!
16. Ho seguito, in linea di massima, il testo del Long (DIOG. LAERT.
Vitae Philosophonum, Oxonii, 1964) e non mi è stata inutile
l’edizione «eclettica» di R. D. Hicks (London-Cambridge Mass.,
19504), ma oltremodo preziosa, anche in qualche divergenza, mi è
stata la traduzione di Marcello Gigante (Bari, 19621, 19762).
17. L’adesione del Laerzio all’ἀλωλή degli Scettici, che fu respinta
energicamente dall’Usener (Epicurea, p. XXII e Kleine Schriften,
III, p. 67), era stata avanzata dal Wachsmuth (sulla base
soprattutto di DIOG. LAERT. IX, 109). Essa è stata riproposta dallo
Schwartz (Griechische Geschichtschreiber, Leipzig, 1957, P. 487) e
dal Kudlien («Rheinische Museum», CVI, 1963, pp. 254 segg.); ma,
come conclude il Gigante (D. L., Vite dei Filosofi, p. xv), il
Laerzio «non appartenne a nessuna scuola filosofica».
18. Lo svarione è in DIOG. LAERT. IX, 65.
19. Ho seguito per i brani di Pyrrh. hyp. il testo del Mutschmann
riveduto dal Mau (SEXT. EMP. I, Lipsiae, 1958) e per il brano di
Adv. Math., I quello del Mau (SEXT. EMP. III, Lipsiae, 1961).
20. Ho seguito per le Tusculanae il testo di I. E. King
(London-Cambridge Mass., 1971), per il De finibus quello di H.
Rackham (London-Cambridge Mass., 1967) e per il De officiis quello
di W. Miller (London-Cambridge Mass., 1962).
21. Ho eseguito la traduzione di EUSEBIO (Praeparatio
evangelica, XIV, 17-18) sul testo di K. Mras (Berlin, vol. I, 1954,
vol II 1956), tenendo presente la pur ingannevole traduzione latina
riportata dal Migne (Tom. III, Paris, 1857), la raccolta aristoclea
del Mullach (Fragmenta Phiìosophorum Graecorum, Paris, 1881, pp. 206
segg.) nonché la traduzione inglese di E. H. Gifford (Oxford, 1903).
22. Cfr. ARISTOT., Metaph. III, I, 995 a 23-b4. Per la tormentata
ermeneutica della concezione aporetica dello Stagirita rinvio al mio
breve excursus introduttivo in ARISTOTELE, Metafisica, Bari, 1971,
pp. xxvii-xxviii.
Vita di Pirrone. Notizie sulle dottrine pirroniane (DIOGENE LAERZIO,
IX, 61-108)
Pirrone di Elide era figlio di Plistarco1, secondo quanto ci
tramanda anche Diocle2; come afferma Apollodoro nelle Cronache3,
egli, prima di dedicarsi alla filosofia, fece il pittore4; poi fu
allievo di Brisone, figlio di Stilpone5, come riferisce Alessandro
nelle Successioni6, e, in appresso, di Anassarco7, che egli
accompagnava dovunque, fino a stringere rapporti sia con i
Gimnosofisti8 in India sia con i Magi9.
Sembra che di qui Pirrone abbia preso lo spunto per filosofare in
modo molto generoso, dando inizio alla concezione
dell’«incomprensibilità» e della «sospensione del giudizio», come
sostiene Ascanio di Abdera10. Difatti Pirrone soleva affermare che
nulla è né bello né brutto, né giusto né ingiusto e che, per quanto
concerne le cose, nulla esiste «secondo verità», ma che gli uomini
fanno ogni cosa «per convenzione e per abitudine», giacché ciascuna
cosa è questo «non più» che quello11.
A questi princìpi Pirrone si attenne con coerenza anche nella
condotta della vita: nulla egli cercava di scansare e da niente si
cautelava, ma si esponeva ad ogni sorta di pericolo, a carri, quando
capitava, ed a precipizi, a cani e a tutte le altre cose siffatte,
senza nulla concedere ai sensi: comunque, egli veniva tratto in
salvo, come afferma Antigono di Caristo12, dagli amici, che di
solito lo accompagnavano. Enesidemo13, però, dice che, mentre in
filosofia Pirrone si atteneva al concetto di sospensione del
giudizio, nella vita pratica, invece, non si comportava affatto in
maniera sconsiderata: altrimenti, come avrebbe fatto a vivere fino a
novantanni circa?
Antigono di Caristo, nel suo scritto Intorno a Pirrone14, dice di
lui quanto segue: che ai primi tempi egli era sconosciuto e povero,
che fu pittore e che rimangono di lui, nel ginnasio di Elide, certe
raffigurazioni di lampadofori di modesta fattura. Ed aggiunge che
Pirrone se ne stava appartato insolitudine e si faceva vedere solo
raramente dai familiari, e aveva adottato questo comportamento
perché aveva udito un Indiano dire, in tono di rimprovero, ad
Anassarco che costui non avrebbe potuto insegnare agli altri nulla
di buono, se stava egli stesso a servizio nelle corti dei re15.
Pirrone soleva conservare una calma inalterabile, fino al punto che,
se qualcuno lo piantava in asso mentre egli stava parlando,
continuava a parlare; eppure in gioventù era stato irritabile (…16)
Sovente, dice Antigono, se ne andava di casa senza dir niente a
nessuno e si metteva a fare il vagabondo con chi gli pareva e
piaceva. E una volta Anassarco cadde in una pozzanghera, ma Pirrone
continuò a camminare senza dargli aiuto; alcuni gliene fecero colpa,
ma fu proprio Anassarco a lodarne l’«indifferenza» e la «mancanza di
affezione».
Una volta fu sorpreso mentre chiacchierava con se
stesso; essendogliene stato chiesto il motivo, disse che si
esercitava ad essere un uomo dabbene. Nelle sue indagini filosofiche
era apprezzato da tutti, perché sapeva parlare (sia17) per esteso
sia a domanda e risposta. Perciò venne conquistato dal suo fascino
anche Nausifane18 ancora adolescente. E questi soleva dire che è
indispensabile avere una pirroniana disposizione d’animo, ma un
proprio modo di parlare19. E diceva spesso che anche Epicuro,
ammiratore del comportamento di Pirrone, gli faceva continuamente
domande su di lui20. E Pirrone fu onorato dalla patria fino a tal
segno che fu fatto sommo sacerdote e per merito suo fu approvato
l’esonero di tutti i filosofi dalle tasse.
Ebbe anche, tra l’altro, molti emuli della sua sospensione del
giudizio. Ragion per cui anche Timone nel Pitone (…21) e nei Silli22
dice di lui così:
O vecchio, o Pirrone, come e donde trovasti tu disimpegno
Dal
rispettar le opinioni e il vuoto pensier dei Sofisti
E d’ogni
inganno e suasione riuscisti a spezzare i legami?
Né t’importava
indagare quali aure spirassero in Grecia
O donde derivi ogni cosa e
dove essa vada a finire.
E un’altra volta, nelle Apparenze23:
Questo, o Pirrone, il mio cuore di apprendere ha desiderio:
Come
mai, pur da uomo, conduci sì agevole vita serena,
Tu solo facendo da
guida fra gli uomini a modo di un dio24.
Gli Ateniesi, come dice Diocle, gli diedero il diritto di
cittadinanza, perché soppresse Coti il Trace25.
Religiosamente egli visse con sua sorella, che era levatrice, come
dice Eratostene nel suo trattato Sulla ricchezza e sulla povertà26,
e talvolta portava personalmente a vendere al mercato, quando
capitava, uccelletti e porcellini, e faceva le pulizie domestiche
con la massima indifferenza. Si dice che egli dava prova di
«indifferenza» lavando un maialetto appena nato. E poiché una volta
ebbe pure uno scatto di collera in difesa di sua sorella (costei si
chiamava Filista), a chi lo redarguiva rispose che, quando si tratta
di una donna, non vale la «dimostrazione dell’indifferenza». E
poiché un’altra volta ebbe paura di un cane sguinzagliatogli contro,
a chi lo accusava rispose che è difficile spogliarsi completamente
della condizione umana e che si deve combattere contro la realtà
delle cose, nei limiti del possibile, anzitutto con le azioni e, se
questo non si può, almeno col ragionamento.
Si tramanda che, quando gli venivano somministrate
medicine corrosive o quando doveva subire tagli e caustioni per
qualche ferita, egli non contraeva neppure le ciglia. E Timone
chiarisce la sua disposizione d’animo nei versi rivolti a Pitone27;
ed anche Filone di Atene28, che fu intimo di Pirrone, dice che
questi frequentemente citava Democrito, ma pur anche Omero, che egli
ammirava e di cui continuamente ripeteva il verso
Qual delle foglie la stirpe, tale anche quella degli uomini29.
ed elogiava il poeta perché paragonava gli uomini a vespe e a mosche
e ad uccelli, ed era solito recitare anche questi versi:
Su, caro, muori tu pure: perché cotanto t’affliggi? Patroclo pure
morì, che di te era molto migliore30.
e ripeteva quante altre espressioni omeriche si riferiscono
all’instabilità e al vano affaccendarsi e alla puerilità degli
uomini.
Posidonio31 narra di lui il seguente episodio: durante una
navigazione, mentre i suoi compagni di viaggio se ne stavano di
malumore a causa di una tempesta, egli rimaneva sereno e corroborava
il suo animo indicando un porcellino che sulla nave continuava a
mangiare e dicendo che il saggio deve perseverare in una
imperturbabilità come quella.
Numenio32 è l’unico ad affermare che anche Pirrone era dommatico.
Tra gli altri, egli ha avuto anche discepoli illustri, come
Euriloco33, del quale pur si tramanda il seguente fallo. Si dice,
infatti, che costui si adirò a tal segno che alzò lo spiedo
con tutte le carni e inseguì il cuoco fin sulla piazza. E in
Elide una volta questo Euriloco, affaticato da quanti gli facevano
domande durante certe discussioni, gettò via il mantello e passò a
nuoto l’Alfeo. Aveva la massima avversione contro i Sofisti, come
dice anche Timone34.
Anche Filone il più delle volte discuteva con se stesso; ragion per
cui Timone parla così anche di lui:
Oppure Filone che, lungi dagli uomini, insegna a se stesso
E parla
con sé, non curando né gloria né dispute accese35.
Oltre a costoro, furono allievi di Pirrone Ecateo di Abdera e Timone
di. Fliunte, l’autore del Silli, del quale parleremo in appresso36,
ed anche Nausifane di Teo, di cui, a quel che dicono, fu allievo
Epicuro37. Tutti costoro venivano chiamati «Pirroniani» dal nome del
maestro, e assumevano l’appellativo di Aporetici o di Scettici o,
anche, di Efettici e di Zetetici a seconda, per così dire, dei loro
punti di vista38. Pertanto si parla di filosofia «zetetica» in
base al fatto che essa cerca [ζητει] perennemente la verità; di
filosofia «scettica» in quanto essa indaga [σϰέπεπαι] sempre e non
riesce mai a trovare; di filosofia «efettica» a causa dell’affezione
che segue all’indagine, e intendo alludere alla sospensione del
giudizio [ἐποχή] questi pensatori si chiamano «aporetici» in base al
fatto che sia essi stessi sia i Dommatici cadono in aporia. Si
chiamano, infine, «Pirroniani» da Pirrone. Teodosio, però, nei
Capitoli scettici39 sostiene che non bisogna chiamare «pirroniana»
la filosofia scettica. Se, infatti, il movimento del pensiero
concepito da un altro40 non può essere appreso, noi non potremo
conoscere la disposizione d’animo di Pirrone; e, non conoscendola,
non potremo chiamarci neppure «pirroniani». Ed aggiunge anche che
Pirrone non fu il primo ad avere inventato la filosofia scettica e a
non aver professato alcuna opinione dommatica. Ci si può, invece,
chiamar «pirroniani» solo in quanto la propria condotta di vita
somiglia a quella di Pirrone41.
Alcuni affermano che questo indirizzo filosofico risale
ad Omero, perché, a proposito delle medesime cose, questi più
di ogni altro fa rivelazioni «ora in un modo ora in un altro» e su
nessuna cosa egli esprime il suo punto di vista fornendone la
spiegazione in maniera definitoria. Dicono, inoltre, che siano
scettici anche i detti dei Sette Saggi, ad esempio l’espressione
«niente di troppo»42 e «prendi un impegno e la sciagura ti
accompagna», e ciò vuol dire che a chi prende un impegno con ferma
convinzione si accompagna la sciagura43. E non basta: dicono che
anche Archiloco ed Euripide si comportano da scettici: ad esempio
Archiloco nei versi in cui dice:
Tale degli uomini mortali, o Glauco figliuol di Leptine,
È l’animo,
qual è la giornata che Zeus manda dall’alto44;
ed Euripide:
Perché si dice mai ch’abbiano senno
I miseri mortali? Noi
pendiamo
Da te, e quel che vuoi facciamo noi45.
Non solo: ma anche Senofane e Zenone di Elea e Democrito, a parere
di quelli46, si trovano ad essere scettici: ad esempio Senofane nei
versi in cui dice:
E quello eh’è chiaro niun uomo lo vide né mai sarà alcuno
A
saperlo47;
e Zenone sopprime il movimento, quando dice: «Il mosso non si muove
né nel luogo in cui è né in quello in cui non è»48; e Democrito
elimina le qualità, quando dice: «Per convenzione c’è caldo, per
convenzione c’è freddo: per verità ci sono atomi e vuoto»49, e
un’altra volta «Per verità niente sappiamo: in un abisso, infatti, è
la verità»50. E Platone concede il possesso del vero agli dei e ai
figli degli, dei, e si limita a cercare soltanto il «discorso
verosimile»51. Ed Euripide afferma:
Chi sa se vivere non sia morire,
E il morir ciò che all’uomo sembra
il vivere52.
Ma anche Empedocle:
Così queste cose per gli uomini né visibili né udibili sono
Né con
la mente afferrabili53;
e più su:
Solo convinti di quello in cui ciascuno ha inciampato54.
Inoltre dice Eraclito: «Non mettiamoci a far congetture sulle
massime cose»55. Anche Ippocrate, del resto, dava le sue indicazioni
in modo dubbioso e conforme all’umano stato56; e già prima Omero
aveva detto:
Volubile è dei mortali la lingua; son molti i discorsi57
e
… Qua e là è molto il pascolo delle parole
e
Quale il parlar che facesti, tale il responso che udrai,
intendendo alludere all’«equipollenza» e alla «contrapposizione
delle parole»58.
Gli Scettici, da parte loro, si dedicarono in profondità
al capovolgimento di tutte le dottrine dommatiche dei vari
indirizzi filosofici, senza fare essi stessi alcuna dichiarazione di
stampo dommatico, fino al punto di profferire soltanto i dommi degli
altri e di discutere senza dare alcuna definizione o, piuttosto,
senza fare neppure quest’ultima cosa59. Di conseguenza, essi
soppressero anche il termine «non-definire» e non dicevano, ad
esempio, «nulla definiamo», giacché in tal modo avrebbero pur dato
una definizione; essi dicono invece: «noi profferiamo affermazioni
per indicare la nostra ponderatezza, quasi che fosse possibile
indicare ciò anche con un semplice cenno della testa». Adunque, con
l’espressione «nulla definiamo» viene indicata la situazione
affettiva dell’«equilibrio»60 e lo stesso vale anche per le
espressioni «non più» e «ad ogni argomentazione si oppone
un’argomentazione» e per altre simili61. L’espressione «non
più» viene usata anche in senso affermativo, quando si vuole dire
che certe cose sono simili tra loro, ad esempio «il pirata è
malvagio non più del mendace». Dagli Scettici, invece, essa viene
usata non in senso affermativo, ma negativo, come, ad esempio,
quando in una confutazione si dice «Scilla esiste non più che la
Chimera». E anche il termine «più» talora viene profferito in senso
comparativo, come quando diciamo «il miele è più dolce dell’uva»,
talora in senso positivo e negativo, come quando diciamo «più che
danneggiare, la virtù giova», volendo significare che la virtù
giova, ma non danneggia. Gli Scettici, però, giungono ad eliminare
la stessa locuzione «non più»: come, infatti, la provvidenza «non
più esiste che non esista»62, così la locuzione c non più» esiste
non più che non esista. Pertanto questa locuzione, come dice anche
Timone nel Pitone63, intende significare «il non definire nulla e il
non ammettere opinione alcuna»64. Anche l’espressione «ad ogni
argomentazione si oppone un’argomentazione» contiene implicitamente
la sospensione del giudizio: infatti alla discordanza delle cose
reali e all’equipollenza delle argomentazioni consegue l’ignoranza
della verità; ed anche a quest’ultima argomentazione se ne oppone
un’altra, la quale, a sua volta, dopo aver soppresso le precedenti,
viene travolta da se medesima e si estingue, come avviene per i
purganti, i quali, dopo aver fatto espellere i pesi materiali,
vengono anche loro emessi e distrutti65. A questo proposito,
però, i Dommatici obiettano che gli Scettici non sopprimono
l’argomentazione, ma la rafforzano66.
Gli Scettici, adunque, facevano uso delle argomentazioni trattandole
come persone di servizio: difatti non sarebbe stato possibile che
un’argomentazione non fosse soppressa da un’altra: allo stesso modo
siamo soliti dire che non esiste un luogo e, nonostante ciò, siamo
pur costretti a pronunciare la parola «luogo», ma non in senso
dommatico, bensì pei portare avanti la dimostrazione; e siamo soliti
dire che nulla avviene di necessità, ma pur siamo costretti ad usare
la parola «necessità». Era, in linea di massima, questa la maniera
di cui si servivano gli Scettici per dare le loro spiegazioni:
difatti essi sostenevano che «le cose non sono per natura tali quali
esse appaiono, ma si limitano solo ad apparire»: essi, invero,
affermavano di andare alla ricerca non di quello che viene pensato
(giacché ciò che è pensato è chiaro), bensì di ciò di cui si ha
«partecipazione» per mezzo dei sensi67.
Adunque il pensiero pirroniano si limita a dare una certa
indicazione dei fenomeni o di ciò che viene pensato in qualsivoglia
modo; e mercé questa indicazione tutte le cose vengono generalmente
confrontate tra loro e, una volta che sono state messe a confronto,
si viene a scoprire che esse contengono «molta irregolarità e gran
motivo di turbamento», come osserva Enesidemo nel suo Schizzo
introduttivo al pensiero pirroniano68. Per quanto concerne le
antitesi che sono immanenti alle indagini, essi in un primo momento
mostravano i «modi» secondo cui le cose producono persuasione, ma
subito dopo sopprimevano la credenza nelle cose, sfruttando quei
medesimi modi. Varrebbero, infatti, a persuaderci quelle cose che
sono tra loro concordi in conformità con la sensazione e quelle che
non cambiano mai o cambiano solo raramente e quelle che sono
consuete e quelle che sono determinate da leggi e quelle che
procurano gioia e quelle che suscitano ammirazione. Gli
Scettici, allora, cercavano di dimostrare che hanno uguali poteri
persuasivi le opposizioni addotte contro chi produce persuasione69.
Le aporie ammesse da loro in riferimento a ciò-che-appare e a
ciò-che-è-pensato si esplicavano in dieci «tropi», secondo i quali
gli oggetti reali verrebbero a risultare mutevoli70. I dieci tropi
che essi pongono sono i seguenti.
〈I〉 Il primo71 è quello che si riferisce alle differenze tra gli
esseri viventi in relazione al piacere e al dolore, al danno e
all’utilità. In virtù di questo tropo si viene a concludere che
dalle medesime cose non si offrono le medesime rappresentazioni e
che, perciò, a cagione di questo contrasto, si ha come conseguenza
la sospensione del giudizio. Tra gli esseri viventi, infatti, alcuni
sono generati senza unione sessuale, come quelli che vivono nel
fuoco e l’araba fenice e i vermi; altri, invece, per mezzo di
accoppiamento, come gli uomini e tutti i rimanenti; e alcuni
hanno una costituzione, altri ne hanno un’altra, e perciò
differiscono tra loro anche per le facoltà sensoriali, come, ad
esempio, i falchi hanno vista acutissima e i cani hanno il fiuto
molto sviluppato. Pertanto è conforme a ragione che a quelli che
hanno organi visivi differenti anche gli oggetti della
rappresentazione si presentino come differenti; e che per la capra
il tallo sia commestibile, per l’uomo sia amaro, e che per la
quaglia la cicuta sia nutritiva, ma letale per l’uomo, e che gli
escrementi siano mangiabili per il porco, ma per il cavallo no.
〈II〉 Il secondo72 è quello che si riferisce alla natura degli uomini
e al loro temperamento individuale. Così, ad esempio, Demofonte, che
serviva alla mensa di Alessandro, all’ombra sentiva caldo e al sole
sentiva freddo; e Androne di Argo, a quel che ne dice
Aristotele73, attraversava senza bere il deserto libico; e c’è chi
ha propensione per la medicina, chi per l’agricoltura e chi, ancora,
per il commercio; e le medesime cose sono dannose per alcuni e
vantaggiose per altri: ragion per cui si deve sospendere il
giudizio.
〈III〉 Il terzo74 è quello che si riferisce alla diversità dei pori
sensoriali; così, ad esempio, la mela si presenta gialla alla vista,
dolce al gusto e profumata all’olfatto; e la medesima figura, a
seconda della diversità degli specchi, viene vista di volta in volta
come diversa. Di conseguenza, l’oggetto che appare viene a risultare
tale «non più» che talaltro.
〈IV〉 Il quarto75 è quello che si riferisce alle disposizioni e,
in generale, ai mutamenti, quali sono, ad esempio, salute e
malattia, sonno e veglia, gioia e dolore, giovinezza e vecchiezza,
coraggio e paura, indigenza e abbondanza, odio e amore, calore e
freddezza, a seconda che si respiri bene o i pori siano occlusi.
Pertanto le impressioni appaiono diverse a seconda della diversità
delle disposizioni. Difatti neppure i pazzi si trovano in una
disposizione innaturale: e perché vi si dovrebbero trovare essi più
di noi? Anche noi, infatti, quando guardiamo il sole, riteniamo che
esso stia fermo! E Teone di Titora76, lo Stoico, dormiva e
passeggiava nel sonno, e un servo di Pericle saliva, dormendo, in
cima al tetto.
〈V〉 Il quinto77 è quello che si riferisce all’educazione
ricevuta78 e alle leggi e alle credenze nei miti e alle
convenzioni di ordine etico e alle concezioni di ordine dommatico.
In questo tropo è contemplata la maniera di concepire il bello e il
brutto, il vero e il falso, il bene e il male, gli dei e il processo
di generazione e corruzione di tutti i fenomeni. Così la medesima
cosa secondo alcuni è giusta, secondo altri ingiusta, e per alcuni
una data cosa è buona, per altri è cattiva. I Persiani, ad esempio,
non ritengono assurdo unirsi in amore con una propria figlia, ma gli
Elleni lo ritengono illecito; e i Massageti, come dice anche Eudosso
nel primo trattato del Giro della Terra79, si tengono le donne in
comune, ma gli Elleni no; e i Cilici esercitavano per puro sport gli
atti di pirateria, ma non gli Elleni80. E, quanto agli dei, chi li
concepisce in un modo, chi in un altro, e alcuni credono nella loro
provvidenza, ma altri no. E gli Egiziani imbalsamano i morti e li
seppelliscono, i Romani li cremano e i Peoni li gettano negli
acquitrini. Ecco, quindi, la sospensione del giudizio sulla verità.
〈VI〉 Il sesto81 è quello che si riferisce alle commistioni e alle
comunioni, secondo il quale nulla appare di per sé allo stato puro,
ma insieme con aria e luce, con umidità e solidità, con caldo e
freddo, con movimento ed esalazioni, e con altri fattori. Così la
porpora mostra un colore alla luce del sole, un altro al chiaro di
luna e un altro a lume di lucerna; e il colore della nostra pelle
appare diverso a mezzogiorno e quando tramonta il sole; e una
pietra che richiede lo sforzo di due persone per essere sollevata in
aria, viene agevolmente spostata nell’acqua, o perché, pur essendo
pesante, viene alleggerita dall’acqua, oppure perché, pur essendo
leggera, viene appesantita dall’aria. Pertanto noi ne ignoriamo le
peculiari proprietà, come se si trattasse di olio in un unguento.
〈VII〉 Settimo82 è quello che si riferisce alle distanze e a
determinate posizioni e ai luoghi e alle cose che nei luoghi si
trovano. Secondo questo tropo, le cose che son credute grandi si
mostrano piccole, le quadrate curve, le lisce sporgenti, le diritte
spezzate, le gialle come di altro colore. Così il sole, a cagione
della distanza, appare piccolo, e le montagne di lontano aeree
e lisce, da vicino scabre. E ancora: il sole appare in un modo
quando sorge, ma nel mezzo del cielo appare in un modo diverso. E il
medesimo corpo in un bosco appare in un dato modo, ma su un terreno
brullo appare diverso. Del resto, anche l’immagine appare diversa
secondo la diversità della posizione, e il collo della colomba varia
col suo voltarsi di qua o di là. Poiché, adunque, non è possibile
avere conoscenza di queste cose prescindendo dai luoghi e dalle
posizioni che esse occupano, la loro reale natura ci rimane ignota.
〈VIII〉 Ottavo83 è quello che si riferisce alle determinazioni
quantitative [e qualitative84] delle cose e ai loro diversi gradi di
riscaldamento o di raffreddamento, di velocità o di lentezza, di
sbiadimento o di coloritura. Così il vino, bevuto con moderazione,
ci rende più forti, ma, bevuto in quantità eccessiva, ci rende
svaniti; e lo stesso dicasi anche per il nutrimento e simili.
〈IX〉 Il nono85 è quello che si riferisce alla frequenza o alla
peregrinità e alla rarità. Così, ad esempio, i terremoti non destano
meraviglia in quelli presso cui accadono di continuo, e neppure il
sole, giacché lo si vede ogni giorno. Questo nono tropo corrisponde
all’ottavo di Favorino86 e al decimo di Sesto e di Enesidemo87; il
decimo, invece, viene indicato come ottavo da Sesto e come nono da
Favorino.
〈X〉 Decimo88 è quello che si riferisce al paragone con le altre così
come, ad esempio, il leggero rispetto al pesante, il forte rispetto
al debole, il maggiore rispetto al minore, l’alto rispetto al
basso89. Pertanto, ciò che sta a destra non è «destro-per-natura»,
ma viene così concepito in base alla posizione che esso occupa
rispetto ad un’altra cosa: se, infatti, quest’ultima cambia di
posto, esso non sarà più «destro». Allo stesso modo anche i
termini «padre» e «fratello» vengono concepiti come relativi, e il
termine «giorno» come relativo al sole, e tutte le cose come
relative al pensiero. Quindi i relativi sono inconoscibili [se
vengono considerati]90 nella loro propria essenza.
Questi, dunque, sono i dieci «tropi».
Agrippa91, però, ne aggiunge a questi altri cinque: quello che si
basa sul disaccordo, quello del regresso all’infinito, quello della
relatività, quello che si fonda su un’ipotesi e il diallelo.
Il tropo che si basa sul disaccordo è quello che mostra che ogni
ricerca proposta dai filosofi o dalla comune consuetudine è piena
del più grave contrasto e della massima confusione.
Quello del regresso all’infinito non permette di dare un saldo
fondamento all’indagine, giacché una cosa viene a desumere la prova
da un’altra, e così via all’infinito.
Quello della relatività sostiene che nessuna cosa
viene recepita di per sé, ma insieme con una seconda cosa:
ragion per cui entrambe sono inconoscibili.
Il tropo fondato sull’ipotesi si basa sul fatto che alcuni reputano
di dover assumere con immediatezza le cose primarie come meritevoli
di credito e che non si debba sollevare, a proposito di esse, alcuna
inchiesta. Ma tutto questo non approda a nulla, giacché si potrà
porre come ipotesi anche il contrario.
Il tropo del diallelo si riscontra quando ciò che dovrebbe
confermare l’oggetto della ricerca ha esso stesso bisogno della
prova derivante dall’oggetto della ricerca: ciò avviene, ad esempio,
quando, se si vuole confermare l’esistenza dei pori col fatto che si
verificano flussioni, si assume appunto l’esistenza dei pori a
conferma del fatto che si verificano flussioni92.
Gli Scettici sopprimevano anche ogni dimostrazione e criterio e
segno e causa e movimento e apprendimento e generazione, nonché
l’esistenza di un qualcosa che fosse «per natura» bene o male93.
Ogni dimostrazione94 – essi sostengono – risulta composta o da cose
che sono già state dimostrate oppure da cose non dimostrabili. Se da
cose già dimostrate, anche queste ultime avranno avuto bisogno di
una qualche dimostrazione, e così via all’infinito; se, invece, da
cose non dimostrabili, allora, nel caso che tutte quante queste
ultime o alcune di esse o almeno una sola vengano messe in dubbio,
anche l’intero risulterà non dimostrabile. Quanti poi – essi
aggiungono – credono all’esistenza di certe cose che non hanno
bisogno di dimostrazione alcuna, mostrano un acume davvero stupendo,
dal momento che non si rendono conto che è indispensabile una
dimostrazione anzitutto di questo, ossia dell’esistenza di cose che
di per sé posseggono la facoltà di suscitare credito95. Difatti
non è lecito confermare che gli elementi fisici96 sono quattro
fondandosi sulla semplice asserzione che gli elementi fisici sono
quattro! E ciò oltre al fatto che, se non sono meritevoli di credito
le dimostrazioni particolari, risulta inattendibile anche la
dimostrazione in generale. E poi, per conoscere che esiste una
dimostrazione c’è bisogno di un criterio, e per conoscere che esiste
un criterio c’è bisogno di una dimostrazione: ragion per cui
entrambe queste cose sono incomprensibili, giacché si rimandano tra
loro reciprocamente97. Ha, allora, come mai si potranno apprendere
le cose non-evidenti, dal momento che una dimostrazione non può
essere conosciuta? E quello che si va ricercando non è se le cose
appaiano tali, bensì se esse siano effettivamente in tale stato in
conformità con una loro sostanza98.
Gli Scettici considerano semplicioni i Dommatici: difatti ciò che si
inferisce in base ad un’ipotesi99 non ha valore di indagine, ma è un
mero «porre». Del resto, con un procedimento di carattere
ipotetico si può intraprendere anche una dimostrazione di cose
impossibili.
Essi, poi, ritengono che quanti reputano che non si debba esprimere
un giudizio di verità tenendo conto della varietà delle circostanze
e che non bisogni legiferare attenendosi alla natura particolare
delle cose, si mettono a dar definizioni sulla natura di tutte le
cose senza badare al fatto che tutto quello-che-appare appare in un
contesto di vicissitudini e di disposizioni100. Allora bisogna
affermare o che tutte le cose sono vere o che tutte sono false; ma
se sono vere soltanto alcune101, come si farà a distinguerle dalle
false? Non col senso si potranno distinguere quelle cose che sono
sensibili, giacché al senso tutte appaiono uguali; né con
l’intelletto, per lo stesso motivo. Ma oltre le due facoltà suddette
non se ne scorge alcun’altra per operare una distinzione. Orbene –
essi dicono – chi intende confermare un qualcosa che sia sensibile o
intellegibile, deve in via preliminare stabilire le opinioni che si
hanno in merito a questo qualcosa102, giacché, a dire il vero,
alcuni hanno soppresso certe cose, altri certe altre103. Non si può
dare, poi, un giudizio se non per mezzo del sensibile o
dell’intellegibile;ma tutte e due queste cose sono messe in bilico:
epperò non è possibile giudicare le opinioni che concernono cose
sensibili o intellegibili. Ma se, a causa del contrasto immanente ai
pensieri, bisogna ricusare ogni fede in tutte le cose, verrà
eliminata la misura con cui sembra che tutte le cose vengano
determinate in modo preciso. Si verrà a ritenere, pertanto, che ogni
cosa è uguale ad ogni altra104.
Oltre a ciò – essi dicono – chi fa insieme con noi l’indagine di
ciò-che-appare, o è meritevole di credito o no. Se è meritevole di
credito, non avrà nulla da obiettare a colui al quale appare il
contrario: come, infatti, egli stesso merita fiducia quando parla di
ciò-che-appare, così la merita anche il suo avversario; se, invece,
chi fa l’indagine su ciò-che-appare non merita credito, neppure lui
lo meriterà, quando parla di ciò-che-appare105.
Né si deve supporre che sia vero ciò-che-è-persuasivo106: difatti la
medesima cosa non persuade tutti né persuade le medesime persone in
modo continuo. E la persuasione si produce anche in base a fattori
estrinseci, ossia in base alla buona reputazione di chi parla, alla
sua profondità di pensiero, alla sua capacità di penetrazione, al
suo modo di esprimersi con familiarità e gradevolezza.
Gli Scettici eliminavano anche il criterio con la seguente
argomentazione107. Anche il criterio o è il risultato di un giudizio
o no. Se esso non è il risultato di un giudizio, non merita credito
e non coglie il vero e il falso; se, invece, è il risultato di un
giudizio, esso verrà ad essere una delle particolari cose giudicate,
di guisa che la medesima cosa giudicherebbe e sarebbe giudicata, e
ciò che ha giudicato il criterio verrà giudicato da un’altra cosa, e
quest’ultima da un’altra ancora, e così via all’infinito. E ciò
oltre al fatto che c’è discordanza in merito al criterio,
giacché alcuni sostengono che è criterio l’uomo108, altri i
sensi109, altri la ragione110, e certi signori la «rappresentazione
apprensiva»111. Ma l’uomo è in disaccordo sia con se stesso sia con
gli altri, come risulta evidente dalla diversità delle leggi e delle
costumanze. Da parte loro, i sensi ingannano, e la ragione è in
discordia con se stessa, e la rappresentazione apprensiva viene
giudicata dall’intelletto e questo intelletto si svolge per varie
guise. Pertanto il criterio è inconoscibile, e così pure la verità.
Dicono, inoltre, che non esiste alcun «segno»112. Se,
infatti, c’è un segno, questo è o sensibile o intellegibile.
Orbene: sensibile non è, poiché il sensibile è comune, mentre il
segno è proprio; e il sensibile fa parte delle cose che hanno
un’esistenza differenziata, mentre il segno fa parte delle relative.
Né il segno è intellegibile, giacché l’intellegibile è o
apparente-di-cosa-apparente o non-apparente-di-cosa-non-apparente o
non-apparente-di-cosa-apparente o apparente-di-cosa-non-ap-parente;
ma esso non è nessuna di queste cose: epperò non esiste segno
alcuno. Orbene: apparente-di-cosa-apparente esso non è, giacché
ciò-che-appare non ha bisogno di segno;
apparente-di-cosa-non-apparente esso non è, giacché ciò che viene
disvelato da qualcosa deve anch’esso apparire;
non-apparente-di-cosa-apparente esso non può essere, in quanto che
ciò che intende offrire ad un’altra cosa l’avvio all’apprensione
deve pur esso apparire; non-apparente-di-cosa-non-apparente esso non
è, giacché il segno, essendo uno dei relativi, deve essere
appreso insieme con ciò di cui è segno, ma questo non è il nostro
caso. Epperò nessuna delle cose non-evidenti [τῶν ἀδήλων] può essere
appresa, dal momento che si dice che le cose non-evidenti vengono
apprese esclusivamente per mezzo dei segni.
Gli Scettici sopprimono la causa113 nel modo seguente. La causa è
uno dei relativi, giacché è in relazione all’effetto; il relativo,
però, viene soltanto pensato, ma non ha reale
esistenza: pertanto anche la causa potrà essere soltanto
pensata, giacché, se davvero essa è causa, deve contenere in sé ciò
di cui si dice essere causa, altrimenti causa non sarà. E come il
padre, se non sussiste quegli relativamente al quale viene chiamato
padre, non potrebbe essere padre, così avviene anche per la causa;
ma ciò-in-relazione-a-cui la causa viene concepita non sussiste,
giacché non c’è né generazione né corruzione114 né qualsiasi altra
cosa: epperò non esiste causa alcuna. Del resto, se pur esiste una
causa, allora o un corpo è causa di un corpo o un incorporeo di un
incorporeo; ma non è possibile nessuna di queste due eventualità:
epperò non esiste causa alcuna. Orbene: un corpo non potrà essere
causa di un corpo, dal momento che entrambi hanno la medesima
natura. E se l’uno dei due si chiama causa per il solo fatto che è
corpo, anche il secondo, essendo corpo, risulterà essere causa.
Ma, essendo causa tutti e due insieme, non vi sarà ciò che subisce
la causa. Né un incorporeo potrà essere causa di un incorporeo, per
la medesima ragione. Un incorporeo, poi, non è causa di un corpo,
giacché nessuna cosa che sia incorporea produce corpo. Un corpo,
infine, non può essere causa di un incorporeo, giacché ciò che viene
prodotto deve fare parte della materia passiva; ma, poiché
l’incorporeo – a causa della sua stessa incorporeità – non è
soggetto ad una passione, non potrà essere generato da alcunché:
dunque non esiste causa alcuna. Dal che si viene a concludere che
non hanno alcuna esistenza i princìpi universali, giacché, se questi
esistessero, la causa «efficiente» o «agente»115 dovrebbe pur avere
una qualche esistenza.
Ma non c’è neanche movimento116: difatti il mosso si muove o nel
luogo in cui è o in quello in cui non è; ma nel luogo in cui «è» non
si muovere nel luogo in cui «non è» non si muove neppure: epperò non
esiste movimento117.
Essi sopprimono anche l’apprendimento delle scienze e dellearti118.
Se infatti – essi dicono – un qualcosa viene insegnato, allora o
ciò-che-è viene insegnato mediante l’essere o ciò-che-non-è viene
insegnato mediante il non-essere. Ma né ciò-che-è viene insegnato
mediante l’essere, giacché la natura delle cose-che-sono appare a
tutti e risulta già nota; né ciò-che-non-è viene insegnato mediante
il non-essere, giacché a ciò-che-non-è non appartiene proprietà
alcuna e, di conseguenza, neppure quella di essere insegnato.
E non c’è neanche generazione119, essi affermano. Difatti non viene
generato né ciò-che-è (per il fatto che esso già è), né
ciò-che-non-è (per il fatto che esso non ha esistenza alcuna), ed a
ciò che non ha esistenza e che non-è non tocca neppure la
generazione.
Affermano anche che non c’è né bene né male «per
natura»120. Infatti un qualcosa, se è «per natura» buono o
cattivo, deve risultare essere buono o cattivo per tutti, come la
neve risulta per tutti essere fredda; ma fra tutte le cose non ce ne
è alcuna che sia buona o cattiva in linea generale per tutti: epperò
non c’è bene o male «per natura». Del resto bisogna affermare che è
bene o tutto quello che viene «opinato»121 come tale da qualcuno
oppure non tutto quello che viene opinato come tale. Ma che sia bene
tutto quello che viene opinato come tale, non è lecito asserire,
giacché la medesima cosa da uno viene opinata come bene (ad esempio,
il piacere da Epicuro)122, da un altro come male (ad esempio il
piacere da Antistene)123. Verrà a capitare, allora, che la stessa
cosa sia, nello stesso tempo, bene-e-male124. Se, invece, noi
diciamo che non è bene quello che viene opinato come tale da
qualcuno, sarà indispensabile che noi operiamo una cernita delle
opinioni; ma proprio questo non è possibile a causa
dell’«equipollenza delle argomentazioni»: epperò
ciò-che-è-bene-per-na-tura risulta inconoscibile.
Di tutte le conclusioni alle quali sono giunti i filosofi di questo
indirizzo ci si può rendere conto se leggiamo le opere che essi ci
hanno lasciato. È vero che Pirrone, proprio lui, non ci ha lasciato
nulla; ma i suoi seguaci Timone ed Enesidemo e Numenio e Nausifane e
tanti altri ce le hanno lasciate.
In polemica con loro i Dommatici affermano che gli Scettici
«comprendono» e si comportano dommaticamente125: infatti, in quanto
essi reputano di esercitare confutazioni, comprendono, e appunto per
questo, in fin dei conti, fanno pur essi le loro asserzioni e si
comportano da dommatici. E quando essi sostengono di non dare alcuna
definizione e che «ad ogni argomentazione si oppone
un’argomentazione», queste cose appunto definiscono e professano
dommaticamente.
Ma a costoro gli Scettici rispondono: «A proposito delle
affezioni126 che noi subiamo in quanto uomini, siamo d’accordo con
voi: difatti noi discerniamo che adesso è giorno e che stiamo
vivendo e tante altre cose che appaiono nella vita or dinaria; ma
per quanto concerne quelle cose che i Dommatici intendono confermare
per via di ragionamento, sostenendo di essere riusciti a
comprenderle, noi sospendiamo il giudizio ritenendole
non-evidenti, mentre conosciamo esclusivamente le affezioni.
Noi ammettiamo il fatto che vediamo, e riconosciamo pure il fatto
che pensiamo una data cosa, ma ignoriamo «come» vediamo e «come»
pensiamo. E affermiamo pure, in via narrativa, che questa data cosa
appare bianca, ma non confermiamo affatto che essa è realmente tale.
E, per quanto concerne la locuzione «nulla definisco» e le altre
consimili127, noi le profferiamo senza ritenerle dogmi: esse,
infatti, non hanno niente in comune con l’affermazione, ad esempio,
che il mondo è di forma sferica. Quest’ultima, infatti, rientra nel
non-evidente, mentre le nostre sono mere ammissioni. E quando noi
diciamo di non definire nulla, non definiamo neppure questo».
A loro volta i Dommatici affermano che gli Scettici sopprimono
persino la vita, in quanto essi discacciano tutto ciò di cui la vita
è costituita. Ma gli Scettici sostengono che i Dommatici si
sbagliano, e precisano di non eliminare affatto l’atto del vedere,
ma di ignorare «come» si vede128. E invero – essi aggiungono – noi
poniamo ciò-che-appare, ma non intendiamo significare che esso sia
tale quale appare. E sentiamo che il fuoco brucia, ma sul fatto che
esso abbia una natura caustica noi sospendiamo il giudizio. E noi
pur guardiamo che un tizio si muove e va a perdizione, ma non
sappiamo «come» queste cose avvengano. Pertanto129 noi ci opponiamo
esclusivamente – essi dicono – all’indagine relativa alle cose
non-evidenti che soggiacciono ai fenomeni. E quando diciamo, ad
esempio, che l’immagine ha certe sporgenze, noi ci limitiamo a far
vedere quello-che-appare; quando, al contrario, noi osserviamo che
essa non ha sporgenze, non profferiamo più ciò-che-appare, bensì
un’altra cosa. Ragion per cui, anche Timone nel Pitone130 dichiara
di «non essere scantonato dalla comune consuetudine» e nelle
Apparenze131 egli si esprime così:
Sì, l’apparenza ha vigore in tutti quei luoghi ove giunga
e nei suoi scritti Sulla sensazione132 dice:
Che il miele sia dolce non pongo; che dolce esso appaia lo ammetto,
Anche Enesidemo, nel primo dei Discorsi Pirroniani133, dice che
Pirrone non definisce nulla in maniera dommatica «per la
contradizion che noi consente»134, ma che si attiene, invece, ai
fenomeni. E lo ribadisce nel trattato Contro la sapienza e in quello
Sulla ricerca. Ma anche Zeusi135, l’amico di Enesidemo, nel trattato
Sui discorsi duplici e Antioco di Laodicea136 nell’Agrippa pongono
esclusivamente i fenomeni. Adunque, secondo gli Scettici, «criterio»
è il fenomeno, come afferma anche Enesidemo137. Del resto la pensa
così anche Epicuro138. Democrito, invece, sostiene che i fenomeni
non hanno alcuna proprietà e che non esistono139. Contro questa
identificazione del criterio con i fenomeni i Dommatici fanno
osservare che dai medesimi oggetti si presentano a noi
rappresentazioni differenti – da una torre, ad esempio, vuoi la
rappresentazione che essa sia quadrata, vuoi quella che essa sia
rotonda – e che, quindi, lo Scettico, se non assegnerà la preferenza
a nessuna delle due, non potrà agire; se, invece, egli si atterrà ad
una delle due – essi incalzano – non assegnerà più ai fenomeni
l’equipollenza. Ma gli Scettici controbattono dicendo: «Quando ci si
presentano rappresentazioni tra loro diverse, noi diremo che
entrambe sono fenomeni», e aggiungono che essi pongono i fenomeni,
appunto perché questi appaiono.
Fine supremo – secondo gli Scettici – è la sospensione del giudizio,
alla quale si accompagna l'imperturbabilità «a mo’ di ombrai» come
dicono Timone ed Enesidemo. Infatti, per quel che è in nostro
potere, noi non scegliamo questo o evitiamo quello; e per quello che
non è in nostro potere, ma è in balia della necessità, noi non
possiamo trovare via di scampo, come sentir fame o sete o dolore:
sono cose, queste, che non si possono smantellare con un
ragionamento140. E quando i Dommatici rilevano che lo scettico non
potrà vivere qualora non riesca ad evitare, se gli verrà imposto, di
scannare suo padre, gli Scettici rispondono che egli potrà pur
vivere mercé la sospensione del giudizio su questioni di ordine
dommatico, ma non su quelle concernenti la vita e la preservazione
di questa. «Di conseguenza – essi concludono – noi operiamo le
nostre scelte e i nostri rifiuti attenendoci alla comune
consuetudine e ci serviamo delle leggi»141.
Alcuni, però, ritengono che gli Scettici pongono come fine supremo
l’«apatia»142, altri la mitezza143.
1. Secondo Pausania (VI, 24, 5) il padre di Pirrone si chiamava
Pistocrate.
2. Diocle di Magnesia (80-30 circa a. C.) fu autore di un Compendio
di biografie di filosofi, utilizzato molto spesso dal Laerzio (cfr.
M. DAL PRA, La storiografia filosofica antica, Milano, 1950, pp.
191-3).
3. Fr. 39 Jacoby. Apollodoro di Atene (180-119 a. C.), allievo di
Aristarco, diede più rilievo ai fatti estrinseci dei filosofi che al
loro pensiero (cfr. SCHWARTZ, in «RE», II, A-B, coll. 1022-8.)
4. Quest’attività artistica di Pirrone viene ricordata con derisione
in ARISTOCL. Apud Euseb. Praep. ev. XIV, 18, 27. La notizia è
confermata nella voce Πύρρων in Suida.
5. In ARISTOT. Hist. an. VI, 5, 563 a 7 viene ricordato, come padre
di Brisone, Erodoro (per questa discrepanza cfr. DÖRING, Die
Megariker, Amsterdam, 1972, pp. 157-60).
6. Fr. 146 Müller = 92 Jacoby. Alessandro Polistore (I sec. a. C.),
nelle sue Διαδοχαί, dava grande rilievo agli sviluppi delle «scuole»
filosofiche (cfr. DAL PRA, La storiografia filos, ant., cit., pp.
189-91).
7. Anassarco di Abdera, detto l’Eudemonico per la sua eccezionale
serenità, fu seguace di Diogene di Smirne, il quale, fondandosi sul
pensiero di Metrodoro di Chio, aveva dato una svolta
scetticheggiante al pensiero democriteo (cfr. DIOG. LAERT. IX,
58-60; Gli Atomisti, a cura di V. E. Alfieri, Bari, 1936, pp.
339-49).
8. Circa il rapporto diretto che venne a stabilirsi, ad opera della
spedizione militare di Alessandro, tra cultura greca e cultura
bramanica e indiana in generale cfr. STRAB. XVI, 2, 39; PHIL. Quod
omn. prob. lib. 14, 96; PLUTARCH. Alex. 64, 65, 69; LUCÍAN. Fr. 7;
PORPHIR. De abst. 4, 17. Interessanti e particolareggiate (se pur
fantasiose) informazioni di ordine etico, religioso e filosofico si
riscontrano in PHILOSTR. De Apoll. vita III, 10-51).
9. Costituivano una casta sacerdotale persiana e non venivano, di
solito, distinti dagli astrologi caldei. Molto ammirati dai
pensatori neoplatonici (cfr. IAMBL. De myster. II, 10; V, 23; PROCL.
In remp. II, 337 Kr.; SYNES. De insomn. 2), furono aspramente derisi
e combattuti dai Neopirroniani (cfr. GELL. XIV, i e SEXT. EMP. Adv.
math. V).
10. Ascanio resta per noi un personaggio completamente sconosciuto,
tanto che il Müller (Frag. hist. gr. II, 3, p. 384) propone di
sostituire questo nome con Ecateo di Abdera, discepolo di Pirrone.
(Per la questione non solo dell’identità di Ascanio, ma
dell’attendibilità della notizia che Diogene gli attribuisce
vedansi, tra l’altro, F. JACOBY, Hekataios, in «RE», VII, coll.
2751; SEPP, Pyrrhoneische Studien, Freising, 1893, p. 60; COUISSIN,
L’oridine et l’Évolution de l’ἐποχή cit., pp. 373-97; ROBIN, Pyrrhon
et le scept. grec, cit., pp. 15-6; DAL PRA, LO scett. greco, cit.,
pp. 64-70). A proposito del termine ἐποχή esercita una qualche
suggestione l’accostamento che Suida (voce ἐποχή) fa tra il celebre
significato filosofico del termine e il suo significato astronomico,
come «parte in cui vengono percepiti il sole e la luna e ciascun
pianeta in relazione ai dodici astri dello zodiaco». Ciò potrebbe
farci pensare ad un qualche rapporto tra Pirrone e i Magi, pur
escludendo ogni implicazione di ordine astrologico, come è rilevato
dalle polemiche anti-caldee degli Scettici da Timone a Sesto
Empirico.
11. Circa l’origine e il significato della formula «non più», già in
uso presso Democrito (68 A 36 Diels-Kranz) e presso Teofrasto (De
sensu, 69) vedansi, tra l’altro, PH. DE LACY, Οὐ µᾶλλον and the
Antecedents of Ancient Skepticism,«Phronesis», III, 1958, pp. 59-71;
VON FRITZ, Democritos’ Theory of Vision, cit. pp. 83 segg.; STOUGHG,
Greek Skepticism, cit., p. 27, n. 23.
12. Una delle principali fonti del Laerzio, per cui cfr. WILAMOWITZ,
Anti-gonos von Karystos, in Philologische Untersuchungen, Heft IV,
Berlin, 1881, pp. 27-30.
13. Cfr. ARNIM, Ainesidemos, in «RE», I, col. 1023.
14. Cfr. WILAMOWITZ, Antigonos von Karystos, cit., p. 35.
15. Per questo atteggiamento libertario che accosta per qualche lato
l’esperienza indiana di Pirrone alla spiritualità dei Cinici e che
fu ricelebrato nell’età dell’autocrazia dei Severi cfr. PHILOSTR.
Apoil. Vita III, 26-32, ove il saggio bramano larca dà buone lezioni
di modestia al suo rozzo sovrano.
16. Il Wilamowitz (Antigonos von Karystos, cit., p. 36) nota
un’omissione prima di ϰεϰινηένον, che il Diels propone di integrare,
con audacia, «eccitabile al rumore della folla e amante di gloria».
17. L’aggiunta è del Kühn ed è accettata dal Long. Da rilevare
un’affinità tra Pirrone e Socrate (cfr. PLAT. Gorg. 449 b; Phaedr.
267 a).
18. Nausifane di Teo, di pochi anni più giovane di Pirrone, fu
democriteo, seguace del filosofo di Elide e maestro di Epicuro, che,
però, lo tenne in molto scarsa considerazione (cfr. CIC. De nat.
deor. I, XXVI, 72; DIOG. LAERT. X, 7-8; SEXT. EMP. Adv. math. I,
2-4).
19. Secondo la già citata testimonianza di Sesto, Nausifane
«attraeva a sé molti giovani e si dedicava con serietà allo studio
delle arti e delle scienze, e in modo particolare della retorica».
Egli, a differenza di Epicuro e di molti Pirroniani, rispettava la
tradizione pedagogica degli ἐγχύχια μαϑήμτ (Per una critica scettica
a questa pedagogia cfr. quanto ho scritto in SESTO EMPIRICO, Contro
i matematici, pp. VII-XIII).
20. Da altra fonte sappiamo, però, che Epicuro non aveva in grande
stima la preparazione culturale di Pirrone, che egli chiamava
«ignorante e indotto» (DIOG. LAERT. X, 8). Per la tensione esistente
tra Epicurei e Scettici sia nel periodo pirroniano-timoniano sia in
quello arcesileo è da tener presente l’accurata e prudentissima
indagine, condotta sull’esame diretto delle fonti, da Giovanni
Indelli (Polistrato contro gli Scettici,«Cronache ercolanesi», VII,
1977, PP. 85-95).
21. La lacuna è indicata dal Diels.
22. Fr. 48 Diels = 38 Wachsmuth.
23. Fr. 67 Diels.
24. Il carattere quasi soteriologico di questo passo timoniano fa
pensare agli elogi di Epicuro che si riscontrano in LUCRET. I,
62-79; III, 1-30; V, 1; VI, 1-42.
25. Pirrone aveva, forse, solo cinque anni quando questo tiranno fu
ucciso (cfr. WILAMOWITZ, Antigonos von Karystos, cit., p. 38). Una
tradizione più accreditata vuole che uccisori del tiranno siano
stati Eraclide e Pitone, discepoli di Platone (cfr. Acad. phil. ind.
here, col. VI, 15), come è enfaticamente confermato, tra l’altro, da
PHILOSTR. Apoll. vita VII, 2: «Eraclide e Pitone, gli uccisori di
Cotis il Trace, erano due giovanetti che esaltavano le dispute
dell’Accademia e proprio per questo divennero sapienti e liberi».
26. Fr. 23 Jacoby.
27. Fr. 79 Diels.
28. Discepolo di Pirrone, fu autore di un’opera in cui molto
probabilmente rievocava le conversazioni tenute dal suo maestro.
29. HOM. Il. VI, 146.
30. HOM. II. XXI,106-7.
31. Fr. 287 Edelstein-Kidd. L’episodio si ritrova in PLUTARCH.
Quomodo quis suos in virt. 82 f.
32. Non possiamo dire con certezza, se si tratti di un Numenio
allievo di Pirrone oppure del grande Numenio di Apamea (II metà del
II sec. d. C), autore dell’opera Intorno alla infedeltà degli
Accademici a Platone, in cui si sosteneva la necessità di liberare
il platonismo da ogni ingerenza scettica (cfr. DAL PRA, La
storiografia filosofica antica, cit., pp. 223-5; e quanto nota il
des Places in NUMENIUS, Paris, 1973, pp. 14 segg.).
33. Allievo di Pirrone, ma di temperamento molto diverso dal suo
maestro, viene ricordato da Timone (fr. 62 Wachsmuth) come
«ostilissimo contro i sofisti»; al pari di Timone, egli diede inizio
alle accese polemiche anti-dommatiche degli Scettici (cfr. ARNIM,
«EE», VI, 1, col. 1333).
34. Fr. 9, B 49 Diels = 62 Wachsmuth.
35. Fr. 9 B 50 Diels = 63 Wachsmuth. Parodia di Hom. Od., XXI, 364.
36. In IX, 109-15.
37. Cfr., tra l’altro, DIOG. LAERT. X, 7; USENER, Epicurea, p. 413
B.
38. La stessa distinzione dei vari appellativi si ritrova in SEXT.
EMP. Pyrrh. hyp. I, 7.
39. Fr. 308 Deichgräber. Teodosio (II sec. d. C.) fu seguace della
medicina empirica (cfr. Cod. Hauniensis Lat., 1653 f. 732) e
scrisse, come attesta Suida, un’Annotazione ai capitoli di Teoda
che, forse, s’identifica con l’opera citata dal Laerzio (cfr. fr.
307 Deichgräber).
40. Il Gigante, invece, traduce l’espressione ϰαϑ’ἔτερον «nell’una o
nell’altra direzione».
41. Teodosio, insomma, propende per un primato pratico nella sua
interpretazione del Pirronismo, in conformità con la débacle
teoretica acutizzata dagli Accademici e dagli Empirici.
42. L’espressione μηδέν ἄγαν viene quasi tendenzialmente ad
anticipare sul piano morale, l’οὐ μλλον.
43. Diogene intende precisare, sulla scorta di fonti scettiche, che
la sciagura non è la conseguenza di un impegno «pratico» –
altrimenti non esisterebbero i rapporti della συήεια — bensì di una
πίστις di una convinzione mentale di ordine teoretico.
44. Fr. 68 Diehl = 115 L. B.
45. EURIP. Suppl., 734-6, citato anche in PLUTARCH. Mor. 1056 b.
46. Non dei Pirroniani in generale, ma solo di quelli che fanno
risalire la scepsi ad inizi quasi preistorici (cfr., a tal
proposito, SEXT. EMP. Adv. log. I, 46 segg. e quanto è stato da me
rilevato nell’Introduzione alla traduzione italiana di quest’opera,
pp. XVIII-XXIV).
47. 21 B 37 Diels-Kranz. Questi versi, ricordati anche in PLUTARCH.
De aud. poet. 17 e, si trovano discussi in SEXT. EMP. Adv. log. I,
no.
48. 29 B 4 Diels-Kranz. Da queste teorie anti-cinetiche di Zenone
partirono le sottili argomentazioni del megarico Diodoro Crono,
ampiamente discusse dagli Scettici (cfr. SEXT. EMP. Adv. phys. II,
48, 85-101, 142-3; Pyrrh. hyp. III, 71; II 241; DöRING, Die
Megariher, cit., pp. 129-31; FURLEY, Two studies in the Greek
Atomists, pp. 131-5; FRÄNKEL, Wege und Formen des frühgriechische
Denkens, pp. 204-11).
49. 68 B 17 Diels-Kranz.
50. 68 B 18 Diels-Kranz.
51. Cfr. PLAT. Tim. 40 d. Per una certa eco protagorea in questa
posizione platonica cfr. CORNFORD, Plato’s Cosmology, London, 19665,
pp. 138-9; per un’interpretazione «ironica» del passo cfr. TAYLOR, A
Commentary to Plato’s Timaeus, Oxford, 19622, pp. 245-7.
52. Fr. 638 Nauck2, citato parzialmente già in PLAT. Gorg. 492 e.
53. 31 B 2, 7 segg. Diels-Kranz.
54. 31 B 2, 5 Diels-Kranz.
55. 22 B 47 Diels-Kranz.
56. Il grande Ippocrate veniva interpretato sia in senso dommatico
sia in senso scettico-empirico, come risulta frequentemente dagli
scritti di Galeno.
57. HOM. II. XX 248-50.
58. Per questi termini scettici cfr., tra l’altro, SEXT. EMP. Pyrrh.
hyp. 1, 8, 9, 10, 31, 190, 196; III 81 etc.
59. Cfr. SEXT. EMP. Pyrrh. hyp. I, 14, 21-22, 197.
60. Cfr, ibid. I, 188.
61. Cfr. ibid. I, 198-202.
62. Per la critica scettica alla concezione della provvidenza cfr.
CIC. De mat. deor. III, 25-39.
63. 9 B 80 Diels.
64. Cfr. SEXT. EMP. Pyrrh hyp. I, 191, 206-209.
65. Cfr. SEXT. EMP. Pyrrh. hyp. I, 202-205; Adv. log. II, 480-481.
66. L’obiezione dommatica, che qui Diogene si limita solo a
riportare senza discuterla (quasi ad indicare una sua timida riserva
verso lo Scetticismo), viene ampiamente controbattuta in SEXT. EMP.
Adv. log. II, 463-469.
67. La chiarezza noumenica è, però, solo astratta, priva di ogni
evidenza sensibile e, quindi, non degna, secondo gli Scettici, di
essere conseguita. Il vero problema, invece, è quello della
conoscenza dei πράγματα, ossia degli oggetti reali che si presentano
ai nostri sensi. Nella traduzione ho evidenziato il termine
μεέχουσιν per la sua provenienza platonica che, ovviamente, non
sfuggì specialmente agli accademici Arcesilao e Cameade.
68. Per quest’opera di Enesidemo cfr. ARNIM, Ainesidemos in «RE», I,
col. 1023 e BURKHARD, Die angebliche Heraklit-Nachfolge des skep.
Aen., Bonn, 1973, PP. 161-5.
69. Diogene, forse sotto l’influsso dell’Accademia post-Carneadea,
sembra spostare su un piano di persuasione retorica quello che,
invece, secondo gli Scettici, è un problema di autentica
gnoseologia.
70. Circa la derivazione di questa sezione laerziana da Sesto
Empirico vedasi BRÖCKER, Die Tropen der Skeptiker,«Hermes», LXXXV,
1958, pp. 497 segg. Non è, comunque, da escludere completamente la
tesi (BROCHARD, Les sceptiques grecs, cit., pp. 259 segg.) di un
recupero neo-scettico di un’antica tropologia pirroniana. Per più
ampie notizie cfr. pp. 544-6, 567-605 del presente volume.
71. Questo tropo, già riportato in PHIL. De ebriet. 171-175, si
trova ampiamente illustrato in SEXT. EMP. Pyrrh. hyp. I, 40-78.
72. Questo tropo, già riportato in PHIL. De ebriet. 175-177, si
trova ampiamente illustrato in SEXT. EMP. Pyrrh. hyp. I, 79-89.
73. Fr. 103 Rose2.
74. Questo tropo, mancante in PHIL. De ebriet.,è sviluppato in SEXT.
EMP. Pyrrh. hyp. I, 90-99.
75. Questo tropo, riportato in PHIL. De ebriet. 178-180, è
ampiamente sviluppato in SEXT. EMP. Pyrrh. hyp. I, 100-117.
76. Per questo stoico, menzionato unicamente in questo luogo
laerziano, vedasi POHLENZ, La Stoa, I, trad, ita!., Firenze, 1967,
p. 503.
77. Questo tropo, riportato in PHIL. De ebriet. 193-197, è
sviluppato in SEXT. EMP. Pyrrh. hyp. I, 145-163.
78. Così il Gigante (ad hoc); lo Shorey («Class. Philology», XXII,
1927, p. 10) proponeva «scuole filosofiche».
79. Fr. 14 Gisinger = 278 a Lasserre.
80. I Greci, infatti, l’avevano esercitata per dura necessità come
attività quasi politica (cfr. THUCID. I, 5 segg.).
81. Questo tropo, riportato in PHIL. De ebrietà 189-192, si ritrova
in SEXT. EMP. Pyrrh. hyp. I, 124-128.
82. Questo tropo, riportato in PHIL. De ebriet. 181-183, si ritrova
in SEXT. EMP. Pyrrh. hyp. I, 118-123. Una singolare coincidenza tra
le argomentazioni di questo tropo e quelle presenti in un papiro
segnalato da E. Egger nel 1870 in Comptes rendu de l’Acad. des
Sciences pp. 465-8, pubblicato da K. Wessely nel 1891 in «Wiener
Studien», pp. 313-21, ed emendato, fra gli altri, anche dal nostro
Olivieri in «Riv. it. fil. class.», XXIX, 1901, pp. 73-6, e anche
recentemente molto studiato e discusso, è stata ampiamente rilevata
dal Lasserre (Un papyrus sceptique méconnu. P. Louvre inv. 7733 R°,
in Le monde grec, Homm. a. C. Pre-aux, Bruxelles, 1975). Ne
riportiamo la traduzione italiana:
«(I) Ci si presentano [due oggetti?] in aspetto di aria, giacché
entrambi i colori appaiono insieme e, per di più, l’aria prende il
sopravvento a cagione della sua quantità e, alla fine, immense
grandezze diventano invisibili a poco a poco. E, invero, isole e
città e località che sono situate a grande distanza tra loro – come,
del resto, tutti gli altri oggetti i cui colori l’aria non può
affatto occultare – vengono necessariamente avvistate da grandissima
distanza, ma le loro dimensioni, da grandissime che sono, appaiono
molto piccole. Ma se si accorcia o viene a mancare lo spazio che li
divide in maggiori o minori» e se i colori …
(II) …Si ha un’aporia… sebbene essi [gli astri] siano così grandi,
se la luce fraziona ad intervalli le loro grandezze, gli astri
appaiono ingranditi nella loro traslazione, mentre appaiono
rimpiccioliti nel caso che…
(III) …Ragion per cui ci si può trovare in aporia anche in merito al
calore e allo splendore della luce che si diffonde intorno al sole.
Non è, pertanto, unica la causa per cui le masse di questi astri
appaiono rimpicciolite e alla fine scompaiono quasi del tutto, a
meno che non diventino manifeste per mezzo dei raggi.
Necessariamente anche gli oggetti che sono in movimento sembrano
stare fermi, quando si trovino a grande distanza [da noi]. Quando,
invero, viene ad essere circondata completamente la loro grands
massa, noi, neppure se siamo dappresso, riusciamo a percepire il
movimento che…
(IV) Ma la loro dimensione sembra ingrandirsi al loro sorgere e al
loro tramonto, anche se essi non mutano di molto il loro posto. Di
queste cose noi reputiamo che siano causa i loro movimenti. Ed è
chiaro: quando, infatti, essi sorgono o tramontano, noi abbracciamo
con lo sguardo ogni loro spostamento circolare: difatti, poiché
l’astro che si leva appare sempre più grande di momento in momento,
non può non sembrarci che quei corpi non mutino posizione. Ecco
perché, immediatamente dopo il loro sorgere, noi percepiamo ancora
la loro traslazione, vedendo…
(V) …La loro dimensione, per il fatto che si va ingrandendo a poco a
poco, non diviene tutta quanta manifesta allo stesso modo.
D’altronde ci sono molti oggetti che, guardati durante i loro
movimenti, sembrano subire mutamenti. E altri oggetti, che sembrano
trovarsi nelle medesime condizioni di quelli che sono in movimento,
sembrano mossi anch’essi, e, per converso, quegli oggetti che si
trovano nelle medesime condizioni di oggetti che sono fermi,
sembrano anch’essi essere fermi. Difatti le imbarcazioni che corrono
alla stessa velocità e quelle che conservano costantemente tra loro
la medesima distanza, appaiono sovente come ferme, giacché non (c’è)
nulla di più o di meno…».
Pur con le dovute cautele, il Lasserre (pp. 547-8) propende per
l’assegnazione del papiro a Timone o a Nausifane. Certi elementi di
fisica democritea, che pur vi appaiono in modo evidente, non
escluderebbero l’animus scettico dell’anonimo autore, dati gli
stretti rapporti tra il primo pirronismo ed i seguaci
scetticheggianti dell’atomismo (rapporti di Pirrone con Anassarco e
con Nausifane). Meno probabile l’assegnazione – che pur è stata
autorevolmente avanzata – ai circolo epicureo o a quello
peripatetico, di cui, comunque, non mancano alcuni indizi. Stando al
Lasserre (p. 548 ad finem), il papiro potrebbe essere considerato «à
ce jour le témoin unique de la formulation de la doctrine de Pyrrhon
à ses origines et cette particularité lui confère une valeur
documentaire qu’on ne saurait estimer assez haut». Le quasi
solitarie tesi di von Fritz ricevono, così, un grande conforto.
83. Questo tropo, che si ritrova mescolato col precedente in PHIL.
De ebriet. 189 S3gg., è svolto in SEXT. EMP. Pyrrh. hyp. I, 128-134.
84. L’aggiunta del Cobenius è stata espunta dal Long sulla base del
testo sestiano.
85. Questo tropo, mancante in PHIL. De ebriet.,è svolto in SEXT.
EMP. Pyrrh. hyp. I, 141-144.
86. Fr. 26 Barigazzi = GELL. XI, 5, 1.
87. Almeno per quanto concerne Sesto la notizia di Diogene è errata;
non possiamo dire se lo sia altrettanto per Enesidemo.
88. Questo tropo, presente in PHIL. De ebriet., 186-188, si ritrova
in SEXT. EMP. Pyrrk. hyp. I, 135-140.
89. Sesto usa direttamente l’espressione ἄπò τοὖ πρóς τι invece del
termine σύμβλησις ed a questo tropo conferisce, giustamente, la
massima importanza.
90. L’atetesi proposta dal Cobenius è accettata dal Long.
91. Per i seguenti cinque tropi «speculativi» di Agrippa cfr. SEXT.
EMP. Pyrrh. hyp. I, 164-177, nonché pp. 643-50 del presente volume.
92. Probabile allusione alla teoria dei «pori intellegibili»
sostenuta da Asclepiade di Bitinia, il cui allievo Temisone di
Laodicea fu tra i fondatori della scuola metodica (cfr. SEXT. EMP.
Pyrrh. hyp. II, 96, 140; Adv. log. II, 146, 306, 309 etc.).
93. Diogene mette un po’ alla rinfusa quello che, invece, viene
sistematicamente esaminato da Sesto Empirico sia nelle Ipotiposi
pirroniane sia negli ancor più maturi e approfonditi trattati Contro
i dommatici.
94. Per un approfondimento della critica scettica all’apodissi cfr.
SEXT EMP, Pyrrh. hyp. II, 20, 85, 134-191 e Adv. log. II, 300-481.
95. L’allusione ironica e tagliente sembra rivolta ad Aristotele,
che aveva sostenuto che non si può dare dimostrazione di tutto e
aveva posto gli assiomi come princìpi indimostrabili (cfr. ARISTOT.
Metaph. 997 a 7-11, 1005 a 20 segg., ion a 13, 1090 a 36).
96. Si tratta delle quattro «radici» empedoclee (terra, acqua, aria,
fuoco), ampiamente criticate, ma sostanzialmente accolte dai
«fisici» peripatetici e, anche, stoici.
97. Per un approfondimento di questo diallelo cfr. SEXTO EMP. Adv.
log. II, 379-390.
98. Su questo punto converge la massima parte dell’anti-gnoseologia
scettica: non si tratta di «salvare i fenomeni» (a ciò aveva
genialmente pensato anche Aristotele nelle sue posizioni
anti-eleatiche), ma di acclarare l’impossibilità di stabilire un
rapporto, da parte dei fenomeni, sia con la realtà delle cose sia
col pensiero.
99. Un approfondimento della critica scettica al concetto di
«ipotesi», è soprattutto in SEXT EMP, Adv. math. III, 1-18. Poiché
le scienze matematiche sono quelle che massimamente fanno uso di
ipotesi-postulati, gli Scettici sono particolarmente ostili ad esse
(cfr. quanto ho scritto in SESTO EMPIRICO, Contro i matematici, pp.
XXIV-XXX).
100. Cfr. SEXT EMP, Pyrrh. hyp. II, 85-96.
101. <mentre altre sono false>, come supplisce ovviamente
Reiske (cfr. Gigante ad hoc).
102. In altri termini, si viene a scadere dal mondo dell’ἐπιστήμη a
quello contraddittorio della δóξα, che è ritenuto labile non solo
dagli Scettici, sostenitori dell’άδοξαστία, ma anche dai più
rigorosi Dommatici.
103. I Platonici, ad esempio, hanno soppresso il sensibile, gli
Epicurei Tintellegibile, mentre i Peripatetici e gli Stoici hanno
tentato di salvare capre e cavoli (cfr., tra l’altro, SEXT EMP, Adv.
log. I, 203-226).
104. Si perviene, così, a quella άδίαοpία che è uno dei
cardini etico-gnoseologici del più remoto Pirronismo.
105. Viene qui utilizzata, non senza la mediazione dell’Accademia
Nuova, la celebre critica platonica e aristotelica al fenomenismo di
Protagora (cfr. PLAT. Theaet. 152 a segg.; ARISTOT. Metaph. IV, 5).
106. Altrimenti, secondo gli Scettici, la filosofia si ridurrebbe a
retorica, ossia all’«arte delle parole» (ARISTOT. Rhet. 1354a 22), e
questo rischio avevano corso i post-Carneadei fino a Cicerone,
mentre gli ultimi Scettici furono, al pari di Platone, intransigenti
verso quest’attività (cfr. SEXT EMP, Adv. math. II passim e mie
annotazioni introduttive nelle pp. xx-xxiv della traduzione
italiana. Circa le doti personali dell’oratore, sulla cui efficacia
persuasiva aveva ampiamente insistito Aristotele, si rinvia alla mia
Filosofia della retorica in Aristotele, pp. 31-42).
107. Per un più approfondito esame di queste teorie scettiche cfr.
SEXT. EMP. Pyrrh. hyp. II, 22-79; Adv. log. I, 29 segg.
108. Per una critica deiruomo-criterio cfr. SEXT EMP, Adv. log. I,
263-342.
109. Per la critica del senso-criterio cfr. SEXT EMP, Adv. log. I,
343-347. no.
110. Per la critica della ragione-criterio cfr. SEXT. EMP. Adv. log.
I, 348-353. Sesto, però, aggiunge anche l’impossibilità di porre
come criterio l’insieme di senso e intelletto (Adv. log. I, 354-358)
e l’anima (ivi, 359-368).
111. Questa celeberrima teoria stoica è ampiamente confutata in
SEXT. EMP. Adv. log. I, 369 segg.
112. Approfondite discussioni sul segno sono in SEXT EMP, Pyrrh.
hyp. II, 97-103, 107-133 e, ancor più, Adv. log. II, 1-299.
113. Una più ampia discussione circa le aporie della causa – ridotta
a sola causa agente — si trova in SEXT. EMP. Pyrrh. hyp. II, 13-29;
Adv. phys. I, 207-217.
114. Per le aporie del processo di generazione-corruzione, su cui
aveva particolarmente insistito già Aristotele nell’opera omonima,
cfr. SEXT. EMP. Pyrrh. hyp. III, 109-114 e, più approfonditamente,
Adv. phys. II, 310-350.
115. Delle altre cause aristoteliche (per cui cfr. ARISTOT. Phys.
II, 3; Methaph. V, 2) non si fa cenno alcuno né in Diogene né in
Sesto. L’aitiologia stoica, invero, aveva implicitamente mirato a
ridurre le cause a quella agente, e gli Scettici avevano di mira,
come è noto, particolarmente le dottrine stoiche.
116. Molto più ampiamente si trovano sviluppate le aporie del
movimento in SEXT. EMP. Pyrrh. hyp. III, 63-80 e, soprattutto, Adv.
phys. II, 37-168.
117. Il verbo «è» viene eristicamente usato in senso di «sta» e in
senso di «esiste»: gli Scettici, nel rifarsi alla celebre posizione
anti-cinematica di Zenone di Elea (cfr. ARISTOT. Phys. VI, 9),
utilizzavano la sottile esperienza dei Megarici e, in particolare,
di Diodoro Crono (cfr. frr. 122-125 e commentario a pp. 129-131
Döring).
118. Le aporie anti-pedagogiche sono più approfonditamente svolte in
SEXT. EMP. Pyrrh. hyp. III, 253; Adv. math. I, 9-40 (cfr. mie note
introduttive a pp. XII-XIII della traduzione italiana); Adv. eth.
216 segg.
119. Cfr. SEXT EMP, Pyrrh. hyp. III, 109-114; Adv. phys. II, 310
segg.
120. Per una più ampia trattazione cfr. SEXT EMP, Pyrrh. hyp. Ili,
179-187; Adv. eth. 42 segg.
121. L’opinione (δóξα) cui si riduce, alla fine dei conti, ciascuna
teoria dommatica, ha sempre in sé la propria contraddizione, come
avevano già rilevato i pensatori classici da Parmenide a Platone. E
su questo punto erano d’accordo gli Scettici (cfr. mia Introduzione
a SESTO EMPIRICO, Centro i logici, pp. ix-x).
122. Cfr., tra l’altro, EPIC. Ad Menee. 128-132.
123. Fr. III c Decleva.
124. Da sottolineare la frequenza del ricorso scettico al principio
di non-contraddizione.
125. Queste obiezioni dommatiche, particolarmente focalizzate contro
l’anti-apoditticità scettica, si trovano drammaticamente ampliate in
SEXT. EMP. Adv. log. II, 463-481.
126. Sulla indiscutibile realtà dei πάϑη erano d’accordo Scettici e
Cirenaici: di qui il frequente — anche se sorprendente accostamento
— di questi due indirizzi da parte della tradizione (cfr. ARISTOCL.
apud Euseb. Praep. ev. XIV, 18 ad finem).
127. Cfr. SEXT. EMP. Pyrrh. hyp. I, 188-209 e la loro riduzione
laerziana in § 74.
128. Oppure, col Richards, «come uno che sta vedendo veda» (cfr.
Gigante ad hoc).
129. Cfr. SEXT. EMP. Pyrrh. hyp. I, 17.
130. Fr. 9 B 81 Diels.
131. Fr. 9 B 69 Diels, riportato anche in SEXT EMP, Adv. log. I, 30.
132. Fr. 9 B 74 Diels. Per l’esempio del miele cfr. SEXT EMP, Pyrrh.
hyp. I, 20, e, per questioni interpretative, cfr. STOUGH, Greek
Skepticism, pp. 20-4.
133. Cfr. PHOT. Bibliot. 169 b 35-170 b 2.
134. Usando, nel tradurre, la celebre espressione dantesca (Inf.
XXVII, 120) ho inteso rilevare, ancora una volta, l’aderenza
scettica al classico principio di non-contraddizione (cfr. SESTO
EMPIRICO, Contro i logici, trad, it. pp. XLIV-XLVIII).
135. Fr. 281 Deichgräber.
136. Allievo di Zeusi e maestro di Menodoto e di Teoda e fenomenista
al pari di loro (cfr. Deichgräber, ibid.).
137. Questa notizia laerziana è, indubbiamente, troppo assertoria.
Anche se il fenomenismo fu molto utilizzato dagli Scettici e anche
se alcuni Scettici furono fenomenisti, un attento esame dell’opera
di Sesto ci induce a non pervenire a conclusioni troppo
semplicistiche (vedasi, al riguardo, G. CORTASSA, Tò φαινóμενον e
τòἄδηλον in Sesto Empirico, pp. 287-91).
138. Fr. 246 Usener.
139. Con molta immaginazione P. von der Mühll (Eine Lucke im Bericht
über Demokrits Lehre vom Kriterion bei Diog. Laert.,«Philologus»,
CVII, 1963, pp. 130 segg.) propone un’integrazione che andrebbe
tradotta così: «Democrito afferma che non esiste alcun criterio dei
fenomeni, mentre gli Stoici e i Peripatetici affermano che, dei
fenomeni, alcuni criteri esistono e altri no»
140. Cfr. SEXT. EMP. Pyrrh. hyp. I, 29.
141. Pec questo «conformismo» scettico, che, solo per qualche lato,
fa pensare alla «morale provvisoria» di Cartesio, cfr. SEXT. EMP.
Pyrrh. hyp. I, 25-27; III,235-237; Adv. eth. 158-161.
142. Così, forse, fu per i primi Scettici, anche sotto l’influsso
della concezione democritea dell’ἀϑαμβίη (68 A 169, 68 B 4; 75 B 3
Diels-Kranz); gli Scettici seriori mitigavano questa concezione con
la μετριοπάϑεια (cfr. SEXT. EMP. Pyrrh. hyp. I, 25; III, 235; Adv.
eth. 161).
143. Questa «virtù» scettica – che fa pensare all’evangelico
versetto «beati mites, quoniam ipsi possidebunt terram» (MATH. 4,25,
5, 4) – viene ricordata anche in SEXT. EMP. Adv. math. I, 6 in
contrasto con l’arroganza di Epicuro.
Scetticismo e pirronismo (SESTO EMPIRICO, Pyrrh. hyp., I, 7)
L’indirizzo scettico viene chiamato anche «zetetico»1 per il suo
attivo impegno nell’investigare [ζητεῖν] e nell’indagare
[σϰέπτεσϑαι], ed «efettico» per lo stato affettivo che, a seguito
della ricerca, viene a generarsi in colui che indaga2, ed
«aporetico» per il fatto che esso solleva aporie e questioni su ogni
cosa, come affermano alcuni3, oppure perché esso non ha i mezzi per
assentire o per negare; e si chiama, infine, «pirroniano», perché ci
risulta che Pirrone è pervenuto allo scetticismo in modo più
consistente e manifesto di quanti lo precedettero4.
1. Il presente paragrafo è analogo a DIOG. LAERT. IX, 69-70, ma vi
si riscontra una maggiore insistenza sulla ἐνέργεια dello
Scetticismo.
2. Qui l’ἐποχή viene identificata come πάϑοζ (stato affettivo) e non
come una mera posizione teoretica.
3. Probabile allusione agli Stoici, che costituivano il principale
bersaglio delle aporie scettiche. Sesto, ovviamente, propende per la
seconda parte dell’alternativa, ossia per l’ἀμηχανία, oggettiva e
reale impossibilità di dare l’assenso.
4. Motivi Scettici non erano mancati nel pensiero prepirroniano
(cfr. DIOG. LAERT. IX, 72-74; SEXT. EMP. Adv. log. I, 46 segg.), ma,
secondo l’Empirico, solo con Pirrone lo Scetticismo è diventato una
vera e propria άγὦγη].
Il «potere» dello Scetticismo e il «filosofo pirroniano» (SESTO
EMPIRICO, Pyrrh. hyp., I, 8-11)
Il «potere» [δύναμιζ] dello Scetticismo è quello di contrapporre in
qualsiasi maniera fenomeni e noumeni, e in virtù di tale potere noi,
a cagione dell’equipollenza che si riscontra nelle contrapposizioni
di cose reali e ragionamenti, giungiamo anzitutto alla «sospensione
del giudizio» e, dopo di ciò, all’«imperturbabilità».
Usiamo il termine «potere» in un’accezione non elaborata1, ma
semplice e conforme al significato del verbo «potere» [δύνασϑαι].
Col termine «fenomeni» intendiamo indicare, per ora2, le cose
sensibili, ragion per cui opponiamo ad essi quelle intellegibili.
L’espressione «in qualsiasi maniera» è riferibile sia al termine
«potere», per indicare che noi assumiamo questo termine, come
abbiamo detto, secondo un’accezione semplice, sia all’espressione
«quello di contrapporre fenomeni e noumeni»: difatti, poiché noi
operiamo questa contrapposizione in varie guise – contrapponiamo,
cioè, fenomeni a fenomeni o noumeni a noumeni oppure fenomeni a
noumeni –, usiamo la locuzione «in qualsiasi maniera» – per
abbracciare tutte quante le contrapposizioni. † Oppure,
infine, la suddetta locuzione è riferibile all’espressione «dei
fenomeni e dei noumeni»3 † – nel senso che noi non cerchiamo
«come» appaiono i fenomeni e «come» vengono concepiti i pensieri, ma
ci limitiamo ad assumere queste cose in modo semplice.
E assumiamo l’espressione «contrapposizione di ragionamenti» non per
indicare esaustivamente affermazione e negazione4, ma per
significare semplicemente «argomentazioni in contrasto tra loro».
Chiamiamo «equipollenza»5 la situazione di parità tra credibilità e
non-credibilità, volendo dire che nessuna delle argomentazioni
contrastanti è preferibile all’altra come meritevole di credito
maggiore.
«Sospensione del giudizio»6 è uno stato mentale a cagione del quale
noi non ci sentiamo né di respingere né di accettare.
«Imperturbabilità»7 è assenza di angoscia e stato di bonaccia.
Il modo in cui alla sospensione del giudizio si accompagna
l’imperturbabilità verrà da noi menzionato quando parleremo del fine
supremo8.
Insieme con la nozione di «indirizzo scettico» abbiamo dato
virtualmente anche quella di «filosofo pirroniano»: è tale, infatti,
chi partecipa del «potere» sopra indicato9.
1. Probabile allusione alla concezione peripatetica della δονάμζ
(cfr., in particolare, ARISTOT. Metaph. V, 12; IX, 1-3, 4-7): al
linguaggio «tecnico» dei Dommatici Sesto contrappone, come è suo
costume, il linguaggio della consuetudine (cfr. le mie osservazioni
in SESTO EMPIRICO, Contro i matematici, pp. XVI-XIX e Contro i
logic;, p. XLVI).
2. Circa la complessità di significati che il termine φαινóμενον
assume in Sesto, cfr. CORTASSA, Tò φαινóμενον e τò ἄδηλον in Sesto
Empirico, pp. 285-7.
3. Il passo tormentato (difeso dal Philippson sulla base dei codd.
LM, atetizzato, invece, dal Heintz come glossema) viene integrato
dal Mau con la semplice inserzione di τῷ (ed. Teubner p. 211)
suggerita dai codd. AEB Il Tescari (Schizzi pirroniani, p. 9),
intuendo acutamente il problema, già traduceva: «Oppure si riferisce
ai fenomeni e alle percezioni intellettive, come a dire “in
qualsivoglia maniera quelli e queste accadano”».
4. Gli Stoici solevano ridurre gli «opposti» ai soli
«contraddittori», mentre gli Scettici li estendevano anche ai
«contrari» (cfr. SEXT. EMP. Adv. log. II, 87-90). Gli uni e gli
altri, però, venivano sostanzialmente a impoverire la celebre
distinzione aristotelica di Cat. 10-11.
5. Per concreti esempi di ἱσοσϑένεια cfr., tra l’altro, SEXT. EMP.
Pyrrh. hyp. II, 130 e Adv. log. II, 129, 298.
6. In § 7 Sesto si era limitato ad usare il termine πάϑοζ; qui,
invece, ulteriormente determinando. l’ἐποχή, usa il termine στάσιζ
διανοίαζ. In questa «wealth of synonymithy» (JANÁČEK, Sextus
Empiricus Sceptical Methodus, p. 131) è da riscontrare un certo
tormento concettuale dell’autore e non un mero bisogno di
chiarificazione stilistica.
7. Per l’ἀταραξία, che di solito è congiunta all’ἐποχή, cfr. SEXT.
EMP. Pyrrh. hyp. I,18, 25, 30, 205, 215, 232; Adv. eth. 147.
8. Ossia in Pyrrh. hyp. I,25-30, ove si precisa la definizione del
τέλοζ come «l’imperturbabilità nelle cose opinabili e la moderazione
nelle affezioni che sono per necessità».
9. Nella tarda ricostruzione del Pirronismo viene, così, attribuito
al maestro di Elide, in embrione, ciò che gli Scettici hanno
elaborato nel corso plurisecolare della loro ἀγωγή.
Polemiche «pirroniane» contro quanti professano scienze ed arti
(SESTO EMPIRICO, Adv. math., I, 1-6)
Sembra che tanto gli Epicurei1 quanto i Pirroniani abbiano condotto
di comune accordo la loro polemica contro quelli che professano
scienze ed arti, ma in realtà essi partono da ben differenti punti
di vista. Epicuro, infatti, sostiene che gli oggetti delle scienze e
delle arti non ci sono di alcun aiuto per il conseguimento ci una
perfetta sapienza, o piuttosto, come reputano alcuni2, egli – poiché
si lascia sorprendere impreparato in molte questioni e scorretto
persino nelle più comuni conversazioni – pensa di poter mascherare
in tal modo le manchevolezze della propria cultura e, quindi, si
comporta così per la sua avversione contro Platone, Aristotele ed
altri simili filosofi, i quali possedevano, invece, le più svariate
conoscenze; né è, d’altronde, inverosimile che egli sia stato spinto
a ciò anche dall’odio che nutriva contro Nausifane3, allievo di
Pirrone, poiché questi attraeva a sé molti giovani e si dedicava con
serietà allo studio delle arti e delle scienze, e in modo
particolare della retorica. Epicuro, pertanto, pur essendo stato suo
discepolo, mirava a far credere di essere un filosofo autodidatta e
del tutto originale, e negava, perciò, un tale fatto nel modo più
reciso e si dava da fare per distruggere la fama di Nausifane e
lanciava aspre accuse contro quegli studi nei quali questi
eccelleva. E nella Lettera ai filosofi di Mitilene4 egli scrive:
«Sono oltremodo convinto che i miserabili vogliono far credere
che io sia stato discepolo di quel mollusco e che gli abbia dato
ascolto in compagnia di certi giovani scapestrati»; e chiamava
«mollusco» Nausifane per dire che era uno stupido; e, proseguendo
nel suo scritto, dopo aver molto sparlato di quell’uomo, ne mette
tuttavia in rilievo i progressi nel campo degli studi dicendo: «Egli
era senz’altro un uomo da nulla, anche se aveva fatto fino in fondo
tutte quelle esercitazioni mediante le quali non si può mai
pervenire alla sapienza». e intendeva alludere proprio alle scienze
e alle arti.
In sostanza Epicuro, come si potrebbe affermare in base a
congetture non infondate, fu spinto da siffatti motivi a polemizzare
contro le scienze e le arti; ma i Pirroniani non furono mossi né
dalla convinzione che queste non fossero utili alla sapienza – ché
un tale ragionamento sarebbe di carattere dommatico5 – né da
mancanza di cultura che in loro si annidasse, giacché, oltre ad
essere dotati di un’istruzione e di un’esperienza superiori a quelle
di tutti gli altri filosofi6, essi si comportano anche con
indifferenza di fronte alle opinioni delle moltitudini7, né, d’altra
parte, agiscono in questo modo per avversione verso qualcuno (che
una tale cattiveria è ben lungi dalla loro mitezza)8, ma perché di
fronte alle scienze e alle arti essi hanno provato le stesse
impressioni che di fronte alla sapienza in generale. Ad essa,
infatti, si volsero per il desiderio di cogliere la verità, ma poi
sospesero il giudizio, perché erano venuti a trovarsi di fronte a
soluzioni contrastanti ed equipollenti e alla mancanza di regolarità
che è nelle cose stesse; così pure, per quel che concerne le arti e
le scienze, dopo essersi protesi alla loro conquista per cercare di
apprendere la verità che era anche in esse, non si nascosero di
avervi incontrato le medesime difficoltà9.
1. Fr. 227 Usener; Arrighetti pp. 458-9.
2. Probabilmente Stoici e Accademici, del cui anti-epicureisino
l’autore si compiace. Per la «volgarità» di Epicuro nelle sue
polemiche contro gli altri filosofi cfr. PLUTARCH. Adv. Col. 1108 b,
1116 e; Contra Epic. béai. 1086 e.
3. Cfr. CIC. De nat. deor. I, XXVI, 72; DIOG. LAERT. X, 7-8: 75 A 7
Diels-Kranz. Che qui si tratti solo di ritorsione polemica e che ben
diversa fosse la spiritualità del grande filosofo di Samo già molto
bene rilevò R. Philippson (Die Rechtsphilosophie der
Epikureer,«Archiv. für Gesch. der Philos.», XXIII, 1910, pp. 33-46;
289-97).
4. Fr. 114 Usener = 141 Arrighetti. Circa la polemica
anti-nausifanea cfr. ISNARDI-PARENTE, Techne, Firenze, 1966, pp. 367
segg.
5. Per la distinzione tra utilità pratica e infondatezza teoretica
dei μαϑήματα cfr. SEXT. EMP. Adv. math. I,49-56; V,1-3.
6. Si evince di qui che la paideia scettica, pur con i suoi fermenti
demolitori e rivoluzionari, era pur sempre inserita nel grande alveo
della cultura classica, anzi in essa mirava a distinguersi con uno
stile aristocratico.
7. L’ἀδιαφορία e l’ἀδοξαστία, due concezioni che risalgono al più
vecchio Pirronismo, vengono qui abilmente accostate.
8. Per la munificenza di Alessandro verso Pirrone cfr. PLUTARCH. De
Alex. fort. aut virt. 331e.
9. Così Sesto sottolinea che l’ἐπoχή non una posizione aprioristica,
ma il risultato di tutto un tormento conoscitivo.
Pirrone e la poesia omerica (SESTO EMPIRICO, Adv. math. I, 280-282)
Di testimonianze poetiche non si serve chi esercita la filosofia in
modo genuino (giacché la sua parola è ben bastevole a persuadere),
ma quelli che intendono suggestionare la gran massa del
popolino1. Non è difficile, infatti, mostrare che i poeti sono in
conflitto tra loro. E Pirrone, accusatore dei grammatici2, srotolava
a parte a parte la poesia di Omero non certo per il motivo sopra
riferito3, ma forse per un’attrattiva di carattere psicologico e
come se assistesse ad una commedia, e forse anche per dare
un’occhiata ai tropi poetici e ai caratteri, giacché, come si dice,
egli scrisse un poema in onore di Alessandro il Macedone e fu da
questo ricompensato con migliaia di monete d’oro4. E non è
improbabile che ci fossero anche altri motivi, di cui abbiamo fatto
cenno negli Scritti Pirroniani5.
1. Non possiamo dire se qui venga esposto un genuino mod0 di pensare
di Pirrone. Certamente, però, nella scepsi seriore confluivano le
posizioni antipoetiche (e quelle anti-retoriche) di Platone anche
attraverso la tradizione accademica.
2. L’opposizione degli Scettici ai grandi grammatici alessandrini fu
antichissima, come è provato dall’aguzza satira di Timone (fr. 2
Diels = 60 Wachsmuth) che considerava a corrotto a il testo omerico
di Zenodoto e preferiva leggere Omero su copie antiche (cfr.
PFEIFFER, History of classical Scholarship, I, Oxford, 1968, p. 203
e mie note in SESTO EMPIRICO, contro i matematici, pp. XIX-XX).
3. Ossia per acquistare la saggezza. In § 272 di Adv. math. I, Sesto
osserva: «…possiamo riscontrare che gli stessi accusatori della
grammatica, Pirrone ed Epicuro, hanno ammesso la necessarietà di
questa; e si sa che, tra questi, Pirrone leggeva assiduamente la
poesia omerica, la qua1 cosa egli non avrebbe mai fatta, se non
avesse riconosciuto llutilità di tale poesia, e quindi anche la
necessarieti della grammatica)».
4. Per la munificenza di Alessandro verso Pirrone cfr. PLUTARCH. De
Alex. fort. aut virt. 331 e.
5. Manca qualsiasi cenno in merito in Pyrrh. hyp. Secondo Haas
(Progr., Berlin, 1870) Sesto accennerebbe ad una sua biografia di
Pirrone che non ci è pervenuta.
L’eccessivo rigorismo di Pirrone secondo le testimonianze
ciceroniane
(Tusc., II, VI, 15)
In primo luogo tratterò della fiacchezza morale di molti filosofi,
seguaci di svariati indirizzi. Il socratico Aristippo, primo fra
costoro per l’età in cui visse e per l’influenza esercitata sugli
altri, non esitò ad affermare che il dolore è il male supremo; in
appresso Epicuro si rivelò fin troppo ligio a questo modo di pensare
snervato e femmineo; e dopo costui Ieronimo di Rodi1 sostenne che
sommo bene è la liberazione dal dolore. Tutti quanti gli altri –
eccettuati, però, Zenone2, Aristone3e Pirrone4 – hanno fatto quasi
le stesse tue affermazioni di poc’anzi: ossia che il dolore è
senz’altro un male, ma che ce ne sono altri più gravi.
(De fin., II, XIII, 43)
Poiché ad Aristone e a Pirrone queste cose [ossia il piacere e la
liberazione dal dolore] sono parse una nullità assoluta fino al
punto che essi affermavano non esserci affatto alcuna differenza tra
il godere ottima salute e l’essere gravemente infermi, a ragione si
è smesso, già da tempo, di discutere contro costoro5.
(De fin., III, III-IV, 10-12)
«Se tu mi verrai a dire – soggiunse Catone6 – che oltre
ciò-che-è-onesto si debba bramare una qualche altra cosa e se tu
annovererai quest’ultima tra i beni, avrai di già spento quel faro
di virtù che è l’onestà e avrai smantellato la virtù dalle
fondamenta».
«O Catone, – diss’io – codeste tue affermazioni sono magnifiche! Ma
non ti accorgi di avere in comune il vanto di queste parole con
Pirrone e con Aristone, i quali assegnano a tutte le cose un valore
identico?7 Vorrei proprio sapere cosa pensi di costoro!»
«Ma vuoi sapere tu – rispose lui – quello che ne penso io? Quegli
uomini di cui abbiamo sentito parlare dalla tradizione o che noi
stessi, nella nostra pubblica attività, abbiamo visto essere buoni,
forti, giusti e moderati e che, pur senza alcuna cultura filosofica,
hanno seguito direttamente la natura, proprio costoro sono stati
educati dalla natura meglio di quanto li avrebbe potuto educare la
filosofia, se mai ne avessero professata una qualche altra e non già
quella che ripone tra i beni esclusivamente l’onestà e tra i mali
esclusivamente la turpitudine morale. Tutte le altre correnti
filosofiche – quale più e quale meno, ma, in complesso, tutte – che
annoverano tra i beni o tra i mali una qualche cosa che non
partecipi della virtù, a mio avviso non solo non offrono alcun
giovamento e non contribuiscono a renderci migliori, ma guastano
persino la natura. Difatti, se non si tiene fermo questo principio –
che, cioè, è buono solo quello che è onesto –, è impossibile provare
in alcun modo che la vita beata è il risultato della virtù. Se,
infatti, si ammette la possibilità che uno che è sapiente sia
infelice, allora io mi guarderò bene dall’annettere un gran pregio a
codesta virtù che voi glorificate e celebrate».
«Quello che tu hai detto finora – osservai io – avresti potuto
egualmente affermarlo, se tu fossi stato un seguace di Pirrone o di
Aristone.
Tu, infatti, sai bene che ciò che tu chiami onesto essi lo
ritengono, al pari di te, non soltanto sommo, ma unico bene. E se la
faccenda sta così, ne consegue proprio quello che, a mio avviso,
vuoi tu: che, cioè, i sapienti sono tutti e sempre beati. Dai tu,
allora, l’approvazione a questi due filosofi e pensi che ne dovremmo
seguire questi punti di vista?»
«Non lo penso per niente! – rispose lui – Difatti, mentre è
peculiare caratteristica della virtù operare una scelta fra tutte le
cose che sono conformi alla natura, codesti filosofi assegnarono a
tutte le cose il medesimo valore e le resero tanto uguali in un
senso e nell’altro fino al punto da non operare tra di esse alcuna
scelta; e la conseguenza di tutto questo fu la soppressione della
stessa virtù»8.
(De fin., III, XV, 50)
Di poi si fa l’esposizione della differenza tra le cose: e se noi
dicessimo che questa differenza non sussiste affatto, tutta la vita
verrebbe messa in uno stato di confusione, come fa Aristone9, e alla
sapienza non si potrebbe assegnare alcun compito, anzi la sua
presenza non sarebbe affatto necessaria, dal momento che non vi
sarebbe alcuna differenza tra le cose concernenti la condotta della
vita e non sarebbe indispensabile operare scelta alcuna. Perciò, una
volta stabilito che è bene solo quello che è onesto e che è male
solo quello che è turpe, gli Stoici hanno sostenuto che esiste,
comunque, un qualcosa di «differente» pur tra quelle cose che non
hanno alcun valore per il conseguimento di una vita beata o
infelice: di guisa che certe cose sono valutabili positivamente,
altre negativamente, altre, infine, sono neutre10.
(De fin., IV, XVIII, 48-49)
Ora vengo a quelle tue prove concise cui dai il nome di
«conclusioni»11, e in primo luogo a quella che è la più concisa di
tutte: «Tutto-ciò-che-è-buono è lodevole; ma è lodevole
tutto-ciò-che-è-onesto; dunque è buono tutto-ciò-che-è-onesto». Ma è
un coltello senza punta! Chi, infatti, ti concederà la premessa
maggiore (e, a dire il vero, se viene concessa questa non ci sarà
affatto bisogno della minore, giacché, se tutto-ciò-che-è-buono è
lodevole, allora ogni cosa buona risulta essere onesta)? Chi,
dunque, ti farà questa concessione al di fuori di Pirrone, di
Aristone e di quanti la pensano come loro? Tu, però, ne respingi le
dottrine!
(De fim., IV, XXII, 60)
Se bisogna discutere sui contenuti reali, non ci può essere alcun
disaccordo tra me e te, o Catone: difatti non c’è alcuna cosa su cui
tu la pensi in modo diverso dal mio, purché ne cangiamo le
espressioni verbali e mettiamo faccia a faccia le cose nella loro
realtà. Questo lo vide bene anche Zenone, ma si lasciò adescare
dalla grandiosità e dal vanto della terminologia; ma, se egli avesse
un pensiero pienamente conforme al significato delle parole che
dice, non ci sarebbe alcuna differenza tra lui e Pirrone o Aristone.
(De fin., V, VIII, 23)
Le ormai screditate e dismesse opinioni di Pirrone, di Aristone e di
Erillo12 noi le abbiamo dovuto ritenere del tutto inutilizzabili,
perché non possono essere inserite nelle questioni di cui abbiamo
tracciato i limiti. Difatti, tutta questa nostra attuale indagine
sui fini e, per così dire, sui limiti estremi dei beni e dei mali ha
come punto di partenza ciò che è adatto e conforme alla natura e ciò
che di per se stesso è l’oggetto primario della nostra appetizione;
invece proprio questo viene interamente eliminato da quei filosofi i
quali sostengono che, nell’ambito di quelle cose in cui non è
incluso nulla che sia onesto o turpe, non c’è alcun motivo perché si
debba dare la preferenza ad una piuttosto che ad un’altra, e
ritengono che, entro quelle cose, non sussista affatto differenza
alcuna.
(De fin., V, XXV, 73)
Molte cose sono state dette dagli antichi in merito alla necessità
di biasimare e disprezzare i beni di fortuna; e Aristone13 si
attenne scrupolosamente a questo principio: egli sostenne, infatti,
che tranne i vizi e le virtù non esiste cosa alcuna che vada
rispettivamente fuggita o desiderata.
(De off., I, II 6)
Adunque questi indirizzi filosofici [ossia quelli edonistici], nel
caso che intendano conservare una loro coerenza, non sarebbero in
grado di fare alcuna affermazione a proposito del «dovere», ed è
impossibile, a proposito del dovere, tramandare alcun insegnamento
fermo, stabile e strettamente conforme alla natura, se non si parte
dalle teorie di quelli che sostengono doversi aspirare
esclusivamente all’onestà o, almeno, di quelli che affermano doversi
aspirare ad essa, di per sé, più che ad ogni altra cosa. Così questa
facoltà di insegnare è peculiare agli Stoici, agli Accademici e ai
Peripatetici, dato che ormai da tanto tempo è stato messo fuori uso
il pensiero di un Aristone, di un Pirrone, di un Erillo, i quali,
comunque, avrebbero un loro diritto a discutere sul «dovere», se
avessero lasciato una certa facoltà di scegliere tra le cose e un
qualche spiraglio al rinvenimento di quello che realmente si deve
fare14.
1. Peripatetico del III sec. a. C. accostato da Cicerone in più
luoghi (Tusc. V, XL, 117 = 499 Usener; De fin. II, III, 8) con
superficialità all’epicureismo (cfr. G. ARRIGHETTI, Jerónimo di
Rodi,«Studi Classici e Orientali», III, 1955, pp. 111-28; EPICURO,
Opere a cura di Ismardi-Parente, Torino, Utet, 1974, pp. 456-7;
WEHRLI, Die Schule des Aristoteles, Heft. X, pp. 10-4, 30-2).
2. Zenone di Cizio, fondatore della Stoa (per la questione cfr.
POHLENZ, La Stoa, I, cit., pp. 25 segg.).
3. Cfr. Stoic. vet. frag. I, 333-403 Arnim e, dello stesso Arnim,
voce Ariston in «RE», II, col. 957.
4. Questo singolare accostamento fra pensatori di indirizzi
destinati a polemizzare per secoli tra loro risale a Carneade ed ad
Antioco di Ascalona (cfr. M. POHLENZ, Grundfragen der Stoischen
Philosophie, «Abhand. Göttinger Gesellschaft», phil-hist. Klasse 3
Folge XXVI, 1940, pp. 67-70).
5. L’humanitas di Cicerone, seguace di Filone di Larissa e, insieme,
di Antioco di Ascalona, non è affatto portata a riesumare queste
dottrine troppo paradossali.
6. Catone Uticense, patrocinatore delle dottrine etiche della Stoa.
7. In base alla concezione dell’ἀδιαφορία.
8. Il rigorismo estremo di Aristone viene così a coincidere con la
scepsi (cfr. CIC. Lucutt. XLII, 130): del resto il pensatore di Chio
era stato ammiratore di Pirrone (cfr. POHLENZ, La Stoa, I, cit., pp.
249, 307, 523).
9. Ovviamente sulla scia di Pirrone.
10. Per queste posizioni stoiche cfr. SEXT. EMP. Adv. eth. 21-41.
11. Col termine «consectaria» Cicerone suole indicare i συμπεράσματα
del sillogismo della necessità: A = B; B = C; A = C.
12. Erillo di Cartagine, amico di Aristone di Chio, ne condivise il
pensiero e giunse, infine, all’identificazione del τέλοζ con la
scienza, suscitando l’opposizione di Crisippo (cfr. Stoic, vet.
frag. I, 361, 411, 412; III, 25 Arnim; HIRZEL, Untersuchungen zu
Ciceros philosophischen Schriften, Leipzig, 1883, p. 45; POHLENZ, La
Stoa, I, cit., pp. 37-9, 249 n., 327).
13. Da sottintendere anche Pirrone, come in III, XV, 50.
14. Accomunando questi tre pensatori, Cicerone ne accusa una sorta
di «imperativo categorico» e di astratto formalismo, come — dopo
tanti secoli — si farà con la morale kantiana.
Il Pirronismo esaminato e discusso da un Peripatetico (ARISTOCL.
apud Euseb. Praep. evang., XIV, 17, 10-18, 32, 758 a -764 b)
Allievo di Senofane fu Parmenide, di Parmenide fu Melisso, di
Melisso Zenone, di Zenone Leucippo1, di Leucippo Democrito, e
allievi di Democrito furono Protagora e Nessa2. Di quest’ultimo
fu allievo Metrodoro3, e di Metrodoro Diogene4, e di Diogene
Anassarco5: ma di Anassarco fu familiare Pirrone, da cui venne
fondata la setta cosiddetta degli «Scettici». Che questi ultimi
sostenessero non esserci assolutamente nulla che possa essere
compreso né per mezzo del senso né per mezzo della ragione, e che,
perciò, essi sospendessero il giudizio in merito a tutte le cose e
come costoro venissero confutati dai loro avversari, son tutte cose
che si possono apprendere dall’opera di Aristocle sopra mentovata6.
In essa si trova scritto letteralmente quanto segue.
È indispensabile che noi conduciamo anzitutto l’indagine sulla
nostra conoscenza. Se, infatti, non abbiamo avuto dalla natura i
requisiti per conoscere cosa alcuna, siamo necessariamente costretti
a tralasciare qualsiasi altra indagine. Ci furono, pertanto, alcuni
filosofi antichi che, a tale riguardo, si pronunciarono in senso
negativo7 e che furono, poi, redarguiti da Aristotele8. Però strenuo
sostenitore di siffatte teorie fu anche Pirrone di Elide. Costui non
ha lasciato nulla per iscritto, ma il suo discepolo Timone afferma
che chi aspira alla felicità deve tendere a queste tre cose: in
primo luogo a rendersi conto della natura delle cose, in secondo
luogo ad assumere un adeguato comportamento nei confronti di queste
e, infine, a capire cosa accadrà a quelli che così abbiano agito.
Aristocle osserva che, per quanto concerne le cose, Timone le
dichiarava tutte quante egualmente indifferenti, instabili e
non-giudicabili e aggiungeva, perciò, che né i nostri sensi né le
nostre opinioni sono nel vero o nel falso. Per questo motivo,
allora, non si deve prestar fede né ai sensi né alle opinioni, ma
dobbiamo essere privi-di-opinione, non essere inclini a nessuna
soluzione e non lasciarci scuotere da nulla, ma dobbiamo dire, a
proposito di ogni cosa particolare, che essa esiste «non più»9 che
non esista, oppure che essa «è-e-non-è» e non semplicemente che essa
non è. E Timone sostiene che a quanti si trovano in questa
disposizione d’animo consegue anzitutto l’«afasia»10 e, in secondo
luogo, l’imperturbabilità, alla quale Enesidemo aggiunge anche il
piacere. Ecco in linea di massima le affermazioni di Timone.
Ma mettiamoci ad indagare se esse sono corrette. Orbene, quando gli
Scettici sostengono che tutte quante le cose sono egualmente
indifferenti, e per questo motivo essi esortano a non dare la
propria adesione a nulla e a non formulare opinione alcuna, si
potrebbe giustamente, a mio avviso, volgere loro questa domanda:
«Forse che sbagliano, allora, quanti credono che queste cose siano
differenti tra loro, o no? Se sbagliano, essi, comunque sia, non
pensano in modo corretto. Ne consegue necessariamente, però, che
anche gli Scettici dicono che ci sono alcuni i quali formulano
opinioni false intorno alle cose esistenti. Essi stessi, pertanto,
verrebbero ad essere gli unici depositari della verità: ma, allora,
si viene a concludere che un qualcosa di vero o di falso pur esiste.
Se, invece, a cadere in errore non siamo noi – ossia «i più»11 –
quando pensiamo che le cose differiscano tra loro, che cosa mai gli
Scettici hanno acclarato per dare fastidio a noi? In tal caso
proprio essi cadrebbero in errore col sopprimere ogni differenza tra
le cose.
Ebbene: concediamo pure che tra tutte quante le cose non sussista
assolutamente alcuna differenza: in questo caso, allora, anche gli
Scettici non differiranno affatto dai «più». Ma di che cosa,
adunque, verrà a consistere la loro «sapienza»? E perché mai Timone
si mette a ingiuriare tutti quanti gli altri pensatori ed a
levare inni al solo Pirrone?12 Oltre a ciò, se tutte le cose sono
ugualmente indifferenti e se, per questo motivo, non bisogna
formulare opinione alcuna, non verrà ad esserci alcuna differenza
tra queste medesime cose, vale a dire tra il differire e il
non-differire, tra l’opinare e il non-opinare. Per qual motivo,
infatti, anche queste cose dovrebbero essere piuttosto che
non-essere? Ovvero, per usare un’espressione consueta a Timone,
«perché sì e perché no? Anzi perché lo stesso perché?».
Da tutto ciò viene manifestamente soppressa ogni indagine13.
La smettano, allora, gli Scettici di darci fastidio! Infatti essi
sono ovviamente impazziti, perché – ormai immemori della loro «arte»
– ci inibiscono di formulare alcuna opinione e, nello stesso tempo,
ci esortano a formularla, e ci dicono che non si deve fare
enunciazione su cosa veruna e, subito dopo, essi stessi si mettono
ad enunciare. E da una parte essi reputano che non si debba dare
l’assenso a niente, dall’altra ci impongono di prestar fede a loro;
e poi, mentre essi van dicendo di non saper nulla, si mettono a
confutare tutti, quasi che essi soli sapessero bene ogni cosa.
Inoltre, quanti vanno affermando che tutte le cose sono non-evidenti
[ἄδηλα], devono necessariamente fare una delle due cose seguenti: o
tacere oppure fare un’enunciazione, tanto per parlare14. Se,
pertanto, essi se ne stanno zitti, è ovvio che con gente siffatta
non ci potrà essere alcun colloquio; se, invece, fanno
un’enunciazione, in ogni caso e ad ogni modo essi diranno che un
qualcosa o è o non-è, proprio come, del resto, essi dicono ora che
tutte le cose sono inconoscibili e opinabili per tutti e che nulla
affatto è noto. Orbene: chi fa una certa assunzione, o la rende
manifesta e offre la possibilità che essa venga capita nel momento
in cui egli la va enunciando, oppure ciò non è possibile. Ma se egli
non la rende manifesta, ancora una volta con un siffatto individuo
non sarà possibile assolutamente alcun discorso. Se, invece, egli dà
una qualche spiegazione, allora, in ogni caso, o farà
un’infinità di affermazioni oppure ne farà in numero limitato. E se
egli ne farà un’infinità, ancora una volta non sarà affatto
possibile colloquiare con costui, giacché dell’infinito non c’è
conoscenza15. Se, invece, le sue spiegazioni sono di numero finito o
se egli ne dà solamente una qualsiasi, in questo caso chi parla così
viene a formulare una certa definizione16 e a dare un certo
giudizio17. Come mai si potrà dire, allora, che tutte le cose sono
«non-conoscibili e non-giudicabili»? Se, poi, egli verrà a dire che
tutte le cose «sono-e-non-sono», allora, in primo luogo, la medesima
cosa risulterà essere vera-e-falsa e, in secondo luogo, egli farà
un’affermazione e non la farà e nell’atto stesso in cui farà uso di
un discorso lo verrà a sopprimere.
Inoltre, mentre costui ammette di dire il falso, ha la pretesa che
si debba aver fede in lui. Ma vale la pena di chiedere agli Scettici
donde abbiano imparato che «tutte le cose sono non-evidenti
[ἄῆηλα]», come essi dicono. Difatti essi dovrebbero dapprima sapere
che cosa sia l’evidente [δήλον], giacché solo a questa condizione
essi avrebbero la possibilità di dire che le cose non sono siffatte.
E, a dire il vero, bisogna prima aver conoscenza dell’affermazione e
poi della negazione18. Ma se essi non sanno che cosa è l’evidente,
non potranno sapere neppure che cosa è il non-evidente. E quando
Enesidemo, nel suo Schizzo19, fa un’esposizione dei nove
«tropi» (tanti sono, infatti, i modi secondo i quali ha tentato di
rilevare che le cose sono non-evidenti), dobbiamo noi dire che egli
ne parla perché li conosce oppure perché li ignora? Egli,
invero, mette in rilievo le differenze che sussistono tra gli esseri
viventi, tra noi stessi, tra i regimi politici, tra le varie
condotte della vita, tra le costumanze, tra le leggi. E dice pure
che i nostri sensi sono deboli, che la nostra conoscenza viene
impedita da molte cose esteriori – quali le distanze, le grandezze,
i movimenti – e, oltre a ciò, dal fatto che non si trovano nelle
medesime condizioni i giovani e gli anziani, quelli che sono desti e
quelli che dormono, i sani e i malati, e che noi non abbiamo
percezione di nulla allo stato di semplicità e di purezza.
Difatti, a suo avviso, «tutte le cose sono confuse e vanno
considerate come relative». Ma mentre egli, in bella forma – lo
ammetto! -, dice queste e simili cose, sarebbe facile chiedergli se
egli, nel dichiarare che le cose presentano questa varietà di modi,
ne ha o non ne ha consapevolezza. Se, infatti, egli non ne è
consapevole, come faremo a prestargli fede? Se, invece, egli ne ha
piena consapevolezza, risulterà senz’altro uno stupido, perché,
mentre stabilisce che tutte le cose sono non-evidenti, ci viene a
dire, nello stesso tempo, di saperle tutte quante. E qualunque sia
la rassegna che gli Scettici ci presentano di cose siffatte, non
fanno altro che allestire un’induzione20, fornendoci una lista di
fenomeni e di cose particolari. Ma un’operazione di questo tipo è e
si chiama «credenza» [πίστιις]. Se, pertanto, a quest’ultima danno
l’assenso, risulta ovvio che essi formulano opinioni; se, invece,
non gliene accordano, neppure noi daremo retta a loro. E a
proposito di quel racconto che Timone fa nel Pitone21, dilungandosi
in un discorso abbastanza prolisso, ossia che egli si imbatté una
volta in Pirrone mentre questi si recava ai giochi pitici presso il
tempio di Anfiarao, e circa la conversazione che questi due
tennero tra loro, si potrebbe a ragione, a lui che descrive
quell’avvenimento, dire di rimando così: «O uomo dappoco, perché ti
affliggi a scrivere codeste cose e a raccontare quello che non sai?
Come fai a dire tu che ti imbattesti in lui e che ti mettesti a
conversare con lui, piuttosto che negare di esserti messo a
conversare?». E quello stesso stupendo Pirrone sapeva, forse,
perché camminava quando andava ad assistere ai giochi pitici?
Oppure, come fanno i rimbambiti, se ne andava a zonzo lungo la
strada?22 E quando cominciò a prendersela con gli uomini e con la
loro ignoranza, dobbiamo noi dire che diceva il vero o no? E non
dobbiamo anche dire che, in quella evenienza, Timone ebbe a subire
una certa affezione e concesse il suo beneplacito alle parole di
Pirrone? Oppure affermeremo che non gli diede retta? Se, infatti,
non ne fosse rimasto persuaso, come mai da danzatore23 diventò
filosofo e costante ammiratore di Pirrone per tutta la vita? Se,
invece, diede l’assenso alle parole di costui, fece male senza
dubbio, perché egli stesso si metteva a far filosofia con l’intento
di impedirlo a noi.
Insomma: si rimane strabiliati di fronte all’intenzione
dei Silli di Timone e delle sue contumelie contro tutto il
genere umano e dei prolissi Insegnamenti elementari di
Enesidemo e di tutta la simile massa dei loro discorsi. Se, infatti,
essi hanno scritto queste cose con la convinzione di renderci
migliori e se hanno reputato di dover confutare tutti per farci
smettere di dire corbellerie, allora ovviamente il loro intento è
quello di farci conoscere la verità e di farci riflettere che la
realtà delle cose sta come Pirrone ritiene. Sicché, se noi ci
lasciamo persuadere da loro, da peggiori diventeremo migliori,
perché daremo giudizi più conformi alla realtà delle cose e daremo
udienza a chi meglio ne sa parlare. Ma, allora, come mai
le cose potranno essere «ugualmente indifferenti» e rimanere
«ingiudicate»? E come faremo noi a conservarci «immuni da assenso e
da opinioni»? Se, al contrario, le loro parole non arrecano alcun
giovamento, perché mai essi continuano ad infastidirci? E perché
Timone si mette ad asserire:
Con Pirrone venire a contesa nessun dei mortali potrebbe24?
A dire il vero, non vi sarebbe alcun motivo per cui noi dovremmo
ammirare lui piuttosto che Coribo o Melitide25, che sono ritenuti
modelli incomparabili di scempiaggine!
18 Ma bisogna meditare anche su quanto segue. Che sorta di cittadino
o di giudice o di consigliere o di amico o, insomma, di uomo potrà
essere un individuo siffatto?26 E quale delitto non ardirà di
commettere uno che per davvero non creda nell’esistenza dell’onesto
e del turpe, del giusto e dell’ingiusto? Nessuno oserà affermare che
individui siffatti abbiano a temere il giudizio delle leggi e le
punizioni. E come potrebbero avere questo timore individui che sono
«impassibili e imperturbabili», come costoro asseriscono di essere?
E Timone dice, ancora a proposito di Pirrone27:
Quell’uomo io lo vidi diverso: non volto alla gloria e non domo
Da
tutte quante le cose che fossero fande o nefande,
Per cui le stolide
razze umane qua e là son sospinte,
Domate da affetti e opinioni e
leggi bacate al di dentro.
Ma allora, quando essi pronunciano quel celebre e saggio detto, che,
cioè, «bisogna vivere seguendo la natura e le comuni costumanze»28 e
che, tuttavia, non bisogna dare a nulla il proprio assenso, essi
cadono nella più grave ingenuità. Se, infatti, a niente altro
bisogna dare l’assenso tranne che al detto sopra citato, bisogna
anche stabilire che questo detto stesso sia esatto. Ma perché mai si
devono seguire la natura e le comuni costumanze piuttosto che non
seguirle, dal momento che noi «non sappiamo niente e non abbiamo
alcun mezzo per formulare un giudizio»?
Estremamente sciocca è anche quest’altra loro affermazione, che,
cioè, come i purganti vengono espulsi anch’essi insieme con gli
escrementi, allo stesso modo anche l’argomentazione in virtù della
quale si dimostra che tutte le cose sono non-evidenti, elimina anche
se medesima insieme con le altre cose29. Se, infatti, essa confuta
se stessa, quelli che ne fanno uso sono dei buffoni e farebbero
meglio a starsene zitti e a tapparsi la bocca. Ma, a dire il vero,
non esiste alcuna affinità tra il purgante e siffatta
argomentazione. Infatti il purgante non rimane nei corpi, ma se ne
diparte; invece necessariamente quell’argomentazione resta sempre
identica nella nostra anima e ha bisogno di riscuotere sempre
fiducia, giacché è l’unica che potrebbe renderci «immuni da
assenso»30.
Che, poi, essi non credano veramente che l’uomo sia «immune da
opinione», si potrà apprendere anche nel modo seguente.
È impossibile, invero, che chi sta provando una sensazione non la
stia provando. E provare sensazione vuol dire conoscere una qualche
cosa. Ma è a tutti manifesto che gli Scettici accordano fiducia alla
sensazione. Infatti, quando essi vogliono vedere con maggiore
esattezza, si stropicciano gli occhi, si accostano di più
all’oggetto e si mettono a guardarlo aguzzando la pupilla. E che
dire del fatto che ci rendiamo conto delle nostre stesse
sensazioni piacevoli o dolorose? È impossibile, infatti, che uno che
si scotta o subisce un’amputazione non se ne accorga. E la memoria e
la reminiscenza31 chi oserà dire che non sono congiunte ad un atto
conoscitivo? E che dire delle «nozioni comuni»32 – ad esempio, che
l’uomo è questa determinata cosa – e, inoltre, delle scienze e delle
arti? Niente di tutto questo esisterebbe, se non avessimo la
naturale facoltà di fare una stima delle cose.
Ma voglio tralasciare tutto il resto! Ciò nonostante, tanto se
prestiamo quanto se non prestiamo fede alle affermazioni di costoro,
in ogni caso e ad ogni modo ci resta la facoltà di opinare.
Abbiamo dimostrato sinora l’impossibilità di fare filosofia in
codesto loro modo; che, poi, una sinatta dottrina sia contraria alla
natura e alle leggi, possiamo acclararlo da quanto segue. Se,
infatti, la faccenda stesse realmente come dicono gli Scettici, che
altro ci rimarrebbe da fare se non vivere alla ventura e da
incoscienti, come avviene durante il sonno? Sicché reciterebbero
soltanto una farsa legislatori e condottieri ed educatori! A me,
però, sembra che tutti gli altri uomini vivano secondo natura e che,
invece, siano obnubilati o, piuttosto, in preda ad aberrante follia
quelli che vanno cianciando codeste assurdità. Il che si potrà
acclarare molto bene anche dal seguente episodio.
Antigono da Caristo33, che fu contemporaneo di codesti filosofi e
che ne scrisse la biografia, narra che Pirrone una volta, poiché era
inseguito da un cane, si rifugiò su un albero; e poiché veniva preso
in giro dagli astanti, rispose che «è difficile svestirsi dell’umana
condizione». Un’altra volta sua sorella Filista stava eseguendo un
sacrificio, ma un amico che aveva promesso di offrire il necessario
non mantenne la promessa. Allora Pirrone dovette far lui le spese
del sacrificio e ne rimase molto stizzito. E poiché quel suo amico
disse che Pirrone predicava bene e razzolava male e che il suo
atteggiamento non era conforme all’«apatia», Pirrone gli rispose:
«Ma in fatti di donna non bisogna darne dimostrazione!»34. Eppure, a
questo punto, l’amico avrebbe potuto giustamente obiettargli: «O
stupido, bisogna darne sia in fatti di donna che di cani o di tutto
quanto il resto, se da questi discorsi te ne deriva qualche
vantaggio!».
Vale anche la pena che si venga a sapere quali furono i seguaci di
questo Pirrone e di che gentaglia fu seguace lui stesso.
Orbene: costui fu discepolo di un certo Anassarco35. In sulle prime
egli faceva il pittore, ma non ebbe tanto successo; poi, imbattutosi
nei libri di Democrito36, non vi riuscì a scoprire niente di
proficuo, né mise egli stesso nulla per iscritto, ma non fece altro
che dir male di tutti gli dei e di tutti gli uomini37. Ma, pur
dandosi da fare per conseguire una reputazione siffatta – ancorché
chiamasse se stesso «immune da gloria» -, non lasciò scritto niente.
Fu suo discepolo Timone di Fliunte, il quale precedentemente faceva
il ballerino nei teatri38; di poi, venuto a contatto con Pirrone, si
mise a scrivere satire fastidiose e cialtronesche, in cui operava
una dissacrazione di tutti quelli che avevano filosofato prima di
lui. Costui fu l’autore dei Silli, in cui dice, tra l’altro:
Miseri umani, cattive vergogne, ventri soltanto!
Da quali litigi, da quali lamenti voi foste plasmati!39
e
Uomini, otri ricolmi soltanto di vuota credenza!40
Quando ormai nessuno dava più retta agli Scettici, come se costoro
non fossero affatto esistiti, è sbucato fuori, non molto tempo fa,
in Alessandria d’Egitto un certo Enesidemo, che cominciò a
richiamare in vita quel cumulo di inezie.
Sono suppergiù costoro quelli che sembrano essere i più importanti
tra quanti hanno camminato per codesta via41. Ma è chiaro che nessun
benpensante potrà dire che sia correttamente valida una simile setta
o «scuola di discorsi»42 o come altro la si voglia chiamare. A mio
avviso, però, non la si deve neppure chiamare «filosofia», dal
momento che essa sopprime sinanche i princìpi del filosofare.
Questo basti aver detto contro quanti si crede siano
seguaci del pensiero di Pirrone.
Affini a queste confutazioni potrebbero essere anche quelle che
vengono mosse contro i seguaci di Aristippo di Cirene, i quali
ammettono che soltanto le affezioni [πάϑη] sono comprensibili43.
Compagno di Socrate fu Aristippo, che fondò la cosiddetta scuola
«cirenaica», da cui prese l’abbrivo Epicuro per stabilire quello
che, a parer suo, è il fine supremo della vita. Infatti Aristippo,
nel modo di condurre la propria vita, fu senz’altro un rammollito e
un amante del piacere. Costui non discusse mai palesemente del fine
supremo, ma virtualmente veniva a sostenere che il fondamento della
felicità è riposto nel piacere. Infatti, poiché egli parlava sempre
del piacere, indusse i suoi compagni a supporre che egli intendesse
identificare il fine supremo con la dolce vita.
Suoi allievi44 furono Smallo e la propria figlia Arete. Questa
generò un figlio e lo chiamò Aristippo, il quale, avviato da lei
agli studi filosofici, veniva chiamato «il discepolo di mamma sua».
Egli, però, precisò in tono definitorio che è fine supremo il vivere
piacevolmente, intendendo come piacere quello che viene procurato in
conformità con un movimento45. Difatti sosteneva che ci sono tre
stati del nostro temperamento: uno è quello per cui soffriamo, ed è
somigliante ad una tempesta di mare; un altro è quello per cui
godiamo, diventando simili ad un’onda liscia, giacché il piacere è
un moto liscio, paragonabile a un vento di poppa; il terzo è una
calma intermedia, secondo la quale né soffriamo né godiamo, essendo
essa molto simile a bonaccia46. Egli asseriva che noi percepiamo
esclusivamente queste affezioni.
1. 21 A 49 Diels-Kranz; la notizia, però, non sembra attendibile.
2. 69 A I Diels-Kranz. Anche da Diogene Laerzio (IX, 58) sappiamo
che questo Nessa di Chio fu allievo di Democrito.
3. 69 A 2 Diels-Kranz.
4. 71 Diels-Kranz. Questo Diogene di Smirne o, secondo altri, di
Citera, seguì il pensiero di Protagora (EPIPHAN. Adv. haer. III, 2,
9).
5. Cfr. DIOG. LAERT. IX, 58-60.
6. L’opera cui si accenna è il Περὶ φιλοσοφίας; in Praep. ev. XI,
510 Eusebio le dà, invece, il titolo di Περὶ φνσιολογίας. L’opera
constava di almeno otto libri (cfr. VON MULLACH, Frag. philos.
graec., III, 206; DAL PRA, La storiografia filosofica antica, cit.,
pp. 231-2). Il prossimo brano corrisponde al fr. 3 Mullach.
7. Per alcuni di questi pensatori, che precorsero le posizioni
scettiche, cfr. SEXT. EMP. Adv. log. I, 46 segg.; DIOG. LAERT. IX,
71-73.
8. Aristocle, forse, si riferisce in particolare a Metaph. IV, 4-6,
la cui forza critica egli applica molto acutamente contro il
Pirronismo.
9. Cfr. SEXT. EMP., Pyrrh. hyp. I, 188-189; DIOG. LAERT. IX, 74-76.
10. Circa l’importanza di questa testimonianza cfr. DAL PRA, Lo
scetticismo greco, cit., pp. 67-70.
11. Sottolineando ironicamente questo termine, Aristocle viene a
porre sullo stesso piano di aristocrazia intellettualistica Scettici
e Stoici. Anche Sesto, in cui pur non mancano spunti democratici,
riteneva che il peggiore di tutti i «criteri» fosse quello di
appoggiarsi ai «più» con tutte le afilosofiche conseguenze
eclettiche (cfr. Adv. log. I, 327-335).
12. Cfr. DIOG. LAERT. IX, 64-65.
13. In aperto contrasto con l’epiteto di «zetetici» o di
«indagatori» che gli Scettici si conferiscono (cfr. SEXT. EMP.
Pyrrh. hyp. I, 7; DIOG. LAERT. IX, 69-70).
14. Cadendo, così, in quella «eristica» contro cui il Peripato aveva
sempre combattuto, fin dalle sue origini platoniche (cfr. tra
l’altro, ARISTOT. Metaph. IV, 1011 b 2 segg.).
15. Su questo principio erano d’accordo Peripatetici e Scettici,
come, alla fine dei conti, sulla validità del principio di non
contraddizione (cfr. SESTO EMPIRICO, Contro i logici, trad, it., pp.
XLVII-XLVIII).
16. Comportandosi in maniera contraddittoria rispetto alla massima
scettica «non definisco» (cfr. SEXT. EMP. Pirrh. hyp. I, 197).
17. In contrasto con la teoria dell’ἀφασἰα (cfr. SEXT. EMP. Pyrrh.
hyp. I, 192-193).
18. Cfr. ARISTOT. De interpr. 17 a 8.
19. Per quest’opera cfr. DIOG. LAERT. IX, 78, 106. I tropi di
Enesidemo, riportati da Sesto e da Diogene, sono dieci; Filone ne
riporta, invece, otto (per la questione vedasi ZELLER, Die
Philosophie der Griechen, Leipzig, 1923, III, 2, 28 n. 2).
20. Già l’induzione, pur essendo chiara e persuasiva, è alla portata
soprattutto della maggioranza delle persone, ma resta inferiore al
sillogismo (ARISTOT. Top. I, 105 a, 10-19); ma gli Scettici si
limitano solo a prepararla, non potendole dare alcuno sviluppo, in
quanto essi negano le regole della logica (cfr. SEXT. EMP. Pyrrh.
hyp. II, 204).
21. Cfr. WILAMOWITZ, Antigonos von Karystos, pp. 37-8.
22. Come, del resto, Pirrone soleva fare davvero (cfr. DIOG. LAERT.
IX, 62).
23. Per quest’attività di Timone, ricordata qui con biasimo, cfr.
DIOG. LAERT. IX, 109.
24. Fr. 35 Wachsmuth = 8 Diels.
25. Esempi di stupidità umana nella farsa popolare greca (cfr.
ARISTOPH. Fr. 991; AELIAN. Var. hist. 13, 15; Ps. LUCIAN. Amor. 53).
26. Di ben altro avviso, a tale riguardo, furono Plutarco (nel
trattatello 210 del Catalogo di Lampria) e Favorino (PHILOSTR. vit,
soph. I, 8 = fr. 27 Barigazzi), i quali sostenevano che senz’altro
il filosofo scettico può fare da giudice nei processi. Dello stesso
avviso di Aristocle è, invece, Galeno in De opt. doctr., passim, in
aspra polemica con Favorino (per la questione cfr. FAVORINO DI
ARELATE, Opere, a cura di A. Barigazzi, Firenze, 1966, pp. 175-90).
27. Fr. 32 Wachsmuth = 9 Diels.
28. Aristocle forza un po’ l’atteggiamento pratico-conformistico
degli Scettici, i quali parlavano non di φύσις, ma di βίος e di
συνήϑεια (cfr., tra l’altro, SEXT. EMP. Adv. phys. III, 235-236).
29. Per quest’efficace similitudine scettica cfr. SEXT. EMP. Pyrrh.
hyp. I, 206; Adv. log. II, 480; DIOG. LAERT. IX, 76.
30. Quest’acutissima obiezione, che ci sembra una zampata di
Aristotele, non si riscontra in nessun luogo in cui Sesto espone il
dibattito coi Dommatici: o Sesto l’ignorava o non aveva nulla da
rispondere e perciò la passava sotto silenzio.
31. Per la distinzione di questi due termini vedasi il trattato
aristotelico De memoria et reminiscentia 449 b 4 – 435 b 10. Non è
da escludere che Aristocle tenesse presente questo trattato dei
Parva naturaha. Anche Sesto (Adv. log. II, 141-144, 284-291) nella
sua discussione sul «segno» annette, secondo la metodologia della
medicina empirica, grande importanza a queste attività psichiche, ed
in ciò si dissocia dal vecchio Pirronismo.
32. Sulle ϰοιναὶ ἔννοιαι come «criteri della verità che noi
desumiamo dalla natura» cfr. Stoic. vet. frag. II, 154 Arnim.
33. Cfr. WILAMOWITZ, Antigonos von Karystos, p. 39.
34. I due episodi si trovano raccontati con spirito diverso e per
nulla impietoso (come invece qui) nei riguardi di Pirrone in DIOG.
LAERT. IX, 66.
35. Cfr. DIOG. LAERT. IX, 61.
36. Che Pirrone capisse poco nel leggere Democrito è detto soltanto
qui, e con una certa acrimonia.
37. Questa notizia è in contrasto col carattere mite di Pirrone:
Aristocle-Eusebio si compiace di attribuire a lui la stessa
maldicenza che si riscontra palesemente in Timone.
38. Cfr. DIOG. LAERT. IX, 109.
39. Fr. 33 Wachsmuth = 10 Diels, riportato anche in THEODORET.,
Graec. affect. cur. II, 20, p. 24, 21 Sylburg. Vedasi anche
WILAMOWITZ, Antigonos von Karystos, pp. 41-3.
40. Fr. 34 -Wachsmuth = 11 Diels. La fonte di ispirazione per Timone
fu probabilmente Epicarmo (fr. 145 Ahr.).
41. Da notare il silenzio di Aristocle sugli Accademici, con i quali
il Peri-pato del secondo secolo d. C. aveva buone relazioni. Ma
Eusebio ha già dedicato all’Accademia Media e Nuova una trattazione
altrettanto dura in Praep. ev. XIV, 6-9, ispirandosi a Numenio di
Apamea.
42. Da rilevare l’accostamento polemico del Pirronismo all’eristica
e alla retorica.
43. L’accostamento dello Scetticismo ai Cirenaici (per il fatto che
entrambi gli indirizzi affermano l’apprendibilità dei soli [πáϑη]) è
discusso e respinto in SEXT. EMP. Pyrrh. hyp, I, 215 e più
approfonditamente in Adv. log. 1,-200. Comunque già Aristotele
(Metaph. III, 996a 32 segg.) aveva rilevato la vicinanza del
pensiero di Aristippo al soggettivismo gnoseologico dei Sofisti
(cfr. GUTHRIE, A History of Greek Philosophy, Cambridge, 1969, III,
pp. 490-7).
44. Per una più ampia [διαδχοή] dei Cirenaici cfr. DIOG. LAERT. II,
85-86 e MANNEBACH, Aristippi et Cyrenaicorum fragmenta, 133, 191,
197 A.
45. Per le polemiche che intercorsero tra i Cirenaici (soprattutto
Aristippo II) e gli Epicurei cfr. MANNEBaCH, Op. cit., pp. 107, 109
segg.
46. Il termine «bonaccia», come in un moderno dramma wagneriano, era
il Leit-motiv con cui Timone faceva entrare in scena il suo maestro
a sedare la ridda dei filosofi.
TIMONE
Timone di Fliunte (325/0-235/0 a. C.) fu allievo diretto di Pirrone,
ebbe dimestichezza con lui per circa venticinque anni e ne celebrò
la personalità e il pensiero quasi con l’ardore della devozione
religiosa, cosa davvero singolare in un uomo che, come lui, non solo
professava lo Scetticismo, ma era per natura disposto a veder peli
persino nell’uovo.
Una lunga vita aveva consentito a Pirrone, nonostante il suo
temperamento schivo e riservato, di avere contatti culturali con
indirizzi e movimenti di vario genere, dalle ultime propaggini del
pensiero naturalistico alle già notevoli manifestazioni
dell’Ellenismo; una vita altrettanto lunga permise all’estroverso e
battagliero allievo di Pirrone di raccogliere una ricca messe di
manifestazioni culturali di vario genere.
Nel campo della filosofia si possono riscontrare in lui, se pur con
le debite riserve consigliate dal suo animus di polemista, rapporti
con i Megarici1, affinità di atteggiamenti con i pur aborriti
Cinici2 ed intenso bisogno di confronti con gli Accadenici, i quali
a suo avviso, dietro l’esempio di Arcesilao, si erano messi a
civettare con Pirrone, ma erano rimasti essenzialmente platonici e,
per giunta, inficiati di dialettica e di eristica megaresi3.
Nel campo delle indagini scientifiche, che in quel tempo andavano
conquistando una certa autonomia rispetto alla filosofia, egli sentì
molto probabilmente il bisogno di studiare la medicina e, forse, di
professarla4 e non dovette essere digiuno di una certa competenza
nel campo della fìsica, come è provato dal suo vasto trattato Contro
i fisici, che è andato totalmente perduto e che, forse, fu tra le
fonti dei due grandi libri di Sesto Empirico dallo stesso titolo.
Ancora più ricche e svariate furono le esperienze letterarie di
Timone. Egli diede inizio alla sua vita pubblica come uomo di teatro
e, forse, la vocazione dell’attore era quella che egli sentiva più
intimamente anche dopo la conversione al Pirronismo. E sono
senz’altro da studiare i suoi rapporti con l’evoluzione della
tragedia e della commedia nel trapasso alle nuove forme che queste
assunsero nell’età alessandrina. Allo stesso modo andrebbero
indagati i suoi rapporti con l’evoluzione dell’elegia e del giambo
del suo tempo, nonché il motivo della quasi onnipresenza di Omero
come fonte di quasi tutte le parodie timoniane e come insuperabile
maestro di stile e di linguaggio. Col suo poema filosofico
Apparenze5 Timone faceva quasi da anello di congiunzione tra i
poeti-filosofi presocratici e i poeti-scienziati ellenistici, quali
Arato di Soli; col suo capolavoro Silli6 egli faceva da tratto
d’unione tra l’antica poesia sillografica risalente a Focilide ed a
Senofane e una nuova sillografia più marcatamente satirica che si
andava affermando negli ambienti cinico-stoici e che, attraverso un
vasto numero di esponenti, avrebbe trovato un ricco e geniale
raccoglitore in Luciano di Samosata e nei suoi «filosofi
all’incanto»7.
Mentre Pirrone, ove si eccettui il suo giovanile poema su
Alessandro, non volle mai mettere penna su carta, Timone fu, al
contrario, un versatile poligrafo sia nei vari generi della
versificazione sia nella prosa. Dai pochi frustula della sua
produzione emerge una personalità vivacissima, aggressiva, aguzza,
contraddittoria: egli fu «ambidestro» come il violento Ipponatte e
«anfoteroglosso» come Zenone di Elea. Eppure dichiarava di voler
vivere in santa pace, con l’atteggiamento di un abile e secco
scrittore di epigrammi!
Per tutto ciò egli fu esattamente l’opposto del suo venerando
maestro, e fu soprattutto un irrequieto, come è provato dai suoi
vagabondaggi dall’Argolide a Megara, da Elide alle città dell’Asia
Minore e in Egitto, da Tebe ad Atene. Sue grandi tappe furono Elide,
ove apprese il vangelo di Pirrone, ed Atene, ove quel vangelo egli
si propose di diffondere, giacché Atene, anche se non era più
l’unica «scuola dell’Eliade», rimaneva uno dei centri culturali più
vivi del mondo non solo per il Portico di Zenone, per il Giardino di
Epicuro e per il boschetto di Academo, ma anche per le varie
attività letterarie che facevano tenere alla vecchia Dominante il
passo col corso dei tempi.
Eppure questa versatilità irrequieta di Timone, se da una parte
diede diffusione al Pirronismo, dall’altra lo fece apparire alquanto
camuffato e mise sotto cattiva luce persino l’indubbia austerità
morale di Pirrone. E se dobbiamo esser grati a Timone del fatto che
da lui sappiamo qualcosa di attendibile a proposito del saggio di
Elide, dobbiamo anche, purtroppo, pensare che l’attribuzione di
certi aspetti ciarlataneschi alla figura di Pirrone trova origine
nella confusione che già Aristocle faceva (e forse prima di lui già
era stata fatta soprattutto negli ambienti peripatetici) tra la
personalità dell’allievo e quella del maestro. Timone esaltava, in
sostanza, l’«infallibilità» di Pirrone, e quest’ultimo veniva,
allora, ad apparire – non solo per l’eterna pregiudiziale che
inficia lo scetticismo, ma anche per l’entusiasmo timoniaño – come
più dommatico dei dommatici e più realista del re.
Di qui, forse, derivò anche l’effimero e discutibile successo della
pugilistica di Timone che non riuscì a dare validi continuatori al
Pirronismo antico e l’affaccendarsi dei Neo-pirroniani nel volere,
quasi ad ogni costo, stabilire la continuità di una tradizione
scettica da Pirrone a Saturnino, tagliando fuori i pensatori
dell’Accademia8.
Comunque, all’indubbia importanza variamente culturale di Timone non
corrisponde una pari importanza nel campo della vera e propria
speculazione filosofica. La totale perdita delle sue ventimila righe
di prosa9 ci dissuade dall’esprimere un preciso giudizio. Ma non
possiamo non chiederci perché mai la tradizione dossografica sia
stata così avara con le sue opere speculative, mentre è stata
abbastanza prodiga con i suoi Silli. I frustala miserrimi del suo
Pitone e dei suoi trattati Contro i fisici e Sulla sensazione ci
parlano solo della «sovranità» del fenomeno su tutte le cose10, di
una critica timoniana al concetto di «ipotesi» e alla divisibilità o
meno del tempo, e ciò è ben poca cosa per ricostruire un «sistema»
scettico-timoniano11.
Almeno per noi – e forse anche per gli antichi che conoscevano tutto
il Corpus Timonianum – l’opera più significativa sono i Silli. Anche
se è piuttosto discutibile la ricostruzione della loro «trama»12, ci
restano vivi e irrompenti i giudizi sui principali filosofi da
Talete ai contemporanei di Timone. Questi aveva avuto come
predecessore Aristotele, maestro anche lui d’ironia nel condurre
l’esame critico dei filosofi, che avevano detto grandi verità ed
erano caduti in gravi abbagli, e nel III secolo a. C. la diretta
tradizione dell’opera dello Stagirita non era affatto scomparsa. È
vero che in Timone il giudizio critico si trasforma in battuta
salace, in colpo proibito, in illazione malignamente moralistica; ma
è anche vero che furono in gran parte i suoi Silli a suggerire agli
Scettici posteriori una loro «storia della filosofia greca in chiave
pirroniana», come possiamo riscontrare nei grandi panorami storici
tracciati, con scrupolosità degna di Aristotele, nelle opere di
Sesto Empirico.
Nell’esame dei frammenti dei Silli, però, dobbiamo guardarci da un
grave pericolo in cui sovente sono incorsi gli interpreti: quello di
vedere ad ogni costo qui l’elogio o l’affinità elettiva o il
giudizio positivo e li l’irrisione o l’antipatia o la stroncatura
critica, Timone è ἀμφοτερóγλωσσος: egli colpisce nell’atto stesso in
cui accarezza e, mentre ci pare che accetti il pensiero di un
filosofo, nello stesso tempo lo demolisce: solo con Pirrone «appare
bonaccia»!13
Nella traduzione del βίος laerziano di Timone ho seguito gli stessi
testi che in quella del βίος di Pirrone.
Nella traduzione dei frammenti mi sono fondato prevalentemente sul
Wachsmuth14, il cui testo e, soprattutto, le cui annotazioni ritengo
in gran parte ancora insuperati. Di validissimo ausilio mi sono
stati, però, anche il Diels15 e il nostro Voghera16.
1. Cfr. DIOG. LAERT. IX, 109. Nei Silli (fr. 41 Wach. = 28 Diels)
Timone ostenta avversione per la dialettica, che egli chiama «l’arte
dei battibecchi», soprattutto perché i Megarici la fecero sfociare
nell’eristica; d’altra parte, però, egli apprezza «il parlare pro e
contro» di Zenone (fr. 5 Wach. = 45 Diels) che proprio i Megarici
avevano recuperato. Forse il Fliasio sentiva per la diar lettica, in
dimensioni esplosive e patetiche, lo stesso legame d’attrazione e
repulsione che, dopo secoli, sentirà Sesto Empirico (Pyrrh. hyp. II,
229-259). Ciò è innegabile, anche se si può dubitare che ci siano
stati rapporti personali tra Timone e Stilpone (cfr. WACHSMUTH, De
Timone Phliasio, p. 5).
2. Vedansi, a tale riguardo, WACHSMUTH, De Timone Phliasio, p. 36;
BRO-CHARD, Les sceptiques grecs, p. 84; VOGHERA, Timone di Fliunte e
la poesia siilo grafica, pp. 9-12. Al pari dei Cinici, «Timon is a
colourful figure» (LONG, Hellenistic Philosophy, p. 80).
3. Cfr. DIOG. LAERT. IV, 33, ove sono i frammenti 31, 32, 33 Diels
in cui Timone biasimava la mistione di Pirrone con Diodoro Crono
operata da Arcesilao.
4. Cfr. DIOG. LAERT. ibid. È certamente inesatto voler porre ad ogni
costo rapporti tra Scetticismo e Medicina Empirica fin dai tempi del
primo Pirronismo, ma gli Scettici dovettero provare ben presto una
certa attrattiva per la scienza medica che, più di ogni altra, è
lontana dalla matematica esattezza.
5. Cfr. DIOG. LAERT. IX, 113. In questo poema elegiaco Timone
approfondiva la dicotomia apparenza-realtà che si era già presentata
agli Eleati e su cui insisterà – forse sulle orme di Timone – anche
Sesto Empirico in Adv. log. I, 110-114, ove è riportato e discusso
il celebre proemio del II Περìφύσερς di Parmenide (28 B 1, 7
Diels-Kranz).
6. Non è improbabile che sia stato proprio Timone a causare, col
titolo della sua opera, un mutamento del titolo dell’opera di
Senofane (Parodie in Silli), come sostiene l’UNTERSTEINER (Senofane,
Firenze, 1956, p. CCXII). Per più ampi ragguagli si rimanda alle
note del Reale in ZELLER-MONDOLFO, La Filosofia dei Greci, Parte I,
vol. Ili, Firenze, 1967, pp. 68-9.
7. Luciano non fa mai menzione diretta di Timone, ma quasi
certamente è di ispirazione timoniana almeno il suo Piscator, pur se
vogliamo prescindere da tanti squarci «filosofici» dei suoi dialoghi
menippei. Purtroppo quasi nulla di sicuro sappiamo circa i rapporti
Menippo-Timone.
8. Diogene Laerzio (IX, 115-116) ci informa di questa doppia
tradizione, senza pronunciarsi con troppa chiarezza al riguardo, e
noi non possiamo dire con sicurezza se abbiano avuto ragione
Aristocle e Menodoto a negare l’esistenza di una διαδοϰή timoniana
oppure Ippohoto e Sozione ad affermarla. Il Brochard (Les sceptiques
grecs, pp. 90-1) risponde alla domanda sostenendo che «les vrais
continuateurs de Pyrrhon et de Timon furent les nouveaux
académiciens»; la Patrick (The Greek Sceptics, pp. 72-3 e altrove)
si sforza di apportare delucidazioni a proposito dei vari
continuatori di Timone fino ad Enesidemo. È, comunque, probabile che
furono proprio i Neopirroniani ad insistere sulla continuità della
διαδοϰή anche a costo di forzare la realtà delle cose, per portare
l’acqua al loro mulino anti-accademico.
9. Cfr. DIOG. LAERT. IX, III.
10. È per lo meno azzardato — per non dire erroneo – invaghirsi
tanto di questo verso e della precedente dossografia del Laerzio
(IX, 105) per stabilire che nel vecchio Pirronismo ci siano già le
premesse della moderna fenomenologia husserliana, come si trova in
A. N. ZOUMPOS, Zu Timon von Phlius, «Platon», XVIII, 1966, p. 300. È
piuttosto probabile, invece, che il termine ινδαλμοί vada
interpretato con accezione negativa, come hanno sostenuto il
Wachsmuth (De Timone Phliasio, p. 11) e il Brochard (Les sceptiques
grecs, pp. 85-6) contrapponendosi allo Hirzel (Untersuchungen zu
Ciceros philoso-phischen Schriflen, pp. 51-60). Se proprio si vuol
parlare di precorrimenti moderni, mi sembra suggestivo il seguente
passo hegeliano (Scienza della logica II, Bari, 1925, trad. Moni):
«La parvenza (non il φαινóμενον ma l’ἰνδαλμóς timoniano) è il
fenomeno dello scetticismo, ovvero anche l’apparenza dell’idealismo
è una tale immediatezza, la quale non è un qualcosa, o una cosa, non
è in generale un “essere” indifferente che sia fuori della sua
determinazione e della sua relazione al soggetto. Lo scetticismo non
si permetteva di dire “è”».
11. Questa ricostruzione ha trovato come suoi grandi campioni nel
secolo scorso il Natorp (Forschungen zur Geschichte des
Erkenntnissproblems im Alter tum, p. 286) e nel nostro secolo il von
Fritz (Phyrron, in «RE», cit.).
12. Estendendo le ricostruzioni già abbozzate dal Paul, dal Weland e
dal Meineke, il Watchsmuth (De Timone Phliasio, pp. 17 segg.)
presentava tutta l’opera come una catabasi simbolico-filosofica che
parodiava la νέχνια dell’Odissea omerica. Il Diels (Poetarum
philosophorum fragmenta, pp. 182-4) ka limitato la catabasi al
secondo e al terzo libro (per più ampi ragguagli si rinvia al
Brochard, Les Sceptiques grecs, pp. 82-4, e al Dal Pra, Lo
scetticismo greco2, pp.95-8).
13. Si è parlato sovente di tono elogiativo, da parte ci Timone, nei
riguardi di Parmenide (fr. 44 Diels), degli Eleati Zenone e Melisso
(fr 45 Diels), di Democrito (fr. 46 Diels) e di Protagora (fr. 66
Diels, in notevole contrasto con fr. 47 Diels), ma bisogna essere
ponderati nell’esame della complessa e ambivalente terminologia
timoniana. Vedasi a tale riguardo G. CORTASSA, Due giudizi di Timone
di Fliunte,«Riv. di Filol. e di Istr. classica», CIV, 1976, pp.
312-26, ove, attraverso l’accurata disamina di due frammenti
timo-niani (2 e 48 Wach.) si aprono nuove e stimolanti prospettive
per una revisione critico-linguistica di tutti i frustula a noi
pervenuti dell’opera di Timone. Alle ottime osservazioni del
Cortassa aggiungerei che non bisogna trascurare il fatto che persino
Senofane (che forse assumeva per Timone nella catabasi lo stesso
ruolo già assunto da Tiresia – indovino, ma cieco – per Odisseo nel
poema omerico) non viene trattato proprio con tutti i riguardi, come
è provato dai luoghi riportati da Sesto Empirico (Pyrrh. hyp. I,
223-225) e inseriti in un contesto critico che rimarrà
sostanzialmente costante anche nel più ampio trattato sestiano
contro il dommatismo logico (Adv. log. I, 48-52, ove i versi
senofanei 21, 13, 34 Diels-Kranz, riportati con compiacimento anche
altrove da Sesto (Adv. log. I IIO; II, 236), vengono interpretati in
senso opinativo e probabilistico (ossia in una visuale che
l’ἀδοξϰστία pirroniana avrebbe categoricamente respinto); e ciò
anche a voler prescindere dal «dommatismo» di Senofane, che a Sesto
non sfuggiva – e ovviamente non era sfuggito già all’acuto Timone –
e che non sappiamo se precedesse o seguisse cronologicamente le
tendenze scetticheggianti del vecchio precursore dell’Eleatismo (per
la dibattutissima esegesi del fr. 34 Wach. cfr. in ZELLER-MONDOLFO,
La Filosofia dei Greci, Parte I, vol. III, trad, it., Firenze, 1967,
pp. 149-157, la ricchissima nota del Reale). Se proprio vogliamo
fare un confronto con altri viaggi poetico-filosofici nell’aldilà,
sarebbe, forse, il caso di stabilire una remota somiglianza tra
Senofane e il dantesco Virgilio, Pirrone e la risolutiva Beatrice,
purché absit iniuria verbis!
14. De Timone Phliasio ceterisque sillogr aphis graecis, Lipsiae,
1859 e soprattutto Timonis sillorum reliquiae in Corpusculum poesis
graecae ludi-bundae, Lipsiae, 18852, ove è riportato un dottissimo
ed attualissimo commentario. Per la superiorità della disposizione
wachsmuthiana rispetto a quella dielsiana vedasi PPIANKO, De Timonis
Phliasii Sillorum disposinone,«Eos», XLIII, 1948-49, pp. 120-6.
15. Poetarum philosophorum fragmenta, Berolini, 1901, pp. 182 segg.,
che è divenuto istituzionale per la numerazione dei frammenti
timoniani.
16. Timone di Fliunte e la poesia sillografica greca, Padova, 1904,
opera interessantissima anche per la storia di questo genere
letterario, e Postille critiche ad alcuni dei frammenti dei
Silli,«Riv. storica antica», 1905-6, pp. 92-9. Il Nestle, che aveva
affrontato importanti questioni timoniane in Die Nach-sokratiker,
Berlin, 1923, I, pp. 10 segg.; II, pp. 240 segg., è stato, invece,
molto sbrigativo nella voce Timon in «RE», XVI A2, coll. 1301-3.
Numerose questioni concernenti le fonti e la validità del βίος
laerziano e l’interpretazione di parecchi Silli si trovano
affrontate non solo nel pluricitato Antigonos von Karystos (pp. 27
segg.) del Wilamowitz, ma anche in E. PAPPENHEIM, Der Sitz der
Schule der Pyrrhonischer Skeptiker,«Archiv für Geschichte der
Philosophie», I, 1888, pp. 39 segg. Interessanti rilievi sul
carattere dei Silli, che il Wachsmuth chiamava senz’altro carmina
irrisoria, si trovano in J. GEFF-CKEN, Timon als Satiriker,«Neue
Jahrbuch», XXVII, 1911, pp. 409 segg.
Altri frammenti dei Silli che, per evitare ripetizioni, non abbiamo
inclusi nella raccolta di questa sezione, sono riportati altrove in
questo volume secondo le seguenti indicazioni:
Vita di Timone (DIOGENE LAERZIO, IX, 109-116)
Il nostro1 Apollonide di Nicea, nel primo dei suoi Commentavi ai
Silli da lui dedicati a Tiberio Cesare» dice che Timone era figlio
di Timarco, di origine fliasia, e che, rimasto orfano ancor giovane,
faceva il ballerino e che poi, avendoci pensato su, emigrò a Megara
presso Stilpone2 e, dopo aver trascorso del tempo con lui, ritornò
in patria e si ammogliò. In appresso, insieme con la consorte si
trasferì ad Elide presso Pirrone3 e risiedette lì finché gli
nacquero dei figli, al maggiore dei quali egli diede il nome di
Xanto e gli insegnò la medicina e lo lasciò come successore della
sua maniera di vivere. Questo Xanto godette chiara fama, come
attesta anche Sozione4 nell’undecimo libro.
Trovandosi in ristrettezze economiche, Timone se ne andò verso
l’Ellesponto e la Propontide. A Calcedonia, dove egli esercitava la
sofistica, il suo successo andava crescendo sempre di più. Una volta
arricchitosi, si trasferì di lì ad Atene, dove abitò fino alla
morte, se si eccettua un po’ di tempo che egli trascorse a Tebe.
Ebbe riconoscimenti anche da parte del re Antigono e di Tolomeo
Filadelfo, come egli stesso attesta a proprio vanto nei Giambi5.
Egli era, come attesta Antigono6, anche un buon bevitore e, durante
il tempo libero dagli studi filosofici, componeva opere poetiche:
poemi epici e tragedie e drammi satireschi (trenta drammi
comici e sessanta tragici) e silli e cinedi. Si ricordano di lui
anche scritti in prosa dell’estensione di circa ventimila righe,
come è menzionato anche da Antigono di Caristo7, che, tra l’altro,
fece la biografia di Timone. I Silli si dividono in tre libri; in
essi, dalla sua posizione di Scettico, ingiuria e beffeggia i
Dommatici in forma di parodia. Il primo di questi libri ha un
carattere semplicemente espositivo, mentre il secondo e il terzo
sono in forma dialogica: vi appare lui stesso che interroga Senofane
di Colofone8 circa ogni filosofo in particolare, e Senofane gli
fornisce ampie spiegazioni, nel secondo libro sui pensatori antichi
e nel terzo su quelli moderni (ragion per cui alcuni hanno dato al
terzo libro anche il titolo di Epilogo). Il primo libro contiene gli
stessi argomenti, tranne che la rappresentazione poetica è a
personaggio unico; esso comincia così:
Ditemi ora voi tutti, che siete intriganti sofisti9.
Morì quasi novantenne, come dicono sia Antigono10 sia Sozione
nell’undecimo libro. Io ho sentito riferire che era anche monocolo:
del resto egli stesso soleva chiamarsi «Ciclope».
C’è stato anche un altro Timone, il misantropo.
Egli fu, adunque, filosofo, ed anche amante del giardinaggio, e
preferiva starsene per i fatti suoi, come dice ancora Antigono11. È
fama che Ieronimo il Peripatetico12 dicesse di lui: «Come presso gli
Sciti lanciano dardi sia quelli che si danno alla fuga sia quelli
che si danno all’inseguimento, così, tra i filosofi, alcuni vanno a
caccia di allievi rincorrendoli, altri scansandoli, e in questa
seconda maniera agiva, appunto, anche Timone».
Egli fu acuto sia come pensatore sia come motteggiatore; fu amante
della cultura e capace di fornire stesure di miti ai poeti e di
aiutarli a comporre azioni drammatiche. Fornì parti di tragedie ad
Alessandro13 e ad Omero14.
Quando, però, sentiva baccano di servette o di cani, sospendeva ogni
sua attività: il suo ideale era quello di lavorare in santa pace15.
Si tramanda che persino Arato16 gli chiedesse come procurarsi un
testo sicuro della poesia di Omero, e che egli rispondesse: «Se
riesci ad imbatterti in manoscritti antichi e non in quelli che sono
“corretti” oggigiorno»17.
I suoi componimenti poetici egli li lasciava giacere
alla rinfusa per la casa e talora mezzo rosicchiati. Gli
capitò, così, che, nel leggerne qualcuno al retore Zopiro18, si mise
a srotolarne una qualche parte e a recitarla; giunto alla metà,
trovò solo per caso i frammenti che sino a quel momento non aveva
saputo dove diamine fossero. A tal segno giungeva la sua
«indifferenza»19!
Ma era pure profluente nel lavoro, tanto che non riusciva ad avere
tempo neppure per pranzare.
Si racconta che egli, scorgendo Arcesilao che attraversava la piazza
dei Cercopi, gli dicesse: «Che fai tu qui, dove siamo noi uomini
liberi?»20
Era solito dire stringatamente contro quelli che danno un giudizio
sui sensi mediante la testimonianza dell’intelletto
Si dier convegno Attaca e Numenio21
Era abituato a parlare così anche per solo scherzo. A un tale che
mostrava la propria ammirazione per ogni cosa, disse: «Perché non
ammiri anche il fatto che noi, pur essendo in tre, abbiamo quattro
occhi?» Erano, infatti, monocoli lui e il suo allievo Dioscuride22,
mentre quello al quale egli indirizzava la battuta era sano.
Una volta Arcesilao gli domandò ironicamente cosa fosse venuto a
fare da Tebe ad Atene; Timone rispose: «Per guardarvi sdraiati e
farmi una risata!». Nei Silli egli assalì Arcesilao, ma ne tesse la
lode nel poemetto intitolato Il banchetto di Arcesilao23.
Come dice Menodoto24, egli non lasciò nessun successore, e la sua
scuola rimase interrotta finché non la riassestò Tolomeo di
Cirene25. Come attestano, invece, Ippoboto26 e Sozione, furono suoi
allievi Dioscuride di Cipro, Nicoloco di Rodi, Eufranore di
Seleucia, Prailo della Troade. Secondo quello che dice lo storico
Filarco27, Prailo fu così ardimentoso che, ingiustamente accusato di
tradimento, affrontò la pena senza degnare i concittadini neppure di
una parola.
Allievo di Eufranore fu Eubulo di Alessandria, e di
quest’ultimo fu discepolo Tolomeo, che ebbe, a sua volta, come
allievi, Sarpedone ed Eraclide. Allievo di Eraclide fu Enesidemo di
Cnosso, che scrisse otto libri di Discorsi pirroniani28. Questi ebbe
come allievo Zeusippo, suo concittadino, e questi ebbe come allievo
Zeusi il Piedipiatti, e questi ebbe come allievo Antioco di
Laodicea. Quest’ultimo fu maestro di Menodoto di Nicomedia, medico
empirico, e di Teoda di Laodicea; allievo di Menodoto fu Erodoto di
Tarso, figlio di Arieo29; allievo di Erodoto fu Sesto l’Empirico,
autore dei dieci Trattati Scettici30 e di altre ottime opere.
Allievo di Sesto fu Saturnino il Chiuso31, empirico anche lui32.
1. Poiché di Apollonide non sappiamo nulla, si è discusso a lungo in
merito all’espressione laerziana ὁ παρ‘ ἡμῶν. Il Nietzsche in un
primo momento («Rheinische Museum», XXIV, p. 206) era d’accordo col
Menagius nel sostituire παρ con πρò(«il nostro predecessore»), ma
poi (Beiträge, p. 6) preferì emendare audacemente con παροιμιογράφος
(«scrittore di proverbi»). Escludendo la tesi del Wachsmuth (Silli,
graec. rei., pp. 31 segg.) circa la comune appartenenza di
Apollonide e di Diogene allo Scetticismo e quella del Reiske
(«Hermes», XXIV, p. 224) circa la loro comune origine nieena, non ci
resta che intendere il termine come vaga espressione di comunanza
letteraria, di comune φιλοπονία(per maggiori ragguagli vedasi la
nota del Gigante ad hoc).
2. Test. 174 Döring. Per le difficoltà cronologiche circa i rapporti
Pir-rone-Brisone (DIOG. LAERT. IX, 61) e Timone-Stilpone vedasi
DÖRING, Die Megariker, pp, 156-7.
3. Sul fatidico e piuttosto simbolico incontro con Pirrone, cui
ironicamente allude Aristocle (EUSEB. Praep. ev. XIV, 18, 14),
vedasi l’articolo del-l’Untersteiner in «Riv. critica di storia
della filosofia», IX, 1954, pp. 284 segg.
4. Per questo erudito peripatetico, fiorito nella seconda metà del
II sec. a. C. e autore di una Successio philosophorum in 13 libri,
vedasi DAI. PRA, La storiografia filosofica antica, pp. 148-52.
5. Cfr. WACHSMUTH, Silli, graec. reliquiae, p. 42. Il Wilamowitz
(Antigonos von Karystos, p. 42) propone «nelle Apparenze» (ἰνδαλμί).
6. Cfr. WILAMOWITZ, op. cit., pp. 41 segg. La notizia è confermata
in ATHEN. X, 438; AELIAN. Var. hist. II, 41.
7. Cfr. WILAMOWITZ, op. cit., p. 42.
8. Circa l’interpretazione scettica del pensiero di Senofane cfr.
SEXT. EMP. Pyrrh. hyp. I, 223-225 e Adv. log. I, 48-52, no; II, 236,
ove sono citati con compiacimento e commentati i versi senof anei:
«Quello ch’è chiaro niun uomo lo vide né mai sarà alcuno / Che
sappia intorno agli dei e a quello che dico del mondo; / Ed anche se
alcuno, per caso, di ciò ch’è reale trattasse, / Non lo saprebbe
egualmente: in tutti c’è solo opinare» (21 B 34 Diels-Kranz).
9. Fr. i Diels = 1 Wachsmuth. Per Timone tutti i filosofi dommatici
sono sofisti (cfr. frr. 9, 4 e 38, 2 Wach.). Fonte dell’espressione
timoniana è HOM. II. V, 484.
10. Cfr. WILAMOWITZ, op. cit., p. 43.
11. Cfr. ibidem, p. 45.
12. Fr. 7 Wehrli.
13. Alessandro Etolo (Test. 10 Snell).
14. Omero di Bisanzio (Test. 8 Snell). Per ulteriori ragguagli sui
rapporti tra Timone e questi poeti vedasi SCHROMM, Tragicorum
Graecorum helleni-sticae aetatis fragmenta, Monasterii, 1929, pp. 16
segg.
15. È molto probabile che qui il Laerzio autobiografizzi un po’ il
rissoso carattere di Timone. L’UnterSteiner (art. cif) propende,
perciò, col quadro che del Fliasio ci ha lasciato Aristocle.
16. L’autore dei Fenomeni (cfr. PFEIFFER, History of Classical
Scholarship, p. 121).
17. Timone intendeva colpire sarcasticamente Zenodoto (cfr.
WILAMOWITZ, Antigonos von Karystos, p. 43; PFEIFFER, History of
Classical Scholarship, pp. 98, 139), alla cui edizione omerica,
ricca di atetesi e di spiedi, preferiva una lettura tradizionale,
come aveva fatto il suo maestro Pirrone (cfr. SEXT. EMP. Adv. math.
I, 272, 281-282).
18. Retore di Clazomene, che fiorì nella prima metà del III sec. a.
C, ricordato in QUINT. Ill, 6, 3.
19. Il Gigante traduce «distrazione»: ma non si tratta di un
semplice fatto psicologico, bensì di una opzione coerente con i
princìpi filosofico-etici, in analogia con l’atteggiamento di
Pirrone verso i cani e i carri della strada (cfr. DIOG. LAERT. IX,
63 segg.).
20. Cfr. WILAMOWITZ, Antigonos von Karystos, p. 44. La battuta
«cinica» di Timone intendeva colpire la mollezza orientale del ricco
antagonista.
21. Cfr. RITTER-PRELLER, Paroem. graec. I, p. 37; II, p. 16, 212.
Attaca era un ladro della Tessaglia e Numenio un ladro di Corinto.
Secondo il Wilamowitz (Antigonos von Karystos, p. 32), Timone
intenderebbe colpire Numenio, discepolo di Pirrone (DIOG. LAERT. IX,
68, 102), che sarebbe passato al dommatismo. Il Brochard (Les
sceptiques grecs, p. 89) traduce con infedele arguzia: «Le francolin
et le corlieu se rencontrèrent», intendendo il verso come l’inizio
di una favola-apologo di due uccelli uno più sciocco dell’altro.
22. Dioscuride di Cipro (cfr. § 115).
23. Fr. 79 Diels.
24. Fr. 4 Jacoby.
25. Scettico, allievo di Eubulo, fiorito intorno al 100 a. C. (cfr.
DEICH-GRÄBER, Die griechische Empiriker schule, pp. 172, 258). Sulla
infondatezza della notizia di Menodoto in merito a Tolomeo come
fondatore della Medicina Empirica vedasi DAL PRA, Lo scetticismo
greco, pp. 31-2.
26. Citato spesso dal Laerzio, fiorì verso la fine del III sec. a.
C. e fu autore di due opere: Sulle sette filosofiche e Intorno ai
filosofi.
27. Fr. 67 Jacoby.
28. La loro sintesi ci è pervenuta attraverso Fozio (Bibliot. 213).
29. Il Kudlien legge: «Erodoto figlio di Arieo di Tarso».
30. Per l’ampia questione concernente il numero dei libri di Sesto
rinvio a quanto ho riassunto in SESTO EMPIRICO, Contro i matematici,
pp. VII-VIII.
31. Il Brochard (Les sceptiques grecs, p. 327, n. 1), seguendo il
Nietzsche (Beiträge, p. 10), propone la sostituzione di questo
nomignolo con ϰαϑ ἡµᾶς («nostro contemporaneo»). Saturnino fu
allievo di Sesto e probabile fonte di Diogene. Per altre
interpretazioni vedasi Gigante, nota ad hoc.
32. Per la tesi della continuità dello Scetticismo
pirroniano-timoniano prospettata qui da Diogene e sulla vetustà del
rapporto tra Scetticismo e Medicina (prima tendenzialmente e poi
dichiaratamente empirica) vedansi GOEDECKEMEYER, Die Geschichte der
griechischen Skeptizismus, pp. 27 segg. e DEICHGRÄBER, Die
griechische Empirikerschule, pp. 279 segg.
Dai «Silli»
LIBRO I
(DIOGENE LAERZIO IX, 40 = 2 Wach. = 46 Diels)
Qual riconobbi tra i primi Democrito, accorto pastore
Di favole1,
conversatore che medita il dritto e il rovescio.
(PLUTARCO, Numa 8 = 3 Wach. = 58 Diels)
Pitagora, poi, che propende per ciurmatrici opinioni2,
A caccia di
uomini, amico3 di dignitoso parlare.
(DIOGENE LAERZIO IX, 23 = 4 Wach. = 44 Diels)
Parmenidea generosa possanza e4 non molto opinante,
Di lui che
astrasse il pensiero da inganno di ogni apparenza5.
(DIOGENE LAERZIO IX, 25 = 5 Wach. = 45 Diels)
Gran forza, con lingua che afferma e che nega6, non pronta [a
mollare7,
Di Zenone che tutti censura, oppure Melisso che si erge
Su
molte fantasime e solo di poche rimane al di sotto.
(DIOGENE LAERZIO I, 34 = 6 Wach. = 23 Diels)
Qual, poi, Talete, tra i saggi saggio, astronomia in persona8
(DIOGENE LAERZIO III, 7 = 7 Wach. = 30 Diels)
Duce di tutti era lui9, spallutissimo, ma nel parlare
Di dolce
vocio10, somigliante al frinir di cicale che stanno
Sugli alberi di
Echedemo, effondendo concento di gigli.
(DIOGENE LAERZIO VII, 15 = 8 Wach. = 78 Diels)
E vidi una vecchia fenicia11, ingorda, in ombrosa superbia,
Di tutto
bramosa12: i suoi cenci minuscoli vanno a brandelli
Sottili: la
mente ella aveva peggiore di vacuo ronzio13.
(PLUTARCO, De virt. mor. 6, 446 E = 9 Wach. = 58 Diels = 72 A 10
Diels-Kranz)
Ardimentoso, incessante, ovunque balzasse, appariva
Canino il vigor
d’Anassarco14. Sapiente, di certo, era lui
(Lo dicono), eppure
infelice: lo facea rinculare natura
Soggetta al piacer; ed è,
questa, terrore di tutti i sofisti.
(DIOGENE LAERZIO IX, 52 = 10 Wach. = 47 Diels)
Protagora, il mettiti-in-mezzo, di logomachie buon campione15.
(ATENEO IX, 406 a = 11 Wach.)
[Prodico] che annuncia le ore dietro compenso16.
(DIOGENE LAERZIO VI, 18 = 12 Wach. = 37 Diels)
[Antistene], cianciator tutto-fare.
(PLUTARCO, Dion 17 = 13 Wach. = 38 Diels)
[Speusippo], a sfottere bravo.
(DIOGENE LAERZIO VII, 16 = 20 Wach. = 39 Diels)
Intanto uno stuolo accoglieva17 di poveri, ch’eran fra tutti
I più
pezzenti e i più morti di fame che fossero al mondo.
(ATENEO IV, 158 a = 21 Wach.)
Egli18 imbandì di lenticchie il dodicesimo chicco.
(ATENEO IV, 158 a = 22 Wach.)
E la zenoniana lenticchia …
… (non può) far bollire chi non con
sagacia ha imparato19.
(SESTO EMPIRICO, Adv. eth. 172 = 23 Wach. = 66 Diels)
Con lamentazioni mortali taluno, gemendo, diceva20:
Ahimé, cosa
soffro? Ora quale saggezza può nascermi quivi?
Pitocco mentale son
io, un chicco non ho d’intelletto!
Invano penso io di potere
sfuggire a improvvisa rovina.
O tre e quattro volte beati i
nullatenenti e quei tali
Che non trangugiano a scuola quei cibi che
s’erano cotti!
Ma il fato mi ha condannato a struggermi in tristi
contese,
In miserie e in quante altre cose rincorrono fuchi mortali.
(DIOGENE LAERZIO VII, 170 = 24 Wach. = 41 Diels)
Chi è questi21 che come caprone sorveglia le file dei prodi?
Un
fioccaparole, una pietra di Asso, mortaio sguarnito!22
(GALENO, Ad Hippocr. epid. VI =25 Wach.)
Che vuoi, tu23, congetturare? Carne ne hai poca e molte ossa.
(GELLIO III, 17, 4 = 26 Wach. = 54, 3 Diels)
Platone, anche tu!24 Bramosia prese anche te d’imparare!
Con spesa
di molto danaro un libriccino comprasti:
Di lì principiando,
apprendesti a metter Timeo per iscritto.
(DIOGENE LAERZIO II, 126 = 28 Wach. = 29 Diels)
Aprendo un discorso col ciglio aggrottato, da stolto gradasso25.
(DIOGENE LAERZIO IX, 6 = 29 Wach. = 43 Diels)
Con grido di cuculo Eraclito tra loro s’alzò, spregiatore
Del volgo,
ad enigmi parlando26.
(ATENEO IV, 62 e = 30 Wach.)
Di pranzi smanioso, con occhio di cervo, ma duro di cuore27.
(ATENEO IV, 160 c = 31 Wach.)
Dal nome con cui, tu nascendo29, tua madre ti prese a chiamare
Mi
sembra davver che tu sia un bello e grosso caprone.
(SESTO EMPIRICO, Adv. eth. 141 = 36 Wach. = 70 Diels)
Tutto all’intorno prevale bonaccia29.
(SESTO EMPIRICO, Adv. eth. 141 = 37 Wach. = 64 Diels)
Lui30, come io lo pensai, in tranquillità di bonaccia
LIBRO II
(DIOGENE LAERZIO II, 107 = 41 Wach. = 28 Diels)
A me non importa un bel niente di questi ciarloni31 e
neppure
D’altri e chi sia mai Fedone o Euclide32
l’attaccabrighe,
Che tra i Megaresi introdusse l’amore per i
battibecchi33.
(DIOGENE LAERZIO V, 11 = 43 Wach. = 36 Diels)
Né d’Aristotele io curo la leggerezza penosa34.
(DIOGENE LAERZIO II, 6 = 47 Wach. = 24 Diels)
E dicon che lì c’è Anassagora, il formidabile eroe,
La «Mente»: che
proprio sua mente d’un battibaleno la sveglia
Suonò ed il tutto
raccolse che prima era un grosso pasticcio35.
(SESTO EMPIRICO, Adv. phys. I, 57 = 48 Wach. = 5 Diels)
† Di tutti i sofisti d’allora e di quanti poi furono al primo36,
†
Di lingua per nulla sgradito né sconsiderato né duro,
A Protagora:
e voler ridurre in cenere tutti i suoi scritti,
Giacché dei numi
egli scrisse che né sapea né poteva
Scoprir quali mai siano essi e
quale essi abbian natura.
Pur ogni prudente accortezza serbava: ma
questo non valse
Per lui; ma alla fuga ei si diede, perché così non
bevesse
Socratica fredda bevanda e giù discendesse nell’Ade.
(DIOGENE LAERZIO VIII, 67 = 49 Wach. = 42 Diels)
Empedocle, poi, va gridando
Versi al mercato: ne mise in un blocco
quanti poteva
Di princìpi, egli pur principe, e tutti indigenti
ancor d’altri37.
(DIOGENE LAERZIO II, 19 = 50 Wach. = 25 Diels)
Da queste ricerche38 deviava il marmista39 di leggi
ciarlone,
Incantator degli Elleni e maestro in sottili
discorsi,
Buon fiuto40, di retori scempio, mezzo attico41 in fare
ironia.
(SESTO EMPIRICO, Adv. log. I, 10 = 51 Wach. = 25 Diels)
[Platone] non volle che quello42 restasse «Etologo»43
(ATENEO XI, 505 e = 52 Wach.)
Come Platone inventava, esperto a plasmar mirabilia
(DIOGENE LAERZIO II, 55 = 53 Wach. = 26 Diels)
Una diade fiacca o una triade d’opere o anche molte altre
Quai ne
scrivea Senofonte o l’impeto non dissuadente D’Eschine44.
(DIOGENE LAERZIO II, 66 = 54 Wach. = 27 Diels)
Quai d’Aristippo la molle natura che va palpeggiando
Il falso45.
LIBRO III
(DIOGENE LAERZIO X, 2 = 55 Wach. = 51 Diels)
Dei fisici il massimo porco, da Samo il più cane venuto,
Maestro
dell’abbecedario46, più ciuco di tutti i viventi47.
(ATENEO VII, 279 f = 56 Wach.)
Corteggiatore del ventre, la cosa più ingorda di tutte48.
(SESTO EMPIRICO, Adv. eth. 171 = 57 Wach. = 65 Diels)
Dai grandi clamor guastatori, elargitor di speranze49.
(SESTO EMPIRICO, Adv. math. I, 53 = 58 Wach. = 61 Diels)
Quanto a grammatica, alcuno bisogno non ha di ricerca,
Quando egli
pure imparasse i segni fenici di Cadmo50.
(ATENEO VII, 281 d = 59 Wach.)
Quando si deve calare, proprio ora vuol darsi al piacere51:
C’è
tempo d’amore, c’è tempo di nozze, e di smetter c’è tempo!
(ATENEO I, 22 d = 60 Wach. =. 2 Diels)
Molti52 in Egitto si pascono, in quel guazzabuglio di razze:
Dei
libri hanno fatto trincee, cose infinite imbestiando
Dentro un
pollaio di muse.
(DIOGENE LAERZIO VII, 161 = 61 Wach. = 40 Diels)
Dal seducente Aristone53 c’è pur chi deriva una schiatta.
(ATENEO XIII, 610 b = 65 Wach.)
Vien pure un ingrossamento54
Dal molto imparare: una cosa ch’è, poi,
la più vuota di tutte.
1. Le doti stilistiche di Democrito (per cui cfr. CIC. De or. I, II;
PLUTARCH. Quaest. conv. V, 7, 6; SEXT. EMP. Adv. log. I, 265)
vengono qui viste sotto una luce piuttosto ambigua (cfr. Wachsmuth
p. 93). Fonte d’ispirazione parodistica è HOM. Il. I, 263; IV, 341.
Sul senso preciso dell’espressione vedansi gli ottimi rilievi del
Cortassa (Due giudizi di Timone di Fliunte, in particolare pp.
318-21).
2. Ossia per le arti magiche, con cui il Pitagorismo continuerà ad
intrattenere rapporti fino all’età cristiana (cfr. PORPHYR. De
Pythag. 23-25; IAMBLIC. Vita Pyihag. 60-02).
3. Il termine ἀοριστής (confidente, familiare) è omerico (Il. XIV,
216; Od. XIX, 179). Timone intende satireggiare l’eloquenza sacrale
di Pitagora.
4. Seguo l’emendamento dielsiano di τήν in οὐ.
5. Per una diversa interpretazione vedasi UNTERSTEINER, Parmenide,
Firenze, 1958, p. 14.
6. Per l’ἀμφοτερογλωσσία di Zenone cfr. PLUTARCH. Pericl. 4; DAVID,
Schol. ad Aristot. Cat. 22-28, e quanto è riportato in Wachsmuth,
pp. 97-9.
7. L’epiteto omerico οὐϰ ἀλαπαδνóς (Il. VIII, 32, 415 et alibi) è di
solito attribuito a tori e cinghiali: esso, perciò, da Timone «non
sine ironia usurpatum est» (Wachsmuth) nei riguardi dell’Eleate i
cui ragionamenti «mettono di cattivo umore quelli che tentano di
risolverli» (ARIST. Phys. VI, 239 b 10).
8. Il termine astratto ἀστρονóμημα sembra al Wachsmuth (p. 101)
«ridicule fictum ad normam similium non paucorum verborum».
9. Platone. Per la tormentata questione dell’epìteto seguente (che
trovasi anche in HESYCH. MIL.55, p. 42, 10 Floch) e di altri punti
di questi versi si rinvia all’ampia rota del Gigan in DIOGENE
LAERZIO, Vite dei filosofi, pp. 489-90.
10. Per il contrasto tra la robustezza di Platone e la debolezza
della sua voce cfr. DIOG. LAERT. III, 4-5.
11. È Zenone di Cizio, sulla cui origine semitica ha insistito anche
il Pohlenz (La Stoa, I, pp. 25 segg.).
12. Il continuo indagare e l’acribia del fondatore della Stoa
vengono qui sarcasticamente rappresentati come difetti di ordine
morale» Anche Sesto Empirico (Adv. eth. 190-191) insiste sulle gravi
incongruenze etiche di Zenone.
13. Il ϰινδαΨóς era uno strumento musicale di scarso valore. Non è
improbabile, però, che qui Timone abbia usato la parola σϰινϑαΨά̂
che, come sappiamo da Sesto (Adv. log. II, 133), non ha alcun
significato.
14. Il carattere fiero, nonostante la professione di apatia, di
Anassarco «l’Eudemonico», amico di Pirrone, è ben rilevato in DIOG.
LAERT. IX, 59. Da notare il compiaciuto accostamento di Anassarco ai
Cinici.
15. Parodia di HOM. Il. XV, 679. Per l’esatta interpretazione di
questo verso, che non è in contrasto con fr. 48 Wach. ma solo era,
forse, situato in un contesto diverso, vedasi G. CORTASSA, Due
giudizi di Timone di Fliunte, pp. 322-5.
16. Allusione doppiamente sarcastica ai guadagni che Prodico ricavò
dal suo libro Le Ove (cfr. PHILOSTR. Vita soph. I proem.) e dagli
oroscopi che egli dava alla gente.
17. Si satireggia il «pauperismo» di Zenone di Cizio. Per un analogo
at-teggiamento anti-zenoniano del comico Filemone cfr. Wachsmuth, p.
122.
18. Ancora Zenone.
19. Probabilmente Timone mette queste parole in bocca ad uno stupido
e fedele zenoniano.
20. Sono lamenti di un giovane che ha seguito la dura scuola stoica
della virtù.
21. Allusione maligna all’eccessiva lentezza di Cleante. Lo spunto
parodistico è tratto da HOM. Il III, 196.
22. O «senza pestello» (Gigante): il mortaio è valido «solum
pistillo aliunde allato» (Wachsmuth, p. 129). Si allude forse
all’assenza di originalità in Cleante, che dipendeva tutto da
Zenone.
23. Si tratta di un parolaio, forse un retore.
24. Timone finge di cogliere Platone nell’atto indegno di plagiare
un trattato di fisica del pitagorico Timeo, derivandone il dialogo
omonimo. L’assurdo plagio verrà respinto da Proclo (In Plat. Tim.
Comm. I, Ia segg.).
25. Viene qui satireggiato il «plumbeo» Menedemo di Eretria, allievo
di Fedone e simpatizzante di Platone. Per il suo carattere fiero e
solenne cfr. DIOG. LAERT. Il, 127 segg.
26. Fonte della parodia è HOM. Il. I, 247 segg.
27. Si allude a Ctesibio, discepolo di Menedemo e premurosamente
assistito da Arcesilao (cfr. DIOG. LAERT. IV, 37). Fonte della
parodia è HOM. Il. I, 225.
28. L’allusione è per Cleante, come è confermato dal fr. 24 Wach. =
41 Diels. Cleante, poi, era chiamato scherzosamente dai suoi amici
anche asino, perché sosteneva da solo il fardello di Zenone (cfr.
DIOG. LAERT. VII, 170).
29. Allusione all’atarassia pirroniana (cfr. anche SEXT. EMP. Pyrrh.
hyp. I, 10). Il Diels propende ad assegnare questo e il frammento
seguente al poema Apparenze.
30. Così, forse, appariva Pirrone nell’Ade.
31. Allusione ai Socratici in generale o, forse, ai soli Megarici.
32. Fondatori della Scuola Megarica. Cfr. Test. 8 Döring e DIOG.
LAERT. II, 105.
33. Per l’abilità dialettica che i Megarici mostrarono di possedere
fin dall’inizio cfr. DÖRING, Die Megariker, pp. 91 segg.
34. Nell’affrontare i più svariati rami dello scibile umano con
animus dommatico. Mi sembra erronea la traduzione «vuotezza astrusa»
offerta dal Dal Pra (Lo scetticismo greco, p. 100) forse sulle orme
del Brochard (Les sceptiques grecs, pp. 82-3). Il frammento era,
forse, strettamente legato a quello anti-accademico riportato in
DIOG. LAERT. IV, 67.
35. Cfr. tra l’altro, ARISTOT. Phys. VIII, 1, 250 b 25-27; l’idea
della sveglia sembra quasi suggerita da ARISTOT. Metaph. I, 4, 984 b
15-18.
36. La ricostruzione del verso solo parzialmente citato da Sesto è
del Diels. Per la caduta in disgrazia di Protagora presso gli
Ateniesi cfr. DIOG. LAERT. IX, 61; Cic. De nat. deor. I, 23, 63;
PHILOSTR. Vita soph. I, 10; EUSEB. Praep. ev. XIV, 19
37. Ossia di Amicizia e Contesa (cfr. l’analogo rilievo in ARISTOT.
Metaph. I, 4, 985 a 20 segg.).
38. Ossia dalle indagini fisiche (cfr. ARISTOT. Metaph. I, 987 b
1-4; De part. anim. 642 a 24-31; SEXT. EMP. Adv. phys. I, 8).
39. Socrate, per la cui attività di scultore cfr. PLIN. Nat. hist.
XXXVI, 32; PAUSAN. I, 22, 8; IX, 35, 7.
40. «Enuncti vero cum omnes Attici a Quintiliano XII, 10 dicantur,
turn Optimo iure Socrates, homo nasutissimus» (Wachsmuth, p. 170).
41. II Wachsmuth sostituisce ὐπαττιϰóς con ὐπαστιϰóς (= men che
urbano, mezzo incivile).
42. Socrate.
43. Il termine che ho traslitterato (non si pensi alla moderna
etologia!) vale, insieme, come «maestro di etica» e «buffone».
44. Come Senofonte, anche Eschine fu allievo di Socrate e autore di
dialoghi che Menedemo stimava plagiati (cfr. DIOG. LAERT. II, 60).
Qui Timone, come attesta Diogene (II, 62), alluderebbe ai discorsi
giudiziari di Eschine.
45. «Minime vero licet interpretan “quae potuit tactu a falso
discernere veram “» (Wachsmuth, p. 175). Il Gigante, però, continua
a tradurre «col tatto distingue il vero dal falso».
46. Allusione maligna all’attività di maestro elementare esercitata
da Epicuro e da suo padre (cfr. ATHEN. XIII, 588 a segg.).
47. Sulla scarsa cultura di Epicuro furono quasi sempre d’accordo –
e a torto – gli Scettici (cfr. SEXT. EMP. Adv. math. I, I segg.).
48. Questa ingiusta accusa contro Epicuro si è ripetuta infinite
altre volte per secoli.
49. Il colpo è diretto agli Stoici.
50. Timone, come poi spiega Sesto (Adv. math. I, 54-56), non intende
colpire la grammatica «elementare», che è indispensabile a tutti,
bensì quella «tecnica» degli Alessandrini.
51. L’allusione colpisce Dionisio di Eraclea, detto l’Apostata,
perché passò dal severo Zenone ai Cirenaici e si diede «a
frequentare bordelli e a vivere spudoratamente» (DIOG. LAERT. VII,
166-167).
52. Allusione ai grammatici del Museo di Alessandria, ben pasciuti
dal mecenatismo tolemaico.
53. Timone allude alla suasività del pur austero Aristone di Chio,
la cui etica Cicerone avrebbe accostata a quella di Pirrone.
54. Non possiamo dire se venga colpito ancora una volta Platone (per
il suo πλατνσμóς fisico ricordato in fr. 7 Wach. = 30 Diels) o un
altro filosofo in particolare oppure, come è più probabile, la
paideia enciclopedistica in generale.
Da «Apparenze»
(SESTO EMPIRICO, Adv. eth. I = 67 Diels)
Nel modo più agiato, tranquillo,
Per sempre privo di affanni e
immoto in identico stato,
Senza badare ai vortici di lusinghiera
sapienza1.
(SESTO EMPIRICO, Adv. eth. 20 = 68 Diels)
Oppure io stesso dirò come a me questo appare che sia,
Qual regolo
esatto del vero avendo un parlar favoloso:
Che sempre esiste, di
certo, natura del Dio e del vero,
Dai quali con somma giustizia
procede la vita dell’uomo2.
(SESTO EMPIRICO, Adv. log. I, 30 = DIOGENE LAERZIO IX, 105 = 69
Diels)
Sì, l’apparenza ha vigore in tutti quei luoghi ove giunga!
(SESTO EMPIRICO, Adv. eth. 164 = 72 Diels)
… Privo di repulsa e di scelta3.
1. Timone rappresenta qui la «perfetta disposizione» dello Scettico.
2. Timone qui parla di religiosità e di etica non filosofiche, ma
fondate sul fenomeno.
3. È la posizione adiaforica dello Scetticismo in sede morale.
Da «Contro i fisici»
(SESTO EMPIRICO, Adv. math. III, 2 = B 75 Diels)
Anche Timone stabilì che si deve anzitutto ricercare questo, cioè
se
si può assumere una cosa in base ad un’ipotesi1.
(SESTO EMPIRICO, Adv. math. VI, 66 = B 76 Diels)
Oltre a ciò, il tempo è composto di tre parti,
e una di queste parti
è il passato, un’altra è il presente e un’altra il futuro, e di esse
il passato
non è più, il futuro non è ancora, il presente, poi, o
è
indivisibile o è divisibile. Ma esso non può essere indivisibile,
«perché – come osserva
Timone – nell’indivisibile non si può
generare nessuna cosa che sia
divisibile», quali sono, ad esempio,
il nascere e il perire2.
1. Non possiamo dire con certezza se si alluda polemicamente ai
sillogismi ipotetici della Stoa (cfr. le mie osservazioni in SESTO
EMPIRICO, Contro i logici, pp. XXXVIII segg.) oppure ai postulati
assiomatici delle scienze in generale e della matematica in
particolare.
2. Analoghe argomentazioni sono in SEXT. EMP. Pyrrhi. hyp. III,
143-144 e Adv. phys. 193-197.
LA CRISI
DELL’ACCADEMIA ANTICA
Fin dalle sue origini e per la sua stessa generosità indagativa il
pensiero di Platone si presenta spesso come un edificio non ultimato
o addirittura solo sbozzato e manifesta segni di perplessità e di
dubbio, come avviene in ogni ricerca autentica che, tra sforzi e
tentativi, mira a giungere ad una verità non prefabbricata. Una
notevole parte di quel «sistema» platonico che era destinato ad
essere considerato come un’istituzione dommatica del castello della
filosofia, veniva offerta dal filosofo come un’ipotesi, come un
qualcosa di verosimile o addirittura come una fiaba1, quantunque non
ci sfugga, in tali casi, la modestia modernamente – più che
socraticamente – ironica di chi fu uno dei più geniali scrittori di
tutti i tempi.
Anche per questi motivi le contraddizioni dialettiche che
alimentarono fino alla morte la fecondità creativa di Platone erano
destinate a manifestarsi come vere e proprie scollature dopo che
egli ebbe raccomandato ai suoi eredi dell’ Accademia «la donna sua
più carai. Ed è probabile che gli eredi di Platone, pur nel culto
quasi sacrale per il loro fondatore, si muovessero in un clima di
libertà che fa loro onore2, ma che, nello stesso tempo, non solo
fomentava aporie circa la corretta esegesi della dottrina scritta o
non scritta di Platone3, ma poneva in atto anche una vera e propria
crisi di identità filosofica.
Già con gli immediati successori, infatti, si prospettavano le
difficoltà ermeneutiche dei dialoghi – in particolare di quelli
«zetetici» – e il bisogno di chiarire i risultati e le «ipotesi»
scientifiche che Platone aveva enunciati. Tanto Speusippo quanto
Senocrate, che un’antica tradizione4 vuole fedeli continuatori del
maestro, si tormentarono circa il rapporto da stabilire tra
l’evidente e il non-evidente, tra il sensibile e l’intellegibile ed
erano spinti a riprendere in considerazione il mondo dell’opinione,
oscillante tra cielo e terra, tra verità ed errore, tra bene e
male5. Né questo bastava! Se il culto della matematica e delle altre
scienze affini non venne mai trascurato, è anche innegabile, d’altra
parte, che il fascino della cultura orientale, già vivo nell’ultimo
Platone, non contribuiva a ristabilire chiarezza scientifica, ordine
metodologico e sicurezza di risultati sotto i ventilati platani
dell’Accademia6.
Di qui, anche, il riaccostamento quasi conciliativo degli Accademici
ad una Weltanschauung retorico-letteraria, già adombrata in certi
pacati recuperi fatti da Platone nella sua consolidata maturità7.
Ma, mentre il maestro aveva saputo sussumere ogni eterogeneità nel
più alto piano speculativo, gli allievi, invece, forse presentendo
il pericolo di un loro naufragio teoretico, si rivolsero – già ai
tempi di Speusippo e di Senocrate, ma più accentuatamente con
Crantore -a quella problematica di ordine morale che nessuno più di
Platone aveva profondamente sentita, ma che ora si profilava quasi
come unica ancora di salvezza e come segno di distinzione
dell’Accademia da altre scuole, specialmente dal Peripato8.
Anche i successori di Aristotele, infatti, comportandosi con
notevole libertà nei confronti del loro maestro, erano suscettibili
a voci estranee, ma non si ebbe quasi mai presso di loro, pur nel
corso secolare della loro storia, una vera e propria rivoluzione
paragonabile a quella che rinnovò l’Accademia nel III secolo a. C.9.
Le più profonde aporie aristoteliche servivano ad aprire, con una
certa pacatezza epistemologica, la famosa «porta della verità»10 nei
vari settori della conoscenza e della scienza; le aporie platoniche,
invece, coinvolgendo teoresi e prassi, provocavano drammaticamente
soluzioni antinomiche, slanci e scoraggiamenti e, alla fine,
inducevano a percorrere anche strade in gran parte inesplorate.
Per tutto ciò Arcesilao, quando operò la sua svolta e vibrò quasi un
colpo di maglio, era in buona fede convinto di restaurare il
migliore platonismo: la sua esplosiva innovazione aveva, infatti,
avuto molti decenni di gestazione e il suo incontro con Pirrone gli
dovette sembrare piuttosto occasionale e per nulla rivelativo11.
Per la comprensione della crisi dell’Accademia Antica sono
illuminanti i passi di Sesto Empirico12, di Numenio-Eusebio13 e di
Agostino14 qui di seguito riportati.
Pur con le sue sempre acute riserve critiche, mutuate anche dalla
tradizione enesidemea, Sesto considera questa crisi come qualcosa di
fecondo, non solo perché mise in piena luce le contraddizioni insite
nel pur dommatico Platone, ma anche perché gli Accademici furono
spinti quasi dalla forza delle cose ad accostarsi al Pirronismo già
esauritosi con Timone e ormai bisognoso della vitale linfa della pur
aborrita dialettica15.
Al contrario di Sesto, il suo quasi contemporaneo Numenio, fedele e
scrupoloso dommatico di un Pitagorismo che andava confluendo verso
Plotino, considera, invece, la crisi dell’Accademia come una
catastrofe da cui ci si può salvare soltanto con un ritorno ad un
Platone pitagorico. Ma, pur partendo da opposte prospettive, Numenio
è, in qualche tratto, d’accordo con l’Empirico nel ritenere il pur
venerando Platone come il primo responsabile, ancorché involontario,
del guazzabuglio accademico per certe sue oscurità. Tra accenti di
deferenza, inoltre, egli timidamente rimprovera a Platone una certa
indulgenza nei riguardi degli aspetti raffinatamente conversativi
del Socratismo che potevano essere confusi con i «belletti della
Sofistica»16. Insomma, Scetticismo e Neo-platonismo, le due ruote
della biga che portava la filosofia greca al suo dissolvimento,
giravano all’unisono non poche volte, benché ciascuna di esse,
polemizzando con l’altra, minacciasse di uscirsene dall’unico asse.
Un grande pensatore, che fu anche un grande uomo, sperimentò per
lungo tempo e con moderna angoscia tutto questo travaglio: Agostino.
Egli, non molto dopo la sua conversione definitiva al
Cristianesimo17, seguendo in gran parte certe indicazioni
ciceroniane18 in merito ad un esoterismo accademico, propose,
come sua ipotesi alla fine della sua serrata polemica contro gli
Accademici stessi, il persistere di una continuità
idealistico-spiritualistica da Platone a Plotino. E Agostino, anche
se si allontana enormemente dalla verità storica19, sente più di
ogni filosofo moderno il bisogno di chiarire l’enigma di
quell’Accademia che, con tutte le sue vicissitudini e i suoi
contrasti interni e le sue contraddizioni teoretiche, conservò pur
sempre l’inconfondibile sigillo dell’anello di Platone.
Le tre testimonianze, anche se non costituiscono per noi una
chiarificazione definitiva e filosoficamente dimostrata della crisi
accademica, ci danno almeno la possibilità di capire che il fenomeno
arcesilao-Carneadeo non venne fuori come un capriccio di stravaganti
personalità: esso, invece, nasceva dalla necessità di far venire
tanti nodi platonici allo stretto e sottile pettine dello
Scetticismo.
1. Cfr, Plat. Phaed. 61b-c, 70b, 81d; Polit. 277d; Tim. 29c-d; Gorg.
523a.
2. Cfr. H. Cherniss, L’enigma dell’Accademia antica, Firenze, 1974,
pp. 71 segg. e l’ampia nota della Isnardi-Parente in
Zeixer-Mondolfo, La Filosofia dei Greci, parte II, vol. III,
Firenze, 19742, pp. 861-77.
3. Cfr. K. Gaiser, Piatons ungeschriebene Lehre, Stuttgart, 1968,
pp. 8-11, 305-11.
4. Cfr, Cic. Varro IV, 14; IX, 34; De fin. V, III, 7-8; VI, 16;
Diog. Laert. IV, 1.
5. Per Speusippo cfr. P. Lang, De Sp. Academici scriptis, Bonn,
1911, fr. 29 e relative discussioni (a proposito di questo frammento
lo Zeller, op. cit., p. 899, ha sottolineato che il nipote di
Platone «nella misura in cui volgeva lo sguardo al particolare
dell’esperienza, si allontanava da quell’unità dei princìpi supremi
cui aveva mirato Platone»). Per Senocrate cfr. R. Heinze, Xen.
Darstellung der Lehre und Sammlung der Fragmente, Leipzig, 1892, fr.
5 (a proposito di questo frammento si rinvia alla nota della
Isnardi-Parente sulla teoria senocratea della doxa in
Zeller-Mondolfo, La Filosofia dei Greci, Parte II, voi. III, 2 pp.
935-6).
6. Già la demonologia senocratea, pur partendo dal bisogno di
interpretare alcuni dialoghi platonici (specialmente il Simposio),
non è priva di quegli elementi irrazionalistici che emergeranno
sempre più nel passaggio dal Platonismo al Neoplatonismo (cfr.
Heinze, Xenocrates, pp. 78 segg.; Ph. Merlán, From Platonism to
Neoplatonism, The Hague 19602, passim.; P. Boyancé, Xénocrate et les
Orphiques, «Rev. des Études Anc.», L, 1948, pp. 218-31); ma
carattere ancora più composito si riscontra nelle teorie
astronomiche e psicologiche di Eraclide Pontico (cfr. F. Wehrli, Die
Schule des Aristóteles, Heft VII, Basel-Stuttgart, 1969, pp. 32
segg.).
7. Come avviene nel Fedro, ove Platone tende generosamente la mano
ad Isocrate, allievo di Gorgia.
8. Anche se la vecchia tesi del Credaro (Lo scetticismo degli
Accademici, I, pp. 128-9) circa il distacco di Arcesilao dal
Peripato per poter passare da studi scientifico-sperimentali a studi
dialettico-letterari è per lo meno alquanto discutibile, sappiamo da
varie fonti che Crantore raggiunse la massima notorietà con il suo
trattato etico-consolatorio Sul lutto (Diog. Laert. IV, 27). Molto
audace, al contrario, e non solidamente dimostrata è la tesi del
Weische (Cicero und die Neue Akademie, pp. 18-20) in merito alla
provenienza peripa-tetico-teofrastea dello Scetticismo in Arcesilao.
9. Dopo aver presentato l’Accademia Antica come sostanzialmente
fedele a Platone (fondandosi, tra l’altro, su Cic. Varro IV, 17), il
Brochard (Les sceptiques grecs, p. 100) quasi esclama: «La nouvelle
Académie changea tout cela». Il cambiamento ci fu, ma non si trattò
di un fulmine a ciel sereno.
10. Cfr. Arist. Metaph. II, 1, 993b5.
11. Mentre lo Haas (De philosophorum scepticorum successionibus, p.
21) considerava, con molta unilateralità critica, la Nuova Accademia
come erede diretta del Pirronismo, con altrettanta - se pur
brillante - unilateralità, il Brochard (Les sceptiques grecs, pp. 97
segg.) ha affermato che l’Accademia sarebbe divenuta scettica anche
se Pirrone non fosse mai esistito.
12. I passi sestiani di Pyrrh. hyp. sono stati tradotti dal testo
teubneriano del 1958 emendato dal Mau; quelli di Adv. log. e di Adv.
eth. dal vecchio testo del Mutschmann del 1911, bisognoso di
aggiornamento.
13. Nella traduzione del brano numenio-eusebiano ho seguito il testo
di E. des Places, Paris, 1973, fr. 24, pp. 61-6, che è il più
aggiornato rispetto alle precedenti raccolte numeniane curate dal
Thedinga (Bonn, 1875), dal Mullach (Frag. philos. graec, Paris, III,
1881, pp. 153-64) e dal Leemans (Bruxelles, 1937). Per Piu ampie
notizie sul pensatore di Apamea si rinvia a S. Guthrie, N. of Apam.,
London 1911; H. C. Puech, N. d’Apam. et les théologies orientales au
second siècle, «Ann. de l’Inst. de Philol. et d’Hist. Orient.», pp.
745 segg.; G. Martano, Numenio d’Apam., un precursore del
neoplatonismo, Roma, 1941; M. Dal Pra, La storiografia filosofica
antica, cit., pp. 223-5; soprattutto, infine, l’introduzione del des
Places in Numenius, Fragments, pp. 7-41.
14. La traduzione del passo agostiniano è stata eseguita sul testo
di W. M. Green (S. Aur. August., Opera, Pars II, 2 in Corpus
Christian. Series Latina, Turnholdti, 1970.
15. A proposito dell’ambiguo rapporto di Sesto con la dialettica
rimando a quanto ho notato in Sesto Empirico, Contro i logici, pp.
xlvii-xlviii.
16. Anche Sesto, che sa spesso utilizzare anche lui i sofismi, li
condanna, rimproverando alla dialettica di non poterli dissolvere
(cfr. Pyrrh. kyp. II, 229 segg.). La maggiore dipendenza della Nuova
Accademia da Socrate più che da Platone è stata sostenuta, sulla
base di passi ciceroniani (De or. Ili, XVIII, 67; Varrò, XII, 46; De
rep. Ili, 12), dallo Hirzel (Untersuchungen zu Ciceros philos.
Schriften, III, pp. 36 segg.).
17. Il Contra Acad., insieme col De vit. beat., e col De ord., fu
scritto alla fine del 386, dopo le dimissioni di Agostino
dall’insegnamento di retorica a Milano. Anche il grande pensatore
cristiano si proclama zetetico: egli dice che «l’uomo non erra
quando cerca, poiché egli cerca per non sbagliare», ma l’errore
consiste «nel ricercare sempre e nel non trovare mai» (I, 4). Il che
porta inevitabilmente alla disperazione pirroniana, dalla quale può
sollevarci solo il Vangelo col suo quaerite et invenietis (II, 9).
18. Nella conclusione della sua polemica Agostino, essendo ormai
nata in lui la fiducia di trovare nei Platonici «quod sacris nostris
non repugnet» (III, 43), esorta il suo interlocutore Alipio a
leggere, ormai senza timore, gli Academica di Cicerone, da cui egli
ha desunto tutte le sue informazioni sul pensiero accademico (III,
45); non si dimentichi, inoltre, la presenza in quest’opera di molti
brani dell’Hortensius la cui lettura segnò la conversione di
Agostino dalla retorica alla filosofia.
19. L’interpretazione agostiniana, secondo cui gli Accademici
avevano certam de veritate sententiam (II, 29), ma la tenevano
nascosta ai profani per poter meglio condurre la loro battaglia
contro il materialismo della Stoa, è stata respinta da quasi tutti
gli studiosi del problema. Essa ha trovato, comunque, un
appassionato difensore nel secolo scorso in Geffers (De nova
Academia Arcesilao auctore constituta, Gymn. progr., Göttingen,
1849) e un sostenitore agguerrito e solitario nel nostro secolo in
Olof Gigon (Zur Geschichte der sogenannte Akademie, «Mus. Helv.», I,
1944, pp. 47-54," Die Erneuerung der Philosophie in der Zeit
Ciceros, Fond. Hardt, III Gerì, 1955, pp. 25-61).
L’Accademia platonica antica e lo Scetticismo nel giudizio di Sesto
Empirico
(Pyrrh. hyp. I, 1-4)
È verosimile che chi svolge una certa indagine pervenga o ad una
scoperta o alla negazione della scoperta e all’ammissione
dell’incomprensibilità oppure alla perseveranza nell’indagine. Ecco,
forse, perché, per quanto concerne le ricerche di ordine filosofico,
alcuni hanno affermato di avere scoperto il vero, altri hanno
asserito che non è possibile comprenderlo, altri, infine, continuano
ancora a cercarlo. E credono di essere pervenuti alla scoperta del
vero quelli che propriamente sono chiamati Dommatici – tali sono, ad
esempio, Aristotele, Epicuro ed alcuni altri –; proclamano, invece,
che il vero è incomprensibile Clitomaco, Cameade e altri Accademici;
continuano, infine, ad indagarlo gli Scettici. Perciò è conforme a
ragione ritenere che le principali «filosofie» siano tre: la
dommatica, l’accademica e la scettica.
(Pyrrh. hyp. I, 220-225)
Sostengono, comunque, alcuni che la filosofia accademica
s’identifica con quella scettica. Ma su questa identificazione si
può aprire un dibattito1.
A quanto dicono i più, di Accademie ce ne sono state tre: la prima e
più antica, quella di Platone; la seconda o Media, quella di
Arcesilao, l’allievo di Polemone2; la terza o Nuova, quella di
Cameade e di Clitomaco. Alcuni, però, aggiungono anche, come quarta
Accademia, quella di Filone e di Carmida; altri, infine, annoverano
come quinta quella di Antioco. Cominciando, pertanto,
dall’Accademia Antica, mettiamoci a considerare, anche, in che cosa
le suddette concezioni filosofiche differiscano dalla nostra.
Orbene: alcuni sostennero che Platone è dommatico, altri che è
aporetico3, altri, infine, che per un verso è aporetico e per un
altro è dommatico. Secondo questi ultimi, infatti, Platone nei suoi
discorsi di esercitazione4, nei quali viene presentato Socrate che o
parla scherzosamente con alcuni oppure polemizza con i Sofisti,
rivela un carattere esercitativo e dubitativo, ma mostra, al
contrario, un carattere dommatico quando parla sul serio per bocca
di Socrate o di Timeo o di altri personaggi siffatti5. Sarebbe
superfluo aprire adesso una discussione a proposito di quanti lo
considerano dommatico oppure per un verso dommatico e per un verso
aporetico, giacché essi stessi di già riconoscono che c’è differenza
tra lui e noi. Se, poi, egli sia un vero e proprio scettico è una
que stione da noi discussa con maggiore ampiezza nei Commentari6; in
questa sede, tuttavia, discutendo il problema per sommi capi in
opposizione a Menodoto7 e ad Enesidemo8 (costoro, infatti, sono
stati i massimi sostenitori di quel punto di vista), affermiamo che,
quando Platone fa rivelazioni sulle idee e sulla reale esistenza
della provvidenza o sul fatto che la vita virtuosa è preferibile a
quella viziosa, si comporta da dommatico nel caso egli dia l’assenso
a queste cose ritenendole realmente esistenti, o, comunque, nel caso
che egli le ritenga maggiormente probabili, si sottrae al carattere
dello Scetticismo, perché egl esprime un giudizio di preferenza in
base a probabilità o improbabilità9: che, infatti, una tale
posizione filosofica sia estranea a noi, risulta con la più chiara
evidenza da quanto abbiamo detto precedentemente10. E se pure egli
pronuncia certe espressioni alla maniera scettica – quando,
cioè, a quel che dicono, fa esercitazioni –, questo non basta a
renderlo scettico: difatti chi si esprime dommaticamente su un solo
tema o giudica nella totalità una rappresentazione come preferibile
ad un’altra in base a probabilità o improbabilità (oppure fa una
rivelazione11) su qualcuna delle cose nonevidenti, proprio costui
viene ad acquisire un carattere dommatico, cerne mostra anche Timone
nei suoi rilievi a proposito di Senofane. Infatti, dopo averlo
lodato in molti luoghi fino al punto da dedicargli i Silli, lo
ha rappresentato che dice in istato di afflizione12:
Oh! Se anch’io una mente ben salda avessi ottenuto
Andando in due
direzioni: sentiero mendace mi trasse
In inganno, quand’ero già vecchio e d’ogni ricerca
affrancato.
Dovunque, infatti, la mente volgessi, andava
dissolto
Tutto nell’Un, nello Stesso, e sempre ogni cosa
ch’esiste,
Ovunque tendesse, sostava in unica eguale Natura.
Per questo Timone lo chiama «semilibero da gloria» e «non perfetto
inglorioso» nei versi in cui dice13:
Senofane quasi inglorioso, derisor degli omerici inganni14,
Se un
Dio dagli uman segregato plasmò egli uguale dovunque,
Inconcusso ed
illeso, pensiero più d’ogni pensiero.
E lo chiamò «quasi inglorioso» nel senso che Senofane è, per qualche
aspetto, immune da gloria, e «derisor degli omerici inganni», perché
dileggiava l’inganno menzionato da Omero. Eppure Senofane si
comportava da dommatico, perché – in contrasto con le prenozioni di
tutti gli altri uomini – sosteneva che uno è il tutto e che il Dio è
connaturato con tutte le cose e che è di forma sferica e non
soggetto a passione o a mutamento ed è razionale15: dal che è anche
facile indicare la differenza che passa tra Senofane e noi.
Comunque stiano le cose, in base a quanto si è detto risulta
pienamente chiaro che, anche se su certe questioni Platone è rimasto
nell’aporia, ciò nonostante non può essere considerato uno scettico,
dal momento che in alcune questioni risulta pronunciarsi a favore
dell’esistenza di cose non-evidenti16 o assegna la preferenza ad
alcune cose non-evidenti in base alla loro probabilità17.
(Adv. log. I, 141-149)
Orbene, Platone nel Timeo, dopo aver distinto le cose in
intellegibili e sensibili e dopo aver affermato che le cose
intellegibili possono essere apprese dalla ragione e che, invece,
quelle sensibili possono essere soltanto opinate, viene a definire,
con la massima chiarezza, la ragione come criterio della conoscenza
delle cose, pur considerando, insieme con quella, l’evidenza che si
riscontra mediante la sensazione. Egli dice così18: «Che cosa è ciò
che è sempre e che non ha generazione? E che cosa è ciò che
diviene e non è mai? L’uno può essere appreso dal pensiero per mezzo
della ragione, l’altro dall’opinione per mezzo della sensazione». E
affermano i Platonici che egli chiama «ragione comprensiva»
quella che comprende insieme l’evidenza e la verità. È
indispensabile, infatti, che la ragione, nel dare il giudizio della
verità, parta dall’evidenza, dal momento che appunto per mezzo delle
cose evidenti si genera il giudizio di quelle vere. Ma l’evidenza
non è di per sé bastevole alla conoscenza del vero, giacché, se una
cosa appare secondo evidenza, non per questo essa possiede anche
un’esistenza vera, ma è indispensabile la presenza di un organo che
giudichi quale cosa si limita solo ad apparire e quale cosa, oltre
ad apparire, sussiste anche veramente; e quest’organo è, per
l’appunto, la ragione. Sarà, pertanto, indispensabile il
concorso di entrambi questi fattori, ossia dell’evidenza (in
quanto questa fornisce alla ragione il punto d’avvio per il giudizio
di verità) e della ragione stessa (perché l’evidenza possa essere
sottoposta ad esame). Quindi, per venire a contatto con l’evidenza e
per giudicare quanto di vero ci sia in essa, la ragione ha bisogno,
a sua volta, del supporto della sensazione: difatti essa,
accogliendo per mezzo di quest’ultima la rappresentazione, formula
il pensiero e la scienza del vero, di guisa che la ragione risulta
essere comprensiva dell’evidenza e della verità; il che equivale a
dire che essa è «apprensiva»19.
Così la pensa Platone; Speusippo, invece, tenendo conto che,
tra le cose, alcune sono sensibili e altre intellegibili, afferma20
che criterio delle intellegibili è la ragione conoscitiva, mentre
delle sensibili è la sensazione conoscitiva. E considera sensazione
conoscitiva quella che si accosta alla verità razionale. Come,
infatti, le dita del flautista o dell’arpista posseggono, sì,
un’attitudine artistica, ma quest’ultima non trova la sua perfezione
principalmente in esse, bensì viene pienamente raggiunta mercé
un’esercitazione connessa alla ragione, e come la sensibilità del
musico possiede un’attitudine a percepire in modo apposito
l’armonico ed il disarmonico, ma questa non sgorga da sé, bensì
viene generata da un procedimento razionale, allo stesso modo anche
la sensazione conoscitiva desume naturalmente dalla ragione la sua
pratica conoscitiva connessa ad uno stabile discernimento delle cose
esistenti.
Senocrate, da parte sua, ammette21 l’esistenza di tre sostanze: di
una sensibile, di una intellegibile e di una composta e opinabile, e
di queste la sensibile è all’interno del cielo, l’intellegibile è
(quella) che è propria di tutte le cose che sono al di fuori del
cielo, l’opinabile e composta, infine, è quella del cielo stesso,
giacché esso è visibile per mezzo della sensazione ed è,
altresì, intellegibile per mezzo dell’astronomia. Stando, dunque,
così le cose, egli indicava la scienza come criterio della sostanza
esterna al cielo ed intellegibile, (la) sensazione come criterio di
quella interna al cielo e sensibile, e l’opinione come criterio di
quella mista; e, in linea generale, fra questi criteri, quello che
si esercita mediante la ragione conoscitiva egli lo considerava
saldo e vero, quello che si esercita mediante la sensazione lo
riteneva, sì, vero, ma non allo stesso modo di quello che si
esercita mediante la ragione conoscitiva, e, infine, quello composto
lo stimava comune al vero ed al falso, giacché l’opinione è
vera per un lato, falsa per un altro. Ragion per cui ci sarebbero
state assegnate anche tre Moire: Atropo, la Moira delle cose
intellegibili, essendo essa inamovibile, Cloto delle cose sensibili,
Lachesi, infine, di quelle opinabili.
(Adv. eth. 51-59)
I filosofi dell’Accademia e quelli del Peripato hanno detto che essa
[la virtù] è un bene, ma non proprio il primo. Essi, infatti, hanno
pensato che a ciascuno dei beni bisogna assegnare il proprio ruolo e
la propria dignità. Perciò anche Crantore22, con l’intento di darci
un’immagine evidente di quanto stiamo dicendo, si servì di un
esempio, senza dubbio, grazioso. «Se noi potessimo immaginare – egli
afferma – che un teatro contenesse insieme tutti quanti gli Elleni e
che vi si presentasse ciascuno dei beni e si mettesse a gareggiare
per il primo premio, saremmo immediatamente guidati anche alla
consapevolezza della differenza che tra i beni intercorre. In
primo luogo, infatti, la ricchezza incederà sul proscenio e
proclamerà: “Io, signori di tutta l’Eliade, offrendo a tutti gli
uomini ornamento e vestiti e scarpe e ogni altro conforto, sono
indispensabile a malati e a sani, e in pace offro le cose amabili,
in guerra divento il nerbo delle azioni “. Allora tutti gli Elleni,
ascoitando queste parole, all’unanimità ordineranno di
assegnare il primo premio alla ricchezza. Ma se, mentre questa viene
proclamata vincitrice, si presenterà il piacere
(Ivi c’è amor, ivi c’è desiderio, ivi dolce convegno,
Parlar
lusinghiero che ruba persin dei più saggi la mente)23
e, levandosi in mezzo, dirà che è giusto proclamarlo vincitore
(Non salda è la ricchezza: dura un giorno,
Fiorisce breve tempo e
vola via24
e viene perseguita non per sé, ma per la gloria ed il piacere che ne
derivano), allora certamente tutti quanti gli Elleni, pensando che
la realtà delle cose non sia altro che questo, grideranno che al
piacere bisogna tributar la corona. Ma nel momento in cui anche
questo sta per riportare la palma, se si lanciasse avanti la salute
con le divinità a lei compagne25 e mostrasse che senza di lei non si
trae giovamento alcuno né da ricchezza né da piacere
(Che aiuto dà ricchezza a me malato?
Vorrei campar per poco e alla
giornata
Con vita gaia e non languire ricco)26,
allora, ancora una volta, tutti quanti gli Elleni, ascoltandola e
rendendosi conto che non sussiste la felicità se è buttata in un
letto e ammorbata, proclameranno che la salute ha vinto. Ma, proprio
quando anche la salute sta cantando vittoria, non appena entrerà in
ballo il coraggio, cinto intorno da un forte drappello di prodi e di
eroi, e si erigerà nel mezzo e dirà:
“O uomini dell’Ellade, se non ci sono io, in mano altrui va a cadere
il possesso dei vostri beni, e i nemici si augurerebbero che voi
abbondaste di tutti i beni, perché pensano di potervi tenere in
pugno allora gli Elleni, ascoltando anche queste parole,
conferiranno il primo premio alla virtù27, il secondo alla salute,
il terzo al piacere, e l’ultimo ruolo assegneranno alla ricchezza».
E così Crantore assegnava le parti del secondo attore alla salute,
tenendo dietro ai filosofi sopra mentovati28.
1. Per la provenienza enesidemea del presente brano vedasi la nota
del Natorp in «Rheinische Museum», XXXVIII, 1883, p. 32.
2. Secondo Diogene Laerzio (IV, 18) Polemone aveva una certa
avversione per le speculazioni dialettiche e preferiva sottolineare
i fatti della vita. Per lui il puro dialettico era come «uno che
abbia imparato mnemonicamente un manuale di armonia musicale e non
sappia suonare armoniosamente». Forse anche Timone diceva cose
analoghe contro i Megarici, amici dell’Accademia.
3. Per questa dicotomia nell’esegesi del pensiero di Platone cfr.,
tra l’altro, Diog. Laert. III, 49 segg.
4. Nel passo laerziano sopra citato questi dialoghi vengono detti
«zetetici» e si dividono in «maieutici» (Alcib. pr., Ale. sec.,
Theag., Lys., Lach.) e «peirastici» (Euthyphr., Menon, Ion, Charm.).
5. Per analoghi rilievi in merito al dogmatismo di Platone in
ispecie nel Timeo cfr. Sext. Emp. Adv. log. I, 141-144.
6. Si tratta probabilmente di un’opera sestiana che è andata
perduta.
7. Così intendo col Mutschmann, con lo Heintz e col Bury (in
opposition to…), mentre il Pappenheim preferisce sostituire Menodoto
con Erodoto, il medico-filosofo di Tarso che fu maestro di Sesto
Empirico. Il Tescari, infine, seguendo il Natorp, traduce:
«attenendoci a Menodoto e ad Enesidemo».
8. È probabile che Enesidemo desse un’interpretazione scettica del
pensiero di Platone, quando era ancora un seguace dell’Accademia.
9. Non accettando la tesi enesidemea di un vero e proprio
scetticismo di Platone, Sesto mira a distinguere ancor più lo
scetticismo dal probabilismo. Quest’ultimo si riduce, alla fine, ad
una scelta opzionale.
10. Ossia in Pyrrh. hyp. I, 21-24, 188-191.
11. L’aggiunta è del Pappenheim.
12. 21 A 35 Diels-Kranz; p. 200 in Diels, Poet. phil. frag. = 45
Wach. Il brano è importante non solo perché segue la tesi di un
abbandono dello scetticismo da parte di Senofane in età matura, ma
anche perché dà un’interpretazione Immanentistica al discusso
pensiero del Colofonio.
13. Ibid. Diels-Kranz = 40 Wach.
14. Per gli inganni degli dei cfr. 21 B 10, 11, 12 Diels-Kranz. Lo
spunto è tratto da Hom. II. II, 114. Platone è d’accordo con
Senofane in Resp. 380 d segg.
15. Cfr. 21 B 23, 24, 25, 26 Diels-Kranz.
16. Cioè delle idee.
17. Come si evince dall’«ipotesi» cosmogonica del Timeo.
18. Plat. Tim. 21d. Cfr. Sext. Emp. Pyrrh. hyp. II, 54.
19. Così Sesto, che pur non ha mancato di rilevare spunti zetetici
in Platone, propende alla fine per un’interpretazione rigidamente
razionalistica del platonismo vero e proprio. Questo rigore, però, è
da lui più ammirato della equivoca concezione stoica.
20. Fr. 29 Lang. Per la controversa interpretazione di questa
testimonianza vedasi l’annotazione della Isnardi-Parente in
Zeller-Mondolfo, La Filosofia dei Greci, Parte II, voi. Ili, 2, pp.
898-9.
21. Fr. 5 Heinze. Ber l’interpretazione di questo passo vedasi la
nota della Isnardi-Parente in Zeller-Mondolfo, cit., pp. 935-6.
22. Lo Zeller (op. cit., pp. 1046 segg.), che pur ritiene Crantore
sostanzialmente un «fedele rappresentante dell’Accademia» e la sua
etica come «genuinamente platonica», rileva che, specialmente con
questo pensatore, si acuisce il distacco «dalle basi speculative del
puro platonismo». Il fatto che gli Accademici si limitarono ad
indagini di ordine morale fa sentire la necessità di un nuovo soffio
rivivificatore.
23. Hom. II. XIV, 216-7.
24. Eurip. Elec. 944; Phoen. 558.
25. Panacea, Igea, Asclepio, etc.
26. Eurip. Teleph. fr. 714 Nauck.
27. Da rilevare che in un primo momento si parla di αυδpeiα (virtù
che Platone riservava soprattutto ai custodi dello Stato) e alla
fine di αpeiη (in senso generico). Stando almeno alla
testimonianza di Sesto, la vasta problematica della virtù in Platone
appare con Crantore alquanto malridotta, nonostante la indiscutibile
grazia tutta platonica dell’apologo.
28. Ossia agli Accademici, ai Peripatetici e, in fondo, anche agli
Stoici, contro cui Crantore, in altre questioni, soleva polemizzare
(cfr. Plutarch. Consol. ad Apoll. 3, 102 c-e; Cic. Lucull. XLIV, 135
per l’opposizione all’aià stoica e in difesa di quella ^STpiOTrà che
sarà gradita agli Scettici non intransigenti e in contrasto col
vecchio Pirrone, come leggesi in Sext. Emp. Pyrrh. hyp. Ili,
235-236; Adv. eth. 161).
La crisi dell’Accademia Antica vista in chiave neo-pitagorica
(NUMENIO, apud. Euseb. Praep. ev. XIV, 4-5, 726 a-729 b; da 727 b ad
finem = fr. 24 des Places)
Suvvia, esaminiamo col nostro discorso anche i successori dello
stesso Platone.
Si dice che egli, avendo fatto dell’Accademia il centro delle sue
discussioni, sia stato il primo ad avere il nome di «accademico» e
ad aver creato quel tipo di filosofia che suole essere chiamata
«accademica». Nella direzione della scuola gli successe Speusippo1,
figlio di Potone, sorella di Platone, poi Senocrate2, poi ancora
Polemone3. Si tramanda, però, che già costoro, pur avendo cominciato
ad attingere al sacro focolare platonico, portarono alla
dissoluzione le dottrine del maestro, avendo contaminato i suoi
punti di vista con l’introduzione di dottrine estranee. Sicché c’è
da temere che la meravigliosa forza dei celebri dialoghi di Platone
si sia presto spenta e che, alla morte di quell’uomo, si sia estinta
anche l’eredità delle sue dottrine.
Dai filosofi suddetti, invero, ebbero inizio lotte e dissensi, che
non si sono mai interrotti fino ai nostri giorni, e per questo
motivo pensatori che seguano con zelo fedele le concezioni care a
Platone non ce ne sono affatto in tutta l’esistenza dell’Accademia
tranne uno o due o, al massimo, quanti se ne contano sulla punta
delle dita; anzi neppure costoro sono rimasti completamente immuni
dai belletti della Sofistica, dal momento che anche i primi seguaci
di Platone sono stati accusati di questo difetto.
Si tramanda, infatti, che a Polemone successe Arcesilao4, il quale
notoriamente abbandonò le dottrine di Platone e fondò c una strana
o, come si suol dire, una «seconda» Accademia. Egli diceva, invero,
che su tutte le cose bisogna «sospendere il giudizio», perché tutte
le cose sono «incomprensibili» e i discorsi «verso l’uno o l’altro
senso» sono equipollenti tra loro, mentre sono inattendibili vuoi i
sensi vuoi ogni ragionamento. Perciò egli lodava questa massima di
Esiodo5:
Umano intelletto gli dei conservano nell’occultezza.
E tentava di instaurare anche certi paradossi6. E si dice che, dopo
Arcesilao, Carneade e Clitomaco, fondatori di una «terza» Accademia,
continuarono ad allontanarsi dai loro predecessori. Alcuni ne
aggiungono anche una «quarta», ossia quella di Filone e di Carmida;
né manca chi ne annovera una «quinta», vale a dire quella di
Antioco7.
Di tal fatta furono, presso a poco, i successori di Platone. Ma, se
vuoi avere conoscenza del loro modo di pensare, prendi a leggere
Numenio Pitagorico, il quale nel primo dei trattati intitolati Sulla
infedeltà degli Accademici a Platone scrive testualmente quanto
segue.
Sotto Speusippo, nipote di Platone, e sotto Senocrate, successore di
Speusippo, e sotto Polemone, che ereditò la direzione della scuola
da Senocrate, continuava a conservarsi pur sempre immutato il
carattere essenziale delle dottrine platoniche, giacché non ancora
era venuta alla luce codesta tanto decantata «sospensione del
giudizio» con certe altre concezioni ad essa affini. Eppure
anche quelli, peraltro, dissolvendo per molti aspetti certi princìpi
platonici e stravolgendone certi altri, non rimasero fedeli
all’eredità quale essi l’avevano originariamente ricevuta da
Platone, ma, pur prendendo l’abbrivo da lui, si divisero, con
maggiore o minore rapidità, in diverse correnti, consapevolmente o
inconsapevolmente o anche, in parte, per qualche altro motivo forse
non privo di ambizione personale. Né io intendo dire nulla di
spiacevole nei riguardi di Senocrate, ma piuttosto è mia
intenzione parlare in difesa di Platone. Mi dispiace molto, infatti,
che essi non seppero subire e fare ogni cosa per salvare – sotto
ogni profilo e in ogni caso – una totale identità di vedute con
Platone. Eppure tutto ciò l’avrebbe da loro ben meritato quel
Platone che, pur non essendo superiore al grande Pitagora,
tuttavia non era stato, forse, neanche inferiore a quel maestro
al quale i discepoli si attengono con fedeltà e con venerazione, e
perciò sono riusciti molto bene ad attribuirgli onori divini. E di
questo fatto si sono resi conto – nostro malgrado – anche gli
Epicurei, e perciò costoro non si sono mai visti assumere in alcun
caso atteggiamenti e posizioni che fossero in contrasto con Epicuro,
ma hanno proclamato di essere pienamente d’accordo con le dottrine
del loro «sapiente» e appunto per questo hanno conservato a buon
diritto il loro appellativo. Anzi, neppure per quanto concerne
quegli Epicurei che sono vissuti tanto tempo dopo il loro maestro si
è mai riscontrato che essi facessero la benché minima affermazione
che indicasse un contrasto né tra loro stessi né con Epicuro e che
valga persino la pena di menzionare. Ma ogni nuova importazione è
per loro un atto di prevaricazione – o piuttosto un atto di
empietà – e viene condannata. E appunto per questo nessuno ne
avrebbe neppure l’ardire, ma in una diuturna pace restano tranquille
le loro dottrine a causa della perpetua concordia che regna tra
loro. Ecco perché la scuola epicurea è molto simile ad una vera e
propria placidissima repubblica la quale abbia un’unica mente e
professi un’unica opinione. E perciò essa ha avuto ed ha
e presumibilmente continuerà ad avere «affezionati seguaci»8.
Invece gli Stoici si sono divisi in fazioni, e queste sono
cominciate a nascere fin dal tempo dei loro primi fondatori e non
sono finite neppure ai giorni nostri. Essi si redarguiscono tra loro
appassionatamente con aspre confutazioni, e alcuni di loro sono
rimasti ancora fedeli allo Stoicismo, altri hanno ormai mutato
indirizzo. Pertanto i loro principali esponenti sono simili a
signorotti di provincia, essi che, con le loro discordie, hanno
avuto la grave responsabilità di spingere i loro seguaci ad
incriminare gravemente i loro predecessori e ad incriminarsi
reciprocamente tra loro, professandosi ognora gli uni più Stoici
degli altri9. E ciò vale specialmente per quanti sono stati visti
ricorrere con più minuziosa grettezza agli appigli di ordine
«tecnico»10. Proprio costoro infatti, superando gli altri
in saccenteria e punzecchiamenti11, erano più pronti a dar
lezione agli altri.
Comunque, molto prima di costoro si erano trovati in questa
situazione i discepoli di Socrate, quando cavarono fuori tutta una
varietà di argomentazioni: in un modo particolare Aristippo, in un
altro Antistene, e in un altro i Megarici e gli Eretriesi o se ce ne
furono altri oltre costoro.
Causa di questa scissione fu il fatto che, siccome Socrate poneva
tre divinità12 e svolgeva il suo pensiero filosofico secondo moduli
che erano convenienti a ciascuna di esse, i suci allievi non se ne
rendevano conto, ma credevano che egli facesse ogni sua affermazione
alla buona e secondo un’ispirazione fortuita che di volta in
volta prendeva casualmente il sopravvento in un modo o in un altro.
Platone, poi, attenendosi a Pitagora (egli sapeva benissimo che
Socrate faceva appunto siffatte affermazioni non rifacendosi ad
altro se non alla fonte pitagorica e che parlava con piena
consapevolezza), trovò anch’egli i legami fra le cose in una maniera
inconsueta e non facile a risultar manifesta. Trattando
ciascuna questione nel modo in cui egli credeva e tenendola nascosta
in modo che per metà fosse resa evidente e per metà rimanesse
non-evidente, scrisse indubbiamente in modo solido e sicuro, ma egli
stesso venne a causare il dissenso che si ebbe dopo di lui e provocò
le più stiracchiate interpretazioni delle sue dottrine, non certo
per invidia né per malanimo.
Ma a proposito di uomini tanto antichi non voglio dire parole che
non siano favorevoli! Tuttavia è indispensabile che noi, resici una
buona volta consapevoli di quel fatto, ci riconduciamo piuttosto ad
esso nel formulare la nostra opinione e, come abbiamo
pregiudizialmente affermato che noi distinguiamo nettamente Platone
da Aristotele e da Zenone13, così anche adesso lo teniamo distinto
dall’Accademia, se il Signore lo consente, e permettiamo che egli,
di per sé considerato, per manga ancora pitagorico. Ora, infatti,
trascinato di qua e di là in uno stato di peggiore follia che se
fosse un Penteo14, soffre a membro a membro, senza venir mai
totalmente staccato da se stesso, inaccessibile ad un continuo
alternarsi di mutazioni.
Chiusa del libro II ed esordio del III
del Contra Academicos di S.
Agostino
(Parigi, Jean Petit, 1521).
A nostro avviso pertanto, egli, fungendo da intermediario fra
Pitagora e Socrate, attenuando l’austerità del primo fino alla
conversevolezza ed innalzando la raffinatezza e le facezie del
secondo dall’ironia fino alla dignità e alla gravità – vale a dire
mescolando, appunto, Pitagora con Socrate, è stato considerato più
affabile del primo e più austero del secondo15.
1. Cfr. DIOG. LAERT. III, 4; IV, 1; APOLLOD. fr. 344 Jacoby; Acad.
phil. ind. herc. II, 33; VI, 28.
2. Cfr. DIOG. LAERT. IV, 3, 14; APOLLOD. fr. 345 Jacoby; Acad. phil.
ind. herc. VI, 41.
3. Cfr. DIOG. LAERT. IV, 16; APOLLOD. fr. 346 Jacoby; Acad. phil.
ind. herc, deest.
4. Secondo Diogene Laerzio (IV, 21) e secondo l’Index Herculanensis
(Q, 4-8), il successore di Polemone fu Cratete. E probabilmente a
quest’ultimo sarebbe successo Crantore, se non gli fosse premorto
(cfr. DIOG. LAERT. IV, 27). Secondo i Fasti Academici (Mekler, pp.
117-8) la successione allo scolarcato si svolse nei seguenti
periodi: Speusippo 348/7-339; Senocrate 339-315/4; Polemone
315/4-298/7; Cratete 298/7-270/69; Arcesilao 268-241/0.
5. HESIOD. Op. 42. Esiodo non viene menzionato tra i «precursori»
dello Scetticismo né in DIOG. LAERT. IX, 71-74 né in alcun luogo
sestiano.
6. L’amore del paradosso era tipico degli Stoici; ma, secondo
Eusebio, lo Scetticismo non è meno paradossale dei suoi peggiori
avversari dommatici.
7. Circa il vario numero delle Accademie cfr. SEXT. EMP. Pyrrh. hyp.
I, 220 segg. Pur partendo da prospettive radicalmente opposte, Sesto
ed Eusebio espongono la cosa, con pari ironia nei riguardi di questi
problematici seguaci di platone.
8. Nell’uso del termine φιλαϰóλουδος Numenio ha presente ARISTOPH.
Ran. 395 segg.; anche in parecchi altri luoghi egli si compiace di
ricorrere ad espressioni aristofanesche.
9. Su questi contrasti interni nel campo della Stoa insiste spesso,
con pari compiacimento, anche Sesto Empirico (Adv. log. I, 227-260).
10. Soprattutto nel settore dell’agguerrita dialettica.
11. Cfr. ASISTOPH. Ran. 1496-9.
12. Fantasioso anello di congiunzione tra Platone, Filone
d’Alessandria e i Neo-platonici, Numenio insiste sul triadismo di un
Dio-padre, di un Diocreatore e di un Dio-mondo, lo vede presente nei
filosofi a lui più cari e fa cosa gradita ai pensatori cristiani,
specialmente a quelli arianeggianti come Eusebio, e non solo a
costoro, ma anche a grandi triadisti antichi, medievali e moderni
(Proclo, Scoto Eriugena ed Hegel). Sesto Empirico ignorava le
audacie dommatiche del suo singolare contemporaneo di Apamea!
13. Numenio è giustamente ostile a quell’appeasement tra le tre
scuole che aveva causato il miscuglio eclettico da panezio a
Cicerone (cfr. POHLENZ, La Stoa, I, pp. 394 segg.).
14. Cfr. EURIP. Bacch. 1043 segg.
15. Per l’espressione cfr. PLAT. Theaet. 180 a 3.
Non crisi, ma tatticismo scettico degli Accademici secondo Agostino
(Contra Acad. III, 37-41)
Che cosa, alla fine dei conti, uomini così autorevoli1 intesero
fare, con le loro perpetue ed ostinate polemiche, per impedire
che la conoscenza del vero sembrasse essere prerogativa di qualcuno?
Ascoltate un po’ con maggiore attenzione non quello che io so di
sicuro, bensì quello che è un mio punto di vista: questo io me lo
sono riservato per il finale, per potervi chiarire – nei limiti
delle mie possibilità – quale mi sembri l’intero disegno
dell’Accademia.
Platone, l’uomo più sapiente e colto del suo tempo2 – un uomo che ha
avuto un tale linguaggio da rendere grande tutto quello che diceva,
e che ha detto cose tali che, in qualunque maniera le dicesse, non
sarebbero potute diventare mai piccole -, dopo la morte del suo
maestro Socrate, da lui prediletto oltremodo, ricevette – a quel che
si dice – molti insegnamenti anche dai Pitagorici3. E già Pitagora,
da parte sua, non appagandosi della filosofia greca, che a quei
tempi o non esisteva affatto o se ne stava ancora ben nascosta, dopo
che – spronato da alcune conversazioni da lui tenute con un certo
Ferecide di Siro4 – credette nell’immortalità dell’anima, se ne andò
in giro in lungo ed in largo ad ascoltare anche molti altri
sapienti. Platone, adunque, aggiunge alla gradevolezza ed alla
sottigliezza di Socrate, da lui possedute nelle questioni morali, la
conoscenza sicura delle questioni fisiche e teologiche, che egli
aveva recepite con accortezza dai sapienti ora menzionati, e vi
introdusse, quasi come ordinatrice ed arbitra di quelle sezioni di
indagine, la dialettica, la quale si identifica, a suo parere, con
la sapienza o, almeno, senza la quale la sapienza non può esistere
affatto5; e si dice che su queste basi egli sia riuscito a formulare
un perfetto «sistema filosofico» di cui, però, ora non è il caso di
discutere.
Per il nostro attuale assunto è sufficiente dire questo: che Platone
concepì l’esistenza di due mondi, uno intellegibile, nel quale
risiede la stessa verità, e, oltre ad esso, questo mondo sensibile
che noi, come è evidente, percepiamo mediante la vista ed il tatto;
pertanto il primo è «vero», il secondo è «verosimile» e fatto ad
immagine del primo, e così dall’uno proviene il sereno raffinamento
della verità nei limiti in cui l’anima riesce a conoscere se stessa,
dall’altro, invece, si può generare nell’anima degli stolti non la
scienza, bensì l’opinione; tuttavia, qualsiasi cosa si svolge in
questo mondo per mezzo di quelle virtù che egli chiama «civili» –
simili ad altre autentiche virtù che sono ignote a tutti tranne che
a pochi sapienti –, non può essere chiamata se non «verosimile»6.
Mi sembra che queste ed altre teorie siffatte siano state conservate
e custodite, nei limiti del possibile, come sacri arcani tra i
successori di Platone7. Non è agevole, infatti, averne percezione se
non da parte di quelli che, purificandosi da tutti i vizi, si siano
innalzati ad un tenore di vita diverso e più umano, e non cade in
grave colpa chiunque, avendo conoscenza di queste cose, abbia
vagheggiato di volerle insegnare ad ogni sorta di uomini. Pertanto
Zenone, fondatore dello Stoicismo, dopo aver dato ascolto e prestato
fede ad alcune di queste dottrine, entrò nella scuola lasciata da
Platone, che allora era diretta da Polemone, ma – è mia supposizione
– fu tenuto in guardina e non fu stimato un uomo tale da doverglisi
facilmente consegnare ed affidare i quasi «sacrosanti decreti» di
Platone, se prima non avesse disimparato le teorie che egli aveva
desunte dagli altri pensatori ed introdotte in quella scuola. Muore
Polemone, gli succede Arcesilao, che era compagno di studio di
Zenone, ma pur sempre sotto il magistero di Polemone8.
Zenone, però, si andava già compiacendo di una sua concezione del
mondo e soprattutto dell’anima – a proposito di quest’ultima la vera
filosofia sta sempre all’erta! – e andava dicendo che l’anima è
mortale9 e che non esiste nulla tranne questo mondo sensibile e che
in esso nulla è attivo tranne il corpo – difatti egli identificava
col fuoco finanche Dio!10 Allora, per tutte queste ragioni,
poiché quel male si andava insinuando ed estendendo, mi pare che
Arcesilao11, con profondo accorgimento e con molta opportunità,
abbia tenuto profondamente nascosto il pensiero dell’Accademia e lo
abbia sotterrato come un tesoro che i posteri avrebbero dovuto
scoprire una volta o l’altra. Ecco perché, siccome la massa è più
proclive a precipitarsi dietro false opinioni e a credere, a cagione
della consuetudine che essa ha con i corpi – con molta facilità, ma
a proprio danno –, che tutto è corporeo, quell’uomo molto acuto e
raffinato preferì non dare insegnamenti a quelle persone che egli
riusciva pure a sopportare quando erano male informate, piuttosto
che darli a quelle che riteneva incapaci di recepirli. Di qui
nacquero tutte quelle teorie che vengono attribuite all’Accademia
Nuova: gli antichi, infatti, non ne avevano avvertito la necessità.
Ché se Zenone, una buona volta, avesse aperto gli occhi e si fosse
reso conto che nulla può essere compreso al di fuori di ciò che egli
usava per dare le sue definizioni12 e che una cosa siffatta è
impossible trovarla nei corpi – dei quali, peraltro, egli faceva
consistere tutte le cose13 –, si sarebbe esaurito tutto questo
genere di discussioni che, allo stato delle cose, si era
inevitabilmente acceso. Zenone, però, si lasciò ingannare da un
fantasma di coerenza, come sembrava agli Accademici e come sembra
anche a me, e rimase ostinato, e quella sua disastrosa fiducia
nell’unica realtà corporea riuscì a sopravvivere, alla meno peggio,
fino a Crisippo. Questi le conferiva – e ne era ben capace14 –
grande vigore perché si espandesse ancora di più: Carneade15, sotto
questo profilo più acuto e più vigile di tutti gli altri suoi
predecessori, oppose una tale resistenza che io mi stupisco che quel
punto di vista degli Stoici abbia conseguito un qualche successo
anche in appresso. Infatti la prima cosa cui Carneade badò fu di
porre da parte, per così dire, mancanza di ritegno nell’uso dei
cavilli – a cagione della quale si accorgeva che Arcesilao era
caduto notevolmente in discredito – per non sembrare di volersi
opporre a tutto quasi per esibizionismo: egli si propose, invece, di
sconvolgere e di abbattere gli Stoici e Crisippo.
In secondo luogo, Carneade era incalzato da ogni parte
dall’obiezione che, se non avesse accordato l’assenso a nessuna
cosa, il sapiente non avrebbe avuto niente da fare, e perciò egli –
uomo degno di singolare ammirazione, ma non poi tanto, dal momento
che si limitava a scorrere giù dalle stesse sorgive platoniche! –
ebbe la saggezza di considerare con attenzione a quali azioni si
dovesse accordare la propria approvazione; e vedendo queste azioni
essere simili a non so quali azioni autentiche, chiamò
«verosimile»16 ciò a cui il sapiente si potesse attenere per agire
in questo mondo. A che cosa, poi, esso fosse simile, egli lo sapeva
con molta competenza, ma lo teneva prudentemente coperto e gli dava
anche l’appellativo di «probabile». Infatti riesce bene a fare una
verifica dell’immagine riprodotta chiunque ne sappia scorgere il
modello17. E, in verità, il sapiente non riesce a controllare il
verosimile e ad attenervisi nel caso che egli ignori l’essenza di
ciò che è vero. Dunque quelli conoscevano ed approvavano cose false,
in cui pur riuscivano a scoprire un’apprezzabile imitazione del
vero18. Ma, poiché non era lecito né agevole far vedere questo agli
altri in quanto profani, essi lasciarono ai posteri – o a quanti ne
ebbero la possibilità in quel tempo – un qualche indizio del loro
pensiero riposto e beffeggiavano e deridevano quegli agguerriti
dialettici che erano gli Stoici, per impedire a costoro di sollevare
questioni di parole. Sono questi i motivi per cui Carneade viene
anche ritenuto promotore e fondatore della «terza»19 Accademia.
Col passare del tempo questo dibattito si estese fino al nostro
Tullio, ormai molto ridimensionato e destinato a gonfiare la cultura
latina col suo ultimo respiro20. Difatti niente mi sembra più gonfio
che dir tante cose con dovizia e leggiadria di linguaggio, senza,
però, pensarla realmente così!
Da queste ultime ventate, comunque, si lasciò sbriciolare
abbastanza, a parer mio, e smembrare quel platonico di paglia che fu
Antioco21. Infatti le greggi degli Epicurei22 avevano posto le loro
stalle solatie nelle anime di popoli che si erano dati alle delizie.
Ecco perché Antioco, allievo di Filone, ossia di un uomo, a mio
avviso, molto accorto, che già aveva cominciato ad aprire, per dir
così, le porte perché ormai i nemici battevano in ritirata e a
richiamare l’Accademia e le sue istituzioni all’autorità di Platone
– quantunque già prima questo tentativo fosse stato fatto da
Metrodoro23, il quale si dice essere stato il primo a confessare che
l’incomprensibilità di tutte le cose non era una dottrina autentica
degli Accademici, ma che questi ultimi avevano dovuto far ricorso ad
armi di tal genere per lottare contro gli Stoici -, orbene Antioco,
come stavo dicendo, dopo essere stato allievo di Filone Accademico e
di Mnesarco Stoico24, si era intrufolato come milite ausiliare ed in
abito borghese nella vecchia Accademia, quasi priva di difensori ed
ormai sicura per l’assenza del nemico, e vi fece entrare dalle
ceneri degli Stoici un non so quale malanno che violasse i penetrali
di Platone. Ma contro di lui Filone impugnò nuovamente le sue
splendide armi e oppose resistenza fino alla morte, e il nostro
Tullio25 calpestò tutte le reliquie di Antioco, non tollerando che,
durante la sua vita, si mettesse in bilico o si contaminasse
qualunque cosa egli avesse amato.
Non trascorse un lungo lasso di tempo dopo quelle circostanze e
tutta quella cocciuta ostinazione ebbe termine26: le nuvole
dell’errore furono disgregate ed il gran volto di Platone – che nel
mondo della filosofia è il più puro ed il più raggiante di luce –
risplendette soprattutto in Plotino, che, da buon filosofo
platonico, fu giudicato tanto simile a lui che si può persino
credere siano stati contemporanei. Eppure c’è di mezzo a loro tanto
tempo che si deve ritenere che nel secondo si sia quasi reincarnato
il primo!
1. Gli Accademici nelle loro varie e sfumate posizioni.
2. Per un analogo elogio di Platone cfr. AUGUST. Retract. I, 112.
3. Per la complessa questione dei rapporti tra Platone e il
Pitagorismo, su cui già insistevano ampiamente gli antichi da
Aristotele (Metaph. M-N) a Numenio, vedansi, fra l’altro, A. E.
TAYLOR, Platone, trad, it., Firenze, 1968, in particolare pp. 285-6,
538-9, 633-4, 707-8 e l’ampia nota della Isnardi-Parente in
ZELLER-MONDOLFO, Parte II, vol. Ili, 1 pp. 339-47.
4. Cfr. CIC. Tusc. I, XVI, 38; 7 A 2, 4, 5, 6, 7a Diels-Kranz.
5. Un geniale approfondimento di questo pensiero agostiniano è in
HEGEL, Lezioni sulla Storia della Filosofia, II, trad. it. Firenze,
1932, pp. 205-27.
6. La fonte di questa interpretazione del pensiero di Platone è in
PLOTIN. Enn. I, 2, 1.
7. Su questo lato religioso dell’Accademia nei riguardi del suo
fondatore cfr. P. I. LANDSBERG, Wesen und Bedeutung der platonischen
Akademie, Bonn, 1923, pp. 17 segg., 31 segg.; P. BOYANCÉ, Le culte
des Muses chez les philosophes grecs, Paris, 1937, PP. 249 segg.
8. Per questi rapporti, oltre alle pagine numeniane precedentemente
da noi riportate, cfr. DIOG. LAERT. VII, 2.
9. Cfr. Stoic. vet. frag. I, 146, Arnim. Per la teoria dell’anima
«non immortalis, sed morti superstes» in Crisippo cfr. Stoic, vet.
frag. II, 809-822 Arnim.
10. Cfr. Stoic. vet. frag. I, 157 Arnim.
11. Cfr. CIC. Lucull. XVIII. 60.
12. Ossia dei puri intellegibili (νοητά) o delle idee.
13. Per la problematica del materialismo stoico cfr. POHLENZ, La
Stoa, I, pp. 119-29.
14. In virtù della sua formidabile dialettica.
15. Carneade (cfr. SEXT. EMP. Adv. phys. I, 78-81) diede inizio, in
chiave anti-teologica, a quella critica del concetto di corpo che
venne, poi, approfondita da Enesidemo e sistemata da Sesto (Adu.
Phys. I, 359-379; Pyrrhhyp. III, 38-49, 124-134).
16. Come avremo occasione di rilevare più volte nelle sezioni di
questo volume riservate a Carneade ed a Cicerone, il rifugio
scetticheggiante nel verosimile è, molto probabilmente,
post-Carneadeo; ma Agostino segue le orme ciceroniane nel
considerarlo come una soluzione saggia di Carneade medesimo (cfr.
AUGUSTIN. Contra Acad. II, 11-12, la cni fonte principale è CIC.
Lucull. VI, 18; XXXI, 99; XXXIV, 108).
17. Secondo il Carneade agostiniano, il verosimile è la riproduzione
approssimativa del vero, ossia di quel paradigma ideale su cui
Platone aveva fondato la cosmologia e la gnoseologia.
18. Per questo medesimo tema cfr. AUGUSTIN. Retract. I, 1, 11.
19. Cfr. SEXT. EMP. Pyrrh. hyp. I, 220.
20. Per la controllata ammirazione di Agostino verso Cicerone, cui
altri attribuivano saldezza di pensiero mentre egli lo considerava
soltanto «adorno di ammirevole eloquenza», cfr. Contra Acad. III,
15-16 = CIC. Acad. fr. 20 Müller.
21. Essendo Antioco, almeno secondo Filone di Larissa, uno stoico
camuffato da accademico (cfr. fr. 56 Luck; HIRZEL, Untersuchungen zu
Ciceros philos. Schriften, III, pp. 227-36 e le discussioni dello
stesso Luck in Der Akademiker Antiochos pp. 22-3).
22. L’espressione è oraziana (Epist. I, 4, 16).
23. Si tratta di Metrodoro di Stratonica, che passò dall’Epicureismo
alla scuola di Carneade (cfr. DIOG. LAERT. X, 9 = Carneade fr. 20
Wiśniewski; Acad. phil. ind. herc. col. XXXIV, 5 segg.).
24. Questo Mnesarco fu allievo di Antipatro di Tarso, il quale si
era accollato il difficile compito di contrastare Carneade (cfr.
DIOG. LAERT. IV, 64-65, ove però non si fa menzione diretta di
Mnesarco). Secondo Numenio (EUSEB. Praep. ev. XIV, 739 a) Mnesarco
sarebbe stato maestro di Antioco di Ascalona (cfr. POHLENZ, La Stoa,
I, pp. 360-1, 393, 500).
25. Soprattutto nel Lucullus. Di ben diverso avviso sono, però, il
Luck (Der Akademiker Antiochos, pp. 24-44)e il Weische (Cicero und
die Neue Akademie, pp. 102-5).
26. In questo passo Agostino ignora o finge di ignorare l’eredità
accademica che, ancorché parzialmente e con forti spunti polemici,
fu raccolta anche dai Neo-pirroniani.
ARCESILAO
Arcesilao di Pitane (315-240 a. C.) portò in sé fin dalla nascita la
raffinata eleganza di quella gente eolica dell’Asia Minore che aveva
dato, alcuni secoli prima, il miracolo della poesia saffica. Egli
conservò il comportamento di greco-orientale anche quando si fu
impregnato di spiritualità attica, e seppe comunicarlo al già
signorile sodalizio dell’Accademia. E l’armonica confluenza in lui
di spiritualità eolica e di spiritualità squisitamente ateniese
produsse una personalità aperta e versatile, affabile e ironicamente
pungente, battagliera e nello stesso tempo anche remissiva, e tutto
ciò valse ad introdurre nella scepsi ellenistica quella elevata e
ricca cultura che pur non era mancata in Pirrone e in Timone, ma
che, alla fine dei conti, era stata considerata da costoro come
qualcosa da oppugnare e da superare.
Fine intenditore di poesia e poeta egli stesso, musicologo e
conoscitore non occasionale di matematica come ogni buon erede di
Platone, Arcesilao fu anche emerito allievo del Liceo sotto la
direzione di Teofrasto ed in quella officina ebbe inizio non solo la
sua accurata meditazione sulle aporie principali della filosofia già
impostate dal genio di Aristotele, ma anche l’immancabile
preparazione scientifica che costituiva il vanto del Peripato1.
A ciò si aggiungono gli stretti e costanti legami con la dialettica
megarico-eretriese, che lo facevano sembrare affine al plumbeo
Menedemo ed al sottilissimo e paradossale Diodoro Crono2. Lontano da
sé egli tenne il circolo pittoresco dei Cinici, verso cui Timone
sentiva notevole affinità elettiva, ma che alla sua signorile
personalità dovette sembrare, tanti secoli prima dello Hegel, come
il mondo dei pezzenti della filosofia3.
Anche dopo l’incontro col pensiero di Pirrone4 – da lui apprezzato,
ma mai condiviso pienamente – tutta questa variegata cultura e
questa ricca sensibilità non furono mai rinnegate, né Arcesilao
professò mai per gli ἐγχύχλια μαϑήμαια l’avversione di un Timone,
ma, al contrario, da buon greco, li riteneva indispensabili alla
formazione dell’uomo5. Eppure tutto ciò, anziché svigorire,
accresceva gli aspetti polemici del suo pensiero, facendo di lui
quasi uno strano segno di contraddizione non solo per i
contemporanei, quali Aristone di Chio o Timone, ma anche per i
posteri, quali Numenio di Apamea o Sesto Empirico.
Questo filosofo, che fece scoppiare la tempesta nell’Accademia
mentre credeva di riportarla alla genuina ispirazione metodologica
di Platone, legò il suo destino soprattutto alla lotta contro la
Stoa6. Da questa egli desunse terminologia, linguaggio e
problematica con l’intento di demolirne l’intero edifìcio, e se è
vero che le molteplici esperienze culturali furono da lui quasi
sempre utilizzate a scopo eversivo, è ancora più vero che egli, come
ogni lottatore generoso, finiva col condividere la sorte
dell’antagonista, traendo vigore dai colpi scambiati con
circospezione e crollando anche lui quando il competitore veniva
messo a terra in un combattimento serrato.
Fondando la sua metodologia dialettica sull’antilogia, Arcesilao
acutizzava il contrasto tra auctoritas e ratio7: nell’apparente
positività della prima egli vedeva presente la fine di ogni libera
indagine, mentre nella negatività della seconda vedeva schiudersi
possibilità di soluzioni prima ignorate, e perciò preferì vedere in
Platone non l’ipse dixit, bensì il seminatore di dubbi e di
contraddizioni insolubili e quasi il perfezionatore dell’antilogismo
sofistico, incorrendo nell’accusa di essere sofista anche lui. Ma se
dal suo Platone egli non era disposto ad accettare il concetto
dommatico di «ragione comprensiva»8, ancor meno disponibile egli era
nei riguardi di quella «rappresentazione comprensiva» che a Zenone
di Cizio sembrava la soluzione definitiva del problema
gnoseologico9. Questo reperto della Stoa sembrò ad Arcesilao una
sorta di deus ex machina o di gianduia pinealis che metteva solo
surrettiziamente d’accordo soggetto conoscente ed oggetto
conosciuto, sensazione ed intellezione, impressione diretta e
mediazione logica, essendo, per altro, patrimonio comune del saggio
e dello stolto. Studiando sotto il profilo psicologico ed
epistemologico le interne contraddizioni della rappresentazione
comprensiva10, Arcesilao, che pur vedeva in essa l’ultimo appiglio
per stabilire un criterio di verità, alla fine la respingeva come
incapace di farci discernere il vero dal falso e come il mostruoso
coacervo del dommatismo sensistico e di quello intellettualistico. E
la critica a quest’ultima conquista della gneseologia lo portava,
alla fine, alla negazione di ogni criterio di verità.
La concezione stoica della φαντασία χαταληπτιχή, che è parsa ai
moderni quasi il primo spiraglio per fondare l’autonomia della
nostra facoltà estetico-rappresentativa11, sembrò invece ai suoi
primi propugnatori la via per superare il dualistico dissidio tra
l’esclusivismo del logos ed il mondo della vita ordinaria. Ma il
dialettico Arcesilao amava spingere le contraddizioni fino alle loro
estreme conseguenze e, ponendo dilemmi che investivano la
psicologia, l’epistemologia e la stessa logica classica, venne a
contrapporre all’ottimistica χατάληψις zenoniana la propria
ἀχατχληψία. Quest’ultima era lo sviluppo dialettico dell’ἀφασία
pirroniana e inseriva l’istanza dello Scetticismo nel cuore di ogni
indagine filosofica: la pirroniana fuga dal discorso diventava
presenza sconvolgente e perturbatrice in ogni discorso12. Non ancora
con Arcesilao si costruisce il singolare sistema scettico
dell’antisistema13, ma i suoi princìpi erosivi sono già posti e
l’eredità arcesilea verrà raccolta in primo luogo da Carneade e in
appresso, pur con polemici emendamenti, da Enesidemo e da Sesto
Empirico.
Sulla scorta di Zenone di Cizio gli Stoici dicevano che la φαντασία
χαταληπτιχή ci trascina quasi per i capelli all’assenso14: tutte le
cautele della Stoa in merito alla possibilità di errare, tutte le
sue «sospensioni» nei riguardi del mondo dell’opinione trovavano il
loro superamento nella recta ratio, e il sensismo di fondo della
Weltanschauung stoica si veniva a mescolare con un panlogismo che –
strano a dirsi – era anch’esso di fondo. Arcesilao, invece, negava
tanto il sensismo quanto il panlogismo con l’estendere la
sospensione dell’assenso ad ogni forma conoscitiva. L’ἐποχή era
stata un accorto congegno costruito dagli Stoici per evitare gli
idola: con Arcesilao quel congegno scattava contro gli Stoici
stessi, ostracizzando non solo gli idola, ma ogni positiva
costruzione filosofica. Ritornava in campo, acutizzata dalla forza
della dialettica, la disperazione pirroniana, alla quale conferiva
nuovo alimento il fatto che Arcesilao non era disposto a venire ad
alcun compromesso e, nello stesso tempo, si guardava bene, come ogni
scaltro scettico, dall’ assegnare il privilegio dell’assoluto alla
sua stessa ’εὔλογον15.
Ma, se il vero non è né sensibile né intellegibile, è altresì
innegabile che noi pur sentiamo e pensiamo. Questa ovvia meditazione
che parecchi secoli dopo avrebbe portato Agostino al superamento del
dubbio accademico ed avrebbe indotto dopo quasi due millenni
Cartesio a vincere il dubbio iperbolico, faceva nascere in Arcesilao
la concezione dell’εὔλογον.
Anche quest’espressione era di casa nella Stoa, ma ad opera di
Arcesilao veniva a ritorcersi contro la Stoa stessa. Infatti,
secondo gli Stoici, essa aveva un’accezione pur sempre positiva,
sebbene non si identificasse con la perfetta ragione16; invece
sembra da escludere che la dottrina arcesilea dell’εὔλογον, su cui
si sono tormentati e ancora si tormentano gli studiosi, possa avere
un’accezione positiva tanto in sede teoretica, ossia come sbocco
verso un razionalismo più o meno camuffato e come parziale recupero
della platonica «ragione comprensiva», quanto in sede pratica, come
una non meglio identificata «arte della vita»17.
Ogni tentativo fatto per definire lo sfuggente εὔλογον di Arcesilao
è rimasto sempre un’approssimazione, e la ragione di ciò sta nel
fatto che l’εὔλογον medesimo era, nel pensiero del suo promotore, un
qualcosa di approssimativo. Esso ha indubbiamente in sé il lato
teoretico della ponderazione, del ripensamento e della meditazione e
quello pratico della prudenza, della circospezione e della cautela,
ma non si lascia identificare né col razionale (λογιχóν) né con
quella consuetudine (συνήϑεια) che gli Scettici Empirici
escluderanno dai loro attacchi dissolutivi. In Arcesilao L’εὔλογον
conserva il medesimo significato di aristocratico distacco dalle
nozioni comuni che esso ha nella Stoa, ma resta un qualcosa di
provvisorio non solo sul piano morale, come in un certo senso
avverrà per Cartesio, bensì anche su quello teoretico, e quasi come
un calcolo per eccesso o per difetto. Esso è un «pensarci su» che
non vale, comunque, a cancellare. D’altra parte il
matematicismo che, come ombra platonica, sussisteva a fior di pelle
anche in Arcesilao, non poteva non suggerire a quel forte dialettico
– anche mercé la sua propensione per l’analisi linguistica – che
εὔλογεἰν (ben pensare) non dista molto da εὔλογίζειν (calcolare) e
che il comune etimo εὔλογον aveva, tra le sue molteplici
accezioni, anche quelle di «rapporto», di «proporzione» e, infine,
di «relazione logica». Si è, perciò, tentati a rendere il tanto
discusso termine come «razionalmente presumibile», e forse così ebbe
ad intenderlo già Carneade mentre si accingeva a dare all’ Accademia
la svolta probabilistica.
Non siamo, comunque, in grado di dire se Arcesilao abbia anticipato
questa svolta o l’abbia cautamente allontanata da sé ritenendola
inevitabilmente legata a soluzioni matematicistiche o retoriche,
oppure, infine, non ne abbia avuto alcun presentimento. L’unica cosa
per noi certa è questa: l’aver avuto come continuatore un genio come
Carneade, da una parte è stato per Arcesilao titolo di gloria,
dall’altra gli è stato nocivo, perché lo ha fatto apparire, con
tutta la sua elegante versatilità di Greco dell’Eolide, come un
pensatore radicale, duro e bisognoso di essere raccolto e superato
da altri. Ma proprio l’ottima fortuna di cui ha goduto Carneade
dovrebbe indurci a rivedere più diligentemente le nostre posizioni
critiche nei riguardi del suo non meno profondo predecessore.
Le medesime difficoltà in cui incorriamo nell’enucleare il pensiero
di Arcesilao si ripresentano nel nostro tentativo di raccogliere i
passi degli autori antichi che ce lo hanno trasmesso.
Il bellissimo ίo laerziano18, così attraente per il modo in cui ci
presenta la personalità umana del filosofo, è abbastanza avaro sotto
il profilo dossografico. Validissimo per la ricostruzione culturale
di Arcesilao, ci tiene quasi completamente all’oscuro delle linee
essenziali del suo pensiero.
Le pagine di Numenio-Eusebio sono non soltanto un capolavoro di
polemica filosofica, ma anche un efficacissimo prodotto di alta
letteratura e, al pari di altre pagine del medesimo autore,
andrebbero studiate anche nell’ambito di quel grande rigurgito
spirituale che ha preso il nome troppo generico di Neo-sofìstica19.
Numenio, oltre a possedere un vigore altamente speculativo, ci dà
anche preziose notizie in merito alle contradditorie interpretazioni
del pensiero arcesileo che già si ebbero neh”antichità, ma il suo
scritto sgorga da un animo irriducibilmente ostile verso l’uomo e
verso il pensatore. E l’avversione può pure aguzzare l’ingegno e far
vedere la pagliuzza nell’occhio del proprio fratello, ma non induce
certo – per usare, con buona pace di Arcesilao, un termine zenoniano
– alla ϰαταληψία!
Le fondamentali pagine di Sesto Empirico, che pur meritarono l’alto
elogio dello Hegel20 per la loro sistematica speculatività, non
hanno avuto, purtroppo, buona fortuna presso i moderni addetti ai
lavori sullo Scetticismo greco21. È stato, infatti, notato che
Sesto, anche senza assumere nei riguardi di Arcesilao il tono
sarcastico e sferzante di Numenio, tende a presentarlo come
sostanzialmente dommatico, se non addirittura platonico: l’Empirico
avrebbe avuto come sua fonte principale gli scritti di Enesidemo,
ove venivano messi in evidenza gli errori dell’Accademia
arcesileo-Carneadea in vista di un autentico recupero del
Pirronismo. A noi il troppo capillare anti-sestismo di parecchi
insigni studiosi sembra animato da eccessiva acribia e, a parte
certi errori in cui Sesto è caduto nell’interpretare espressioni
particolari riferentisi ad Arcesilao, sembra un po’ arrogante,
almeno allo stato attuale delle conoscenze, pretendere di capire
meglio di lui il tormento storico dello Scetticismo greco.
Tuttavia, pur senza sottovalutare la testimonianza dell’Empirico,
dobbiamo riconoscere che è stato merito di Cicerone – nonostante
ogni probabile travisamento filosofico da lui operato e nonostante
il suo certissimo e talora fastidioso orxatus oratorio – quello
d’averci conservato i documenti più ragguardevoli del pensiero di
Arcesilao22. Ciò vale sia per quanto concerne l’insistenza
sull’eredità della metodologia socratica raccolta dal fondatore
della Nuova Accademia sia per quanto concerne le posizioni assunte
da quest’ultimo nei con fronti della gneseologia zenoniana. Ridurre,
però, il Varro e il Lucullus dell’oratore-fìlosofo a briciole
dossografiche – come siamo stati costretti a fare per altre sue
opere – ci è sembrato irriguardoso non tanto verso il grande
stilista e compositore latino quanto verso quella sorprendente
grazia filosofica che assistette l’Arpinate durante la stesura di
quei due dialoghi. Potrà, perciò, la sezione del presente volume
riservata ad Arcesilao sembrare manchevole; ma i richiami testuali
indurranno il paziente lettore a inserire da sé i passi arcesilei
degli Accademica ciceroniani in questa sezione del nostro libro ed a
confrontarli con quelli di Sesto Empirico23. D’altra parte, solo
seguendo l’intero discorso ciceroniano ci si potrà rendere conto
anche di tutta una vivace continuità storica per circa due secoli e
di tutta una complicata maniera di prospettare la scepsi di
Arcesilao nell’ambito della Debatte accademica alla fine di tutta la
fase scetticheggiante.
Di notevole importanza è, infine, la testimonianza desunta
dall’Adversas Colotem di Plutarco24. Essa non solo mette, al pari di
quelle ciceroniane, in luce simpatetica la critica alla gneseologia
stoica e il carattere dell’ἐποχή accademico-arcesilea, ma ci offre
anche la quasi unica notizia sulla battaglia anti-epicurea già
ingaggiata da Arcesilao e poi degnamente proseguita da Carneade25.
1. Pierre Aubenque, che tra gli studiosi del nostro tempo ha messo
nel più grande rilievo gli aspetti aporetico-problematici della
filosofia aristotelica, ha scritto, tra l’altro, a proposito della
concezione dialettica dello Stagirita: «On rencontre aussi, chez
lui, le sens qui deviendra prédominant dans le Lycée et la Nouvelle
Académie, selon lequel la dialectique est l’art de soutenir aussi
bien le pour que le contre sur une thèse donnée» (Le problème de
l’être chez Aristote, Paris, 19662, p. 255). Questa metodologia
antilogistica, pero, che pure fu altamente apprezzata da Cicerone
(Tusc. II, III, 9), era, alla fine, utilizzata da Aristotele perché
si passasse – per usare l’efficace linguaggio dell’Aubenque – dalla
«science recherchée», attraverso la «science introuvable»,
finalmente alla «science retrouvée». Giungere, però, di qui a
sostenere una Gemeinsamkeit di Peripato e Nuova Accademia, come ha
fatto recentemente il Weische (Cicero und die Neue Akademie, pp.
68-72) e stabilire una quasi identità dell’ antilogistische Methode
nel Peripato e in Arcesilao-Carneade (ivi, pp. 77-9) significa, per
lo meno, forzare la realtà delle cose. Ai Peripatetici importava
soprattutto costruire una conoscenza scientifica ben solida, e
l’aporematische Anfassung era per loro uno strumento molto efficace
per premunirsi contro le obiezioni. Perciò ci sembra che Arcesilao
apprese da Teofrasto non solo dubbi, ma anche soluzioni, che egli,
forse, cominciava a non condividere. Altrimenti, perché non rimase
nel Liceo? Forse solo per seguire il bel volto dell’amato Crantore?
2. Su questi rapporti insistettero Aristone di Chio e Timone di
Fliunte (DIOG. LAERT. IV, 33) forse per indicare che l’essenza della
dialettica arcesilea era megarico-eretriese. Secondo Aristone
(Stoic, vet. frag. I, 343 Arnim), Diodoro Crono sta nel mezzo, ossia
nella parte centrale, ed ha in Arcesilao una funzione quasi di
centro di smistamento tra Pirrone e Platone. Secondo Timone (fr. 31
Diels =16 Wachsmuth), il piombo di Menedemo, di cui Arcesilao ha
pieno il ventre e che non riesce a digerire, induce l’Accademia a
rifugiarsi o (meno probabilmente) da Pirrone oppure (più
probabilmente) da Diodoro col quale potrà sentirsi più a suo agio.
Lo «sbilenco» Diodoro (fr. 33 Diels =17 Wachsmuth) è un’alternativa
al «carnoso» Pirrone, col quale Arcesilao non può, secondo
quell’ostile pirroniano autentico che è Timone, andare veramente
d’accordo. Ecco perché, proprio con Timone ci sembra abbia inizio
quell’interpretazione eristico-sofistica del pensiero di Arcesilao
che culminerà con l’asperrima critica di Numenio. Per altre
interpretazioni vedasi DAL PRA, Lo scetticismo greco, pp. 121-5.
3. Per l’antipatia di Hegel nei riguardi dei Cinici che, gloriandosi
dell’indipendenza, divenivano invece dipendenti e rinunciatari
rispetto al «momento affermativo della libera spiritualità» cfr.
Lezioni sulla Storia della Filosofia, II, p. 151. Il Robin (Pyrrhon
et le scepticisme grec, p. 48) parla di affinità tra la διατριή
arcesilea e quella cinica, fondandosi su DIOG. LAERT. IV, 36; ma tra
le due concezioni c’era una divergenza di fondo e quasi viscerale.
4. Sembrano da escludere rapporti diretti di Arcesilao col saggio di
Elide. Innegabile è, invece, che, come farà Hume con Kant, Pirrone
«l’a éveillé de son sommeil dogmatique» (ROBIN, Pyrrhon et le
scepticisme grec, p. 46).
5. Cfr. DIOG. LAERT. IV, 36. Ben Più complessa e articolata sarà la
posizione degli ultimi Scettice a tale riguardo (cfr. SEXT. EMP.
Adv. math. I, 1-8).
6. Arcesilao non disse mai — come poi avrebbe detto esplicitamente
Car-neade a proposito di Crisippo – «se Zenone non esistesse,
neppure io ci sarei», ma è indubbio che per un pensatore, come lui,
disposto alla negazione e alla confutazione, la mancanza di un degno
competitore sarebbe stata letale. A tale proposito si rinvia, oltre
che agli istituzionali articoli del Couissin (più volte citati)
sullo Stoicismo della Nuova Accademia e sull’rorigine ed evoluzione
dell’ἐποχή ancne, tra l’altro, a M. POHLENZ, Zenon und Crisipp,
«Nach-richten der Göttinger Gesellschaft», phil.-hist. Klasse,
Fachgr. I, N. F. II, 9, 1938, p. 180; Grundfragen der stoischen
Philosophie,«Abhandl. Göttinger Gesellschaft», phil.-hist. Klasse,
3, Folge XXVI, 1940, p. 115; La Stoa, I, cit., PP 347-51.
7. Cfr. CICLucull. XVIII, 60.
8. Cfr. SEXT. EMP. Adv. log. I, 143-144, ove si prende spunto da
PLAT. Tim. 27a.
9. Per un ampio esame critico di questa concezione stoica cfr. SEXT.
EMP. Adv. log. I, 401-435 e le mie note nelle pp. XXIV-XXXII della
traduzione italiana.
10. Per le accurate critiche accademiche alla φαντασία χαταληπτιχή
sotto questo duplice profilo vedansi le ottime indagini della Stough
(Greek Skepticism, pp. 40-53, ove giustamente Carneade fa la parte
del leone, ma sarebbe stato opportuno non obliterare quasi del tutto
Arcesilao).
11. Cfr. H. STEINTHAL, Geschichte der Sprachwissenschaft bei den
Griechen und Römern, Berlin, 1890, I, pp. 288-90, 296-7; B. CROCE,
Estetica, Bari, 19468, p. 190.
12. Per queste ragioni Cicerone (Lucull. V, 15) considerava
Arcesilao come il Tiberio Gracco dell’Accademia.
13. Il Brochard (Les sceptiques grecs, p. 108), fondandosi su una
testimonianza di Plutarco (Adv. Colot., 26) e su una di Tertulliano
(Ad nat. II, 2), accenna alla probabilità che Arcesilao abbia
combattuto contro la fisica e la teologia degli Stoici. «Mais –
conclude l’insigne studioso – nous n’avons sur ce point que des
renseignements tout à fait insuffisants».
14. Cfr. SEXT. EMP. Adv. log. I, 257.
15. Questa «illiberalità» di Arcesilao nel dare l’assenso è ben
rilevata – anche se fugacemente – dalla Stough (Greek Skepticism, p.
58, n. 54; p. 66, n. 62. Le principali fonti sono Cic. Lucull.
XVIII, 59; XX-XXI, 66-67; SEXT. EMP. Pyrrh. hyp. I, 232; Adv. log.
I, 157; NUMEN, apud. Euseb. Praep. ev. XIV, 4, 726d).
16. Suida, rifacendosi forse indirettamente a fonti stoiche, così
spiega il termine εὔλογον χξίωμα: «È quello che presenta un maggior
numero di pretesti per la verità, come, ad esempio, “domani sarò
vivo”. Essendo una volta sorta una discussione tra il filosofo
Cleante [si tratta, invece, di Sfero, come sappiamo da ATHEN. VIII,
354e = Stoic. vet. frag. I, 624 Arnim, e da DIOG. LAERT. VII, 177 =
Stoic. vet. frag. I, 625 Arnim] e il re Tolomeo in merito al fatto
che il saggio formula opinioni, poiché qualcuno affermava che il
saggio non le formula affatto, il re, con l’intenzione di
confutarlo, fece imbandire melagrane di cera. Il sapiente cadde nel
tranello e il re gridò che quello aveva dato l’assenso ad una
rappresentazione falsa. Ma il sapiente gli rispose per le rime,
dicendo che l’assenso era stato dato non in quanto erano melagrane,
bensì in quanto era ragionevole (εὔλογον) che fossero melagrane: ché
la rappresentazione apprensiva è differente dal ragionevole».
Zenone, dando la definizione di χαϑñχον, sosteneva che esso è
1’«azione che può essere giustificata con buoni motivi (δ πραχϑἐν
εὔλογον) dal punto di vista della ragione (Stoic. vet. frag. I, 230
=111, 493 Arnim) e, in appresso, Crisippo affermava che era dovere
morale 1’εὔλογος ἐξαγωγή), ossia il suicidio ben ponderato (cfr.
Stoic, vet. frag. III, 757-768 Arnim). L’erronea interpretazione del
termine come «verosimile» presso i moderni si trova già in Hegel
(Lezioni sulla St. della Fil., II, p. 491), il quale pur si
tormentava rendendolo anche con «verità relativa» o con «veduta
fondata su un buon motivo, ma non sulla verità» (ibidem, p. 487). Lo
Hirzel, che (Untersuchungen zu Ciceros philos: Schriften, p. 150) fu
molto acuto nel distinguere l’εὔλογον; di Arcesilao dal πιϑανóν di
Carneade, interpretò anch’egli il primo termine, forse sulla
falsariga oratoria di Cicerone, come «verosimile» e fu seguito in
questo dallo Schwartz, dal Nebel e dallo stesso Arnim (Arkesílaos in
«RE», II, 1, coll, l164-8), il quale accennava ad una
Wahrscheimlichkeitlehre come pars cons-truens del pensiero
arcesileo. L’errore fu già rilevato dal Banhöffer (Die Ethos des
Stoikers Epiktet, Stuttgart, 1894, p. 193) ed è stato più
recentemente sottolineato dal Pohlenz (La Stoa, I, pp. 263-4,
34-8-9). Non meno erronea è la traduzione – nata per influsso
post-Carneadeo – che Cicerone (De fin. III, 58) dava del termine con
«probabilis ratio»; ma siffatta traduzione ha goduto notevole
successo fino al punto da investire di luce probabilistica tutto
quanto il pensiero dell’Accademia Nuova, come acutamente e con
rammarico notava il Brochard (Les sceptiques grecs, p. in) e come ai
nostri giorni sottoscrive ancora la Stough, la quale ha pur rilevato
con acutezza, accanto ad elementi matematicistici, anche elementi di
ordine medico che fanno presentire la teoria del «passaggio del
simile» sostenuta dagli Empirici: «Insofar as witnesses, symptoms
and messengers produce or constitute evidence of something’s being
the case, credible impressions, by analogy, are evidence for the
thruth of a perceptual assertion» (Greek Skepticism, p. 62). Molti
felici spunti teoretici però, che pur sono stati suggeriti
dall’εὔλογον arcesileo, sono stati generalmente ricondotti al
praticismo. L’εὔλογον diventa, come dice ancora la Stough (op.
cit., p. 51) «standard of action», ossia una risposta diretta contro
l’antica obiezione stoica all’inazione scettica provocata
dall’εὔλογον) (cfr. PLUTARCH. Adv. Colot. 26 e le fini osservazioni
del Brochard Les sceptiques grecs, pp. 108-10).
17. Il nostro Dal Pra (Lo scetticismo greco, pp. 147-56) continua ad
esprimere molto bene questo tormento. Si potrebbe sostenere che
anche l’εὔλογον, piuttosto che aprire prospettive davvero
costruttive, si inserisca, accanto all’ἐποχή, nel tentativo
arcesileo di procurare all’uomo – come notava l’Arnim.
18. Nella traduzione e nelle note mi è stato di validissimo aiuto il
lavoro laerziano del Gigante, come, per la comprensione della
personalità letteraria di Arcesilao, è stato illuminante l’articolo
dello stesso studioso Poesia e critica letteraria in Arcesilao in
Ricerche Barbagallo, I, Napoli, 1970, pp. 431 segg.
19. Nella traduzione del passo numeniano mi sono attenuto al testo
del des Places (Paris, 1973, fr. 25, pp. 64-71). Parecchie
espressioni numeniane di carattere satirico nei riguardi di
Arcesilao traggono origine da fonti variamente letterarie dell’età
alessandrina e anche dell’età classica. L’importanza di queste fonti
è ancora più evidente nel brano in cui viene attaccato Lacide (fr.
26 des Places). Per quanto concerne i rapporti di Numenio con i
Neo-sofisti, sembra paradossale l’accostamento tra il teologo ci
Apamea e il Filostrato autore della Vita di Apollonio Tianeo. Il
Reardon (Courants littéraires grecs des IIe et IIIe Siècles après J.
C, pp. 276-7, 284, 294) inserisce Numenio nel «nuovo» e lo accosta
al mondo cristiano, mentre lascia Filostrato nel «vecchio». Ma certe
distinzioni troppo nette non sono accettabili.
20. Cfr. Lezioni sulla St. della Fil., II, p. 486. Anche T Arnim
considerava il passo sestiano di Adv. log. I, 150-157 come la
Hauptstelle über der Lehre des Arkesilaos.
21. Cfr., tra l’altro, CREDARO, LO scetticismo degli Accademici, II,
pp. 38 segg.; ROBIN, Pyrrhon et le scepticisme grec, pp. 60 segg.;
DAL PRA, Lo scetticismo greco, pp. 144-7.
22. Il Long (Hellenistic Philosophy, p. 93) considera Cicerone «our
best evidence for Arcesilaus», e già lo Hegel, pur simpatizzando
giustamente per Sesto Empirico, riconosceva che «i capisaldi della
filosofia di Arcesilao ci sono stati conservati in particolar modo
da Cicerone nelle Academicae quaestiones» (Lezioni sulla St. della
FU., II, p. 486). Nella traduzione del brano del De Oratore ho
seguito il testo del Friedrich (Lipsiae, 1912), in quella del brano
del De natura deorum il testo del Rackham (London-Cambridge Mass.,
1968) e in quello del brano del De finibus il testo ancora del
Rackham (London Cambridge Mass., 1967).
23. Sono fondamentali per la critica di Arcesilao alla φαντασία
ϰαταληπτιϰή i §§ 78-87 del Lucullus; per la critica della
συγϰατάϑεσις stoica il § 45 del Varro e il § 52 del Lucullus] per la
critica dell’ὀϱϑòς λóγος il § 45 del Varro; per ἐποχή i §§ 42-45 del
Varro e i §§ 59, 66-67, 77-78 del Lucullus; per l’εϑλογον il § 31
del Lucullus; per l’esoterismo il § 60 del Lucullus.
24. Mi sono attenuto al testo di Pohlenz-Westmann (PLUTARCHI,
Moralia, vol. VI, fasc. 2, Lipsiae, 1959), ma ho tratto molto
giovamento, anche per le ottime annotazioni, da quello di
Einarson-De Lacy (Plutarch’s Moralia, XIV, London-Cambridge Mass.,
1967). Dagli altri scritti antistoici di Plutarco (De Stoic, rep.,
Stoic, absurd, poet, die, De comm. not. contra Stoic), in cui sono
presenti parecchi accenni ad Arcesilao, mi sono limitato a fare
soltanto qualche citazione.
25. Per più ampi ragguagli su questa polemica si rinvia all’ancor
valido Credaro (Lo scetticismo degli Accademici, II, in particolare
pp. 27-9). Per le polemiche anti-scettiche della scuola epicurea
coinvolgenti anche la filosofia di Arcesilao è da tenere presente il
recente e già citato studio dell’Indelli Polistrato contro gli
Scettici.
Vita di Arcesilao (DIOGENE LAERZIO IV, 28-45)
Arcesilao, figlio di Seute (o di Scite, come tramanda
Apollodoro1 nel terzo libro delle Cronache), era nativo di
Pitane nell’Eolia. Egli è stato l’iniziatore della Media Accademia,
perché fu il primo «a sospendere il giudizio a causa della
contrarietà delle affermazioni»2. E fu anche il primo a prospettare
ogni questione «sotto entrambi i punti di vista opposti»3, e per
primo apportò modifiche nel pensiero filosofico tramandato da
Platone4 e lo rese più affine all’eristica col fare uso di domanda e
risposta5.
Ecco come egli venne a contatto con Crantore. Era il quarto dei
fratelli, due dei quali erano figli dello stesso padre e due della
stessa madre. E di quelli della stessa madre il maggiore era Pilade,
di quelli dello stesso padre il maggiore era Merea, che fu suo
tutore. Nei primi tempi, prima del suo trasferimento ad Atene, fu
allievo del matematico Autolico, suo concittadino, e con lui si recò
anche a Sardi. Fu poi allievo del musico Santo di Atene e dopo di
lui ebbe per maestro Teofrasto6. In seguito passò all’Accademia,
presso Crantore. Mirea, il fratello che abbiamo poc’anzi menzionato,
intendeva avviarlo all’eloquenza, ma egli amava la filosofia. E
Crantore, che di lui si era invaghito, gli domandò, recitandogli un
verso dell’Andromeda di Euripide7:
Mi sarai grata, s’io ti salvo, o vergine?
E Arcesilao, per tutta risposta, recitò le parole che seguivano8:
O schiava o moglie, come tu mi vuoi, Prendimi, forestier!
Da quel momento menarono vita comune.
Dicono che anche Teofrasto, rammaricandosene, esclamasse: «Che
ragazzo ben nato e ben disposto se n’è andato via dalla mia scuola!»
Difatti Arcesilao non solo era molto forte nelle argomentazioni, ma
aveva anche un’ampia cultura e si dedicava pure all’attività
poetica9. E di lui si tramanda anche un epigramma indirizzato ad
Attalo10. Eccolo11:
Pergamo è illustre non solo per armi, ma spesso è lodata
Anche pei
suoi cavalli nella divina Pisa.
Se, poi, è permesso a un mortale
svelare di Zeus la mente,
Essa sarà più ancora dai canti celebrata.
E se ne tramanda anche un altro, da lui dedicato a Menodoro, amasio
di Eudamo, uno dei suoi compagni di scuola12:
Frigia è da qui lontana, lontana è Tiatira sacra,
Tua patria, o
Menodoro, rampollo di Cadauas.
Ma verso Acheronte nefando – è,
questa, un’umana sentenza –
Dovunque si misurino, sono i sentieri
uguali.
Questa magnifica tomba t’eresse Endamo, cui fosti
Di molti
suoi coloni tu molto più gradito.
Più di tutti gli piaceva Omero, di cui, anche quando andava a
dormire, leggeva sempre qualcosa; ma anche all’alba, ogni volta che
decideva di leggerlo, diceva che andava a convegno con la persona
amata. Soleva affermare, poi, che Pindaro è eccezionale per la
pienezza del linguaggio e per la ricchezza dei nomi e delle
espressioni che egli offre. Ancora giovane, cercò di rilevare le
caratteristiche anche di Ione13.
Fu, inoltre, allievo per non poco tempo del geometra
Ipponico; e lo prese anche in giro, perché questi era, tra
l’altro, moscio e sbadigliante, anche se perfetto conoscitore della
sua arte. «La geometria – notò Arcesilao – gli scivolò sulla bocca
che egli teneva spalancata!» Una volta questi soffriva di un forte
esaurimento nervoso: Arcesilao lo accolse a casa sua e lo curò fin
quando quello fu del tutto ristabilito.
Quando Cratete morì14, egli assunse la direzione della scuola,
perché gliela cedette un certo Socratide15.
In ossequio al fatto che egli sospendeva il giudizio su tutte le
cose, non scrisse – sostengono alcuni – neppure un libro16. Altri,
invece, affermano che fu sorpreso mentre apportava correzioni a
certi scritti17, e c’è chi dice che egli li pubblicò e chi dice che
li bruciò. Sembra che egli ammirasse anche Platone: del resto
ne possedeva personalmente i libri. Ma, secondo altri, egli fu anche
ardente emulo di Pirrone, e si dedicava alla dialettica e si
atteneva alle maniere argomentative degli Eretriesi; ragion per cui
Aristone18 diceva di lui19:
Dinanzi Pirrone, di dietro Platone, nel mezzo Diodoro.
E Timone dice di lui così20:
Avendo al di sotto del petto il piombo di Menedemo,
Ricorrerà a
Pirrone carnoso oppure a Diodoro.
E gli fa dire un po’ dopo21:
A nuoto andrò da Pirrone o dallo sbilenco Diodoro.
Arcesilao amava esprimersi per assiomi e tirava a concludere e,
colloquiando, badava molto alla terminologia. Sapeva essere molto
tagliente e franco di complimenti. Perciò, ancora una volta, Timone
dice di lui così22:
Va frammischiando intelletto con seducenti battute.
Così, a un giovanetto che parlava con molta sfrontatezza, Arcesilao
disse: «Nessuno gli farà una buona tirata di orecchi?» E ad uno che
era accusato di prenderlo a quel posto e che voleva dare a intendere
che la misura di certi organi è sempre la stessa, egli domandò se un
membro di dieci pollici non gli sembrasse più grosso di uno di sei.
E poiché un certo Emone di Chio, che era brutto e si credeva bello e
andava pavoneggiandosi tutto in ghingheri, disse che non gli
sembrava opportuno che un saggio si innamorasse, Arcesilao rispose:
«Neppure di uno che sia bello come te e che abbia vesti così
eleganti?» E poiché costui, che era uno spudorato, volendo fare
intendere che Arcesilao faceva il finto austero, disse23:
Signora, posso chiederti o sto zitto?
egli, di rimando, rispose24:
Donna, perché sì scabra e in guisa strana mi parli?
Un volgare cialtrone lo infastidiva; ma Arcesilao gli disse25:
Dei servi i figli hanno un parlar sfrenato!
Un altro faceva un mondo di chiacchere; ma egli obiettò: «Costui non
ha avuto arcigna neppure la nutrice!» A certa gente, poi, non si
peritava neppure di rispondere. Ad un usuraio che amava la cultura e
ammetteva di non sapere una certa cosa, egli disse26:
Sfugge all’uccello femmina ove spirino
I venti, ma non quando è lì
sua prole.
Sono versi, questi, dell’Enomao di Sofocle.
Ad un dialettico alessiniano27 che non riusciva a dare adeguato
sviluppo ad una certa argomentazione di Alessino, egli raccontò
quello che fece Filosseno ai mattonai, Filosseno, infatti, li
sorprese che cantavano malamente i suoi canti e, perciò, prese a
calci i loro mattoni, dicendo: «Come voi date il guasto alle mie
cose, così io lo do alle vostre»28.
Arcesilao se la prendeva con quelli che non erano stati solleciti ad
imparare le varie discipline29. Per un certo impulso naturale,
quando parlava, usava intercalare: «Dico io» e «A ciò non darà
l’assenso quel tizio» e faceva il nome: cosa che veniva imitata
anche da molti suoi allievi, insieme alla sua maniera di parlare e
ad ogni suo atteggiamento.
Era anche molto ricco di inventività nel rintuzzare le obiezioni con
successo, nel far convergere le discussioni intorno al tema proposto
e nel sapersi adattare ad ogni circostanza. E riusciva a suscitar
persuasione su qualsivoglia argomento. Anche per questo motivo un
numero sempre maggiore di persone si recava a scuola da lui, pur
avendo paura della sua lingua aguzza. Ma lo tolleravano di buon
grado, perché egli era fondamentalmente buono e riempiva di speranze
quelli che gli davano ascolto.
Nella condotta della vita fu molto socievole e pronto a beneficare e
a tener nascosti i favori che faceva, schivo di ogni vanagloria.
Così, una volta si recò al capezzale di Ctesibio30, che era
ammalato, e, avendolo visto in preda all’indigenza, di nascosto gli
pose un borsellino sotto il guanciale; e quello, avendolo trovato,
esclamò: «Questo è uno scherzo di Arcesilao». Ed anche in altra
occasione gli mandò un migliaio di dracme31.
Ad Eumene32 raccomandò caldamente Archia di Arcadia e gli fece
ottenere grande prestigio.
Liberale e spregiatore del danaro, era il primo a recarsi a
conferenze38 dove si pagava l’ingresso con una moneta d’argento; più
di ogni altro si recava a quelle di Archecrate e di Callicrate34,
ove l’ingresso costava una moneta d’oro. In non pochi casi faceva
opera di soccorso e raccoglieva collette. Una volta un tale si fece
prestare da lui vasellame d’argento per un ricevimento di amici e
non glielo restituì: egli non glielo richiese, anzi disse: «Non è
roba mia!» Altri, anzi, dicono che fece quel prestito di proposito
e, quando quello glielo voleva restituire, Arcesilao gliene fece
omaggio, perché quel tale era povero.
Egli aveva anche a Pitane molti beni patrimoniali, di cui gli
inviava le rendite il fratello Pilade. Ma gli somministrava molti
donativi anche Eumene, figlio35 di Filetero: ecco perché solo a
costui, fra tutti gli altri re, egli faceva le sue dediche.
Molta gente offriva servigi anche ad Antigono36 e gli
andava incontro ogni volta che costui si recasse ad Atene: egli
solo se ne stava tranquillo, perché non voleva incontrarlo per primo
e farne conoscenza.
Fu amico in modo particolare di Ierocle37, che comandava su Munichia
e sul Pireo, e, durante le feste, discendeva ogni volta da lui. E,
tra l’altro, sebbene anche questi cercasse più volte di convincerlo
a presentare gli omaggi ad Antigono, Arcesilao non si lasciò
persuadere, ma una volta, pur essendosi spinto fin sulla soglia di
Antigono, fece macchina indietro. Dopo la vittoria navale di
Antigono38, mentre molti si recavano da costui o gli scrivevano
biglietti di congratulazioni, egli solo se ne stette in silenzio.
Ma, tuttavia, quando si trattò di difendere la patria, partecipò ad
un’ambasceria a Demetriade, presso Antigono, quantunque senza
successo. Tutto il suo tempo, però, egli lo trascorreva
nell’Accademia, alla larga da ogni impegno politico.
E una volta, proprio ad Atene, al Pireo, indugiò molto tempo a
discutere di certe questioni con Ierocle, della cui familiarità egli
godeva: per questo fu anche oggetto di qualche pettegolezzo.
Essendo molto amante della magnificenza – non per nulla fu chiamato
«il secondo Aristippo»39 –, si recava a banchetto, certamente,
presso persone che avevano modi simili ai suoi, ma pur vi si recava.
E conviveva, senza farne mistero, con Teodote e con Fila, etere di
Elide, e a quanti glielo rinfacciavano rammentava i detti di
Aristippo40.
Aveva molta inclinazione per i ragazzi e si lasciava andare al
piacere: ragion per cui gli Stoici al seguito di Aristone di Chio41
lo accusavano chiamandolo corruttore di giovani e cinedologo e
svergognato42. E si tramanda che s’invaghì soprattutto di quel
Demetrio che fece vela per Cirene43, e di Cleocare di Mirlea; e una
volta i suoi amici bontemponi bussarono alla sua porta, ma Arcesilao
rispose che egli, sì, voleva aprire la porta, ma Cleocare glielo
impediva. Di costui si erano invaghiti Democare, figlio di Lachete,
e Pitocle, figlio di Bucelo: una volta, avendoli colti in flagrante,
disse che cedeva il posto per spirito di tolleranza. Per queste sue
uscite le persone suddette lo mordevano e lo beffeggiavano,
chiamandolo amante di popolarità e di buona reputazione. Soprattutto
lo assaliva Ieronimo il Peripatetico44 ogni volta che Arcesilao
radunava gli amici nel compleanno di Alcioneo, figlio di Antigono,
quando quest’ultimo inviava danaro a iosa per la lieta ricorrenza.
Non si lasciava mai sfuggire l’occasione di deprecare le discussioni
filosofiche fatte tra le coppe; perciò, siccome Aridelo45 gli
propcneva un certo problema speculativo e gli chiedeva di dargli una
spiegazione, Arcesilao disse: «Ma soprattutto questa è la massima
prerogativa della filosofia: sapere quando ogni cosa è opportuna».
Per quanto concerne l’accusa che gli si muoveva di essere amante di
popolarità, anche Timone, tra l’altro, gli muove l’appunto
seguente46:
Così egli avendo parlato, discese tra il volgo accalcato;
E quelli,
come fringuelli fan con la civetta, stupiti
Si additano
quell’imbecille, perché s’ingraziava le folle.
Non è un gran fatto,
o infelice! Perché ne vai gonfio, cretino?
Alla fine dei conti, però, egli era così «immune da
vanagloria»47 da esortare i discepoli a prestare ascolto anche
ad altri maestri. E poiché un giovinetto di Chio non era pago di
frequentare la sua scuola, ma desiderava di frequentare quella del
suddetto Ieronimo48, egli stesso lo accompagnò da quel filosofo,
glielo presentò e l’ammonì di comportarsi bene.
Grazioso è anche il seguente aneddoto che si tramanda di lui. A
un tale che gli chiedeva perché dalle altre scuole i giovani
solevano passare a quella di Epicuro, mentre dalla scuola di Epicuro
non passavano ad altre, «In verità – egli rispose – da uomini si
diventa eunuchi, ma da eunuchi non si ridiventa uomini».
Giunto alla fine della vita lasciò tutti i suoi beni al fratello
Pilade, in compenso del fatto che questi, di nascosto da Mirea, lo
aveva condotto a Chio e di lì lo aveva guidato ad Atene.
In tutta la sua esistenza non contrasse mai matrimonio né generò
figli. Avendo fatto tre testamenti, ne depositò uno ad Eretria
presso Anficrito, un altro ad Atene presso alcuni amici e il terzo
lo spedì a casa presso Taumasia, suo parente, con preghiera di
tenerlo custodito. Ecco cosa gli scrisse:
«Arcesilao a Taumasia salute.
Ho consegnato a Diogene il mio testamento, perché te lo portasse.
Poiché sono sovente malato e il mio corpo si è indebolito, mi è
parso opportuno far testamento; così, se mi capita qualche guaio,
morrò senza fare torto a te, che mi hai tanto intensamente
rispettato. Per l’esecuzione delle mie ultime volontà, fra quelli
che sono qui tu sei il più meritevole di fiducia a causa dell’età e
della parentela che c’è tra noi. Pertanto tu, memore della massima
fiducia che ho riposto in te, cerca di essere giusto nei nostri
riguardi. Giacché, per quanto da te dipende, le mie volontà verranno
eseguite con decoro. Altre copie del testamento trovansi ad Atene
presso alcuni miei amici e ad Eretria presso Anficrito».
Come riferisce Ermippo49, egli cadde in delirio per aver bevuto gran
copia di vino non mescolato e, così, morì all’età di settantacinque
anni, accetto agli Ateniesi quant’altri mai.
Per lui c’è anche questo nostro epigramma50:
Arcesilao, perché tanto vin puro tu mai tracannasti
A iosa, da
morirne, uscito fuor di senno?
Piango non già la tua morte, ma
l’onta arrecata alle Muse,
Quando la coppa usasti senza serbar
misura.
Ci sono stati altri tre Arcesilao: uno che fu poeta della commedia
antica51, un altro che fu autore di elegie, e un terzo che fu
scultore e in cui onore Simonide compose questo epigramma52:
D’Artemide è questa la statua: duecento dramme di Paro
È il prezzo:
come segno c’è su di loro un capro.
Lo fece Tinnomo provetto a usare
le palme di Atena:
Arcesilao, figliuolo ben degno di Aristodico.
Il filosofo di cui abbiamo parlato fiorì nella 128a Olimpiade,
secondo quanto dice Apollodoro nelle Cronache53.
1. Fr. 15 Tacoby.
2. Cfr. CIC. Varro XIV, 19; Lucull. XVIII, 59; XXIV, 77.
3. Ossia seguendo il metodo dell’antilogia, che già era stato
prospettato da Protagora (cfr. DIOG. LAERT. III, 37) e che sarebbe
stato ampiamente applicato dagli Scettici (cfr. DIOG. LAERT. IX,
106; SEXT. EMP. Pyrrh. hyp. I, 27).
4. Ossia disancorandolo dal dommatismo.
5. Già Platone, neWEutidemo, anche se in chiave elenchistica, aveva
applicato questo metodo che trovò presso i Megarico-eretriesi i più
acuti seguaci (cfr. DIOG. LAERT. II, 106 e frr. 31-34 Döring).
6. Cfr. DIOG. LAERT. IV, 22.
7. Fr. 129 Nauck2.
8. Fr. 129 Nauck2.
9. Per l’attività poetica di Arcesilao vedasi M. GIGANTE, Poesia e
critica letteraria in Arc., cit., pp. 431 segg.
10. Si tratta di Attalo Filetero, che Strabone (XIII, 623) riteneva
padre di Attalo I, re di Pergamo, ma che il Cardinali (La genealogia
degli Attalidi, «Mem. della Regia Accad. delle Scienze dell’Ist. di
Bologna», sez. I, VII, 1913, pp. 77 segg.) ha dimostrato essere
stato zio del suddetto sovrano.
11. Anth. Plan. III, 56.
12. Anth. Plan. II, 382.
13. Si tratta del poeta Ione di Chio (Apelt e la maggior parte degli
studiosi moderni); un’antica tradizione, invece, riteneva che si
trattasse dell’omonimo dialosfo di Platone (per la questione vedasi
nota del Gigante ad hoc).
14. Nel 270/69 a. C. (Jacoby).
15. Cfr. Acad. philos, ind. here, col. XVIII, i Forse non è da
escludere che si ebbe una piccola guerra di successione.
16. Una conferma è in PLUTARCH. De Alex. fort, aut virt. 328 a-b.
17. (di Crantore), integra il Gigante sulla base di Acad. philos,
ind. here, p. 68 segg.
18. Filosofo stoico, detto il Calvo, il cui βίος è narrato in DIOG.
LAERT. VII, 160-164.
19. Cfr. Stoic, vet. frag. I, 343 Arnim. La parodia è tratta da HOM.
27. VI, 181, ove è descritta la Chimera.
20. Fr. 31 Diels = 16 Wachsmuth.
21. Fr. 32 Diels = 16 Wachsmuth.
22. Fr. 33 Diels = 16 Wachsmuth.
23. Adesp. 282 Nauck2.
24. Adesp. 283 Nauck2.
25. Eurip. fr. 976 Nauck2.
26. SOPH. fr. 436 Nauck2 = fr. 477 Pearson. Gli stessi versi sono
riportati in PLUTARCH. Quaest. conv. 718a.
27. Test. 86 Döring. Per Alessino di Elide, che fu chiamato
’Eλεγξῖνος a causa del suo amore per le controversie (ἔλεγχοι), cfr.
DIOG. LAERT. II, 106 e DÖRING, Die Megariker, pp. 21-7, 115-23. La
scuola di Alessino conciliava dialettica e retorica.
28. Cfr. JACOBY, Frg. hist, graec. IV, 159.
29. Ossia gli ἐγϰύϰϰια μαϑήματα o artes liberales che erano
indispensabili per chi volesse poi acquisire una cultura
scientificamente qualificata. Contro di essi polemizzerà Sesto
Empirico in Adv. math. I-VI: per più ampie notizie rinvio alle mie
note della trad, italiana di quest’opera (pp. VII-XI).
30. Discepclo di Menedemo, non risparmiato da Timone (fr. 30
Wachsmuth).
31. Per analoghi episodi cfr. PLUTARCH. Quom. adul. ab am.
internosc. 63d e frg. 152.
32. Si tratta o del fratello di Attalo Filetero, padre di Eumene I,
re di Pergamo o, più probabilmente, di quest’ultimo.
33. Come suggerisce il Gigante (nota ad hoc) le δείξεις di cui parla
Diogene erano conferenze d’apparato, pubbliche letture e dibattiti
culturali per partecipare ai quali bisognava pagare in monete d’oro
o d’argento, secondo l’importanza dei partecipanti. Qualcosa di
analogo era già accaduto ai tempi di Protagora e continuava ad
accadere ai tempi dello stesso Laerzio.
34. Poco o nulla sappiamo di questi due personaggi: forse furono
filosofi, forse pittori.
35. Per questo probabile errore del Laerzio cfr. nn. 10, 32.
36. Si tratta di Antigono Gonata (320-240 a. C.), figlio di Demetrio
Poliorceite e re della Macedonia. I suoi rapporti con Atene furono
molto tormentosi.
37. Comandante del presidio macedone al Pireo (cfr. DIOG. LAERT. II,
127).
38. Diogene, forse, allude alla vittoria di Cos (254 a. C.) contro
Tolomeo Filadelfo.
39. Fr. 123 Mannebach. L’amore di Arcesilao per i banchetti è
ricordato in PLUTARCH. De cohib. ira 461 d.
40. Cfr, tra l’altro, DIOG. LAERT. II, 67, 74-75.
41. Cfr. Stoic. vet. frag. I, 345 Arnim.
42. Queste accuse verranno insistentemente ripetute da
Numenio-Eusebio nel brano seguente. Anche Plutarco (De tuen. sanit.
praec. 126a; Quaest. conv. VI, i, 634a; III, 1, 705e; fr. 181 da
AUL. GELL. III, 5) riferisce certi scabrosi ragionamenti di
Arcesilao.
43. Forse per passare alla scuola di Aristippo II.
44. Fr. 4 Wehrli. Ieronimo, che, secondo la tradizione del Peripato,
era stato sempre filo-macedone, scherniva il filomacedonismo postumo
e forse opportunistico di Arcesilao.
45. Il Gigante traduce «Aridece», attenendosi, col Wilamowitz, ad
Acad. phil. ind. herc., col. XX. 7 seg.
46. Fr. 34 Diels = 19 Wachsmuth.
47. Come suggeriva l’austera etica pirroniana, cui Arcesilao
aggiungeva un socratico esame di coscienza. Tramanda Plutarco (De
tranq. anim. 470a): «La maggior parte degli uomini – diceva
Arcesilao – si crede in dovere di contemplare poemi e pitture e
statue altrui percorrendoli minuziosamente e a parte a parte con gli
occhi della mente e del corpc, mentre trascura la sua stessa vita,
che pur presenta molti inconvenienti da contemplare, e guarda sempre
all’esterno e si meraviglia dell’altrui reputazione e dell’altrui
fortuna. Costoro si comportano come adùlteri che corteggianc le
donne d’altri, col disprezzo che essi nutrono per sé stessi e per i
propri beni».
48. Fr. 6 Wehrli. Plutarco (Quom. adulat. ab am, internosc. 55 c)
riferisce un altro signorile atto di Arcesilao: «Egli vietò a Batane
di frequentare le sue lezioni, giacché costui aveva composto, in una
commedia, un verso contro Cleante, e si riconciliò con Batone solo
quando questi ebbe chiesto scusa a Cleante e se ne fu pentito». Per
la stima che, a sua volta, Cleante nutriva verso Arcesilao cfr.
DIOG, LAERT. VIII, 171.
49. Fr. 44 Jacoby = 44 Müller. A proposito della gotta che
tormentava Arcesilao, Cicerone (De fin. V, XXXI, 94) riferisce:
«Mentre egli era angustiato dai dolori della gotta, venne a
visitarlo l’epicureo Carmide, suo intimo amico. Questi se ne stava
uscendo mestamente dalla camera, ma Arcesilao gli disse: “Rimani, ti
prego, Carmide mio: di qui niente passa fino a qui”, e indicava i
piedi e il suo cuore. Eppure egli avrebbe preferito non sentir
dolore!».
50. Anth. Pal. VII, 104. Circa l’amore di Arcesilao per l’uva,
analogo a quello di Platone per i fichi, cfr. PLUTARCH. Quaest.
conv. VI, 4, 668a.
51. Fr. 223 Cantarella.
52. Anth. Pal. III, 9 = 114 Diehl = 157 Bergk.
53. Fr. 16 Jacoby.
L’ambiguità speculativa di Arcesilao (NUMENIO, apud. Euseb. Praep.
ev. XIV, 5-6, 729 b - 733 d = fr. 25 des Places)
Discepoli di Polemone furono Arcesilao e Zenone1 (di costoro
farò menzione ancora alla fine). Ricordo, pertanto, di
aver detto che Zenone fu allievo prima di Senocrate e poi di
Polemone e che in seguito passò al Cinismo ad opera di Cratete2.
Ora, però, per quel che lo riguarda, basta considerare che fu
partecipe anche del pensiero di Stilpone3 e delle teorie di
Eraclito4. Mentre entrambi erano condiscepoli presso
Polemone, incominciarono a gareggiare tra loro e, nella loro
polemica, Zenone si scelse, come alleati, Eraclito, Stilpone e nello
stesso tempo Cratete (infatti da Stilpone egli acquisì l’abilità di
polemista, da Eraclito l’austerità morale e da Cratete la simpatia
per il Cinismo), mentre Arcesilao aveva dalla sua parte
Teofrasto5, Crantore il Platonico6 e Diodoro7 e, in seguito,
anche Pirrone: ad opera di Crantore imparò la scaltrezza della
persuasione, ad opera di Diodoro diventò sofista e ad opera di
Pirrone divenne versatile e spregiudicato, e, insomma, un nulla.
Perciò si andava dicendo su di lui, a guisa di canzone, un verso
parodistico e offensivo8
Dinanzi Platone, di dietro Pirrone, nel mezzo Diodoro.
Ma Timone afferma che Arcesilao apprese da Menedemo l’eristica
e vi
si addestrò. Egli dice, infatti, di lui9:
Avendo al di sotto del petto il piombo di Menedemo,
Ricorrerà a
Pirrone carnoso oppure a Diodoro.
Intrecciando, adunque, con le sottili arguzie di quel dialettico che
fu Diodoro gli arzigogoli di Pirrone e l’atteggiamento scettico,
Arcesilao cercava di abbellire con la forza del linguaggio platonico
certe sue «cialiere corbellerie»10: affermava una cosa e la negava,
si andava voltolando di qua, di là, dovunque gli capitasse;
pronto a cambiar rotta, sfuggente, pronto a far macchina indietro,
e, insieme, ad essere spericolato: conoscitore di nulla, come egli
stesso diceva, bontà sua! Eppure, dopo tutto, non so come, appariva
simile a chi conosce, perché lo rendeva manifestamente versatile il
chiaroscuro dei suoi discorsi.
Come non si sapeva in mezzo a chi si trovasse ü Tidide omerico – se,
cioè, stesse tra i Troiani oppure tra gli Achei11 -, allo stesso
modo si ignorava da che parte fosse Arcesilao. Costui, infatti, non
riusciva a rimanere sulla stessa posizione né a fare un unico e
identico ragionamento, né reputava, ovviamente, che questo fosse il
modo in cui si dovesse comportare un uomo che sapesse
destreggiarsi. Perciò veniva chiamato
Sofista tremendo, strozzatore dei non esercitati12.
Difatti, al pari delle Empuse13, nella prestigiosità dei suoi
discorsi egli riusciva a camuffarsi con circospezione e con cura,
faceva l’incantatore e non possedeva lui stesso alcuna conoscenza né
tollerava che gli altri l’avessero; diffondeva, però, soltanto
timore e turbamento e, avendo il primato in sofismi e ladronesche
argomentazioni, traeva godimento dalle offese e si vantava, in
un modo tutto singolare, di non sapere se ci sia un qualcosa che è
brutto o che è bello, che è buono o che è cattivo; al contrario,
diceva quello che per primo gli veniva in mente, salvo poi a mutar
parere e a demolire con un numero maggiore di argomentazioni quello
che prima aveva costruito. Era uno che tagliava a pezzi se stesso
come un’idra e si faceva fare a pezzi da se stesso, volgendosi
alternativamente ad entrambe le soluzioni contrarie in maniera
indiscriminata e senza alcun rispetto per la decenza. Eppure
riusciva ad appagare gli ascoltatori, perché costoro, nel prestargli
udienza, ne contemplavano il decoroso aspetto: egli, infatti, era
molto gradevole all’udito e alla vista, e perciò quelli erano
oltremodo lieti di recepire le parole che si diffondevano da quel
volto attraente e da quella bella bocca adornati dalla
lusinghiera cortesia dei suoi occhi.
Tutte queste sue caratteristiche non vanno, però, considerate come
qualcosa di semplice e genuino, ma si andarono profilando fin dai
primi anni nel modo seguente. Egli convisse da ragazzo con
Teofrasto, uomo mite e non alieno da tendenze erotiche; poi, a
motivo della sua bellezza, quando era ancora nel fiore dell’età,
ebbe come suo innamorato l’accademico Crantore14. Corrispose al suo
amore, ma, d’altra parte, non privo di requisiti naturali qual era,
utilizzò questa sua natura alacre, cedevole, riscaldata
dall’ambizione, apprendendo da Diodoro quelle sue leggiadre
furfanterie persuasive e seguendo soprattutto Pirrone (e Pirrone era
partito, alla fin dei conti, da Democrito)15. E con questo suo
equipaggiamento egli rimase legato, tranne che nell’appellativo, a
Pirrone, vale a dire alla soppressione di tutte le cose. Ecco perché
Mnasea e Filomelo16e Timone, pensatori scettici, lo chiamano
scettico al pari di loro stessi, giacché anch’egli eliminava il
vero e il falso e ogni credibilità. Pertanto Arcesilao, che ben a
ragione era stato detto pirroniano dai Pirroniani, tollerò di essere
chiamato ancora accademico per mero rispetto verso il suo
innamorato.
In conclusione egli fu pirroniano ancorché non ne assumesse il nome,
e non fu affatto accademico, se non di nome. Né mi lascio
persuadere da Diocle di Cnido17, il quale nei suoi scritti
intitolati Diatribe va affermando che Arcesilao temeva i seguaci di
Teodoro18 e il sofista Bione19, i quali erano sempre pronti ad
aggredire i filosofi e non esitavano a cogliere ogni occasione per
esercitare le loro confutazioni contro tutti, e che perciò egli – al
solo scopo di non ricevere fastidio da costoro si guardava bene
dal professare manifestamente alcuna dottrina: come, infatti, le
seppie lanciano l’inchiostro, così egli avrebbe lanciato in sua
difesa la sospensione del giudizio. Ma a tutto ciò, da parte mia, io
non credo20.
Orbene: Arcesilao e Zenone, partiti dalla medesima fonte, protetti –
come da armi difensive – dalle argomentazioni che militavano a
favore di ciascuno dei due, dimenticano di aver preso entrambi
l’abbrivo dalla scuola di Polemone e vengono a collisione e ai ferri
corti21:
Ecco che insieme cozzaron scudi, aste e forze di prodi
Dalle corazze
di bronzo: gli scudi con l’ombelico
Si urtarono gli uni con gli
altri e grande fragor si levava:
Calcava scudo lo scudo, elmo elmo,
guerriero guerriero
Abbatteva.
Allora levaronsi insieme i pianti e gl’inni dei prodi
Che davano
morte o morivano.
Massacro di Stoici, è ovvio! Infatti gli Accademici non venivano
colpiti dai nemici, perché non si sapeva da qaale parte si potessero
più facilmente acchiappare. Eppure sarebbero stati sconfitti, una
volta che fosse stato scosso il loro fondamentale sostegno, se,
cioè, essi non avessero posseduto alcun principio né un punto di
partenza per lottare. Ma il principio per sconfiggerli stava nel
redarguirli del fatto che facevano affermazioni non platoniche,
mentre la loro mancanza di un punto di partenza per lottare si
sarebbe riscontrata qualora, apportando un mutamento, si fosse
sottratta un’unica cosa alla loro definizione della rappresentazione
apprensiva22. Ma adesso non mi sembra il caso di precisare questa
questione: me ne ricorderò un’altra volta, quando mi accingerò a
trattarla nella fattispecie.
Venuti, dunque, in aperta battaglia, non tutti e due riuscirono a
colpirsi tra loro, bensì era Arcesilao quello che colpiva Zenone.
Quest’ultimo, infatti, aveva un modo di combattere troppo
appariscente e pesante e per niente migliore di quello del retore
Cefisodoro23. Questo Cefisodoro, infatti, vedeva che il suo maestro
Isocrate subiva gli attacchi di Aristotele, ed essendo personalmente
ignaro ed inesperto del pensiero aristotelico, ma osservando,
d’altra parte, che il pensiero di Platone era celebre e credendo che
Aristotele continuasse ad attenersi al pensiero di Platone,
polemizzava contro Aristotele, ma in realtà non faceva altro che
colpire Platone e cominciava col metterlo sotto accusa per la
dottrina delle idee e andava a finire alle altre cose, di cui egli
non sapeva nulla, ma supponeva che queste stessero realmente come di
solito si diceva a proposito dei due filosofi. Ma questo Cefisodoro
non combatteva contro quello al quale aveva dichiarato la
guerra, bensì si metteva a battagliare contro quello con cui non
aveva avuto intenzione di combattere.
Per quel che concerne Zenone c’è da dire che, se egli, dopo aver
messo da parte Arcesilao, non si fosse messo a polemizzare contro
Platone, avrebbe filosofato, a mio avviso, nel modomigliore, almeno
ai fini della pace. Se, invece, entrò in lizza non ignorando, forse,
le dottrine di Arcesilao, ma ignorando, comunque, quelle di Platone
– come si può evincere, del resto, da quello che egli scrisse contro
quest’ultimo –, in questo caso anch’egli ha fatto il contrario di
quello che avrebbe dovuto fare, perché non ha colpito colui che egli
conosceva, ma ha lanciato le più vergognose e turpi offese contro
chi non avrebbe dovuto, assumendo, in questo caso, un comportamento
peggiore di quello che si addice a un cane. Senonché egli
dichiarò di astenersi dal colpire Arcesilao per una certa
generosità d’animo. Difatti Zenone volse «la vasta bocca di guerra
esiziale»24 verso altra direzione, ossia contro Platone, o perché
non ne conosceva i pensieri o perché aveva paura degli Stoici.
Ma anche delle macchinazioni che Zenone ha ordito con cattiveria e
senza ritegno contro Platone io parlerò un’altra volta, se avrò
tempo per la filosofia. Quantunque non vorrei aver mai tanto
tempo a mia disposizione se non per trattare scherzosamente queste
inezie!
Insomma: Arcesilao, vedendo che Zenone gli faceva concorrenza
nell’arte e poteva essere battuto da lui, si mise senza esitazione a
demolire le argomentazioni che quello adduceva. Degli altri punti di
attrito che Arcesilao ebbe con Zenone non mi è, forse, possibile
parlare; ma, anche se ne avessi la possibilità, non varrebbe ora la
pena di farne menzione. Ma, considerando quella dottrina di cui
Zenone si era fatto primo assertore – ossia la dottrina della
rappresentazione apprensiva25 – e osservando che quest’espressione
verbale godeva buona reputazione ad Atene, mosse contro di essa,
sfoggiando tutto il suo apparato. Ma l’altro, che era in
posizione più debole e che solo col suo silenzio poteva scansare le
offese, lasciava perdere Arcesilao, pur avendo molto da dire contro
di lui – egli non aveva intenzione di continuare la lotta o, forse,
c’era anche un qualche altro motivo26 – e si mise, invece, a
combattere, come con un’ombra, contro quel Platone che non era più
tra i viventi, e dall’alto di un carro mise in agitazione tutto il
sacro corteo27, dicendo che ormai Platone non poteva
opporgliresistenza e che a nessun altro stava a cuore prenderne le
difese, e che, se le avesse prese Arcesilao, egli ne avrebbe tratto
un guadagno, perché se lo sarebbe definitivamente scaricato di
dosso28. Egli sapeva che di un simile stratagemma si era servito
Agatocle Siracusano contro i Cartaginesi!29 E gli Stoici
ascoltavano in preda allo sconvolgimento. Infatti la loro Musa
non aveva ancora acquisito una ricca cultura30 né aveva pagato il
suo pegno alle Grazie31, mercé le quali Arcesilao – in parte
scostando le argomentazioni di Zenone, in parte tagliandole alla
radice, in parte soppiantandole – soggiogava gli Stoici con la sua
lingua lasciva e acquistava credibilità. Rimanevano, pertanto,
battuti quelli contro cui egli parlava e restavano perturbati
quelli in mezzo ai quali egli pronunciava i suoi discorsi, e perciò,
in un certo qual modo, davano per certo che non ci fosse né parola
né affezione né azione per quanto minima e che, d’altra parte, non
si sarebbe potuto scorgere alcunché di inutile, se di tale opinione
non fosse stato Arcesilao di Pitane.
Ma egli non aveva proprio opinione alcuna né gli si rivelava alcuna
cosa, tranne il fatto che si trattava di formulette e di vuote
paure32.
1. Secondo Diogene Laerzio (VII, 2), Zenone di Cizio fu allievo
prima di Senocrate e poi di Polemone. Dubbi cronologici su questo
comune discepolato sono avanzati dallo Zeller (Die Philos, der
Griechen, tom. IV, p. 491) e dal Brochard (Les sceptiques grecs, p.
119).
2. Si tratta di Cratete di Tebe, detto «l’apritore di porte», perché
entrava in ogni casa per dare buoni consigli (cfr. DIOG. LAERT. VI,
85 segg.; VII, 2-4).
3. Test. 106 Döring e relativo commento a pp. 127-8. Per più ampie
notizie sulla formazione di Zenone cfr. POHLENZ, La Stoa, I, pp. 25
segg.; per i rapporti con Arcesilao cfr. ARNIM, Arkesilaos, in «RE»,
II, 1, coll. 1164 segg.
4. Per gli stretti rapporti tra Stoicismo ed Eraclitismo cfr.
POHLENZ, La Stoa, I, pp. 128, 142, 321. Si ricordi che Cleante,
allievo di Zenone, scrisse quattro libri di esegesi eraclitee
(Stoic, vet. frag. I, 35 Arnim).
5. Cfr. DIOG. LAERT. IV, 29-30.
6. Cfr. ibidem.
7. Il terribile dialettico con cui polemizzeranno e insieme
simpatizzeranno gli Scettici fino a Sesto Emnirico.
8. Secondo il Laerzio (IV, 33), il verso è di Aristone di Chio, che
parafrasava HOM. II. VI, 181, ove si rappresentava la Chimera «leone
davanti, serpente di dietro e capra nel mezzo» (cfr. HIRZEL,
Untersuchungen su Cic. phil. Schriften, III, p. 220).
9. Cfr. DIOG. LAERT. IV, 33.
10. L’espressione è frequente nei comici (cfr., fra l’altro,
ARISTOPH. Ran. 1160; Thesm. 461; Nub. 1475; Eq. 664; MEN. Hypob. 3).
11. Cfr. HOM. II. V, 85-6.
12. Verso di una tragedia (NAUCK, Adesp., 323), che il Wilamowitz
(«Hermes», XI, 1876, pp. 202-3) inseriva in EURIP. Suppl. 903.
13. Demoni infernali seguaci di Ecate, spauracchi della fantasia
popolare, molto ricordati presso i poeti comici e nella tradizione
neo-pitagorica (cfr. ARISTOPH. Ran. 293; Acarn. 1056; PHILOSTR.
Apoll. vita II, 4).
14. Cfr. DIOG. LAERT. IV, 29.
15. Questa notizia (che è anche un giudizio critico) è ritenuta
fondamentale dal von Fritz.
16. Medici dell’indirizzo scettico-metodico (cfr. DEICHGRÄBER, Die
grie-chische Empiriker schule, pp. 266-7).
17. Si tratta probabilmente di uno Stoico non meglio identificato, a
meno che Numenio non l’abbia confuso con Diocle di Magnesia. Il
Wilamowitz (Antigonos von Karystos, p. 313) lo identifica con quel
Diocle o Dicaiocle che è ricordato in ATHEN. XI, 580 c.
18. Si tratta, forse, di Teodoro l’ateo, cirenaico, autore di
un’opera Sulle scuole filosofiche (cfr. DIOG. LAERT. II, 65).
19. Si tratta di Bione di Boristene, che ebbe particolare
inclinazione alla parodia (cfr. DIOG. LAERT. IV, 52). Come il suo
maestro Teodoro l’ateo, adottava ogni sorta di argomentazioni
sofìstiche.
20. Agostino, invece, avanza nuovamente l’ipotesi di Diocle in
Contra Acad. III, 37-41. L’immagine della seppia fu usata già da
Attico nei confronti di Aristotele (cfr. EUSEB. Praep. ev. XV, 9,
23).
21. Numenio cita alla rinfusa e a memoria luoghi omerici diversi
(Il. IV. 446-451, 472
22. La posizione di Arcesilao in merito alla φαντασία ϰαταληπτιϰή si
trova esposta soprattutto in Cíe. Lucuti. 39-49.
23. Per questa polemica di Cefisodoro in difesa del suo maestro
Isocrate, riportata in modo impreciso da Numenio, cfr. TH. GOMPERZ,
Pensatori greci, IV, Firenze, 19672, p. 28; P. MORAUX, Les listes
anciennes des ouvrages d’Ari-stote, Louvain, 1951, pp. 334-7 e
l’annotazione del des Places a pp. 114-5.
24. HOM. II. X, 8.
25. Cfr. Stoic, vet. frag. I, 17-18 Arnim.
26. L’oscura allusione di Numenio intende solo indicare il sussiego
e il distacco da queste quisquiglie filosofiche. Il des Places (p.
115) dubita della sicurezza del testo.
27. Allusione ironica alle processioni eleusine o alle falloforie in
cui gli iniziati lanciavano improperi agli astanti.
28. Infatti lo avrebbe legittimamente accusato di dommatismo.
29. Dai libri XIX-XX di Diodoro Siculo sappiamo di numerosi
stratagemmi di Agatocle nei riguardi dei Cartaginesi. Forse Numenio
allude alle trame dell’astuto siracusano ai danni di Ofelia,
governatore della Cirenaica, che Agatocle chiamò in soccorso contro
il cartaginese Bomilcare e poi uccise, impadronendosi del ben
equipaggiato esercito cirenaico, che venne utilizzato subito dopo
contro Bomilcare con successo. Il des Places pensa, invece, a DIOD.
XX, 3, ove si parla della spedizione diversiva di Agatocle in
Africa.
30. L’acculturamento della Stoa, infatti, fu un gran merito di
Crisippo, che avrebbe trovato il suo osso duro in Carneade.
31. Cosa che avevano fatto i raffinati Accademici, anche in ossequio
al consiglio dato da Platone a Senocrate (cfr. DIOG. LAERT. IV, 6).
32. La pirroniana ἀδοξαστία diventa, con Arcesilao, – a parere di
Numenio – un fatto di ordine retorico ed emotivo. Per l’espressione
cfr. PLAT. Theaet. 180 a 3.
La scepsi di Arcesilao e i suoi limiti
(SESTO EMPIRICO, Pyrrh. hyp. I, 232-234)
Comunque, Arcesilao – che dicevamo1 essere sovrintendente e capo
della Media Accademia – mi sembra senz’altro aver comunanza con i
ragionamenti pirroniani, fino al punto che il suo indirizzo e il
nostro vengono quasi a identificarsi: infatti non si riscontra che
egli faccia asserzioni in merito all’esistenza o alla non-esistenza
di qualche cosa, né egli assegna un giudizio preferenziale ad una
cosa piuttosto che ad un’altra a seconda della probabilità2, ma su
tutte quante le cose sospende il giudizio. E aggiunge che il fine è,
appunto, la sospensione del giudizio e che a quest’ultima, come noi
dicevamo3, si accompagna l’imperturbabilità.
Egli dice anche, però, che le sospensioni del giudizio concernenti
cose particolari sono beni e che gli assensi concernenti cose
particolari sono mali4. Ma proprio qui si potrebbe osservare che,
mentre noi facciamo queste affermazioni attenendoci a ciò-che-appare
a noi e non già in senso saldamente positivo, egli, invece, le fa
intendendo riferirsi alla natura delle cose, fino al punto da
affermare che la sospensione del giudizio è realmente un bene e
l’assenso è realmente un male5.
D’altra parte, se si deve prestar fede anche a quello che si
tramanda a proposito di lui, a prima vista – come dicono – egli
appariva essere pirroniano, ma in verità era dommatico. E poiché
egli si serviva dell’aporética per sperimentare se i suoi compagni
avessero i naturali requisiti per recepire i dogmi di Platone, si
credeva che egli fosse aporético; ma tuttavia, almeno a quei
compagni che possedevano questi requisiti, eglimetteva in mano le
dottrine platoniche. Ecco perché anche Aristone disse di lui6:
Dinanzi Platone, di dietro Pirrone, nel mezzo Diodoro,
intendendo significare che Arcesilao utilizzava la dialettica
di
Diodoro, ma sostanzialmente era platonico.
(SESTO EMPIRICO, Adv. log. I, 150-159)
Arcesilao, invece7, non definì in senso proprio nessun criterio e
quei suoi seguaci che sembravano averne definito uno8, l’hanno
fornito per polemizzare contro gli Stoici. Questi
ultimi, infatti, asseriscono9 che ci sono tre criteri tra loro
reciprocamente connessi: la scienza, l’opinione e l’apprensione, che
occupa un posto intermedio tra le prime due; di questi tre criteri
la scienza è l’apprensione che è sicura e salda e che è resa
inalterabile dalla ragione, l’opinione è, invece, l’assenso debole e
fallace, e infine l’apprensione è quella intermedia tra le prime due
e s’identifica con l’assenso della rappresentazione apprensiva; e,
secondo costoro, rappresentazione apprensiva è quella vera e
non suscettibile di poter divenir falsa. Essi affermano che, tra
questi criteri, la scienza risiede soltanto nei saggi, l’opinione
solo negli stolti, l’apprensione, infine, è comune ad entrambi, e
appunto quest’ultima risulta essere il criterio di verità10.
Proprio contro queste asserzioni degli Stoici polemizza Arcesilao,
mostrando che l’apprensione non è affatto un criterio intermedio tra
scienza e opinione. Difatti quella che gli Stoici chiamano
«apprensione» o «assenso mediante rappresentazione apprensiva» si
viene a generare o nel saggio o nello stolto. Se essa si genera nel
saggio, è scienza; se nello stolto, è opinione, e oltre a queste due
cose non è stato acquisito niente altro se non un mero nome. In
realtà l’apprensione, se s’identifica con l’assenso della
rappresentazione, non ha consistenza, in primo luogo perché
l’assenso non nasce in relazione alla rappresentazione, bensì in
relazione alla ragione (che le varie specie di assenso si
riferiscono a giudizi), in secondo luogo perché non si riscontra
nessuna rappresentazione vera che sia tale da non poter diventare
falsa, come risulta da molte e svariate evenienze11. Ma, se non
c’è rappresentazione apprensiva, non verrà ad esserci neanche
apprensione, giacché questa risulta essere un assenso alla
rappresentazione apprensiva. E non essendovi apprensione, tutte le
cose saranno inapprensibili. Ma, se tutte le cose sono
inapprensibili, conseguirà che, persino secondo gli Stoici, il
saggio sospende il giudizio.
Ma consideriamo la faccenda anche nel modo seguente. Poiché
tutte le cose sono inapprensibili a causa della non-esistenza del
criterio stoico, il saggio è ridotto ad opinare nel caso che dia
l’assenso; difatti, poiché nulla può essere appreso, se egli darà il
suo assenso a qualcosa, egli lo darà a ciò-che-è-inapprensibile; ma
l’assenso a ciò-che-è-inapprensibile s’identifica con
un’opinione. Da ciò consegue che, se il saggio è uno di quelli che
canno l’assenso, il sagggio entrerà nel novero degli opinanti. Ma
egli non è – siatene certi – uno degli opinanti (che l’opinione,
secondo gli Stoici12, è follia ed è, per giunta, causa di errori);
epperò il saggio non rientra nel novero di quelli che danno
l’assenso. E se la faccenda sta così, egli dovrà ricusare l’assenso
in merito a tutte le cose. Ma non-dare-l’assenso non vuol dire altro
che sospendere-il-giudizio: epperò il saggio sospenderà il giudizio
su tutte le cose.
Ma poiché, oltre a ciò, risulta indispensabile rivolgere l’indagine
anche sulla condotta della vita – condotta che non può essere tenuta
senza un criterio da cui anche la felicità, cioè il fine della vita,
riceve una pertinente conferma -, Arcesilao sostiene che chi
sospende il giudizio su tutte le cose regolerà le scelte e i rifiuti
e, in genere, le proprie azioni secondo ciò che è ragionevole
[εϑλογον]13 e, procedendo in conformità di questo criterio, agirà
rettamente: difatti la felicità si procura mediante la saggezza, la
saggezza risiede nelle azioni rette, e Fazione retta è quella che,
quando viene eseguita, trova la propria giustificazione nella
ragionevolezza. Quindi chi mira a ciò che è ragionevole agirà
rettamente e sarà felice14.
Questo è il pensiero di Arcesilao.
1. In Pyrrh. hyp. I, 220.
2. Come, poi, farà Carneade con la sua riforma probabilistica.
3. In Pyrrh. hyp. I, 25 segg.
4. Sesto intende dire che il rigore di Arcesilao anche nel campo
della comune esperienza portava il filosofo accademico ad un assurdo
contrasto con la vita ordinaria.
5. In altri termini, secondo Sesto, Arcesilao cade in un domznatismo
rovesciato (cfr. Pyrrh. hyp. I, 1-4).
6. Cfr. DIOG. LAERT. IV, 3; NUMEN, apud Euseb. Praep. ev. XIV, 5.
7. Ossia in contrasto con Senocrate, che aveva ammesso tre criteri:
la scienza, la sensazione e l’opinione, che corrispondevano ciascuna
alla sostanza intelligibile, a quella sensibile e a quella opinabile
o composta (cfr. SEXT. EMP. Adv. log. I, 147-149).
8. Il riferimento è abbastanza oscuro: si può pensare tanto al
Xóyoç, che verrà poi criticato da Carneade, quanto all’εϑλογον, che,
secondo Arcesilao stesso, ha una necessità pratica e che, forse, i
suoi allievi estesero anche sul piano logico.
9. Cfr. Stoic. vet. frag. I, 67, 69 Arnim.
10. Cfr. Cic. Varro XI, 41-42.
11. Cfr. Cic. Lucuti. XXVI, 84-86; SEXT. EMP. Adv. log. I,
401-402, ove i rilievi anti-stoici vengono attribuiti agli
Accademici in generale.
12. Cfr. Stoic cet. frag. II, pp. 30-I; III, p. 147, 5; I, pp. I8,
26; 20, 6 Arnim.
13. Per una interpretazione praticistica dell’εϑλογον di Arcesilao
si sono pronunciati parecchi interpreti prima del Robin (HIRZEL,
Untersuchungen zu Cic. philos. Schriften, pp. 150 segg.; BROCHARD,
Les sceptiques grecs, pp. 110 segg.; CREDARO, Lo scetticismo degli
Accademici, II, pp. 45-58). Il Robin (Pyrrhon et le scepticisme
grec, pp. 61-4) ha, invece, riportato l’εϑλογον sul piano
teoretico-dialettico, e con lui è sostanzialmente d’accordo, dopo un
ampio esame della questione, il nostro Dal Pra (Lo scetticismo
greco2, pp. 147-56).
14. Questa conclusione, implicitamente ritenuta dommatica da Sesto,
coincide con uno dei princìpi fondamentali del pensiero di
Arcesilao: l’opposizione di ratio e auctoritas (cfr. CIC. Lucull.
XVIII, 60).
II «socratismo» di Arcesilao
(CICERONE, De orat. III, XVIII, 67-68)
Ci resta da parlare dei Peripatetici e degli Accademici. Questi
ultimi hanno un’unità soltanto nominale, ma l’orientamento del loro
pensiero è duplice. Difatti Speusippo, figlio di una sorella di
Platone, e Senocrate, che era stato allievo di Platone, e Polemone,
allievo di Senocrate, e Crantore furono solo in marginale disaccordo
con Aristotele, il quale insieme con loro era stato ad ascoltare
Platone, quantunque, forse, non furono pari a lui per la ricchezza
di un’eloquenza che si articolava sui contenuti più vari1.
Arcesilao, invece, per la prima volta – egli che pur aveva ascoltato
direttamente Polemone2 – dai libri di Platone, che hanno tanta
varietà tra loro, e dalle conversazioni socratiche colse soprattutto
questo: che non c’è nulla di certo che possa essere recepito o dai
sensi o dall’anima; e si tramanda che da lui veniva sfruttata anche
una sua grazia espressiva tutta singolare nel respingere ogni
giudizio che provenisse dall’anima o dai sensi; e che per primo
stabilì la consuetudine – quantunque questa fosse stata soprattutto
una prerogativa socratica – di non palesare il proprio punto di
vista, ma di aprire il dibattito contro quel punto di vista che
ciascuno professava3.
Di qui si è diffusa questa Accademia moderna, sulla quale si estolle
Carneade per una divina prontezza di naturale intelligenza e per
dovizia oratoria; e sebbene io abbia avuto in Atene diretta
conoscenza di molti suoi seguaci, tuttavia potrei citare come
testimoni sicuri e autorevoli sia mio suocero Scevola, che nella sua
prima giovinezza lo ascoltò a Roma4, sia il mio intimo amico Quinto
Metello, figlio di Lucio, persona ben nota, che affermava di averlo
ascoltato da giovane in Atene per molti giorni, quando Carneade era
già in età molto avanzata.
(CICERONE, De orat. I, V, 11-12)
Questo metodo filosofico di discutere tutte le opinioni e di non
dare un giudizio manifesto su alcuna di esse, iniziato da Socrate,
recuperato da Arcesilao, rinvigorito da Carneade, ha avuto successo
fino ai tempi nostri, ma ora mi accorgo che esso è pressoché
derelitto persino in Grecia. Credo, però, che questo abbandono vada
addebitato non all’ Accademia, ma alla scarsa prontezza dell’umana
intelligenza. Se, infatti, è una grande impresa quella di capire le
dottrine filosofiche ad una ad una, ancora più grande è quella di
capirle tutte. Ed è indispensabile che riescano a capirle quanti, al
fine di scoprire la verità, si sono proposti di produrre
argomentazioni sia contro tutti i filosofi sia a favore di
tutti. Non oso dichiarare di aver pienamente conseguito la capacità
di compiere una cosa così importante e così difficile; do solo un
attestato di essermi messo su quella via. Non può, comunque, darsi
il caso che chi fa filosofia con questo metodo, non abbia alcun
argomento da seguire. Su questo problema si è parlato in altra
sede5, sotto un profilo generale, con maggiore accuratezza; ma,
poiché certuni sono troppo recalcitranti e pigri, sembra che li si
debba tener sull’avviso più di una volta.
Noi non arriviamo al punto di ritenere che nulla sia vero, ma ci
limitiamo a dichiarare che a tutte le cose vere sono congiunte
quelle false, con tanta somiglianza che in esse non è insito alcun
segno sicuro di giudizio e di assenso. Da tutto ciò è scaturita la
celebre conclusione che esistono molte cose probabili le quali,
quantunque non siano percepibili, sorreggono tuttavia la condotta
della vita del saggio, perché si mostrano quasi con distinzione e
chiarezza6.
(CICERONE, De fin. II, 1, 2)
Ma, come possiamo arguire dagli scritti di Platone, noi vediamo che
sia Gorgia sia gli altri Sofisti venivano messi in iscacco da
Socrate. Questi, infatti, per mezzo di inchieste e di
interrogazioni, soleva cavar fuori le opinioni di quelli con cui
stava discutendo, in modo da dire eventualmente il proprio punto di
vista solo in relazione alle risposte che quelli avessero date.
Questo costume era stato abbandonato dai suoi seguaci, ma Arcesilao
lo richiamò in vita, stabilendo che coloro i quali volessero
ascoltarlo non gli ponessero domande, ma dicessero essi stessi il
loro parere; e una volta che l’avessero detto, egli faceva le sue
controargomentazioni. I suoi ascoltatori, comunque, continuavano a
difendere il loro punto di vista, finché ne avessero la possibilità.
Invece, presso gli altri filosofi, chi ha sollevato una questione
rimane in silenzio: cosa che ormai sta accadendo persino
nell’Accademia7.
1. Questa celebre confusione ciceroniana, su cui esiste tutta una
vastissima letteratura, si inserisce nel clima dell’eclettismo
post-Carneadeo che mirava alla conciliazione dell’Accademia, del
Peripato e della Stoa.
2. Cfr. DIOG. LAERT. IV, 24.
3. Circa l’elenchistica socratica cfr. E. MAIER, Socrate, La sua
opera e il suo posto nella storia, Firenze, 1943, I, pp. 288 segg.;
II, pp. 78 segg.
4. In occasione della celebre ambasceria del 155 a. C.
5. In particolare negli Academica.
6. Cicerone qui mescola il pensiero di Arcesilao con quello di
Carneade, εϑλογον del primo col πιϑαóν del secondo.
7. Dopo l’intervento stoicizzante di Antioco di Ascalona.
L’«epoché» di Arcesilao e le polemiche da essa suscitate
(PLUTARCO, Adv. Colot. 24, 1120 c-d)
Orbene, Colote1, dopo aver smesso di prendersela con i filosofi
antichi, si volge contro quelli del suo tempo, senza fare, però, il
nome di nessuno di costoro. Eppure sarebbe stato bene redarguire
anche questi per nome o, almeno, egli non si sarebbe dovuto
comportare così con gli antichi. Egli ha fatto scivolare dalla punta
della sua penna tante volte Socrate, Platone e Parmenide, ma ha
avuto evidentemente paura nei riguardi dei viventi e si è mostrato
con costoro un moderato a motivo di un rispetto che, invece, non ha
avuto con i maggiori filosofi.
È sua intenzione, come suppongo, quella di confutare in primo luogo
i Cirenaici e in secondo luogo gli Accademici, seguaci di
Arcesilao2. Questi ultimi, infatti, erano quelli che sospendevano il
giudizio su tutte le cose, mentre i primi3, riponendo in se stessi
le affezioni e le rappresentazioni, ritenevano che la prova
derivante da queste non fosse sufficiente a darci la certezza della
realtà delle cose, ma, come se si trovassero in uno stato d’assedio,
si staccano dal mondo esterno e si rinchiudono nelle proprie
affezioni e ammettono, a proposito degli oggetti fuori di noi, che
essi «appaiono», senza spingersi ad affermare che essi «sono».
(PLUTARCO, Adv. Colot. 26-28, 1121 e – 1124 b)
Sembra che all’Epicureo4 dia grande fastidio la buona reputazione
goduta da Arcesilao, il filosofo più amato a quei tempi. Colote
afferma, infatti, che sebbene questo filosofo non dica nulla di
veramente suo, fa nascere nelle persone non colte la supposizione e
l’opinione di creare un nuovo sistema filosofico, dal momento che
egli possedeva una grande cultura ed era ispirato dalle Muse5. In
realtà, però, Arcesilao era tanto lontano dall’aspirare ad una
qualche reputazione di originalità e dall’attribuirsi di soppiatto
una qualche dottrina degli antichi, che anzi i sofisti del suo
tempo6 lo accusavano di assegnare a Socrate, a Platone, a Parmenide
e ad Eraclito le sue teorie in merito alla sospensione del giudizio
o all’impossibilità dell’apprensione, mentre quei filosofi non
richiedevano affatto una tale interpretazione, ma era lui, al
contrario, che cercava di portar su e di rinsaldare le sue teorie
facendole risalire ad uomini di grande prestigio7. Per questo
motivo, dunque, noi siamo grati a Colote e a chiunque altro mostri
che il metodo accademico di argomentazione è pervenuto ad Arcesilao
da antiche fonti8.
La teoria della sospensione-del-giudizio-su-tutte-le-cose non fu
scossa neppure da quei pensatori9 che si diedero ad indagini molto
impegnative e che composero trattati e discorsi per confutarla; ma
alla fine costoro, movendo dalla Stoa, sollevarono contro quelld
teorie l’accusa di bloccare ogni attività pratica, «come faceva la
testa della Gorgona»10, e la misero al bando. Ma, in realtà, a
dispetto di tutti i loro tentativi e di tutte le loro
contorsioni, l’«impulso»11 si rifiutava di diventare «assenso»12 e
non ammetteva il consenso della ragione13 come l’asse della
bilancia14, ma si manifestava di per sé come guida verso le azioni,
senza aver bisogno di alcun supporto che sopraggiungesse dal di
fuori.
I dibattiti contro questi avversari sono condotti dagli Accademici a
regola d’arte, e
Quale il parlar che facesti, tale il responso che udrai15;
ma per Colote, a mio avviso, il discorso concernente l’impulso e
l’assenso16 produce lo stesso effetto che per un asino l’ascolto
della lira17. A chi, invece, è in grado di seguire e di ascoltare
diciamo che i movimenti dell’anima sono tre, ossia quello della
rappresentazione, quello dell’impulso e quello dell’assenso; e che
quello rappresentativo non si può eliminare, anche se uno lo voglia,
ma inevitabilmente noi, imbattendoci con gli oggetti, ne veniamo
impressionati e subiamo un’affezione da loro18; quello impulsivo,
una volta che sia stato suscitato dal rappresentativo, spinge l’uomo
ad agire in relazione a scopi appropriati [πρòς τ oìχεῖα], come se
nella nostra «parte egemonica»19 stesse una bilancia pronta a subire
un’inclinazione.
Orbene: quelli-che-sopprimono-il-giudizio-su-tutte-le-cose non
sopprimono neppure questo movimento impulsivo, ma si servono
dell’impulso, che è la loro guida naturale verso il fine che a loro
appare.
Ma allora qual è l’unica cosa che essi evitano? Quella sola cosa da
cui possono scaturire falsità ed inganno, ossia il «formulare
opinione» e «il precipitarsi all’assenso»20, quantunque quest’ultimo
non sia altro che una concessione all’apparenza a causa della nostra
debolezza21, e non offra utilità alcuna22. Infatti l’azione ha
bisogno di due requisiti: della rappresentazione di uno scopo
appropriato e dell’impulso verso ciò che appare scopo appropriato.
Ma nessuna di queste due cose è in contrasto con la sospensione del
giudizio23. Difatti l’intervento della ragione ci stacca
dall’opinione, ma non già dall’impulso e dalla rappresentazione.
Pertanto, quando ci appare lo scopo a noi appropriato, non c’è
affatto bisogno di un’opinione per farci muovere e spostare in
quella direzione, ma l’impulso viene con immediatezza, essendo esso
un moto e una traslazione dell’anima24.
Eppure noi udiamo gli Epicurei strombazzare che basta provare
una sensazione ed essere fatti di carne perché possa risultare con
evidenza l’identità del bene col piacere25: pertanto quest’ultimo,
anche a chi sospende il giudizio, si mostrerà come un bene, giacché
anch’egli partecipa di sensazione ed è fatto di carne e, recependo
una rappresentazione sensibile del bene, aspira e tende ad esso
impulsivamente, facendo di tutto per non lasciarselo sfuggire, ma
per stare sempre insieme al proprio scopo, nei limiti del possibile,
sospinto da regole tassative che sono naturali e non affatto
geometriche26. Senza che ci sia bisogno di un maestro, queste stesse
attrattive e, come essi dicono, «i movimenti della carne placidi e
blandi»27 bastano di per sé ad invitare all’azione anche chi nega
recisamente e non vuole ammettere di lasciarsi piegare e rammollire
da essi.
«Ma come mai – dici tu – chi sospende il giudizio non si reca di
corsa verso il monte, ma va nel bagno, e si alza e si avvia non in
direzione del muro, ma della porta di casa, quando ha intenzione di
recarsi al mercato?». Tu mi fai queste domande per poter affermare
che gli organi sensoriali non sbagliano e che le rappresentazioni
sono vere? Ma io ti rispondo che certamente a lui il bagno appare
come un bagno e non come un monte, e che la porta gli appare non
come un muro ma come una porta, e lo stesso dicasi per ogni altra
cosa. Infatti la dottrina della sospensione del giudizio non apporta
modifiche alla sensazione né provoca nelle affezioni irrazionali e
nei movimenti di queste un’alterazione che sconvolga la facoltà
rappresentativa, ma si limita ad eliminare le opinioni, mentre si
serve delle altre cose in modo conforme allo loro natura.
«Ma non si può – tu obietti – non dare l’assenso alle cose
evidenti28, giacché il negare le cose che sono state accettate con
fiducia è più irrazionale che il non-negarle-né-affermarle». Ma chi
è che vuole rimuovere le cose che hanno riscosso credito e intende
dar battaglia a quelle evidenti? Quelli29 che sopprimono la
divinazione e negano che esista una provvidenza degli dei e che
siano esseri viventi il sole e la luna, a cui tutti gli uomini
rendono onore «di sacrificio e di votivo grido»30 e fanno atti di
riverenza! Non siete forse voi Epicurei31 che sopprimete quel
naturale amore dei genitori per i figli che si riscontra con
evidenza in tutti? E quando voi32 negate che ci sia un qualcosa di
intermedio tra dolore e piacere, risultate essere in contrasto con
quello che tutti sentono, con questo vostro sostenere che il
non-soffrire s’identifica col godere33 e che, quindi, il non
(eseguire un movimento) s’identifica col subirlo34.
Ma, per tralasciare tutto il resto, che cosa è più evidente, in
questo caso, e riceve maggior fiducia del fatto che uno, trovandosi
in uno stato patologico di alienazione e di depressione, ha le
traveggole e ascolta una cosa per un’altra, quando la sua mente è
afflitta e sconvolta da rappresentazioni come la seguente35:
Foriere di faci, vestite di nero, mi brucian la vista
e36
〈Spirando fuoco e sangue
L’ali dispiega e37 〉 tiene fra le braccia
La madre mia?
Queste, e molte altre cose più spaventose di queste, simili ai
mostri empedoclei pur da loro derisi38
Dai piedi bovini, con mani infinite
e39
Di stirpe bovina, con fronte d’un uomo,
essi raccolgono con ogni sorta di visioni e di stranezze, di sogni e
di deliri, e dicono che nessuna di queste cose è un’illusione ottica
o un qualcosa di falso e privo di consistenza, ma che si tratta di
rappresentazioni vere tutte quante e di corpi e di forme che ci
giungono dall’ambiente esterno40. Ma allora non c’è nessuna delle
cose esistenti su cui non si possa sospendere il giudizio, dal
momento che è possibile accordare la fiducia a cose come queste!
Immagini e fole, che nessuno sceneggiatore o burattinaio o
disegnatore valente ardì mai mescolare per creare illusioni, costoro
van supponendo che esistano sul serio, anzi ritengono che, senza
l’esistenza di quelle, se ne vadano a carte quarantotto credibilità
e certezza e giudizio di verità41; e, così facendo, proprio essi
assoggettano alla «afasia»42 tutta quanta la realtà delle cose ed
introducono timori nei nostri giudizi e sospetto nelle nostre
azioni, dal momento che le cose che facciamo e in cui crediamo –
quelle a noi consuete e a portata delle nostre mani43 – vengono
collocate sullo stesso livello di rappresentatività e di credibilità
in cui sono quelle parvenze pazzesche e assurde e anormali. Infatti
questa «uguaglianza»44, che gli Epicurei suppongono essere immanente
a tutte le cose, vale a staccarci dalle comuni credenze piuttosto
che ad assegnar credito a siffatte assurdità. Onde, come noi
sappiamo, non pochi filosofi avrebbero più volentieri sostenuto che
nessuna rappresentazione è vera anziché ammettere che sono vere
tutte, e avrebbero preferito considerare alla stregua di sogni gli
uomini e le cose e, insomma, ogni ragionamento in cui si
imbattessero, piuttosto che ritenere come vera e realmente esistente
una sola di queste rappresentazioni che vengono da loro recepite in
uno stato di delirio o di furore coribantico o di sogno.
Ma allora: se da una parte è possibile eliminare queste apparenze 〈e
da un’altra parte non è possibile farlo)45, si dà forse anche la
possibilità di sospendere il giudizio su di esse, se non altro a
causa di questa discordanza che di per sé basta a farci guardare con
sospetto la realtà delle cose non 〈nel senso〉46 che non ci sia nulla
di valido, ma nel senso che esse implicano ogni sorta di incertezza
e di confusione.
Per quanto, poi, concerne il numéro infinito dei mondi o la natura
degli atomi e dei corpi privi di parti e le differenze della loro
«deviazione»47, quantunque si tratti di cose che mettono in
imbarazzo tante persone, noi troviamo tuttavia – a proposito di
queste teorie – qualche sollievo nel fatto che nessuna di queste
cose ci tocca da vicino o, piuttosto, nel fatto che ciascuna di
siffatte indagini trascende completamente i nostri sensi. Ma questa
mancanza di fiducia negli occhi, nelle / orecchie e nelle mani,
questa ignoranza e questa confusione a proposito degli oggetti
sensibili e delle rappresentazioni – se, cioè, queste ultime siano
vere o false – a quale opinione non danno una scossa? Quale assenso
o quale giudizio non mettono sottosopra? Se, infatti, uomini non
sconvolti dal vino o da abuso di medicine e non alienati di mente,
ma sobri e sani e capaci di scrivere trattati sulla «virtù» e sui
«canoni» e sui «criteri»48, se questi uomini, dinanzi alle affezioni
più evidenti e ai moti della sensazione, ritengono o che il
non-esistente sia vero oppure che il vero sia falso e non-esistente,
ci dobbiamo giustamente stupire non già se gli uomini si rifiutano
di esprimersi su tutte quante le cose, bensì se a certe cose essi
danno con pienezza il loro assenso. E l’assurdo non sta nel fatto
che essi non posseggono alcun giudizio sulle apparenze fenomeniche,
ma nel fatto che posseggono giudizi tra loro contrari49. Chè
mettersi ad affermare due cose contrarie ed opposte tra loro è un
fatto che dovrebbe suscitare maggior meraviglia che non porne
nessuna delle due e sospendere il giudizio sui due opposti50.
Difatti chi non-afferma-e-non-nega ma se ne sta in silenzio è, con
chi afferma una determinata opinione, in minor contrasto di chi la
nega, ed è, con chi la nega, in minor contrasto di chi l’afferma51.
Ma se è possibile sospendere il giudizio in merito alle suddette
sensazioni, non è impossibile sospenderlo in merito alle altre,
stando almeno a quello che voi stessi ritenete52, che, cioè, non
intercorre affatto alcuna differenza tra una sensazione e un’altra e
tra una rappresentazione e un’altra.
1. Per questo discepolo di Epicuro, che Plutarco troppo duramente
accusa di ignoranza, si rinvia a W. CRÖNERT, Kolotes und Menedemos,
Leipzig, 1906; R. WESTMAN, Plutarch gegen Koloten. Seine Schrift
«Adversus Colotem» als eine philosophisch-geschichtiche Quelle,
Helsinki, 1955; EPICURO, Opere, a cura di M. Isnardi Parente. Torino
1974, pp. 69 segg., 554 segg.
2. Da notare come questo luogo plutarchiano accosti gli Accademici
scet-ticheggianti ai Cirenaici: la medesima cosa avviene in Sesto
Empirico (Adv. log. I, 190) ed in Eusebio (Praep. ev. XIV, 18-19).
3. Fr. 218 Mannebach = 1 a 69 Giannantoni.
4. Così il Pohlenz, mentre Einarson-De Lacy riportano ad Epicuro»
(per la questione vedansi USENER, Epic., fr. 239 e BIGNONE,
L’Aristotele perduto e la formazione filosofica di Epicuro, I, p.
45).
5. Cfr. DIOG. LAERT. IV, 30-31.
6. Plutarco allude ai seguaci di Teodoro l’ateo ed a Bione di
Boristene (cfr. Bignone, op. cit., I, p. 46, n. I).
7. A differenza di Timone, che irrideva gli altri filosofi e faceva
apparire la bonaccia solo con Pirrone, Arcesilao cercava il conforto
della sua scepsi nei maggiori pensatori del passato. Come Cicerone,
anche Plutarco tenta il recupero del travaglio accademico nell’alveo
della tradizione platonica, anticipando l’ipotesi agostiniana di
Contra Acad. III, 38-41.
8. L’esclusivismo di Colote a favore di Epicuro sembra pari a quello
di Timone a favore di Pirrone. Plutarco, invece, con questo suo
ironico ringraziamento all’Epicureo, tende a culturalizzare la
scepsi e ritiene buono quello che a Colote sembrava cattivo.
9. Secondo il De Lacy («American Journal of Philosophy», XXVII,
1956, p. 76) si alluderebbe ad Antioco di Ascalona.
10. Per questa celebre immagine cfr. PLAT. Conv. 198c; EPIC. fr
Usener; CIC. Ad fam. IX, 8, 1; Varro IV, 10; VIII, 32; ARRIAN.
Epict. diss. I, 5, 1-3.
11. Ossia l’ὀρµή, l’iniziale slancio alla conoscenza, che è comune
allo scettico e al dommatico, essendo un πϑoς.
12. Ossia la σνγχτϑεσις, che secondo gli Stoici era il punto
culminante della conoscenza e l’indispensabile fondamento della
prassi (cfr. Cic. Varro VIII, 34-35), mentre secondo gli Accademici
era da evitare (cfr. SEXT. EMP. Pyrrh. hyp. I, 222).
13. Così il Pohlenz, mentre i codd. E B recano entity (sensazione) e
sono seguiti in Stoic, vet. frag. III, p. 147, 16 Arnim. Secondo gli
Stoici, comunque, la sensazione già implica, sotto un qualche
profilo, l’assenso (cfr. Cic. Lucullx. XIII, e Stoic, vet. frag. I,
e II, 71-75 Arnim).
14. Per questa immagine cfr. Cic. Lucull. XI, 38 e Stoic, vet. frag.
II.
15. HOM. II. II, 150, cit. in DIOG. LAERT. IX, 73.
16. Cfr. Stoic, vet. frag. II, 74; III, 169, 177 Arnim.
17. Cfr. LEUTSCH-SCHNEIDEWIN, Paroem. graec, III, 193.
18. Cfr. SEXT. EMP. Pyrrh. hyp. I, 22.
19. Cfr. Stoic, vet. frag. I, 39; II 227-228; SEXT. EMP. Pyrrh. hyp.
II, 70; Adv. log. I, 227-260 e, per l’acuta critica scettica,
381-387.
20. Sulla πρoπέτεια dei dommatici insistevano gli Accademici (cfr.
CIC. Varro XII, 45; Lucidi. XX, 66) al pari dei Pirroniani (cfr.
SEXT. EMP. Adv. phys. I, 49; DIOG. LAERT. IX, 74).
21. Per l’opinione intesa come «assenso malato e falso» cfr. Stoic,
vet. frag. I, 67-69 Arnim.
22. Cfr. PLUTARCH. De stoic. rep.1057b.
23. Cfr. PLUTARCH. Adv. col. III 8a-b.
24. Cfr. Stoic, vet. frag. III, 169 Arnim; CTC. De nat deor. I,
XXXVII, 104; SEXT. EMP. Adv. log. I, 30.
25. Fr. 411 Usener.
26. Per l’espressione cfr. PLAT. Resp. V, 458d.
27. Cfr. fr. 411 Usener e SEXT. EMP. Adv. eth. 96.
28. Cfr. Cic. Lucull. XII, 38.
29. Ossia gli Epicurei (cfr. frr. 342, 368 Usener).
30. Ho preferito usare l’espressione dantesca di Par. VIII, 4.
31. Fr. 528 Usener.
32. Fr. 420 Usener.
33. Cfr. CIC. De fin. II, 9-17.
34. Così il Pohlenz: il Bignone e il De Lucy intendono «e il non
patire s’identifica col patire».
35. CALLIM. frag. anon. 387 Schneider (respinto dal Pfeiffer).
36. EURIP. Iph. taur. 288-290.
37. Così il De Lacy propone di integrare le lacune del testo
plutarchiano, facendo ricorso al testo di Euripide.
38 B 6c Diels-Kranz.
39. 31 B 61 Diels-Kranz.
40. Fr. 254 Usener.
41. Cfr. EPIC Ad Herod. 51-52; frr. 251, 253 Usener; Cic. De
fin. I, VII, 22; Lucuti. XXV, 80; DIOG. LAERT. X, 32.
42. Il termine risale al Pirronismo antico (cfr. SEXT. EMP. Pyrrh.
hyp. I, 192).
43. Plutarco ritorce contro gli Epicurei l’accusa che di solito era
diretta contro gli Accademici, ossia di eliminare le cose familiari
e ordinarie (cfr. CIC. Lucull. XIII, 42; XXVII, 87). La stessa
ritorsione è fatta da Plutarco contro gli Stoici in De Stoic. rep.
1036c.
44. Fr. 251 Usener.
45. L’integrazione è del De Lacy.
46. L’integrazione è del De Lacy.
47. Cfr. LUCRET. II, 216-220.
48. Cfr. USENER, Epicurea. p. 105.
49. Venendo meno a quel principio di non-contraddizione che nessuno
scettico ha mai osato mettere in dubbio.
50. Cfr. SEXT. EMP. Pyrrh. hyp. I, 2; Adv. log. II, 363.
51. Per questo «vantaggio» equivoco degli Accademici rispetto agli
altri filosofi cfr. AUGUSTIN, Contra Acad. III, 15-16, che si
rifaceva a qualche passo perduto degli Academica di Cicerone.
52. Fr. 251 Usener.
LACIDE
Sul piano strettamente filosofico l’Accademia non produsse niente di
notevole nei quasi ottanta anni che intercorsero tra la morte di
Arcesilao e l’inizio dello scolarcato di Carneade, sebbene la
tonante voce di quest’ultimo già stesse risonando nel sodalizio da
circa trent’anni e avesse contribuito a smuovere le acque
stagnanti1.
Tra Arcesilao e Carneade si ebbero quattro scolarchi: Lacide
(241/0-224-3 oppure a. C.)2, Telecle (224/3 oppure 215-178), Evandro
(178-170 circa a. C.) ed Egesimo (170 circa-160 circa). È quasi
certo che, dopo le dimissioni di Lacide, che sopravvisse ad esse per
diversi anni3, l’Accademia ebbe una fase di interregno o di
direzione collegiale. Sotto lo scolarcato di Egesino si ebbe la
rottura con Crisippo, che aveva imparato la dialettica sotto i
platani di Academo e poi la vibrò per colpire quei platani stessi4.
Non sappiamo con precisione cosa si insegnasse nell’Accademia in
quel lasso di tempo. Arcesilao aveva mostrato simpatia per gli ἐγχλι
µαϑήµατα, nonostante il suo scetticismo, e la folla degli Accademici
di questo periodo (della quale abbiamo fugaci notizie)5dovette
dedicarsi a questo tipo di studi, anche se era immancabile la
presenza deirelenchistica.
Lacide di Cirene (280 circa-213 o 206/5 a. C.) è l’Accademico del
quale sappiamo parecchie notizie in parte belle6 e in parte poco
simpatiche7. Sappiamo che scrisse due opere, intitolate l’una Cose
filosofiche e l’altra Sulla Natura,8 in cui, probabilmente, esponeva
e patrocinava il pensiero del maestro Arcesilao.
Con Lacide, però, l’Accademia divenne bersaglio di poeti comici e di
scrittori di satire menippee. Lacide stesso brillava, forse, più per
la sua laboriosità che per la sua intelligenza. Ma, d’altra parte,
la tagliente ἐπoχή di Arcesilao, rigida nel sostenere l’άχαταληψìα e
l’άδoξχστìα, contribuiva a paralizzare ogni sforzo innovatore né
ebbe a sua difesa un novello Timone che sapesse rintuzzare gli
attacchi degli avversari. E su tutto ciò dovette meditare a lungo
Carneade, prima di arrivare, quasi sessantenne, ad assumere le
redini dell’Accademia.
Il breve βìoς laerziano non ci dà alcuna informazione di ordine
filosofico, ma si limita ad asserire, erroneamente, che Lacide fondò
la Nuova Accademia9. Le pagine lacidee di Numenio-Eusebio sembrano
il compiaciuto estratto di una vera e propria commediola
ellenistica, il cui autore – molto probabilmente Batone –,
ispirandosi all’intramontabile Aristofane, voleva conciare per le
feste la filosofia del calandrinesco Accademico come era stato
conciato per le feste Socrate nelle Nuvole10. Il gustosissimo passo
è soprattutto un prezioso contributo alla nostra conoscenza dei
rapporti intercorrenti tra i paradossi della scepsi e la cultura e
la mentalità comune di quel tempo ed è quasi un efficace antidoto
alla tentazione – energicamente respinta da Numenio11 – di dare
all’Accademia di mezzo un’interpretazione esoterizzante.
Vita di Lacide (DIOGENE LAERZIO IV, 59-61)
Lacide, figlio di Alessandro, fu nativo di Cirene. Egli è colui
che diede inizio all’Accademia Nuova12 e che fu successore di
Arcesilao: fu un uomo che meritò molto rispetto ed ebbe non pochi
ammiratori. Fu amante del lavoro fin da giovane, e fu povero, ma,
altresì, di bella grazia e di buona conversazione.
Si tramanda che egli fu molto spilorcio13 nell’amministrazione di
casa. Infatti, quando prelevava qualcosa dalla dispensa, ne
sigillava di nuovo l’uscio e faceva cadere attraverso una fessura
della porta l’anello del sigillo, per impedire che qualcosa ivi
depositata venisse prelevata e sgraffignata; ma i suoi garzoncelli,
venuti a conoscenza di ciò, toglievano il sigillo e rubacchiavano
quello che volevano; poi facevano scivolare l’anello nella stanza
attraverso la fessura, proprio come faceva Lacide; e non furono mai
acciuffati mentre combinavano questo14.
Lacide teneva scuola nell’Accademia, nel giardino che era 60stato
fatto costruire dal re Attalo15 e che da lui prese il nome di
«lacideo». E fu Fuñico che – a quel che si ricorda – ancor vivo
consegnò la scuola in mano a successori, vale a dire ai focesi
Telecle ed Evandro16. Da Evandro la successione passò, poi, ad
Egesino17 di Pergamo, e da quest’ultimo a Carneade18.
Si fa risalire a Lacide una graziosa battuta: si racconta, infatti,
che quando Attalo lo invitò presso di sé, egli rispose che le
immagini artistiche si devono contemplare a distanza.
Si mise a studiare la geometria quando era già in età avanzata19 e,
poiché un tale gli disse: «È forse adesso il tempo adatto per
farlo?», egli controbatté: «Forse adesso nemmeno?»
Assunse la direzione della scuola nel quarto anno della Olimpiade20
e morì dopo averla retta per ventisei anni21. Si trattò di morte per
paralisi dovuta ad eccessi nel bere22.
Per lui ho composto questo «scherzo»23:
Anche su te ho udito, o Lacide, questa novella:
Preso da Bacco, in punta di piè scendesti all’Ade.
Ma era ben ovvio! Che quando Dioniso abbonda nel corpo,
Scioglie le membra. Lieo non fu perciò nomato?
Acatalessia e stupidità (NUMENIO, apud Euseb. Praep. ev.
XIV, 7, 1-15, 734 a – 736 b = fr. 26, 1-102 des Places)
A proposito di Lacide voglio raccontarvi un gustoso aneddoto.
Lacide era abbastanza spilorcio24 e in un certo qual modo era
l’«economico» del proverbio. Con questa sua bella nomea presso la
gente, era lui che apriva personalmente la dispensa ed era lui che
personalmente la chiudeva. E prelevava lui le cose di cui aveva
bisogno e faceva tutte quante le altre operazioni di tal genere con
le proprie mani non perché tenesse in gran conto
l’«autosufficienza»25 né perché si trovasse, altresì, in uno stato
di indigenza né perché gli mancassero servitori – ché anzi ne aveva
un bel numero alle sue dipendenze –, ma è ben facile arguire per
quale motivo.
E passo ad esporvi il gustoso fatterello che vi ho promesso. Mentre
faceva il dispensiere di se stesso, non reputava di dover portare in
giro con sé la chiave, ma, dopo aver chiusa la dispensa, la
depositava in un piccolo scritzoio concavo. Vi poneva con l’anello
un sigillo e poi faceva scivolare all’interno della cella l’anello
attraverso il buco della serratura; di guisa che, in appresso,
quando ritornava ad aprire con la chiave, poteva riprendersi
l’anello, risigillare, chiudere la dispensa e, infine, gettare
di nuovo l’anello all’interno attraverso la toppa.
Ma i servi si accorsero di questo mezzuccio e, quando egli usciva
per una passeggiata o se ne andava in qualche altro posto, aprivano
anch’essi la credenza e poi, a loro piacimento, mangiavano e
bevevano e si portavano fuori altre cose, e poi facevano, a
loro volta, le stesse operazioni di Lacide: chiudevano, mettevano il
sigillo e poscia, tra molte risate alle sue spalle, facevano
scivolare l’anello attraverso la toppa.
Così Lacide, poiché lasciava pieni i recipienti della dispensa e li
ritrovava svuotati, non riusciva a raccapezzarsi su quello che stava
accadendo; ma, poiché aveva sentito dire che presso Arcesilao si
parlava della teoria filosofica
dell’incomprensibilità, reputava che proprio un fatto di questo
genere stesse capitando anche a lui a proposito della dispensa. E,
preso lo spunto da questo fatto, filosofava alla presenza di
Arcesilao, dicendo che egli non vedeva mai né udiva mai nulla che
fosse evidente e valido.
Una volta, addirittura, trasse in disparte uno dei suoi compagni e,
volendo rafforzare in lui con la massima efficacia – a parer suo –
la teoria della sospensione dell’assenso, disse: «Questo io te
lo posso confermare in maniera incontrovertibile, perché l’ho
imparato da me stesso, senza far ricorso ad esperienze altrui». E
cominciava a raccontare per filo e per segno tutto quanto
l’accidente della dispensa che gli era capitato. «Ebbene! –
aggiungeva lui – Che cosa potrebbe obiettare Zenone contro un caso
di incomprensibilità che, nella presente circostanza, mi risulta
così incontrovertibilmente manifesto sotto ogni profilo? Difatti io
stesso ho chiuso la cella con le mie mani, l’ho sigillata e vi ho
lasciato scivolar dentro l’anello e, quando sono ritornato e
l’ho riaperta, vedo che l’anello sta là dentro, ma che non ci sono
le altre cose. Come farò, allora, a non rifiutar giustamente ogni
credito alla realtà delle cose? Da parte mia, invero, non oserò
affermare che qualcuno è venuto da fuori ed ha rubato questi
oggetti, dal momento che il mio anello sta là dentro!»
A questo punto l’ascoltatore – che era proprio uno dei ladruncoli –,
dopo essere rimasto ad udire il racconto come meglio poteva –
egli che a malapena già prima era riuscito a dominarsi –, scoppiò in
una grossa risata e col suo ridere e col suo gongolare confutò la
vuotaggine del pensiero di Lacide. E così, da allora in poi, questi
non fece più scivolare l’anello nella toppa e per la teoria
dell’incomprensibilità non si serviva più dell’esempio della
dispensa, ma «comprendeva» bene, ora che egli ritrovava quello che
aveva lasciato26: la sua precedente filosofia risultava, così,
fondata sul vuoto.
Ma non basta: quei ragazzacci erano dei «grossolani burloni»27 e non
se la facevano fare, come si comportano, di solito, i Geti e i
Daci28 nelle commedie. Avvezzi, come essi erano, a ciarlare con
dacica sfrontatezza – sia che avessero appresi i sofismi presso
gli Stoici, sia che li avessero imparati in qualche altra maniera –,
immediatamente ne combinarono un’altra: si mettevano a cancellare il
sigillo impresso da Lacide e talora lo sostituivano con un altro,
talora non lo sostituivano affatto, perché credevano che, in un modo
o nell’altro, anche queste loro bricconate sarebbero rimaste
«incomprensibili» per Lacide.
E costui entrava in cella, la ispezionava e, vedendola priva di
segno oppure contrassegnata, sì, ma con un altro sigillo, montava in
bestia. Poiché i ragazzi affermavano che il segno era rimasto lì e
che essi vedevano per l’appunto quello che egli aveva messo, Lacide
dava il via ad una minuziosa discussione e cercava di dimostrare le
sue ragioni. Sconfitti dalla dimostrazione, quelli obiettavano che,
se il sigillo mancava, egli forse se ne era dimenticato e non aveva
fatto il segno. Ma Lacide rispondeva che si ricordava bene di
averlo fatto e si metteva a darne dimostrazione e andava per le
lunghe con il suo argomentare e si rammaricava contro di loro,
credendo di essere preso in giro, e ci giurava anche su.
Quelli, però, nel rispondere ai suoi attacchi, credevano che anche
lui stesse scherzando, quasi che Lacide – da quel sapiente che era –
fosse del parere di essere «immune da opinione»29, fino al punto da
divenire anche «privo di memoria», essendo anche l’opinione una
sorta di memoria30; e dicevano che poco tempo prima lo avevano udito
confermare ciò a certi suoi amici. Ma poiché Lacide, nel respingere
queste loro istanze, parlava in modo non affatto conforme alle
dottrine accademiche, essi si recavano presso qualche Stoico e
imparavano da costui la risposta da dare al loro padrone:
cominciavano, quindi, ad opporre sofismi a sofismi e, mettendo in
campo artificio contro artificio, si rivelarono autentici ladri
accademici.
Lacide, allora, passava ad accuse di marca stoica, ma i garzoni le
dissolvevano, basandosi sulla teoria dell’incomprensibilità, non
senza beffeggiarlo. A questo punto scoppiavano discussioni di ordine
generale, si sollevavano argomentazioni e controargomentazioni: in
questo frangente non si lasciava sussistere più nulla, né recipiente
né contenuti del recipiente né qualsivoglia altro oggetto che ancora
facesse parte della suppellettile domestica. E Lacide se ne rimaneva
imbarazzato, perché vedeva che la difesa delle sue teorie si
ritorceva a proprio svantaggio. Poi, riflettendo sul fatto che
avrebbe perduto tutta la sua roba se non fosse riuscito a confutare
i ladri, vistosi ridotto all’impotenza, si metteva a schiamazzare
con i vicini e ad invocare gli dei esclamando: «Ahi, ahi! che guai,
che guai! Per gli dei e per le dee!»; e quante altre cose
scaturiscono spontaneamente dalla bocca di chi, quando non viene
creduto, si lamenta per farsi credere, egli le buttava fuori ad
alta voce e per meritar credito. Ma alla fine, poiché vedeva
perdurare per la casa una battaglia di antilogie, egli stesso si
riduceva ad assumere posizioni stoiche nei confronti dei suoi
garzoni. E poiché costoro facevano una strenua difesa delle
teorie accademiche, egli, per non subire più fastidi, mise un
guardiano amico a starsene seduto accanto alla dispensa.
Anche così, però, non approdava ad un bel nulla; perciò, dopo aver
considerato fino a qual punto giungesse la propria sapienza, eccolo
fare la sua grande rivelazione: «Ragazzi miei, – egli disse – in un
modo noi diciamo queste cose nelle nostre dispute di scuola, ma in
un altro modo noi viviamo!»
E questo basti a proposito di Lacide.
Molti, però, furono i suoi allievi, tra cui si distingueva Aristippo
di Cirene31. Ma, fra tutti i suoi intimi, Evandro32 e i suoi
seguaci33 ottennero da lui la direzione della scuola.
1. Con la sua consueta finezza il Brochard (Les sceptiques grecs, p.
120) scrive: «La nouvelle Académie ne brille dans l’histoire eue
d’un éclat intermittent… les summets seuls émergents de l’oubli».
2. Le notizie in merito alla durata dello scolarcato di Lacide sono
molto controverse: secondo Diogene (IV, 61) questo scolarcato curò
anni, mentre secondo Acad. phil. ind. herc., col. xxvn, segg.,
almeno nella ricostruzione del Crönert (Kolotes und Menedemos, p.
77), esso sarebbe durato anni. (Per altre complicazioni di ordine
cronologico vedasi CAPELLE, Lakydes, in «RE», XII, coll. 530-2).
3. Secondo Apollodoro, Lacide sarebbe sopravvissuto di diciotto anni
alle dimissioni (cfr. Acad. phil. ind. here, col. xxvn, 3), secondo
altre fonti solo di dieci anni (cfr. CRÖNERT, Kolotes und Menedemos,
p. 180; WILAMOWITZ, «Hermes», XLV, p. 410-1).
4. Secondo il Laerzio (VII, 183), che attribuisce la notizia a
Sozione, Crisippo studiò sotto Arcesilao e Lacide.
5. In particolare le coll. xx, xxvn, xxvin dell’Acad. phil. ind.
herc ci danno una vasta serie di nomi, ma della dottrina di ciascuno
di questi personaggi – come dice l’Arnim persino di Evandro, in
«RE», VI, 1, col. – ist nichts bekannt. Per più ampie notizie vedasi
GEFFERS, De Arcesilai successoribus. Gvrnnasialnrosr. Göttingen.
1842.
6. Plutarco (Quom. adul. ab am. internóse, 63d), dopo aver ricordato
l’episodio di Arcesilao ed Apelle, ricorda anche un atto di sincera
amicizia compiuto da Lacide nei riguardi di Cefisocrate: «E nel
campo della filosofia è proprio vero che i figli nascono simili ai
genitori! Infatti Lacide, l’ultimo collaboratore di Arcesilao,
assistette con gli altri amici Cefisocrate, quando quest’ultimo
venne incriminato. Poiché l’accusatore ne pretendeva l’anello,
Cefisocrate lo fece scivolare a terra impercettibilmente e Lacide,
accortosene, vi mise sopra un piede e lo nascose: difatti la prova
del reato era proprio quell’anello. Dopo la sentenza assolutoria,
mentre Cefisocrate stendeva la mano ai giudici, uno di costoro, che,
a quanto pare, aveva notato il gesto di Lacide, gli disse di
ringraziare Lacide e si mise, poi, a diffondere il fatto, mentre
Lacide non lo riferì mai ad alcuno. In questo modo, a parer mio,
anche gli dei fanno per lo più i loro benefici di nascosto, giacché
hanno una tal natura che li fa rallegrare semplicemente dell’atto di
grazia e della buena azione».
7. Ad esempio, la sua tirchieria (DIOG. LAERT. IV, 69).
8. La notizia, di fonte esichiana, è nella voce di Suida. Il codice
laurenziano, però, non riporta il titolo della seconda opera e non è
neppure sicurissimo il titolo della prima.
9. Secondo il Capelle (art. cit. in «RE») si deve intendere che
Lacide diffuse per iscritto le dottrine arcesilee.
10. Nella traduzione del brano numeniano mi sono attenuto al testo
del des Places (fr.26, pp. 70-5). Secondo R. Hirzel (Ein
unbeachtetes Komödienfragment, «Hermes», XVIII, pp.1-16) l’episodio
sarebbe l’estratto compiachuto di una vera e propria commedia del
III sec. a. C.; invece, secondo l’Usener (Epicurea, LXVIII seg.) e
il Wilamowitz (Platon, I, p. 723), la fonte del passo numeniano
sarebbe una satira menippea. Per altre notizie cfr. GOEDECKE-MEYER,
Gesch. der griech. Skept., pp. 47 segg. e soprattutto l’ampia
disamina condotta recentemente da I. Gallo (Commedia e filosofia in
età ellenistica: Batone, «Vichiana», V, 1976, pp. 206-42). Il brano
è riportato sia tra i frammenti della Commedia Nuova in Comicorum
Atticorum Fragmenta del Kock (III, pp. 418-20) sia da S. M. Edmonds
in The Fragments of Attic Comedy, III A, Leiden, 1961, pp. 404-7 con
traduzione inglese.
11. Cfr. EUSEB. Praep. ev. XIV, 5-6.
12. Cfr. DIOG. LAERT. I, 14, 19 e voce Lakydes in Suida. Dall’Acad.
phil. ind. herc.(col. xxi, 37 segg.) si desume, però, che egli non
fondò, ma consolidò la Media Accademia, la quale era vagante «non
meno del tenore di vita degli Sciti».
13. Seguo col Gigante (v. nota ad hoc) lo Shorey («Class. Philol.»,
IV, 1909, p. 86) nel sostituire γλισχρóτατα a γλνχύτατα dei codd.
Quest’ultimo termine, comunque, avrebbe avuto senso ironico
(lepidissime, Migne).
14. L’episodio, di indubbia origine letteraria, viene ampiamente
utilizzato a scope polemico in NUMEN. apud Euseb. Praep. ev. XIV, 7.
15. Si tratta di Attalo I, re di Pergamo. Con gli Attalidi aveva
avuto discreti rapporti già Arcesilao (cfr. DIOG. LAERT. IV, 30,
38). In Acad. phil. ind. heve. O, 15 segg. Lacide viene ricordato
addirittura come maestro di Eumene e di Attalo.
16. L’abdicazione avvenne nel 224/3 secondo l’Acad. phil. ind. herc.
XXVII, 1-15, mentre, stando a Diogene, sarebbe avvenuta nel 215/4.
17. Di questo scolarca si fa oscura menzione in Acad. phil. ind.
herc. M, 29-35 e in CIC.. lucull.. 16. Per altre questioni v.
GOEDECKEMEYER, Geschichte der griech. Skept., p. 50.
18. La successione avvenne intorno al 160 a. C.
19. Su questa notizia si fonda il GOEDECKEMEYER, op. cit., p. 49,
per sostenere l’ormai definitivo allontamento dell’Accademia dalle
direttive platoniche.
20. Nel 241-0 a. C.
21. E dopo essere rimasto per sedici anni nell’ombra (cfr. Acad.
phil. ind. herc, col. xxvn, 3).
22. Il suo smoderato culto per Bacco è ricordato anche in AELIAN.
Var. hist. II, 41 e ATHEN., X, 438a, XIII, 606b.
23. Anth. Pal. VII, 115.
24. Cfr. DIOG. LAERT. IV, 59.
25. Famoso principo eticdo dei Cinici, approfondito dalla Stoa (cfr.
POHLENZ, la stoa, pp.244-5).
26. Ho dovuto allontanarmi dalla traduzione letterale per riprodurre
l’ironico contrasto tra ἀχαταληψíα e χατελάµβανε del testo.
27. Il termine φóρτα (facchino) è qui usato nel senso di φoρτιϰóς
(ARISTOPH. Nub. 524; Vesp. 66; Lys. 1218).
28. Rozzi schiavi, privi di quella finezza attica che sembrava esser
vanto Accademia.
29. In conformità con quella ἀδoξααστία che era stata professata già
da Pirrone e che qui comicamente diventa amnesia. Il Capelle
(Lakydes in «RE», XII, i coll. 530-2) da questo luogo trae spunto
per sostenere l’abbandono dell’έπo ϰή) da parte del poco
intelligente allievo di Arcesilao.
30. Che, secondo gli Scettici, la memoria fosse ben diversa
dall’opinione è, invece, confermato da Sesto Empirico (Adv. log. II,
141-144, 192-202).
31. Cfr. Acad. phil. ind. here, col. XXVII, 9; XXIV, 4 e DIOG.
LAERT. II, 83. Il suo scritto Delle indagini naturalistiche, in cui
forse esponeva e criticava le dottrine fisiche dei filosofi, è
ricordato in DIOG. LAERT. VIII, 21.
32. Numenio dimentica Telecle, ricordato invece in DIOG. LAERT. IV,
60, Fuggevole accenno a questo Evandro di Focide (o di Focea) è in
CIC. Lucull. VI, 16.
33. Forse si allude ad Egesino (cfr. WILAMOWITZ, «Hermes», XLV,
1910, p. 407), forse ad una direzione collegiale, come soleva
accadere nei momenti critici (Goedeckemeyer).
Carneade di Cirene (219/4-129 a. C.) fondò la Nuova Accademia, che
in parte fu la continuazione di quella Media fondata da Arcesilao,
in parte se ne staccò aprendo allo Scetticismo prospettive diverse
ed originali.
Il periodo di formazione di questo filosofo non ci è ben noto:
nell’adolescenza non gli fu, forse, estraneo l’ambiente dei
Cirenaici, ma, col suo trasferimento ad Atene, operarono decisamente
su di lui Egesino, continuatore piuttosto stanco dell’ πoχή di
Arcesilao, e soprattutto i numerosissimi scritti di Crisippo1, da
cui egli trasse vital nutrimento e contro cui impostò tutta la sua
attività di pensatore e di polemista più di quanto non avesse fatto
Arcesilao nei riguardi di Zenone. Crisippo, che è stato uno dei più
grandi dialettici dell’antichità, aveva dato alla Stoa un vero e
proprio sistema: Carneade creò l’anti-sistema con pari, se non
superiore, acume dialettico e con affascinante potenza espressiva in
tutti e tre i settori in cui, a quei tempi, veniva divisa la
filosofia: logica, fisica ed etica2. Egli seppe darsi una cultura
immensa e il periodo della sua formazione non si limitò alla
giovinezza, ma si estese fino alla vecchiaia, quando i suoi impegni
di scolarca dell’Accademia3, uniti a quelli di una battaglia aperta
e continua in ogni settore dello scibile e dell’operare umano, non
gli concedevano neppure il tempo di tagliarsi i capelli o le
unghie4, come rilevavano con spirito satirico i numerosi avversari
che egli si andava procurando. E il suo amore per lo studio fu pari
al suo amore per la vita, alla quale non intese rinunciare neppure
nei dolorosi acciacchi della tarda senilità, quando la tentazione di
praticare il suicidio stoico – l’ελoς ξαλωλή di Crisippo – fu, in
modo ironicamente tragico, allontanata mediante una umanissima
richiesta di vino con miele5.
Se sappiamo poco della formazione culturale, sappiamo, invece, fin
troppo del suo pensiero, tanto che ancora oggi ci è difficile dire
con precisione quale esso realmente sia stato. Le oltre quattrocento
opere di Clitomaco6 furono, in gran parte, una stesura scritta di
quel pensiero in tutti i suoi particolari, e Clitômaco non fu certo
un pensatore molto originale e poco aggiunse di proprio a quello che
del suo maestro aveva ereditato. Ma le opere di Clitomaco sono
andate completamente perdute e le fonti Carneadee di cui ora
disponiamo – in particolare Cicerone, Numenio e Sesto Empirico –
vanno studiate con molta oculatezza. La profluenza ciceroniana,
spesso incantevole ma talora anche ridondante, con i suoi
emendamenti non solo filoniani o antiochei ma anche personali, non
ci permette di sceverare l’autentico dal sovrapposto, non solo per
quanto concerne la ricchezza delle esemplificazioni e dei
riferimenti a situazioni particolari, ma anche per quanto si attiene
all’essenza e al nerbo del pensiero. La fonte numeniana,
contrassegnata da una ostilità superiore a quella già usata contro
Arcesilao, è un’aspra ed acuminata requisitoria sia contro il
pensiero Carneadeo sia contro l’uomo Carneade, che viene considerato
moralmente ambiguo, sofista ed erista della peggiore genia e quasi
ripugnante per una congenita malafede. La fonte sestianea, infine,
che è la più importante sotto il lato speculativo e che per nostra
buona sorte spesso può ritenersi complementare con i numerosi passi
ciceroniani, non esaurisce tutto l’arco dei particolari, che per
Carneade avevano un’importanza molto rilevante a causa della sua
sistematicità rivolta sia ai princìpi universali sia ai dettagli.
Tutte queste ragioni ci inducono alla cautela nel pronunciarci su
ciò che fu effettivamente di Carneade, e un invito alla modestia ci
vien fatto da Don Abbondio, il quale, poverino, non sapeva chi fosse
«costui», mentre noi ne sappiamo tanto da farci, al termine di
faticose ricerche, la sua stessa proverbiale domanda.
Una corretta ermeneutica del pensiero di Carneade diventa ancora più
diffìcile se noi, attratti da una metodologia ancora baconizzante,
ci proponiamo di distinguere in quel pensiero una pars destruens,
senza dubbio estesissima, da una pars construens, incerta e
pericolante ma pur non priva di attrattive e di sviluppi nelle
posteriori vicende della filosofia e della cultura7. Infatti anche
qui una netta distinzione è impossibile e la dialettica stessa – sia
essa platonica o hegeliana o marxiana – dovrebbe insegnarci quanta
costruttività è già nella distruzione e quanta negatività si cela
insidiosamente nelle fasi costruttive. E Carneade fu soprattutto un
formidabile dialettico, degno emulo e continuatore di Crisippo, i
cui laquei egli sapeva adoperare non solo per il gusto anche un po’
retorico di ridurre l’avversario al tappeto8, ma anche – e forse più
– perché la realtà esterna della natura e quella interna dello
spirito gli si mostravano antilogistiche, quantunque egli non
intendesse colpire ex professo il principio di non contraddizione
che anzi egli adibiva di frequente per smascherare le incongruenze
del dommatismo9.
Ciò premesso, una succinta enucleazione del pensiero di Carneade può
essere fatta nel rispetto della triplice ripartizione ellenistica
della filosofia e nel tener presente che le tre «parti» si implicano
tra loro per un certo underground unitario che circola in esse.
Nel campo della logica – che per Carneade è soprattutto gnoseologia
– si riscontra una posizione sospensiva che resta analoga a quella
di Arcesilao, anche se Carneade sottolinea piuttosto la
provvisorietà e la mutevolezza dell’assenso che non la sua recisa
impossibilità10: né i sensi né la ragione possono fornirci il
criterio di verità, e la rappresentazione apprensiva, per la cui
definizione si andavano tormentando gli Stoici anche sotto la spinta
delle critiche accademiche, è un’operazione gnoseologica fallita,
giacché una rappresentazione vera ha tutte le medesime
caratteristiche di una falsa11. D’altra parte, però, il puro e
semplice rappresentarsi le cose non può essere eliminato, perché non
possono essere eliminate le affezioni e i fenomeni, che neppure il
più radicale scetticismo ha mai osato rinnegare.
Di qui sorge in Carneade la necessità di analizzare daccapo la
rappresentazione stessa secondo una metodologia dialettico-scettica
e non già dialettico-dommatica. E Carneade conduce questa sua
analisi sia con ricchezza di argomentazioni psicologiche sia con
rigoroso intento epistemologico. Sotto il primo profilo egli traccia
una delicatissima fenomenologia dei tragici giochi della
rappresentazione (allucinazioni, sogni, illusioni, limitatezza delle
nostre facoltà sensorie); sotto il secondo profilo egli ripercorre
quasi angosciosamente il dissidio tra l’opinione-apparenza e la
scienza-verità, dissidio che il pensiero ellenistico ereditava da
Platone e persino dai Presocratici e che vanamente cercava di
superare assumendo varie posizioni dominatiche.
Proprio queste aporie fanno nascere l’alternativa probabilistica12,
che non vuole essere una soluzione definitiva dell’arduo problema,
ma solo una prospettiva e una proposta. Il probabilismo non
scaturisce affatto dal bisogno di assumere un comportamento pratico,
ossia dall’esigenza d: superare il famoso ponte dell’asino che si
parava dinanzi agli Scettici, bensì in primo luogo da un’esigenza di
ordine teoretico, come era presumibilmente nato l’ελoγoν di
Arcesilao.
Il termine πιϑανòν non fu coniato da Carneade, anche se questi ne è
stato il filosofo ormai consacrato. La parola πιϑανòν già possedeva
tutta una ricca storia letteraria e non solo filosofica fin dal
glorioso periodo attico13. Poi vi avevano meditato Aristotele14 e
Crisippo15, e infine Carneade, desumendo anche qui il proprio
linguaggio dalla terminologia stoica, venne a dare al πιϑανòν uno
sviluppo sorprendentemente nuovo e non ben compreso dagli stessi
continuatori del suo indirizzo, i quali sovente continuarono a
confondere probabilità e verosimiglianza. Come l’etimologia stessa
ci suggerisce, permane implicita nel termine πιϑανòν idea della
persuasione (πεìϑεìν). Questa, però, non va confusa con la
convinzione, giacché quest’ultima si appaga solo del certo, mentre
la persuasione nasce anche da un’approssimazione16. Un qualcosa è
persuasivo perché ha maggiori numeri per corrispondere al vero,
perché ha una maggiore quantità di prospettive favorevoli. Benché
Carneade non soggiacesse al matematicismo, che pur sempre circolava
come vento pitagorico nell’Accademia, il suo probabilismo non aveva
come categoria fondamentale la qualità intesa tanto come essenza
quanto come attribuzione, ma la quantità, il «per lo più», il
ripetersi delle volte, il progressivo accostamento dallo zero
all’unità, senza mai rimanere zero e senza mai raggiungere
l’unità17.
Il probabilismo non ha, perciò, molto in comune con la retorica.
Anche se quest’ultima può sfruttare la probabilità per eseguire
tutti i suoi giochi, il probabilismo rimane un fatto speculativo
nella sua essenza. E Carneade, che fu, peraltro, un oratore
consumatissimo, sul piano teoretico seguiva un orientamento diverso
dall’Aristotele della Retorica, il quale aveva fondato la topica
maior delle argomentazioni oratorie sull’eliminazione della
sostanza-qualità e sulle prospettive dischiuse da un approfondito
studio della quantità18.
Il carattere teoretico del probabilismo si evidenzia anche nella
fenomenologia Carneadea della rappresentazione probabile19. Quasi
precartesianamente20 qui il filosofo di Cirene insiste sulla
chiarezza e sulla regolarità che arricchiscono e rafforzano il
probabile; e, nel sottolineare il concorso delle varie circostanze21
che rendono possibile un accadimento, egli non fa altro se non
spingere sempre più innanzi le probabilità dallo zero all’unità,
senza mai, comunque, trasformare magicamente le probabilità stesse
in certezza. Sono numerosi, sia in Cicerone sia in Sesto Empirico,
gli esempi di ordine quantitativistico addotti da Carneade nelle sue
confutazioni non solo dele dottrine dommatiche ma anche delle
mistificazioni divinatorie22. Anzi nelle polemiche contro queste
ultime Carneade sembra annotare che gli indovini e gli altri
mistificatori, dovendosi escludere la probabilità di una rivelazione
soprannaturale, si servono artatamente anch’essi di un calcolo delle
probabilità per conseguire successo23.
Secondo Carneade la probabilità estende il suo incerto dominio in
tutta la vita umana, in tutte le naturali combinazioni e in tutti i
conati del pensiero. Nel coglierne ovunque la presenza, Carneade ne
diventa l’autocoscienza. E appunto da cio ci sembra che tragga
origine quel certo interiorismo Carneadeo che occupa quasi un posto
intermedio tra Socrate e il pensiero cristiano24. Proprio la
posizione probabilistica, con tutte le sue riserve e i suoi
imbarazzi, appare come uno dei primi tentativi di ridurre la natura
a pensiero.
Sarebbe non solo esagerata, ma indubbiamente erronea la pretesa di
scoprire già in Carneade la presenza del probabilismo scientifico
del nostro tempo che vede impegnati attualmente i più grandi
matematici e fisici25. Ma se di questo nostro probabilismo facciamo
la preistoria, se vogliamo trovare l’Adamo o il rudimentale
esemplare delle caverne, non possiamo tacere dell’intonso Carneade e
non possiamo non restare ancora oggi attratti dalle sue sottilissime
argomentazioni dialettiche e dal gioco che in queste argomentazioni
esercitano il numero, la grandezza e il «per lo più».
La presenza della probabilità si riscontra anche nel campo della
«fisica», ossia di quella filosofia della natura che, soprattutto ad
opera degli Stoici, era diventata un’unità quasi indifferenziata di
naturalismo e di feologismo, di stimolanti intuizioni scientifiche e
ci credenze ed errori popolari26. Carneade non mette in bilico il
concetto stesso di φύσις, anche se tende a scalfirlo con le sue
aporie. Più a fondo, invece, egli va nelle sue argomentazioni
anti-teologiche n polemica sia con gli Epicurei sia con gli Stoici,
ed il suo anti-teologismo, che pur non vuol essere ateismo, non può
non assumere un carattere intrinsecamente anti-religioso. Pare,
anzi, che la sorte del divino sia giocata da lui su un grosso
tavoliere dialettico, nell’incertezza che esca il Venerio o il Cane,
la Provvidenza o il Dieu Trompeur e il Malin Génie27. Sul tavoliere
del probabilismo esercitano il loro gioco la Fortuna e il Caso,
senza essere apertamente accettati come princìpi cosmici, ma senza
essere neppure respinti nel novero delle cose impossibili. Il
diverso comportamento di Carneade nei riguardi dell’indifferentismo
degli dei di Epicuro e del provvidenzialismo degli Stoici si può
paragonare ad un insidioso cambiamento di pesi sui piatti di una
bilancia, e di qui lo scandalo del carneadismo per i seguaci sia del
politeismo pagano sia del monoteismo cristiano. Anche se la tragedia
teoretica si chiudeva, forse, con impensate conciliazioni tra
Carneade e la religiosità tradizionale28, la scissione tra filosofia
e religione non veniva sanata, ma si andava profilando, tanti secoli
prima di Averroé, quel principio della doppia verità che, sulla
bilancia del probabilismo, faceva oscillare anche l’esistenza e
l’essenza del soprannaturale tra lo zero e l’unità. Carneade,
proprio in virtù del suo probabilismo, era disposto alla scommessa
come Pascal e non alla dimostrazione come Tommaso d’Aquino; ma la
sua agguerrita dialettica, con l’uso e talora l’abuso del sorite, lo
induceva più a provare la via delle opposte dimostrazioni che non
quella della scommessa. Quest’ultima presuppone la fede, come in
Pascal, mentre nella probabilità non si può nutrire una fede. Il suo
πεìϑεìν non diventa mai πιστòν29, e perciò il suo scetticismo,
mentre sembrava limitarsi, in realtà si estendeva e si ramificava.
Le antilogie fisiche, implicando concetti quali la Provvidenza e il
Fato, il determinismo e il libero arbitrio, sono già intrinsecamente
antilogie morali, anche in virtù di quella sistematicità dialettica
che fa da spinta sotterranea a tutto il pensiero di Carneade. Qui lo
scandalo già per gli antichi diventava anche più vistoso e il fiuto
contadinesco di Catone Censore sta a dimostrarlo con storica
certezza30. L’antinomia di un’etica universalistica e di un’etica
individualistica si identificava col dilemma di giustizia e
ingiustizia, di moralità e di utilità, mentre il problema del sommo
bene (τέγoς) si presentava come una scelta tra il soddisfacimento
della natura e la rottura rigoristica con quest’ultima, come aveva
proposto il più rigido Stoicismo. Con una metodologia che rimontava
pur sempre a Platone, Carneade prospettava31 una diairesis
storico-speculativa delle varie etiche possibili, avanzava anche –
ma solo exempli causa – qualche sua proposta, giacché il
probabilismo non può rinunciare al suo azzardo; ma anche in questo
settore il positivo non poteva staccarsi dal negativo. Attraverso
l’accurato esame dell’etica stoica32, Carneade era convinto
dell’interna contraddittorietà di ogni etica dommatica e normativa.
Anche se l’opzione è indispensabile nella vita ordinaria,
quest’opzione è tanto più libera quanto meno nasce dalla convinzione
e quanto più viene assunta con quella dose di rischio che deriva dal
calcolo delle probabilità. Così la tragedia teoretica non si risolve
affatto in un primato della ragion pratica, ma si ripresenta nella
scelta stessa, sfidando quasi contemporaneamente da una parte il
destino e dall’altra il caso. Perciò Carneade, che fu severo critico
dell’Epicureismo, sentiva anch’egli, al pari di Epicuro, il bisogno
di salvare il libero arbitrio, ma si guardava scetticamente
dall’’assegnare al libero arbitrio un ben preciso campo di azione.
Di qui nasceva l’imbarazzo nei suoi seguaci – da Clitomaco a
Cicerone –, i quali confessavano di non capir bene i punti più
delicati del pensiero morale di Carneade33 e si disponevano
implicitamente a staccarsi dal maestro. Se il probabilismo fosse
nato non da un’esigenza teoretica, come è nostro avviso, ma da una
semplice esigenza pratica, la filosofìa di Carneade non avrebbe
avuto, fin dall’inizio, alcuna prospettiva di successo. Invece le
perplessità e le oscurità dell’etica Carneadea nascono
dall’inappagabile bisogno di applicare il πιϑανòν alle normali
vicende dell’umana esistenza tanto nel mondo dell’individuo quanto
in quello della ormai defunta πòλις ellenica e dell’ormai
imperialistica ed universalistica urbs romana.
Che, poi, una siffatta etica – come, del resto, tutto il p»ensierc
di Carneade – suggerisse spunti per soluzioni di ordine retorico è
anche storicamente innegabile, se si considera la qualità dei suoi
continuatori fino a Cicerone. Ma tutto questo non implica affatte
che l’essenza del probabilismo debba necessariamente sconfinare nel
retoricismo, anche se il filosofo che ne fu il creatore ebbe
l’impetuosità oratoria di Demostene. Anzi, forse proprio la sua vis
oratoria nasceva non tanto dal bisogno di travolgere le altrui
posizioni, quante da quello di nascondere il proprio umano disagio
di pensatore.
Nella raccolta delle testimonianze ho preferito non spezzare il
discorso sulla bocca degli autori che ce le hanno trasmesse, pur
essendo consapevole che, accanto a quello che con una certa
sicurezza si può attribuire al filosofo di Cirene, ci sono tante
altre cose che gli autori hanno aggiunto di proprio. Né si sarebbe
potuto fare altrimenti per rendere leggibili le numerose
testimonianze e per evitare di operare una quasi totale distruzione
del pensiero Carneadeo34. Anzi gli stessi tagli che, per evitare
lungaggini, sono stato indotto ad eseguire, mi sembrano talora
irriguardosi e molesti.
Il βíoς Carneadeo di Diogene Laerzio è, sotto il profilo
dossografico, ancora più insufficiente di quello arcesileo. Sebbene
da esso balzi molto viva la personalità e l’irruenza di Carneade,
anche le notizie biografiche lasciano molto a desiderare: basta
rilevare che alla celeberrima ambasceria romana del 155 a. C. non si
fa il benché minimo accenno35.
Il ritratto che di Carneade ci ha lasciato Numenio è di
straordinaria e quasi cupa efficacia36. Oltre a biasimare il
pensiero di Carneade per la sua estrema infedeltà verso Platone,
Numenio mette in pessima luce la quasi diabolica abilità del
filosofo-retore nel condurre la sua lotta anti-dommatica facendo
ricorso ad ogni mezzo lecito o illecito. Carneade viene presentato
sostanzialmente come sofista ed erista e la sua trascinante
eloquenza è l’espressione calliclea di una volontà di potenza
intellettuale. Ma tanta eloquenza, con tutta la sua speciosità ed i
suoi trucchi, serve solo a nascondere una vera e propria nullità
speculativa. Numenio, però, sa anche esporre con stringatezza i lati
essenziali del pensiero di Carneade e non viene meno, anche in
questo caso, al suo solito acume.
Ancora più importanti sono le testimonianze Carneadee di Sesto
Empirico che abbiamo desunte dalle Ipotiposi pirroniano, da Contro i
logici e da Contro i fisici37. Da questi passi si evince non solo
l’eccezionale potenza speculativa di Carneade, ma anche il
delinearsi netto di quella sistematicità dialettico-scettica che
verrà, pur con impostazioni diverse, continuata, emendata ed
arricchita da Enesidemo. Sesto non accetta la posizione
probabilistica, ma non se ne adonta affatto: degno emulo di Carneade
per doti dialettiche, l’Empirico, anche quando acutamente critica il
filosofo della Nuova Accademia, ne ammira e ne riporta con vivacità
non solo le linee essenziali del pensiero, ma anche la ricchezza dei
particolari e degli esempi. Sesto, insomma, sebbene miri a
contrapporre un suo scetticismo a quello di Carneade (come, del
resto, anche a quello di Enesidemo), in realtà, come abbiamo altrove
notato38, in certi momenti cruciali si rifugia anche lui su
posizioni difensive di ordine probabilistico.
Per quanto concerne Plutarco39, ci siamo limitati solo a qualche
brano ed a diverse citazioni di sostegno a testimonianze riportate
da altri autori, non perché ne sottovalutassimo l’importanza, ma per
non accrescere la mole del volume.
Infine le testimonianze lasciateci da Cicerone hanno
quantitativamente il sopravvento su tutte le altre. Con Carneade
Marco Tullio si sentiva a casa propria tanto come filosofo quanto
come oratore! Se dalla fonte sestiana si coglie con acutezza la
complessa ed originale sistematicità del carneadismo, dalle
abbondanti fonti ciceroniane questa sistematicità viene toccata con
mano in tutti i minimi dettagli, come si riscontra soprattutto nel
De natura deorum40 e nel De divinatione41. Per quanto, però, si
attiene alla logica di Carneade, il Lucullus42. come già abbiamo
notato a proposito di Arcesilao – si estolle su tutto il resto e
rivaleggia quasi, per certi insospettabili slanci speculativi, con
gli scritti di Sesto Empirico. Ma anche dallo studio di questo
scritto felicissimo sorgono le domande: quanto c’è di Carneade?
Quanto di Filone o di Antioco? Quanto dello stesso Cicerone non solo
per l’immancabile ornatus, ma anche nei contenuti? Presso a poco
identiche sono le perplessità – anche nei tagli da noi
chirurgicamente operati – che si presentano sia nel De fato43 sia
nel De finibus bonorum et malorum44 (ricchissima rapsodia di tutta
l’etica ellenistica) sia nelle Tusculanae disputationes45. Nel
riportare, infine, alcuni passi del frammentario terzo libro del De
republica46 con le pur discusse e ancora discutibili inserzioni
lattanziane, abbiamo preferito rispettare la dispositio ciceroniana
che antepone la difesa dell’ingiustizia a quella della giustizia per
smussare, romanamente, la pericolosità della dispositio contraria,
quale, cioè, era stata fatta da Carneade durante il soggiorno
romano. Ciò non per recar torto a Carneade, ma per accontentare il
buon pacificatore Marco Tullio!
Dal notevole insieme delle testimonianze, lette e meditate cum grano
salis, si dovrebbe evincere tutta la complessità e tutta la
straordinaria ricchezza del pensiero di Carneade sia nel discutere i
massimi problemi della filosofia sia nel far sentire la presenza di
questi problemi finanche nei momenti più banali della nostra
esistenza. Emulo anche qui di Crisippo, che scrisse oltre settecento
opere, Carneade, che non ne volle scrivere nemmeno una, mostra di
possedere le più autentiche doti di filosofo che, con aristotelica
circolarità, medita su Dio e sui rifiuti, sulFimmensamente grande e
sull’immensamente piccolo e, alla fine, staccandosi da Aristotele e
da Crisippo, non intende prospettare alcuna soluzione, ma soltanto
far presente che ogni soluzione è sempre approssimativa e si presta
ad essere sottoposta a discussioni interminabili e appassionate.
1. Cfr. DIOG. LAERT. IV, 62; GOEDECKEMEYER, Geschichte des
griechischen Skeptizismus, pp. 51 segg.; POHLENZ, La Stoa, I, p.
349; DAL PRA, Lo scetticismo greco, p. 168. Che Carneade sia
stato discepolo di Diogene di Babilonia, allievo diretto di
Crisippo, è detto in Cic. Lucill. XXX, 98.
2. Cfr. CIC. XII, 46. Che Carneade sia stato piuttosto debole nella
parte «fisica» della filosofia (DIOG. LAERT. IV, 62) sembra da
escludere, quantunque sia esagerato attribuirgli la dettagliata
critica delle principali nozioni fisiche e considerarlo quale fonte
principale di buona parte dei trattati Contro i fisici di Sesto
Empirico, come fa il Pohlenz (La Stoa, I, p. 350, n. 23). Stra-bone
(XVII, 3, 22) considerava Carneade il più preparato di tutti gli
Accademici.
3. Carneade ottenne lo scolarcato solo alcuni anni prima della
celebre ambasceria a Roma del 155 a. C. e forse intorno al alla
morte di Egesino (GALEN. Hist. phil. 3), se dobbiamo intendere che
Clitomaco divenne suo allievo mentre egli dirigeva la scuola (cfr.
Acad. phil. ind. here, XXV, 4). Ormai quasi ottantenne egli affidò
la scuola, nel 137, a Carneade II, figlio di Polemarco, dopo che
Clitomaco ebbe fondato una sua scuola sul Palladio (Acad. phil. ind.
here, XXV, 8).
4. Cfr. DIOG. LAERT. IV, 62. Seguendo Valerio Massimo (Vili, 7, 5),
Gellio (XVII, 15, 1) tramanda che Carneade, nell’accingersi a
scrivere (forse a parlare) contro i libri di Zenone, si purificava
la mente e le parti superiori del corpo con l’elleboro bianco.
5. Cfr. DIOG. LAERT. IV, 64; CREDARO, Lo scetticismo degli
Accademici, I, p. 152.
6. Cfr. DIOG. LAERT. IV, 67. Anche Zenone di Alessandria (Acad.
phil. ind herc., col. XXII) presentò per iscritto in varie opere il
pensiero del maestro.
7. La distinzione, che rimonta allo Zeller (Die Philosophie der
Griechen, IV, p. 504, 3aAuf.), è stata ripetuta dal Maccoll (The
Greek Sceptics, p. 42), dal Brochard (Les sceptiques grecs, pp. 127,
182) dalla Stough (Greek Skepticism, pp. 35 segg.) dal Long
(Hellenistic philosophy, p. 96). Per la non esistenza di una pars
construens sono il Couissin (Le stoicisme de la nouvelle Académie,
pp. 259-68), e il Robin (Pyrrhon et le scepticisme grec, p. 99). Per
una posizione di attesa è, infine, il Dal Pra (Lo scetticismo greco,
pp. 281-3), che pur mostra maggiore propensione per una risposta
negativa. Come ci tramanda Stobeo (Eel. II, c. II, 23 = fr. 42
Wisniewski), Carneade «diceva che i dialettici somigliano al polipo:
quest’ultimo, infatti, divora i tentacoli quando sono troppo
cresciuti; così anche essi capovolgono le loro stesse posizioni
quando la propria potenza si spinge troppo in avanti».
8. Cfr. ARNIM, Karneades, in «RE», X, 2, col. 1965. L’eloquenza
Carneadea, che fu celebrata da seguaci, da ammiratori e da avversari
di tutta l’antichità (cfr., tra l’altro, GELL. VI, 14, 8), dovette
essere anche il risultato di accurato tirocinio presso le scuole di
retorica: ma di questo tirocinio non sappiamo nulla.
9. Secondo Galeno (De opt. doctr. II, 45), Carneade avrebbe negato
il principio matematico che due grandezze uguali ad una terza sono
uguali tra loro. Ciò, comunque, non vuol dire che Carneade passasse
all’attacco anche del principio di identità, come farebbe supporre
il Brochard (Les sceptiques grecs, p. 132) e tanto meno di quello di
non-contraddizione, di cui egli si serviva in particolare contro la
gnoseologia epicurea. Solo per salvare il libero arbitrio egli
avrebbe ammesso, in linea del tutto ipotetica, l’abbandono di quel
principio e avrebbe dato ragione persino ad Epicuro, che
virtualmente lo annulla negando che ogni enunciazione è o vera o
falsa (cfr. CIC. De fato X, 21).
10. Così si esprime con molta efficacia il Robin (Pyrrhon et le
scepticisme grec, p. 59).
11. CIC. CIC. Lucull. XV, 47-48; SEXT. EMP. Adv. log. I,
159-164.
12. Cfr. CIC. Lucull. X, 32. Per una valutazione quasi entusiastica
di questa posizione cfr. BROCHARD, Les sceptiques grecs, pp.173-5.
13. Cfr., fra l’altro, THUC. III, 38; IV, 21; VI, 35; EURIP. Ovest.
906; PLAT. Gorg. 479c; 458e segg.; Tim. 51e; XENOPHON. Mem. 10, 3.
14. Generalmente negli scritti aristotelici il termine
πιϑανóν(credibile, probabile, persuasivo) viene usato come sinonimo
di ε óς(verosimile) soprattutto in sede retorica e poetica (cfr.
Rhet. I, 1356b 4, 1357a 34, 1402b 13; Poet. 9, 1481a 36; An. Pr. II,
27, 70a 3. Per quest’ultimo passo, ove si stabilisce la netta
distinzione tra eutimema e sillogismo cfr. Aristotle’s Prior and
Posterior Analitics by W. D. Ross, Oxford, 19653, pp. 499-500).
Forse fu proprio l’autorità di Aristotele a influire sulla
confusione post-Carneadea tra «probabile» e «verosimile». Anche il
grande Agostino (Contra Acad. II, II, 26; 5, 11-12; 12, 28 e
altrove), nonostante qualche felice tentativo di introdurre una
distinzione, non si sottrae a questa influenza che su di lui era
esercitata soprattutto dalla sua fonte principale: Cicerone.
15. Crisippo, come ci tramanda Diogene Laerzio (VII, 199-200),
scrisse almeno quattro opere aventi per tema il probabile: Giudizi
probabili ipoteticamente congiunti in libri, Premesse probabili alla
dottrina etica in libri, Probabilità in sostegno delle definizioni
in 2 libri, Argomenti probabili a favore delle classificazioni in un
libro. Crisippo definiva il giudizio probabile come «quello che
induce all’assenso; ad esempio “chiunque ha generato una cosa ne è
madre”. Questo, tuttavia, non è necessariamente vero., giacché la
gallina non è madre dell’uovo» (DIOG. LAERT. VII, 75). Inoltre egli
distingueva il giudizio probabile da quello possibile o impossibile,
necessario o non necessario (Stoic, vet. frag. II, 201 Arnim),
ammoniva che non bisogna accettare a casaccio le argomentazioni
contrarie né andare incontro alle probabilità contrarie (cfr.
PLUTARCH. De Stoic, rep. 10, 1036f) e non considerava la
rappresentazione probabile come causa dell’assenso, giacché essa è
causa anche di una supposizione falsa e, quindi, dell’errore (cfr.
ibid. 47, 1055f. In sede etica, se da una parte la persona
moralmente seria ha, tra i diversi requisiti, anche quello di essere
persuasiva [πιϑανóς] (STOB. Eel. II, 108, 5 W) dall’altra si
riscontra una persuasività [πιϑανóτης] delle cose esterne che induce
alla perversione, mentre la natura ci offre solo stimoli sani (DIOG.
LAERT. VII, 69). Secondo Crisippo le perversioni vengono prodotte
dalla persuasività delle rappresentazioni e dalla ατηχήσις ossia
dall’insegnamento che ci viene somministrato mediante una erronea
pedagogia (GALEN. De Hipp, et Plat. decr. V, 5, 165; circa la
provenienza platonica di questa concezione etico-pedagogica di
Crisippo cfr. POHLENZ, La Stoa, I, pp. 251 segg.). Dai vari luoghi
ora ricordati (cfr., rispettivamente, Stoic, vet. frag. II, 13, 201,
271, 65, 994, 630, 228, 229a Arnim) si evince che Crisippo, già
prima di Carneade, aveva condotto un’accuratissima disamina del
πιϑανóν tanto sul piano della logica quante su quello della prassi.
Carneade seppe cogliere la palla al balzo.
16. Cfr. COUISSIN, Le stoicisme de la nouvelle Académie, pp. 264-7;
DAL PRA, Lo scetticismo greco, pp. 277-9.
17. Girolamo Cardano, che formulò l’assioma fondamentale della
moderna «teoria della probabilità» sostenendo che la probabilità di
un evento è il rapporto tra il numero dei casi favorevoli a tale
evento e il numero totale dei casi possibili in cui tutti hanno
uguale peso e verosimiglianza, dovette tener presenti, nello
scrivere il suo Liber de ludo aleae, almeno i vari passi ciceroniani
di chiara ispirazione Carneadea (cfr., tra l’altro, A. KOESTLER, A.
HARDY, R. HARVIE, La sfida del caso, trad, it., Roma, 1974,
pp.117-8).
18. Rinvio a quanto ho osservato in La filosofia della retorica in
Aristotele, pp. 81-91.
19. Cfr. SEXT. EMP. Pyrrh. hyp. I, 227-229; Adv. log. I, 166-189.
20. Lo Hegel (Lez. sulla St. della Fil., II, p. 498) vedeva nei
gradi della rappresentazione probabile di Carneade «su per giù quei
gradi che il Wolf chiama rappresentazione chiara, distinta e
adeguata».
21. Osserva acutamente la Stough (Greek Skepticism, pp. 57-8): «The
suitability of the criterion employed depends on the circumstances
of the perceptual utterance. As experience is subjected to more
tests, our statements carry increasingly more weight; no limit is
placed by Carneades on the am-mount of testing that may be
necessary… Since there is no absolute criterion of truth, the
Academic will not give unqualified assent to any perceptual
statement, though he will give a qualified assent [cfr. Cic. Lucull.
XVIII, 59; XXXII, 104; SEXT. EMP. Pyrrh. hyp. I, 230; Adv. log. I,
177-178]. The stronger the support, the stronger his conviction».
C’è, però, di che rammaricarsi che questi spunti quantitativistici
della Stough non abbiano avuto un adeguato sviluppo al pari di
quelli psico-epistemolologici.
22. Ci limitiamo a ricordare SEXT. EMP. Adv. log. II, 171 segg., 181
segg., 409 segg,; Cic. De divin. II, V, 12 segg.; VI, 15 segg.; XII,
28 segg.; XIII, 30; XV, 35; XVII, 38; XXI, 48; XXII, 49; XXVII, 58;
XXVIII, 61; XXXIX, 81-83; XLV, 94; LVI, 116; LIX, 121; LX, 175;
LXIII, 129; De fato VII, 13; Lucull. XXXI, 100.
23. «Nous sommes tous probabilistes, vous et moi, savants et
ignorants; nous le sommes en tout, excepté en mathématiques et en
matière de foi. Dans les autres sciences et dans la vie, nous nous
conduisons en disciples inco-scients de Carnèade», annotava M.
Martha (Le phüosophe Carnéade à Rome) in risposta alle severe
critiche antiCarneadee che erano in voga in età di fede
positivistica già prima che M. B. Thamin pubblicasse il suo scritto
Un problème moral dans l’antiquité (Paris, 1884). E il Brochard (Les
sceptiques grecs, pp. 164, 178 segg.) era d’accordo col Martha.
24. Lo Hegel (Lez. sulla St. della Fil., II, pp. 492-4), ricordando
le antilogie sulla giustizia, parlava di una «corruzione
inarrestabile del pensiero» e assegnava al filosofo di Cirene l’alto
merito filosofico di aver iniziato l’esame della «natura della
coscienza», essendo disposto a considerare l’intelletto «come
rapporto ultimo e del tutto assoluto» ed a rivendicare l’«energia
del soggetto cosciente» nello sforzo di determinarsi
[Bestimmtwerden] al di fuori e al di dentro di sé. In ciò lo Hegel
era stato acutamente preceduto da chi, tanti secoli prima, aveva
fatto molta esperienza della posizione neo-accademica, da Agostino
(cfr., in particolare, De Trin., X, capp. 5-9) e sarebbe stato
seguito, pur se in chiave soprattutto psicologistica, dagli studiosi
moderni (cfr. BROCHARD, Les sceptiques grecs, pp. 137 segg.;
POHLENZ, La Stoa, I, p. 349; STOUGH, Greek Skepticism, p. 47; LONG,
Hellenistic philosophy, pp. 97-8).
25. Si ricorderà che, dopo lo scritto sul giocc dei dadi del
Cardano, il moderno concetto di probabilità andò sempre più
enucleandosi nel Ragionamento sul gioco d’azzardo dello Huygens,
nell’Ars conjectandi del Bernoulli, nella teoria del buon senso
ridotto a calcolo del Laplace, fino a quella schrödingeriana
dell’ordine nel disordine e a quella del nesso «tra l’evento singolo
irriproducibile e imprevedibile e la prevedibilità e l’uniformità
degli eventi multipli» (cfr. HARVIE, Probabilità e serendipità in La
sfida del caso, cit., p. 122). Per un quadro succinto e preciso del
probabilismo moderno vedasi la voce Probabilità in N. ABBAGNANO,
Dizionario di Filosofia, Torino, 1961, pp. 679-82.
26. Per i rapporti Carneade-Stoa in sede di filosofia della natura
vedasi soprattutto A. SCHMEKEL, Die positive Philosophie in der
geschichtlichen Entwicklung, I, pp, 331 segg., 350 segg., 375 segg.,
464 segg., 483 segg.
27. Cfr., tra l’altro, A. VERDAN, Le scepticisme philosophique, p.
25.
28. L’imprevista conclusione del De natura deorum di Cicerone, il
quale si dichiara propenso ad accettare le dottrine stoiche, e
l’attenuarsi della polemica del De Fato rimasto incompiuto (e come
mai poteva trovare una conclusione?) fanno pensare a quei tanti
mutamenti di rotta con i quali procedeva il discorso acuto e
paradossale di Carneade (cfr. NUMEN, apud Euseb. Praep. ev. XIV, 8,
737d=fr.27, 24 segg des Places).
29. La tragica antinomia era stata potentemente rivissuta e
rappresentata da Sofocle (cfr. M. UNTERSTEINER, Sofocle, I, Firenze,
1935, soprattutto pp. 572-96).
30. Secondo il Croissant (La morale de Carnèade, «Revue des études
grecques», 1941, pp. 43-57), l’impostazione antilogistica del
problema della giustizia era non aporética, ma addirittura cinica.
31. Cfr. CIC. De fin. V, VI, 16 segg.
32. Nel prospettare la «misera felicità dei filosofi» Agostino (De
Trin. XIII, 7) colpiva, ancora una volta, l’etica stoica
ispirandosi, attraverso le testimonianze ciceroniane, a Carneade.
33. Cfr. CIC. Lucull. XLV, 138-139. l’origine della concezione
occidentale della volontà è posta nella filosofia neo-accademica da
E. Benz (Marius Victorinus und die Entwicklung des Abendländischen
Willensmeiaphysik pp. 346 segg.) e da A. Weische (Cicero und die
Neue Akademie, pp. 47-50)
34. Così purtroppo è avvenuto nella raccolta di B. Wisniewski
(KARNEADESFragmente, Text und Kommentar, Warzawa, 1970), ove pare,
per altro, che numerosissimi errori, già autorevolmente rilevati
(cfr. M. GIGANTE, in «La parola del passato», 1971, pp. 380-1),
siano dovuti anche alle non liete condizioni di lavoro che rendono
comunque apprezzabile lo sforzo dello studioso.
35. La notizia più ampia ci è stata conservata da Plutarco (Cato
maior 22-23), che è stata qui tradotta dal testo bekkeriano
(Lipsiae, 1855-57) e utilizzando l’edizione del Perrin
(London-Cambridge Mass., 1959).
36. La traduzione è stata eseguita sul testo del des Places (Paris,
1973, fr. 26, 103-115 e fr. 27), che non differisce da quello del
Mras.
37. Per Pyrrh. hyp. mi sono attenuto, come altrove, all’edizione
teub-neriana del Mau; di Adv. log. ho riportato la mia traduzione
laterziana del 1975; i passi di Adv. phys. sono stati eseguiti sul
testo del Mutschmann (Lipsiae, 1914); di grande aiuto mi è stata
l’edizione del Bury (London-Cambridge Mass., 1960).
38. Cfr. SESTO EMPIRICO, Contro i logici, pp. XLIII-XLIV.
39. Per le opere anti-stoiche di Plutarco mi sono rifatto
soprattutto al testo di Pohlenz riveduto dal Westmann (Lipsiae,
1969).
Scettici antichi.
40. La traduzione dei brani del De nat. deor è stata eseguita
sul testo del Plasberg (Lipsiae, 1930), ma di grande utilità mi è
stata l’edizione del Rackham con la splendida traduzione inglese
(London-Cambridge Mass., 1967).
41. I passi del libro secondo del De divin, sono stati tradotti dal
testo del Müller (Lipsiae, 1903), ma di valido ausilio sono stati i
suggerimenti di V. E. Marmorale (Milano, 19462).
42. Per venire incontro al lettore elenchiamo i passi del Lucullus
di più chiara ispirazione Carneadea: X, 31-32; XVII, 54 per la
distinzione tra incomprensibile e incerto; XIII, 42 per la
metodologia adottata da Carneade nella polemica anti-stoica; XV,
47-48 per la fallacia della rappresentazione apprensiva; XXVII, 88
per le obiezioni stoiche alla critica Carneadea e per le
contro-obiezioni di Carneade; XXVIII, 89-90 per i soriti di Carneade
in merito alla rappresentazione apprensiva; XXVIII-XXIX, 91-95 (per
cui cfr. SEXT. EMP. Pyrrh. hyp. II, 236-237) per la povertà, per
l’incompetenza e per la contraddittorietà della dialettica;
XXIX-XXX, 95-98 per l’uso di argomentazioni eristiche e in
particolare per lo pseudomenon; XXXII, 102-103 per l’inconoscibilità
del falso; XXXVI, 116 per la critica alla dimostrazione; XXXVI-XLI,
114-128 per la critica della cosmologia stoica; XXXVIII, 120-121 per
la critica della teologia stoica; XLV, 138-139 per le varie
possibilità di concepire il sommo bene; XLVIII, 148 per il rapporto
tra assenso e inconoscibilità. Il concetto di πιϑανóν in relazione
alla vita umana e alla opinione-persuasione è svolto in XXX, 104.
43. La traduzione è stata eseguita sul testo di A. Yon (Paris,
1944). Pregevolissima è l’ampia introduzione dello studioso francese
anche sotto il profilo speculativo.
44. La traduzione dei passi del De fin. è stata eseguita sul testo
mülleriano (Lipsiae, 1904), ma di valido ausilio è stata l’edizione
del Rackham (London-Cambridge Mass., 1967).
45. Per i passi delle Tusc. disp. mi sono attenuto all’edizione di
H. Drexler (Milano, 1964), ma di grande utilità è stata anche quella
di J. E. King (London-Cambridge Mass., 1971).
46. I passi del De rep. sono stati tradotti dall’edizione dello
Ziegler (Leipzig, 1960), ma di grande utilità è stata anche quella
del Giannelli (Firenze, 1954).
Vita di Carneade (DIOGENE LAERZIO, IV, 62-66)
Carneade, figlio di Epicomo, o – come dice Alessandro nelle sue
Successioni1 – di Filocomo, era nativo di Cirene.
Egli lesse accuratamente i libri degli Stoici, 〈specialmente2〉
quelli di Crisippo, e li contraddiceva in modo così pertinente e si
esprimeva in maniera così brillante da giungere alla celebre
conclusione: «Se Crisippo non ci fosse stato, non ci sarei
neanch’io»3.
Era un uomo che amava il lavoro quant’altri mai, ma era meno portato
per gli studi di fisica e più portato per quelli di etica4. E per
dedicare tutto il suo tempo alle indagini si lasciava crescere le
chioma e non si tagliava neppure le unghie!5 Seppe imporsi con tanta
forza nella sua attività filosofica che anche i retori se ne
uscivano dalle loro scuole e si recavano da lui per ascoltarlo.
Aveva anche una voce altisonante, talché il ginnasiarca lo ammoniva
di non gridare tanto forte; ma egli rispondeva: «Dà tu, allora, una
misura alla voce!»; e quello prese bene la palla al balzo e ribatté
dicendo: «Come misura tu hai gli ascoltatori!»6
Quando biasimava, era tremendo, e nei dibattiti era imbattibile. Per
i motivi suddetti egli rifiutava gli inviti a pranzo.
Una volta Mentore di Bitinia, che era suo allievo, si era recato
alla sua lezione dopo aver fatto la corte alla concubina del
maestro, come narra Favorino nella sua Storia varia7. Allora
Carneade fece entrare nel mezzo del discorso i seguenti versi e
glieli spiattellò in tono di parodia:
Va qui aggirandosi un vecchio marino che mai cade in fallo;
A
Mentore egli è somigliante nel corpo e persin nella voce8:
Costui
dal nostro istituto che venga bandito io comando!9
E Mentore si levò in piedi e soggiunse:
E gli uni davano annunzi e gli altri adunavansi in fretta10.
Pare che egli si sia mostrato un po’ troppo pavido di fronte alla
morte, dal momento che non si stancava di dire: «La natura che ha
composto sarà anch’essa a dissolvere». Venuto, però, a sapere che
Antipatro11 si era data la morte con un veleno, si sentì spronato a
lasciare la vita con coraggio e disse: «Datelo anche a me!». Ma
poiché quelli chiesero «Che cosa?», Carneade rispose: «Vino con
miele!».
Si tramanda che, mentre egli stava morendo, ci fu un eclisse di
luna12: si sarebbe detto che il più bell’astro del cielo dopo il
sole intendesse significare che stava soffrendo insieme con lui.
Dice Apollodoro nelle Cronache13 che Carneade si staccò dagli uomini
nel quarto anno della 162a Olimpiade14, dopo esser vissuto
ottantacinque anni15.
Si tramandano di lui lettere ad Ariarate, re della Cappadocia16.
Tutte le altre sue cose le hanno tramandate per iscritto i suoi
allievi: egli personalmente non ha lasciato alcun’opera scritta.
C’è anche per lui un mio componimento in metro logaedico e
archebuleo17
Che vuoi, che vuoi, o Musa,
Che contro Carneade io dica?
Ciuco è davver chi ignora
La grossa paura ch’egli ebbe
Di morte. Egli soffriva
Il male di tutti peggiore,
La tisi! Ma temette
Di farla finita: udì poi
Che Antipatro un veleno
Bevve e alla vita si spense,
E «Date qualcosa – disse –
Da bere anche a me». «Ma che cosa?»
Chiese qualcuno; ed egli
«Vino col miele!». Suo detto:
«Natura mi fece:
Sarà pur essa a disfarmi».
Comunque egli andò sotto
La terra, quantunque potesse
I guai peggiori scansare
Facendo un bel salto nell’Ade.
Si dice anche che di notte gli occhi gli si illanguidirono nella
cecità e che egli non se ne accorse, ma comandò al garzone di
accostargli un lume. Quello glielo portò e disse: «Te l’ho portato».
Allora Carneade ribatté: «Mettiti a leggere tu!».
Molti altri furono i suoi allievi, ma Clitomaco fu il più famoso: di
lui dobbiamo ancora parlare.
C’è stato, comunque, anche un altro Carneade, frigide compositore di
elegie.
1. Fr. 30 Jacoby = 144 Müller. Per Alessandro Polistore, fiorito
nella prima metà del I sec. a. C, vedasi DAL PRA, La storiografia
filosofica antica, pp. 189-91. Secondo Plutarco (Quaest. conv. VIII,
1, 2) Carneade sarebbe nato nello stesso giorno di Platone, ossia
durante le feste carnee.
2. L’aggiunta è del Cobet. Secondo Cicerone (Lucull. XXX, 98)
Carneade imparò la dialettica dallo stoico Diogene di Babilonia.
3. Carneade modificava in questo modo il verso: «Se non ci fosse
Crisippo, neppur ci sarebbe la Stoa» (cfr. DIOG. LAERT. VII, 183;
PLUTARCH. De Stoic, rep. X, 4). Secondo Plutarco (De Stoic, rep. 10,
1636b) Carneade, nel muovere all’attacco contro Crisippo, soleva
ripetere a sé stesso e a chi volesse imitarlo, le parole di
Andromaca ad Ettore (II. V, 407): «O sventurato, il tuo valore ti
perderà».
4. Dopo la svolta arcesilea e col ritorno al socratismo, si
acutizzava il bisogno di polemizzare contro i «fisici»: perciò,
piuttosto che di disinteresse per le indagini fisiche, si trattava
di opposizione ad esse. Cicerone (Varro XII, 46) ci assicura che
Carneade conosceva bene ogni «parte» della filosofia. La «vis
incredibilis illa dicendi» del filosofo è celebrata in CIC. De or.
I, XI, 45, 49; II, XXXVIII, 161; III, XVIII, 68; XIX, 71; XXI, 80;
XXXVI 147; Lucull. XVIII, 60.
5. Per la laboriosità di Carneade cfr. VAL. MAX. VIII, 7, 5.
6. Cfr. PLUTARCH. De garrul. 21, 513c-d.
7. Fr. 67 Barigazzi.
8. HOM. Od. IV, 384; II, 268, 401.
9. Il verso è una parodia di SOPHAnt.203.
10. HOM. II. II, 52, 444; Od. II, 8.
11. Si tratta di Antipatro di Tarso, il quale continuò la polemica
antiaccademica del suo maestro Crisippo (cfr. Stoic, vet. frag. III,
7 Arnim) e che non sapeva resistere all’eloquenza terribile di
Carneade. A proposito della battuta di quest’ultimo, Stobeo (Flor.
119, 19) ci dice qualcosa di sostanzialmente diverso e di più
conforme al wit di Carneade: «Quando Antipatro si fu ucciso,
Carneade, ormai vecchio, mescolò due coppe, l’una di cicuta e
l’altra di vino mielato. Dopo aver detto di libare quella con la
cicuta agli altri Stoici, egli bevve l’altra col vino mielato,
scherzando sulla serietà di quelli che si danno la morte
volontaria». l’attaccamento di Carneade alla vita è confermato in
PLUTARCH. De tranq. anim. 19.
12. La notizia è anche riportata in Suida (voce Kαρνεδης) ove si
parla pure di un oscuramento del sole.
13. Fr. 51 Jacoby.
14. Ossia nel 129-8 a. C.
15. La notizia è confermata in Ps. LUCIAN. Macrob. 28; invece
Cicerone (Lucull. VI, 16), Valerio Massimo (VIII, 7, 5) e Censorino
(De die nat. XV, 3) fanno morire Carneade all’età di novant’anni.
16. Il Credaro (Lo scetticismo degli Accademici, I, p. 152) mette in
dubbio l’autenticità di questa corrispondenza. Plutarco (De Alex.
fort. 4, 2, 328a) pone Carneade con i più celebri filosofi che non
scrissero nulla: Pitagora, Socrate ed Arcesilao.
17. Anth. Plan. V, 39.
L’ambasceria a Roma (PLUTARCO, Cato Maior, 22-23)
Quando Catone era ormai in età avanzata1, vennero a Roma come
ambasciatori da Atene l’accademico Carneade e il filosofo stoico
Diogene2 per chiedere l’annullamento di un provvedimento giudiziario
preso ai danni degli Ateniesi, i quali dovevano pagare in contumacia
una multa di cinquanta talenti a seguito di un’accusa sollevata
dagli Oropi e convalidata da una condanna da parte dei Sicionii3.
In quell’occasione i giovani romani che maggiormente amavano la
cultura si precipitavano su quei due uomini e si accalcavano pieni
di ammirazione intorno a loro per ascoltarli. In particolar modo la
grazia di Carneade, che possedeva un grandissimo potere e godeva di
una fama non inferiore a questo potere, riuscì a conquistare un
vasto pubblico di ascoltatori simpatizzanti e riempì la città di
fragore come una raffica di vento4. E si diffuse la voce che un uomo
dell’Eliade, superdotato di ingegno sbalorditivo, incantando e
soggiogando ogni cosa, aveva suscitato nei giovani un terribile
fascino, a causa del quale essi avevano disertato ogni altro piacere
e divertimento e, come invasati, si davano alla filosofia.
Di questo evento erano lieti gli altri Romani e vedevano con piacere
che i loro ragazzi acquisissero la cultura ellenica e frequentassero
uomini tanto stupendi. Catone, invece, fin dal primo momento si
adontò che lo zelo per le dispute filosofiche si diffondesse per la
città come un acquazzone: egli temeva che i giovani, volgendo le
loro ambizioni in questo senso, amassero la gloria delle parole più
di quella derivante dalle azioni e dalla milizia. Quando, poi, la
fama di questi filosofi avanzava nella città e i loro primi discorsi
in senato ebbero come interprete addirittura Gaio Acilio, un uomo di
specchiata reputazione, che si era personalmente premurato di
chiedere questa incombenza, Catone decise di usare ogni pretesto per
sfrattar via dalla città tutti quanti i filosofi. Si presentò in
senato ad esprimere il suo biasimo ai magistrati perché veniva
trattenuta per lungo tempo una legazione inoperosa e composta da
uomini che facilmente potevano indurre la gente a qualunque cosa
volessero. E la sua conclusione fu che bisognava prendere al più
presto una decisione e mettere ai voti le proposte degli
ambasciatori, affinché costoro potessero far ritorno alla loro
scuola e dialogare con i figli degli Elleni, mentre i giovani Romani
dessero ascolto alle leggi e ai magistrati, come facevano prima.
Egli si comportò così non per risentimento personale nei riguardi di
Carneade, come pur credono alcuni, ma per una totale avversione
contro la filosofìa e per quel disprezzo verso tutta Tarte e la
cultura ellenica che gli era suggerito dalla sua fierezza.
Affermava, del resto, che Socrate era un ciarlone e un prepotente,
che aveva tentato di tiranneggiare la città nella maniera che gli
era possibile, ossia dissolvendo i costumi e subornando i cittadini
e trascinandoli verso modi di pensare che sono contrari alle leggi5.
1. Nel 155 a. C. Catone era quasi ottantenne. Per più ampi ragguagli
su questa missione di Carneade è ancor valido, pur col suo tono
apologetico, C. MARTHA, Le philosophe Carnèade à Rome. Il
POHLENZ (La Stoa, I, p. 359) sottolinea l’assenza del
rappresentante della scuola epicurea. Una ricostruzione esauriente
dell’episodio storico-culturale è stata fatta dal Brandis in «RE»,
I, coll. 183 segg. Le altre principali fonti antiche sono Acad.
phil. ind. herc., col. XXII, 20-35; CIC. De or. II, 37, 154 segg.;
Tusc. IV, III, 5; Lucull. XLV, 137; PLIN. Nat. hist. VII, 30;
PAUSAN. VII, 11; Aul. Gell. VI, 14, 8-19; XVII, 21, 46-48; AELIAN.
Var. hist. III, 17, 14; MACROB. Saturn. I, 5, 13. l’anno preciso era
riportato anche negli Annales di T. Pomponio Attico (cfr. CIC. Ad
Att. XII, 23, 2). Ricordi dell’ambasceria riecheggiano ancora in
Temisto (De princ. 34, 475, 6 Schneider) e in Simmaco (Ad Theodos.
X, 25).
2. Stoic, vet. frag. III, 7 Arnim. Si tratta di Diogene di
Babilonia. Plutarco non fa qui alcuna menzione del peripatetico
Critolao (cfr. WEHRLI, Die Schule des Aristoteles, Heft. X, pp.
49-51, 63-4).
3. Più ampie notizie sulla contorta vicenda, che ancora una volta
scaturiva da misere beghe municipalistiche, sono in PAUSAN. VII, 11
segg.
4. Per questi effetti sconvolgenti della vis dicendi di Carneade
cfr. NUMEN., apud Euseb. praep. ev. XIV, 8, 737c = fr. 27, 6-13
des Places. Anche Filostrato (Vitae soph. I, 4), al pari di Numenio,
pone Carneade tra i Sofisti, giacché egli «sebbene avesse dato al
suo pensiero una preparazione filosofica, tuttavia spingeva la forza
delle sue argomentazioni ad un eccessivo grado di irruenza
oratoria».
5. A proposito dell’atteggiamento di Catone contro la penetrazione a
Roma della filosofia, lo Hegel (Lez. sulla St. della Fil., II, p.
493) osservava: «Questa corruzione non si può arrestare, come in
Paradiso non si può far tacere il desiderio della conoscenza. La
conoscenza, che è un momento necessario nell’educazione dei popoli,
si presenta in tal modo come una caduta nel peccato e come una
corruzione. Tali epoche, in cui si verificano le svolte del
pensiero, vengono poi considerate come un malanno per la saldezza
degli antichi ordinamenti. Ma questo malanno del pensiero non può
essere impedito da leggi o provvedimenti consimili; esso può e deve
guarirsi soltanto da sé stesso, quando per opera del pensiero stesso
si sia veramente venuto a produrre il pensiero».
L’ambiguità morale di Carneade (NUMENIO, apud. Euseb. Praep. ev.,
XIV, 7-8, 736 d – 739 a = fr. 26, 103 segg., fr. 27 des Places)
Dopo di loro1 Carneade ottenne la successione della scuola e fondò
la terza Accademia.
Egli si servì del medesimo procedimento discorsivo che aveva
praticato Arcesilao: difatti anche lui praticava le argomentazioni
«in un senso e nell’altro» e sovvertiva tutte le altrui
affermazioni. Soltanto, però, nel concetto di sospensione del
giudizio si oppose ad Arcesilao, giacché sosteneva l’impossibilità
che uno, in quanto essere umano, sospenda il giudizio su tutte
quante le cose: a suo avviso, infatti, c’è differenza tra il
nonevidente e il non-comprensibile2, e tutte le cose sono
incomprensibili, ma non tutte sono non-evidenti. Carneade non fu
ignaro anche delle dottrine stoiche3 e, ponendosi a confronto con
queste in maniera eristica, vide accrescersi ancor più la sua
reputazione, giacché mirava a conseguire ciò che appare «probabile»
ai più, ma non la verità4. Per tutte queste ragioni egli procurava
agli Stoici grave fastidio.
Orbene, è ancora Numenio a scrivere di lui quanto segue.
«Succeduto ad Egesino nella direzione della scuola, Carneade, che
pur avrebbe dovuto custodire sia quelle dottrine5 che ancora
rimanevano inconcusse sia quelle che avevano subito certe modifiche,
non ebbe affatto cura di ciò e fece risalire ad Arcesilao sia quel
che c’era di meglio sia quel che c’era di peggio 〈nel suo pensiero〉,
e così dopo lungo tempo, riaccese la mischia»6.
E Numenio aggiunge di seguito: «Anche lui faceva il dai e il tieni,
e con grande varietà immetteva nella lotta argomentazioni contrarie
e operava sottili mutamenti di rotta, ed era pronto a negare e,
nello stesso tempo, ad affermare e – nell’un caso come nell’altro –
praticava l’antilogia. Se, poi, c’era bisogno anche di discorsi che
suscitassero stupore7 egli si levava impetuoso come un fiume in
piena8, [scorrendo con veemenza]9, facendo allagare ogni cosa
che si parasse da una parte e dall’altra, e si lanciava sugli
ascoltatori e li trascinava qua e là con la sua voce turbolenta. E
proprio mentre disguidava gli altri, egli stesso rimaneva immune
dall’inganno, cosa che non era riuscita ad Arcesilao10. Costui,
infatti, nel circuire con i suoi incantesimi coloro che insieme con
lui si davano a deliri coribantici, non si accorgeva di ingannare
anzitutto se medesimo con quel suo convincimento che, senza farne
alcuna esperienza sensibile, fosse vero quel che diceva, in quel suo
generale e simultaneo massacro di tutte quante le cose. Come un male
che venga a sovrapporsi a un altro male, così Carneade veniva a dare
man forte ad Arcesilao. Egli non rallentava la tensione neppure un
poco, finché i suoi ascoltatori non fossero sul punto di non saper
più cosa fare, e questo egli otteneva mercé quel tipo di
«rappresentazioni» – come egli le chiamava – «che provengono dal
probabile e che sono in grado di affermare e di negare che, ad
esempio, questo particolare oggetto sia un animale o non sia un
animale». Ma, dopo aver rallentato in questo modo la presa, come le
fiere si ritraggono un poco e, quindi, si precipitano con maggiore
violenza contro le punte dei dardi, così anche lui, dopo aver
concesso un po’ di tregua, aggrediva con maggiore possanza. In
appresso, pero, quando aveva ben retto ad ogni urto ed aveva avuto
successo, proprio allora – a bella posta – non si curava della
precedente sua opinione e non se ne ricordava più. Infatti,
concedendo che nella realtà delle cose sono immanenti il vero e il
falso, mostrava di cooperare alla ricerca, ma, a guisa di un abile
lottatore, dava all’avversario la possibilità di fare qualche mossa
e poi, sapendola sfruttare, prendeva il sopravvento. Difatti, dopo
aver prospettato la possibilità di un’alternativa qualsiasi sulla
bilancia della probabilità, se ne usciva col sostenere che nessuna
delle due cose contrarie può essere compresa con sicurezza.
Egli fu, dunque, un predone e un ciurmatore più abile di Arcesilao.
Infatti, assumendo accanto ad una cosa vera una cosa falsa simile
alla prima e, altresì, accostando ad una «rappresentazione
apprensiva» un oggetto apprendibile simile ad essa, e poi riportando
le due cose su un piano di parità11, non lasciava sussistere né il
vero né il falso, o l’uno «non più»12 che l’altro o, infine, nel
caso che l’uno sussistesse più dell’altro, ciò egli faceva dipendere
dalla «probabilità»13. Si trattava, in buona sostanza, di sogni, che
si sostituivano ad altri sogni a causa della somiglianza di
rappresentazioni false con quelle vere, come un uovo di cera non si
distingue quando vien messo accanto ad un uovo vero. Di qui, dunque,
derivava tutta una serie di inconvenienti. Così Carneade, con le sue
argomentazioni, trascinava le anime e se le rendeva schiave. E
sapeva essere ladro nel buio e rapinatore a viso aperto nel prendere
– o con inganno o con violenza – anche chi avesse una preparazione
solidissima. Così ogni punto di vista di Carneade aveva la meglio, e
mai quello di qualsiasi altro, giacché quelli con cui polemizzava
erano tutti meno abili parlatori di lui14.
Antipatro15, suo coetaneo, si mise a gareggiare con Carneade per
iscritto, ma a quelle discussioni che udiva essere quotidianamente
tenute da Carneade, egli non prese mai pubblicamente parte e non si
espresse e non fece mai motto in dibattiti scolastici o in
passeggiate filosofiche, anzi nessuno ne udì – come si dice –
neanche un grugnito. Da lontano egli stendeva qualcosa sulla carta
e, standosene nascosto in qualche angolino, si limitò a lasciare per
iscritto ai posteri certi libri16 che neppure ai nostri giorni
reggono, e tanto meno reggevano a quei tempi, di fronte a un uomo
della levatura di Carneade, che apparve tanto grande e tanto
stupendo ai suoi contemporanei.
Eppure lo stesso Carneade, che – per rintuzzare gli Stoici -sapeva
impastare in pubblico ogni intruglio, quando, invece, parlava con i
suoi compagni in segreto, ammetteva e riteneva per vere e affermava
le medesime cose che qualsivoglia altro comune mortale»17.
Poi Numenio aggiunge, di seguito:
«Primo allievo di Carneade fu Mentore, che, però, non è stato suo
successore. Infatti Carneade, mentre era ancora in vita, lo scoprì
in adulterio con la propria concubina18, non certo fondandosi su una
“rappresentazione probabile”19 né comportandosi “come se non avesse
compreso”20, ma, al contrario, riponendo la massima fiducia nella
vista e, acciuffandolo21, lo licenziò dalla sua scuola. E costui,
staccatosi dal maestro, si dava a formular sofismi contro quelli di
lui e ad opporre i suoi artifici a quelli di Carneade, confutando la
teoria deirincomprensibilità che questi professava a parole.
E Numenio fa ancora questa aggiunta:
«Ma Carneade, proprio con quel suo “far filosofia alla rovescia”, si
pavoneggiava delle sue menzogne e, al di sotto di queste, occultava
il vero. Egli, dunque, faceva uso delle menzogne a guisa di
paravento22, ma, quando stava nascosto in casa, diceva la verità,
come un venditore al minuto. E gli capitava la stessa cosa che suol
capitare ai legumi: quelli vacanti salgono sull’orlo dell’acqua e
rimangono a galleggiare, mentre quelli che sono buoni restano sotto
e non si fanno vedere»23.
Questo ci viene tramandato a proposito di Carneade. Suo successore
nella direzione della scuola fu Clitomaco. Dopo quest’ultimo si è
avuto Filone, di cui Numenio menziona quanto segue.
1. Dopo Evandro ed Egesino.
2. La distinzione tende a salvare l’evidenza fenomenica senza
ammetterne la comprensibilità (cfr. Robin, Pyrrhon et le scepticisme
grec, p. 92).
3. Cfr. DIOG. LAERT. IV, 62.
4. Secondo Numenio, come anche secondo gran parte degli studiosi
moderni, il probabilismo avrebbe un’origine non affatto teoretica,
ma pratica. Che la verità, secondo Arcesilao e Carneade, fosse
raggiungibile solo da Dio e non dall’uomo è detto in EPIPHAN. Adv.
haer. III, 29-30.
5. Di Platone: si ricorderà che il tema centrale dell’opera di
Numenio era quello di dimostrare la sempre più grave infedeltà degli
Accademici nei riguardi del loro fondatore.
6. Contro gli Stoici.
7. In conformità con quell’aspetto psicagogico della retorica che
era nato già in ambiente pitagorico, aveva, poi, trovato il massimo
esponente in Gorgia e, infine, dilagava con l’asianesimo in età
alessandrina.
8. Cfr. PLUTARCH. Cato maior 22, 2; DIOG. LAERT. IV, 62-63. La
medesima similitudine viene usata da Numenio per caratterizzare la
materia (fr. 3, 11 des Places).
9. Evidente glossa da omettere.
10. Lo Scetticismo verrebbe, così, a degradarsi, passando dalla pur
sincera ambiguità di Arcesilao a quella apertamente retorica di
Carneade. Qualcosa di simile era già avvenuto, a proposito del
principio di non-contraddizione, durante il passaggio
dall’eraclitismo al protagorismo (cfr. ARISTOT. Metaph. IV, 4-6).
11. Cfr. SEXT. EMP. Adv. log. I, 252, 401 segg.
12. Secondo la terminologia del più antico Pirronismo.
13. Qui Numenio intende il complesso concetto Carneadeo di πιϑανóν
in senso irrazionalistico e pienamente casualistico.
14. Carneade appare qui somigliante al Callicle del Gorgia
platonico, animato esclusivamente da una volontà di potenza
intellettuale. Pur senza mettere in dubbio la buona fede di
Carneade, Ermia (Irris. gent. phil. 15 = fr. 81 Wisniewski) sostiene
che questa posizione accademica riduce la filosofia a combattere
ormai con le ombre, avendo perduto la possibilità di conseguire la
scienza.
15. Lo Stoico Antipatro di Tarso (cfr. Stoic, vet. frag. III, 8
Arnim).
16. Sui molti volumi scritti da Antipatro è cenno, tra l’altro, in
Cic. Acad. Post. liber primus apud Nonium, p. 61, 11. I tot volumina
di Antipatro trattavano di questioni logiche, fisiche ed etiche,
secondo la tripartizione ellenistica della filosofia (cfr. Stoic,
vet. frag. III, pp. 246-58 Arnim); essi riportavano sulla carta lo
strepito della polemica che Antipatro non era in grado di sostenere
oralmente contro Carneade. Perciò fu soprannominato αλαµoβóας, cioè
urlatore con la penna (cfr. PLUTARCH. De garrul. 23, 514d).
17. Secondo il sarcastico discorso di Numenio il cosiddetto
esoterismo accademico di cui aveva parlato Diocle di Cnido (cfr. fr.
25, 76 des Places) si riduceva ad una volgare riconciliazione con la
vita ordinaria.
18. Con qualche diversità e con animus ben più tollerante l’episodio
è ricordato in DIOG. LAERT. IV, 63-64 (cfr. FAVORINO fr. 67
Barigazzi). Probabile fonte fu qualche commediola ellenistica o
qualche satira nenippea, analoga allo scritto che mirava a schernire
Lacide.
19. Ossia sul principio fondamentale della sua gnoseologia (cfr.
SEXT. EMP. Adv. log. I, 159-189).
20. In base alla riforma probabilistica dell’αταληψία
21. Ma comportandosi da buon praticone e retore quale egli era,
secondo Numenio, che usa Túnico termine αταλαµβxνειν per indicare
sia «comprendere con la mente» sia «acciuffare con le mani».
22. Per una simile espressione cfr. PLAT. Prot. 316c 6; Polit. 279d
3.
23. Numenio, che respinge l’interpretazione esoterizzante
dell’Accademia Nuova prospettata da Diocle di Cnido, qui pare
disposto ad accettarla: ma la sua accettazione esprime una condanna
sdegnosa di ordine morale.
Il limitato scetticismo dell’Accademia Nuova (SESTO EMPIRICO, Pyrrh.
hyp. I, 226-231)
I seguaci dell’Accademia Nuova, anche se dicono che tutte le cose
sono incomprensibili, si differenziano dagli Scettici forse proprio
in quanto affermano che tutte le cose sono incomprensibili (essi,
infatti, tengono a ribadire questo punto, mentre Scettico contempla
anche l’eventualità che certe cose vengano comprese)1; ma in maniera
più vistosa differiscono da noi per modo con cui essi giudicano i
beni e i mali. Infatti gli Accademici affermano che un qualcosa è
bene o male non nel modo in cui lo affermiamo noi: essi, infatti,
hanno la convinzione che «probabilmente» è bene ciò che essi
considerano bene piuttosto che il contrario, e, allo stesso modo,
fanno anche a proposito del male; noi, invece, diciamo che un
qualcosa è bene o male senza aggiungere che è nostra credenza che
sia probabile ciò che noi affermiamo, ma – senza formulare alcuna
opinione2 – ci atteniamo alla vita ordinaria al solo scopo di non
rimanere inoperosi.
A proposito, poi, delle rappresentazioni, noi sosteniamo che esse –
nei limiti del loro concetto – sono uguali rispetto a probabilità o
improbabilità3, mentre essi sostengono che alcune sono probabili ed
altre prive di probabilità. Anzi stabiliscono pure certe distinzioni
tra le rappresentazioni probabili: infatti ritengono che alcune di
queste sono «esclusivamente probabili», altre sono «probabili e
regolate», altre, infine, sono «probabili, regolate e
irreversibili»4. Così, ad esempio, se in una camera oscura giace per
terra una corda contorta, chi entra d’un tratto dall’esterno ha di
essa semplicemente una rappresentazione «probabile» come di una
serpe; ma a chi osserva con diligenza e ne esamina attentamente le
caratteristiche – ad esempio, che quell’oggetto non si muove, che ha
un certo colore, e ogni altro particolare – quell’oggetto appare una
corda secondo la rappresentazione che è «probabile e regolata».
Infine la rappresentazione «irreversibile» è suppergiù la seguente:
si dice che Eracle riportò su dall’Ade Alcesti già morta e la mostrò
ad Admeto, il quale recepì una rappresentazione 〈senz’altro5〉
probabile e regolata di Alcesti; tuttavia, poiché sapeva che ella
era morta, il suo pensiero riflesso veniva rimosso dall’assenso e
propendeva per l’incredulità. 〈…〉 Pertanto i pensatori
dell’Accademia Nuova danno la preferenza alla rappresentazione
probabile e regolata rispetto a quella che è meramente probabile, ma
ad entrambe queste rappresentazioni preferiscono quella che è
probabile, regolata e irreversibile.
Sebbene, dunque, gli Accademici e gli Scettici dicano di «prestar
fede» a certe cose, è abbastanza evidente la differenza che passa
tra questi due gruppi di filosofi anche sotto questo profilo.
Infatti il termine «prestar fede» si usa con accezioni diverse,
ossia in un senso come «non opporre resistenza, ma seguire
semplicemente senza una forte inclinazione e propensione», come si
dice che il fanciullo «presta fede» al precettore; ma in un altro
senso come «dare assenso a qualcosa in seguito ad una scelta e,
potremmo dire, ad una simpatia, derivanti da una forte decisione»6,
come l’incontinente «presta fede» a chi reputa che si debba vivere
in modo dispendioso.
Ecco perché, se teniamo presente che Carneade e Clitomaco intendono
parlare di un «prestar fede in seguito ad una forte inclinazione» e
dell’esistenza di un qualcosa che è «probabile» e che noi, al
contrario, parliamo di un mero «credere senza propensione alcuna»7,
allora, anche sotto questo profilo, dovrebbe risultare la differenza
che intercorre tra il nostro pensiero e il loro.
Ma anche sulle questioni concernenti il fine supremo noi differiamo
dall’ Accademia Nuova. Difatti gli uomini che asseriscono di
uniformarsi a quest’ultima si servono del «probabile» per la
condotta della vita; noi, invece, ci atteniamo alle leggi e ai
costumi e alle naturali affezioni, vivendo senza formulare alcuna
opinione8.
E avremmo tante altre cose da dire circa questa distinzione, se non
avessimo di mira la concisione.
1. Altrimenti egli cadrebbe in un dommatismo negativo (cfr. Pyrrh.
hyp.I. 1-4).
2. Ossia rispettando scrupolosamente l’δoξαστία del Pirronismo
originario (cfr. Pyrrh. hyp. I, 15, 23 segg.; II, 13).
3. Cfr. Pyrrh. hyp. I, 117.
4. Per questa fenomenologia della rappresentazione cfr. SEXT. EMP.
Adv. log. I, 184-189; Cic. Lucull. XI, 33-34. Per la diversità che
si riscontra nelle due opere sestiane vedasi H. MUTSCHMANN, Die
Stufen der Wahrscheimlichkeit des Karneades, pp. 190-8. Il termine
περìσπαστoς, è reso da Hegel con «saldo, coerente e determinato da
ogni lato» (Lez. sulla St. della Filos., II, p. 498) e il termine
διεξωδενµένη con «sviluppata» (ivi). I due termini sono resi dalla
Stough (Greek Skepticism, pp. 56-7) con «consistent» e «tested».
5. l’aggiunta del Mutschmann è suggerita dalla traduzione latina.
6. I termini scelta (αρεσις), simpatia (συµπ ϑεια), forte decisione
(τòσφóδρα βoύλεσϑαι) sono chiaramente stoici e stanno ad indicare
l’intimo rapporto esistente tra Carneade ed i suoi principali
antagonisti (cfr. Stoic, vet. frag. III, 173, 432, 438; II, 534,
546, 1013, 1211 Arnim).
7. Cfr. Pyrrh. hyp. I, 22, 27 segg.
8. Cfr. Pyrrh. hyp. I, 22-25, 226.
Il criterio di verità e la rappresentazione probabile (SESTO
EMPIRICO, Adv. log. I, 159-189)
Carneade, invece1, a proposito del criterio si schierò in una
posizione contraria non solo agli Stoici, ma anche a tutti i
filosofi che lo avevano preceduto.
Infatti la sua principale argomentazione – rivolta, in generale,
contro tutti gli altri pensatori – è quella secondo cui egli viene a
stabilire che nessuna cosa è, in senso assoluto2, criterio di
verità: né ragione né sensazione né rappresentazione né alcun’altra
delle cose esistenti, giacché tutte quante queste cose,
singolarmente e nel loro insieme, ci ingannano.
La sua seconda argomentazione è, poi, quella con la quale egli
mostra che, anche a voler ammettere l’esistenza di un qualche
criterio, quest’ultimo non esiste affatto ove si prescinda
dall’affezione prodotta dall’evidenza. Infatti l’essere vivente,
poiché differisce dalle cose inanimate in virtù della facoltà
sensitiva, proprio in grazia di questa facoltà diventa, in ogni
caso, capace di percepire tanto se stesso quanto le cose esterne.
Tuttavia il senso, quando sia immobile e impassibile e non
perturbato, non è più senso né ha capacità di percepire alcunché;
quando, invece, è perturbato e, in un certo qual modo, sottoposto ad
un’affezione a causa del suo incontro con le cose esistenti, proprio
allora riesce ad indicare gli oggetti. Ragion per cui bisogna
ricercare il criterio in quell’affezione psichica che deriva
dall’evidenza3. E quest’affezione deve risultare capace di indicare
sia se stessa sia l’apparenza che l’ha prodotta, ed un’affezione
siffatta non è diversa dalla rappresentazione. Onde bisogna anche
affermare che la rappresentazione è una certa affezione che concerne
l’essere vivente e che sia in grado di presentare se stessa e ciò
che è altro da lei4. Ad esempio noi – come sostiene Antioco5 –,
quando abbiamo volto lo sguardo ad un determinato oggetto,
disponiamo la vista in un determinato modo e non la conserviamo
nella medesima disposizione in cui l’avevamo prima di guardare;
comunque noi, mercé siffatta alterazione, veniamo a percepire due
cose: l’una è l’alterazione stessa, cioè la rappresentazione, e la
seconda è ciò che ha prodotto l’alterazione, vale a dire l’oggetto
visibile. E la cosa sta, presso a poco, così anche per gli altri
sensi. Come, dunque, la luce mostra se stessa e tutte le cose che
sono in essa, così anche la rappresentazione, essendo la promotrice
della conoscenza per l’essere vivente, necessariamente manifesta se
medesima a guisa di luce, e risulta capace di indicare l’oggetto
evidente che l’ha prodotta. Poiché, però, non sempre essa mostra
l’oggetto secondo verità, ma spesso trae in inganno e, come fanno i
messaggeri incapaci, si esprime in disaccordo con quegli oggetti che
l’hanno inviata, ne consegue, di necessità, che non si può ammettere
ogni rappresentazione come criterio di verità, ma soltanto quella
vera, se pur vera ce n’è alcuna.
D’altra parte, poiché non c’è alcuna rappresentazione vera che sia
tale da non poter diventare falsa, ma si riscontra l’esistenza di
una qualche rappresentazione falsa che corrispondead ogni
rappresentazione che sembra vera, il criterio verrà a prodursi in
una rappresentazione avente in comune il vero e il falso. Ma la
rappresentazione che ha in comune queste due cose non è
«apprensiva»6 e, non essendo apprensiva, non sarà neppure criterio.
E non essendovi alcuna rappresentazione che sia in grado di
giudicare, non sarà criterio neppure la ragione, giacché
quest’ultima dalla rappresentazione deriva. Ed è naturale: difatti
deve prima apparire alla ragione l’oggetto che viene giudicato; ma
nulla può apparire ove si prescinda dall’irrazionale sensazione;
epperò né l’irrazionale sensazione né la ragione s’identificano col
criterio.
Adducendo quest’argomentazione7 contro gli altri filosofi, Carneade
giungeva a provare la non-esistenza del criterio; ma, d’altra parte,
poiché anche lui va alla ricerca di un certo criterio per la
condotta della vita e per il conseguimento della felicità,
virtualmente viene anch’egli sospinto a formularne una teoria,
assumendo sia la rappresentazione «probabile» sia quella che è,
nello stesso tempo, «probabile, irreversibile e regolata»8.
Quale differenza intercorra fra questi termini, bisogna spiegarlo
succintamente.
La rappresentazione, invero, è rappresentazione di qualcosa, ad
esempio di 〈ciò〉-da-cui-essa-deriva e di ciò-in-cui-essa-si-svolge;
e 〈ciò〉-da-cui-essa-deriva è, ad esempio, l’oggetto sensibile
che trovasi all’esterno, mentre ciò-in-cui-essa-si-svolge è, ad
esempio, l’uomo. Essendo tale, la rappresentazione può avere due
modi di essere: l’uno in relazione all’oggetto rappresentato,
l’altro in relazione al soggetto che formula la rappresentazione9.
Secondo il suo modo di essere relativo all’oggetto rappresentato,
essa risulta vera o falsa, ed è vera quando sia in accordo con
l’oggetto rappresentato, falsa quando sia in disaccordo con esso.
Secondo il suo modo di essere relativo al soggetto che la formula,
c’è una rappresentazione che appare vera e un’altra che non appare
vera10; e, tra queste, quella che appare vera è chiamata dagli
Accademici «riflessione congrua»11 e «probabilità» e
«rappresentazione probabile»; quella, invece, che non appare vera
viene chiamata «riflessione incongrua» e «non-convincente» e
«rappresentazione improbabile», giacché sia ciò che di per sé appare
falso, sia ciò che, pur essendo vero, non ci appare tale, non è, per
sua natura, in grado di persuaderci. E, tra queste rappresentazioni,
quella che è evidentemente falsa o non evidentemente vera deve
essere cancellata e non è criterio, tanto se essa (derivi da un
oggetto non esistente quanto se)12 derivi da un oggetto esistente,
ma, tuttavia, risulti essere in disaccordo con questo e non si
conformi all’esistenza di esso, quale era la rappresentazione che,
partendo da Elettra, veniva a colpire Oreste, il quale la opinava
una delle Erinni e gridava:
Via, tu che sei delle mie Erinni una13.
E nell’ambito della rappresentazione-che-appare-vera bisogna
distinguere quella che è opaca – quale, ad esempio, è quella che si
riscontra in coloro che percepiscono un qualcosa in modo confuso e
indistinto per la piccolezza dell’oggetto visto o per una distanza
rilevante14 o anche per la debolezza della vista – e quella che,
oltre ad apparire vera, ha ben marcato il requisito di siffatta sua
apparenza. E, ancora una volta, tra queste due specie di
rappresentazioni, quella che è opaca e sbiadita non può essere
criterio, giacché essa, non riuscendo a indicare con distinzione né
se stessa né l’oggetto che l’ha prodotta, non è, per sua natura, in
grado di persuaderci né di menarci all’assenso. Quella, invece, che
appare vera e suffcientemente rilevata è, secondo i seguaci di
Carneade, criterio della verità. Essendo criterio, essa possiede una
notevole estensione e, proprio in virtù di questa sua estensione,
possiede anche una capacità rappresentativa che, in modo specifico,
è più probabile e più efficace di quella posseduta da un’altra. E il
termine «probabile»15, almeno nella presente evenienza, è usato
secondo tre accezioni: in un senso come ciò che è vero e che appare
vero, in un secondo senso come ciò che, pur essendo in realtà falso,
appare vero, e in un terzo senso come ciò che è comune ad entrambe
queste cose. Onde il criterio si identificherà con la
rappresentazione che appare vera, ossia con quella che gli
Accademici chiamavano anche «probabile» ma si dà pure il caso che
essa produca un’impressione falsa, talché diviene necessario
ricorrere talvolta alla rappresentazione che è comune al vero e al
falso. Tuttavia, per il fatto che questo tipo di rappresentazione –
intendo dire quello che imita il vero – si riscontra raramente, noi
non dobbiamo negare la fiducia a quella che «per lo più» si attiene
al vero. Difatti accade che i nostri giudizi e le nostre opinioni
trovino un canone nel «per lo più»16.
Tale è, dunque, il criterio primo e comune secondo i seguaci di
Carneade. Poiché, però, non esiste una rappresentazione che sia
uniforme, ma ciascuna di esse, a guisa di anello di una catena,
dipende dall’altra, dovremo aggiungere, come secondo criterio, la
rappresentazione che è probabile e, insieme, irreversibile. Ad
esempio, chi recepisce la rappresentazione di un uomo,
necessariamente viene ad assumere la rappresentazione sia dei
connotati di quello sia di ciò che a quello è esterno: dei connotati
di quello, 〈cioè〉 del colore, della statura, della figura, del modo
di muoversi o di parlare o di vestirsi o di calzarsi; di ciò che a
quello è esterno, ad esempio dell’aria, della luce, del giorno, del
cielo, della terra, degli amici e di tutto il resto. Quando, dunque,
nessuna di queste rappresentazioni ci mena in giro con false
apparenze, ma tutte quante esse, in comune concento, appaiono vere,
noi vi prestiamo maggiormente fede. Difatti la nostra credenza che
questo determinato uomo sia Socrate è dovuta al fatto che si
riscontrano in lui tutte le abituali caratteristiche di Socrate,
ossia colore, statura, figura, modo di conversare, pallio e la
presenza di un luogo dove non c’è nessuno che possa essere scambiato
con lui. E come alcuni medici17 non desumono un caso di febbre da un
unico sintomo (ad esempio dal ritmo accelerato del polso o dalla
temperatura alterata), ma da un concorso di situazioni (ad esempio,
oltre che dalla temperatura o dal polso, anche dalla irritabilità
del tatto, dal rossore, dalla sete e da altri fattori simili), allo
stesso modo anche l’Accademico formula il giudizio di verità in base
al concorso delle rappresentazioni e, quando nessuna delle
rappresentazioni concorrenti gli fa sospettare che sia falsa, egli
afferma che l’impressione è vera. E che la rappresentazione
irreversibile sia un concorso di fattori capaci di produrre credenza
risulta evidente dal caso di Menelao18. Questi, infatti, dopo aver
lasciato sulla nave il fantasma di Elena, che egli stava menando via
da Troia perché lo identificava con Elena, e dopo essere sbarcato
nell’isola di Faro, vede l’autentica Elena; ma, pur traendo da
questa una rappresentazione verace, tuttavia non presta fiducia a
siffatta rappresentazione, perché è stato menato in giro da un’altra
rappresentazione, secondo la quale egli era convinto di aver
lasciato Elena sulla nave. Tale è, dunque, la rappresentazione
irreversibile; ed anch’essa sembra avere un’estensione per il fatto
che se ne riscontra una più irreversibile di un’altra19.
Ancora più attendibile della rappresentazione irreversibile, anzi
massimamente perfetta, è quella che produce il giudizio: essa, oltre
ad essere irreversibile, risulta anche «regolata». Ma bisogna subito
chiarire quale sia il carattere anche di quest’ultima. Infatti, per
quanto si riferisce alla rappresentazione irreversibile, si richiede
semplicemente che nessuna delle rappresentazioni che vi concorrono
ci prenda in giro come falsa e che tutte appaiano come vere e
non-improbabili; per quanto, invece, si riferisce al concorso dei
fattori che vengono a costi-tuire la rappresentazione regolata, noi
esaminiamo con diligenza ciascuna delle rappresentazioni che vi
partecipano, come accade, in un certo senso, anche nelle assemblée,
quando il popolo indaga se ciascuno degli aspiranti a diventare capi
politic! o giudici meriti che gli venga conferita una carica
politica 〈o〉 giudiziaria. Cosi, ad esempio, considerando che nel
luogo del giudizio sono presenti il soggetto giudicante, l’oggetto
giudicato e ciò-per-mezzo-di-cui il giudizio viene espresso, e,
inoltre, distanza, intervallo, luogo, tempo, modo, disposizione e
attività, noi distinguiamo quale sia ciascuno di questi fattori; ad
esempio, per quanto concerne il giudicante, se la sua vista sia
offuscata (chè, in tal caso, essa non è valida per il giudizio); per
quanto concerne l’oggetto giudicato, se esso non sia eccessi-vamente
piccolo; per quanto concerne ciò-per-mezzo-di-cui viene espresso il
giudizio, se l’aria non sia oscura; per la distanza, se non ce ne
sia troppa; per l’intervallo, se esso non sia molto ridotto; per il
luogo, se non sia immenso; per il tempo, se non sia breve; per la
disposizione, se non presenti segni di follia; infine, per
l’attività, se valga la pena di esercitarla20.
Tutti questi fattori, ridotti ad unità, costituiscono il criterio,
vale a dire sia la rappresentazione probabile sia quella che è
probabile-e-insieme-irreversibile, sia, oltre a queste due, quella
che è, nello stesso tempo, probabile-irreversibile-e-regolata. Ed
appunto per questo motivo, come nella vita pratica, quando noi
indaghiamo su un fatto di scarso rilievo, interroghiamo un solo
testimone, ma quando indaghiamo su un fatto più importante, ne
interroghiamo di più, e, quando il fatto è ancora più importante,
interroghiamo ciascun testimone mettendolo a confronto con le
testimonianze altrui, allo stesso modo – affermano i seguaci di
Carneade – in questioni ordinarie noi usiamo quale criterio soltanto
la rappresentazione «probabile», in quelle più rilevanti ci serviamo
della rappresentazione «irreversibile» e, infine, in quelle che
concorrono alla felicità facciamo uso della rappresentazione
«regolata». Inoltre essi dicono che, come per cose tra loro
differenti assumono una différente rappresentazione, così anche,
secondo la diversità delle circostanze, non si attengono alla
medesima rappresentazione. Essi, infatti, affermano di badare
solamente a quella-che-è-di-per-sé-probabile in quelle questioni in
cui la circostanza non ci offre l’opportunità 〈per〉 una precisa
contemplazione dell’oggetto. Cosi, ad esempio, un uomo è inseguito
dai nemici e, giunto in un fossato si lascia attrarre da una certa
rappresentazione a supporre che anche li ci siano nemici in agguato
contro di lui; quindi, in-dotto da questa rappresentazione che egli
crede attendibile, si scansa ed evita il fossato, seguendo la
probabilità che gli è suggerita dalla rappresentazione, senza prima
essersi accertato con precisione se davvero in quel luogo ci sia
un’imboscata di nemici o non ci sia affatto.
Essi seguono, invece, la rappresentazione «probabile e regolata» in
quei casi in cui hanno tempo sufficiente per usare con deliberazione
e con ponderazione il giudizio sull’oggetto che a loro si presenta.
Cosí, ad esempio21, un uomo in una camera oscura, vedendo una
cordicella di giunco, in un primo momento suppone che si tratti di
una vipera e fa un salto; ma poi si volge indietro e indaga il vero
e, trovando l’oggetto immobile, è portato a pensare che non si
tratti di una vipera; tuttavia, riflettendo sul fatto che alcune
volte anche le vipere se ne stanno immobili, intirizzite dal freddo
inveníale, si accosta con un bastone a quell’oggetto attorcigliato e
solo allora in questo modo, «regolando» la rappresentazione che lo
ha impressionato, egli viene ad assentire che è falso ritenere che
quel corpo a lui presentatosi sia veramente una vipera. E ancora,
come dicevo poc’anzi, noi, quando vediamo un qualcosa in un modo
molto evidente, assentiamo che esso è vero, dopo aver «regolarmente»
confermato che abbiamo sensi ben funzionanti e che stiamo guardando
in uno stato di veglia e non di assopimento e che, nello stesso
tempo, l’aria è tranquilla, moderata è la distanza, e l’oggetto che
ci ha impressionato è immobile; di guisa che, in virtù di questi
fattori, la rappresentazione è attendibile, avendo noi avuto un
tempo sufficiente22 per provare regolarmente quello che abbiamo
osservato nell’ambito della rappresentazione. Lo stesso discorso
vale anche per la rappresentazione irreversible, giacché quei
filosofi l’accettano, qualora non ci sia nulla che possa metterla in
bilico, come sopra dicevamo23 a proposito di Menelao.
1. Ossia «a differenza di Arcesilao».
2. Correggo la mia precedente traduzione laterziana per suggerimento
della Stough (Greek Skepticism, p. 58): «Since the criteria do not
secure the conditions of truth, be [Carneades] held accordingly that
nothing is absolutely a criterion of truth».
3. In ciò Carneade si riaccosta ai suoi compatrioti Cirenaici.
4. Ossia l’oggetto sensibile.
5. Fr. 65 Luck.
6. Come pretendono gli Stoici. Analoghi rilievi sono in CIC. Lucull.
XV, 48.
7. I §§ 166-189 sono un approfondimento e in parte una correzione di
Pyrrh. hyp. I, 226-231. Per l’esposizione ciceroniana delle medesime
teorie Carneadee cfr. Lucull. X, 31-32; XVII, 54; XXXI, 99-101;
XXXIV, 109.
8. Da notare la diversa disposizione dei termini rispetto a Pyrrh.
hyp. I, 229.
9. Per la distinzione stoica tra φανταστóν (oggetto rappresentato) e
φαντασιoύµενoν (soggetto rappresentante) cfr. Stoic, vet. frag. II,
54, 85, 91 Arnim.
10. Non appena la rappresentazione viene considerata in relazione al
soggetto, l’essere si muta in apparenza fenomenica.
11. Il termine µφασις stoico-crisippeo e sta ad indicare
un’apparenza o una riflessione che è causata nella mente
dall’oggetto esterno e che corrisponde a quest’ultimo (cfr. DIOG.
LAERT. VII, 51 = Stoic, vet. frag. II, 61 Arnim). Molto bene la
Stough (Greek Skepticism, p. 52, n. 39) osserva: «We see the object
in the impression, just as we see something in a mirror».
12. L’integrazione è bekkeriana.
13. EURIP. Orest. 264.
14. Ho seguito il convincente emendamento del Kayser; il Tescari,
invece, si atteneva al Bekker e traduceva «o della non conveniente
distanza» (Schizzi pirroniani, p.67).
15. Per un’analoga analisi terminologica cfr. SEXT. EMP. Adv. math.
II, 63.
16. Così il probabilismo, fondandosi sul «per lo più», piega verso
il contingentismo, di cui non erano mancati spunti anche nel più
genuino pensaero aristotelico (cfr. Metaph. VI, 1025a 15-20, 1026b
30, 1027a 21-25; De gener. et corr. II, 10; Phys. II, 4-6).
17. Non certo Metodici, che erano abbastanza sbrigativi, ma o
Empirici o Razionalisti, che in quanto a sintomatologia andavano
d’accordo (cfr. GALEN. De sectis, passim).
18. Cfr. EURIP. Helen. 528-596. Per analoghi esempi cfr. Cic.
Lucull. XXVIII, 89-90.
19. Si tenga presente l’insistenza sul concetto di estensione
(πλτoς) che non può non dare al probabilismo un carattere
quantitativistico-matematico, come nel moderno calcolo delle
probabilità
20. Carneade, secondo Sesto, teneva conto di elementi quantitativi e
qualitativi. Dovremmo dire «platonici» ed «aristotelici»), ma i
primi prendevano senz’altro il sopravvento. Nella logica stessa
delle cose il probabilismo è una revisione scettica di quel
matematicismo di cui, dopo tutto, era ancora impregmata l’Accademia.
21. La stessa esemplificazione è, in maniera più succinta, in Pyrrh.
hyp. I, 227.
22. Si tenga presente che anche il tempo è un fattore
quantitativistico da aggiungere alla ricca serie degli altri
elencati in § 183.
23. In §§ 180-181.
La «fantasia catalettica» degli Stoici, le sue tormentate
definizioni e le critiche accademico-scettiche (SESTO EMPIRICO,
Adv. log. I, 227-260)
Cosí la pensano, in linea di massima, i seguaci del Peripato1; ma,
poiché ci resta ancora da trattare della dottrina degli Stoici,
seguitiamo, ora, discutendo di essa2.
Orbene: costoro dicono che criterio della verità è la
«rappresentazione apprensiva»3. Dell’essenza di questa noi ci
rendiamo conto solo dopo aver conosciuto che cosa è mai, a parer
loro, la rappresentazione e quali sono le sue differenze specifiche.
Rappresentazione è pertanto – secondo loro – «un’impressione
nell’anima»4. Ma a proposito di essa gli Stoici vennero ben presto
in urto tra loro: infatti Cleante5 intese l’impressione a guisa di
«sporgenza e rientranza»6, proprio come viene riscontrata
〈l’〉impressione prodotta nella cera dai sigilli; ma una cosa di tal
genere era ritenuta assurda da Crisippo. «In primo luogo – questi
dice – quando il pensiero si rappresenta in una sola e medesima
volta un oggetto triangulare o une quadrangolare, il corpo stesso,
nel medesimo tempo, dovrebbe avere, come limiti, figure differenti e
venire ad essere simultaneamente triangolare e quadrangolare e,
magari, circolare il che è assurdo; in secondo luogo, poiché
simultaneamentí sorgono dentro di noi molte rappresentazioni, anche
l’anima verrebbe a possedere una vasta pluralità di configurazioni,
il che è ancora più assurdo dell’assurdità precedente». Lo stesso
Crisippo, pertanto, supponeva che il termine «impressione» fosse
stato usato da Zenone7 in luogo di «alterazione», sicche la
definizione sarebbe la seguente: «rappresentazione è alterazione
dell’anima», ormai non essendo assurdo 〈il fatto che〉 il medesimo
corpo riceva una pluralità di rappresentazioni perché queste
coesistono in noi unitariamente [nello stesso tempo]8; difatti, come
l’aria, quando parlano simultaneamente molte persone, ricevendo
simultaneamente numerose e diverse percussioni, subisce
immediatamente anche una pluralità di alterazioni, così anche la
«parte egemonica»9, ricevendo una varietà di rappresentazioni, verrà
a subire un’affezione analoga.
Altri10, pero, dicono che questa definizione non è corretta,
nonostante l’emendamento apportatovi da Crisippo. Se, infatti, si
riscontra una certa rappresentazione, questa risulta essere
impressione e alterazione dell’anima; ma, se si viene a riscontrare
un’impressione dell’anima, quest’ultima non sempre s’identifica con
la rappresentazione. Quando, infatti, si avvertono una contusione al
dito o un prurito alla mano, si producono senz’altro un’impressione
e un’alterazione dell’anima, ma noi si genera affatto una
rappresentazione, dal momento che quest’ultima non si produce per
accidente in una qualsiasi parte dell’anima, ma soltanto nel
pensiero e nella «parte egemonica».
Per ovviare alle critiche di costoro, gli Stoici affermano che
nell’espressione «impressione nell’anima» è implicitamente contenuta
l’aggiunta «in quanto sia nell’anima», per cui l’intera definizione
sarebbe questa: «rappresentazione è impressione nell’anima in quanto
essa sia nell’anima». Difatti come l’efelote viene definita
«bianchezza nell’occhio», ossia in una determinata parte dell’occhio
– per non dire che tutti noi uomini abbiamo l’efelote per il solo
fatto che tutti abbiamo il bianco nell’occhio –, allo stesso modo,
quando affermiamo che la rappresentazione è un’impressione
nell’anima, con ciòveniamo implicitamente a dire che essa si produce
in una determinata parte dell’anima – vale a dire in quella
«egemonica» –, sicché la definizione, formulata nel modo più
esplicito, viene ad essere la seguente: «rappresentazione è
l’alterazione nella parte egemonica».
Altri11, però, pur partendo dalle stesse argomentazioni, si sono
difesi con maggiore sottigliezza. Essi, infatti, affermano che il
termine «anima» è usato in due accezioni, perché esso indica sia ciò
che comprende l’intera struttura dell’essere vivente, sia in modo
particolare la «parte egemonica». Difatti, quando noi diciamo che
l’uomo è composto di anima e di corpo o che la morte è la
separazione dell’anima dal corpo, intendiamo parlare, in modo
peculiare, della parte egemonica. E allo stesso modo quando noi,
classificando i beni, diciamo che alcuni di questi concernono
Fanima, altri il corpo e altri sono esterni, non intendiamo
riferirci all’anima nella sua interezza, ma solo alla parte
egemonica di essa, giacché a questa appartengono le affezioni e i
beni. Perciò, anche quando Zenone afferma che rappresentazione è
«impressione nell’anima»12, bisogna intendere non «anima» nella sua
interezza, bensi quella determinata parte di essa, talché
l’espressione possa suonare cosi: «rappresentazione è impressione
nell’egemonico».
Ma anche se le cose stanno così – dicono alcuni13 -, si è sbagliato
ancora una volta. Difatti pure l’appetito e l’assenso e
l’apprensione sono alterazioni dell’egemonica, ma differiscono dalla
rappresentazione, giacché questa è una nostra passività e una nostra
disposizione, mentre quelli, senz’altro, sono nostre attività. Non
è, perianto, valida quella definizione, perchè include molte cose
differenti14. E come chi, nel definiré Fuomo, afferma che l’uomoè
«essere vivente ragionevole»15 non for-nisce una valida nozione
delFuomo per il semplice fatto che anche il dio è un «essere vivente
ragionevole», così cade in errore anche chi indica la
rappresentazione come «alterazione dell’egemonico», giacché in tal
modo la nozione di rappresentazione non viene fornita più che quella
di ciascuno dei movimenti sopra enumerati. Ma, tenendo conto anche
di questa obiezione, gli Stoici ricorrono ancora una volta alle loro
«implicazioni»16 e dicono che nella definizione della
rappresentazione si deve intendere implicitamente presente anche
l’espressione «secondo passività». Come, infatti, chi definisce
l’amore «impulso di conquistare l’affetto». intende
implicitamente aggiungere «da parte di giovani nel fiore delFetà»
anche se egli non riporta esplicitamente questa precisazione (che
nessuno s’innamora di chi è vecchio e non possegga il fior di
giovinezza), allo stesso modo, quando noi affermiamo che la
rappresentazione è alterazione delFegemonico, implícitamente
intendiamo aggiungere – essi asseriscono – che l’alterazione si
produce «secondo passività»); e non affatto secondo attività.
Ma pare che neppure in questo modo essi siano sfuggiti all’accusa17.
Quando, invero, la parte egemonica viene alimentata e, per Zeus,
viene anche accresciuta, essa viene, si, alterata «secondo
passività», ma siffatta sua alterazione, quantunque si eserciti
secondo passività e disposizione, non s’identifica affatto con la
rappresentazione, a meno che essi non affermino, ancora una volta,
che la rappresentazione è una forma particolare di passività, forma
che è différente da un tal genere di disposizioni, oppure non
asseriscano questo: che, cioè, appartenendo la rappresentazione o
agli oggetti esterni o alle affezioni interne a noi (cosa che essi,
con un termine alquanto appropriato, chiamano «vuota attrazione»)18,
in ogni caso, nella definizione del termine rappresentazione, è
implícito che la passività si genera o mercé un’impressione
dall’esterno o mercé le afíezioni interne a noi, cosa che non si puô
riscontrare nel caso dell’alterazione prodotta dai processi di
accrescimento e di nutrizione.
Così, perlò, la rappresentazione è ardua a definirsi da parte degli
Stoici; tra le rappresentazioni, poi, si incontrano anche numeróse e
varie differenze, ma basteranno quelle che ora illustreremo.
Alcune rappresentazioni19, invero, sono probabili, altre
non-probabili, altre probabili-e-non-probabili, altre, infine,
né-probabili-né-non-probabili. Sono probabili quelle che producono
nell’anima un moto pacato, come fanno, ad esempio, in questo istante
le espressioni «è giorno» e «io sto discutendo» e ogni altra che
partecipi di un’evidenza così scontata; sono, invece, non-probabili
quelle che non hanno siffatta caratteristica, ma che ci distolgono
dall’assenso, come fanno, ad esempio, le espressioni «se è giorno,
non c’è sole sulla terra», «se è buio, è giorno»; risultano, poi,
probabili-e-non-probabili quelle che, secondo lo stato in cui si
trovano in relazione a qualcosa, sono una volta tali e una volta
talaltre, come, ad esempio, avviene nei ragionamenti problematici20;
risultano, infine, né-probabili-né-non-probabili quelle che
riguardano cose di tal genere: «le stelle sono di numero pari; le
stelle sono di numero dispari»21.
Delle rappresentazioni probabili, poi, alcune sono veré, altre
false, altre vere-e-false, altre né-vere-né-false. Sono veré quelle
su cui è possibile formulare un’affermazione vera, come, in questo
momento, nel caso delle espressioni «è giorno» oppure «c’è luce»;
sono false quelle su cui è possibile formulare un’affermazione
falsa, come nel caso dell’espressione «il remo sotto l’acqua è
spezzato» oppure «il porticato è di forma cónica»; sono vere-e-false
le espressioni, ad esempio, che partivano da Elettra e colpivano
Oreste durante la follia22 (difatti, in quanto egli
provava l’impressione che avesse a che fare con qualcosa di
esistente, erano vere, giacché Elettra esisteva; ma in quanto egli
provava l’impressione che si trattasse di un’Erinni, erano false,
giacché l’Erinni non c’era affatto), e lo stesso avviene anche,
ad esempio, se un uomo, dormendo, subisce in sogno una falsa e vana
«attrazione» nell’immaginare che gli stia accanto Dione vivo. Sono,
infine, né-vere-né-false le rappresentazioni generiche: infatti i
generi di quelle cose le cui determinazioni specifiche sono tali o
talaltre, non sono né tali né talaltri, come, ad esempio, tra gli
uomini alcuni sono Elleni e altri sono barbari, ma l’uomo come
genere non è Elleno – altrimenti tutti gli uomini particolari
sarebbero Elleni – né bárbaro, per il medesimo motivo.
Delle rappresentazioni vere, poi, alcune sono apprensive, altre no.
Non sono apprensive quelle che colpiscono alcuni durante uno stato
morboso: infatti innumerevoli persone, sofferenti di delirio o di
atrabile, ricevono una rappresentazione che, pur essendo vera, non è
apprensiva, ma ha uno stimolo esterno e casuale, di guisa che quelle
persone non possono darne una conferma sicura né danno
loro l’assenso. Apprensiva è, invece, «quella rappresentazione
che proviene da un oggetto esistente e che è impressa e improntata
nel soggetto in conformità con lo stesso oggetto esistente, ed è
tale da non poter derivare da un oggetto che non esista»23; e,
invero, gli Stoici ci assicurano che questa rappresentazione riesce
a recepire in alto grado gli oggetti reali e che ne porta impresse
in modo artistico tutte le proprietà, e affermano che essa ha in
possesso le proprietà degli oggetti. La prima di queste proprietà è
il fatto che la rappresentazione apprensiva proviene da un oggetto
esistente; difatti ci colpiscono molte rappresentazioni che
provengono da cose non esistenti, come accade nei casi di follia, e
queste non possono essere apprensive. La seconda proprietà è il
fatto che la rappresentazione apprensiva non solo proviene da ciò
che è esistente, ma è conforme a ciòche è esistente: infatti alcune
rappresentazioni, a loro volta, pur provenendo da un oggette
esistente, non gli assomigliano, come mostravamo poc’anzi24nel caso
della follia di Oreste. Questi, infatti, traeva la rappresentazione
da un qualcosa di esistente, ossia da Elettra, ma non in modo
conforme alla stessa cosa esistente, giacché supponeva che essa
fosse una delle Erinni, e perciò, quando quella gli si appressa e si
sforza di curarlo, egli la respinge dicendo25:
Via, tu che sei delle mie Erinni una;
ed Eracle26 da un qualcosa di esistente traeva l’impressione di
Tebe, ma non in modo conforme alla stessa cosa esistente: difatti la
rappresentazione apprensiva deve prodursi in conformità con la cosa
che esiste. Non solo, ma è indispensabile, altresi, che essa sia
«impressa e improntata»27 nel soggetto, affinché tutte le
particolarità dell’oggetto rappresentato possano venir riprodotte a
regola d’arte. Come, infatti, gli incisori vanno palpeggiando tutte
le parti delle opere che stanno compiendo, e come i sigilli degli
anelli imprimono sempre con precisione sulla cera tutti i loro
contrassegni, allo stesso modo anche quelli che
cavano l’apprensione dagli oggetti devono recepire tutte le
proprietà di questi ultimi. E quei filosofi aggiunsero la
precisazione «e la rappresentazione è tale da non poter derivare da
un oggetto che non esista»28, perché gli Accademici29, al contrario
degli Stoici, hanno supposto l’impossibilità che si riscontri una
rappresentazione completamente simile all’oggetto. Gli Stoici,
infatti, asseriscono che chi possiede la rappresentazione apprensiva
discerne con tecnica precisione la differenza che è al fondo delle
cose, perché una siffatta rappresentazione, paragonata alle altre,
possiede una sua peculiare caratteristica, proprio come l’hanno
le ceraste, paragonate agli altri serpenti; gli Accademici, al
contrario, asseriscono la possibilità che si riscontri una
rappresentazione falsa la quale sia completamente simile a quella
apprensiva.
Gli Stoici più antichi asseriscono che criterio della verità è
questa rappresentazione apprensiva; quelli più recenti, invece, vi
hanno aggiunto la precisazione «purché essa non presentí alcun
ostacolo»30. Talvolta, invero, si riscontra una rappresentazione che
è, si, apprensiva, ma che è pure non-probabile a causa di una
qualche circostanza esterna. Cosi, ad esempio, quando Eracle31 si
presento ad Admeto riconducendogli di sotterra Alcesti, Admeto
desumeva da parte di Alcesti una rappresentazione apprensiva, ma non
vi credeva; e Menelao32, quando, rit ornando da Troia, vedeva la sua
Elena presso Proteo dopo aver lasciato sulla nave il fantasma di lei
per il quale si era combattuta una guerra décennale, recepiva una
rappresentazione bene «impressa e improntata» da parte di una cosa
esistente e in maniera conforme alla stessa cosa esistente, ma non
se ne impossessava (senza ostacolo)33. Sicché, mentre la
rappresentazione apprensiva s’identifica col criterio quando non
presentí alcun ostacolo, quelle erano indubbiamente apprensive, ma
presentavano ostacoli: difatti Admeto ragionava cosí: «Alcesti è
morta, e chi è morto non si alza in piedi, ma talvolta vanno in giro
certi esseri demoniaci!»; e Menelao, da parte sua, rifletteva di
aver lasciato sulla nave Elena ben custodita e pensava che molto
probabilmente non fosse Elena quella che era stata trovata a Faro,
bensi un fantasma o un demone.
Di qui si evince che la rappresentazione apprensiva non s’identifica
in senso assoluto col criterio della verità, ma s’identifica con
esso solo quando non presenti alcun ostacolo. Infatti, in
quest’ultima evenienza, essa, essendo evidente ed eccitante, per
poco non ci trascina, come essi dicono, per i capelli, inducendoci
all’assenso e non avendo bisogno di alcun’altra cosa per imprimersi
in cosiffatto modo o per evidenziare la propria distinzione rispetto
agli altri tipi di rappresentazione. Perciò pare anche che ogni
uomo, quando aspira ad apprendere con precisione un qualcosa,
insegua da se stesso una rappresentazione siffatta, come avviene, ad
esempio, se si tratta di cose visibili, allorché egli sta recependo
ancora in modo opaco una rappresentazione dell’oggetto. Egli,
infatti, aguzza lo sguardo e si accosta alFoggetto veduto per non
cadere completamente in errore, e si sfrega gli occhi e, insomma, fa
di tutto finché non riesce a trarre una rappresentazione penetrante
e incisiva dell’oggetto in questione, perché reputa che in questa
risieda l’attendibilità dell’apprensione. D’altronde, è impossibile
aftermare il contrario. E necessariamente chi si rifiuta di ritenere
che la rappresentazione s’identifichi col criterio, poiché egli è
indotto a ciò dalla presenza di un’altra rappresentazione, viene a
consolidare l’identità di rappresentazione e criterio, dal
momento che, per il riconoscimento della verità, la natura34 ci ha
donato, quasi raggio di luce, la facoltà di sentiré e la
rappresentazione, che per mezzo di questa si origina. È assurdo,
pertanto, espungere una facoltà così importante e privarcene al pari
della luce. Come, invero, cade senz’altro nell’assurdo un uomo che
da una parte ammette l’esistenza dei colorí e delle varietà presenti
in essi e dalll’altra elimina la vista come non esistente ed
improbabile, e che da una parte ammette l’esistenza dei suoni e
dalll’altra ritiene che non esista l’udito (chlé se non ci sono
gli organi per mezzo dei quali percepiamo colorí e suoni, noi non
possiamo neppure avère a che fare con colori e suoni), allo stesso
modo chi da una parte ammette l’esistenza degli oggetti e
dalll’altra incrimina la rappresentazione sensibile per mezzo di cui
egli stesso percepisce gli oggetti, è un individuo completamente
rimbambito, anzi si degrada al livello delle cose inanimate35.
1. I Peripatetici, secondo Sesto (Adv. log. I, 217-226), ponevano il
criterio di verità sia nei sensi (come strumento) sia
nell’intelletto (come artista). Il presente brano, che riportiamo
per intero, esprime tutto il tormento degli Stoici nel determinare
il loro concetto di φαντασία αταληπτι αταληπτιή ed è tutto un
sapiente intreccio di esposizione e di critica che ci vieta di
sminuzzarlo.
2. Sesto tratta degli Stoici alla fine del suo ampio excursus
storico sul criterio di verità. Egli riserva ai principali avversari
dello Scetticismo il posto d’onore per colpirli ancora più
duramente, come già aveva fatto Carneade.
3. Per questo celebre termine cfr. Stoic, vet. frag. I, 55-59, 484;
II, 52-101 Arnim.
4. Le argomentazioni dei §§ 228-231 si ritrovano anche in Adv. log.
I, 372-373.
5. Stoic. vet. frag. I, 484 Arnim.
6. Cfr. Pyrrh. hyp. II, 70.
7. Cfr. Stoic. vet. frag. I, 58 Arnim.
8. L’espressione è atetizzata come glossa dal Mutschmann; il Bekker
il Bury la considerano autentica.
9. Cfr. Stoic, vet. frag. II, 59 Arnim.
10. Si tratta di Stoici che probabilmente subirono l’influsso di
Carneade.
11. Si tratta ancora di Stoici che forse riproponevano dottrine
aristoteliche adattandole alla terminologia della loro scuola.
12. Stoic. vet. frag. I, 58 Arnim.
13. Sono altri Stoici.
14. La definizione, infatti, presuppone unità generica e differenze
specifiche (cfr. ARISTOT. An. post. II, 93b 39; Top. I, 101b 38,
103b 15; Metaph. VII, 4, 1030a 6.
15. Cfr. Pyrrh. hyp. II, 26 segg.
16. Il termine συν έµφασις non si riscontra nella raccolta
dell’Arnim Esso equivale ad µφασις (cfr. DIOG. LAERT. VII, 51).
17. Ovviamente da parte di Carneade e seguaci.
18. Ossia rappresentazione priva di oggetto rappresentato e, quindi,
solo illusoria e soggettiva (cfr. Stoic, vet. frag. II, 65, 69
Arnim).
19. La presente diairesis è di indubbia origine accademica.
20. Ossia nelle aporie, di cui aveva dato prova considerevole
Aristotele in Metaph. III.
21. Cfr. Pyrrh. hyp. I, 57; II, 90.
22. Cfr. EURIP. Orest. 264, come in Adv. log. I, 170.
23. Stoic, vet. frag. I, 59 Arnim.
24. In § 245.
25. EuRiP. Orest. 264.
26. Forse qui Sesto confonde Eracle col Penteo delle Baccanti di
Euripide, da lui menzionato in Adv. log. I, 192.
27. Come nella definizione riprodotta nel § 248.
28. Cfr. § 248.
29. In particolare Arcesilao e, poi, con emendamenti critici,
Carneade.
30. Cfr. Stoic, vet. frag. II, 258 Arnim.
31. Cfr. EURIP. Alcest. 1008 segg. l’episodio è menzionato anche in
Pyrrh. hyp. I, 228.
32. Cfr. EURIP. Helen. 528-96, come in Adv. log. I, 180.
33. così integra il Kochalsky in base alle linee 284, 5-6. Il Bury,
invece, φύσις-λóλoς-ϑεóς seguendo Lachelier, traduce: «he did not
accept it as valid».
34. La φύσις-γóγoς-ϑεóς (per cui cfr. Stoic, vet. frag. II, 937,
945, 1024 etc. Arnim) viene qui introdotta da Sesto quasi ex
abrupto, con un’ironia che gli deriva da Carneade.
35. II brusco passaggio, tipicamente stoico-zenoniano, da
considerazioni di ordine teorético a considerazioni e frecciate di
ordine morale, e aburriente riportato da Sesto con tutta Tapparenza
della fedeltà dossografica, ma con tutta l’acutezza di chi intende
dare all’intero brano un implicite significato critico.
Dissoluzione della «fantasia catalettica» 〈SESTO EMPIRICO, Adv log.
I, 401-421〉
Resta, allora, da ritenere alcune 〈rappresentazioni〉 attendibili e
altre non attendibili, come hanno affermato gli Stoici gli
Accademici: gli Stoici accettando le rappresentazioni «apprensive»,
gli Accademici quelle che sembrano essere «probabili»1. Ma anche
ciò, se noi conduciamo una disamina accurata, risulta somigliare più
ad un pio desiderio che ad una verità. Difatti una rappresentazione
apprensiva – per cominciare da questa – risulta essere «quella che
proviene da un oggetto esistente e che è impressa e improntata in
conformità con l’oggetto esistente ed è tale da non poter derivare
da un oggetto che non esista»2. E Carneade dice di poter concederé
agli Stoici tutto il resto dell’espressione, ma che non si può
conceder l’aggiunta «tale da non poter derivare da un oggetto
che non esista»3. Difatti certe rappresentazioni, allo stesso modo
che da cose esistenti, provengono anche da cose non-esistenti. Ed è
un indizio della loro indistinguibilità il fatto che esse risultano
egualmente evidenti ed efficaci, e del fatto che esse sono
ugualmente evidenti ed efficaci è un indizio il legame che con esse
hanno le azioni che ne conseguono. Come, infatti, durante la veglia,
chi ha sete gode ad attingere una bevanda o chi fugge una belva o un
altro essere spaventoso grida e urla, così anche nei sogni, gli
assetati provano diletto e sembra loro di bere una fonte, e in modo
analogo quelli che sono spaventati provano paura:
Achille balzò inorridito,
Batté palma a palma e proruppe in queste dolenti parole4.
E come nello stesso stato 〈di buona salute〉 noi crediamo diamo
l’assenso alle cose che ci appaiono con la massima lucidità, e ci
comportiamo con Dione in quanto questi è Dione con Teone in quanto
questi è Teone, così alcuni nello stato di follia subiscono presso a
poco le stesse affezioni. Cosi Eracle, essendo impazzito e avendo
desunta dai propri figli una rappresentazione come se questi fossero
i figli di Euristeo, la seguì, facendo corrispondere a questa
rappresentazione Fazione5. l’azione corrispondente che ne seguì era
quella di sopprimere i figli del nemico, ed egli la compi. Se,
pertanto, sono apprensive certe rappresentazioni in quanto
c’inducono a dare un assenso e a seguirle facendo loro corrispondere
un’azione, allora, poiché si manifestano nella stessa maniera anche
rappresentazioni false, bisogna dire che le rappresentazioni non
apprensive sono indistinguibili da quelle apprensive. E come l’eroe
recepiva una rappresentazione dai dardi (in quanto erano dardi)6,
così anche la recepì dai propri figli, quasi che costoro fossero i
figli di Euristeo. Infatti una sola e medesima era la
rappresentazione che si era precedentemente offerta ed era stata
recepita da chi stava in quelle condizioni, ma quella prodotta dai
dardi era vera, mentre era falsa quella prodotta dai figli. Poiché,
pertanto, entrambe provocarono uguali affezioni, bisogna convenire
che non si possono distinguere l’una dalll’altra; e se quella
prodotta dai dardi si dice «apprensiva» perché (l’)7 azione che la
seguì fu congiunta ai dardi di cui Eracle si serví in quanto erano
dardi, si dica che anche la rappresentazione suscitata dai figli non
differiva da quella, in quanto anche ad essa fu congiunta Fazione
corrispondente, vale a dire il dover e di uccidere i figli del
nemico8.
Risulta così stabilita l’impossibilità di distinguere, in base alle
proprietà dell’evidenza e dell’intensità9, le rappresentazioni
apprensive da quelle non apprensive.
Ma con non minore efficacia viene indicata dagli Accademici10 anche
l’impossibilità di distinguerle in base alle caratteristiche o
al’impressione. Essi, anzi, invitano gli Stoici a meditare sulle
cose apparenti11. Difatti, quando si ha a che fare con cose simili
nella forma ma differenti nella sostanza, è impossible discernere la
rappresentazione apprensiva da quella falsa e non-apprensiva. Ad
esempio, 〈se〉12 di due uova che sono tra loro completamente simili
io presento allo Stoico ora l’uno ora l’altro, quel sapiente, messo
di fronte all’uovo, 〈non〉 avrà potere di asserire con assoluta
certezza se l’uovo che gli si fa vedere sia l’uno o l’altro o,
magari, un altro ancora. Lo stesso discorso vale anche per i
gemelli. Difatti quel buon uomo, quantunque ritenga che «la
rappresentazione proviene da un oggetto esistente ed è impressa e
improntata in conformità della stessa cesa esistente»13, recepirà
una rappresentazione falsa se accoglie quella che proviene da
Castore come se fosse quella proveniente da Polluce. Proprio di qui,
del resto, ha tratto la sua formulazione il ragionamento del
«velato»14. Supponiamo, ad esempio, che un serpente faccia spuntare
il suo capo dal nascondiglio: se noi vogliamo, in seguito, esaminare
l’oggetto reale, andremo a cascare in una grave difficoltà e non
sapremo dire se il serpente sia proprio quello che precedentemente
ha fatto spuntare il capo o un altro, sup posto, ovviamente, che un
grande numero di serpenti sia disseminato nello stesso covo.
Pertanto la rappresentazione apprensiva non possiede alcuna
peculiarità che la renda differente dalle rappresentazioni false e
da quelle non-apprensive.
Inoltre, se c’è qualche altra cosa che sia capace di apprendere
alcunché, questa è, appunto, la vista. Eppure, neanche questa è in
grado di apprendere alcunché, come preciseremo epperò non c’è niente
che riesca ad apprendere alcunché.
La vista, infatti, sembra recepire colori e grandezze e figure e
movimenti, ma, in realtà, non recepisce nulla di tutto questo, come
risulterà immediatamente, se incominciamo dai colori. Se, invero,
come sostengono gli Accademici, la vista apprende un qualche colore,
essa apprenderà anche quello dell’uomo: ma quest’ultimo essa non lo
apprende; dunque non apprenderà nessun altro colore. E che non
l’apprende è manifesto, giacché l’uomo cangia colore secondo le
stagioni, le attività, le disposizioni naturali, le età, le
circostanze, le malattie, la salute, il sonno, la veglia, di guisa
che noi conosciamo questa varietà di tinte, ma ignoriamo quale sia
la vera essenza del colore umano. E così, se questo non si può
apprendere, non potrà essere conosciuto neppure un qualche altro
colore. Ed anche a proposito della figura troveremo lo stesso genere
di diificoltà. Difatti, il medesimo oggetto si presenta liscio e
ruvido, come avviene nelle pitture, rotondo e quadrato, come nel
caso delle torri, dritto o spezzato, come nel caso del remo che
emerge o è immerso nel mare, e, per quanto concerne il movimento, ci
si presenta in moto o in quiete, come quando si è seduti su una nave
o si sta a riva15.
D’altronde, se la rappresentazione non-apprensiva viene a coincidere
con quella apprensiva, quest’ultima non può essere criterio di
verità. Come, infatti, ciò che coincide con lo storto non può essere
criterio del dritto, così non può essere criterio la
rappresentazione apprensiva, se viene a coincidere con quelle false
e non-apprensive. Ma la rappresentazione non-apprensiva viene
appunto a coincidere con cose false e non-apprensive, come
preciseremo; dunque essa non è criterio delle cose vere e di quelle
false.
Infatti, nel caso del sorite16, quando l’ultima
rappresentazione apprensiva viene a trovarsi accanto alia prima
non-apprensiva e si può, perciò, difficilmente distinguere da
questa, Crisippo17 afferma che, a proposito di quelle
rappresentazion la cui differenza viene ad essere, in tal modo,
piccola, il saggio se ne starà quieto e zitto, ma per quelle la cui
differenza risulta maggiore, darà l’assenso ad una delle due,
ritenendola vera. Se, pertanto, noi veniamo a stabilire che molte
rappresentazioni false e non-apprensive si trovano accanto a quelle
apprensive, avremo di già ovviamente sancito che non si deve dare
l’assenso alla rappresentazione apprensiva, per evitare che noi,
approvando quest’ultima, siamo indotti a dare l’assenso anche a
quelle non-apprensive e false a cagione della loro evidenza persino
nel caso che tra le rappresentazioni sembri esservi differenza
grandissima. E quello che stiamo dicendo risulterà chiaro con un
esempio. Si assuma come rappresentazione apprensiva «cinquanta è
poco», che sembra di gran lunga distinta; dalll’altra «diecimila è
poco». Orbene, siccome intercorre una enorme differenza tra
«cinquanta è poco» (che è rappresentazione apprensiva), e «diecimila
è poco» (che è non-apprensiva) il buon uomo non sospenderà il
giudizio, perché la differenza che si riscontra è grossa, ma
darà l’assenso alla rappresentazione apprensiva «cinquanta è
poco» e non darà l’assenso a quella non apprensiva «diecimila è
poco». Ma se il saggio non assentirà all’espressione «diecimila è
poco», in quanto questa è di gran lunga diversa da quella «cinquanta
è poco» è ovvio che egli vorrà dare il beneplácito almeno alla
rappresentazione «cinquant(uno)18 è poco», dato che non c’è nulla di
mezzo tra questa rappresentazione e quella «cinqoanta poco». Se,
però, la rappresentazione «cinquanta è poco» fosse l’ultima ad
essere ammessa come apprensiva, in tal caso la rappresentazione
«cinquantuno è poco» verrebbe ad essere la prima non apprensiva. Ma
allora il buon uomo verrebbe ad assentire ad una rappresentazione
non-apprensiva, cioè a «cinquantun è poco»; e se darà l’assenso
a questa, in quanto essa non presenta alcuna differenza rispetto a
«cinquanta è poco >:, verrà a dare il suo beneplacito anche a
quella «diecimila è poco» che è non-apprensiva. Difatti ogni
rappresentazione non-apprensiva è uguale ad (ogni)19
rappresentazione non-apprensiva. Poiché, però, la rappresentazione
non-apprensiva «diecimila è poco» è uguale a quella «cinquantuno è
poco» e quest’ultima20per nulla è risultata differente e distinta da
«cinquanta è poco» (che è quella apprensiva), allora la
rappresentazione apprensiva «cinquanta è poco» verrà ad essere
uguale a quella «diecimila è poco» (che è non-apprensiva). E così la
rappresentazione apprensiva, non potendo essere distinta da quella
falsa e non-apprensiva, verrà a coincidere con questa.
1. Cfr. Adv. log. 237 segg. per gli Stoici e 174 segg. per Carneade.
2. Secondo la definizione di Adv. log. I, 248.
3. Cfr. Adv. log. I, 164.
4. HOM. II. XVIII, 101-102.
5. Ossia uccidendo i suoi stessi figli (cfr. EURIP. Here, fur. 969).
6. L’opportuna integrazione è dello Heintz.
7. L’aggiunta è ancora heintziana.
8. Con grande acume critico Carneade fonde la tragedia etica
delFantico eroe con la tragedia teorética della conoscenza. Per le
obiezioni stoiche a questi rilievi di Carneade e per le ulteriori
risposte di quest’ultimo cfr. Cíe Lucull. XXVII, 88.
9. Questa critica dell’evidenza (νάργεια) e dell’intensità (ντoνoν
δίωµα) va tenuta presente per sottolineare l’abbandono di un certo
fenomenismo pirroniano-timoniano da parte di Carneade prima e di
Sesto Empirico poi.
10. Soprattutto da Carneade.
11. Il passo è fondamentale, perché dimostra Tingenuità della tesi
trad zionale di un globale fenemenismo scettico.
12. così integra opportunamente lo Heintz.
13. Cfr. Adv. log. I, 248.
14. Questo tipo di argomentazione sofistica risale ad Eubulide di
Mileto (cfr. D10G. LAERT, II, 108; ARISTOT. Soph. el. 24, 179a 35;
LUCÍAN. Vit. auct. 22). Esso si esprimeva così: «colui che dice di
conoscere suo padre e nega di conoscerlo quando il padre, gli sta
velato davanti, cade in contraddizione Sul «velato» scrisse un libro
anche Crisippo (DIOG. LAERT, VII, 196 = Stoi vet. frag. II, 15
Arnim), che fu ricordato e criticato anche da Plutarco (De prof, in
virt. 1, 75d). Per più ampie notizie cfr. K. PRANTL, Geschichte der
Logi, im Abendlande, I, 490; DURING, Die Megariker, pp. 112-4.
15. Per queste famose esemplificazioni, che già Cicerone
(soprattutto nel Lucullus) desumeva dalla tradizione Carneadea, cfr.
Pyrrh. hyp. I, 92, 102, 118, 119.
16. I §§ 416-421 concordano, in linea di massima, con CIC. LuculL
XXIX, 93-95. Non si tratta qui del mucchio di sillogismi (unione di
soggetto e predicate nella conclusione mediante molti termini medi,
come in ARISTOT. An. pr. I, 23), bensi solo di un accumularsi di
rappresentazioni (cfr. Pyrrh. hyp. II, 253; Cic. Lucull XVI, 49 e,
per più ampie informazioni, E. W. BETH, Le paradoxe du «Sorite»
d’Eubulide de Mégare, «La vie, la pensée», Acte du Vile congr. des
soc. de philos, de langue française», 1954, pp 237-41 DöRING, Die
Megariker, pp. 111-2).
17. Cfr. Stoic, vet. frag. II, 276 Arnim e Pyrrh. hyp. II, 253.
18. L’indispensabile aggiunta è del Kochalsky.
19. L’aggiunta è dello Heintz.
20. L’aggiunta è del Bury. l’argomentazione Carneadeo-sestiana (cfr.
Adv. math. I, 68) è di remota provenienza zenoniano-eleatica (cfr.
ARISTOT. Phys. VI, 250a 20) e fu abilmente utilizzata da Eubulide
(cfr. DIOG. LAERT. II, 10, 108).
Soppressione della dimostrazione generica (SESTO EMPIRICO, Adv.
log. II, 337 a-347)
Poiché conviene condurre metodicamente i nostri contrattacchi,
dobbiamo ricercare quale sia il tipo di dimostrazione contro cui
massimamente adduciamo le nostre istanze.
Orbene: se noi pretendessimo di opporci a tutte le dimostrazioni
particolari e a quelle che si riferiscono ad ogni arte, faremmo
un’obiezione carente di método, giacché dimostrazioni siffatte sono
infinite1; se, invece, sopprimiamo la dimostrazione generica – la
quale, appunto, sembra capace di contenere in sé tutte quelle
specifiche –, risulta chiaro che, in questa, noi avremo soppresso
tutte quante quelle. Corne, infatti, se non c’è animale, non c’è
neppure uomo, e se non esiste uomo, non viene ad esistere neppure
Socrate – per il fatto che le specie vengono eliminate insieme con i
generi –, allo stesso modo, se non esiste una dimostrazione
generica, se ne va via ogni dimostrazione specifica. Difatti con le
specie non viene completamente eliminato il genere, come l’uomo non
se ne va via insieme con Socrate, ma col genere viene cancellata
anche la specie. È indispensabile, allora, che anche quelle
〈argomentazioni〉2 che intendono mettere in bilico la
dimostrazione, si limitino a rimuovere la sola dimostrazione
generica, giacché risulta che anche le altre tengono dietro a
questa.
Pertanto la dimostrazione, poiché è – come abbiamo argomentato3 –
non-evidente, abbisogna di essere dimostrata perché ogni cosa
non-evidente, se viene assunta senza dimostrazione, risulta
inattendibile. Allora l’esistenza di una qualche dimostrazione
verrà stabilita o da una dimostrazione generica o da una specifica.
Ma non è affatto possibile da una specifica, giacché non esiste
ancora alcuna dimostrazione specifica, per il fatto che non ancora
ci si è messi d’accordo su quella generica. Difatti come, quando non
è ancora chiara l’esistenza di animale, neppure risulta conoscibile
l’esistenza di cavallo allo stesso modo, se non è stata ancora
ammessa di comune accordo l’esistenza di una dimostrazione generica,
nessuna dimostrazione particolare potrebbe meritar credito; e
ciòanche a voler prescindere dal fatto che caschiamo nel tropo del
diallelo: difatti, perché possa essere consolidât a la dimostrazione
generia, noi dobbiamo possedere come attendibile quella specifica, e
per ammettere concordemente quella specifica, dobbiamo possedere ben
consolidata a quella generica, di guisa che né possiamo avere quella
prima di questa né questa prima di quella. Risulta, quindi,
impossibile provare la dimostrazione generica in base quella
specifica. Ma neppure in base a quella generica! Questa è, infatti,
l’oggetto dell’indagine ed essendo non-evidente e sotto inchiesta,
non potrebbe essere capace di stabilire se stessa, essa che,
certamente, è bisognosa di cose che la disvelino. A meno che essa,
assunta per ipotesi4, non venga dichiarata capace di stabilire
qualcosa. Ma una volta che certe cose vengano assunte per ipotesi e
si considerino attendibili, che bisogno c’è di dimostrarle, dal
momento che noi possiamo assumerle nostro piacimento e ritenerle –
in virtù dell’ipotesi – meritevoli di fiducia senza prova alcuna?
Oltre a ciò, se la dimostraziore generica è in grado di stabilire la
dimostrazione generica, essa stessa verrà ad essere simultáneamente
manifesta e non-evdente: in quanto dimostra, è manifesta: in quanto,
invece, viene dimostrata è non-evidente. E sarà, nello stesso modo,
meritevole e non-meritevole di credenza: meritevole, in quanto è
capace di disvelare un qualcosa; non-meritevole, in quanto viene
disvelata. Ma è del tutto assurdo affermare che la medesima cosa è
immediatamente evidente e, insieme, non-evidente, meritevole e
immeritevole di credito. Pertanto, anche il reputare che la
dimostrazione generica sia atta a stabilire se medesima risulta
assurdo5.
Ma non basta6: anche in un altro modo è possibile rilevare che né
una dimostrazione né qualsivoglia delle altre cose esistenti possa
essere stabilita per mezzo di una dimostrazione generica. Difatti la
dimostrazione generica o possiede certe determinate premesse e una
certa determinata conclusione 〈oppure non le possiede〉7. Ma, se
possiede queste determinate premesse e questa determinata
conclusione, è già diventata una delle dimostrazioni specifiche. Se,
invece, non possiede premesse né conclusione, poiché senza premesse
e senza conclusione la dimostrazione non perviene alia deduzione,
allora la dimostrazione generica non verrà a dedurre proprio niente
e, non deducendo niente, non dedurrà neppure la sua stessa
esistenza.
Se, pertanto, si conviene che la prima dimostrazione deveessere essa
stessa dimostrata, e se questa non può essere dimostrata né da una
dimostrazione generica né da una specifica, è evidente che, non
trovandosi alcun’altra cosa oltre queste, noi dobbiamo tenere nella
custodia della sospensione del giudizio l’indagine concernente la
dimostrazione8. E se pur la prima dimostrazione viene dimostrata,
essa viene provata o da una dimostrazione che è ancora discutibile o
da una indiscutibile. Ma da una indiscutibile non si può! Infatti
ogni altra dimostrazione, una volta che la prima sia divenuta
oggetto di controversia, è discutibile. Ma neppure da una
discutibile! Infatti quella, se è discutibile, ha bisogno, a sua
volta, di essere stabilita da un’altra dimostrazione, e la terza da
una quarta, e la quarta da una quinta, e così via all’infinito.
Epperò non è possibile che la dimostrazione si trovi in una
posizione stabile.
1. E dell’infinito non c’è né scienza né confutazione, sottintende
Sesto in pieno accordo col dommatico Aristotele.
2. L’integrazione è dello Heintz.
3. In Adv. log. II, 322 segg.
4. Cfr. Pyrrh. hyp. I, 173. Il concetto di ipotesi viene discusso e
demolito in Adv. math. III, 6-17.
5. Questo tipo di argomentazione accademica che qui supprime
l’auto-dimostrazione e altrove l’auto-criterio o l’auto-movimento
risale ad Aristotele (Phys. VII-VIII).
6. Questo parágrafo è parallelo a Adv. log. II, 383-384 e a Pyrrh.
hyp. II, 172.
7. L’integrazione è del Mutschmann.
8. Appare qui con chiarezza che gli Scettici pervengono all’ πoχή
perché vogliono dare dimostrazione di tutto, senza tener conto del
monito di Aristotele (Metaph. III, 997a 8; IV, 1006a 8). Secondo il
Robin (Pyrrhon et le scept. grec, p. 87) solo Tultima parte di
questo passo sarebbe di provenienza Carneadea. Per l’applicazione di
questa critica alle dimostrazioni della matemática cfr. Cic. XXXVI,
116.
Critica della teologia epicurea (CICERONE, De nat. deor. I,
XXI-XLIV, 57-124, passim)
Allora Cotta1 con la sua solita affabilità, cominciò a dire «Eppure,
o Velleio, se tu non avessi fatto alcuna afíermazione, certamente
nulla avresti potuto udire, di rimando, da parte mia2. A me,
infatti, il motivo per cui un qualcosa sia vero non viene in mente
con la stessa facilità con la quale viene quello per cui una cosa
sia falsa. Ed è, questo, un fatto che mi suole capitare di
frequente, ma che mi è soprattutto capitato poc’anzi, mentre tu
parlavi. Mi chiederai quale, a mio avviso, sia la natura degli dei:
io, forse, non ti potrei dare risposta alcuna. Tu mi potresti
domandare se io pensi che essa abbia le caratteristiche da te
prospettate poco fa: io ti potrei rispondere che nulla è più lontano
di essi dal mio modo di vedere.
Se tu volessi sapere da me quale sia l’essenza e quali siano gli
attributi della divinità, io mi servirei della testimonianza di
Simonide3. Egli, poiché il tiranno Ierone gli fece proprio questa
domanda, chiese un intero giorno per decidere. E
poiché l’indomani quello gli ripeté la domanda, chiese due
giorni. E siccome ogni volta Simonide raddoppiava il numero dei
giorni e Ierone gli chiedeva con meraviglia il motivo di questo suo
comportamento, rispose: «Perché più ci rifletto e più oscura mi
sembra la faccenda!». Ma, a parer mio, Simonide (la tradizione vuole
che egli sia stato non solo un soave poeta, ma anche, peraltro, una
persona colta e saggia), poiché gli venivano in mente molte risposte
acute e sottili, non sapeva con certezza quale di esse fosse la più
verifiera e perdeva, perciò, ogni speranza della verità.
Il tuo Epicuro invece (preferisco, a dire il vero, pigliarmela con
lui piuttosto che con te) non dice nulla che sia degno non solo
della filosofia, ma neppure di una mediocre saggezza.
Nell’indagine concernente la natura degli dei si presenta in primo
luogo il dilemma se essi esistano o no. «È difficile dare una
risposta negativa». È difficile darla, se si discute la questione in
un consesso pubblico; ma in una conversazione privata, come la
nostra, è molto facile! Pertanto io stesso, che pur sono pontefice e
che pensòvadano tutelati col massimo scrupolo le cerimonie e i
pubblici riti, proprio io, su questo punto fondamentale – ossia
sull’esistenza degli dei – vorrei rimanere pienamente convinto non
solo sulla base di una con-gettura, ma anche in relazione alla
verità. Mi si presentano, infatti, molti motivi di imbarazzo, fino
al punto che talora mi sembra che gli dei non esistano affatto.
Ma guarda come sono generoso con te! Quelle dottrine che, come
questa, voi avete in comune con gli altri filosofi, io non le voglio
toccare: piace, infatti, quasi a tutti – e anzitutto a me stesso –
che gli dei esistano. Perciò non mi oppongo. Ciô, però, non toglie
che la prova addotta da te io non la consideri sufficientemente
valida.
Tu hai affermato che è argomentazione abbastanza rilevante per
indurci ad ammettere l’esistenza degli dei il fatto che così la
pensano gli uomini di tutti i popoli e di tutte le razze. Ma si
tratta di un’argomentazione che di per se stessa è fatta con
leggerezza ed è, per giunta, anche falsa. Anzitutto, da dove sei
venuto a conoscere le opinioni dei vari popoli? A dire il vero, io
pensòche ci sono moite popolazioni così abbrutite dalla barbarie che
presso di loro non esiste neppure la più pallida idea delle
divinità. Ebbene? Diagora4, soprannominato l’ateo; e poi Teodoro5
non eliminarono dichiaratamente la natura degli dei? Del resto
Protagora di Abdera, di cui tu poc’anzi hai fatte cenno, il massimo
sofista della sua epoca, avendo scritto all’inizio del suo libro «A
proposito degli dei non avrei da dire né che esistano né che non
esistano»6, fu scacciato per volere degli Ateniesi dalla città
e dal contado e i suoi libri furono bruciati in una pubblica
assemblea. E in seguito a questo fatto, io credo, molti divennero
più guardinghi ad emettere un simile pensiero, dal momento che
neppure il dubbio avrebbe potuto sottrarsi alla punizione. Cosa
diremo dei sacrileghi? Cosa degli empi e degli spergiuri?
Se mai Tubolo Lucio,
Se mai Lupo o Carbone, figlio di Nettuno,
come dice Lucilio7, avessero creduto nell’esistenza degli dei,
sarebbero stati così spergiuri e così sozzi? Orbene: codesta prova
che voi adducete a conferma di quello che vi aggrada non è tanto
chiara quanto potrebbe sembrare. Ma, poiché questa vostra
argomentazione è comune anche ad altri filosofi, per il momento non
la molesterô. Preferisco, invece, venire a quelle che sono
espressamente vostre.
Ammetto l’esistenza degli dei: fammi sapere, allora, da dove essi
traggano origine, dove siano, quali siano le proprietà del loro
corpo, della loro anima, della loro vita. Ecco quanto bramo sapere!
Per spiegare qualsiasi cosa tu fai uso ed abuso del capriccioso
potere degli atomi. Di qui tu vai formulando ed effettuando tutto
quello che, come si dice, cade sulla facci della terra. Ma,
anzitutto, codesti atomi non esistono affatto! Difatti non esiste
nulla che sia privo di corpo, anzi ogni luogo è pieno di corpi:
epperò nessun vuoto puô esistere e niente puô essere indivisibile.
Adesso io non faccio altro che diffondere gli «oracoli» dei fisici8:
siano essi veri o falsi, non lo so; ma, comunque, sono più
verosimili9 dei vostri.
Codeste vostre enormità risalgono a Democrito oppure, ancor prima di
lui, a Leucippo: che esistono, cioè, certi cor-puscoli lisci, certi
altri ruvidi, alcuni rotondi, altri anche appuntiti ed alcuni
ricurvi e quasi uncinati; che da questi sono stati prodotti il cielo
e la terra, senza Fintervento di alcun essere intelligente, ma per
un concorso quasi fortuito; e questo modo di opinare tu, o Velleio,
lo hai protratto fino ai nostri giorni, e ti si potrebbe staccare da
ogni siato vitale prima che da codesto dommatico convincimento!
Difatti tu hai accettato di essere epicureo prima di avere la
cognizione di queste cose. così è risultato inevitabile o tener
serbate nel cuore codeste enormità oppure screditare la dottrina
filosofica per cui hai optato. Quali vantaggi, infatti, trarresti,
se smettessi di essere epicureo? «Nessuno certamente – tu dici -, se
abbandonassi il método della vita beata e della verità», Ma allora è
proprio codesta la verità? Nessuna obiezione io sollevo per la «vita
beata» che tu pensi non risieda neppure rel dio, qualora questi non
languisca del tutto nell’ozio. Ma dov’è la verità? Nei mondi
innumerevoli, io credo, alcuni dei quali nascono ed altri cadono ad
ogni minimo istante? Oppure nei corpuscoli indivisibili che vanno
eseguendo un lavorio tanto egregio senza essere governad da alcun
essere ragionevole?
Ma mi sono scordato della mia generosità che poc’anzi avevo
cominciato ad usare nei tuoi riguardi e sto ammucchiando troppe
questioni. Ti concederò, allora, che tutto il mondo è fatto di
atomi. Che importa? Noi stiamo ricercando, del resto, la natura
degli dei. Ammettiamo pure che questi siano fatti di atomi: allora
essi non sono eterni. Infatti ciò che è composto di atomi ha pure
avuto nascimento una qualche volta; e se ha avuto nascimento, nessun
dio è esistito prima di nascere; e se gli dei hanno una nascita,
necessariamente hanno anche una morte, come poc’anzi10 tu andavi
dissertando a proposito del mondo di Platone. Dove sta, allora, la
vostra espressione «beato ed eterno», ossia quei due termini con cui
intendete significare il dio? Quando voi la volete mandare ad
effetto, ándate a cascare in un ginepraio. Difatti tu ti esprimevi
così: «In dio non c’è corpo, ma un quasi-corpo; non c’è sangue, ma
un come-sangue».
Molto spesso voi vi compórtate così: quando fate qualche
affermazione inverosimile e volete sottrarvi alla confutazione,
tráete in bailo un qualcosa che è completamente assurdo. Avreste
fatto meglio, quindi, ad essere remissivi su ciò su cui si era in
dubbio, anziché opporre una resistenza tanto spu-dorata! così, ad
esempio, Epicuro, rendendosi conto che, se gli atomi fossero spinti
in basso dal loro stesso peso, noi non avremmo avuto potere alcuno
per il fatto che il loro movimento sarebbe stato certo e necessario,
escogitò un modo per sottrarsi alla nécessita, il che era stato
manifestamente evitato da Democrito. Epicuro, infatti, asserisce che
l’atomo fa un po’ di deviazione, allorché è portato in modo
rettilineo verso il basso dal suo peso e dalla sua gravità.
Fare un’afîermazione come questa è peggio che non riuscire a
difendere quel principio che egli pur avrebbe voluto. Allo stesso
modo si comporta contro i dialettici: poiché costoro hanno insegnato
che in ogni proposizione disgiuntiva in cui si ponga «o si o no»,
una delle due cose è vera, egli ha paventato che, se si fosse fatta
una simile ammissione – ossia «domani Epicuro o vivrà o non vivrà»
-, una delle due cose sarebbe stata necessaria, e, perciò, ha
sostenuto che tutto Finsieme «o si o no» non è affatto necessario.
Epicuro non avrebbe potuto dire un’assurdità superiore a questa!
Arcesilao incalzava Zenone affermando che tutte le rappresentazioni
sensibili sono false; Zenone, dal canto suo, affermava che sono
false solo talune rappresentazioni: Epicuro, invece, paventò che, se
una sola rappresentazione fosse falsa, nessuna sarebbe vera, e così
venne ad affermare che i sensi sono annunziatori della verità. Ma
nessuna di queste sue teorie è sostenuta con troppa intelligenza, ed
egli, quindi, subiva un colpo più grave per scansarne uno più Heve.
Nel medesimo modo egli si comporta a proposito della natura degli
dei: mentre cerca di evitare Faggregazione degli atomi perché non ne
derivino morte e disfacimentó, sostiene che gli dei non hanno un
corpo, ma è «come se» lo avessero, e che non hanno sangue, ma è
«come se» lo avessero.
Sembra strano che un aruspice non si metta a ridere quando xxvi vede
un altro aruspice: ma è ancora più strano che voi riusciate a
trattenere il riso tra voi stessi. «Non esiste un corpo degli dei,
ma un quasi-corpo». Il tenore di quest’affermazione io lo capirei se
si trattasse di oggetti di cera o di figure di creta. Ma non
riuscirei mai a capire in un dio che cosa sia un «quasi corpo» o un
«quasi sangue». E neppure tu, o Velleio, ma non vuoi confessarlo.
Difatti voi ándate ripetendo come lezioni scritte sotto dettato
codesti vaneggiamenti che Epicuro emetteva tra uno sbadiglio e
l’altro, mentre andava vantandosi, come vediamo nei suoi scritti, di
non aver avuto maestro alcuno11. Ed io non avrei difficoltà a
credergli in questo, anche se egli non lo andasse predicando, e così
pure crederei al padrone di una brutta casa che si andasse vantando
di non essersi servito di alcun architetto. In Epicuro, infatti, non
si sente il profumo né dell’Accademia né del Liceo, e neanche di
quelle nozioni che anche i ragazzi sanno. Eppure egli avrebbe potuto
essere allievo di un Senocrate – quale uomo, per gli dei im-mortali!
-. E c’è chi crede che lo sia stato; ma egli si rifiuta di
ammetterlo, ed io credo a lui più che a qualunque altro! Egli
afferma di avère ascoltato a Samo un certo Panfilo12, allievo di
Piatone: li, infatti, da giovane Epicuro abitava col padre e con i
fratelli, poiché vi era giunto, come colono, suo padre Neocle; ma,
poiché il campicello non gli dava, credo, un vitto sufficiente, si
mise a fare il maestro di scuola. Epicuro, pero, mostra un sovrano
disprezzo per quel Platonico: tanta è la sua paura di sembrare
d’aver pur talvolta imparato qualcosa! Tuttavia si lascia cogliere
in fallo nel caso di Nausifane democriteo13, che egli non nega di
aver avuto come maestro, ma su cui riversa ogni sorta di improperi.
Eppure, se non avesse imparato quest e dottrine di Democrito, non
avrebbe imparato proprio nulla: difatti nella física di Epicuro non
c’è niente che non derivi da Democrito. Ché, quantunque si riscontri
qualche cambiamento – come poc’anzi ho detto a proposito
deirinclinazione degli atomi -, tuttavia egli ne ripete il più delle
volte le teorie, ossia quelle degli atomi e del vuoto, delle
immagini, dell’infinita estensione dei luoghi e deirinfinito numero
dei mondi, del loro nascere e del loro perire e di tutte le altre
cose che sono incluse in una «filosofia della natura».
Ma, nel caso nostro, che cosa intendi tu per «quasi corpo» per
«quasi sangue»? Che tu sappia codeste cose meglio di me non solo lo
ammetto, ma lo concedo di buon grado: eppure, una volta che siano
state fatte codeste asserzioni, che cosa c’è che Velleio possa
capire e Cotta no? Orbene: io capisco che cosa sia «corpo» e che
cosa sia «sangue», ma non riesco a capire in nessun modo che cosa
sia «quasi corpo» e «quasi sangue». E non sei tu a tenérmelo
nascosto, come soleva fare Pitagora con gli estranei, né sei tu a
parlare di proposito in modo oscuro, al pari di Eraclito, ma –
diciamolo pure tra noi -non lo capisci nemmeno tu …
… Tu, o Velleio, non hai seguito le abitudini degli Epicurei, ma
quelle dei dialettici14 (che la vostra genia non conosce af-fatto!)
nel trarre le conclusioni del tuo pensiero. Hai posto che gli dei
sono beati. Lo ammettiamo. E che nessuno può essere beato senza
virtù. Anche questo te lo concediamo, anzi volentieri. E che la
virtù non può sussistere senza ragione. Non si puô non essere
d’accordo anche su questo. Ma, poi, aggiungi che la virtù non puô
sussistere se non nella figura umana. Chi pensi tu che lo concederá?
Se, infatti, fosse così, che bisogno c’era che a questa conclusione
tu giungessi di grado in grado? Avresti posto ciòa tuo buon diritto.
E che vuol dire codesto «procedere di grado in grado»? Vedo,
infatti, che gradatamente tu sei giunto dai beati alla virtù, dalla
virtù alla ragione. Ma come fai ad accostarti dalla ragione alla
«figura umana?» Qui si tratta di buttarsi in un burrone, non di fare
una discesa! Né, a dire il vero, riesco a capire perché Epicuro
abbia preferito dire gli dei simili agli uomini anziché gli uomini
simili agli dei. Potrai chiedermi quale differenza ci sia. «Se,
infatti, una data cosa è simile ad una seconda, anche quest’ultima –
dirai tu – è simile alla prima». Lo vedo, ma io intendo dire ben
altro: che, cioè, le fattezze non sono pervenute agli dei da parte
degli uomini. Gli dei, infatti, sono esistiti da sempre, non sono
mai nati, se per davvero essi devono essere eterni; ma gli uomini
hanno avuto nascimento: dunque la forma umana è anteriore agli
uomini – quella forma, cioè, che avevano di già gli dei immortali -.
Epperò non bisogna chiamare «umana» la forma di quelli, bensi divina
la nostra.
Ma stia pure la faccenda come voleté voi: io voglio sapere quale
fortuna sia stata così grande (dato che voi preténdete nulla essere
stato fatto nella natura deiruniverso dalla ragione) o, almeno,
quale sia stato codesto «caso» così grande. Da dove è scaturito un
così felice concorso di atomi, talché all’improvviso sono venuti a
nascere uomini in forma di divinità? Dobbiamo credere che i semi
degli dei siano cascati dal cielo in terra e che gli uomini siano
venuti fuori simili ai loro padri? Vorrei che me lo diceste: molto
volentieri riconoscerei la mia parentela con gli dei! Voi, però, non
dite nulla di simile, ma sostenete che è accaduto «per caso» che noi
fossimo simili agli dei. E c’è pure da ricercare argomentazioni per
confutare codesto? Magari potessi io così agevolmente scoprire il
vero come riesco a confutare il falso!15
Tu hai passato in rassegna16 con fedeltà ed ampiezza (e mi debbo
volentieri congratulare che un Romano abbia tanta competenza!), a
partiré da Tálete di Mileto, le opinioni dei filosofi in mérito alla
natura degli dei. Ti sono, forse, sembrati in preda a delirio tutti
quelli che hanno stabilito che un dio può esistere senza avère né
mani né piedi? E non siete mossi neppure dalla considerazione
dell’utilità e del’opportunità delle membra nel’uomo per giudicare
che gli dei non hanno bisogno di membra umane? Che bisogno, infatti,
c’è di piedi, se non si deve camminare? Di mani, se non si deve
afferrare nulla? Né è il caso di passare in rivista tutte le altre
parti del corpo in cui non c’è nulla di inutile, nulla senza una
cagione, nulla di superfluo. Non c’è alcun’arte che riesca ad
imitare la laboriosità della natura! Dunque il dio avrà una lingua e
non parlerà; avrà denti, palato e gola, ma per nessuna funzione; e
quegli organi che la natura ha aggiunto al nostro corpo per la
procreazione, il dio li avrà invano, e gli organi esterni non più
che quelli interni, come cuore, polmoni, fegato e tutti gli altri
che, se si prescinde dalla loro utilità, non hanno nulla di
attraente. Eppure voi preténdete che il dio li abbia «per
bel-lezza»! …
Eppure persino i fanciulli, quando si riposano, si danno a qualche
piacevole occupazione; noi, invece, pretendiamo che il dio
intorpidisca nell’inerzia, fino al punto da temeré che egli non
possa essere beato qualora esegua un movimento. Questo discorso non
solo priva gli dei di moto e di attività divina, ma rende inerti
anche gli uomini, dal momento che neppure un dio, qualora compia una
qualche azione, può essere beato…
…Vediamo, ora, se gli dei siano beati. Senza virtù, ovvia-mente, non
lo sono añatto. Ma la virtù è operosa, e il vostro dio non fa nulla;
quindi è privo di virtù: epperò non è neppure beato. Quai è, allora,
la sua vita? «Sovrabbondanza di beni – tu dici – senza l’intrusione
di alcun male». Ma di quali beni, alla fine? Dei piaceri, io credo,
e certamente di quelli corporali: difatti voi non conoscete alcun
piacere spirituale che non parta dal corpo e al corpo non faccia
ritorno…
…«Ma gli dei sono privi di dolore!» E basta ciò per quella vita
beatissima ricolma di beni? «Il dio pensa – essi dicono
-continuamente alla propria beatitudine: infatti non ha niente altro
da pensare». Immagina, allora, e poniti dinanzi agli occhi un dio
che per tutta l’eternit à non pensa altro se non «per me va bene» e
«io sono beato». D’altra parte, però, io non vedo come codesto dio
beato non abbia paura di moriré, dal momento che è colpito e scosso
senza posa dall eterno incontro degli atomi e dal momento che da lui
le immagini afñuiscono incessante-mente verso di noi. così il vostro
dio non è né beato né eterno.
Ma Epicuro ha scritto anche libri sulla santità e sulla pietà verso
gli dei. E come ne parla! In guisa tale che tu diresti di stare
ascoltando i pontefici massimi Coruncanio e Scevola e non già uno
che ha soppresso dalle fondamenta ogni religiosità ed ha abbattuto i
-empli e gli altari degli dei immortali non con le mani, come fece
Serse, ma con le sue argomentazioni. Infatti non si ha alcun motivo
per dire che gli dei debbano essere onorati dagli uomini, dal
momento che gli dei non solo non hanno rispetto per gli uomini, ma
assolutamente non si curano di nulla e non fanno nulla.
Esordio del De natura deorum di Cicerone
(Leida, Universiteitsbibliotheek, cod. BPL. 118, fol. II).
«Ma essi hanno tuttavia una natura esimia e superiore, la quale, di
per sé sola, deve attrarre il saggio a professarne il culto». Ma ci
puô essere nulla di esimio in una natura siffatta che, paga della
propria voluttà, non farànéha fatto mai niente? Quale religioso
sentimento si deve nutriré per uno che non ci ha mai dato nulla? O
quale obbligazione si puô avère mai per chi non ha alcun mérito? La
pietà, infatti, è un atto di giustizia verso gli dei; ma con costoro
quale rapporto giuridico noi possiamo avère, dal momento che tra
l’uomo e la divinità non c’è comunanza alcuna? La santità, dal canto
suo, è la scienza di onorare gli dei; ma io non capisco perché mai
essi debbano essere onorati, dal momento che da parte loro non
abbiamo ricevuto né sperato bene alcuno…
A dire il vero, anche quel grandissimo uomo che fu Democrito, con le
cui acque Epicuro ha irrigato i suoi orticeili, mi sembra
imbarazzato in mérito alia natura degli dei. Difatti talora egli
pensa che in tutto runiverso siano presentí «imma-gini» fornite di
divinità, talora chiama dei i principi razionali immanenti allo
stesso universo, talora parla di «effigi animate» che di sólito ci
sono di giovamento o di danno, talora di certe immagini gigantesche
e tanto grandi da abbracciare dall’esterno il mondo nella sua
totalità17. Tutte cose più degne del paese di Democrito18 che di
Democrito stesso! Chi, infatti, potrebbe col proprio pensiero
abbracciare codeste immagini? Chi potrebbe ammirarle o giudicarle
meritevoli di religiosa venerazione?
Epicuro, invece, ha strappato radicalmente la religiosità dal cuore
dell’uooo, quando ha tolto agli dei immortali il potere di
soccorrerci e di îavorirci. Infatti, benché egli sostenga che la
natura del dio è ottima ed eccellentissima, nega, nello stesso
tempo, in dio la presenza della grazia: egli elimina proprio quella
che è la principale peculiarità di una natura ottima ed
eccellentissima. Difatti nulla è migliore e più eccellente della
bontà e della beneficenza. E quando preténdete che il dio ne sia
privo, voi preténdete che nessuno – né dio né uomo – sia caro al
dio, che nessuno sia amato da lui, nessuno da lui prediletto. E il
risultato è che non solo gli uomini vengono negletti dagli dei, ma
anche gli dei stessi si trascurano vicendevolmente tra loro …
…Epicuro elimina in realtà gli dei e li lascia sussistere solo a
chiacchiere. Del resto, se, alla fine dei conti, un dio è tale da
non essere legato agli uomini da nessuna grazia e da alcun aniore,
se ne vada per i fatti suoi: perché, infatti, dovrei dire «Egli sia
propizio?» Egli non può essere propizio a nessuno, dal momento che –
come voi asserite – ogni grazia e ogni amore sono segni di
debolezza19.
1. Nel dialoge, che Cicerone colloca nel 77 a. C, Aurelio Cotta
sostiene le tesi degli Accademici, Caio Velleio quelle degli
Epicurei e Lucilio Balbo quelle degli Stoici. I passi anti-epicurei
qui riportati sono stati ritenuti Carneade dal Credaro (Lo
scetticismo degli Accademici, I, pp. 52-6). Rifacendosi invece al
Robin, Mario Dal Pra (Lo scetticismo greco, p. 202) sostiene che la
fonte sarebbe Posidonio o l’ilodemo, mentre sarebbero accademici
solo i rilievi fatti da Velleio in De nat. deor. I, 36-41.
2. Come Arcesilao, così anche Cotta segue l’adagio omerico
graditissimo agli Scettici: «Quale il parlar che facesti, taie il
responso che udrai».
3. Simonide ci Ceo (556-468 a. C). l’aneddoto qui riferito fa
pensare ad en’anticipazione eel pensiero di Protagora (cfr. 80 B 4
Diels-Kranz). II passa è tenuto presente da Hume in Dialogues
concerning Nature of Religion, III [cfr. DAL PRA, Hume e la scienza
della natura umana2, p. 199).
4. Diagora di Meló, poeta-filosofo seguace del materialismo
atomistico, fiorì intorno al 465 a. C. Tanto lo Zeller (La
l’;ilosofia dei Greci, Parte I, vol. V, Firenze, 1968, p. 318)
quanto l’Alfieri (Gli Atomisti, Bari, 1936, p. 61) avana zano dubbi
sui suoí rapporti con Democrito. Il Capizzi (cfr. ZELLER, cit., pp.
331 segg.) ribadisce la storicità di tali rapporti.
5. Teodoro di Cirene (IV-III sec. a. C), soprannominato l’ateo,
anticiplò forse, l’Evemerismo (cfr. DIOG. LAERT. II, 97 e, per
maggiori notizie, A. LEVI, Le idee di l’eodoro i’Ateo, «Rend. Ist.
Lombardo», 1931).
6. Cfr. EUSEB. Praep. ev. XIV, 3, 7; DIOG. LAERT. IX, 51; 80 A 2, 3,
12, 13 Diels-Kranz.
7. LUCIL. XVIII, 370-1 = fr. 1138-41 Warmington.
8. Ossia di quei filosofi della natura che, con Aristotele in testa,
hanno criticato la dottrina atomistica.
9. Carneade avrebbe detto, meno retoricamente, «probabili».
10. In VIII, 20.
11. Giacché l’atomista Nausifane era, secondo Epicuro, solo un
«mollusco» (cfr. SEST. EMP. Adv. math. I, 4).
12. Cfr. DIOG. LAERT. X, 14.
13. Cfr. DIOG. LAERT. X, 7, 8, 13, 14.
14. Allusione agli Stoici soprattutto crisippei.
15. Qui Carneade-Cicerone esprime molto efiicacemente Tangoscia
teoretica dello Scetticismo.
16. Nei capp. X-XV.
17. Cfr. 68A 74 Diels-Kranz.
18. Abdera era riteirata una città di stupidi (cfr. PHILOSTR. Apoll.
vita VIII, 7).
19. l’accademico Cotta, sulla scia di Carneade, non ha rinunciato
più volte a far ricorso ad argomentazioni anche di provenienza
stoica: ovviamente, nella polemica antistoica, non rifiuterà
l’ausilio anche di teorie epicuree. Del resto, gli Scettici
sfruttano abilmente la discordia nel campo di Agramante.
Critica della teología stoica
(SESTO EMPÍRICO, Adv. phys. I, 137-190)
I ragionamenti addotti dagli Stoici e dai seguaci delle altre sette
filosofiche in mérito all’esistenza degli dei hanno, in linea di
massima, questo tenore1. Ma dobbiamo símilmente sotto-lineare che
anche quanti sostengono la non-esistenza degli dei non sono da meno
rispetto a quei filosofi, mercé l’equipollenza deirefficacia
persuasiva2.
Orbene: se davvero gli dei esistono, essi sono esseri viventi; e,
facendo uso dello stesso ragionamento addotto dagli Stoici – che,
cioè, il mondo è un essere vívente3 -, si potrà sostenere che anche
Dio è un vivente qualsiasi4. «Infatti il vivente è superiore al
non-vivente; ma nulla è superiore a Dio: epperò Dio è un vivente»; e
a questo ragionamento fa da supporto anche la comune nozione che gli
uomini hanno di Dio, dal momento che vuoi la gente ordinaria vuoi i
poeti vuoi la grande maggioranza dei migliori filosofi attestano il
fatto che Dio è un vivente. Sicché vengono rispettate le risultanze
dell’argomentazione. Se, infatti, esistono dei, costoro sono
viventi; ma, se sono viventi, hanno sensibilità, giacché ogni essere
vivente viene concepito come vivente in quanto partecipa di
sensazione; ma, se essi hanno sensibilità, subiscono ramaro e il
dolce, giacché essi non percepiscono gli oggetti sensibili mediante
un qualche altro senso, e non già mediante il gusto. Quindi è del
tutto «improbabile»5 che Dio venga a mancare di questo o di qualche
altro senso; difatti, quanto più copiosa sarà la facoltà sensitiva,
tanto più Tuomo, avendo più copiosa facoltà sensitiva, verrà a
superare Dio6, mentre piuttosto – come di-ceva Carneade – si
dovrebbe palesemente assegnare a que-st’ultimo un numero anche
maggiore di sensi oltre a quei cinque che sono presentí in tutti
noi, affinché egli abbia la possibilità di percepire un maggior
numero di cose, invece di sottrargli anche quei cinque. Bisogna,
pertanto, affermare che Dio è fornito di gusto e che per mezzo di
questo percepisce i sapori. Ma se li percepisce per mezzo di un
gusto, egli subisce (il dolce)7 e l’amaro. E se subisce il dolce e
l’amaro, proverà piacere di alcune cose e dispiacere di altre. Ma se
egli prova dispiacere di alcune cose, egli verrà anche a ricevere
fastidio e sarà suscetti-bile di mutamento verso il peggio. Ma se le
cose stanno così, egli è corruttibile. Di conseguenza, se davvero
esistono dei, questi sono corruttibili. Epperò gli dei non esistono.
Comunque, se Dio esiste, è un essere vivente. Se è un essere vivente
ha anche sensibilità: difatti l’essere vivente non differisce da
quello non-vivente per nessun’altra cosa se non per la capacità di
sentiré. E, se egli ha sensibilità, egli ode e vede e odora e tocca.
Ma se è così, ci sono certe cose che, in relazione a ciascun senso
particolare, gli appartengono intimamente oppure gli sono estranee:
ad esempio, per quanto concerne la vista, quelle che sono in una
posizione simmetrica e non già quelle che si trovano in una
posizione diversa, e, per quanto concerne Fudito, i suoni armoniosi
e non già quelli che non hanno questa prerogativa, e lo stesso
dicasi anche a proposito degli altri sensi. Ma, se è così, ci sono
certe cose che danno fastidio a Dio; e se ci sono certe cose a Dio
fastidióse, Dio viene ad essere suscettibile del cangiamento verso
il peggio e, quindi, anche di corruzione. Epperò Dio è corruttibile.
Ma ciòviene ad essere un attributo contrastante con la nozione
comune che si ha di lui: epperò non esiste il divino.
Ma è possibile fondare il discorso in maniera più concisa anche su
un solo senso, ad esempio la vista. Se, infatti, Dio esiste, egli è
un essere vivente. Ma se è un essere vivente, egli [tutto intero]8
vede:
Vede egli intero, ed intero egli pensa, ed intero egli ascolta9.
E, se egli vede, vede sia il bianco che il nero. Ma poiché bianco
quello che distende la pupilla ed è nero quello che la comprime10,
Dio possiede un organo visivo che si distende si comprime. Ma se
egli è suscettibile di distensione e di compressione, sarà anche
suscettibile di corruzione. Pertanto, sesiste il divino, esso è
corruttibile. Ma, certamente, corruttibile esso non è: epperò non
esiste.
Inoltre: la sensazione è una certa alterazione: infatti impossibile
che ciò-che-percepisce per mezzo di un senso, non venga alterato, ma
permanga in quello stato nel quale si trovava prima della
percezione. Se, pertanto, Dio prova una sersazione, viene anche
alterato; ma, se viene alterato, egli
suscettibile di alterazione e cangiamento. Ma, essendo suscettibile
di cangiamento, egli sarà certamente suscettibile anche di
cangiamento verso il peggio. E, se è cosí, egli è anche
corruttibile. Ma è certamente un’assurdità dire che Dio è
corruttibile: epperò è anche assurdo ritenere ch’esista.
Oltre a ciò, se esiste una qualche divinità, essa è o finita o
infinita. Ma infinita non potra essere, giacché, in tal caso,
sarebbe anche immobile e inanimata11. Se, infatti, Finfinito si
muove, passa di luogo in luogo; ma, nel passare di luogo in luogo, è
in un luogo, ed essendo in un luogo, viene ad essere finito. Se,
dunque, c’è qualcosa di infinito, questo qualcosa è immobile;
oppure, se davvero si muove, non è infinito. Allo stesso modo esso è
anche inanimato: se, infatti, è tenuto insieme da un’anima, in ogni
caso sarà tenuto insieme mercé uno spostamento dal centro alle
estremità e dalle estremità al centro12. Ma nell’infinito non c’è né
centro né estremità: di conseguenza l’infinito non è neanche
animato. E perciò, se la divinità è infinita, essa né si muove né è
animata. Ma la divinità si muove e viene stimata partecipe di
animazione: epperò la divinità non è infinita.
Ma non è neppure finita! Poiché, infatti, il finito è una parte
dell’infinito, e il tutto è superiore alla parte, è evidente
che l’infinito sarà superiore alla divinità e avrà in suo
dominio la divina natura. Ma è assurdo asserire che un qualcosa sia
superiore a Dio: pertanto la divinità non è neppure finita.
Ma se essa non è né infinita né finita, e se oltre a queste
eventualità non ne è concepibile una terza, allora la divinità non
esisterà affatto.
Inoltre, se la divinità è qualcosa, essa è o corpo o incorporea; ma
non è incorpórea, perché l’incorporeo è inanimato e insensibile e
incapace di alcuna attività; né è corpo, perché ogni corpo è
mutevole e corruttibile, mentre la divinità è incorruttibile.
Pertanto la divinità non ha esistenza.
Comunque, se la divinità esiste, essa è, ad ogni modo, un essere
vivente. E se è un vivente, è certamente virtuosissima e felice (ché
felicità senza virtù non può sussistere)13. E se è virtuosissima,
possiede anche tutte le virtù. Ma, in realtà, essa non possiede
tutte le virtù, a meno che non possegga anche continenza e fortezza.
Ed essa non possiede queste virtù, meno che non si presentino a Dio
certe cose da cui egli possa difiicilmente astenersi e che possa
diffcilmente sopportare. Continenza è, infatti, una disposizione
incapace di trasgrediré le norme della retta ragione»14. Oppure «una
virtù che ci pone al di sopra delle cose da cui ci sembra che
difficilmente ci asteniamo»: è continente, infatti, come si dice,
non chi si astienc da una vecchia moribonda, ma chi, pur potendo
godere di Laide o di Frine o di un’altra simile bellezza, in realtà
se ne astrene. Fortezza, poi, è «scienza delle cose sopportabili e
di quelle insopportabili» oppure virtù che ci rende superiori alle
cose che sembrano difficili a sopportarsi»: esercita, infatti, la
fortezza chi sa tener duro mentre viene tagliato e bruciato, e non
già chi si mette a bere vino con miele. Si presenteranno, allora, a
Dio cose da cui egli difficilmente si astiene e che difficilmente
sopporta. Se, difatti, queste mancano, egli non avrà affatto le
suddette virtù, vale a dire la continenza e la fortezza. Ma se egli
non ha queste virtù, poiché tra virtù e vizio non c’è nulla di
intermedio15, egli verrà a possedere i vizi opposti a queste virtù,
vale a dire la rilassatezza e l’incontinenza: come, invero, chi
non ha la salute ha la malattia, così chi non ha temperanza e
fortezza viene a trovarsi nei vizi opposti: il che è assurdo
affermare a proposito di Dio. E se ci sono delle cose da cui Dio
difficilmente può astenersi e che difficilmente riesce a sopportare,
ci sono anche certe cose che sono capaci di farlo cangiare verso il
peggio e di procurargli fastidio. Ma, se è così, Dio è suscettibile
di fastidio e del cambiamento verso il peggio e, quindi, anche di
corruzione. Ne consegue che, se Dio esiste, è corruttibile; ma la
seconda proposizione non è vera: epperò neanche la prima.
E – in aggiunta aile precedenti argomentazioni – se la divinità è
virtuosissima, essa possiede anche coraggio. E se possiede coraggio,
possiede «scienza di cose tremende e non tremende e di cose
intermedie»; e, se è così, per Dio c’è qualcosa di tremendo. Infatti
l’uomo coraggioso è coraggioso, ovviamente, per la conoscenza che
egli possiede non già di quali siano le cose tremende per il suo
vicino di casa, ma di quelle che lo sono per lui stesso; e queste
ultime non somigliano affatto a quelle del vicino di casa. Di
conseguenza, se Dio è coraggioso, c’è per lui qualcosa di tremendo.
Ma, se per Dio c’è qualcosa di tremendo, esiste qualcosa che è
capace di procurare fastidio a Dio. Ma, se è così, Dio è
suscettibile di fastidio e, perciò, anche di corruzione. Onde, se la
divinità esiste, è corruttibile. Ma essa non è corruttibile: epperò
non esiste.
Ancora: se la divinità è virtuosissima, possiede anche la
magnanimità. E se ha la magnanimità, possiede «scienza che fa
elevare al di sopra degli accidenti». E se è così, ci sono per Dio
degli accidenti al di sopra dei quali si aderge. Ma, se è così,
esistono anche certi accidenti che gli sono fastidiosi, e, in tal
modo, egli risulterà corruttibile. Ma ovviamente questo non è vero:
dunque neppure è vera la proposizione iniziale.
Oltre a ciò, se la divinità possiede tutte le virtù, ha anche la
prudenza. Se ha prudenza, (essa ha)16 «la scienza dei beni e dei
mali e delle cose indifferenti». Ma se ha la scienza di queste cose,
sa quali sono i beni e i mali e le cose indifferenti. Poiché,
allora, anche la sofferenza fa parte delle cose indifferenti17,
conosce anche la sofferenza e quale natura essa abbia. E se è così,
la divinità ne ha fatto anche esperienza: se, infatti, non ne avesse
fatto esperienza, non ne possiederebbe il concetto, ma, come chi non
ha avuto a che fare con un colore bianco o nero, per il fatto che è
cieco dalla nascita, non puô avère un concetto del colore, così
neppure Dio, se non è incappato in una sofferenza, non può averne un
concetto. Infatti se noi, che pur ne abbiamo fatto spesso
esperienza, non siamo in grado di riconoscere la peculiarità del
dolore che colpisce i podagrosi né di comprenderla quando ce la
descrivono né di ascoltare coerenti resoconti da parte degli stessi
pazienti, perché ciascuno la spiega in un modo diverso – e alcuni
dicono che si riscontra in loro qualcosa di simile a una
contorsione, altri ad una frattura, altri ad una puntura -, allora
Dio, dal momento che non ha avuto assolutamente a che fare con la
sofferenza, 〈non〉18 può certamente averne concetto. «Per Zeus! –
essi19 dicono – con la sofferenza Dio non ha avuto a che fare, ma
col piacere sì, e in base a questo egli si è fatto un concetto anche
di quella». Ma ciò è semplicistico. In primo luogo, infatti, è
impossibile che uno si sia fatto un concetto del piacere senza aver
fatto esperienza del dolore, giacché il piacere può naturalmente
sussistere solo mercé la soppressione di tutto ciò che procura
dolore. In secondo luogo, pur concesso ciò, ne consegue ancora una
volta che Dio è corruttibile. Se, infatti, egli è in grado di
recepire una siffatta effusione, è suscettibile anche del mutamento
verso ü peggio ed è corruttibile. Ma quest’ultima cosa non è vera;
quindi neppure la prima.
Se, inoltre, la divinità è davvero virtuosissima e possiede la
prudenza, essa possiede anche il buon consiglio, in quantc il buon
consiglio è «prudenza in relazione alle cose da deli berare». E se
possiede il buon consiglio, essa prende anche una deliberazione. E
se delibera, c’è qualcosa che non le è manifesta. Se, infatti, per
lei non c’è nulla che non sia mani festo, essa non delibera né
possiede il buon consiglio, per i fatto che la deliberazione è
legata a un qualcosa di non ma nifesto, essendo essa «una ricerca
sul modo di comportars rettamenté nelle circostanze presenti». Ma è
ovviamente as sur do rit enere che Dio non deliberi né abbia buon
consiglio Pertanto egli l’ha e, quindi, c’è un qualcosa che non gli
è ma nifesto. Ma, se c’è qualcosa di non manifesto a Dio, certamente
gli è manifesto pur qualcosa, anzi soprattutto la cosa seguente cioè
se esistano nell’mfinità certe cose che siano capad di di
struggerlo. Ma, se questo gli è manifesto, egli indubbiament dovrà
provare paura a causa dell’aspettazione di queste cose che sono
capaci di corromperlo e a cagione delle quali egli verrà a trovarsi
in uno stato di perplessità e di eccitazione. Ma, se egli viene a
trovarsi in siffatta eccitazione, sarà suscettibile anche del
cangiamento verso il peggio, e perciò sarà pure corruttibile. Dal
che consegue che egli non esiste affatto.
D’altronde, se non c’è nulla che non sia manifesto a Dio, ma egli è
pure capace di apprendere di per sé tutte le cose, allora egli non
possiede arte, ma, come noi non oseremmo dire, a proposito della
rana e del delfino, che questi animali, essendo per natura capaci di
nuotare, posseggono l’arte natatoria, allo stesso» modo,
neppure per quanto concerne Dio, poiché egli comprende ogni cosa di
sua natura, noi potremmo dire che ha un’arte, giacché l’arte si
addice a un qualcosa che non è manifesto e [a ciò]20 che non si
apprende di per sé immediatamente. Ma, se non esiste arte alcuna che
appartenga a Dio, non gli apparterrà neppure l’«arte della
vita»21, e se le cose stanno così, neanche la virtù. Ma, non
possedendo virtù, Dio è inconsistente. D’altra parte, Dio, essendo
fornito di ragione, se non possiede la virtù, possiede ad ogni
modo l’opposto, ossia il vizio. Ma certamente egli non
possiede l’opposto – che è il vizio adunque Dio
possiede l’arte, e c’è un qualcosa di non manifesto per lui.
Dal che consegue che egli è corruttibile, come precedentemente22
abbiamo desunto. Ma certamente egli non è corruttibile: epperò non
esiste.
Ma ancora: se davvero egli non ha prudenza, come abbiamo
mentovato23, non ha neppure temperanza: difatti la tempe-ranza è
«uno stato che nelle scelte e nelle ripulse rispetta le norme della
prudenza». D’altronde, se non c’è nulla che ecciti gli impulsi di
Dio e se non c’è nulla che Fattragga, come faremo ad asserire che
egli è temperante, dal momento che concepiamo la temperanza nel modo
sopra indicato? Come, infatti, non oseremmo dire che la colonna è
temperante, allo stesso modo saremmo costretti a negare che Dio si
trovi ad essere temperante. E se gli si tolgono queste virtù, gli si
vengono a togliere anche tutte le altre. Ma, se Dio non possiede
alcuna virtù, è insussistente. l’antecedente è vero; dunque lo è
anche il conseguente.
Ancora: se il divino esiste, o possiede virtù o non ne possiede. E
se non ne possiede, Dio è ignobile e infelice: il che è assurdo. Se,
invece, possiede virtù, ci sarà qualcosa che è superiore a lui:
come, infatti, la virtù del cavallo è superiore aile stesso cavallo,
e come la virtù del’uomo è superiore a colui che la possiede, allo
stesso modo anche la virtù di Dio risulterà essere migliore anche
dello stesso Dio24. E se quella è miglion di Dio, è evidente che
quest’ultimo, trovandosi in difetto, sarà in uno stato ignobile e
risulterà corruttibile. Ma, se non c’è nulla che sia intermedio tra
gli opposti25, e se si osserva che Dio non viene a trovarsi in
nessuno dei due opposti, si deve affermare che Dio non esiste.
Inoltre, se egli esiste, o è fornito di voce o ne è privo. Ma
affermare che Dio è privo di voce è completamente assurdo e
contrastante con le comuni nostre nozioni. Se, invece, è fornito di
voce, egli usa la voce ed ha gli organi fonetici, come polmoni e
trachea, lingua e bocea. Ma questo è assurdo e si accosta al
favoleggiare di Epicuro26. Pertanto bisogna affermare che Dio non
esiste. E, invero, se egli usa la voce, parla. E se parla, parla
certamente in un qualche dialetto. Ma, se le cose stanno così,
perché mai egli usa la lingua ellenica piuttosto che quella dei
barbari? E se usa la lingua ellenica, perché la ionica o l’eolia o
qualche altra? E neppure, ovviamente, si mette a parlare tutte
quante: dunque non ne parla alcuna. Difatti, se egli usa la lingua
ellenica, come mai usera quella dei barbari, senza che qualcuno
gliel’abbia insegnata? 〈E se egli usa la lingu; dei barbari, come fa
a conversare con noi〉27, a meno che egli non si serva di interpreti
simili a quelli che presso di noi sono capaci di interpretare?
Bisogna pertanto añermare che Dio non usa voce alcuna e che, almeno
sotto questo profilo, egli è inesistente.
Inoltre, se il divino esiste, è o corpo o incorporeo. Ma non potrà
essere incorporeo per le cagioni da noi precedentemente enunciate28.
Se, poi, è corpo, è o un composto degli elementi semplici oppure è
un corpo semplice ed elementare. Ma, se è un composto, è
corruttibile, giacché tutto ciò che viene composto mencé il concorso
di alcune cose, massimamente si dissolve e corrompe. Se, invece, è
un corpo semplice, egli è fuoco aria o acqua o terra. Ma con
qualunque di queste cose s’identifichi, risulta privo di anima e di
ragione: il che è assurdo. Se, allora, Dio non è un corpo né
composto né semplice, e se al di fuori di queste alternative non se
ne dà adcun’altra, bisogna affermare che Dio è nulla.
Tale è, suppergiù, il tenore di questi ragionamenti. E alcuni di
essi sono stati proposti anche in forma di sorite29 da Carneade, e
il suo compagno Clitomaco li ha citati come molto impegnativi ed
efficaci. Essi si presentano nel modo seguente: «Se Zeus è un dio, è
un dio anche Poseidone:
Nascemmo in tre noi fratelli da Crono e ci partori Rea:
Zeus ed io e, per terzo, Ade che ai morti comanda.
Tutto in tre parti è diviso, e ciascuno ha porzione di onore30.
Sicché, se Zeus è dio, anche Poseidon, essendogli fratello,
risultera essere dio. E se Poseidon è dio, sarà dio anche l’Acheloo;
e se l’Acheloo, anche il Nilo; e se il Nilo, anche ogni altro fiume.
E se ogni fiume, anche i ruscelli dovranno essere dei; e se i
ruscelli, anche i torrenti. Ma i ruscelli non lo sono affatto;
epperò neppure Zeus è un dio. Se, invece, essi fossero stati dei,
sarebbe stato dio anche Zeus. Epperò gli dei non esistono.
Inoltre, se il Sole è un dio, sarà dio anche il giorno, giacché il
giorno non è altro che il sole sulla terra. Ma se un solo giorno è
dio, sarà dio anche il mese, giacché esso è un insieme di giorni. E
se il mese è dio, sarà dio anche l’anno, giacché l’anno è un insieme
di mesi. Ma ciò non è affatto vero: dunque non lo è neanche la prima
proposizione. E questo si accompagnerebbe anche – essi31 dicono –
all’assurdità che, mentre il giorno è un dio, l’aurora e il mezzodi
e il tramonto non lo sono affatto.
Se, poi, Artemide è una dea, anche Enodia32 sarà una qualche dea,
giacché si è reputato che anche questa sia dea al pari di quella:
(ma se è dea)33 Enodia, lo saranno anche Protiridia34 ed Epimilio35
ed Epiclibanio36; ma – almeno questo! – non è vero; dunque non lo è
neppure la prima proposizione.
Se, poi, noi affermiamo che Afrodite è una dio, sarà dio anche Eros,
che è figlio di Afrodite. Ma, se è dio Eros, anche Eleos sarà dio37:
in entrambi i casi, infatti, si tratta di un’afíezione dell’anima,
ed Eleos è stato consacrato allo stesso modo di Eros; del resto,
presso gli Ateniesi ci sono certi altari di Eleos. E se Eleos è dio,
lo sarà anche Phobos38:
Molto informe a vedensi, io sono Phobos,
Dio men che gli altri di beltà partecipe39.
E se Phobos, anche tutte le altre affezioni dell’anima. Ma queste,
certamente, divinità non sono: epperò neanche Afrodite lo è. Se,
invece, esse fossero state divinità, anche Afrodite lo sarebbe
stata: epperò non esistono dei.
Ma ancora: se Demetra è una dea, è dea anche Gea, giacché Demetra –
essi affermano – non è altro che Gea-madre. E se Gea è dio, saranno
divinità anche i monti e le vette e ogni roccia. Ma ciò, ovviamente,
non è vero: pertanto neppure la prima proposizione è vera.
Anche altri tipi di sorite dello stesso tenore formula Carneade per
pro vare la non-esistenza degli dei: ma il loro carattere generale è
risultato suficientemente manifesto dagli esempi precedenti40.
(CICERONE, De nat. deor. III, XII-XX, 29-52)
Ma, poi41, come riuscite a demolire le celebri argomentazioni
addotte da Carneade?
Secondo queste, se nessun corpo è immortale, nessun corpo è eterno;
ma non c’è nessun corpo che sia immortale o indivisibile o tale da
non poter essere ridotto a pezzi e a brandelli; e poiché ogni essere
vivente ha una sua natura che è soggetta a patire, non c’è nessuno
di essi che si sottragga alla necessità di subiré qualcosa
dall’esterno, ossia di sopportare e di patire: e se ogni essere
vivente ha siffatte caratteristiche, nessuno di essi è immortale.
Quindi, allo stesso modo, se ogni essere vivente può essere tagliato
e diviso, nessuno di essi è indivisibile, nessuno eterno, ma ogni
essere vivente è disposto a recepire e a sopportare una forza
esterna; dunque ogni essere vivente è necessariamente mortale e
dissolubile e divisibile. Come, infatti, se ogni sorta di cera fosse
soggetta a mutamento, non vi sarebbe alcun oggetto di cera che
sarebbe immutabile, né sarebbe parimenti immutabile nessun oggetto
di argento o di bronzo nel caso che la natura dell’argento o del
bronzo fosse soggetta a mutamento, allo stesso modo allora, se tutte
le cose esistenti † sono mutevoli42 † e se sono soggetti a mutamento
gli elementi di cui sono composte tutte le cose, nessun corpo può
essere non-mutevole; ma sono mutevoli gli elementi di cui tutte le
cose risultano composte, come a voi appare: dunque ogni corpo è
mutevole.
Ma se esistesse un qualche corpo immortale, non ogni cosa sarebbe
mutevole: si ha, così, di conseguenza che ogni corpo è mortale.
Infatti ogni corpo è o acqua o aria o fuoco c terra o ciòche è
composto da tutte queste cose o da qualche parte di esse. Ma di esse
non c’è nulla che non perisca: difatti tutto ciò che è fatto di
terra viene diviso, e l’elemento umido è così molle che può ricevere
facilmente compressioni e urti, e, a loro volta, il fuoco e l’aria
molto agevolmente vengono rimossi da un colpo qualsiasi e per loro
natura sono massimamente cedevoli e pronti a disperdersi. Ed inoltre
tutte queste cose muoiono allorché trapassano in un’altra essenza;
il che avviene enando la terra si muta in acqua e quando da acqua
nasce aria, e da aria etere43, e quando queste medesime cose attuano
lo stessc processo in senso inverso. Ché se è vero che le componenti
di ogni essere vivente muoiono, allora nessun essere vivente è
eterno.
Tuttavia, anche a non voler tener conto di questi rilievi, non si
può trovare nessun essere vivente che non abbia mai avuto una
nascita e che esisterà sempre. Ogni essere vivente, infatti, ha
sensibilità: sente, dunque, il caldo e il freddo, il dolce e
l’amaro44, né vi è in esso alcun senso col quale possa recepire cose
piacevoli e non recepire quelle contrarie; se, dunque, accoglie la
sensazione del piacere, accoglie anche quella del dolore; ma ciò che
recepisce dolore, recepisce necessariamente anche la morte: dunque
bisogna ammettere che ogni essere vivente è mortale.
Inoltre45, se esiste un qualcosa che non prova né piacere né dolore,
questo qualcosa non puô essere un vivente; se, invece, è un qualcosa
che è vivente, esso necessariamente prova queste sensazioni, e ciò
che prova queste sensazioni non può essere eterno; ma ogni essere
vivente le prova: dunque nessun essere vivente è eterno.
Inoltre, non vi può essere nessun vivente che non abbia la naturale
facoltà del desiderio e della ripulsa. Si desiderano, poi, le cose
che sono conformi a natura, si rifiutano quelle contrarie, ed ogni
essere vivente appetisce certe cose e fugge da certe altre, e ciò da
cui rifugge è contro natura, e ciò che è contro natura ha una forza
distruttiva. Dunque è inevitabile che ogni essere vivente muoia.
Innumerevoli sono le argomentazioni in base alle quali si può
provare in maniera incontrovertibile che non esiste nulla che,
essendo dotato di sensibilità, non vada soggetto alla morte: infatti
quelle stesse cose che vengono percepite con i sensi – quali il
freddo e il caldo, il piacere e il dolore e tutto il resto
-diventano letali quando la loro intensità viene accresciuta; ma non
esiste alcun essere vivente che sia privo di sensibilità: dunque
nessun essere vivente è eterno.
Infatti la natura deiressere animato o è semplice – e, quindi, è di
terra o di fuoco o di aria o d’acqua (ma un essere vivente che abbia
siffatta caratteristica non si può neppure concepire) oppure è un
composto di più elementi naturali, ciascuno dei quali occupa il
proprio luogo verso cui è portato dalla forza naturale chi in alto,
chi in basso, chi nel mezzo46. Questo tipo di corpi può avère una
propria coesione per un certo periodo di tempo, ma in nessun modo
può averia per sempre, giacché è inevitabile che ciascun elemento
naturale venga sospinto verso il proprio luogo. Dunque nessun essere
vivente è eterno.
Ma i vostri amici47, o Balbo, sogliono ricondurre tutte le cose al
potere del fuoco, attenendosi, come credo, ad Eraclito, che, per
giunta, non interpretano tutti in un único modo † e che, siccome non
voile far capire cosa dicesse48, † dobbiamo mettere da parte. Voi,
pero, fate queste affermazioni: che, cioè, ogni potere s’identifica
col fuoco e che, pertanto, gli esseri animati muoiono allorché il
calore sia venuto meno, e che in tutta la natura dell’universo ha
vita e vigore solo ciò che è caldo. Ma io non riesco a capire come
mai, con lo spegnersi del calore, i corpi muoiono, e non muoiono,
invece, per la perdita dell’elemento umido o di quello aereo,
specialmente se si tiene presente che i corpi muoiono anche per
eccesso di calore. Anzi, per questo motivo c’è una comunanza di
proprietà nell; caldo e negli altri elementi49.
Ma, comunque sia, stiamo a guardare dove si va a finire! Voi
pretendete, a mio avviso, che nella natura e nel mondo non ci sia
nessun essere vivente ad avere una sua esistenza trascendente
eccettuato il fuoco50: ma perché non piuttosto eccettuata l’aria
[anima], di cui consta anche l’anima [animus]51 degli esseri
animati, dal che deriva anche il termine «animale»¡ Cosí voi – quasi
come se ne aveste avuto il permesso – sostenete che l’anima non è
niente altro che fuoco; ma, in realtà, sembra «più probabile»52 che
l’anima sia un composto di fuoco e di aria. «Ché, se il fuoco, di
per sé solo, s’identifica con l’essere vivente senza che vi si
mescoli alcun altro elemento naturale, allora esso medesimo, dal
momento che ci fa provare le sensazioni mercé la sua presenza nei
nostri corpi, non può essere privo di sensibilità». Ma, in questo
caso, è possibile ribadin le stesse argomentazioni di prima: infatti
qualunque cosa esistente, che sia fornita di sensibilità,
necessariamente prova piacere e dolore; ma a chi giunge dolore,
giunge anche morte E la conseguenza è che voi non potete rendere
eterno neppure il fuoco!
Ebbene, non siete anche voi pronti ad ammettere che ogni fuoco ha
bisogno di alimento e che non puô persistere in alcun modo senza
essere nutrito, e che vengono, altresi, alimentati il sole, la luna
e le altre stelle dall’acque, chi da quelle dolci e chi da quelle
marine? È, anzi, questo il motivo per cui, secondo Cleante53, il
sole si volge indietro e non avanza oltre nel pe riodo del solstizio
estivo e, parimenti, di quello invernale, ossia perché non si
allontani molto dal proprio nutrimento. Che cosa voglia dire tutto
questo, lo vedremo dopo: per ora, invece, si giunga a questa
conclusione: che, cioè, ciò che può morire non è eterno per natura;
ma il fuoco morrà, se non viene alimentate: dunque il fuoco, per
natura, non è sempiterno.
Oltre a ciò, quale dio noi possiamo concepire che non sia dotato di
nessuna virtù?54 Ebbene? Attribuiremo al dio la prudenza, che
s’identifica con «la scienza delle cose buone e di quelle cattive e
di quelle né-buone-né-cattive»? Ma chi non possiede né può possedere
alcun male, quale bisogno ha di sceglîere tra i beni e i mali, quale
bisogno ha della ragione, quale dell’intelletto? Noi facciamo uso di
queste facoltà allo scopo di scoprire le cose oscure per mezzo di
quelle manifeste; ma niente può essere oscuro a un dio. E la
giustizia, che assegna a ciascuno il suo, quale rapporte può avère
con gli dei? Essa fu creata dalla società e dalla comunanza degli
uomini, come voi dite. La temperanza, poi, consiste nel non far
conto dei piaceri del corpo: ma se essa ha un posto in cielo, lo
hanno anche i piaceri! Come mai, inoltre, si puô concepire un dio
che sia forte? Sarà forte nel dolore o nella fatica o nel rischio?
Ma nessuna di queste cose ha a che vedere con un dio. E come
possiamo, d’altra parte, concepire un ciò che non faccia uso della
ragione e che non sia dotato di alcuna virtù?
A dire il vero, io non mi sento di spregiare l’inconsapevolezza
del volgo ignaro, quando mi metto a considerare le asserzioni degli
Stoici.
Sono queste, infatti, le posizioni che assumono gli ignoranti: i
Siri veneravano un pesce55; gli Egiziani hanno reputato sacro ogni
animale; ormai in Grecia ci sono molte divinità di provenienza
umana56: gli Alabandesi onorano Alabando, i Tenedi Tene, e tutti i
Greci Leucotea57, che fece Ino, e il figlio di costei Palemone, ed
Ercole, Esculapio i Tindaridi, il nostro Romolo, che si reputa siano
stati accolti in cielo quasi come cittadini appena appena blasonati
e inseriti nella quinta classe58.
Ecco le credenze degli incolti: ma quali sono quelle dei filosofi?
Le vorrei tralasciare, perché sono ben note.
Ammettiamo pure l’identità del mondo con Dio59. Anzi sono propenso a
credere che sia «una cosa sublime, luminosa quella che tutti
chiamano Giove»60. Perché, allora, dovremmo aggiungervi una
pluralità di dei? E che gran numero è il loro! A me, in verità,
sembrano fin troppi! Tu, infatti, ti metti a contare come divinità
le stelle ad una ad una e le chiami o col norne di bestie, come
Capra, Scorpione, Toro e Leone, o persino con quello di oggetti
inanimati, come Argo, Ara e Corona.
Ma, anche a voler ammettere questo, come si puô non dico concederé,
ma addirittura capire tutto il resto? Quando noi identifichiamo le
messi con Cerere e il vino con Libero, ci serviamo di un comune modo
di dire; ma chi credete che sia tanto stupido da reputare dio ciò di
cui ci cibiamo? Per quanto, poi, concerne gli dei che si dice siano
di provenienza umana, tu mi dovrai spiegare come un tal fatto sia
stato possibile o come una siffatta possibilité si sia ormai
esaurita. Ma, almeno per il momento, io non riesco a vedere come mai
colui al quale
Sul monte Eteo furon pórtate fiaccole,
come dice Accio61, si sia levato da quelle flamme «verso l’eterm
dimora del padre»: eppure si tratta di quel medesimo che Omero62 fa
convocare da Ulisse presso gli Inferi, al pari di tutti gli altri
che erano usciti ormai fuori dalla vita.
Comunque, sarei desideroso di sapere a quale Ercole dobbiamo
tributare un culto tutto speciale: difatti ce ne vengono tramandati
molti da quelli che vanno rovistando i più riposti misteri delle
scritture!63 II più antico è quello nato da Giove nelle scritture
greche arcaiche: dunque da quel Giove e da Lisitoe64 proviene
quell’Ercole che, secondo la tradizione, venne in urto con Apollo
per il tripode65. Ma se ne tramanda anche un altro, egiziano, figlio
del Nilo, che si dice abbia scritto le lettere frigie66. Un terzo è
annoverato tra i Dattili dell’Ida67, e a lui tributano funebri
offerte. Un quarto68 è figlio di Giove e di Asterie, sorella di
Latona, e a lui assegnano come figliuola Cartagine. Un quinto nacque
in India, e vien chiamato Bel69. Un sesto è questo nostro, nato da
Alcmena, generato da Giove, ma da un terzo Giove, giacché – come
ormai vi saprò insegnare -la tradizione ci fornisce anche una
pluralità di Giovi.
Dal momento che il discorso mi ha portato a questo punto, vi
mostrerò che, per quanto concerne il culto degli dei immortali, ho
ricevuto insegnamenti migliori – secondo il diritto pontificale e le
patrie costumanze70 – da quelle piccole coppe per i sacrifici che
Numa ci trasmise e di cui parla Lelio nella sua famosa ed aurea
orazioncella71, che non dai ragionamenti degli Stoici. Se, infatti,
mi atterrò a voi altri, dimmi tu che cosa mai potrei rispondere ad
uno che mi ponesse questi interrogativi: «Se gli dei esistono †,
sono anche dee le Ninfe? E se le Ninfe, anche i piccoli Pan e i
Satiri? Ma questi ultimi no: dunque neppure le Ninfe sono dee. Ma
esistono templi pubblicamente votati e consacrati in loro onore.
Suvvia: tu annoveri come divinità Giove e Nettuno: allora anche
l’Orco, loro fratello, è un dio; e così pure si devono reputare
divinità i fiumi che, secondo la tradizione, scorrono presso gli
Inferí, ossia Acheronte, Cocito, Piriflegetonte, e quindi Caronte, e
quindi Cerbero. Ma quest’ultima cosa è da respingere: dunque neppure
l’Orco è un dio. Ma che dite, allora, dei suoi fratelli?
Queste cose diceva Carneade, non per eliminare gli dei – nulla
infatti si addice ad un filosofo meno di questo! – ma per creare il
convincimento che gli Stoici, in merito agli dei, non danno nessuna
spiegazione. Ed egli incalzava nel modo seguente: «Ebbene? – diceva
– Se questi fratelli sono nel novero degli dei, si può mai dire che
non ci sia il loro padre Saturno che generalmente è tanto venerato
nei paesi dell’ovest?72. E se egli è un dio, bisogna ammettere che è
un dio anche suo padre Cielo. E se le cose stanno così, bisogna
ritenere divinità anche i genitori del Cielo, vale a dire Etere e
Die, e i fratelli e le sorelle di costoro, che dagli antichi autori
di généalogie erano chiamati con i nomi seguenti: Amore, Inganno, †
Misura †, Fatica, Invidia, Fato, Vecchiezza, Morte, Tenebre,
Miseria, Lamento, Grazia, Frode, Pertinacia, Parche, Esperidi,
Sogni: i quali tutti, secondo le leggende, nacquero dall’Erebo e
dalla Notte73.
Ma allora: o bisogna accettare questi esseri mostruosi oppure
bisogna eliminare anche quegli altri.
E perché mai tu affermerai che Apollo, Vulcano, Mercurio e gli altri
sono dei e metterai, invece, in bilico le divinità di Ercole, di
Esculapio, di Libero, di Castore, di Polluce? Anche questi ultimi,
non v’ha dubbio, sono venerati al pari di quelli, anzi presso
certuni anche molto di più. Dunque bisogna ritenere dei costoro, che
pur nacquero da madri mortali. E Aristeo, che è detto inventore
dell’oliva e figlio di Apollo, e Teseo, che è figlio di Nettuno, e
gli altri, i cui padri sono dei, non entreranno nel novero delle
divinità? E che dire di quelli le cui madri sono dee? Credo anche a
maggior ragione: come, infatti, secondo il diritto civile74 è libero
chi è nato da madre libera, così, secondo il diritto naturale75, chi
è nato da una madre dea non puô non essere dio. così gli abitanti
dell’isola di Astipalea con grande religiosità venerano Achille; e
se questi è un dio, sono dei Orfeo e Reso, nati dalla madre Musa76:
a meno che non vengano preferite nozze marine a nozze terrestri! E
se questi ultimi non sono dei per il fatto che non vengono venerati
in nessun luogo, come mai lo sono quelli?
Sta attento, allora, che questi onori vengano tributati a virtù
umane, non ad origini immortali: cosa che ci è sembrata che anche
tu, o Balbo, volessi affermare77.
Come mai, poi, se tu ritieni dea Latona, non riesci a ritenere dea
Ecate, che è figlia di Asterie, sorella di Latona? Non è, forse, dea
anche lei? In Grecia, infatti, abbiamo visto are e sacelli in suo
onore. Se, poi, costei è dea, perché non lo sono le Eumenidi? E se
sono dee queste ultime – di cui esistono un santuario in Atene e il
bosco sacro di Furino78, come io penso, presso di noi –, sono dee le
Furie, osservatrici, a mio avviso, e vendicatrici degli atti
delittuosi.
Ché se esistono divinità che prendono parte alle umane vicende,
bisogna divinizzare anche Nascita, alla quale siamo soliti far
sacrificio quando andiamo a visitare i santuari nell’agro di Ardea;
ed essa è stata chiamata Nascita dal nome di «nascenti», perché
protegge i parti delle matrone. E se essa è una dea, sono dei tutti
quanti quelli che menzionavi, ossia Orrore, Fede, Mente, Concordia,
quindi anche Speranza, Moneta79, e quante altre cose noi stessi
possiamo creare col nostro pensiero.
Ma, se ciò non è verosimile80, non lo è neppure quello di prima, da
cui queste ultime cose sono scaturite.
Che ne dici allora? Se sono dei quelli venerati e accolti da noi,
perché non mettere nel medesimo novero Serapide ed Iside?81 E se
facciamo questo, perché dovremmo respingere gli dei dei barbari?
Allora buoi e cavalli, ibis e sparvieri, aspidi e coccodrilli, pesci
e cani, lupi e gatti e molte altre bestie ci metteremo a
divinizzare? Se, invece, respingiamo questi ultimi, respingeremo
anche quelli, da cui questi sono nati.
Ebbene? Sarà ritenuta una dea Ino – e sarà chiamata Leucotea dai
Greci e Matuta da noi – pur essendo figlia di Cadmo, mentre Circe e
Pasife ed Eeta, nate da Perseide, figlia di Oceano, e dal padre
Sole, non avranno stanza tra gli dei? Eppure anche i nostri coloni
di Circei venerano Circe con religiosità! Tu, allora, riterrai dea
costei? E quale corrispondenza stabilirai con Medea, che ebbe per
nonni due divinità, vale a dire il Sole e l’Oceano, ed ebbe per
padre Eeta e per madre Idia? E come ti comporterai con suo fratello
Absirto (Pacuvio82 lo chiama Egialeo, ma quell’altro nome è più
frequente nelle scritture degli antichi)? E se costoro non sono dei,
ho paura che per Ino non ci sia niente da fare, dal momento che
tutti questi fatti sono scaturiti dalla medesima sorgente.
E non saranno dei Anfiarao e Trofonio? A dire il vero, i nostri
pubblicani, poiché in Beozia i campi degli dei immortali godevano
l’esenzione dalle gabelle, affermavano che non erano immortali
coloro che una volta erano stati esseri umani. Se, però, quelli sono
dei, è indubbiamente dio Eretteo, di cui abbiamo visto in Atene vuoi
un tempio vuoi un sacerdote. E se divinizziamo lui, quale remora
avremo per Codro e per tutti gli altri che caddero combattendo per
la liberta della patria? Ma se quest’ultima cosa non è
«probabile»83, non si dovrebbero approvare neanche quelle altre, da
cui queste derivano.
Si può pure capire che nella maggior parte delle città, per
incrementare gli atti di valore, affinché tutti i migliori si
esponessero ai pericoli per lo Stato, la memoria degli eroi venne
consacrata col tributare ad essi gli onori di dei immortali. E
appunto per questo motivo, in Atene, Eretteo e le sue figlie sono
divinizzati, e cosi, pure ad Atene, c’è il sacello Leonatico, che è
chiamato Leocarione84. E gli Alabandesi venerano Alabando, fondatore
di quella città, con maggiore scrupolo religioso di qualsivoglia
altro dio più notorio; e presso di loro Stratonico, poiché un tale a
lui fastidioso affermava che Alabando era un dio ed Ercole no,
obiettò con la sua solita finezza: «Allora con me se la pigli
Alabando, con te Ercole!»
Non vedi poi, o Balbo, quanto siano tortuose quelle argomentazioni
che tu andavi cavando dal cielo e dagli astri85, secondo cui, cioè,
sono divinità il sole e la luna, l’uno dei quali i Greci reputano
Apollo, Faltra Diana? Ché se la luna è una dea, allora anche
Lucifero e gli altri pianeti otterranno il ruolo di divinità e,
quindi, anche le stelle fisse. Ma perché, poi, non si dovrebbe
annoverare tra gli dei anche il ben vistoso arcobaleno? Esso è
bello, e per questo motivo – ossia perché ha un aspetto meraviglioso
– lo si identifica con Iride, la figlia di Taumante. E se la natura
è divina, come la metterai con le nubi? Lo stesso arcobaleno,
infatti, vien prodotto da nubi che hanno acquistato certi colori:
anzi si dice che una di esse partori anche i Centauri! Ché, se tu ti
metti ad inserire le nubi tra gli dei, vi si dovranno certamente
inserire le tempeste, che hanno ricevuto consacra-zione dai riti del
popolo romano. Ma, allora, bisogna divinizzare pioggia, nembi,
procelle e turbini: e, per la verità, i nostri piloti, quando
entravano in mare, avevano usanza di immolare vittime ai flutti86.
E se il nome di Cerere deriva da «gerere» [fare] – cosi, infatti, tu
dicevi87 – anche la terra è una dea, e tale essa viene ritenuta,
giacché, per un altro aspetto, s’identifica con Tellus. Ma, se è dea
la terra, lo è anche il mare, che tu dicevi88 essere Nettuno; quindi
anche i fiumi e le sorgenti. Pertanto Massone, di ritorno dalla
Corsica, consacrò anche il sacello della Fonte89, e nelle litanie
degli auguri noi vediamo Tiberino, Spinone, Anemone, Nodino e altri
nomi di fiumi vicini. Ma, allora, questa processione o se ne va
serpeggiando all’infinito oppure non accetteremo proprio niente di
tutto questo; ma quell’infinito conteggio di superstizioni non verra
provato; dunque non bisogna dare approvazione a nessuna di queste
divinità90.
1. Sulle varie dottrine teologiche dei filosofi Sesto discute in
Adv. phys. I, 49-136.
2. Per analoga applicazione dell’ σõϑ ένεια cfr. Pyrrh. hyp. Ill 2
segg., 104.
3. Cfr. Adv. phys. I, 106-107, ove la dottrina zenoniana del cosmo
come «essere-vivente animato, intelligente, razionale» viene
considerata come vir-tualmente idéntica a quella platónica di Tim.
29d segg.
4. Da rilevare l’acume eristico di Sesto-Carneade nell’uso del
termine ζoν(== animale e vivente) per mettere in crisi il confuso e
variopinto im-manentismo stoico.
5. Il termine ha qui un’accezione técnica, in conformità con la
riforma gnoseologica di Carneade.
6. Ho preferito, col Mutschmann, leggere ατo al posto del’ατo dei
codici. Sembra, infatti, assurdo intendere, «altrimenti l’uomo
verrebbe a superare sé stesso» e arzigogolato tradurre col Bury «for
the more numerous the senses he has, the better he will be».
7. l’aggiunta risale al Fabricius.
8. l’espunzione è dello Heintz.
9. XENOPHAN. B24 Diels-Kranz.
10. Per questa teoria dei colorí, accettata probabilmente dalla
Stoa, cfr. PLAT. Tim. 67e.
11. In questa argomentazione di Sesto-Carneade, in cui vengono
sem-plificate le critiche al concetto d’infinito fatte da Aristotele
(Phys. III, 4-8), risultano implicitamente respinte le concezioni
della immobilità di Dio (Aristotele) e della sua mancanza di
attività psichiche (Epicuro).
12. Allusione air equivoco concetto crisippeo di spirito-vento
(πνεµανµεoς), per cui cfr. Stoic, vet. frag. II, 471, 703, 704
Arnim.
13. Seconde l’eudemonismo socrático, al quale gli Stoici,
sull’esempi dei Cinici, avevano dato un’interpretazione rigoristica
(cfr. Stoic, vet. frag. I, 182, 187-189; III, 53, 284 Arnim).
14. Per questa definizione e per le altre che seguono ricordiamo
quanto annota l’Arnim (Stoic, vet. frag. Ill, p. 67): «Carneades
Stoicis virtutum definitionibus utitur». Un’ampia rassegna di
siffatte definizioni, per gran parte crisippee, è in STOB. Eel. II,
69, 9W e in DIOG. LAERT. VII, 92.
15. l’intermedio, infatti, è moralmente indifferente (διάφoρoν) e,
quindi non rientra né nel novero delle virtù né in quello dei vizi
(cfr. Stoic, vet. frag. III, 118, 122, 181 Arnim).
16. l’aggiunzione è del Bekker.
17. Su ciò erano d’accordo tutti gli Stoici, da Zenone agli ultimi
seguaci di Crisippo (cfr. Stoic, vet. frag. I, 190; III, 70, 119;
Diog. Babyl. 39; Apollod. 14 Arnim).
18. l’aggiunta indispensabile è del Mutschmann.
19. Gli Stoici, in questo caso d’accordo anche con gli EpicureL.
20. l’espunzione è di Heintz-Rüstow.
21. Per la demolizione scettica della concezione stoico-dommatica
dell’arte della vita cfr. SEXT. EMP. Pyrrh. hyp. Ill, 186 segg. e
Adv. eth. 168 segg.
22. In § 169.
23. In §§ 162, 167 etc.
24. Qui Carneade sfrutta abilmente quelle argomentazioni ontologiche
che avevano portato Platone alia concezione delle idee.
25. Cfr. ARISTOT. Cat. 10-11, da cui era scaturita la teoria stoica
degli διάφoρα.
26. Ossia all’assurda teoria del «quasi corpo» di Dio (cfr. Cíe. De
nat. deor. I, XVI, 46 segg.; XXVII, 76; XXXI, 87).
27. l’audace integrazione è del Mutschmann.
28. In § 151.
29. Ossia come un mucchio di sillogismi (cfr. Pyrrh. hyp. II, 253).
Per soriti riportati tanto da Sesto quanto da Cicerone (De nat.
deor. III, XVIII, 43 seg.) vedasi P. COUISSIN, Les sorites de
Carnéade contre polythéisme, pp 43-57.
30. così parla Poseidon in HOM. II. XV, 187-9.
31. Carneade e Clitomaco.
32. Ossia Trivia, ipostasi della stessa Artemide.
33. l’integrazione è dello Heintz.
34. La dea delle porte.
35. La divinità dei catenacci.
36. La divinità dei ehiavistelli.
37. Ossia la compassione, tanto poco apprezzata dagli Stoici.
38. Ossia la paura, dialetticamente congiunta con la compassione
(cfr. ARIST. Poet. 1449b 26-27).
39. Frag. com. adesp. 154 Kock.
40. A differenza di Carneade, Sesto conclude (§ 192) la sua
demolizione accusando – sulle orme di Senofane e, ancor più, di
Timone – «l’estro inventivo dei teologi e dei poeti, il quale, a
dire il vero, è colmo di ogni empiéta».
41. Sta parlando l’accademico Cotta rivolgendosi in particular modo
allo stoico Balbo. Per le varie interpretazioni del terzo libro del
De nat. deor. vedansi L. KRUMME, Die kritik der Stoischen Théologie
in Cic. Schrift De nat. deor., Diss. Gôttingen, 1941 e A. WEISCHE,
Cicero und die Neue Akademie, pp. 38-45.
42. così viene di sólito integrata la lacuna dei codici.
43. Ci aspetteremmo «fuoco» in conformità con le teorie
aristoceliche di De gener, et corr. II, 4. l’etere, infatti, non
rientrava nel metabolismo degli elementi. Ma Cotta accetta
Tidentificazione stoica di fuoco con etere (cfr. Stoic, vet. frag.,
II, 580, 601, 1067 Arnim).
44. Cfr. Cíe. Tuse. I, XXXII, 79.
45. Cfr. SEXT. EMP. Adv. phys. I, 142.
46. Per I’argomentazione in genérale cfr. SEXT. EMP. Adv. phys. I,
180. Qui Carneade utilizza a scopo elenchistico la teoria
aristotélica dei luoghi naturali.
47. Gli Stoici (per il fuoco come elemento per eccellenza cfr.
Stoic, vet. frag. I, 98, 102; II, 413 Arnim).
48. Per Toscurità di Eraclito cfr. 22 A ia, 3a; B 10 Diels-Kranz.
49. Il fuoco, infatti, è caldo come l’aria ed è secco come la terra,
almemo secondo la fisica peripatética (cfr. SEXT. EMP. De gener, et
corr. II, 3).
50. Secondo gli Stoici solo il fuoco è extrinsecus e anche νoηρóν in
quanto s’identifica con Dio (cfr. Stoic, vet. frag. I, 157; II, 423,
443, 806 Arnim).
51. Su questa distinzione insistevano anche gli Epicurei (cfr.
LUCRET. III, 136 segg.).
52. II termine è qui usato in senso técnico. Altro ve (ad es. § 47)
Cicerone usa indifferentemente «verosimile».
53. Cfr. Stoic, vet. frag. I, 501 Arnim.
54. Per il difficile rapporto tra divinità e virtù cfr. SEXT. EMP.
Adv. phys. I, 152 segg.
55. In forma ittica era venerata Atargatis (cfr. DIOD. STC. II, 4;
LUCÍAN. De dea Svra 14).
56. Ciò suggeriva molti spunti all’Evemerismo.
57. Divinità marina, identificata dai Roman con Mater Matuta.
58. Ossia l’infima o dei nullatenenti, secondo la costituzione
serviana (cfr. Liv. I, 43).
59. Come sembrava sostenessero acriticamente gli Stoici; ma in
realtà la questione era molto più complessa (cfr. POHLENZ, La Stoa,
I, pp. 183-221, 479-82; II, pp. 91-94, 126-31, 280-2 etc.).
60. ENN. Thyest. 351 Warmington, cit. in PROB. Ad Virgil, eel. VI,
31.
61. Secondo il Ribbeck i versi appartengono agli Heraclides di Accie
il quale si ispirò aile di Sofocle e, indirettamente, ad HOM.. Il.
XVIII, 117.
62. HOM. Od. XI, 601-2.
63. Allusione irónica ai grammatici alessandrini contro cui aveva
aspramente polemizzato già Timone.
64. Figlia di Océano e, secondo alcune credenze, madre anche di
Dioniso.
65. Per questa lite cfr. APOLLOD. Bibi. II, 6, 2.
66. Per questa divinità egiziana cfr. HERODOT. II, 113. Le Phrygiae
litterae erano o un’opera che trattava di magia o una teogonia o
semplici amuleti.
67. Sacerdoti di Cibele.
68. Ercole Tirio, detto Melkart.
69. Divinità non indiana, ma assiro-babilonese.
70. Cotta, da buon romano e da conformista scettico, professa
rispetto per il mos maiorum che non ha nulla a che vedere con le
pretese razionalistiche della teologia. Per i numerosi soriti di cui
qui Carneade comincia a fare ampio uso vedasi P. COUISSIN, Les
sorites de Carnéade contre le polythéisme, pp. 43-57, ove i passi
ciceroniani sono confrontati con quelli analoghi di Sesto (Adv.
phys. I, 182 segg.).
71. Allusione all’orazione De Collegiis o De religione (cfr. Or at.
Rom. frag., rec. H. Malcovati, Augustae Taurinorum, 1955, pp.
117-8).
72. Per questo Drang nach Westen di Saturno cfr. DIONYS. ALIC. Antiq
Rom. I, 38.
73. Cfr. HESIOD.. Theog.123 segg.
74. Cfr. IUSTINIAN. I, 4.
75. II diritto naturale (φύσις), secondo Tantico giusnaturalismo dei
Sofisti, è più valido di quello scritto o storico (νóµoς). Per
questo lato gli Stoici si rifacevano ai Sofisti (cfr. POHLENZ, La
Stoa, I, pp. 267-9, 415-6, 545-9).
76. Ossia di Calliope.
77. In De nat. deor. II, XXIV, 62. Per le oscurità dei soriti
seguenti cfr. COUISSIN, Les sorites de Carnéade, p. 53 e DAL PRA, Lo
scetticismo greco, p. 199.
78. Per il flamen furinalis e per i Furinalia cfr. VARR. De ling.
lot. V, 84; VI, 19; VII, 45.
79. Con questo appellativo erano onorate sia Mnemosine, madre delle
Muse, sia Giunone dispensatrice di moniti (cfr. CIC. De divin. I,
101; Liv. VII, XXVIII, 4; OVID. Fast. I, 638).
80. In § 36 Cicerone ha usato il termine «probabile», mentre qui usa
«verosimile», contribuendo a darci una visione confusa del pensiero
Carneadeo.
81. Il culto di queste divinità egiziane era già diffuso nell’età
ciceroniana: l’edificazione del Serapeion di Pozzuoli risale al 105
a. C. e un tempio di Iside a Pompei fu distrutto nel 63 a. C. e poi
subito ricostruito.
82. Nella sua tragedia Medea. Un paragone tra Ino e Medea è in
EURIPMed. 1206 segg. (cfr. COUISSIN, Les sorites de Carnéade, p.
55).
83. Cfr. § 36.
84. In onore delle tre figlie di Leonte, che durante una pestilenza
si erano immolate in un rito apotropaico (cfr. AELIAN. Var. hist.
XII, 18).
85. In De nat. deor. II, XXI.
86. Come fecero Scipione (cfr. Liv. XXXIX, XXVII) ed Augusto (cfr.
APPIAN. De bell. civ. V, 98).
87. In De nat. deor. II, XXVI, 67.
88. In De nat. deor. II, XXVI, 66.
89. Per celebrare la sua vittoria sui Corsi nel 231 a. C. Per i
Fontanalia cfr. VARR. De ling. lat. VI, 22.
90. Il tropo del regressus ad infinitum, che verra
istituzionalizzato da Agrippa (cfr. SEXT. EMP. Pyrrh. hyp. I, 166),
dà un lieve tocco speculativo alla troppo lunga esemplificazione
Carneadea romanizzata da Cicerone.
Critica delle prove stoiche dell’esistenza di Dio (CICERONE, De nat.
deor. III, IX-X, 21-26)
«Nella natura universale non c’è nulla che sia migliore del mondo»1.
Neppure sulla terra c’è nulla di meglio della nostra città2: forse
tu, soltanto per questo motivo, credi che questa città possegga una
ragione, un pensiero, un intelletto oppure, poiché essa non li
possiede, stimi che una formica sia preferibile a questa bellissima
città per il semplice fatto che una città non ha alcuna facoltà di
sentire, mentre una formica ha non solo questa facoltà, ma anche
un’intelligenza, una ragione, una memoria? Tu, o Balbo, devi
attenerti alle concessioni che ti si fanno, senza prenderti da te
stesso quello che vuoi.
In verità tutto codesto settore della discussione3 è stato allargato
da quella vecchia argomentazione di Zenone, la quale pur è stringata
e, a tuo avviso, acuta. Zenone, infatti, argomenta così: «ciò che ha
uso di ragione è migliore di ciò che non l’ha; ma nulla è migliore
del mondo: dunque il mondo ha uso di ragione». Se, però, questo
viene accettato, tu farai subito notare che il mondo legge
ottimamente un libro! Difatti, sulle orme di Zenone, potrai
articolare il sillogismo nel modo seguente: «ciò che è grammatico è
migliore di ciò che non è grammatico; ma nulla è migliore del mondo:
dunque il mondo è grammatico»4. In questa maniera, però, il mondo è
anche oratore e, inoltre, matematico5, musico e, per giunta, fornito
di ogni cultura e, infine, filosofo.
Sovente tu hai affermato che nulla può essere fatto senza Dio e che
la natura non ha una capacita tale da poter creare cose dissimili da
lei6. Ma, in tal caso, dovrò concederti che il mondo è non solo
animato e sapiente, ma anche suonatore di cetra e di flauto, dal
momento che in esso sono presenti uomini che praticano anche queste
arti?
Adunqne codesto padre degli Stoici non arreca alcuna prova in base
alla quale noi dobbiamo reputare che il mondo abbia uso di ragione e
neppure che esso sia animato7.
II mondo, dunque, non s’identifica con Dio, ma, ciò nonostante, non
c’è niente che sia migliore di esso: difatti non c’è nulla che sia
più bello, più salutare per noi, più attraente a mirarsi, più
regolare nei moti suoi. Ché, se il mondo nella sua totalità non è
Dio, non lo sono neanche le stelle che tu, nell’infinità del loro
numero, annoveravi tra gli dei. Le loro traiettorie costanti ed
eterne ti procuravano diletto – e bene a ragione, per Ercole! –,
tanto ammirevole ed incredibile è la loro regolarità. Ma, o Balbo,
non tutte quelle cose che hanno traiettorie certe e costanti si
devono far risalire a Dio piuttosto che alla natura.
Che cosa credi tu che, nell’equilibrato alternarsi del flusso e del
riflusso, possa riscontrarsi di più costante dello stretto
dell’Euripo o di quello della Sicilia o del ribollire dell’oceano in
quei luoghi dove
L’onda divide rapace le coste dell’Europa e di Libia8.
Ebbene? Le maree della Spagna e della Britannia e il loro crescere e
il loro decrescere secondo tempi ben fissi non sono, forse,
possibili senza Dio? Bada – ti prego – che, se noi consideriamo
divini tutti quei moti e tutti quei fenomeni che conservano un loro
ordine in tempi ben fissi, non siamo costretti a dire che sono
divine anche le febbri terzane e quartane, della cui ricorrenza non
ci può essere nulla di più costante. Di tutti questi fenomeni si
deve dare spiegazione, mentre voi non riuscite a farlo, ma vi
rifugiate in Dio, come un supplice presso l’altare9.
Eppure ti sembrava che dicesse cose acute Crisippo10, uomo
indubbiamente versatile e callido (versatile io chiamo quelle
persone il cui pensiero si riversa celermente di qua e di là;
callidi, invece, quelli la cui anima si è incallita nella pratica,
come le mani s’incalliscono per la fatica). Costui, dunque,
asserisce: «Se esistono certe cose che l’uomo non è in grado di
effettuare, colui che riesce ad effettuarle è migliore dell’uomo; ma
l’uomonon è in grado di effettuare quelle cose che esistono nel
mondo: dunque chi vi è riuscito è superiore all’uomo: ma chi
potrebbe essere superiore all’uomo se non Dio?»11.
Tutte queste parole vanno a cascare nel medesimo errore in cui
cadevano quelle di Zenone. Noi, infatti, non riusciamo a determinare
con esattezza il significato di «meglio», di «preferibile», di
«differenza tra natura e ragione»12.
Inoltre Crisippo13 sostiene che, se non esistono gli dei, in tutta
la natura non c’è niente che sia migliore dell’uomo; ma egli pensa
che sia manifestazione di somma arroganza il fatto che un uomo
reputi che non ci sia nulla di meglio dell’uomo. Ammettiamo pure che
sia manifestazione di somma arroganza stimare se stessi più del
mondo: ciò nonostante, non solo non è arroganza, ma è piuttosto
prudenza capire di possedere senso e ragione, mentre Orione e la
Canicola14 non li posseggono affatto.
E Crisippo aggiunge: «Se una casa è bella, noi ci possiamo rendere
conto che essa è stata costruita per i padroni, non per i topi: allo
stesso modo, dunque, dobbiamo stimare il mondo come la casa degli
dei».
Così, certamente, la penserei anch’io, purché credessi che il mondo
sia stato «costruito» non già «formato»15 dalla natura, come vi
dimosterò16.
1. Stoic. vet. frag. I, in Arnim. Da notare il parallelismo con
SEXT. EMP. Adv. phys. I, 104, 140; PORPHYR. De abst. III, 20. Nella
sua confutazione delle prove stoiche dell’esistenza di Dio (o degli
dei) Carneade ha facile gioco sugli avversari anche a causa della
loro confusa teologia che talvolta identificava Dio con la natura,
talvolta propendeva per la trascendenza. Le prove qui sommariamente
criticate sono quella teleologica e quella per gradus, ossia le meno
consistenti.
2. Cicerone usa scaltramente urbs, non civitas, ad indicare la parte
inanimata o tecnica di Roma.
3. In merito non alla semplice esistenza degli dei (di cui si è
discusso in De nat. deor. III, III-VIII, 7-19), bensi alla loro
essenza. Per questo paragrafo e per il suo parallelismo con SEXT.
EMP. Adv. log. I, III e 85 cfr. Stoic. vet. frag. I, 112-114 Arnim.
4. SESTO (Adv. phys. I, 108) attribuisce questo sillogismo
confutatorio ad Alessino.
5. II termine va inteso come «prof essore di scienze ed arti»
(γχύχλιαµαϑήµατα) e in particolare come astronomo-astrologo (cfr.
AUL. GELL. I, 9).
6. Era questo lo scotto che il «Deus sive natura» pagava al
determinismo della Stoa.
7. Per questa concezione stoica di Zenone, che venne appofondita da
Crisippo, cfr. Stoic. vet. frag. I, 110-114; II,528, 632-634 Arnim.
8. ENN. Ann. 546 Warmington, citato anche in Tusc. I, XX, 45.
9. Per solo scopo polemico Carneade sembra qui essere d’accordo con
gli Epicurei.
10. Stoic. vet. frag. II, 1011 Arnim.
11. Il ragionamento per gradus era già stato impostato da Cleante
(cfr. SEXT. EMP. Adv. phys. I, 88-91 = Stoic. vet. frag. I, 529
Arnim).
12. Secondo Carneade c’è anzitutto bisogno di una emendatio
logico-linguistica per poter passare a discutere il problema
teologico.
13. La tesi crisippea è stata esposta da Balbo in De nat. deor. II,
VI, 16 = Stoic. vet. frag., II, 1012 Arnim.
14. Sulle influenze di queste costellazioni ha parlato Balbo in De
nat. deor. II, XLIV, 113-114.
15. Su questa differenza aveva insistito il fisico peripatetico
Stratone di Lampsaco, il quale, accostandosi al meccanicismo
atomistico, aveva negato che fosse necessario far ricorso agli dei
per spiegare la formazione del mondo (cfr. WEHRLI, Die Schule des
Aristoteles, Heft V, frr. 32-39; DAL PRA, Lo scetticismo greco, p.
191).
16. La dimostrazione di Cotta-Carneade non ci è pervenuta.
Critica della concezione stoica della provvidenza (CICERONE, De nat.
deor. III, XXV-XXXIX, 65-93 passim)
Vediamo ora il seguito1: anzitutto se il mondo sia retto dal divino
accorgimento e in secondo luogo se gli dei provvedano alle cose
umane. Difatti, dalla divisione degli argomenti fatta da te2, mi
rimangono questi due problemi. Ma di essi, se a voi sembra
opportuno, credo che si debba discutere con accuratezza tutta
particolare […].
In primo luogo, dunque, non è probabile3 che quella materia da cui
sono nate tutte le cose sia stata prodotta dalla divina provvidenza,
ma è probabile, invece, che essa abbia adesso e abbia avuto in
passato una sua propria forza naturale4. Come, dunque, il fabbro,
quando si accinge a confezionare qualche suo lavoro, non produce
egli stesso il materiale, ma si serve di quello che è già pronto, e
parimenti lo scultore si serve della cera, così a codesta divina
provvidenza fu indispensabile avere a propria disposizione una
materia che non venisse essa stessa creata da lei, ma che essa
trovasse già bella e pronta. Ché se la materia non è stata fatta da
Dio, Dio non ha creato neppure la terra, l’acqua, l’aria e il fuoco
[…].
Perché mai5, se Dio ha creato tutte le cose per l’uomo, si trovano
sia nel mare che sulla terra anche molte cose che ci sono contrarie,
ostili, micidiali?
Questa obiezione gli Stoici, senza indagare accuratamente la verità,
l’hanno respinta nel modo più scorretto. Essi, infatti, asseriscono
che ci sono molte cose nei generanti e nel numero degli animali la
cui utilità è ancora nascosta, ma non tardera ad essere scoperta col
passare del tempo, come già molte cose, sconosciute nei secoli
passati, sono state scoperte dal bisogno e dall’esperienza.
Ma quale utilità, alla fine dei conti, si può rinvenire nei topi,
nelle blatte, nei serpenti, che sono per l’uomo molesti e
perniciosi? Forse si cela in loro qualche medicina? Ma se ce n’è
qualcuna, allora venga scoperta una buona volta, ovviamente contro i
mali, dato che gli uomini si lamentano proprio di questo, ossia che
il male esiste, si voglia o meno. Essi van dicendo che la vipera,
bruciata e incenerita, fa da medicina al morso inferto da quella
bestia medesima: ma quanto meglio sarebbe che essa non esistesse
affatto, piuttosto che essere noi costretti a desi-derare da lei
stessa un rimedio contro di lei! […].
Dio6 o vuole eliminare i mali e non può, oppure può e non vuole, o
né vuole né può o, infine, vuole e può.
Se egli vuole e non può, è impotente: cosa che a Dio nor può
capitare. Se può e non vuole, è malvagio, cosa che è ugualmente
estranea a Dio. Se né vuole né può, è malvagio e, insieme impotente,
e perciò non è Dio. Se, infine, vuole e può – cosa che, essa sola,
si addice a Dio – da dove, allora, nasccno i mali e perché egli non
li elimina? …
… Né solo la scena7 è piena di queste scelleratezze, ma di fatti
molto più gravi è quasi piena la vita ordinaria. Se ne avvede la
casa di ogni singola persona, se ne avvedono la curia del senato, il
campo di Marte, gli alleati, le province: che, cioè come con la
ragione si agisce secondo rettitudine, così con la ragione si
commettono colpe, e che la prima delle due cose è fatta da pochi e
di rado, mentre la seconda è fatta sempre e dalla stragrande
maggioranza; di guisa che sarebbe state preferibile che dagli dei
immortali la ragione non ci fosse stata elargita affatto, anziché
esserci data con tanta rovina. Come è preferibile non somministrare
affatto il vino agli infermi, perché raramente esso giova e molto
spesso è nocivo, piuttosto che incorrere in una rovina palese con la
speranza aleatoria della salute, così io non so se questo veloce
movimento del pensiero8, quest’acutezza, quest’ingegnosità che noi
chiamiamo ragione, non sarebbe stato meglio non darla affatto al
genere umano, anziché donarla con tanta prodigalità e tanta
larghezza, dal momento ché essa è pestífera a molti ed è salutare
solamente a pochi.
Ecco perché, se la mente e la volontà divina ha creduto di
provvedere a favore degli uomini facendo loro il regalo della
ragione, ha badato esclusivamente a quelli da lei dotati di una
ragione buona, che noi vediamo essere in numero molto scarso, se pur
ce ne sono. Ma non è ammissibile che gli dei immortali abbiano
badato solo a pochi: ne consegue, allora, che essi non hanno badato
a nessuno.
A quest’ultima argomentazione siete soliti fare l’obiezione
seguente: «Tutto ciònon vuol dire che gli dei hanno provveduto a noi
in modo inopportuno per il semplice fatto che molti fanno uso
perverso del beneficio ricevuto: anche dei beni patrimoniali molti
fanno cattivo uso, ma ciònon vuol dire che costoro non ricevano dai
padri nessun beneficio». E chi lo nega? Pero il paragone da voi
addotto è completamente sballato!
A dire il vero, Deianira non aveva affatto intenzione di nuocere ad
Ercole, quando gli diede la tunica intinta nel sangue del Centauro9,
né quel tale che aperse a Giasone di Fere10 il tumore che i medici
non erano riusciti a guarire, intendeva arrecargli giovamento.
Molti, infatti, con l’intento di danneggiare, hanno arrecato
vantaggio e, con l’intento di arrecar vantaggio, hanno danneggiato:
ma ciò non vuol dire che dall’oggetto che viene offerto si palesi la
volontà del donatore, e se chi lo riceve ne fa buon uso, non per
questo chi glielo ha dato glielo ha dato con intenzione amichevole.
A dire il vero, quale atto di libidine, quale azione avara, quale
delitto viene intrapreso senza che si sia operata alcuna scelta, o
viene eseguito senza alcun moto dell’anima, senza riflessione o, in
ultima analisi, senza la ragione? Infatti ogni opinione s’identifica
con la ragione: con la ragione «buona», se l’opinione è vera; con
quella «cattiva», se l’opinione è falsa11. Ma da Dio noi abbiamo
ricevuto soltanto la semplice facoltà razionale, se pur l’abbiamo
ricevuta; invece da noi abbiamo la ragione buona o quella non buona.
Dunque la ragione non è stata data dagli dei a beneficio degli
uomini, come, invece, viene lasciato un patrimonio: infatti, se gli
dei avessero voluto far male agli uomini, non avrebbero potuto
offrir loro un regalo peggiore, né l’ingiustizia, l’intemperanza e
la viltà avrebbero avuto modo di germinare, se al di sotto di questi
vizi non stesse come fondamento la ragione …
Ma voi12 non desistete dal ribadire che la responsabilità della
colpa ricade sugli uomini e non sugli dei. Ma è come se un medico
accusasse la gravita della malattia o un pilota l’impeto
dell’uragano: quantunque costoro siano dei poveri omiciattoli,
tuttavia cadono nel ridicolo. «Chi ti avrebbe chiamato – si potrà
obiettare–, se codesti guai non ci fossero stati?». Contro Dio, poi,
si può discutere con liberta ancora maggiore: «Tu dici che la colpa
risiede nei vizi umani; ma allora avresti dovuto dare agli uomini
una ragione tale che escludesse i vizi e la colpa». Ma allora si
dovrà assegnare un ruolo all’errore degli dei? Infatti noi lasciamo
i beni patrimoniali con la speranza di affidarli in buone mani, e
questa speranza può pure ingannare noi altri: ma come mai Dio può
lasciarsi trarre in inganno? Forse come il Sole sul carro, quando vi
innalzò suo figlio Fetonte, o come Nettuno, quando Teseo perdette il
figlio Ippolito dopo aver ottenuto dal padre Nettuno il permesso di
fare tre richieste: ma codeste sono poetiche fole; noi, invece,
vogliamo essere filosofi, vogliamo attestare fatti, non leggende!
Eppure questi stessi dei della poesia verrebbero stimati
responsabili dell’erronea concessione di un beneficio, se avessero
saputo che quelle concessioni sarebbero state esiziali per i figli.
E se è vero quello che Aristone di Chio13 soleva dire – che, cioè, i
filosofi sono nocivi a quegli uditori che danno cattiva
interpretazione ad affermazioni esatte, e difatti dalla scuola di
Aristippo possono uscire individui sregolati e da quella di Zenone
individui aspri–, allora certamente, se era inevitabile che dalle
scuole uscissero allievi pieni di vizi per l’erronea interpretazione
data da loro alle dispute filosofiche, sarebbe stato preferibile che
i filosofi stessero zitti anziché danneggiare quelli che li avessero
ascoltati. Cosi, se gli uomini convertono in frode e malizia la
ragione, che è stata data a loro dagli dei con buona intenzione,
sarebbe stato meglio non darla al genere umano anziché dargliela. E
come sarà gravemente responsabile il medico, qualora sappia che
quelFammalato al quale è stato ordinate di bere vino morra tanto più
presto quanto più ne berrà, così bisognerà rimproverare codesta
vostra divina provvidenza per avere essa conferito la ragione a
quelli che essa sapeva ne avrebbero fatto uso perverso e malvagio.
A meno che non vogliate dire che essa non lo sapeva. E magari lo
diceste! Ma non ne avrete Fardire: non ignoro, infatti, la grande
stima in cui avete il nome suo.
Ma questo lato del problema può ormai considerarsi concluso.
Infatti, se la stoltezza – per concorde ammissione di tutti i
filosofi – è un male più grave anche nel caso che sull’altro piatto
della bilancia vengano posti tutti i mali della sorte e del corpo, e
se, d’altra parte, nessuno riesce a conseguire la sapienza14, noi
tutti ci troviamo nei peggiori dei mali, noi, cui voi asseverate che
gli dei immortali hanno provveduto nel migliore dei modi. Infatti,
come non c’è alcuna differenza se nessuno stia bene di salute o
nessuno possa star bene di salute, così io non capisco quale
differenza possa intercorrere tra il fatto che nessuno sia sapiente
e il fatto che nessuno possa esserlo15.
Ma noi abbiamo parlato fin troppo di una questione abbastanza
chiara. Telamone16, invece, con un solo verso dà una risposta
esauriente all’intero interrogativo sui motivi per cui gli dei
trascurano gli uomini:
Se si curasser di noi, il bene ai buoni, ai cattivi
Il male
accadrebbe: ma questo è ora ben lungi da noi17.
Essi avrebbero dovuto creare tutti buoni, se davvero badavano al
genere umano; o, se ciò non era proprio possibile, almeno a favore
dei buoni avrebbero dovuto prendere provvedimenti…
A favore di chi voi18 intendete fare una chiara difesa quando dite
che il potere degli dei è tale che, se pur qualcuno sia riuscito a
sottrarsi con la morte alle pene del suo delitto, quelle pene sono
fatte pagare dai figli, dai nipoti e dalle generazioni future? O
meravigliosa equità degli dei! E ci sarebbe, forse, una qualche
città disposta a tollerare il promotore di una legge siffatta, in
base alla quale venisse condannato il figlio o il nipote, se il
padre o il nonno avessero commesso un reato? «Quale limite si
porrebbe alla strage dei Tantalidi»19 o con quale supplizio
soddisfacente si pagherebbero le pene per la morte di Mirtilo?20
Io non saprei dirvi facilmente se sono stati i poeti a corrompere
gli Stoici oppure sono stati gli Stoici a fidarsi troppo delle
attestazioni dei poeti21. Dagli uni e dagli altri, infatti, vengono
celebrati portenti e delitti. Né, a dire il vero, chi fosse stato
colpito dal giambo di Ipponatte o chi fosse stato ferito dal verso
di Archiloco subiva un dolore infertogli da un dio e non già
provocato da se stesso, e quando noi osserviamo la libidine di
Egisto o quella di Paride, non ne facciamo risalire la causa alla
divinità, giacché ascoltiamo quasi la dichiarazione della loro
colpevolezza; ed io ritengo che la salute di molti in fermi fu
recuperata da Ippocrate piuttosto che da Esculapio, e non affermerò
che gli ordinamenti dei Lacedemoni furono dati, una volta per tutte,
a Sparta da Apollo piuttosto che da Licurgo. E fu Critolao, in fin
dei conti, a provocare la distruzione di Corinto, e Asdrubale quella
di Cartagine: furono costoro a distruggere dalle fondamenta quelle
due perle del mare, non un qualche dio adirato, che, per giunta, voi
dite che non si può adirare affatto!22
Ma certamente questo dio avrebbe potuto soccorrere e salvare città
così grandi e così belle: voi stessi, infatti, siete soliti dire che
non c’è niente che un dio non possa fare e, per giunta, senza fatica
alcuna: come, in vero, le membra degli uomini, senza alcuno sforzo,
si muovono ad opera della mente e della volontà, così dalla potenza
degli dei – a vostro avviso – tutte le cose possono essere create e
mosse e subir mutamento. Né voi fate queste affermazioni per
superstizione o a guisa di vecchierelle, ma fondandovi su una
costante e razionale legge di natura: infatti la sostanza materiale
del mondo, da cui derivano e in cui sono tutte quante le cose, a
parer vostro è, nella sua interezza, flessibile e mutevole, fino al
punto che non esiste nulla che da essa non possa, anche
immediatamente, essere plasmato e trasformato; invece essa, nella
sua totalità, è foggiata e moderata dalla divina provvidenza: questa
dunque, in qualsivoglia direzione si muova, può effettuare tutto
quello che vuole.
Ma allora essa o non sa quale sia il proprio potere o tra-scura le
cose umane o non riesce a distinguere ciò che è il meglio. «Ma essa
non si cura degli uomini singoli» dite voi. E non è strano! Neppure
delle città essa si preoccupa affatto, neppure dei popoli e delle
genti. Ché, se essa tiene in dispregio anche queste, non c’è da
stupirsi che da lei sia stato disprezzato tutto quanto il genere
umano.
Ma come mai proprio voi dite che gli dei non si curano di tutte le
singole cose, se voi stessi pretendete che dagli dei immortali siano
minuziosamente distribuiti i sogni agli uomini (su questo argomento
io intendo parlare appunto con te, perché è vostro il parere
favorevole circa la veracità dei sogni)23, e se voi stessi affermate
che anche i nostri voti devono ricevere divine accoglienze?
Indubbiamente sono uomini singoli a far voti: dunque la mente divina
porge ascolto anche ai singoli! Vedete, quindi, che essa non è poi
tanto indaffarata, come pensavate voi altri! Ma permettetele di
dilatarsi, di far girare il cielo, di proteggere la terra, di
placare il mare: perché essa lascia che tanti dei non facciano nulla
e se ne stiano a riposo? Perché non ha messo a capo delle cose umane
qualcuna di quelle divinità oziose24 che – in numero
straordinariamente grande – tu, o Balbo, hai passato in rassegna?
Queste cose, suppergiù, avevo da dire sulla natura degli dei, non
per toglierla di mezzo, ma perché vi rendeste conto quanto essa sia
oscura e con quanta difficoltà se ne possano dare schiarimenti25.
1. L’accademico Cotta ha enumerato tutta una serie di divinità
venerate dagli Stoici: tra di esse, accanto a quelle tradizionali,
ci sono anche divinità astratte e persino malefiche, in pieno
contrasto con la concezione del dio come vivente e come fornito di
ogni virtù. Il presente capitolo ci è pervenuto in maniera
frammentaria. Una parziale ricostruzione delle parti perdute si può
fare utilizzando Arnobio (Adv. nat. III, 6) e Lattanzio (Inst. div.
II, 3, 2).
2. Per questa divisione cfr. De nat. deor. Ill, 3, 6.
3. Cfr. LACTANT. Inst. div. II, 8; MIN. FEL. Octav. V, 7-9.
4. In base al principio del nihil ex nihilo fieri.
5. Cfr. PORPHYR. De abst. III, 20; LACTANT. De ira Dei, XIII, 9-12,
nonché CIC. Lucull XXXVIII, 120.
6. Cfr. LACTANT. De ira Dei, XIII,20-21.
7. Cotta ha esaminato alcuni passi della Medea di Ennio e
dell’Atreus di Accio.
8. La fonte di questa espressione è in PLAT. Legg. X, 896a.
9. Come è rappresentato nelle Trachinie di Sofocle, ampiamente
utilizzate dai tragediografi latini.
10. Per questo fallito tirannicidio cfr. PLIN. Nat. hist. VII,51 e
VAL. MAX. I, 8, 6.
11. La distinzione di δóξα, λóγος e óρϑóς λóγος qui dialetticamente
utilizzata di Carneade-Cotta, è tipicamente stoica.
12. Cotta ha esaminato episodi drammatici in cni la responsabilità
delle colpe umane viene fatta risalire alla divinità. Ma gli Stoici,
in questi casi, non sono d’accordo coi poeti.
13. Cfr. Stoic. vet. frag. I, 242, 348 Arnim.
14. Sul tema del sapiente «introvabile» aveva insistito Crisippo
(cfr. Stoic. vet. frag. III, 662, 668 e SEXT. EMP. Adv. phys. I,
133).
15. Questa precisazione tipicamente Carneadea ci sembra fondamentale
per capire la distinzione tra probabilismo e possibilismo, il primo
essendo suscettibile di interpretazione matematicistica, il secondo
di svolte «esistenzialistiche» non bene intraviste dagli antichi.
16. Padre di Aiace e protagonista di una tragedia enniana.
17. ENN. Trag. fr. 330 Warmington.
18. Cotta si rivolge agli Stoici sostenitori della contraddittoria
concezione della nemesi storica (cfr. ALEX. APHROD. De fato, cap. 35
p. 207 Bruns.), essendo la nemesi un πϑος e, quindi, inconciliabile
con Tessenza del dio (cfr. Stoic. vet. frag. III, 414 Arnim).
19. Forse viene riportato qui un verso del Thyestes di Accio.
20. L’auriga di Enomao, tragicamente ingannato da Pelope.
21. In questa critica della pcesia Carneade-Cotta segue le orme di
Platone.
22. Antipatro di Tarso, antagonista di Carneade, aveva scritto un
trattato De ira (cfr. Stoic. vet. frag. 67 Arnim).
23. Si preannuncia qui la critica all’arte divinatoria, che verrà
sviluppata soprattutto nel secondo libro del De divinatione.
24. Qui la critica anti-stoica di Cotta-Carneade coincide con quella
mossa all’epicereo Velleio in De nat. deor. I, XXIII, 63.
25. La conclusione non intende essere ateistica, ma anti-teologica.
Sarà, questo, anche l’atteggiamento dei Neo-pirroniani.
Argomentazioni contro la divinazione in generale (CICERONE, De
divin. II, III-X, 8-25)
Orbene1: io devo rispondere a ciò che tu hai affermato, ma devo
rispondere in modo tale da non fare alcuna afferma-zione, da
indagare su ogni questione, sollevando per lo più dubbi e senza
nutrir fiducia in me stesso2. Se, infatti, avessi da fare con
certezza qualche asserzione, finirei col fare l’indovino proprio io,
che pur nego l’esistenza della divinazione!
A dire il vero, mi induce a parlare quella che soleva
essere l’istanza fondamentale di Carneade, ossia quali cose
fossero oggetto della divinazione e se lo fossero quelle che vengono
percepite per mezzo dei sensi. Ma appunto queste ultime noi le
vediamo, le udiamo, le gustiamo, le odoriamo, le tocchiamo. Non ci
può essere, allora, tra esse alcuna cosa che noi avveriamo per mezzo
di un istinto di preveggenza della nostra mente più che per mezzo
della stessa natura. O forse un qualche indovino, se è privo della
vista degli occhi al pari di Tiresia, potrebbe dire quali cose siano
bianche e quali nere, oppure, se è sordo, potrebbe riconoscere la
varietà delle voci e dei ritmi? Pertanto la divinazione non può
essere applicata a nessuna di quelle cose che sono recepite dal
senso.
Ma neppure in quelle cose di cui si occupa l’arte c’è bisogno di
divinazione!3 Infatti noi siamo soliti condurre al capezzale degli
ammalati non vati e indovini, ma medici, e quelli che vogliono
imparare a suonare cetre e flauti non imparano il modo di usarli
dagli aruspici, ma dai musici. E lo stesso ragio namento vale anche
per le lettere e per tutte le altre cose di cui si dà insegnamento.
Pensi forse tu che i cosiddetti indovini siano in grado di dire se
il sole sia più grande della terra oppure sia tanto grande quanto
appare? E se la luna splenda di luce propria oppure utilizzi quella
del sole? E quali siano i movimenti del sole e della luna? E quelli
delle cinque stelle che sono dette «erranti»? Quelli che sono
ritenuti indovini non professano di saper dare una risposta a questi
interrogativi né di saper precisare quali teoremi di geometria siano
veri e quali falsi: queste, infatti, sono spettanze dei matematici e
non degli indovini.
Di quelle questioni, poi, che hanno a che fare con la filosofia ce
n’è forse alcuna alla quale un qualche indovino sia solito dare
risposta o su cui di solito venga consultato? Che cosa sia il bene,
che cosa il male, che cosa ciò-che-non-è-né-l’uno-né-l’altro?4
Queste son cose che spettano ai filosofi! Ebbene? A proposito del
dovere, c’è forse qualcuno che consulti l’aruspice circa il modo in
cui ci si debba comportare con i genitori, con i fratelli, con gli
amici? Su come si debbano gestire il danaro, una carica pubblica, un
comando militare? Su queste cose si sogliono consultare i sapienti,
non gli indovini. Ebbene? Certe questioni di dialettica o di fisica
possono esser risolte con la divinazione? I problemi circa l’unità o
la pluralità dei mondi e circa gli elementi primordiali da cui
nascono tutte quante le cose sono riservati ai fisici. In che modo,
poi, si possa risolvere il sofisma del «mentitore», che i Greci
chiamano ψευδôµενον5, o come ci si possa opporre al sorite6 〈che, se
fosse necessario, si potrebbe chiamare «acervalis» con termine
latino; ma non ce n’è bisogno, giacché, come il termine «filosofia»
e molti altri vocaboli greci, così anche il termine «sorite» è di
uso abbastanza comune nella lingua latina〉, anche queste cose,
insomma, ce le diranno i dialettici, non gli indovini. Ebbene?
Quando si cerca quale sia la forma migliore di governo o quali leggi
e quali costumi siano utili o inutili, si manderanno a chiamare gli
aruspici dall’Etruria oppure lo stabiliranno quei cittadini più
ragguardevoli ed eletti che sonogli esperti del diritto pubblico?
In conclusione: se non c’è alcuna divinazione né di quelle cose che
sono soggette ai sensi né di quelle che sono incluse nelle arti né
di quelle che sono dibattute in filosofia né di quelle che hanno a
che vedere con l’attività pubblica, io non capisco affatto di che
diamine essa si occupi: la divinazione, infatti, o dovrebbe
riguardare tutte le cose oppure bisogna assegnarle un qualche
settore di cui essa si occupi. Ma né 1a divinazione riguarda tutte
le cose, come ha mostrato il nostro ragionamento, né si trova un
campo o un settore particolare di cui noi possiamo darle la
prerogativa7.
Sta attento, allora, che la divinazione non esiste affatto! A questo
proposito c’è un verso greco che è divenuto popolare:
Chi ben pensa io lo chiamo ottimo vate8.
E forse che il vate saprà congetturare meglio di un pilota quale
tempo farà, o con maggiore perspicacia di un medico quale sia la
natura di una malattia, oppure egli, fondandosi sulle congetture,
saprà gestire la condotta di una guerra con maggior prudenza di un
generale?
Ma mi sono accorto, o Quinto, che tu con cautela vieni a separare la
divinazione da quelle congetture che postulano arte e competenza e
da quelle cose che vengono apprese per mezzo dei sensi o di attività
tecniche, e che tu dai la seguente definizione: «divinazione è
predizione e presentimento di quelle cose che sono dovute al caso»9.
Anche così, però, sono risospinto anzitutto allo stesso punto di
prima. Infatti il medico e il pilota e il generale hanno un
presentimento delle cose fortuite. E allora, un aruspice o un augure
o un qualche vate qualsiasi o uno che sta sognando sarà forse in
grado di congetturare che un malato si riscatterà dal morbo o una
nave dal pericolo o un esercito dall’imboscata, meglio di un medico,
di un pilota o di un generale? Anzi tu dicevi10 che l’indovino non
ha neppure la spettanza di certe cose, come, ad esempio, la facoltà
di presentire per mezzo di certi segni l’imminenza di venti o di
piogge (e in quell’occasione tu hai recitato a memoria la mia
traduzione di certi versi di Arato), quantunque anche questi
fenomeni siano dovuti al caso: essi, infatti, accadono per lo più,
non sempre. Qual è, allora, e su che cosa verte quel presentimento
delle cose fortuite che tu chiami divinazione? Difatti ciòche si può
presentire per mezzo dell’arte o della ragione o dell’esperienza o
della congettura tu non pensi che vada assegnato agli indovini,
bensi agli esperti. Resta quindi la possibilità di riservare alla
divinazione solo quelle cose fortuite che non possono essere
previste per mezzo di nessun’arte e di nessuna sapienza: sicché, ad
esempio, se qualcuno avesse detto, molti anni prima, che il famoso
Marco Marcello11, tre volte console, sarebbe perito in un naufragio,
certamente avrebbe indovinato: che egli non avrebbe potuto saperlo
per mezzo di nessun’altra arte o sapienza.
Dunque, è divinazione il presentimento di siffatte cose che sono
riposte nella fortuna12.
Ma ci può essere mai un qualche presentimento di quelle cose per le
quali non c’è alcuna ragione che debbano accadere? Che altro è,
infatti, la sorte, che altro la fortuna o il «caso»
o l’«evento» se non il fatto che un qualcosa «accade» o
«avviene» anche in un modo diverso?13 E come mai, allora, si può
presentire o predire quello che accade senza alcun motivo, per cieco
caso o secondo la volubilità della fortuna?
Il medico prevede con la ragione l’aggravarsi della malattia, il
generale le imboscate, il pilota le tempeste; e tuttavia sovente si
ingannano anche loro, che pur non opinano nulla senza un certo
fondamento razionale: cosi, ad esempio, l’agricoltore quando vede
spuntare il flore dell’ulivo, pensa che vedrà anche la bacca, e
nonio pensa, ovviamente, senza ragione, ma tuttavia qualche volta
s’inganna. Ma se s’ingannano quelli che non fanno alcuna
afíermazione senza fondarsi su una certa razionale congettura, quale
stima bisogna fare della congettura di quelli che presentono il
futuro in base a viscere o ad uccelli o a prodigi o ad oracoli o a
sogni?
Non intendo ancora mettere in rilievo la nullità di certi segni,
quali l’incisione del fegato, il gracchiare del corvo, il volo di
un’aquila, la traiettoria di una stella, le voci degli invasati, le
sorti e i sogni: su ciascuna di queste cose parlero a tempo
debito:14 ora ne tratto in linea generale.
Come mai si potrebbe prevedere che accadrà un qualcosa che non
presenta alcuna causa o alcun indizio per cui debba accadere? Le
eclissi del sole e, cosí pure, quelle della luna sono previste molti
anni prima da coloro che studiano con calcoli matematici i moti
degli astri: costoro, infatti, predicono certi fenomeni che si
verificheranno precisamente mercé una necessità naturale. Dalla
traslazione assolutamente costante della luna essi vedono quando
quest’ultima, † allontanata15 † dalla regione del sole, va ad
incappare nell’ombra che è proiettata dalla terra e che segna il
limite della notte, e quando la medesima luna, passando al di qua
del sole ed opponendosi ad esso, ne offusca la luce al nostro
sguardo, e nell’ambito di quale costellazione verrà a trovarsi
ciascuno dei pianeti in ogni sta-gione delFanno, e quale sia il loro
sorgere quotidiano. Ed è ben evidente il metodo praticato da quanti
fanno queste predizioni!
Ma quanti dicono che troveremo un tesoro o che ci arriverà
un’eredità, quale metodo seguono? O in quale successione naturale di
cose è implicito ciòche accadrà? Che, se queste cose e le altre che
rientrano nel medesimo genere hanno una qualche necessita naturale
simile alle precedenti, che motivo c’è – alla fin dei conti – per
cui noi dobbiamo credere che accadranno per caso o fortuitamente per
sorte? Niente è, infatti, tanto contrario alle costanti norme della
ragione quanto la fortuna, sicché mi sembra che neppure a un dio
possa capitare di sapere che cosa accadrà per caso o fortuitamente.
Se, infatti, egli lo sa, quela tal cosa avverrà con certezza; se
avverrà con certezza, non ci sarà fortuna alcuna; ma la fortuna c’è:
epperò non c’è alcun presentimento delle cose fortuite.
D’altro canto, se tu neghi l’esistenza della fortuna e affermi
che tutti gli accadimenti presenti e futuri sono stati fatalmente
determinati da tutta l’eternità, devi cambiare la definizione di
divinazione che tu dicevi essere «presentimento delle cose
fortuite». Se, infatti, nulla può effettuarsi, nulla può «accadere»,
nulla può «avvenire» se non quello che da tutta l’eternità è stato
decretato che si verifichi in un tempo stabilito, quale fortuna ci
può essere? E, tolta di mezzo quest’ultima, quale posto rimane
riservato alla divinazione che da te è stata definita «presentimento
della cose fortuite»? Eppure tu dicevi che tutti gli accadimenti
presenti e futuri sono contenuti dal fato. Senza dubbio il nome
stesso di «fato» è roba da vecchierelle ed implica tante
superstizioni! Ma, ciò nonostante, da parte degli Stoici se ne
dicono tante a proposito di codesto fato.
Di esso, però, un’altra volta16: ora mi atterrò allo stretto
indispensabile.
Dunque: se tutto avviene per opera del fato, quale vantaggio mi reca
la divinazione? Infatti ciò che l’indovino predice si verificherà
comunque, sicché io non saprei quale rilievo abbia il fatto che
un’aquila abbia indotto il mio amico Deiotaro17 a rinunciare al
viaggio: egli, se non fosse tornato indietro, avrebbe dovuto dormire
in quella camera che la notte seguente sarebbe crollata; dunque egli
sarebbe rimasto schiacciato dalle macerie. Ma, se questo era
destinato, per lui non ci sarebbe stata via di scampo; e se non era
destinato, non vi sarebbe incappato lo stesso.
A che giova, allora, la divinazione? E a che scopo mi vengono i
moniti dalle sorti e dalle viscere e da qualsivoglia predizione? Se,
infatti, era destino che nella prima guerra punica, sotto il
consolato di L. Giunio e di P. Claudio, una flotta del popolo romano
venisse distrutta da un naufragio e un’altra dall’affondamento
provocato dai Cartaginesi, anche se i polli sacri avevano
faustamente fatto ribattere a terra il cibo ingozzato18, quelle
flotte sarebbero andate distrutte ugualmente. Se, poi, quelle flotte
non avrebbero corso pericolo di distruzione nel caso esclusivo che
si fosse ottemperato agli auspici, allora non fu il fato a
distruggerle; volete, invece, che tutto accada fatalmente: allora
non c’è divinazione che tenga!
Se, poi, fu destino che nella seconda guerra punica l’esercito del
popolo romano andasse distrutto al lago Trasimeno, si sarebbe forse
potuto evitare quel disastro nel caso che il console Flaminio avesse
obbedito a quei segni e a quegli auspici che gli vietavano
d’ingaggiar battaglia?19 Orbene: o l’esercito per non perì opera del
fato oppure, se per fato peri (cosa che, ovviamente, voi avete
Fobbligo di asseverare), anche se il console avesse obbedito agli
auspici, sarebbe accaduta la stessa cosa, giacché i fati non possono
essere mutati.
Ov’è, allora, codesta divinazione degli Stoici? Se tutto avviene per
destino, essa non può darci alcun monito ad essere più cauti,
giacché, qualunque sarà il nostro comportamento, accadrà quello che
dovrà accadere: se, invece, ciò può essere deviato, non c’è fato
alcuno: quindi neppure divinazione, dal momento che essa riguarda
proprio le cose che accadranno. Infatti non c’è nulla che accadrà
con certezza, se, mediante un determinate atto cautelativo, può
anche accadere che un fatto non avvenga.
Ma io personalmente reputo che la conoscenza del futuro non sia
neanche vantaggiosa! Quale vita, infatti, avrebbe menato Priamo, se
fin da giovane avesse saputo quali accidenti gli sarebbero capitati
nella vecchiaia? Ma lasciamo stare le leggende e guardiamo i fatti
più vicini a noi.
Nella Consolazione20 ho fatto una rassegna della miserevole fine
degli uomini più illustri della nostra città. Ebbene? Per non
parlare dei più antichi, credi tu che sarebbe stato utile a Marco
Crasso21, nel tempo in cui era all’ápice della potenza e della
ricchezza, sapere che gli sarebbe stato ucciso il figlio Publio, che
il proprio esercito sarebbe andato distrutto e che, infine, egli
stesso sarebbe dovuto perire al di là dell’Eufrate con scorno e
disonore? E pensi tu che Pompeo si sarebbe rallegrato dei suoi tre
consolati, dei suoi tre trionfi, della gloria dovuta alle più
smaglianti imprese, se avesse saputo che sarebbe stato trucidato nel
deserto dell’Egitto dopo aver perduto l’esercito e che dopo la sua
morte si sarebbero verificati quei fatti di cui non riusciamo a
parlare senza pianto? E con quale afflizione spirituale pensiamo che
avrebbe menato la vita Cesare, se avesse divinato che in quel
senato, che nella sua maggioranza era stato da lui stesso scelto,
nella curia Pompeia, davanti alla statua dello stesso Pompeo, sotto
lo sguardo di tanti suoi centurioni, sarebbe stato trafitto dai più
nobili cittadini, ai quali egli stesso, in parte, aveva tributato
ogni onore, e che sarebbe rimasto li a giacere in modo tale che non
aveva l’ardire di accostarsi al suo cadavere non solo nessuno dei
suoi amici, ma finanche nessuno dei suoi schiavi?
Indubbiamente, dunque, l’ignoranza dei mali futuri è più utile della
loro conoscenza!
A dire il vero, in nessun modo – specialmente da parte degli Stoici
– si potrebbe fare il seguente discorso: «Se l’avessere saputo
prima, Pompeo non sarebbe andato in guerra, Crasse non avrebbe
oltrepassato l’Eufrate, Cesare non avrebbe intrapreso la guerra
civile». ciò equivarrebbe a dire che essi non ebbero una fine voluta
dal fato; ma voi pretendete che tutto avvenga fatalmente: epperò a
nulla sarebbe loro giovata la divinazione. Anzi, essi avrebbero
perduto anche tutti i vantaggi della vita precedente: quale gioia,
infatti, essi avrebbero potuto provare nella vita, se si fossero
messi a pensare alla loro fine? Perciò, a qualunque appiglio si
volgano gli Stoici, è inevitabile che tutta la loro ingegnosità
rimanga atterrata. Se, infatti, ciò-che-avverrà può avvenire in un
modo o nell’altro la fortuna ha il pieno sopravvento; ma le cose che
son soggette alla fortuna non possono essere certe. Se, invece, è
certo quello che deve accadere a proposito di ciascuna cosa e in
ciascun momento, quale aiuto mi potranno dare gli aruspici?
Costoro, dopo aver affermato che le cose più tristi si manifestano
per mezzo di segni, aggiungono, alla fine, che tutto andrà meglio se
si compiono i riti espiatori: ma non si pue trarre alcun sollievo da
un rito di espiazione, se nulla accade al di fuori della volontà del
fato. Se ne avvede Omero22, quando raffigura Giove in lamenti per
non essere capace di strappare alla morte, contro il destino, suo
figlio Sarpedone. E proprio questo vuoi dire il celebre verso greco
a conferma di siffatta opinione:
Quello che ad essere è pronto, del sommo Giove è al di sopra23.
E l’intero concetto di fato mi sembra che sia stato, a buon diritto,
messo in ridicolo anche dal verso di un’Atellana. Ma in cose così
serie non è il caso di scherzare!
Si concluda, dunque, il ragionamento cosí: se non si può prevedere
che accada alcuna di quelle cose che accadono a caso per il solo
fatto che esse non possono essere certe, nor c’è divinazione alcuna;
se, invece, esse possono essere previste proprio in virtù del fatto
che sono certe e fatali, ancora una volta non c’è divinazione
alcuna: tu, infatti, affermavi che quest’ultima si riferisce agli
eventi fortuiti.
Questa prima schermaglia oratoria sia per noi quasi un’azione di
pattuglia; ma adesso veniamo ai ferri corti e proviamo la
possibilità di far battere in ritirata i grossi schieramenti della
tua dissertazione!
1. Cicerone sta replicando alle argomentazioni che suo fratello
Quinto ha addotte, nel primo libro del De divin., a favore dell’arte
divinatoria.
2. Insomma: in piena conformità con le posizioni critico-sospensive
dell’Accademia Nuova.
3. Carneade utilizza a scopo dialettico la concezione socratica del
«sapere competente» (cfr. MAIER, Socrate, trad, it., I, pp. 185-8).
4. Ossia l’διφορον dell’etica stoica, a proposito di cui c’era, come
nolava Seneca (Bp. LXXII, 15), «grande discrimen» presso gli Stoici
stessi.
5. Per questo sofisma attribuito ad Eubulide di Mileto cfr. test. 64
Döring e relativo commento.
6. Il sofisma del mucchio, di origine zenoniano-eleatica (cfr.
ARISTO: Phys. VII, 5, 250a, 20-24), sfruttato dalla dialettica
megarica (cfr. Cíe. Lucul XVI,49; DöRING, Die Megariker, pp. 111-2 e
G. SILLITTI, Alcune considerezioni sull’aporia del sorite in Scuole
socratiche minori e filosofia ellenistica, a cura di G. Giannantoni,
Bologna, 1977, pp. 75-92).
7. Carneade-Cicerone, anticipando la disamina dei particolari tipi
di divinazione, applica il metodo analitico-diairetico fondato da
Platone.
8. II verso è probabilmente di Euripide.
9. Cfr. De divin. I, V, 9.
10. In De divin. I, V, 7 segg.
11. Nipote di M. Marcello, vincitore di Siracusa; mori in un
naufragio, mentre si recava in Numidia presso Massinissa (cfr. CIC.
De fato XVII, 33).
12. Riconducendo l’oggetto della divinazione nell’ambito della
fortuna e del caso, Carneade-Cicerone svuota l’arte divinatoria di
ogni certezza e l’accosta al probabilismo.
13. Per analoghi rilievi cfr. ARISTOT. Phys. II, 5, 196b 29 segg.
14. In De divin. II, XII segg.
15. Cosí il Marmorale, proponendo di sostituire il facta dei codici
co: acta o iacta.
16. Allusione al trattato De fato, composto nello stesso periodo del
De natura deorum e del De divinatione.
17. Per l’episodio qui riferito cfr. De divin. I, XV,26.
18. Cfr. De divin. I, XV, 27-28, ove si ricorda che il console
Claudio, irritato del fatto che i polli non avevano mangiato e
subito rigettato il cibo (tripudium solistumum), fece gettare in
mare i poveri animali dicendo: «Che bevano allora!».
19. Cfr. De divin. I, XXXV, 77; LIV. XXII, 3; VAL. MAX. I,6.
20. A quest’opera perduta Cicerone fa riferimento in De divin. I,
III.
21. Delia morte del triumviro ha fatto menzione Quinto in De divin.
I, XVI, 29-30.
22. HOM. 27. XVI, 401 segg.
23. Questo verso, al pari di quello citato in V, 12, è, forse, di
Euripide.
Argomentazioni contro la divinazione artificiale (CICERONE, De
divin. II, XII-XLVII, 28-99 passim)
a) Contro l’aruspicina.
Cominciamo con l’esame dell’aruspicina, che io credo debba essere
pur coltivata per le pubbliche istituzioni e per rispetto della
religiosità popolare1. Ora, però, siamo in un convegno riservato ed
è permesso indagare la verità senza suscitare contro di noi alcuna
recriminazione, specialmente nel caso mió, che nutro dubbi sulla
maggior parte delle cose2.
Facciamo in primo luogo, se lo consentite, un’ispezione delle
viscere. Ci si può mai convincere che gli aruspici, fondandosi su
una continua osservazione, posseggano in anticipo la conoscenza di
ciò che si dice venga indicato dalle viscere? Quale continuità ha
potuto avere codesta osservazione? O quale è stata la durata del
tempo in cui si è potuto «osservare»? O in che maniera hanno potuto
accordarsi tra loro e stabilire quale parte delle viscere rispecchi
presagi ostili e quale ne rispecchi di favorevoli, e quali perigli o
quale sorta di vantaggi vengano indicati dalFincisione del fegato? È
possibile mai che su questi punti si siano messi d’accordo aruspici
dell’Etruria e di Elide, dell’Egitto e di Cartagine? Un accordo
siffatto, oltre a non essere possibile, non è neanche immaginabile,
giacché noi vediamo che le viscere vengono interpretate da uno
secondo una consuetudine e da un altro secondo un’altra e che il
metodo interpretativo non è unico per tutti.
Indubbiamente, se nelle viscere è presente un qualche potere che sia
capace di disvelare il futuro, esso di necessità o è congiunto alla
natura universale oppure si conforma, in un certo qual modo, alla
volontà degli dei e alla divina potenza Ma con la natura universale,
che con tanta grandiosità e limpidezza è diffusa in tutte le sue
parti e in tutti i moti suoi, quale comunanza può avere non dirò il
fiele di un pollo (ci sono, per la verità, alcuni pronti ad
asseverare che le viscere di questi animali sono le più sensibili),
ma persino il fegato di un toro ben impinguato, ovvero quale potenza
naturale si riscontra in un cuore o in un polmone, fino al punto di
poter manifestare i futuri accadimenti?
Eppure Democrito3, da fisico quale egli è – e non c’è nulla di più
impertinente di questo genere di studiosi–, con bella arguzia si
mette a motteggiare:
Quel ch’è davanti al pié nessuno guarda,
Ma le celesti plaghe van
scrutando!
Anche lui, tuttavia, pensa che dal tenore e dal calore delle viscere
vengano rese manifeste almeno queste cose, ossia il tipo di pascolo
e l’ubertosità o la scarsità dei prodotti agricoli. anzi egli è del
parere che le viscere forniscano indicazioni anche sulle stagioni
salubri e su quelle pestilenziali. Beato mortale lui, che pure – lo
so bene – non si lasciò mai scappare l’occasione di prendere in
giro! E come mai proprio un uomo come lui si è pasciuto di cosí
grosse corbellerie da non avvedersi che una coincidenza simile
sarebbe stata «verosimile» esclusivamente nel caso che le viscere di
tutto il bestiame del mondo avessero assunto simultaneamente lo
stesso tenore e lo stesso calore? Ma, se nella medesima ora il
fegato di una bestia si presenta liscio e pieno e quello di un’altra
ruvido e striminzito, non c’è un bel niente che possa essere
disvelato dal tenore e dal colore delle viscere!
Oppure tutto questo ha una certa affinità con l’aneddoto da te
riferito4 a proposito di Ferecide? Questi vide dell’acqua che era
stata attinta da un pozzo e subito dichiarò che si sarebbe
verificato un terremoto. Ma Ferecide fu molto modesto, a mio avviso,
se si tiene conto che costoro, quando si è verificato un terremoto,
hanno la faccia tosta di specificare la potenza che l’ha prodotto.
Forse anche in base al colore dell’acqua montana hanno il
presentimento di un siffatto fenomeno? Nelle scuole si van dicendo
tante stupidaggini come queste; ma vedi tu se sia il caso di
accordare la fiducia a tutte!
Ma ammettiamo pure che le corbellerie di Democrito siano vere:
quando mai noi, a proposito di questi fenomeni, ci mettiamo a
scrutare le viscere? O quando mai abbiamo ascoltato dalla bocca
dell’aruspice previsioni siffatte, dopo che costui ha scrutato le
viscere? Costoro ci avvertono dei pericoli in base all’esame
dell’acqua e del fuoco; talora preannunciano arrivi di eredità,
talora di guai; s’lmpegnano a meditare con la massima scrupolosità
sull’apice del fegato a pezzettino a pezzettino; e, se non riescono
proprio a scovarlo, pensano che un guaio più funesto non poteva
accadere!
Come sopra ho dimostrato, è senz’altro impossibile una metodica
osservazione di queste cose. Si tratta, allora, di un’invenzione
dovuta all’arte e non a tutta una vetusta tradizione, se pure esiste
una qualche arte di cose che non si conoscono: quale affinità esse
hanno, d’altra parte, con la natura? E ammesso pure che quest’ultima
sia tenuta unita da un solo concento e lo contenga in sé – come io
vedo essere piaciuto ai «fisici», specialmente a quelli che hanno
ribadito l’unità di tutto ciò-che-esiste5 – quale stretto rapporto
ci potrebbe essere tra il mondo tutto e la scoperta di un tesoro?
Se, infatti, le viscere mi sanno indicare un maggiore accumulo del
mio denaro e se questo avviene «per natura», allora, in primo luogo,
le viscere hanno stretto rapporto col mondo tutto e, in secondo
luogo, il mio profitto personale è contemplato dalla universal
natura. Ma non si vergognano i fisici di affermare queste
sciocchezze?
Ammettiamo pure che nella natura dell’universo sussista una qualche
affinità, che anch’io concedo (gli Stoici, invero, creano un legame
tra tante cose!6). Si dice che il fegatuccio dei topolini subisca
una dilatazione durante la bruma7 e che la nepitella selvatica
emetta fiorescenza proprio nel giorno del solstizio d’inverno8 e che
le sue piccole membrane, ormai rigonfie, si rompano e che i semi
delle mele, prima racchiusi nel centro di questo frutto, si spingano
in direzioni contrarie e che nelle lire, quando si percuotono alcune
corde, ne risuonino altre e che a tutte le ostriche e a tutte le
conchiglie capiti di crescere o di decrescere a seconda della luna
crescente o calante9, e si crede che il taglio degli alberi sia
opportuno ne periodo invernale, non appena la luna comincia a
calare, perche proprio allora gli alberi sono ben secchi10. E non è
il caso d dilungarsi sulle acque marine e sulle maree, il cui flusso
e riflusso è retto dal moto lunare. E si potrebbero citare a
centinaia altri simili fenomeni per rilevare una naturale parentela
tra cose che pur sono separate da distanze grandissime. Sì,
concediamolo pure, giacché nessuna obiezione noi facciamo a sifíatt
argomenti: ma, alla fine dei conti, se si pratica nel fegato di un
animale un certo tipo di incisione, si viene ad acclarare, forse,
l’imminenza di un lucro personale? In base a quale naturale
congiunzione e, potremmo dire, «consenso armonico» – che i Greci
chiamano simpatia – può essere in rapporto l’incisione del fegato
col mio piccolo tornaconto economico? O il mio profittuccio
insignificante con cielo e terra ed universal natura?
Anche se procurerò grave danno alla mia tesi, ti concederò se vuoi,
persino la sussistenza di un qualche rapporto tra la natura e le
viscere di un animale. Ma, tuttavia, anche a voler fare questa
concessione, come mai avviene che chi voglia ottenere buoni presagi
immoli una vittima adatta ai suoi scopi? Era questo il punto che io
ritenevo insolubile. Ma con quanta briosità esso vien risolto! Non
provo vergogna certamente per te, di cui ammiro la precisione con la
quale ricordi le cose, ma per Crisippo, per Antipatro, per
Posidonio11, i quali fanno 1e medesime osservazioni riferite da te,
ossia che nella scelta della vittima ci fa da guida una certa
facoltà sensitiva e divinatrice che si efíonde attraverso il mondo
intero. Anzi è molto migliore anche l’altro argomento,
frequentemente utilizzato da te e proclamato da loro, ossia che,
nell’atto in cui qualcuno intenda compiere un sacrificio, proprio
allora si verifica un mutamento nelle viscere, nel senso che un
qualcosa o va via da queste o a queste si aggiunge, dal momento che
tutte le cose obbediscono al volere degli dei.
Ma – credi a me! – a codeste sciocchezze non prestan fede neanche le
vecchierelle! Pensi tu che lo stesso vitello, se lo sceglie uno, lo
troverai col fegato privo di apice, e se lo sceglie un altro, lo
trovera con l’apice? Ed è mai possibile che si verifichi
airimprovviso questa sottrazione o questa aggiunzione dell’apice,
affinché le viscere si adeguino alla fortuna del sacrificante? Non
v’accorgete – soprattutto in base alle indicazioni della vostra
esperienza – che la scelta delle vittime implica tutto un gioco
d’azzardo?12 Difatti, dopo che si siano riscontrate viscere prive di
apice – cosa di cui nulla sembra essere più funesto!–, la prossima
vittima viene immolata dando le più fauste indicazioni. Dove sono,
allora, le tremende minacce delle viscere precedenti? E come mai,
tutto d’un tratto, gli dei si sono placati fino a tal segno?
Tu, pero, hai citato13 il caso della mancanza del cuore in un grosso
toro quando Cesare fece un sacrificio; e poiché quella vittima
precedentemente non avrebbe potuto vivere senza avere il cuore,
quest’organo dovette necessariamente essere eliminato nel momento
stesso dell’immolazione. Ma come mai avviene che tu una cosa la
capisci, ossia l’impossibilità che il bue vivesse senza cuore, e
un’altra non riesci a scorgerla, ossia l’impossibilità che il cuore,
tutto d’un tratto, se ne volasse via non so dove? Da parte mia,
potrei anche ignorare l’importanza che il cuore ha per la
sopravvivenza oppure sospettare che il cuore di un bue, già di
formato alquanto ridotto, sia stato ancor più rimpicciolito da una
malattia e si sia inflaccidito ed abbia perduto ormai ogni
somiglianza con un vero e proprio cuore; ma tu quale motivo hai per
credere che, mentre poco prima un toro grasso e grosso aveva il
cuore, subito dopo, nell’atto del sacrificio, quest’organo sia
scomparso? O forse, siccome vide Cesare «senza cuore» [excors]14 in
abbigliamento porporino, rimase anche lui orbo del cuore?
Credi a me: l’intera cittadella della filosofia voi15 consegnate al
nemico, mentre cercate di difendere certi fortini! Difatti, con la
vostra pretesa in merito alla veracità dell’aruspicina, voi
scombussolate l’intera scienza della natura.
L’apice c’è nel fegato, il cuore c’è nelle interiora: ma ecco qui,
non appena vi si verseranno sopra farro e vino, essi si dilegueranno
di botto: un dio se li trascinerà con sé, un occulto potere li
consumerà e li divorerà. Ma, allora, non sarà più la natura a
causare la nascita e la morte di tutte quante le cose, ed esisterà
qualcosa che o nasce dal nulla oppure nel nulla repentinamente si
dilegua16. E quale fisico ha fatto mai una simile affermazione? La
fanno gli aruspici: e, alla fine dei conti, tu credi che a costoro e
non ai fisici si debba prestar fede?
E non basta! Quando si fa un sacrificio in onore di più divinità,
come avviene, alla fine, che per alcune di esse il rito è propizio e
per altre no? E quale incoerenza da parte degli dei è codesta, ossia
minacciar guai con le viscere che vengono prima e far buone promesse
con quelle che vengono poi? Ovvero tra loro, spesso anche tra i più
stretti congiunti, regna tanta di scordia, fino al punto che le
viscere riservate ad Apollo sono buone e quelle riservate a Diana
non sono buone? Eppure il fatto più lampante è che le vittime
addotte sono prese a caso, e quelle riservate a ciascuna divinità
sono venute fuori quasi da un sorteggio17.
«Ma appunto questo – obiettate voi – ha in sé un qualcosa di divino,
ossia il fatto che, come accade nell’estrazione a sorte, a ciascuno
la contingenza assegna quella vittima che gli viene poi
effettivamente arrecata».
Delle «sorti» parleremo tra poco18, quantunque tu, col paragone del
sorteggio, non confermi la causa delle vittime, ma infirmi quella
delle sorti, mettendole a contatto con le bestie.
b) Contro la divinazione fulgurale.
Una volta eliminata codesta divinazione operata dagli «ispettori di
viscere», se ne salta via tutta l’aruspicina.
Ma vengono, poi, prodigi e fulmini!
Per i fulmini, però, vale l’osservazione continua, mentre. nel caso
dei prodigi, il più delle volte si tirano in ballo ragionamento e
congettura.
Orbene: cosa c’è in un fulmine che si presti all’osservazione
metodica? Gli Etruschi divisero il cielo in sedici zone. Fu
un’operazione facile, questa: raddoppiare quelle che consideriamo
anche noi, poi raddoppiare ancora una volta, allo scopo di imparare
in seguito a questa suddivisione, da quale parte sia venuto il
fulmine.
Ma, anzitutto, quale importanza ha tutto ciò? E, in secondo luogo,
quale ne è il significato? Non risulta, forse, lampante che, in base
al primo sbigottimento degli uomini – dovuto allo spavento che essi
provavano per i tuoni e il guizzar dei lampi–, sorse la credenza che
questi fenomeni venissero pro dotti da Giove, onnipotente signore di
tutte le cose?24 Ecco perché è scritto nei nostri Annali Sacri:
«Quando Giove tuona e folgora, è empio tenere i comizi popolari». Ma
questo fu forse, decretato per opportunismo politico, giacché 〈gli
ottimati〉25 andavano a caccia di un pretesto per scansare i comizi.
E così il fulmine rimase un impaccio esclusivamente per i comizi,
mentre per tutti gli altri affari lo riteniamo di ottimo auspicio,
se scoppia a sinistra.
Ma degli auspici parleremo altrove26: ora trattiamo fulmini.
Un’affermazione che i fisici non dovrebbero fare mai questa: «Un
qualcosa di certo viene significato da cose incerte» ‘27.
Per la verità, io non credo che tu giunga fino al punto di credere
che i Ciclopi fabbricarono per Giove il fulmine nel’Etna: sarebbe,
infatti, strano come mai Giove lo lanciasse tante volte, pur
avendone uno solo; né egli potrebbe far ricorso ai fulmini per
avvisare gli uomini su quello che si debba fare o scansare.
Credono, invero, gli Stoici che quelle esalazioni terrestri che sono
fredde, non appena cominciano a fluire, divengano venti, mentre,
allorché si infiltrano in una nube e ne cominciano a staccare e a
far cascare giù con sé ogni parte meno compatta e a ripetere questa
loro azione con maggiore frequenza e intensità, proprio allora si
verifichino lampi e tuoni; se, infine, il fuoco sprizzante
dall’attrito delle nubi cade in basso, ecco che si ha il fulmine.
Ma, allora, noi andiamo cercando un’interpretazione del futuro
fondandoci su un fenomeno che si produce per forza naturale e senza
alcuna regola costante e ad intervalli non fissi? Ovviamente Giove,
se si esprimesse con siffatti segni, quanti fulmini scaglierebbe a
vuoto! Quale vantaggio se ne trae, infatti, quando li scaglia in
mezzo al mare? E quale, quando li vibra sui più alti monti, cosa che
avviene il più delle volte? Cosa, quando nel cuore dei deserti?
Cosa, quando in contrade dove sono popolazioni presso cui
Fosservazione di questi fenomeni non viene praticata affatto?…
c) Contro l’interpretazione dei prodigi.
Non ho perduto completamente la speranza che codeste cose siano
vere; ma non so, e vorrei imparare da te.
Poiché, infatti, mi sembrava che certi fenomeni si verificassero per
mera coincidenza in modo conforme alle predizioni divinatorie, tu
hai parlato a lungo a proposito del caso28, facendo notare, ad
esempio, che il Venerio29 può uscire per caso se si gettano quattro
dadi; ma che se si gettano quattrocento dadi, non si può attribuire
al caso Fuscita di cento Veneri.
Anzitutto io non saprei perché questo non sia possibile, ancorché
non ho voglia di contrastarti. Ma di simili argomenti tu fai uso e
abuso! Metti a tua disposizione quello delFaspersione dei colori30,
quello del grifo della scrofa31 e tantissimi altri. Dici che
Carneade immagina la stessa cosa a proposito della testa di Pan32,
quasi che ciò non sia potuto accadere fortuitamente e che
all’interno di ogni blocco di marmo non possano celarsi
necessariamente teste degne persino di Prassitele. Difatti, anche
quelle di Prassitele vengono prodotte per detrazione dal blocco, e
Prassitele non vi aggiunge nulla; ma, quando si è tolta molta
quantità di marmo e si è arrivati ai lineamenti del volto, allora si
può capire che stava già al di dentro del marmo quell’immagine
scultorea che è ormai levigata. Un qualcosa di simile, dunque, può
essere uscito fuori spontaneamente anche dalle cave di Chio.
Ammettiamolo pure! Ma che cosa se ne conclude? Non ha mai osservato
nelle nu vole la forma di un leone o di un ippo centauro? È
possibile, dunque, ammettere – cosa che ti rifiutavi di fare – che
il caso imiti la realtà.
E siccome abbiamo discusso abbastanza di viscere e di fulmini, ci
resta da parlare dei prodigi per esaurire la trattazione di tutta
quanta l’aruspicina.
Tu hai citato33, ad esempio, il parto della mula. Fatto miracoloso,
perché non si riscontra sovente! Ma se non c’era possibilità che
accadesse, non sarebbe accaduto. E contro tutti i prodigi valga
questo: che non è mai avvenuto quello che non sarebbe potuto
avvenire; se, invece, poteva avvenire, non si tratta di mir acolo.
L’ignoranza delle cause produce meraviglia per un accadimento che
non si era mai riscontrato prima; se, però, la medesima ignoranza
sussiste per accadimenti di frequente riscontro, non proviamo
meraviglia. Infatti chi si stupisce che una mula abbia partorito,
ignora come possa partorire una cavalla o, in linea generale, quale
forza naturale causi il parto di un animale. Ma costui non si
meraviglia di ciò che vede frequentemente, ancorché non sappia il
perché del suo accadere; se, invece, avviene ciò che egli non ha mai
visto prima, pensa che si tratti di un prodigio. Ma, allora, il vero
prodigio risiede nell’atto in cui la mula concepisce o in quello in
cui partorisce? Forse è contro natura il concepimento, ma il parto è
quasi scontato! …
A dire il vero, ogni congettura su cui la divinazione si fonda,
viene spinta – a seconda delle naturali facoltà degli uomini – in
molte e diverse e finanche contrastanti direzioni particolari. Come,
infatti, nei processi giudiziari una è la congettura dell’accusa,
un’altra è quella della difesa e, tuttavia, sono plausibili quelle
di entrambe, cosi, a proposito di tutti quei fenomeni che vengono
indagati per via congetturale, si parla in maniera ancipite. Ma, per
quei fatti che ci vengono offerti ora dalla natura e ora dal caso
(qualche volta Fanalogia è anche motivo di errore)34, è segno di
grave stoltezza ritenere promotori gli dei, senza ricercarne le
cause reali35.
Tu credi che i vati della Beozia riuscissero a prefigurare a
Lebadia36 la vittoria dei Tebani dal canto dei galli, perché questi
animali se ne stanno zitti quando perdono e si mettono a cantare
quando vincono. Ma, allora, Giove ad una città tanto importante si
mise a dar segnale per mezzo di pollastri! Ed è poi vero che quei
pennuti non sogliono cantare se non vittoria? Ma allora essi
continuarono a cantare, eppure non avevano vinto. «Ecco il prodigio»
– dirai tu. Straordinario davvero! Come se avessero cantato pesci, e
non galli! Ma quale momento c’è in cui essi non cantino, vuoi di
notte, vuoi di giorno? Ché se, quando sono vincenti, vengono
stimolati a cantare quasi da una gioia ardente, fu possibile che ci
fosse anche un qualche altro gioioso motivo ad indurli al canto.
Democrito37, almeno, spiega ottimamente la causa per cui i galli
cantano prima dell’alba: dopo aver sgombrato il cibo dallo stomaco e
dopo averlo distribuito con la digestione in ogni parte del corpo,
essi sogliono cantare, soddisfatti del lor riposo: essi, che come
dice Ennio:
Nel notturno silenzio
Danno l’appoggio con le fauci rosse,
Cantando, e con un plauso batton Tali38.
Ma allora: dal momento che quest’animale è spontaneamente tanto
disposto al canto, perché mai è saltato in mente a Calistene39 di
asserire che gli dei hanno attribuito ai galli «il segno del canto»,
quando era ben possibile che si trattasse solo di un effetto della
natura o del caso?
Si diede in senato l’annuncio40 che c’era stata una pioggia di
sangue, e che anche il rio Atrato scorreva sangue e che le statue
degli dei avevano trasudato. Ma non pensare che ad una siffatta
notizia avrebbero prestato fede un Talete o un Anassagora o qualche
altro filosofo della natura. Sangue e sudore, infatti, non emanano
se non da corpo vivo. Ma una certa tra scolorazione, dovuta a
contatto di zolle diverse, può somigliare moltissimo al sangue, e
l’umidità sopraggiunta dall’esterno sembra imitare il sudore, come
si riscontra nell’intonaco delle nostre case. In tempo di guerra,
poi, questi fenomeni si moltiplicano e si ingigantiscono a causa
delle nostre paure, mentre non vengono awertiti in tempo di pace;
eppure sono i medesimi. A ciò si aggiunge anche il fatto che nella
paura e nel peri colòvi si crede più facilmente e li si crea più
impunemente41, E noi saremo così leggeri e sconsiderati da credere
al miracolo. se un qualche oggetto è stato rosicchiato dai topi, che
non fanno altro se non questo per natural bisogno? II fatto che
prima della guerra marsica i topi avessero rosicchiato – come hai
detto tu42 – gli scudi a Lanuvio, fu proclamato dagli aruspici
portento funestissimo: come se ci fosse una differenza se i topi,
che stanno sempre a rodere qualcosa giorno e notte avessero corroso
scudi o stacci! Se stiamo dietro a queste stupidaggini, allora,
poiché poco fa a casa mia i topi hanno rosicchiato la Repubblica di
Platone, avrei dovuto nutrir timori per la sorte del nostro Stato,
oppure, se fosse stato rosicchiato il libro di Epicuro Sul piacere,
avrei dovuto credere ad un immediato rincaro dei generi alimentari
sul mercato!
O intendi dire che noi restiamo sbigottiti solo quando ci vengono a
parlare di nascite portentose di animali o di uomini? Per non
dilungarmi, ogni spiegazione razionale di questi fenomeni è una
sola: tutto quello che nasce, di qualsivoglia sorta esso sia, ha
necessariamente una causa naturale43; quindi, anche se è venuto
fuori scavalcando la consuetudine, non può tuttavia venir fuori
scavalcando la natura. Se ti è possibile, dunque, mettiti ad
indagare la causa di un fatto che tu riscontri per la prima volta e
per il quale tu provi meraviglia; e se non ne troverai alcuna,
ritieni tuttavia per acclarato questo, ossia che niente sarebbe
potuto accadere senza una causa, e scaccia con un ragionamento
adeguato alla natura quello spavento che è stato prodotto in te
dalla novità del fatto. Cosi tu non verrai terrorizzato né da
sussulti della terra né dallo squarciarsi del cielo né da piogge di
pietre o di sangue né da una stella che cade né dall’apparizione di
celesti facelle44.
Se di tutti questi fenomeni io chiedessi la causa a Crisippo45,
anche lui, che pur difende la divinazione, non asserirà mai che essi
sono accaduti fortuitamente, anzi mi darà una spiegazione naturale
di ciascuno di essi: nulla, infatti, può accadere senza causa, e non
accade cosa alcuna che non abbia possibilità di accadere; e se è
accaduto quello che era possibile che accadesse, non deve sembrare
un portento: epperò non esiste portento alcuno. Difatti, se si deve
stimare portento quello che avviene di rado, il vero portento è,
allora, l’esistenza del sapiente46, giacché, a mio avviso, si è
riscontrato più di frequente il parto di una mula che l’esistenza di
un sapiente.
A questo punto tutto il ragionamento di prima trova la sua
conclusione: né ciòche non sarebbe potuto accadere è mai accaduto,
né ciòche sarebbe potuto accadere è un fatto prodigioso: pertanto
non esiste assolutamente alcun prodigio. E proprio questa si dice
che sia stata l’arguta risposta data da un congetturatore e
interprete di sogni a chi una volta gli riferì, come fatto
prodigioso, che un serpente si era attorcigliato intorno alla sbarra
dell’uscio. «Prodigio sarebbe stato – disse l’interprete–, se fosse
stata la sbarra ad attorcigliarsi attorno al serpente». Conquesto
«responso» egli intese dichiarare, coi la massima franchezza, che
nessuna cosa la quale abbia la possibilità di accadere è un prodigio
…
d) Contro gli auspici.
Lascia da parte il bastone augurale di Romolo47, che tu dici non
sarebbe potuto andare in fumo neanche nel più grosso incendio, e non
tenere in nessun conto la cote di Atto Navio!48In sede filosofica
non si deve riservare nessun posto all’invenzione di storielle:
sarebbe stato compito di un filosofo esaminare in primo luogo la
stessa natura della divinazione augura! in genere, poi la sua
invenzione e, infine, la sua struttura.
Qual è, dunque, quella legge di natura che permette ai pennuti, che
svolazzano saltuariamente qua e là, di esprimere qualche segno e
talora di vietare l’esecuzione di un’azione, talora di comandarla, a
seconda della maniera di volare o di cantare? E perché, poi, è stata
accordata la possibilità di fare un auspicio sicuro ad alcuni da
destra e ad altri da sinistra? In che modo o in quale época o da chi
diremo che sono state inventate queste corbellerie? Gli Etruschi,
almeno, ritengone inventore della loro attività un fanciullo nato
dall’aratro49; ma chi riterremo noi? Atto Navio? Ma più antichi di
lui di parecchi anni furono Romolo e Remo, auguri entrambi, come
vuole la tradizione. Oppure diremo che queste sono invenzioni dei
Pisidi o dei Cilici o dei Frigi? Ma, allora, daremo l’assenso ad una
credenza secondo cui uomini incivili siano gli inventori di un’arte
divina?
«Ma – tu obietti – tutti i re, i popoli e le nazioni praticano gli
auspici!» Come se non ci fosse un qualcosa tanto largamente
divulgato quanto Finsipienza, o come se, proprio tu, nel dare un
giudizio, tenessi conto della massa!50 È così piccolo il numero di
coloro che affermano che il piacere non è un bene: anzi i più
affermano che esso è il bene supremo! Ma forse che, per il grande
numero di costoro, gli Stoici recedono dal loro punto di vista? O
forse, nella maggior parte dei casi, la massa si attiene alla loro
autorità? Che c’è di strano, allora, se in ogni ramo della
divinazione le coscienze deboli accolgono co-deste superstizioni
senza saper discernere la verità?
Quale ccmpatta e stabile coerenza, poi, sussiste tra gli auguri?
Secondo l’usanza nostrana di intendere l’augurio, Ennio disse51
Allora a sinistra tono, a cielo sereno: e fu bene!
L’Aiace omerico, invece, esprime non so quale sua lagnanza per
rintraprendenza dei Troiani, annunciandola nel modo seguente52:
Prosperi segni die Giove per loro con folgori a destra.
Cosi per noi paiono migliori gli auspici a sinistra, per Greci e
barbari quelli a destra. Eppure io so che, quando gli affari vanno
bene, voi li chiamate «sinistri» anche se si fanno a destra; ma è
indubitabile che i nostri hanno chiamato l’auspicio:«sinistro» e gli
stranieri lo hanno chiamato «destro» perché così sembrava meglio
nella maggior parte dei casi.
Che grave disaccordo è mai questo! E allora? Visto che gli auguri si
servono di uccelli diversi e di segni diversi, ed esegnono in modo
diverso le loro osservazioni e danno responsi diversi, non si deve
necessariamente reputare che una parte di queste cose è stata
assunta erroneamente, una parte per superstizione e una buona parte
allo scopo di ingannare? …
e) Contro le sorti.
Ci restano le sorti e i Caldei e poi giungeremo presso i profeti ed
i sogni.
Ma pensi tu che valga la pena di parlare delle sorti? E che cos’è
una sorte? È quasi la medesima cosa che giocare alla morra o a dadi
o a dama, ossia far cose in cui prevalgono l’azzardo e il caso,
non la ragione e il senno. Tutta questa invenzione si basa su una
serie di inganni e mira al guadagno o alla superstizione o
all’errore.
Ma, come abbiamo fatto nel caso dell’aruspicina, così vediamo anche
adesso cosa ci dice la tradizione a proposito delle sorti più note.
Le Cronache di Preneste riportano che Numerio Suffustio, uomo
onorevole e ben noto, avendo ricevuto da sogni frequenti e alla fine
anche minacciosi l’ordine di togliere la roccia da una località
stabilita, sotto lo spavento di quelle visioni cominciò ad eseguire
quell’ordine tra la derisione dei suoi concittadini; pertanto, dalla
frattura di un macigno balzarono fuori le sorti scolpite su legno di
rovere in lettere arcaiche. Oggigiorno questa località è recintata
con venerazione presso il tempio di Giove Fanciullo, che, da
lattante, sedendo con Giunone in grembo alla Fortuna, proteso verso
la mammella, viene adorato col massimo scrupolo dalle matrone. E si
tramanda che, alla stessa epoca, in quel luogo ove è ora il tempio
della Fortuna, sgorgò miele da un ulivo e gli aruspici affermarono
che quelle sorti sarebbero divenute famosissime, e per loro ordine
da quell’ulivo fu fatta un’urna e in questa vennero nascoste le
sorti di cui ai nostri giorni si fa l’estrazione, solo quando la
Fortuna lo consiglia.
Ma, allora, quale sicurezza ci può essere in queste sorti che. per
consiglio della Fortuna, vengono mescolate ed estratte dalla mano di
un fanciullo? E in che modo, poi, esse furono poste in quel luogo? E
chi tagliò, piallò ed incise quel legno di rovere?
«Non c’è nulla – essi suggeriscono – che un dio non possa fare». Oh,
se avesse fatto meno stupidi gli Stoici, perché costoro non
prestassero fede a tutto con superstizione scrupolosa e miserevole!
Questo tipo di superstizione è stato estromesso dalla vita
ordinaria: la bellezza e la vetusta del tempio conservano, ancora
oggi, il nome delle «sorti prenestine», anche se soltanto tra il
popolino. Quale magistrato, infatti, quale uomo di un certo rilievo
ricorre alle sorti?
Nelle altre località, comunque, le sorti si sono completamente
congelate. E Clitomaco riferisce che Carneade soleva usare la
seguente espressione: «In nessuna località al di fuori di Preneste
ho visto una Fortuna più fortunata»53.
Perciò questo tipo di divinazione saltiamolo a piè pari.
f) Contro l’astrologia.
Veniamo ai prodigi dei Caldei!
A proposito di questi prodigi, Eudosso54, allievo di Platone e
senz’altro il primo degli astronomi a giudizio dei più competenti, è
del parere – come ha lasciato per iscritto – che ai Caldei non
bisogna accordare la benché minima fiducia per quanto concerne la
predizione e Tannotazione della vita di ciascuno in base al
genetliaco. Anche Panezio55, che fu l’unico tra gli Stoici a
respingere le predizioni astrologiche, menziona che Anchialo e
Cassandro, sommi astronomi a lui contemporaneai, eccellevano negli
altri settori della scienza degli astri, ma non praticavano questo
tipo di predizione. E Scilace di Alicarnasso, intimo di Panezio,
eccellente nell’astronomia e, per giunta, capo del governo della sua
città, respinse in blocco questo genere di predizione praticato dai
Caldei.
Ma mettiamo qui da parte ogni altra testimonianza e serviamoci
esclusivamente della ragione.
I sostenitori di queste predizioni caldaiche fondate sul genetliaco
seguono le teorie seguenti. Essi affermano la presenza di un certo
influsso nel cerchio delle costellazioni che ha il nome greco di
zodiaco; e, a loro avviso, quest’influsso è tale che ciascuna zona
di quel cerchio mette in moto le altre cose quale in un modo e quale
in un altro e cangia il suo punto di partenza a seconda della
presenza di ciascuna costellazione in queste zone dello zodiaco e in
quelle vicine in ciascun tempo dell’anno, e quell’influsso verrebbe
variamente esercitato dagli astri erranti. Quando, poi, gli
astrologi pervengono a quella parte del cerchio zodiacale in cui è
il punto di levata del nascituro o in quella parte che presenta un
punto di congiunzione o di simpatia, essi ricorrono ai nomi di
triangoli e di quadrati56. Infatti, poiché secondo ciascuna stagione
o periodo dell’anno si verificano tanti rivolgimenti e mutamenti del
cielo a causa dell’accostarsi delle costellazioni o del loro
allontanarsi e poiché le cose che noi vediamo sono effettuate
dall’influsso solare, essi ritengono non solo «verosimile»57, ma
addirittura vero che i neonati ricevano anima e forma a seconda
delle modificazioni dell’aria e che da tutto ciòvengano plasmati i
caratteri, i costumi, l’anima, il corpo, il comportamento nella
vita, gli accidenti e gli eventi di ciascuno.
Incredibili deliri! Non ogni errore arriva a questa follia!
Ai Caldei anche lo stoico Diogene58 ha fatto la concessione di
predire esclusivamente il naturale carattere e la principale
attitudine futura di ciascuno; non ha ammesso, invece, la
possibilità di sapere in alcun modo tutte le altre cose che costoro
vanno sbandierando di sapere. Difatti, a parere di Diogene, le
posizioni di due gemelli sono simili, ma la vita e la fortuna di
ciascuno dei due sono, il più delle volte, differenti. Cosí, ad
esempio, Procle ed Euristene59, re di Sparta, erano gemelli; ma la
loro vita non ebbe la stessa durata, giacché quella di Procle duròun
anno in meno, ma la gloria delle sue imprese fu molto superiore a
quella del fratello.
Eppure, persino ciò che quel gentiluomo di Diogene concede ai Caldei
con una certa indulgenza, io sostengo che non è possibile
comprendere. Infatti i Caldei asseriscono che la luna regola il
momento delle nascite e osservano e considerano come costellazioni
genetliache tutte quelle che appaiono in congiunzione con la luna;
ma, in realtà, essi fondano i loro prodigi sul senso della vista,
che è molto ingannevole60, ciòche avrebbero dovuto scorgere con
razionale attività dell’anima. Infatti il metodo matematico, che a
costoro sarebbe dovuto essere noto, mostra come sia bassa l’orbita
lunare, che rasenta quasi la terra, e quanto grande sia la distanza
della luna dall’astro di Mercurio, che pure è il più vicino, e
quanto sia ancora maggiore la distanza da Venere, e come sia ancora
diversa quella che separa la luna dal Sole, dalla cui luce si
ritiene che essa venga illuminata, e sono infinite e
incommensurabili le altre distanze, ossia quella che passa tra il
Sole e Marte o tra il medesimo e Giove o, ancora, tra il medesimo e
F astro di Saturno o, infine, tra il Sole e il cielo stesso, che è
il più esterno e ultimo limite del mondo.
Ma allora: quale influenza può giungere da una infinita distanza
alla luna o piuttosto alla terra?
Ebbene? Quando gli astrologi dicono ciò che devono necessariamente
dire, ossia che sono identici tutti gli influssi astrali su tutte le
persone che nascono nel medesimo istante su tutta quanta la terra
abitata e che di necessità su tutti quelli che sono nati sotto la
medesima posizione del cielo e delle stelle accadono le medesime
cose, il loro modo di comportarsi fa venire a galla il fatto che
codesti interpreti celesti non conoscono neppure la natura del
cielo.
Infatti, poiché quei cerchi che dividono quasi il cielo a meta e
delimitano la nostra visuale – i Greci li chiamano «orizzonti», ma
noi potremmo chiamarli molto appropriatamente «limitanti» –
presentano la più grande varietà e sono diversi secondo la diversità
dei luoghi, necessariamente il sorgere e il tramonto degli astri non
avvengono simultaneamente presso tutti gli uomini. Ché, se per
influsso di quei cerchi il cielo viene regolato ora in un modo e ora
in un altro, il loro influsso non può mai essere identico sui
neonati, essendo così grande la differenza tra le variazioni
celesti. In queste regioni abitate da noi, dopo il solstizio d’
estate sorge la Canicola, e per giunta devono passare parecchi
giorni; invece presso i Trogloditi61, come troviamo scritto, essa si
leva prima del solstizio. Di conseguenza, se noi ammettiamo
senz’altro che qualche celeste influenza si esercita su quanti
nascono sulla terra, gli astrologi dovranno ammettere, anche loro,
che a quanti nascono nel medesimo tempo, possano venire assegnati
caratteri naturali differenti a causa della diversità del cielo:
cosa che essi si guardano bene dall’accettare per la loro pretesa
che a quanti sone venuti alla luce nel medesimo tempo sono riservate
le medesime condizioni di vita, qualunque sia il paese in cui sono
nati.
Ma la più grossa sciocchezza degli astrologi sta nel non tener
conto, nei più grandi moti e cangiamenti celesti, di quali siano i
venti, le piogge e la situazione generale.
Quanti fenomeni presentano spesso notevolissime differenze in
località tra loro molto vicine, fino al punto che le condizioni
meteorologiche di Tuscolo sono differenti da quelle di Roma! Di ciò
si accorgono soprattutto i naviganti, quando, nel doppiare i
promontori, avvertono spesso i massimi mutamenti dei venti. Poiché,
dunque, in cielo ora c’è serenità ed ora perturbazione, non si
comporta da sano di mente chi nega che tutto questo abbia a che fare
con le nascite e sostiene, invece, che eserciti un influsso sulle
nascite quel non so che di evanescente, di assolutamente
impercettibile e di stentatamente intellegibile che sarebbe
l’influenza celeste proveniente dalla luna e dagli altri astri62.
Ma non basta: non è un errore secondario il non rendersi conto che,
da parte degli astrologi, viene totalmente eliminato l’influsso dei
semi genitali, che pur dovrebbe avere la massima importanza per la
generazione e la procreazione. Chi, infatti, non vede che proprio
dai genitori i figli riproducono figura e comportamento e, in
genere, la maniera di star fermi e di camminare? Questo non si
verificherebbe, se fosse causato non dal naturale potere esercitato
dai genitori, ma da influenza lunare da disposizione generale del
cielo.
Ebbene? II fatto che persone nate in un solo e medesimo istante
abbiano caratteri e modi di vivere e accidenti dissimili non basta a
significare che il tempo della nascita non vale ad esercitare alcun
influsso sulla nostra esistenza? A meno che, per assurdo, non siamo
disposti a credere che nessuno fu concepito e partorito nel medesimo
istante dell’Africano!63 Eppure non ci fu nessuno che fu grande al
pari di lui.
Ma allora? Si può, forse, mettere in dubbio che molte persone, pur
essendo nate con certe imperfezioni eontrastanti con la normalità
della natura, furono riassestate ed emendate o dalla stessa natura
ritornata nel pieno dominio di sé o da un’arte o dalla medicina?
Cosi certe lingue che erano atraccate al palato fino
all’impossibilità di parlare, furono tagliate dal bisturi e
affrancate. Molte persone hanno eliminato un difetto naturale con
esercitazioni ben calibrate, come Falereo64 scrive a proposito di
Demostene, che, essendo incapace di pronunciare la lettera rho, a
furia di esercizi riusci poi a pronunciarla con la massima facilita.
Che se questi difetti fossero stati congeniti e assegnati
dall’influsso astrale, nulla li avrebbe potuto mutare.
E non basta: la diversità dei luoghi non causa, forse, diversità
nell’irumana procreazione? Ed è ben facile rilevare con un rapido
discorso la differenza fisica e spirituale che passa tra Indiani e
Persiani, Etiopi e Siri, fino al punto che ne vien fuori
un’incredibile varietà e dissomiglianza. Dal che si viene a capire
che per la nascita hanno maggiore importanza le situazioni
geografiche che non i contatti lunari.
E sbagliano senza rimedio quanti asseriscono che i Babilonesi
dedicarono quattrocentosettantamila armi allo studio e
airesperimento di tutti quanti i bambini che fossero mai nati. Se si
fossero messi a fare questo, non avrebbero ancora smesso: d’altra
parte non abbiamo nessun valido testimone che ci dica che questo
avviene oggi o che sappia che è avvenuto in passato.
Non vedi che le mie affermazioni non coincidono con quelle di
Carneade, bensi con quelle di Panezio, uno degli Stoici più
ragguardevoli?
Per quel che mi concerne, vorrei sapere anche questo, se, cioè, i
caduti della battaglia di Canne nacquero tutti sotto la stessa
costellazione65, dal momento che una sola ed identica fu la fine di
loro tutti. E poi? Quelli che si sono distinti per doti naturali e
spirituali nacquero forse sotto la stessa costellazione? Qual è,
poi, quel tempo in cui non nascono innumerevoli persone? Eppure
nessuna di esse fu simile ad Omero! E se, per la nostra attuale
discussione, importa conoscere sotto quale disposizione celeste e
sotto quale congiunzione astrale avvenga la nascita di ciascheduno,
necessariamente una siffatta condizione dovrebbe essere valida non
solo per gli uomini, ma anche per le bestie: ma non esiste
un’assurdità più colossale di questa!
Eppure il nostro amico Lucio Taruzio di Fermo, uno dei più provetti
nei calcoli caldaici, faceva anche ascendere il natale della nostra
Roma a quelle feste Parili, nelle quali, secondo la tradizione, la
città fu fondata66, e diceva che Roma era nata sotto la
costellazione della Libra, e non aveva alcuna esitazione a predirne
i destini.
Quanto è grande la forza dell’errore! Forse finanche il natale di
Roma dipendeva dall’influenza delle stelle e della luna? Ammettiamo
pure che, nel caso di un ragazzino, importi sotto quale celeste
disposizione egli abbia tratto il primo respiro: non certo la
medesima cosa sarebbe potuta essere valida per i mattoni e le pietre
di cui la città fu costruita!
Ma non servono altre parole. Quotidianamente gli astrologi vengono
smentiti. Ricordo personalmente tutta una serie di predizioni fatte
dai Caldei per Pompeo, per Crasso, persino per Giulio Cesare:
nessuno di costoro sarebbe morto se non nella vecchiaia, se non a
casa sua e nel massimo splendore. Sicché mi sembrerebbe molto strana
l’esistenza di qualcheduno che, ancora oggi, prestasse fede ad
individui le cui predizioni egli vede, giorno dopo giorno, essere
confutate dalla realtà dei fatti67.
1. Il conformismo scettico (che è analogo a quello di De nat. deor.
III, XXXIX, 93) assume qui quasi il carattere di doppia verità.
2. Già Carneade aveva attenuata l’ποή di Arcesilao; Cicerone attenua
anche quella di Carneade.
3. 68 A 138 Diels-Kranz.
4. In De divin. I, L, 112. Cfr. 7 A 6 Diels-Kranz.
5. Allusione a Senofane o, anche, al monismo degli Stoici.
6. Allusione alla concezione stoica della συµπϑεια (cfr. Stoic. vet.
frag., II,475, 534, 546, 1013, 1212 Arnim), su cui insisteva
soprattutto Posidonio (cfr. Pohlenz, La Stoa, I,441-3; K. Reinhardt,
Kosmos und Sympathie, München, 1926, pp. 92 segg., Poseidonios, in
«RE», XXII, coll. 558 segg.).
7. Cfr. PLIN. Nat. hist. XI,76.
8. Cfr. ibid. II, 4.
9. Cfr. ibid. II, 41.
10. Cfr. ibid. XVI, 74.
11. Stoic. vet. frag. II, 1209 Arnim.
12. Quest’alea è strettamente legata al calcolo delle probabilità e
si inserisce speculativamente nel pensiero più autentico di
Carneade.
13. In De divin. I, LII, 119.
14. Il termine latino vale anche «insensato».
15. Voi Stoici, che pur professate tanto razionalismo e tanta
dialettica.
16. Si avrà, così, una sorta di creazionismo che ogni filosofo
antico respingerebbe.
17. Ossia con criterio «probabilistico».
18. In XLVI, 85 segg.
24. Cfr. HOR. Carm. III, 5, 1-2.
25. Su questa strumentalizzazione aristocratica delle credenze
popolari cfr. Liv. I, 16.
26. In capp. XXXVIII, 80 segg.
27. II discorso di Carneade-Cicerone si inserisce nella complessa
problematica scettica del segno (cfr. SEXT. EMP. Adv. log. II,
144-155 e mie osservazioni di pp. xxxii-xxxvn della traduzione
itallana).
28. II caso è strettamente legato al nostro calcólo delle
probabilità.
29. Neirantico gioco dei dadi si aveva il Venerio – ossia il punto
migliore – quando ciascuno dei quattro dadi mostrava un numero
diverso dall’altro.
30. Cfr. De divin. I, XIII,22.
31. Cfr. ibidem, 23.
32. L’episocio del Panisco di Chio, ricordato da Quinto in De divin.
I, XIII, 23, si trova riportato anche in PLIN. Nat. hist. XXXVII, 4,
da cui gli scultori del Rinascimento – e in particolare Michelangelo
— trassero la concezione della «negatività» del loro lavoro.
33. In De divin. I, XVIII, 36.
34. Secondo la lógica classica, quando l’analogia si fonda su una
quaternio tevminorum i cui elementi non siano pienamente omogenei ma
soltanto simili, si ha la µετβασις ες λλο γέννς e, quindi, l’errore.
35. La difesa Carneadeo-ciceroniana di un’aitiologia
naturalistico-scientifica è qui condotta solo per motivo polemico
contro l’aitiologia teologica. D’altra parte essa preannuncia la
difesa delle cause procatartiche, su cui insistera la Medicina
Empirica.
36. Cfr. De divin. I, XXXIV, 74, ove Quinto parla del continuo
cantare dei galli mentre si eseguivano sacrifici a Trofonio.
37. 68 A 158 Diels-Kranz.
38. Sono versi dell’Iphigenia (frr. 226-8 Warmington).
39. Lo storico Callistene di Olinto (IV sec. a. C), cugino di
Aristotel fu autore di Elleniche e di Fatti di Alessandro (cfr.
Frag. hist. graec., 124 Jacoby)
40. Cfr. De divin. I, XLIII, 98.
41. Cfr., ad esempio, Liv. XXIV, 8, 6, per i prodigi della battaglia
di Canne.
42. In De divin. I, XLIV, 99.
43. Come in XXVI,55 bisogna ritenere solo polemico l’appello di
Carneade-Cicerone alla causa naturale, quantunque un attacco a fondo
contro quest’ultima sia stato condotto non da Carneade, ma da
Enesidemo (cfr. SEXT. EMP. Adv. phys. I,218-264).
44. Di tutti questi prodigi ha parlato Quinto in De divin. I, XLIII.
45. Cfr. De divin. I, XV,35.
46. Su questa introvabilità del sapiente, sostenuta dagli stessi
Stoici, insistono sovente gli Scettici (cfr. SEXT. EMP. Adv. phys.
I,133).
47. Per questo lituus che gli auguri portavano come insegna della
loro carica cfr. De divin. I, XIII,30.
48. Per la leggenda di Atto Navio che, sotto il regno di Tarquinio
Prisco, avrebbe tagliato la cote col rasoio, cfr. De divin. I,
XVII,32; Liv. I, 36; VAL. MAX. I,4, 1; DIONIS. ALIC. III,70;
LACTANT. Div. inst. II,7.
49. Questo fanciullo è Tagete, figlio di Genio e nipote di Giove,
menzionato in De divin. II, XXIII,50 e, tra l’altro, in OVID. Metam.
XV,558-9;
50. Tanto gli Stoici quanto gli Scettici non tenevano in gran conto
la massa (cfr. Stoic. vet. frag. Diog., III, 86 Arnim; SEXT. EMP.
Adv. log. I, 327-335).
51. Ann. 454 Warmington.
52. HOM. II. IX,236.
53. Nel senso che Preneste era l’unica località che ancora
conservava il culto della Fortuna.
54. Eudosso di Cnido, delle cui dottrine si servi spesso Aristotele
(Metaph. 991a 17, 1073b 17, 1079b 21), sostituiva alle fanfaluche
astrologiche lo studio scientific© degli astri (cfr. SEXT. EMP. Adv.
math. V, 1).
55. Per la singolare posizione di Panezio in contrasto con gli altri
Stoici cfr. SESTO EMPIRICO, Contro i matematici, trad, it., pp.
xxx-xxxv.
56. Ossia all’aspetto trigono ed a quello quadrigono (cfr.
BOUCHÉ-LE-CLERCQ, Histoire de la divination dans l’antiquité, I, pp.
205-571.
57. Carneade avrebbe detto «probabile».
58. Diogene di Babilonia, allievo di Crisippo (cfr. Stoic. vet.
frag. II 36 Arnim).
59. Cfr. HERODOT. VI,52.
60. Per analoghi rilievi cfr. SEXT. EMP. Adv. math. V,81.
61. Per questa popolazione abitante tra l’Egitto e l’Etiopia cfr.
PLIN. Nat. hist. VI,34.
62. Sull’importanza dei fattori climatologici per i vari caratteri
degli uomini insistevano, sulle orme del Peripato, anche Stoici come
Panezio (cfr, POHLENZ, La Stoa, I, pp. 451-3).
63. Analoga argomentazione è in SEXT. EMP. Adv. math. V, 88-89.
64. Fr. 168 Wehrli. Cfr. Cíe. De pet. cons. I, 3; PLUTARCH. Demosth.
XI.
65. Per analoghi esempi cfr. SEXT. EMP. Adv. math. Y, 92-95.
66. Cfr. OVID. Fast IV, 809 segg.
67. L’origine sicuramente Carneadea di tutto il passo ciceroniano
contro gli astrologi può trovare notevole conferma nella rhesis
favoriniana riportata da Gellio (XIV, 1) e inserita nella sezione
della presente raccolta dedicata a Favorino. Anche Sesto Empirico,
che pur moveva pesanti critiche al «dommatistno rovesciato» dei
Neo-accademici, utilizza parecchie argomentazioni Carneadee in Adv.
math. V.
Argomentazioni contro la divinazione naturale (CICERONE, De divin.
LVI-LXXI,115-147 passim)
a) Contro l’invasamento e l’eccitazione.
Ma ora vengo a te,
O santo Apollo che domini
Il certo ombelico del mondo,
Da dove
eruppe presaga
Dapprima voce aspra e selvaggia1.
Crisippo2, invero, ha riempito un intero volume con i tuoi oracoli
in parte falsi, a mio avviso, in parte accidentalmente veri, come
avviene molto sovente in ogni nostro discorso, in parte di
significato flessibile ed oscuro, talché lo stesso interprete ha
bisogno di un altro interprete e la sorte deve ricevere un responso
da altre sorti. Quando, infatti, al più opulento re dell’Asia fu
fatta conoscere la celebre «sorte»
Creso una grande potenza distruggerà, l’Ali passando3,
Creso credette che avrebbe abbattuto la potenza dei nemici e,
invece, abbatté la propria. Ebbene, qualsivoglia dei due accadimenti
si fosse verificato, Foracolo sarebbe risultato veritiero4. Ma
perché dovrei credere che questo responso fu mai dato a Creso? O
perché dovrei ritenere Erodoto più veritiero di Ennio? Forse quello
ebbe minore disposizione ad inventare a proposito di Creso, rispetto
a quella del nostro Ennio a proposito di Pirro? Difatti non si trova
nessuno che sia pronto a credere che dall’oracolo di Apollo fu dato
a Pirro il seguente responso5:
Affermo te, o Eacide, sconfigger potere i Romani.
Anzitutto Apollo non ha mai parlato latino; in secondo luogo di
questa «sorte» non senti mai parlare la Grecia; inoltre, ai tempi di
Pirro, Apollo aveva già smesso di esprimersi in versi, infine,
sebbene – come si trova in Ennio – sia stata sempre6
Stupida d’Eaco la razza,
In guerra possente, piuttosto che avere poter di saggezza,
tuttavia essa sarebbe stata in grado di capire il doppio senso
dell’espressione «te sconfiggere i Romani» che si poteva
interpretare tanto in suo favore quanto a favore dei Romani.
Ma, a dire in vero, quel doppio senso che trasse in inganno Pirro e
che avrebbe potuto gabbare Crisippo, non ce l’avrebbe spuntata
nemmeno con un Epicuro!7
Ma la nostra principale obiezione è questa: perché ormai a Delfi gli
oracoli non vengono emessi più in codesta maniera non solo ai tempi
nostri, ma già da parecchio, talché non è possibile trovar nulla di
più spregiato di quell’oracolo?8
Quando i nostri avversari vengono rintuzzati da
quest’argomentazione, sostengono che oramai, a causa del lungo
volgere del tempo si è esaurito il potere di quel luogo da cui si
diffonde va quell’afflato divino che eccitava la mente della Pizia e
le faceva emettere oracoli. Di vino e di salami tu potresti credere
che si stia chiacchierando!9 Ma qui stiamo discutendo della potenza
di quel luogo, di una potenza non solo naturale, ma addirittura
divina. E come mai questa ha potuto esaurirsi? «Per il lungo volger
del tempo» dirai tu. Ma quale volger di tempo esiste che possa
distruggere un divino potere? E cosa c’è, poi, di tanto divino
quanto un’esalazione che si effonde dalla terra ed eccita la mente
fino al punto da renderla presaga del futuro, da farglielo non solo
scorgere molto tempo prima, ma da spronarla ad esprimersi nel ritmo
dei versi? Ma quande codesto potere si è dileguato? Forse dopo che
gli uomini cominciarono ad essere meno creduloni?
Anche Demostene, che visse circa trecento anni fa, già ai suoi tempi
diceva che la Pizia «filippeggiava», ossia che essa agiva quasi in
combutta con Filippo10. E lo scopo di questa sua insinuazione era
quello di far capire che Filippo l’aveva corrotta. Dal che si può
evincere che anche in altri responsi delfici ci sia stato qualcosa
di poco pulito.
Ma – io non so come – codesti filosofi superstiziosi e quasi
fanatizzati sembrano anteporre qualsivoglia assurdità alla
liberazione dalla propria stupidità. Voi preferite il dileguarsi e
l’esaurirsi di una cosa che, se fosse mai esistita, sarebbe stata
certamente eterna, e non intendete, invece, rifiutare la fiducia a
cose che non la meritano.
b) Contro l’interpretazione dei sogni.
In simili errori si cade anche a proposito dei sogni, la cui difesa
rimonta al tempo dei tempi.
Codesti pensatori11 reputano che le nostre «anime» siano divine e ci
giungano dalFesterno e il mondo sia pieno zeppo di anime aventi una
sensibilità simile alla nostra; pertanto, in base a questa origine
divina del nostro «intelletto»12 e in base agli stretti rapporti che
intercorrono tra quest’ultimo e gli intelletti che esistono al di
fuori di noi, sarebbe possibile discernere gli eventi del futuro. E
già Pitagora e Platone13, autorità molto degne di rispetto, ci hanno
consigliato di andare a dormire predisposti da una dieta tutta
particolare perché si possano avere in sogno rappresentazioni più
attendibili. E i Pitagorici suggeriscono la più completa astensione
dalle fave, ritenendo che quel cibo gonfia la mente e non la pancia
soltanto14.
Ma – io non so come – non c’è nessuna assurdità che non possa essere
sostenuta da un filosofo!
E allora? Pensiamo noi che l’anima di chi dorme venga eccitata nel
sogno di per se stessa o, come vuole Democrito15, sia scossa da una
visione di provenienza esterna? In un modo o nell’altro, comunque
sia, a chi dorme è possibile il presentarsi di moltissime
apparizioni false al posto di quelle vere. Infatti anche ai
naviganti sembra che si muovano quelle cose che stanno ferme e, per
una certa disposizione della nostra pupilla il lume di una sola
lucerna ci appare sdoppiato. Ed è inutile menzionare quante false
apparizioni si presentano a pazzi e ad ubriachi. Che se non bisogna
prestar fede ad apparizioni siffatte, non saprei perché la si debba
accordare ai sogni. Se me lo consenti, gli errori sopra indicati
sono interpretabili al pari dei sogni; e quindi, se appaiono in
movimento le cose che stanno ferme, si potrà dire che queste stiano
dando segni di un terremoto o di un improvviso fuggifuggi, mentre lo
sdoppiamento del lume di una lucerna sta a significare discordia e
sedizione.
Anche dalle rappresentazioni che si presentano a pazzi e ad ubriachi
è possibile cavar fuori, per congettura, innumerevoli presagi che
sembrano potersi avverare […]
A dire il vero, non c’è nessuno che, esercitandosi al tiro a segno
per un’intera giornata, non faccia centro una buona volta!16
Per notti intere noi stiamo a sognare, e non ce n’è alcuna in cui il
sonno non ce ne offra l’occasione: ci vogliamo stupie che una
qualche volta si verifica ciòche abbiamo sognato?
Non c’è nulla che sia tanto insicuro quanto il gettito dei dadi:
eppure non c’è nessuno che, gettandoli spesso, non faccia qualche
volta il Venerio17, e talora anche due e tre volte l’una dopo
l’altra. Ma, allora, al pari degli stupidi preferiamo dire che
questo avviene per influsso di Venere piuttosto che a caso? Che, se
nelle altre evenienze non si de ve prestare fede alle cose false, io
non vedo che cosa il sogno abbia di tanto speciale perché – durante
il suo corso – le cose false siano valide al posto delle vere.
Se, poi, per assurdo, la natura avesse predisposto che chi dorme
compia davvero quelle azioni che sta sognando, allora tutti quelli
che vanno a letto si dovrebbero legare: difatti in sogno essi
compirebbero realmente azioni più anormali di qualsivogiia
demente18. Se, d’altra parte, non si deve accordare la fiducia alle
rappresentazioni dei pazzi per il fatto che esse sono false, non
capisco perché la si debba accordare a quelle dei sognanti, le quali
sono anche più confusionarie. Forse perché i pazzi non sanno esporre
alllnterprete le loro rappresentazioni, mentre le sa esporre chi ha
fatto il sogno?
Vorrei sapere inoltre – nel caso che io intenda scrivere qualcosa o
eseguire una lettura o cantare o suonare la cetra o risolvere un
problema di geometria o una questione di fisica o di logica – se io
mi devo mettere ad aspettare il sogno oppure far ricorso all’arte
senza la quale nessuna di queste faccende si può effettuare o
svolgere. E se volessi mettermi a navigare, io non reggerei il
timone di una nave in base al sogno che ho fatto: ne pagherei il fio
all’istante!
Come mai, allora, si può ritenere conveniente che gli infermi
chiedano la medicina all’interprete di sogni piuttosto che al
medico? Forse che Esculapio e Serapide ci possono consegnare in
sogno la ricetta per la malattia, mentre Nettuno non può dare una
ricetta ai piloti? E se Minerva ci dará la medicina senza il medico,
la Muse non daranno, a chi sta sognando, la scienza del leggere e
dello scrivere e la perizia delle altre arti? Ma se si desse in
sogno la ricetta per le malattie, si darebbero anche queste altre
cose suddette; poiché, però, queste ultime non vengono date in
sogno, neppure la medicina viene data; ed eliminata quest’ultima,
viene tolto ai sogni ogni valido at test at o.
Consideriamo come risolta la questione sotto questo profilo e
vediamone, adesso, i lati più riposti.
A dire il vero, o una divina potenza, nel provvedere a noi, si
esprime per mezzo di sogni, o gli interpreti – in base ad una
corresponsione e ad una concordanza immanente alla natura, da loro
detta «simpatía» – comprendono quello che conviene a ciascuna cosa,
oppure nessuna di queste due eventualità è vera, ma basta solo
osservare con continuità e per un lungo periodo di tempo che cosa,
di solito, avvenga o segua, quando si sia avuta un’apparizione
onirica.
Orbene: in primo luogo bisogna rendersi conto che non esiste alcun
divino influsso che produca i sogni. Ed è cosa ben palese che
nessuna apparizione onirica parte dalla volontà degli dei, dato che
essi lo farebbero a nostro vantaggio per farci possibilmente
prevedere il futuro. Ma come sono scarsi di numero quelli che
obbediscono ai sogni, che li comprendono, che se ne ricordano, e
quanto numerosi sono, invece, quelli che non li tengono in nessun
conto e li considerano come una superstizione di anime stupide e di
povere vecchiette! E qual motivo c’è, allora, per cui una divinità
che abbia cura degli uomini si metta ad ammonire con codesti sogni
quelli che non li reputano degni non solo di essere diligentemente
esaminati. ma neanche ricordati? Un dio, invero, non può ignorare
l’intimo pensiero di ciascuno, e non è cosa degna di una divinità
compiere una qualche azione invano e senza motivo, cosa che non si
riscontra neppure in un uomo di carattere.
Così, se la maggior parte dei sogni viene o ignorata o trascurata,
allora il dio, esprimendosi per mezzo dei sogni, non lo sa oppure
agisce invano; ma un dio non va a cascare in nessuna di queste due
eventualità: epperò si de ve proclamare che un dio non si esprime
affatto per mezzo dei sogni.
Vorrei sapere anche questo: perché mai la divinità, qualora ci offra
queste rappresentazioni in via provvidenziale, non ce le presenta
quando siamo svegli piuttosto che quando dormiamo? Difatti, tanto se
l’anima del dormiente venga scossa da un moto proveniente
dall’esterno, quanto se si scuota di per se stessa, quanto, ancora,
se ci sia un’altra causa che susciti in noi l’impressione di vedere
o di udire qualcosa o di compiere qualche azione durante il riposo,
la medesima causa sarebbo potuta sussistere mentre siamo svegli; e
se gli dei facessero ciò a nostro vantaggio durante il riposo,
avrebbero potuto farlo lo stesso mentre siamo svegli, soprattutto
perché Crisippo – nel confutare gli Accademici19 – asserisce che
sono di grai lunga più chiare e sicure le rappresentazioni che si
presentano a chi è sveglio che non quelle che si presentano a chi
sta dormendo.
Sarebbe stata, dunque, una cosa più degna della divina provvidenza –
dal momento che gli dei si occupano di noi – offrire
rappresentazioni più chiare durante la veglia anziché più oscure
durante il sonno. Ma poiché questo non avviene, i sogni non devono
essere ritenuti opera degli dei.
Ma, alla fine dei conti, quale bisogno ci sarebbe di andirivieni e
ghirigori, tanto che siamo costretti a ricorrere ad un oneiromante,
dal momento che il dio – se davvero ci aveva in sua cura – avrebbe
potuto dirci chiaro e tondo: «Fai questo e non fare quest’altro» e
offrire quella rappresentazione a un uomo desto e non ad uno
addormentato?
D’altronde, chi oserebbe dire che tutti i sogni sono veraci?
Parecchi sogni son veri, ma tutti non è necessario20,
dice Ennio. E che vuol dire, alla fine, questa discriminazione?
Quale parte dei suoi termini offre sogni veri e quale falsi? E se
quelli veri sono mandati da un dio, di dove sbucano i falsi? Ché, se
anche questi ultimi hanno origine divina, non c’è nulla di più
incoerente di un dio, anzi non c’è nulla di più stupido che incitare
le menti dei mortali con rappresentazioni false e bugiarde. Se, poi,
le apparizioni vere sono divine e quelle false e vane sono, invece,
umane, che cosa vuol dire codesto vostro arbitrio di designare che
questo l’abbia fatto un dio e quest’altro la natura, piuttosto che
ammettere che o tutti i sogni li manda un dio – cosa che voi vi
rifiutate di fare – o tutti li manda la natura? Ché, se voi negate
la prima eventualità, non potete non ammettere la seconda.
Io, inoltre, considero natura quella mercé la quale l’anima, in
perenne agitazione e moto, non può essere mai inattiva. L’anima,
quando per il rilassamento del corpo non è in grado di servirsi
delle membra e dei sensi, va ad imbattersi in rappresentazioni che
sono svariate ed insieme – come sostiene Aristotele21 – inerenti
alle azioni e alle riflessioni fatte durante lo stato di veglia: dal
coacervo di queste si levano talvolta sogni di meravigliosa
apparenza. Ma, se alcuni di questi sogni sono falsi ed altri sono
veri, vorrei sapere con certezza quale sia laloro nota di
riconoscimento. Se, però, questa nota non esiste, perché dovremmo
prestare ascolto a codesti interpreti? Se, invece, ne esiste
qualcuna, vorrei sapere quale sia. Ma quei signori staranno zitti.
Ma è venuto ormai il momento di mettere a tema se sia più probabile
che gli dei immortali – esseri la cui perfezione si aderge su tutte
le cose – se ne vadano a fare il girotondo presso i letti e presso i
pagliericci di tutti i mortali esistenti in ogni luogo e, non appena
abbiano scorto qualcuno che sta russando, gli lancino certe
apparizioni tortuose ed oscure che poi quei poveretti, balzati su
dal sonno, la mattina appresso vanno a riferire all’interprete,
oppure sia un fatto naturale che l’anima, tenuta in agitazione dagli
stessi moti suoi, abbia l’impressione di vedere in sogno ciòche ha
visto durante la veglia22: se sia, insomma, più degno della
filosofia dare un’interpretazione a questi fatti con la
superstizione delle fattucchiere oppure con una spiegazione
naturale, in vista della quale, pur ammessa la possibilità di
un’esatta congettura dei sogni, si tolga a codesti interpreti di
professione la possibilità di congetturare. Codesti interpreti,
infatti, sono una risma di gente molto superficiale e rozza; i tuoi
Stoici, invece, sostengono che nessuno può essere indovino tranne il
sapiente23.
Crisippo24, a dire il vero, definisce la divinazione con queste
parole: «è facoltà di riconoscere, osservare e spiegare quei segni
che gli dei inviano agli uomini»: il suo compito sarebbe, quindi,
quello di preconoscere quale intenzione abbiano gli dei verso gli
uomini e quali segni essi diano loro e in che modo ci si debba
occupare di questi segni e trovare un’espiazione. E lo stesso
Crisippo definisce l’interpretazione congetturale nel modo seguente:
«è la facoltà di discernere e spiegare quali segni gli dei diano
agli uomini in sogno». Ebbene? A questo basta un po’ d’accortezza o
non sono indispensabili, piuttosto, eccellenti doti naturali e
perfetta preparazione culturale?
Ma di interpreti forniti di siffatte qualità non ne ho visto neppure
uno.
Bada bene, allora, che, se anche ti concederò l’esistenza della
divinazione – cosa che non farò mai!–, ciò nonostante non riusciamo
a trovare neppure un indovino.
A che cosa viene, quindi, a ridursi codesta intelligenza degli dei,
se essi non sono capaci di darci né quei segni onirici che noi
stessi possiamo capire né quelli di cui riusciamo a trovare
interpreti? Difatti, se gli dei ci buttano innanzi certe cose di cui
non c’è per noi né scienza né spiegazione, vengono ad essere simili
a Cartaginesi ed a Spagnoli che si mettano a parlare nel nostro
senato senza interprete.
Del resto, a che mirano le oscurità e gli enigmi dei sogni? A dire
il vero, gli dei avrebbero dovuto volere che fossero per noi
comprensibili quei moniti che essi ci danno a nostro vantaggio.
«Ebbene? – dirai tu – Nessun poeta, nessun fisico si esprime in modo
oscuro?» Certamente, il celebre Euforione25 fin troppo, ma non
Omero! Chi dei due è migliore? Eraclito è senz’altro oscuro, ma
Democrito non lo è affatto! Si deve, allora, fare un confronto tra
costoro? Tu, a mio vantaggio, intendi darmi un monito che io non
riesco a capire …
Ebbene? Le stesse congetture degli interpreti mettono forse in luce
le risorse inventive di costoro piuttosto che l’influenza e la
corrispondenza dei sogni alla realtà?
Un corridore che meditava di partire per le Olimpiadi ebbe in sogno
l’impressione di essere trasportato da una quadriga. La mattina
seguente ricorse all’interprete. E costui: «Vincerai – disse –
giacché così è indicato dalla velocità e dalla potenza dei cavalli».
Poi il corridore ando da Antifonte26. «Sarai sconfitto – disse
questi – e non c’è niente da fare: non capisci che quattro esseri
viventi sono corsi davanti a te?»
Ecco un altro corridore (di questi e consimili sogni è pieno tanto
il libro di Crisippo27 quanto quello di Antipatro28, ma io non
voglio andare per le lunghe) che riferi all’interprete che gli era
parso in sogno di essere diventato aquila. E l’interprete «Hai bello
e vinto! Infatti nessun uccello ha un volo più forte di quella». Ma
alla stessa persona Antifonte rispose: «Babbeo! Non vedi che sei
bello e sconfitto? Infatti codesto uccello, nell’inseguire e
cacciare gli altri, va sempre dopo di loro».
Una matrona che desiderava partorire, ma che non sapeva se fosse
incinta o meno, ebbe l’impressione in sogno di aven l’organo
genitale chiuso a sigillo. Corse a riferirlo. L’interprete disse che
ella non avrebbe potuto concepire, perché era stata sigillata. Ma un
secondo oneiromante dichiarò che ella era incinta, perché non si
chiude con sigilli un qualcosa che è vuoto.
Non si tratta, allora, per gli interpreti di vera e propria arte, ma
solo di giochi d’ingegno. Forse quei sogni di cui io ho parlate e di
cui gli Stoici hanno fatto una raccolta, stanno a significare altro
se non Facume mentale di uomini che cavano congetture ora in un
senso ora in un altro, basandosi su qualche somiglianza?29 I medici
ricevono certe indicazioni dalle vene e dal respiro dell’infermo, e
in base a molti altri sintomi hanno il presentimento del futuro; i
piloti, quando vedono guizzare i totani e filare in porto i delfini,
reputano che sia segno di tempesta30. È possibile dare una
spiegazione razionale a questi fenomeni e facilmente rapportarli
alla natura: gli altri, invece, da me poc’anzi mentovati, niente
affatto.
«Ma in realtà – dirai tu, ed è questo l’unico lato della questione
che ci resta ancora da trattare – una lunga osservazione ha creato
l’arte mediante la registrazione dei fatti»31. Lo affermi proprio? E
si può fare una metodica osservazione dei sogni? E come mai, dato
che le loro diversificazioni sono senza numero? Non è possibile
immaginare nulla con tanto disordine, con tanta confusione ed
irregolarità che non si possa vedere in sogno: allora come mai
queste apparizioni infinite e sempre soggette a rinnovarsi possono
essere abbracciate dalla nostra memoria e annotate dalla nostra
osservazione?
Gli astronomi presero nota della traslazione dei pianeti; fu
scoperta, cosi, nelle stelle la presenza di un ordine prima
inso-spettato. Ma dimmi tu, una buona volta, quale sia rordine o la
regolare coincidenza dei sogni e come mai, inoltre, si possano
distinguere quelli veri dai falsi, dal momento che gli stessi sogni
si awerano per chi in una maniera e per chi in un’altra, anzi non
sempre nella stessa guisa finanche per la medesima persona. Di
conseguenza mi sembra una stranezza il fatto che, mentre di solito
non prestiamo fede al bugiardo neppure se dice la verità, costoro
invece, se un qualche sogno è risultato verace, diano la fiducia ad
uno solo tra molti falsi, invece di confermare la falsità di
innumerevoli sogni in base alla veracità di uno solo32.
In conclusione: se non è un dio a produrre i sogni e se non esiste
alcuna alleanza tra i sogni e la natura e se è impossibile creare
una scienza onirica fondata su un metodo osservativo, viene a
risultare oramai che nessuna fiducia si deve assolutamente accordare
ai sogni, specialmente perché quelli stessi che li «osservano» non
sanno indovinare un bel niente, e quelli che li interpretano fanno
ricorso ad una congettura e non già alla natura reale (e la natura –
nel corso di innumerevoli secoli–ha prodotto in tutte le cose un
maggior numero di meraviglie che non nelle apparizioni oniriche) e
infine perché non c’è nulla di più dubbioso della congettura, la
quale si può spingere in varie direzioni e talora anche in direzioni
contrarie33.
1. Trag. rom. frag. inc. 19-20 Ribbeck (i versi sono attribuiti con
riserva ad Ennio dal Warmington (Roman Old Remains, II,
London-Cambridge Mass., 1961, pp. 602-3). Cfr. VARR. De ling. lat.
VII, 17.
2. Stoic. vet. frag. II, 1214 Arnim. Sappiamo dallo stesso Cicerone
(De divin. I, III, 6) che Crisippo scrisse un De divinatione in due
libri, nel primo dei quali si parlava degli oracoli, nel secondo dei
sogni (cfr. anche DIOG. LAERT. VII, 149).
3. Cfr. HERODOT. I, 91.
4. L’oracolo si attiene al calcolo delle probabilità al pari di
Carneade: la differenza, pero, sta nel fatto che Carneade usa questo
calcolo per ragioni etico-scientifiche, mentre l’oracolo l’usa in
mala fede per mascherare la propria ignoranza.
5. Ann. VI, 174 Warmington.
6. Ann. VI, 175-6 Warmington.
7. Che tanto gli Stoici quanto gli Accademici consideravano
erroneamenterozzo e pocc intelligente (cfr. De divin. II, L, 103).
8. II tema sarà ampiamente sviluppato da Plutarco in De defectu
oraculorum.
9. Ben diversamente – e non affatto con simili volgarità – parla
Plutarco della morte di Pan (De def. orac. 17, 419b-e).
10. Cfr. AESCHIN. Contra Ctesiph. 130.
11. Gli Stoici, in particolare Crisippo (cfr. De ditin. I, XXXII,
70).
12. Nella traduzione ho inteso sottolineare la differenza tra animus
e mens, tenendo presente l’immensità delle questioni poste dagli
antichi – da Aristotele ad Agostino – in merito ai due termini.
13. Sull’opinione di questi filosofi ha dissertato Quinto in De
divin. I, XXIX, 60-61; XXX, 62.
14. Cfr. PLIN. Nat. hist. XVIII, 30.
15. 68 A 137 Diels-Kranz. Cfr. De divin. I, XIII, 23.
16. L’oneirornantica, quindi, gioca in mala fede su quel calcolo
delle probabilita che è, invece, un procedimento autenticamente
filosofico secondo Carneade (cfr. LVI, 116).
17. Cfr. De divin. II, XXI, 48.
18. Queste azioni anormali e delittuose sono elencate in De divin.
I, XXIX, 60.
19. In particolare Arcesilao, che aveva demolito la concezione stoic
della rappresentazione apprensiva (cfr. Stoic. vet. frag. II 62
Arnim).
20. Fr. 427 Warmington, da una commedia incerta.
21. De somn. III. Carneade si serve delle tesi aristoteliche non
perché le condivida, ma «per mostrare l’incapacità della tesi stoica
di presentarsi come unica valida» (DAL PRA, Loscetticismo greco, p.
229).
22. In tal caso il sogno verrà spiegato, prefreudianamente, non col
futuro, ma col passato, come sembra prospettato da Aristotele in De
somn. I 456a 25-29.
23. Cfr. Stoic. vet. frag. III, 604-610 Arnim.
24. Stoic. vet. frag. II, 1189 Arnim.
25. Euforione di Calcide (III sec. a. C), autore di Epilli, porto
alle estreme conseguenze i principi poetici di Callimaco ed
esercitòuna forte influenza sui poetae novi, che Cicerone (Tusc.
III, 45) chiamò ironicamente cantores Euphorionis.
26. 87 B 80 Diels-Kranz.
27. Stoic. vet. frag. II, 1206 Arnim.
28. Stoic. vet. frag. Ill, Ant. 42, Arnim.
29. Ritorna qui in campo, come in LVI, 116 e in LIX, 121 il
Leit-motiv del probabilismo che, con una forza analoga a quella
della stessa verità, trascina con sé anche gli oppositori di
Carneade e persino gli interpreti dei sogni.
30. Cfr. PLIN. Nat. hist. XVIII, 87.
31. Sull’osservazione empirica come fondamento dell’arte aveva già
insistito Aristotele (Metaph. I, 1, 980b 35-981b 6) e avrebbe ancor
più insistito la medicina empirica (cfr. DEICHGRÄBER, Die
griechische Empirikerschule, pp. 106, 107, 125, 208, 223).
32. Secondo Carneade-Cicerone gli oneiromanti seguono il calcolo
delle probabilità, ma alla rovescia.
33. L’δοξαστία professata tanto dagli Stoici quanto dagli
Scettico-accademici dovrebbe indurre a rigettare l’oneiromanzia. Ma,
secondo Carneade, gli Stoici, in questo caso e in tanti altri,
cadono in contraddizione con i loro stessi princïpi.
Smantellamento di sillogismi crisippei in merito al rapporto
divinità-provvidenza-divinazione (CICERONE, De divin. II XLIX-LI,
101-106)
… Tu hai detto1 che Crisippo e Diogene e Antipatro sillogizzano nel
modo seguente2: «Se gli dei esistono e se non manifestano
precedentemente agli uomini gli avvenimenti futuri, essi o non amano
gli uomini o ignorano quello che accadrà o reputano che per gli
uomini non abbia alcuna importanza sapere quale sarà il futuro o
pensano che sconvenga alla loro maestà presagire il futuro agli
uomini oppure, infine, non possono, neppure essendo dei, presagirlo;
ma né essi non ci amano (essi, infatti, sono benefici amici del
genere umano), né ignorano ciò che essi stessi hanno stabilito e
determinato, né per noi non è importante sapere quello che avverrà
(se, infatti, lo sapremo, staremo più accorti), né ritengono ciò
estraneo alla loro maestà (infatti nulla è superiore alla
beneficenza), né sono incapaci di avere una prenozione del futuro;
orbene, (se) non esistono dei, non ci danno segni del futuro; ma gli
dei esistono: epperò ci danno segni, ed è errato pensare che, se
danno segni del futuro, non ci danno alcuna via per il
riconoscimento dei segni (in tal caso essi li darebbero invano) e
non è esatto che, se ci danno la via, non ci sia divinazione: epperò
la divinazione esiste»
Uomini geniali! Con queste poche chiacchiere credono di aver
concluso l’affare!
Per giungere alla conclusione, essi assumono premesse di cui nessuna
viene a loro concessa. Bisogna, invece, approvare quella conclusione
del ragionamento in cui, in base a premesse non dubbie, si dà la
soluzione a ciòche è dubbio3.
Non vedi come Epicuro – che gli Stoici sogliono chiamare sciocco e
rozzo4 – dimostrò l’infinita di tutto ciòche esiste nella natura?
«Ciòche è finito – egli dice – ha un’estremità». Chi non glielo
concederebbe? «Ma ciò che ha un’estremità è separato da altro che è
fuori di esso». Anche questo si deve ammettere. «Ma l’intero mondo
esistente non è separato da altro che sia al di fuori di esso».
Neanche questo si può negare. «Dunque, nulla che abbia un’estremità
è necessariamente infinito».
Non vedi come egli, partendo da premesse accettate, è giunto ad una
cosa che era dubbia? Ma questo voi, che pur siete dialettici, non lo
fate. E non solo non assumete, per la conclusione, premesse
accettate da tutti, ma ne assumete di tali che, anche quando siano
state accettate, non vi farebbero giungere più facilmente alla
conclusione da voi voluta.
A dire il vero, in primo luogo voi osservate questo: «Se esistono
gli dei, essi sono benefici verso gli uomini». Ma chi ve lo
concederá? Epicuro forse? Egli ha, invece, affermato che gli dei non
hanno cura di nulla che riguardi sia gli altri sia loro stessi. E il
nostro Ennio? Con grande plauso e consenso di popolo si esprime
così5:
Io sempre dissi e diro che c’è dei celesti la stirpe,
Ma penso ch’essi non curino che faccia la stirpe degli uomini:
E, a dire il vero, egli espose anche il motivo di questo suo modo di
pensare; ma non è indispensabile dire il seguito. Basta capire solo
questo: che, cioè, codesti Stoici assumono come certo quello che è
dubbio e contro verso.
II seguito del sillogismo è che gli dei non ignorano nulla, perché
da loro tutte le cose sono state formate. Ma, su questo punto,
quanto è grave il contrasto che regna tra uomini di alta cultura6, i
quali negano che il mondo sia stato formato dagli dei.
«Ma a noi importa sapere gli avvenimenti futuri». C’è un grosso
libro di Dicearco7 in cui si sostiene che è meglio ignorarli che
saperli.
Dicono quegli Stoici che ciò non è in contrasto con la maestà degli
dei. Certamente si tratta di ficcare il naso nelle faccende di tutti
per vedere cosa sia utile a ciascuno.
«Né essi non possono avere la prenozione del futuro». Quei
pensatori, però, che sostengono l’incertezza del futuro, dicono che
essi non possono avere quella prenozione.
Non ti accorgi, allora, che vengono assunte come certe e concesse
quelle cose che sono dubbie?
Poi fanno un aggiramento e sillogizzano cosi: «Ma allora non
esistono gli dei e non danno segni del futuro» credendo ormai che la
faccenda sia conclusa.
Poi asseriscono: «Ma gli dei esistono» (ed anche ciò non è ammesso
da tutti) «Dunque danno segni». Ma questa conseguenza non è
necessaria: infatti gli dei possono non dare segni e, tuttavia,
esistere8.
«Né, se essi danno segni, non danno certi metodi per la conoscenza
dei segni». Ma è possibile anche che non li diano agli uomini e se
li tengano per loro: perché, infatti, avrebbero dovuto darli agli
Etruschi e non ai Romani?
«E se essi danno i metodi, la divinazione c’è». Ammettiamo pure che
li diano – il che è assurdo che importa, se non possiamo recepirli?9
L’ultima conclusione è «Dunque la divinazione c’è». Ammettiamo pure
che sia l’ultima: tuttavia non c’è dimostrazione valida: infatti da
premesse false – lo abbiamo appreso da loro stessi! – non si può
dimostrare il vero.
L’intero sillogismo è, allora, venuto a crollare!
1. In De divin. I, XXXVIII, 82 (Stoic. vet. frag. II, 1192 Arnim).
2. Alla maniera stoica, il sillogismo è un sorite ipotetico.
3. Quasi inconsapevolmente Cicerone (ma forse con piena
consapevolezza Carneade) fa una buona critica del sillogismo
ipotetico degli Stoici ispirando: al sillogismo categorico d:
Aristotele (per la continuità di questa critica nel corso dello
Scetticismo cfr. SESTO EMPIRICO, Contro i logici, trad, it., pagin
XXXVIII-XLII).
4. Cfr. De divin. II, XXIII,51.
5. Sono versi della tragedia Telamo (fr. 328-9 Warmington).
6. Scatta qui il tropo scettico della διαφωνία, via, che verra
approfondito da Agrippa (cfr. SEXT. EMP. Pyrrh. hyp. I, 164-165).
7. Fr. 17 Wehrli. Cicerone allude, forse, allo scritto dicearcheo
Eίς Tροφωνίου ατάβασις (cfr. Ad AU. VI, 2, 3; ATHEN. XIII, 594, a;
XIV, 641e).
8. Come sostenevano gli Epicurei.
9. Entra qui in campo l’αταληΨία sostenuta soprattutto da Arcesilao.
Opposizione al fatalismo (CICERONE, De fato VI-XIV, 11-33)
A dire il vero, se la divinazione esiste, da quali regole
scientifiche essa procede? Traduco con «regole scientifiche»1 il
termine greco ϑεωρήματα.
Io non sono affatto del parere che tutti gli altri praticanti di
un’arte eseguano il loro compito senza alcuna base scientifica, come
invece fanno quelli che predicono il futuro praticando la
divinazione.
Ammettiamo, allora, che regole scientifiche degli astrologi siano
suppergiù le seguenti: «Se qualcuno, ad esempio, è nato al sorgere
della Canicola, non morrà in mare». Bada, o Crisippo, a non
disertare la tua causa che ti trascina, adesso, ad un’aspra lotta
con quel valente dialettico che è Diodoro!2
Difatti, se è vero il nesso ipotetico «Se qualcuno è nato al sorgere
della Canicola, non morrà in mare», è anche vero il nesso seguente:
«Se Fabio è nato al sorgere della Canicola. non morrà in mare».
Allora c’è una contraddizione tra le due proposizioni seguenti:
«Fabio è nato al sorgere della Canicola» e «Fabio morrà in mare»,
giacché, nel caso di Fabio, si pone come certa la sua nascita al
sorgere della Canicola; e c’è, altresì, una contraddizione tra
queste altre due espressioni: «Fabio esiste» e «Fabio morrà in
mare». Risulta, quindi, composto di termini contraddittori il nesso
seguente: «Fabio esiste e Fabio morrà in mare», cosa che, in base
alla premessa dell’ipotesi, non è possibile affatto. Epperò la
proposizione «Fabio morrà in mare» fa parte degli impossibili.
Epperò ogni affermazione falsa che si riferisca al futuro esprime
un’impossibilità3.
Ma proprio questo tu, o Crisippo, non lo vuoi; anzi il nocciolo
della tua polemica con Diodoro sta appunto qui. Egli, infatti,
afferma che è possibile esclusivamente quello che o è vero o sarà
vero, e sostiene che qualsivoglia cosa si verificherà è necessario
che avvenga, e non ammette che sia possibile che avvenga
qualsivoglia cosa non si verificherà. Tu, invece, ritieni come
possibili anche quelle cose che non si verificheranno, ad esempio la
rottura di questo gioiello, ancorché tale rottura non abbia mai a
verificarsi; e non era, altresi, necessario che Cipselo4 regnasse a
Corinto, quantunque l’oracolo di Apollo lo avesse pur dichiarato un
millennio prima.
Se, però, accetterai codeste predizioni divinatrici, allora anche
tutte quelle false che concernono il futuro tu sarai costretto ad
annoverarle tra le cose impossibili [come se si dicesse, ad esempio,
che l’Africano s’impadronirà di Cartagine]5; se, invece, il futuro
verrà predetto in modo veritiero e l’accadimento risulterà conforme
alla predizione, tu lo dovrai dichiarare un fatto necessario: però
questo pensiero di Diodoro è, in tutta la sua interezza, contrario
al vostro6.
Difatti, se risponde a verità il nesso ipotetico sopra indicato «Se
tu sei nato al sorgere della Canicola, non morrai in mare» e se è
vero il primo termine del nesso «Tu sei nato al sorgere della
Canicola» – nel passato, infatti, tutte le cose vere sono
necessarie, come vuole Crisippo in contrasto col maestro Cleante7
giacché esse sono immutabili e ciò che è ormai nel dominio del
passato non può più convertirsi da vero in falso–, se, ripetiamo, il
primo termine del nesso è necessario, diventa necessario anche
quello seguente. Eppure Crisippo non è del parere che ciò sia valido
in ogni caso; ma, tuttavia, se è stata fissata dalla natura la causa
per cui Fabio non debba morire in mare, è impossibile che in mare
Fabio muoia.
A questo punto Crisippo, grondante di sudore, si augura che i Caldei
e gli altri indovini si lascino aggirare da lui e, senza più far
ricorso alle congiunzioni astrali, la smettano di enunciare le
proprie «regole scientifiche» nel modo anzidetto, ossia «Se qualcuno
è nato al sorgere della Canicola, non morrà in mare» ma dicano
piuttosto cosi: «Non c’è nessuno che sia nato al sorgere della
Canicola e che, quindi, debba moriré in mare»8.
Ma questo vuoi dire mettersi a scherzare! Per non cascare nelle
braccia di Diodoro, Crisippo ha la pretesa d’insegnare ai Caldei la
maniera opportuna di esporre i fondamenti «scientfici» del loro
mestiere. Io vorrei sapere però – nel caso che i Caldei usassero un
linguaggio risultante dalla connessione di un’infinita serie di
negazioni invece che di un’infinita serie di nessi ipotetici
affermativi – perché mai non si conceda la stessa possibilité di
agire a medici, a geometri e a tutto il resto.
In primo luogo il medico non si metterà ad esporre le espe-rienze
della sua attività nel modo seguente: «Se le vene di costui hanno
queste pulsazioni, costui ha la febbre», ma piuttosto in quest’altro
modo: «Non c’è nessuno le cui vene abbiano queste pulsazioni e che,
quindi, abbia la febbre». Parimenti il geómetra non dirá: «I cerchi
massimi di una sfera si intersecano alla loro meta», ma piuttosto
dirá cosi: «Non esistono i cerchi massimi della sfera che si
intersechino alla loro meta».
Ma, se si può procedere in questa maniera, non c’è niente che non
possa passare da un nesso ipotetico alla negazione di ogni nesso.
A dire il vero, ci è permesso fare le medesime enunciazioni anche in
altre guise. Ho detto poc’anzi: «I cerchi massimi di una sfera
s’intersecano alla loro meta», ma potrei anche dire: «Se la sfera ha
cerchi massimi etc.» e potrei dire ancora: «Poiché la sfera ha
cerchi massimi, etc.».
Ci sono tanti tipi di enunciazione, ma nessuno è più distorto di
questo con cui Crisippo nutre la speranza di appagare i Caldei per
tirarli dalla parte degli Stoici!9
Comunque, tra loro non c’è nessuno che parli cosi; e, a dire il
vero, ha maggiore rilievo l’imparare questi raggiri linguistici che
non il sorgere e il tramontare delle costellazioni.
Ma ritorniamo alla celebre dissertazione di Diodoro alla quale, di
solito, si dà il titolo Intorno ai possibili10 e nella quale il tema
dell’indagine è il concetto stesso di possibile.
Orbene: Diodoro è dell’avviso che «è possibile soltanto quello che è
vero o che sarà vero». Questa concezione è strettamente connessa al
seguente punto di vista, ossia che non avviene nulla che non sia
stato necessario e che ogni cosa possibile o è di già o sarà e che
il futuro non può mutarsi da vero in falso più di quanto non possa
mutarsi il passato; ma nei fatti già avvenuti l’immutabilità è
manifesta, mentre in quelli futuri, poiché essa non è manifesta,
sembra che non ci sia. Cosi, ad esempio, nel caso di una persona
colpita da malattia mortale, risponde a verità la proposizione
«Costui morrà per questa malattia»; ma questa stessa proposizione,
qualora venga pronunciata in modo veritiero a proposito di una
persona in cui la violenza della malattia non sembra tanto
manifesta, non sarà meno conforme alla verità. In questo modo viene
a risultare che nessun mutamento dal vero nel falso è possibile
anche nel futuro. Difatti l’enunciazione «Scipione morrà» è
tanto valida che, sebbene si riferisca al futuro, non può, tuttavia,
convertirsi in falsa, giacché si riferisce ad un uomo che non può
non morire. Alio stesso modo, se si dicesse: «Scipione morrà di
morte violenta nottetempo in camera sua», si direbbe il vero,
giacché si affermerebbe che accadrà quello che realmente accadrà, ma
si deve capire che ciò sarebbe accaduto in base al fatto che esso è
realmente accaduto11. E l’enunciazione «Scipione morrà» non sarà più
vera di quella «Morrà in questo determinato modo e l’espressione
«Scipione è stato ucciso» non ha minor possibilità di mutare da vera
in falsa a paragone dell’espressione «Scipione sarà ucciso».
Stando così la faccenda, non c’ è alcun motivo per cui Epicuro debba
aver paura del fato e debba ricorrere agli atomi e farli uscire
fuori dalla loro normale inclinazione12 e impigliarsi, nello stesso
tempo, in due nodi insolubili: l’uno, che senza cause alcuna abbia a
verificarsi un accadimento, dal che viene a risultare la derivazione
di un qualcosa dal nulla – cosa che non è ammessa né da lui né da
qualsivoglia «fisico»–; l’altro, che mentre due enti
indivisibili si spostano attraverso il vuoto l’uno continui a
seguire la propria caduta e l’altro se ne vada scantonando per i
fatti suoi.
In realtà Epicuro, nell’ammettere che ogni enunciazione è
o-vera-o-falsa, si può sbarazzare dal timore che tutte le cose
avvengano necessariamente ad opera del fato: infatti non è dovuta a
cause insite in una necessità naturale la veracità del seguente
enunciato: «Carneade scenderà nell’Accademia» né, tuttavia, questo
fatto avviene senza una causa. Ma intercorre una differenza tra le
cause che si sono presentate accidentalmente e quelle che
racchiudono in se stesse la natura dell’effetto. Così, senz’altro, è
stata vera da sempre l’enunciazione «Epicuro morrà all’età di
settantadue anni sotto l’arcontato di Pitarato»13; tuttavia,
però, non ci sono state cause fatali di questo avvenimento nei suoi
modi particolari, ma, proprio perché l’accadimento si è
verificato in questi modi, è una cosa certa che esso si sarebbe
verificato nei modi in cui si è verificato. E quanti affermano
l’immutabilità degli accadimenti futuri e l’impossibilità che
una verità del futuro si converta in falso, non contribuiscono a
convalidare la necessità del fato, ma si limitano solo a fare una
precisazione di parole. Però quanti tirano in ballo una serie eterna
di cause, non fanno altro che dispogliare l’uomo del libero arbitrio
e gettarlo nei ceppi della fatale necessità14.
Ma su questo lato del problema basta15. Esaminiamone, invece, altri
lati.
Il ragionamento di Crisippo è del seguente tenore: «Se c’è un
movimento senza causa, non ogni enunciazione – che i dialettici
chiamano “assioma” – sarà o vera o falsa: difatti ciòche sarà
privo-di-cause-efficienti non sarà né vero né falso; ma ogni
enunciazione è o vera o falsa: quindi non c’è alcun movimento senza
causa. E se le cose stanno cosi, ogni accadimento si verifica per
cause che si sono già precedentemente presentate; ma, se tutta la
faccenda sta in questo modo, ogni accadimento è dovuto al fato: il
risultato è, in conclusione, che tutto quello-che-accade accade
fatalmente».
A questo punto, se io preferissi accordarmi con Epicuro e negare che
ogni enunciazione sia vera-o-falsa, accetterei più volentieri questo
colpo anziché approvare la fatalità di tutti gli accadimenti:
difatti il modo epicereo di pensare si presta pur sempre ad un certo
dibattito, mentre quello crisippeo riesce insopportabile.
Così Crisippo ha tutti i nervi protesi a dimostrarci che ogni
«assioma» è o vero o falso. Difatti, come Epicuro teme che, una
volta fatta questa concessione, sia costretto a concedere che ogni
accadimento dipende dal fato – se, infatti, l’una l’altra delle due
cose è conforme al vero fin dall’eternità, essa è anche certa, e, se
è certa, è altresi necessaria; ma in questa maniera, come egli
pensa, trovano conferma necessità e fato–, così Crisippo teme che,
se non gli riesce di ottenere l’ammissione che ogni enunciazione sia
vera o falsa, non possa mantenere per fermo che tutte le cose
avvengano fatalmente e derivin da cause determinatrici del futuro
fin dall’eternità.
Ma Epicuro crede che la declinazione dell’atomo gli facci evitare il
fatalismo. Cosi viene fuori una terza sorta di movimentó, che
prescinde dal peso e dall’impulso, allorché l’atomo devia dalla
distanza minima – egli la chiama λάγιστον –, e si tratta di una
deviazione non dipendente da alcuna causa, come egli è indotto ad
ammettere se non esplicitamente, almeno oggettivamente. In realtà,
un atomo non devia per la spinta che subisca da un altro atomo.
Difatti è impossibile che questi corpi si spingano reciprocamente,
dal momento che è il loro stesso peso a spostare i corpi
indivisibili in senso verticale secondo linee rette, come vuole
Epicuro. E la conseguenza è che, se gli atomi non vengono mai
spiazzati per urto reciproco, non hanno neppure contatto tra di
loro. Da ciò deriva che, pur ammessa l’esistenza dell’atomo e
la sua declinazione, quest’ultima si attua senza una causa.
Questo ragionamento fu tir ato in bailo da Epicuro esclusivamente
per il suo timore che, se la traslazione dell’atomo fosse fatta
risalire al suo peso naturale e necessario, a noi non sarebbe
riservata liberta alcuna, dal momento che i moti dell’anima
verrebbero a dipendere inevitabilmente da quelli degli atomi. E
Democrito, che gli atomi invento, preferì accettare quest’ultima
conseguenza – ossia che tutto avviene per necessità – piuttosto che
staccare dai corpi indivisibili i movimenti naturali.
Con maggiore acume si è espresso Carneade16, il quale dimostrava che
gli Epicurei avrebbero potuto difendere il loro punto di vista senza
la messa in scena di questa «declinazione».
Difatti, poiché gli Epicurei insegnavano che è possibile l’esistenza
di un movimento volontario dell’anima, sarebbe stato meglio
insistere a favore di questo punto di vista anziché mettere in mezzo
la declinazione, soprattutto perché essi stessi non riescono a
scoprirne la causa; perseverando, invece, su quel punto, la loro
resistenza contro Crisippo sarebbe stata agevole. Infatti, pur
avendo ammesso che non esiste alcun movimento senza una causa, non
avrebbero dovuto anche ammettere che ogni accadimento avviene per
cause anteriori, giacché la nostra volontà non ha cause che siano al
di fuori di lei e che la precedano.
Orbene: noi facciamo abuso di un luogo comune quando affermiamo che
qualcuno vuole o non vuole qualcosa senza una causa: usiamo
l’espressione «senza una causa» per dire «senza una causa esterna e
anteriore» e non già «senza una causa in senso assoluto». Cosi,
quando usiamo l’espressione «vaso vuoto», noi non intendiamo darle
il significato che le danno i fisici17, i quali non ammettono
l’esistenza del vuoto, ma per indicare, ad esempio, che il vaso è
senza acqua o senza vino o senz’olio; allo stesso modo, quando noi
affermiamo che l’anima si muove senza causa, intendiamo dire che
essa si muove senza una causa anteriore ed esterna, ma non senza una
causa in senso assoluto. Finanche a proposito dell’atcmo si può dire
che, quando esso si muove attraverso il vuoto mercé la sua gravita e
il suo peso, si muove senza una causa, perché non viene ad
aggiungersi ad esso nessuna causa dal di fuori.
Oltre a ciò, per evitare di essere presi in giro da tutti i fisici
qualora dicessimo che un qualche accadimento è privo di causa,
dobbiamo fare una distinzione e una precisazione: ossia che la
natura del corpo indivisibile è di per sé tale da muoversi in virtù
del suo peso e della sua gravita, e che appunto questa è la causa
della sua traslazione. Similmente per i moti dell’anima non bisogna
mettersi alla ricerca di una causa esterna, giacché il moto
volontario possiede in se medesimo una siffatta natura da essere in
nostro potere e da prestarci obbedienza; né ciò è senza causa,
giacché la causa di questo fatto s’identifica con la natura stessa.
Stando così le cose, non c’è alcun motivo per cui non ogni
enunciazione dovrebbe essere vera o falsa qualora ci rifiutassimo di
ammettere che ogni accadimento sia dovuto al fato18.
Ma Crisippo osserva: «I veri accadimenti futuri non possono
identificarsi con quelle cose che non hanno certe cause per cui
debbano accadere; dunque è inevitabile che gli accadimenti che sono
veri abbiano certe cause: così essi, quando saranno avvenuti,
saranno avvenuti fatalmente».
L’affare è fatto, se non si può fare a meno di concederi o che tutte
le cose accadono per fato o che è impossibile che qualcosa accada
senza una causa!
Ma non si da, forse, anche la possibilità che l’enunciazione
«Scipione prenderà Numanzia», sia vera, senza che un intreccio di
cause debba produrre quest’effetto fin dall’eternità? O forse
quest’enunciato sarebbe potuto essere falso, se lo si fosse
profferito seicento secoli prima? E se allora la proposizione
«Scipione prenderá Numanzia» non fosse vera, non sarebbe vera
neanche quella «Scipione ha preso Numanzia» [questa proposizione è
vera]19. È possibile, allora, che sia accaduto nel passato un
qualcosa che non fosse stato vero che sarebbe accaduto? Infatti,
come diciamo veri quegli accadimenti passati i cui presupposti erano
stati veri in un tempo ancora precedente, così diremo veri quegli
accadimenti futuri il cui presentarsi sarà vero in un tempo ancora
posteriore.
E se ogni enunciazione è o-vera-o-falsa, non se ne trae
immediatamente la conseguenza che esistono cause immutabili
e, per giunta, eterne le quali impediscono che un qualcosa
accada in modo diverso da come dovrebbe accadere20. Ci sono cause
fortuite le quali fanno in modo che sia una enunciazione vera quella
che viene profferita nel modo seguente: «Catone verra in senato»; e
si tratta di cause non racchiuse nella natura universale e
nel’ordine delle cose; tuttavia l’espressione «verra», quando
corrisponde a verità, è altrettanto immutabile quanto l’espressione
«è venuto», né per questo motivo bisogna aver paura del fato o della
necessità. Infatti siamo costretti ad ammettere che, se la
proposizione «Ortensio verra nella villa di Tuscolo» non è vera, si
ha, di conseguenza, che essa è falsa. Ma gli Epicurei non accettano
nessuna di queste due cose; il che è contrario ad ogni possibilità.
Neppure ci sarà d’impaccio il cosidetto «ragionamento pigro»21: in
vero i filosofi chiamano ργòς λóγος quel ragionamento che, se gli
prestiamo obbedienza, ci causa una inerzia assoluta nella condotta
della vita22. Essi pongono la questione nei termini seguenti: «Se è
tuo destino che tu guarisca da questa malattia, tu guarirai, tanto
se avrai fatto venire il medico quanto se non l’avrai fatto venire;
allo stesso modo, se è tuo destino che tu non guarisca da questa
malattia, tu non guarirai, tanto se avrai fatto venire il medico
quanto se non l’avrai fatto venire; ma è tuo destino l’una o l’altra
delle due eventualità: epperò far venire il medico non serve a
nulla».
Questo modo di porre la questione ha tutti i titoli per essere
accusoto di pigrizia e di inerzia, giacché con un siffatto
ragionamento verra eliminata dalla vita ogni attività.
Si può anche arrecare una modifica all’espressione, senza
aggiungervi il termine «fato» e, tuttavia, conservarle il medesimo
significato, dicendo nel modo seguente23: «Se fin dall’eternità fu
vera la proposizione “tu guarirai da questa malattia tu guarirai,
tanto se avrai fatto venire il medico quanto se non l’avrai fatto
venire”; allo stesso modo, se fin dall’eternità fu falsa la
proposizione “tu guarirai da questa malattia”, non guarirai, tanto
se avrai fatto venire il medico quanto se non l’avrai fatto venire»,
con quello che segue.
Questo tipo di ragionamento viene rintuzzato da Crisippo, Nella
realtà delle cose – egli osserva – ci sono certi fatti semplici e
certi fatti complicati24. Un fatto semplice viene enunciato dalla
proposizione: «In quel tale giorno Socrate morrà» per Socrate, sia
che egli faccia qualcosa sia che non la faccia, il giorno fissato
per la morte è quello li. Ma se esprime una fatalità l’enunciazione
«Edipo nascerà da Laio», non vi si potra aggiungere «tanto se Laio
sia stato con una donna quanto se non sia stato», giacché, in questo
caso, si tratta di un fatto complicato e «confatale»; e Crisippo usa
questo termine perché è fatale sia che Laio vada a letto con la
moglie sia che generi Edipo da costei. Allo stesso modo, se fosse
stato enunciato «Milone lotterà alle Olimpiadi» e si volesse
precisare «Dunque egli lotterà, tanto se avrà un avversario quanto
se non l’avrà», si cadrebbe in errore: difatti l’espressione
«lotterà» presuppone una complicazione, non essendo possibile alcuna
lotta ove manchi l’avversario.
Orbene, tutti i ragionamenti capziosi di questo genere vengono
confutati allo stesso modo. Ed è un ragionamento capzioso «tanto se
avrai fatto venire il medico quanto se non l’avrai fatto venire»,
giacché «far venire il medico» è altrettanto fatale che «guariré». E
sono appunto questi fatti che, come ho detto, Crisippo chiama
«confatali».
Carneade respingeva in tutta la sua interezza questo tipo di
ragionamenti e sosteneva che una siffatta argomentazione si articola
in maniera troppo superficiale. Egli incalzava contro Crisippo in
un’altra maniera, senza far ricorso ad un ragionamento cavilloso25.
Ecco come si articolava la sua argomentazione: «Se tutte le cose
accadono mercé cause anteriori, tutte le cose accadono secondo un
intreccio e un contesto di collegamenti naturali; ma se la faccenda
sta in questo modo, ogni cosa è prodotta dalla necessità; e se
questo è vero, nulla è in nostro potere; ma esiste pur qualche cosa
che è in nostro potere; invece, se tutte le cose accadono ad opera
del fato, accadono tutte mercé cause anteriori: epperò non tutti gli
accadimenti accadono ad opera del fato».
Non ci potrebbe essere un ragionamento più stringato di questo!
Infatti, se lo si volesse ritorcere dicendo «Se ogni accadimento
futuro è vero fin dall’eternità, di guisa che esso si verifichi con
certezza nella maniera in cui dovrà verificarsi, allora è necessario
che tutte le cose accadano secondo un intreccio e un contesto di
collegamenti naturali», questa ritorsione non significherebbe
proprio niente. Intercorre, invero, una grande differenza tra il
fatto che una causa naturale produca fin dall’eternità futuri
accadimenti veri e il fatto che, anche senza un’eternità naturale
della causa, si possano concepire come veri quegli accadimenti che
si verificheranno nel futuro26. Pertanto Carneade dichiarava che
persino Apollo non potrebbe prevedere le future cose, tranne quelle
le cui cause sono contenute dalla natura in maniera tale che il loro
accadere è necessario. In base a quali considerazioni, infatti,
finanche il dio avrebbe potuto dire che quel Marcello che fu tre
volte console sarebbe dovuto perire in un naufragio? Questo
accadimento era, senza dubbio, vero fin dall’eternità, ma non aveva
cause che lo effettuassero.
Allo stesso modo Carneade era del parere che ad Apollo non fossero
noti neppure quegli accadimenti del passato che non avessero
lasciato Forma di alcun segno: figuratevi quelli futuri! Difatti
solo la conoscenza delle cause eíficienti di qualsiasi cosa ci
offre, alla fin dei conti, la possibilità di sapere che cosa
accadrà. Dunque Apollo non avrebbe potuto far predizioni neppure nel
caso di Edipo, qualora nelFordine naturale delle cose non fosse
stata predisposta alcuna serie di cause per cui fosse inevitabile
che egli uccidesse suo padre, né altre predizioni siffatte27.
1. Praecepta artis («verité d’expérience» Yon). Una scepsi più
radicale di quella di Carneade mette in bilico, però, anche questi
praecepta. come dirà Sesto Empirico nei suoi trattati Contro i
matematici. Il passo ciceroniano 11-13 è in Stoic. vet. frag. 11,
954 Arnim.
2. Test. 132 A Döring.
3. L’obiezione di Diodoro Crono sottolinea la differenza tra
necessità logica e necessità reale (cfr. l’annotazione di Yon nelle
pp. 34-5 della sua edizione del De fato. Per una recente ampia
discussione sulla concezione diodorea del possibile e per i suoi
rapporti con teorie aristoteliche e crisippee vedasi V. CELLUPRICA,
l’argomento dominatore di Diodoro Crono e il concetto di possibile
di Crisippo in Scuole socratiche minori e filosofia ellenistica,
cit., pp. 55-73).
4. Tiranno di Corinto durante la seconda meta del VI sec. a. C.
5. L’espunzione è dell’Yon, che considera l’esempio come una glossa
fuorviante.
6. Giacché Diodoro fa una mera questione di correttezza logica, ment
gli Stoici fanno illazioni di ordine etico e metafisico.
7. Per questa posizione di Cleante, di cui ignoriamo le
argomentazioi cfr. EPICTET. Diatr. II,19, 12.
8. La negazione della premessa minore verrebbe a neutralizzare la ma
giore e ad annullare l’intero sillogismo ipotetico.
9. In sostanza il rapporto Crisippo-astrologi è fondato su due
errori o addirittura due tipi di ciurmeria: quello degli astrologi
che prof essano un totale determinismo per fare sopravvivere la loro
arte e quello di Crisippo che sostiene un parziale indeterminismo
con artifici eristici per rintuzzare le acute obiezioni di Diodoro.
10. Per questa modernissima tesi dei Megarici sul concetto di
possibilità in opposizione alla concezione aristotélica di
potenza-atto cfr. DöRING, Die Megariker, pp. 133-6. Per Diodoro
Crono in particolare vedasi O. BECKER, Über den υριεύων λóγος des
Diod. Kronos «Rheinische Mus.», IC, 1956, pp. 289-304. Si tenga,
comunque, presente che il «possibile» di Diodoro ha solo qualche
tratto in comune col «probabile» di Carneade-Cicerone.
11. L’identità di possibile e necessario (entrambi posti come veri)
annulla ogni distinzione tra un fatto generico (la morte) e un fatto
specifico (l’essere assassinato di notte nel proprio letto, come
capito a Scipione Emiliano).
12. Ricorrendo al clinamen (cfr. LUCRET. II, 216 segg. e, per più
ampie notizie, EPICURO, Opere, a cura di M. Isnardi-Parente, pp. 18
segg.).
13. Cfr. DIOG. LAERT. X, 15.
14. Come fanno gli Stoici più consequenziali del sottile e
imbarazzato Crisippo.
15. Sulla questione si ritorna in De fato XII, 28 (cfr. Yon, p.
XXII, n. 2).
16. La posizione Carneadea è quella di un difficile equilibrio
critico che rasenta l’eclettismo: Carneade è d’accordo con Epicuro
contro il determinismo ed è d’accordo con Crisippo in favore della
causalità in senso assoluto; nello stesso tempo è in disaccordo con
Epicuro in merito al clinamen ed è in disaccordo con Crisippo in
merito alla causalità esterna. Da notare che anche qui, come altrove
(CIC. De divin. II,55), Carneade lancia solo un timido strale contro
quel principio di causalità che sarà messo in bilico da Enesidemo
(SEXT. EMP. Adv. phys. I,218-264).
17. Cfr., in particolare, ARISTOT. Phys. IV,7.
18. Crisippo fondava il suo fatalismo (ancorché moderato) sul
classi(principio di non-contraddizione: sul medesimo principio – che
gli Scettici non hanno mai osato discutere ex professo
– Carneade si fonda per negare fatalismo.
19. Evidente glossa espunta dall’Yon.
20. Cfr. De fato IX, 19.
21. Cfr. Stoic. vet. frag. II, 956-958 Arnim.
22. Era, questa, l’accusa che si soleva fare agli Scettici in
generale (cfr. SEXT. EMP. Pyrrh. hyp. I, 21-24).
23. Il principio di non-contraddizione viene, insomma, rispettato
tanto dall’enunciazione di una realtà quanto da quella di una mera
espressione verbale, in conformità con la logica proposizionale
degli Stoici.
24. Cfr. SENEC. Nat. quaest. II, 32 segg.
25. Ossia ad una calumnia come quella di Crisippo.
26. L’attuale argomentazione corrisponde a quella di De fato IX, 17.
27. Qui ancora una volta viene riprospettata la distinzione tra
necessità logica e necessità reale. Si apre, quindi, la discussione
sulle cause «procatartiche» con argomentazioni accademiche (forse
ancora di marca Carneadea) allo scopo di rivalutare sotto luce
diversa il principio di causalità (cfr. PLUTARCH. De Stoic, rep. 47,
4). Ma alla fine Cicerone, abbandonando Carneade per seguiré Antioco
(cfr. YON, Introd., pp. XL-XLII), si avvia ad una conclusione che
doveva essere alquanto deludente e conciliativa in rapporto alle
dottrine stoiche.
La dottrina del bene
a) La divisione Carneadea.
(CICERONE, De fin. V, VI-VIII,16-23)
Poiché a proposito del sommo bene è aperta una grande controversia
di opinioni, dobbiamo fare uso della «divisione Carneadea»1, che
volentieri il nostro Antioco2 suole tener presente.
Orbene: Carneade riusci ad individuare non solo quanti fossero stati
finora i punti di vista dei filosofi sul sommo bene ma tutti i punti
di vista possibili.
Egli negava l’esistenza di una qualche arte che abbia se me desima
come punto di partenza, giacché l’oggetto di cui l’arte si occupa è
sempre esterno ad essa. Non c’è biscgno che ci dilunghiamo su ciò
facendo ricorso ad esempi, data l’evidenza del fatto che nessun’arte
si occupa di se stessa, ma una cosa è l’arte in sé e un’altra cosa è
ciò con cui essa ha a che fare. Come la medicina è l’arte della
buona salute e il pilotaggio è l’arte della navigazione, allo stesso
modo la saggezza è l’arte della vita3; perciò necessariamente anche
la saggezza è fondata su una qualche cosa e da quest’ultima prende
il suo avvio.
Quasi tutti i pensatori, però, sono riusciti ad accordarsi sul fatto
che ciò di cui si occupa la saggezza e che questa intende
conseguiré, deve essere adatto e conforme alla natura e tale da
invitare ed attrarre di per sé quell’appetito dell’anima che i Greci
chiamano ρμή4. Non riescono, invece, a mettersi d’accordo circa
l’essenza di ciòche provoca questo movimento e suscita
immediatamente nella nostra natura quest’appetito, anzi proprio su
questo punto verte ogni dissenso tra i filosofi nella ricerca del
sommo bene. Difatti l’intera questione concernente gli ultimi
termini dei beni e dei mali – ossia, quando si vuole sapere quale
sia tra essi l’estremo fine – deve trovare il suo bandolo nella
scoperta degli istinti naturali originari; una volta fatta questa
scoperta, da essa, come da una sorgente, viene condotto l’intera
dibattito sul sommo bene e sul sommo male.
Alcuni5 ritengono che l’appetito originario è quello del piacere e
la repulsione originaria è quella che ci rimuove dal dolore; altri
pensano che l’oggetto primario del nostro desiderio è
l’affrancamento dal dolore e che il dolore è la prima cosa da noi
rifiutata; altri pongono come punto di partenza quelle cose che essi
chiamano «primarie secondo natura», e tra esse annoverano
l’incolumità e la conservazione di tutte le parti del corpo, la
buona salute, l’integrità dei sensi, l’affrancamento dalla
sofferenza, il vigore fisico, la bellezza e tutti gli altri
requisiti di questo genere.
Uno di questi tre gruppi di cose deve essere quello che mette in
movimento la nostra natura inducendola a provare desiderio e
repulsione, e non ce ne può essere alcun altro al di fuori di questi
tre: perciò necessariamente si deve far risalire ad uno di questi
ogni nostra corretta azione morale che sia o evasiva o impegnativa;
di conseguenza, quella saggezza che noi abbiamo identificata con
«l’arte della vita» ha come suo oggetto uno di questi tre generi di
cose e da esso desume la spinta iniziale dell’intera condotta umana.
Adunque, a seconda di ciò che la saggezza abbia fissato come impulso
naturale originario, verra fuori anche una concezione della
rettitudine e della dignità morale [honestum], che, nei limiti del
possibile6, corrisponda ad uno dei tre gruppi sopra indicati; e ne
consegue che la dignità morale s’identifica col compiere ogni azione
avendo come fine o il piacere, anche se quest’ultimo non venga
raggiunto, o la privazione del dolore, anche se questa non si riesce
a conseguire, o, infine, l’acquisizione di quelle cose che sono
«secondo natura», anche se nessuna di esse venga da noi ottenuta.
Ne consegue, allora, che la diversa concezione dei fini dei beni e
dei mali è direttamente proporzionata al diverso modo di porre i
principi naturali.
Altri, a loro volta, partendo dai medesimi principi, faranno
risalire rispettivamente ogni azione morale al conseguimento o del
piacere o della privazione del dolore oppure di quelle cose che sono
primarie-secondo-natura.
In base alla classificazione di questi sei modi di concepire il
sommo bene i principali sostenitori degli ultimi tre sono i
seguenti: Aristippo7 del piacere, Ieronimo8 della privazione del
dolore, Carneade9 del godimento di quelle cose che abbiamo detto
essere primarie-secondo-natura, purché si precisi che egli non la
pensa proprio cosi, ma si professa sostenitore di questo punto di
vista per poter condurre un dibattito dialettico.
Ci restano da esaminare le tre concezioni possibili da noi esposte
per prima10, ma una sola di esse è stata patrocinata, e per giunta
con accanimento. Nessuno, infatti, ha osato sostenere che ogni
nostra azione mira al piacere nel senso che, anche se non lo
conseguiamo affatto, ciònonostante, questa nostra stessa
deliberazione di comportarci così sia di per sé una cosa
desiderabile e onesta ed unicamente buona. Né, d’altra parte, il
mero sforzo di evitare il dolore è stato riposto da alcuno tra le
cose desiderabili, anche nel caso che sia impossibile evitare
effettivamente il dolore. Secondo gli Stoici11, invece, fare di
tutto per ottenere quelle cose che sono secondo natura, anche se non
si riesce a conseguirle, viene identificato con l’azione morale e
con la sola cosa che sia desiderabile di per sé e con l’único bene.
Questi sono, adunque, i sei modi semplici di concepire i fini dei
beni e dei mali: due non hanno sostenitori, quattro sì.
Invece le definizioni composte e doppie del sommo bene sono state
tre in tutto, e non sarebbe stato possibile che fossero di più, se
si guarda in profondità l’essenza del problema. Difatti alla dignità
morale si può aggiungere il piacere, come fecero Callifonte12 e
Dinomaco13, oppure l’affraricamento dal dolore, come ha fatto
Diodoro14, oppure le cose primarie della natura, come sostennero
quegli antichi pensatori che noi chiamiamo indifferentemente
Accademici e Peripatetici15.
Ma poiché è impossibile dichiarare tutto d’un tratto il nostro
pensiero, dovrà bastare per il momento sottolineare quanto segue:
che, cioè, bisogna accantonare il piacere, dal momento che noi siamo
nati per fini più alti, come ben presto risalterà chiaro. Per quanto
concerne l’affrancamento dal dolore, di solito vengono addotte le
medesime considerazioni che si fanno a proposito del piacere. Né c’è
bisogno di mettersi alla ricerca di altre argomentazioni che siano
in contrasto con il punto di vista di Carneade, giacché qualsiasi
definizione del sommo bene che spogli quest’ultimo della dignità
morale non può ragionevolmente riservare un posto né ai doveri né
alle virtù né alle amicizie. Invece l’accoppiamento del piacere o
della privazione del dolore con la dignità morale rende turpe quella
stessa dignità che vorrebbe abbracciare in sé. Far risalire,
infatti, le proprie azioni a due punti di vista, l’uno dei quali
considera essere in uno stato di sommo bene quell’uomo che è libero
dal male, mentre l’altro dà rilievo alla parte più frivola della
natura, significa oscurare – per non dire contaminare–tutto lo
splendore della dignità morale. Non restano, allora, se non gli
Stoici, i quali, avendo desunto ogni loro teoria dai Peripatetici o
dagli Accademici, si attengono alle medesime concezioni di costoro,
cambiando solo la terminología16.
La sicurezza – o tranquillità – dell’anima, di cui parla Democrito17
e a cui egli diede il norne di εύϑμία, ci siamo sentiti costretti ad
escluderla da questa discussione, perché è per l’appunto siffatta
tranquillità-dell’anima ad identificarsi con la vita beata. Noi,
infatti, stiamo cercando non quale essa sia, ma donde essa derivi. E
le ormai screditate e dismesse opinioni di Pirrone, di Aristone e di
Erillo18 noi le abbiamo dovuto ritenere del tutto inutilizzabili,
perché non possono essere inserite nelle questioni di cui abbiamo
tracciato i limiti. Difatti tutta questa nostra attuale indagine sui
fini e, per cosí dire, sui limiti estremi dei beni e dei mali ha
come punto di partenza ciòche è adatto e conforme alla natura e ciò
che di per se stesso è l’oggetto primario della nostra appetizione:
invece proprio questo viene interamente eliminato da quei filosofi i
quali sostengono che, nell’ambito di quelle cose in cui non è
incluso nulla che sia onesto o turpe, non c’è alcun motivo perché si
debba dare la preferenza ad una piuttosto che a un’altra, e
ritengono che, entro quelle cose, non sussista differenza alcuna; ed
anche Erillo, se è stato effettivamente del parere che non esista
alcun bene tranne la scienza., ha tolto ogni ragione di essere alla
nostra facoltà deliberativa ed ogni possibilità di scoprire il
nostro dovere morale.
Estromessi, cosí, i punti di vista degli altri e non essendone
possibile alcun altro al di fuori di quelli, risulta necessariamente
valida la concezione degli antichi19.
b) Il godimento delle «cose primarie secondo natura» come ipotesi
etica.
(CICERONE, De fin. II, XI, 35)
Cosi ci sono tre fini che non hanno nulla a che vedere con la
dignità morale: il primo è quello di Aristippo e di Epicuro, il
secondo è quello di Ieronimo, il terzo è quello di Carneade; ce ne
sono altri tre in cui la dignità morale è presente, ma con
l’aggiunta di qualche altra componente, come si riscontra in
Polemone, in Callifonte e in Diodoro; c’è, infine, una teoria
assolutizzante, che è sostenuta da Zenone20 e che è interamente
fondata sul decoro, vale a dire sulla dignità morale (difatti
Pirrone, Aristone ed Erillo sono stati già da molto tempo buttati
via).
〈Fatta eccezione di Epicuro〉, tutti gli altri sono stati coerenti
con i loro principi, sicché con questi il sommo bene poteva andare
d’accordo, dato che esso è per Aristippo il piacere, per Ieronimo
l’affrancamento dal dolore, per Carneade il godimento dei principi
naturali.
(CICERONE, De fin. II, XIII, 42)
Questi stessi rilievi21 si possono fare contro il celebre «sommo
bene» di Carneade, che questo filosofo prospettò non tanto perché
gli desse la sua piena approvazione, quanto per opporlo alle
dottrine degli Stoici con i quali soleva polemizzare22. Tuttavia
esso è di tal fatta che, se fosse stato aggiunto alla virtù, avrebbe
evidentemente acquisito un alto prestigio e avrebbe conferito la più
piena completezza alla vita beata, che è, appunto, l’argomento di
tutta la nostra presente indagine. Difatti quelli che alla virtù
aggiungono o il piacere – che è l’unica cosa a non riscuotere la pur
minima stima da parte della virtù – o la liberazione dal dolore – la
quale, pur non avendo in sé niente di male, tuttavia non sldentifica
col sommo bene–, producono una combinazione che non è, poi, gran che
accettabile, ed io non mi rendo conto, comunque, perché essi lo
facciano con tanta parsimonia e tante limitazioni.
(CICERONE, De fin. III, XII, 41)
Allora Catone23 osservò: «Fissati così questi principi, ne segue un
ampio dibattito. I Peripatetici lo affrontano con troppa fiacchezza
(costoro, infatti, sogliono fare affermazioni noi abbastanza acute a
causa della loro ignoranza della dialettica)24. Il tuo Carneade,
invece, mercé quella sua straordinaria competenza nel campo della
dialettica e quella sua eccelsa abilità oratoria, lo porto al suo
più alto vertice. Egli non la smise mai di affermare, con tono
polémico, che, in tutto questo cosiddetto problema dei beni e dei
mali, tra Stoici e Peripatetici non sussiste contrasto reale, ma
soltanto verbale25. A me, invece, nulla appare con tanta evidenza
quanto il fatto che le concezioni di quei due indirizzi filosofici
siano in contrasto fra loro per i reali contenuti piuttosto che per
le espressioni verbali. Anzi io affermo che tra Stoici e
Peripatetici la divergenza sui contenuti è molto più accentuata di
quella sulle parole, dal momento che i Peripatetici sostengono
essere indispensabili al conseguimento della vita beata tutte quelle
cose che essi chiamano «beni», mentre i nostri non reputano che la
beatitudine riceva un completamento da tutto quello che è pur
meritevole di una qualche valutazione positiva.
(CICERONE, Tusc. V, XLI, 119-120)
Se quei filosofi26 che dal loro modo di pensare sono indotti a
togliere ogni valore alla virtù di per sé considerata e a ritenere
insussistente o solo addobbato dal vano suono della voce quanto noi
affermiamo essere onesto e lodevole, stimano, alla fine dei conti,
che il sapiente è ognora beato, cosa pensi tu che debbano fare quei
filosofi27 che hanno preso pur sempre le mosse iniziali da Socrate e
da Platone? Alcuni28 di costoro affermano che i beni dell’anima
hanno tanta eccellenza da oscurare quelli del corpo e quelli
provenienti dall’esterno; altri29, invece, non annoverano neppure
tra i beni questi ultimi due gruppi, ma ripongono ogni bene
nell’anima. E sul contrasto che regnava tra loro esprimeva, di
solito, il suo giudizio Carneade, quasi fosse arbitro onorario.
Quelle medesime cose che ai Peripatetici sembravano beni, sembravano
agli Stoici solo vantaggi materiali, ma, ciònonostante, i
Peripatetici non attribuivano alle ricchezze, alla buona salute e ad
altre simili cose un ruolo maggiore di quanto facessero gli Stoici:
ecco perché Carneade sosteneva che non sussisteva motivo di
polemica, qualora quei filosofi meditassero sulla questione
attenendosi alla realtà delle cose e non alle chiacchiere.
Vedano, perciò, i filosofi degli altri indirizzi come possano
difendere le loro posizioni. Mi è, comunque, di gradimento il fatto
che essi professano una qualche dottrina che sia degna del
linguaggio dei filosofi, allorché discutono della perpetua facoltà
di vivere bene come di una peculiarità dei sapienti.
(CICERONE Tusc. V, IV, 10-11)
Socrate30 fu il primo a fare scendere la filosofia dal cielo in
terra e a porla nella vita associata degli uomini; egli la fece
entrare anche nelle case e la indusse a indagare sulla condotta
della vita e sulla morale, sui beni e sui mali. Il suo complesso
metodo di discussione, la varietà dei suoi temi, la grandezza del
suo ingegno – consacrata, del resto, dal ricordo che Platone ce ne
ha lasciato nei suoi scritti – hanno dato lo spunto a molti
indirizzi filosofici tra loro contrastanti; tra essi io ho seguito
in modo preminente quello che, a mio parere, era stato adottato da
Socrate, vale a dire quello che ci permette di tenere coperto il
nostro personale punto di vista, di sollevare gli altri dalFerrore e
di ricercare, in ogni questione, ciò che è molto simile al vero31, E
poiché a questo costume si attenne Carneade con grande intelligenza
e nella maniera più doviziosa, ho impostato la discussione – sovente
altrove ed anche poc’anzi nella mia villa di Tuscolo – secondo
siffatta consuetudine.
(CICERONE, Tusc. V, XXIX,83)
Facciamo uso, allora, di quella liberta che in campo filosofico è
permesso a noi soli di usare, dal momento che il nostro discorso non
esprime di per sé alcun giudizio32, ma sa contenersi relativamente
ad ogni ramo del pensiero, di guisa che la questione stessa possa
essere giudicata dagli altri senza appoggiarsi all’autorità di
nessuno. E poiché la tua intenzione sembra essere quella di
stabilire che, qualunque parere in merito ai limiti dei beni e dei
mali abbiano i filosofi tra loro in contrasto, ciònon pertanto la
virtù possegga sufficiente sicurezza per il conseguimento della vita
beata – cosa che, come ci è stato tramandato, Carneade soleva
mettere in discussione33; ma egli si comportava così per opporsi
agli Stoici, che in ogni occasione redarguiva con il massimo zelo e
contro la cui dottrina il suo ingegno si lanciava con ardore–,
affronteremo il problema con pacatezza d’animo.
(CICERONE, Tusc. III, XXII,54)
Ho letto il libro che Clitomaco34 mando ai suoi concittadiri
prigionieri per confortarli dopo la distruzione di Cartagine: in
quel libro è riportata per iscritto una dissertazione di Carneade,
dalla quale Clitomaco afferma di aver preso appunti. Poiché il tema
messo in discussione era che evidentemente il sapiente si sarebbe
afflitto nel caso che la sua patria fosse conquistata dal nemico,
Clitomaco trascrisse le controargomentazioni di Carneade. Orbene, il
rimedio proposto dal filosofo contro un disastro ancora attuale è
tanto scarso che non se ne sentirebbe la mancanza neppure in una
disgrazia ormai avvenuta da molto tempo, e se quel libro fosse stato
spedito ai prigionieri parecchi anni dopo, non sarebbe valso a
medicare le ferite, ma le cicatrici. Infatti il dolore, a mano a
mano che procede, si va progressivamente riducendo, non perché le
condizioni reali di solito mutino o possano mutare, ma perché
l’esperienza dà quell’insegnamento che avrebbe dovuto dare la
ragione, vale a dire che le cose sono più piccole di quanto siano
sembrate essere.
(CICERONE, Tusc. III, XXV, 59-60)
Perciò Carneade, come vedo che ne scrive il nostro Antioco35, soleva
biasimare l’elogio che Crisippo faceva dei celebri versi di
Euripide36:
Non c’è nessun mortale cui non tocchino
Dolore e malattia: s’impone
a molti
Seppellir figli e farne nascere altri;
E la morte è segnata
ad ogni cosa
Che inutilmente al genere degli uomini
Apporta
sofferenza: terra a terra
Ridar si deve: allora, come messe,
Va
falciata di tutti l’esistenza.
Questo comanda la necessità!
Carneade sosteneva, invece, che questa maniera di parlare non riesce
affatto ad alleviare l’angoscia. Anzi egli affermava che questa
stessa nostra caduta in una necessità tanto crudele non può non
essere per noi motivo di sofferenza: del resto, egli aggiungeva, lo
stesso discorso di Euripide, con la rievocazione dei mali capitati
agli altri, vale solo a confortare i mal vagi.
(CICERONE, De fin. III, XVII, 57)
Per quanto, poi37, concerne la buona reputazione (è preferibile
tradurre qui il termine greco εύδοξία con «buona reputazione»
anziché con «gloria»), Crisippo e Diogene solevano dire che, ove si
prescinda dall’utile pratico che ne deriva, non bisogna per essa
alzare neppure un dito. Con loro io sono pienamente d’accordo. Ma
quelli che vennero dopo di costoro38, non essendo in grado di
resistere agli attacchi di Carneade, affermarono che questa stessa
«buona reputazione» è di per sé preferibile e desiderabile e che è
proprio di un uomo di liberi natali e fornito di educazione liberale
voler sentiré parlare bene di sé da parte dei genitori, dei parenti,
degli amici e anche degli uomini buoni, e ciòper la cosa stessa e
non per il vantaggio pratico che ne derivi; e aggiungono che, come
noi desiderian il benessere dei nostri figli, anche se essi nascano
dopo la nostra morte, per loro stessi, così dobbiamo aspirare alla
buona repitazione, che pur ci verra dopo la morte, per la cosa
stessa, prescindendo dall’utilità pratica che ce ne derivi39.
1. Metodologicamente la presente divisione si attiene ai criteri
ciairetici già seguiti nell’Accademia Antica e dallo stesso Platone.
Una diairesis diversa, di probabile origine crisippea, è in CIC.
Lucull. XLV, 138-139. Pe quanto concerne l’incidenza delle critiche
Carneadee sulla vanazione che concetto di telos subi nell’ambito
della Stoa da Crisippo a Diogene di Babilonia, ad Antipatro e ad
Archedemo, gli studiosi moderni sono abbastanza in disaccordo tra
loro, avendo alcuni esagerata la portata di tale incidenza ed altri
avendola troppo ridimensionata. Per la complessa faccenda si rinvia
a BROCHARD, Les sceptiques grecs, pp. 160-2; POHLENZ, Grund fragent
der stoische Philosophie, pp. 15 segg.; La Stoa, I, pp. 356, 376-82;
LONG, Carneades an the Stoic Telos, «Phronesis», XII, 1967, pp.
59-90; H. REINER, Die etische Weisheit der Stoiker heute,
«Gymnasium», LXXVI, 1969, pp. 342 segg.
2. Cfr. LUCK, op. cit., pp. 56 segg.
3. Per la concezione dommatica e per la critica scettica dell’arte
della vita cfr. SEXT. EMP. Pyrrh. hyp. Ill, 188 segg.; Adv. eth. 168
segg.
4. Cfr. SEXT. EMP. Adv. eth.59-60.
5. La diairesis non si attiene a vere e proprie posizioni
storicamente assunte dai filosofi, anche se di volta in volta si
accosta ad alcune di esse.
6. La corresponsione è sempre approssimata, in conformità col
probabilismo.
7. Fondatore della scuola cirenaica.
8. Seguace del Peripato (cfr. fr. 90c Wehrli; CIC. Lucull XLII, 13:
CLEM. Strom. II, 415 C).
9. Carneade cita se stesso solo exempli causa, quantunque non
manchino indizi di qualche positività dottrinale che farebbe pensare
a una caduta nel dommatismo (cfr. CIC. Lucull XLII, 131; DAL PRA, Lo
scetticismo greco, p. 250).
10. In De fin. V, VII, 18.
11. Stoic. vet. frag. III, 44 Arnim; DIOG. LAERT. VII, 87. Per le
obiezioni di Carneade a questa posizione assunta soprattutto da
Antipatro cfr. PLUTARCH. De comm. not. 26, 1071c. L’origine
aristotalica deirargomentazione Carneadea è ben sottolineata dal Dal
Pra (Lo scetticismo greco, pp. 257-9).
12. Fu probabilmente un seguace critico dell’Epicureismo (cfr. CIC.
De fin. II. XI,34).
13. Fu, forse, anch’egli un epicereo (cfr. Cíe. Ttisc. V, XXX, 85).
14. Si tratta, probabilmente, di Diodoro di Tiro, seguace di
Critolao (cfr. Krit. fr. 16 Wehrli; CLEM. Strom. I, 301 B).
15. Cicerone, soprattutto sulle orme di Antioco, unifica i due
indirizzi.
16. Questa erronea valutazione della Stoa è frequente in Cicerone e
risale ad Antioco.
17. 68 A 169 Diels-Kranz.
18. Per l’accostamento di questi tre filosofi vedasi la sezione di
questa raccolta riservata al pensiero etico di Pirrone.
19. Ossia dei primi Accademici e Peripatetici.
20. Stoic. vet. frag. I, 363 Arnim. Varrone (Reliq. Sesqueulixes fr.
XXIV, VIII, 18 Riese) osservava: «Una via fu percorsa da Crisippo
sotto la guida della virtù, e questa era nobile; un’altra la
passeggiò Carneade, seguendo i beni del corpo; …essa guastò
Carneade».
21. Già mossi contro il cirenaico Aristippo e il peripatetico
Ieronimo.
22. Come è detto nella divisione Carneadea (De fin. V, XII, 20). II
Long (Carneades and the Stoic Telos, p. 74), identifica questa
posizione di Carneade con quella di Callifonte; l’errore del Long è
giustamente rilevato dal Dal Pra (Lo scetticismo greco, p. 251 n.).
23. È Catone Uticense, che nel De finibus patrocina la causa della
Stoa.
24. L’eredità dialettica di Aristotele era stata raccolta piuttosto
dagli Stoici (soprattutto da Crisippo) che dai Peripatetici
post-teofrastei.
25. Nonostante la recisa afíermazione di Catone, è probabile che
questa insistenza sia stata fatta piuttosto dai seguaci di Antioco
che da Carneade. Questi si limitava solo a scovare le contraddizioni
dell’etica stoica, la quale avrebbe dovuto o attenersi al rigorismo
di Aristone oppure piegarsi all’etic più mondana del Peripato (cfr.
PLUTARCH. De comm. not. ii, 1064 b-c).
26. Cirenaici, Epicurei e Ieronimo.
27. Accademici, Peripatetici e Stoici.
28. Accademici e Peripatetici.
29. Stoici.
30. In contrasto con i «fisici» (cfr. XENOPHON. Mem. I, i, 6).
31. Ossia l’indirizzo neo-accademico.
32. In base all’ποχή introdotta da Arcesilao.
33. Cfr. CIC. De fin. III, XVI, 54; PLUTARCH. De comm. not. XXVII, í
34. Si trattava di una Consolatio (παραμυϑητιóς) forse sullo stile
del De dolore di Crantore.
35. Stoic. vet. frag. II, 487 Arnim.
36. Sono versi dell’Hypsipyle (fr. 757 Nauck).
37. Stoic. vet. frag. III, 159; Diog.42 Arnim.
38. Probabile allusione a Panezio ed a Posidonio.
39. Cosi Cicerone, con qualche forzatura che forse è da attribuire
ad Antioco di Ascalona, fa quasi conciliare pienamente Carneade con
gli ideali del ητοριóς βίος.
L’antilogia della giustizia
a) Dal discorso di Furio Filo a favore dell’ingiustizia
(CICERONE, De rep. III, V-XX, 8-30, passim)
E Filo1 osservò: «Una causa davvero molto nobile mi è stata
accollata! Mi volete far prendere le difese dell’ingiustizia!»2
«Ma dovrei paventare – ribatté Lelio – una sola cosa: che tu,
nell’esporre quelle obiezioni che si sogliono addurre contro la
giustizia, sembri pensarla davvero cosi, pur essendo – proprio tu –
quasi l’único modello delFantica probità e dell’antica lealtà e pur
essendo ben nota la tua consuetudine di discutere il pro e il contro
di ogni questione, perché tu reputi che con questo metodo si scopra
la verità»3.
Allora Filo: «Suvvia – disse – farò la vostra volontà e con piena
consapevolezza mi insudicerò! E poiché i cercatori d’oro pensano di
non dover evitare di infangarsi, anche noi non dobbiamo, ovviamente,
scansare alcun fastidio nella ricerca della giustizia, che è più
cara dell’oro4. E volesse il cielo che, come mi accingo ad
utilizzare il discorso di un altro5, così mi fosse lecito servirmi
della bocca di un altro! Adesso Furio Filo deve esporre quelle
argomentazioni che Carneade, uomo greco e bene avvezzo (a dosare
adeguatamente)6 le parole a favore della sua tesi, (pur parlando con
la massima profusione, non riusci affatto a rendere accette ai
nostri gentiluomini di un tempo. Voi ricordate, io credo, che
Carneade, mandato dagli Ateniesi a Roma come ambasciatore sotto il
consolato di Pubblio Comelio e di Marco Marcello, mentre erano ad
ascoltarlo Galba e Catone ed eravate presenti con me anche voi,
Scipione e Lelio, apri un dibattito sulla giustizia)»7.
…«perché possiate dare una risposta a Carneade, che sovente ha il
vezzo di prendersi giuoco delle cause migliori con ingegnosi
cavilli»8.
Carneade9, filosofo della setta accademica, la cui incisività vi
nelle discussioni, la cui eloquenza, la cui acutezza d’ingegno
potranno essere intuite da chi non lo conosce direttamente in base
all’elogio fattone da Cicerone o a quello fattone da Lucillo, presso
il quale Nettuno, discutendo di un problema molto difficile, dice
che esso non può essere svolto con chiarezza «neppure se l’Orco ci
restituisse Carneade in persona»10–, questo Carneade, dunque, che
era stato mandato da Atene a Roma quale ambasciatore, fece una ricca
discettazione sulla giustizia, mentre erano ad ascoltarlo Galba e
Catone Censorio, i più grandi oratori di quell’epoca. Ma egli
stesso, il giorno seguente, capovolse la tesi del suo discorso con
una tesi contraria ed elimino quella giustizia che il giorno
precedente aveva esaltata, non certo con Fausterità di un filosofo,
il cui modo c pensare deve essere fermo e stabile, ma quasi con una
sort di esercitazione retorica, per fornire argomentazioni a ciascun
delle due partí contrastanti: cosa che egli era solito fare all
scopo di poter confutare gli altri, qualunque asserzione es:
facessero.
Quella sua discettazione, nella quale egli intese abbattere la
giustizia, è riportata a memoria da Lucio Filo presso Cicerone, per
introdurre – a mio avviso – in un dibattito di filosofia politica la
difesa e la lode di quella giustizia senza la quale egli pensava che
uno Stato non possa reggersi.
Carneade, però, allo scopo di confutare Platone e Aristotele,
patrocinatori della giustizia, raccolse nella discettazione della
prima giornata tutte quelle argomentazioni che si adducevano11 in
difesa della giustizia, per poterla, poi, abbattere, come in realtà
fece.
A dire il vero12, la massima parte dei filosofi – ma soprattutto
Piatone e Aristotele – ha fatto molte affermazioni in merito alla
giustizia, patrocinando ed innalzando con le più alte lodi quella
virtù, perché essa, a parer loro, assegna a ciascuno il suo e
preserva Fequità in tutte le cose. Anzi, mentre tutte le altre virtù
sono quasi silenziose e chiuse in se stesse, solamente la giustizia
sarebbe tale da non appagarsi di se medesima da non restarsene
occulta, ma da estollersi esternamente in tutta la sua interezza e
da essere dedita a beneficare quante più persone sia possibile, e
ciò nel senso che essa troverebbe la sua sede appropriata
esclusivamente nei giudici e nei legittimi detentori del potere e
non già in tutti. Eppure non esiste nessuno fra gli uomini – neanche
fra quelli di più umile condizione e fra i mendicanti – il quale non
possa avere rapporti con la giustizia. Ma poiché costoro ne
ignoravano l’essenza, l’origine e la funzione, attribuirono a pochi
individui quella virtù suprema – ovverosia il sommo di tutti i beni
– e affermarono che essa non va a caccia di nessun tornaconto
personale, ma mira esclusivamente ai vantaggi degli altri.
Né fu senza merito l’intervento di Carneade, uomo di ingegno
acutissimo, per confutare il discorso di costoro e per abbattere una
giustizia che era priva di stabile fondamento, non perché egli
pensasse che la giustizia dovesse essere biasi-mata, ma per
dimostrare che quanti la difendevano non soste-nevano, a proposito
della giustizia, alcuna dottrina stabile e sicura.
Carneade13, dunque, poiché le asserzioni dei filosofi erano deboli,
si assunse coraggiosamente il compito di confutarle, perché capi che
potevano essere confutate. II succo della sua discettazione fu il
seguente: gli uomini hanno sancito le leggi per la loro propria
utilità: ovviamente leggi che sono diverse a seconda degli umani
costumi e che spesso hanno subito modifiche presso i medesimi gruppi
di uomini a seconda delle circostanze temporali, data la non
esistenza di alcun diritto naturale14. Del resto tutti gli uomini e
gli altri animali mirano al proprio vantaggio sotto la guida della
natura: ragion per cui o non c’è alcuna giustizia oppure, se ce n’è
qualcuna, si tratta di somma stoltezza, giacché essa è nociva a se
stessa nel badare agli altrui vantaggi15.
Carneade vi introduceva anche la seguente argomentazione: tutti i
popoli che avevano giocato il ruolo di grande potenza, ed anche glí
stessi Romani, che avevano il dominio su tutta la terra, se
volessero essere giusti – vale a dire se restituissero la roba degli
altri –, si ridurrebbero a vivere nelle capanne e a giacere nella
povertà e nell’indigenza.
Prima di tutto, inoltre, stimar della patria i vantaggi16.
Se17 si toglie la discordia di mezzo agli uomini, non resta più
nulla assolutamente. Difatti i vantaggi della patria non sono altro
che gli svantaggi di un’altra città, e ciòvale quando si strappano
con la violenza agli altri i loro territori e si accrescono i
propri, quando si rafforza la propria egemonia politica e si rendono
più consistenti le entrate del fisco.
Pertanto, chiunque abbia procurato alla patria questi «beni» – così
di solito vengono chiamati –, ossia chiunque abbia impinguato di
danaro le casse dello Stato con la distruzione di città e con lo
sterminio di intere popolazioni, chiunque abbia conquistato campi da
coltivare e abbia resi più ricchi suoi concittadini, viene
gloriosamente innalzato alle stelle e si crede che in questo
consista la virtù somma e perfetta.
In siffatto errore cadono non solo la gente del popolo e gli
ignoranti, ma persino i filosofi, i quali danno anche precetti per
perpetrare Fingiustizia, affinché una folle disonestà abbia anche il
prestigioso supporto della cultura18.
Tutti quelli che esercitano sul popolo il diritto di vita di morte
sono tiranni, ma preferiscono farsi chiamare re col nome
dell’Ottimo19 Giove. Quando, invece, fondandosi tranquillamente
sulle loro ricchezze o sulla nobiltà dei loro natali o su altre
risorse, tengono in mano il governo, si ha una con sorteria, ma essi
si fanno chiamare ottimati. Se, infine, il popolo ha il massimo
potere e tutto viene gestito secondo il suo arbitrio, si parla di
liberta, ma, in realtà, si ha il libertinaggio20. Quando, però,
sussiste timore reciproco e il singolo ha paura del singolo e la
classe sociale della classe sociale, allora, poiché nessuno ha
fiducia in se stesso, si vien quasi a stabilire un patto tra il
popolo e i potenti: dal che vien fuori quella forma mista di governo
che Scipione menzionava21. Madre della giustizia invero, non è né la
natura né la volontà, bensi la condizione di impotenza22. Infatti,
dovendo fare una scelta tra queste tre cose – ossia tra il fare
ingiustizia senza subirla, il fare ingi stizia subendola anche, e il
non farla né subirla – la cosa migliore è farla, possibilmente senza
incorrere in una punizione la seconda è il non farla né subirla,
mentre la cosa più miserevole è stare a battagliare tra il fare e il
subiré ingiustizia ad ogni piè sospinto. Ma chi non (potrà)23
conseguiré la prima cosa (si deve appagare della seconda, vale a
dire del non fare né subiré ingiustizia).
La saggezza impone di accrescere il proprio potere, di accumulare
maggiori ricchezze, di estendere il territorio dello Stato
(altrimenti quale giustificazione troverebbe il celebre elogio che
si trova scolpito sui monumenti dei più grandi generali «estese i
confini dell’impero», se non vi avesse aggiunto qualcosa
strap-pandola alla roba degli altri?), comandare su quante più genti
è possibile, godere di ogni voluttà e di ogni potenza, fare da re,
spadroneggiare; la giustizia, al contrario, comanda di risparmiare
tutti, di aver cura del genere umano, di rendere a ciascuno il suo,
di non toccare le cose sacre, quelle pubbliche, quelle degli altri.
Quali risultati ottieni tu, se obbedisci alla saggezza? Ricchezze,
potere, risorse, pubbliche cariche, comandi militari, regni sui
privati cittadini e sui popoli…
A questo punto24 Carneade metteva da parte gli argomenti generici e
passava a quelli specifici.
L’uomo buono, egli diceva, se avesse un servo sempre pronto a
fuggire o una casa insalubre e pestilenziale – difetti noti a lui
solo – e li mettesse ufiicialmente in vendita, dichiarerebbe che sta
vendendo un servo pronto alla fuga e una casa pestilenziale o ne
terrebbe all’oscuro il compratore? Se lo dichiara, sarà, si,
giudicato uomo onesto, perché non ingannerà, ma tuttavia stolto,
perché o venderá a buon mercato o non venderá affatto. Se, invece,
lo terra nascosto, sarà, si, saggio, perché baderà ai propri affari,
ma disonesto, perché ingannerà.
Al contrario, se un uomo onesto troverà qualcuno che crede
erroneamente di vendere oricalco, mentre in realtà si tratta di oro,
o di vendere piombo, mentre in realtà si tratta d’argento, starà
zitto per comprare la merce a buon mercato oppure lo farà noto per
pagarla a caro prezzo? Sembra una stoltezza comprarla a prezzo
elevato!
Da questi esempi Carneade voleva far capire che chi-è giusto-e-buono
è stolto, mentre chi-è-saggio è disonesto, ma che, tuttavia, è pur
possibile essere contenti della povertà senza subire un’estrema
rovina25.
Ma, poi, egli risaliva a situazioni più importanti, nelle quali
nessuno potrebbe essere giusto senza mettere a repentaglio la
propria vita.
Senza dubbio è un atto di giustizia non uccidere un altro uomo, non
toccare nemmeno la roba d’altri. Che cosa, allora, farà il giusto,
se avrà fatto naufragio e un altro di forze più deboli delle sue si
sarà aggrappato ad una tavola? Non lo strapperà da questa tavola per
montarvi lui e salvarsi aggrappandosi ad essa, specialmente se in
mezzo al mare non ci sarà alcun testimone? Se egli è saggio, lo
farà, giacché, ove non lo facesse, egli stesso dovrebbe perire. Se,
invece, preferirà morire piuttosto che mettere le mani addosso
all’altro, sarà indubbiamente giusto, ma stupido, perché non
risparmia la propria una, mentre risparmia quella altrui.
Allo stesso modo, nel caso che la schiera dei propri commilitoni sia
stata sgominata in battaglia e i nemici si siano lanciati
airinseguimento, se il tanto celebrato uomo giusto si imbatte in
qualche ferito seduto a cavallo, lo risparmierà per essere ucciso
lui stesso oppure lo getterà da cavallo per potere lui stesso
sfuggire al nemico? Se farà questa seconda cosa, sarà; saggio, ma
anche disonesto; se non la farà, sarà giusto, ma non potrà non
essere stolto.
Così, dunque, Carneade, dopo aver suddiviso la giustizia in due
parti opposte, chiamava «civile» una delle due e «naturale»26
l’altra; ma, subito dopo, le metteva a soqquadro entrambe, perché
quella «civile» è, sì, saggezza, ma giustizia; non è, mentre quella
«naturale» è, si, giustizia, ma non è saggezza. E queste
argomentazioni sono certamente argute e velenose e tali che Tullio
non fu in grado di confutarle. Infatti, nel riportare la risposta
che Lelio dà a Furio in difesa della giustizia, le ha saltate, senza
fare la controargomentazione. Sicché pare che lo stesso Lelio abbia
difeso non la giustizia «naturale», che era stata accusata di
stoltezza, bensi quella «civile», che Furio, pur ammettendo che si
identificasse con un lato della saggezza, aveva, alla fin dei conti,
considerata ingiusta.
b) Dal discorso di Lelio a favore della giustizia.
(CICERONE, De rep. III, XXII-XXVI, 33-38 passim)
La vera legge27 s’identifica con la retta ragione, conforme a
natura28, estendentesi a tutti gli uomini, costante, eternamente
valida, che col suo divieto ci allontana dalla frode. Essa,
comunque, non impone invano agli uomini dabbene gli ordini e i
divieti, ma con questi ordini e con questi divieti non riesce a
smuovere i disonesti.
A questa legge nessuna modifica è lecito apportare con aggiunzioni o
con deroghe, né essa può essere abrogata nella sua interezza; ed è,
d’altra parte, impossibile che noi ci sciogliamo da questa legge
mercé l’intervento del senato o del popolo; né c’è bisogno di
chiamare come suo chiosatore o interprete Sesto Elio29, né vigerà
una legge a Roma ed un’altra ad Atene, una in questo momento e
un’altra in avvenire, ma un’unica legge eterna ed immutabile30
abbraccerà tutte le genti in ogni tempo, e un unico Dio sarà, per
così dire, il maestro comune e il signore di tutti. È lui che ha
creato questa legge, Tha meditata e l’ha sancita, e chi non obbedirà
ad essa, fuggirà se stesso e, avendo rinnegata Fumana natura,
pagherà – già con questo – il fio più grave, ancorché si sia
sottratto a qualsiasi altra pena ritenuta atroce …
In questi medesimi libri31Sulla repubblica si discute certamente con
grande acume e vigore contro l’ingiustizia e in difesa della
giustizia.
Poiché in un primo momento erano state prese le parti
dell’ingiustizia contro la giustizia e si sosteneva che lo Stato non
può essere stabile né può accrescersi se non per mezzo
dell’ingiustizia, e si era, di conseguenza, posto come punto fermo
che è ingiusta la servitù degli uomini rispetto ad altri uomii che
fanno da dominatori e che, tuttavia, una città egemonica e
détentrice di un grande potere politico non potra esercitare
quest’ultimo sulle provincie senza perpetrare ingiustizia, allora,
in risposta, sono state prese le parti della giustizia col soste
nere che è conforme a giustizia il vantaggio che quegli uomini
traggono dallo stato di servitù e che quest’ultimo sussiste per la
loro utilità, purché, però, esso sussista in maniera corretta, vale
a dire quando si toglie ai malvagi la liberta di arrecare torti, e
costoro, una volta soggiogati, staranno meglio, perché erano stati
in condizioni peggiori quando non erano ancora soggiogati32.
E per rafforzare quest’argomentazione è stato introdotto un celebre
esempio, quasi tratto dalla natura, e si e detto: («Non scorgiamo,
forse, che la stessa natura ha conferito il potere assoluto33 a
chiunque sia il migliore con sommo vantaggio dei deboli?)34 Perché,
allora, Dio comanda sull’uomo, e l’anima sul corpo, e la ragione
sulla libidine (e sull’incontinenza) e su tutte le altre parti
difettose della stessa anima?
Ascolta35 le più esplicite affermazioni fatte da Tullio nel terzo
libro Sulla repubblica nel trattare della causa del potere politico.
Ma bisogna riconoscere, egli dice, i caratteri che differenziano il
comandare dal servire. Difatti, come si dice che l’anima comanda sul
corpo e si dice, altresì, che essa comanda pure sulla libidine, ma
sul corpo a guisa di re che dà ordini ai suoi cittadini o a guisa di
un padre che dà disposizioni ai suoi figli, mentre sulla libidine
essa si impone a guisa di un padrone che esercita il potere sui
servi per il fatto che la tiene a bada e l’infrange, allo stesso
modo il potere dei re, dei capi militari, dei magistrati, dei
patrizi, dei popoli presiede ai cittadini ed agli alleati, come
l’anima presiede al corpo, mentre i padroni ten-gono sotto grave
giogo i servi, come la parte migliore dell’anima – vale a dire la
sapienza – soggioga le parti difettose e impotenti della medesima
anima, come gli atti di libidine, di ira e tutte le altre
passioni36.
Non forse37 Cicerone, nei libri Sulla repubblica, discutendo della
differenza dei poteri politici e traendo dalla natura dell’uomo
un’analogia di questo fatto, ha affermato che «sulle membra del
corpo viene esercitato lo stesso potere che si esercita sui figli,
per la facoltà che esse hanno di obbedire, mentre le parti viziose
dell’anima vengono tenute, come servi, a bada da un potere più
energico?».
Supponiamo38, afferma Carneade, che tu sappia che una vipera sta
appiattata in un certo luogo e che su di essa, senza avvedersene,
voglia mettersi a sedere un tale la cui morte sarà per te
vantaggiosa; tu farai un’azione disonesta, se non lo av-viserai di
non sedersi. Eppure questa tua azione disonesta non verrebbe punita:
nessuno, infatti, ti potrebbe incolpare che tu lo sapevi. Ma sto
parlando troppo! Insomma: è ben palese che, se l’equità, la lealtà,
la giustizia non hanno come punto di partenza la natura e se tutte
queste cose vengono rapportate esclusivamente all’utile che ne
deriva, risulterà impossibile trovare un uomo onesto. Ma su questi
argomenti si è soffermato molto Lelio nei miei libri Sulla
repubblica39.
1. Come Glaucone in PLAT. Resp. II,361 f, cosí qui Furio Filo, uomo
di specchiata integrità morale secondo Cicerone, deve patrocinare
una causa che egli stesso non eondivide e che costituisce la seconda
parte dell’antilogia di Carneade discusse durante la sua ambasceria
a Roma nel 155 a. C. (cfr. PLUTARCH. Cato maior 23). Le antilogie
Carneadee intendevano anche, forse, opporsi a conferenze che
contemporáneamente venivano tenute dallo stoico Diogene di Babilonia
in Roma per propagandare Tidealismo cosmopolitico di quella scuola
(DAL PRA, Lo scetticismo greco, pp. 260-1; CREDARO, Lo scetticismo
degli Accademici, II, pp. 156 segg.).
2. La tesi era la seguente: «Lo Stato non può essere gcvernato senza
l’ingiustizia».
3. Filo, che era seguace delle dottrine stoiche, accettava il metodo
accademico dell’antilogia per mero scopo dialettico.
4. Cfr. PLAT. Resp. I, 336 f.
5. Ossia di Carneade.
6. L’integrazione fu suggerita dal Mai.
7. L’ampia integrazione è ancora del Mai.
8. Per quest’abilità di Carneade, che avrebbe indispettito Numenio,
cfr. Cic. De or. II, XXXVIII, 161; De leg. I, XII, 19.
9. Il passo è tratto da LACTANT. Div. inst. V, XIV, 3-5.
10. LUCIL. I, fr. 31 Marx = 35 Warmington.
11. In particolare da Platone in Resp. II, 3580360e e da Aristotele
n perduto trattato IIερ διαιοσύνης.
12. Il passo è tratto da LACTANT. Epitom.50 [55] 5-8.
13. Da LACTANT. Div. inst. V, XVI,2-4.
14. Le argementazioni sono analoghe a quelle del decimo tropo
attribuito a Enesidemo (cfr. SEXT. EMP. Pyrrh. hyp. I, 145-163;
DIOG. LAERT. IX,83-84).
15. Cfr. PLAT. Resp. I, 348c segg.
16. LUCIL. ir. 1337 Marx = 1207 Warmington.
17. Da LACTANT. Div. inst. VI, VI, 19 et 23.
18. Non si può non sottolineare la quasi rivoluzionaria modernità di
questa tesi Carneadea a proposito della cultura messa a ser vizio
della classe dirigente. Ci sembra di udire un marxista vissuto due
millenni prima di Karl Marx!
19. Il termine «Massimo» che di solito si accompagna a Giove è qui –
come in CIC. De rep. I, 50 – soppresso per sottolineare il carattere
assolutamete benefico del nume.
20. In tal modo non sussiste nessuna delle tre forme politiche
autentiche (monarchia, aristocrazia e politeia-democrazia), ma si
hanno solo le loro rispettive degenerazioni: così Carneade demolisce
le teorie aristoteliche di POLIT, 1).
21. Cfr. Cic. De rep. I, 39, ove si correggeva il pessimismo
politico di POLIB VI, 5, 7.
22. È la medesima concezione del sofista Callicle (cfr. PLAT.
Gorg.483b).
23. Questa e la seguente integrazione sono del Mai sulla base di
PLAT. Resp. II, 358e-359a.
24. Da LACTANT. Div. inst. V, XVI, 5-13. Per analoghi casi di
coscienza cfr. CIC. De off. III, XIII, 54; XXIII,89.
25. Cfr. CIC. De off. III, XXIII, 89 segg.
26. Il vecchio contrasto sofistico tra φύσις e νóμος, da cui era
scaturita, tra l’altro, la tragedia di Antigone, viene qui risolto
quasi diabolicament a favore del νóμος che pur rimane la
contraffazione storicamente spregiudicata del diritto naturale.
27. Da LACTANT. Div. inst. VI, VIII, 6-9. Il discorso di Lelio in
difesa della giustizia era fondato sulla identità stoica di
sentimento morale e di recta ratio (cfr. AUGUSTIN. De civ. Dei, XIX,
21).
28. Cfr. CIC. De leg. I, VII, 23.
29. In CIC. Brut. XX, 78 Sesto Elio Peto è considerato come il
modello della giurisprudenza romana.
30. Carneade si rifà a SOPH. Antig. 454 segg. forse attraverso
ARISTOT. Rhet. I, 1373b 5-13, 1375a 31-b2.
31. Da AUGUSTIN. De civ. Dei, XIX, 21.
32. Probabile fonte di queste considerazioni Carneadee era ARISXOT.
Polit. I, 1254a.
33. Per il concetto di dominatus cfr. PLAT. Legg. IV, 714I.
34. Questa e la segmente integrazione sono suggerite da AUGUSTIN.
Contra Julian. Pelag., IV, 12, 61 T.
35. Da AUGUSTIN. Contra Julian. Pelag. IV, 12, 61 T, X p. 613 Ben.
36. Cfr. CIC. Tusc. II, XX, 47. Probabile fonte di queste
considerazioni Carneadeo-ciceroniane è ARISTOT. Polit. I, 1254a 10;
VII,2, 3; III, 6.
37. Da AUGUSTIN. De civ. Dei, XIV, 23.
38. Da Cic. De fin. II, XVIII, 59.
39. Per analogue compiaciute autocitazioni ciceroniane cfr. De leg.
Ill, V, 12; XIV, 32; XVII, 38. II presente pensiero si trova
ribadito in De leg. I, XIV, 40-41. Per l’innato senso della
benevolenza in contrasto con certe dottrine epicuree cfr. De leg. I,
28-34; Ad Att. VII, 2, 4.
Sentenze Carneadee (PLUTARCO, Quom. adul. ab am. internosc. 15,
58 f)
Carneade soleva dire che i figli dei ricchi e dei re imparano solo a
cavalcare, ma non imparano nessun’altra cosa in maniera perfetta:
essi, infatti, durante le loro esercitazioni vengono adulati dal
maestro con le lodi e dal competitore con atti di sottomissione e di
resa; il cavallo, invece, non sapendo e no curandosi se si tratti di
un semplice mortale o di un personaggio autorevole, di un ricco o di
un povero, disarciona quelli che non riescono a farsi portare in
groppa.
(PLUTARCO, De tranq. an. 16, 470 e-f)
Invero Carneade soleva rammentare che in faccende di grande rilievo
l’inatteso è quello che completamente e totalmente spinge al dolore
e allo scoraggiamento1.
(PLUTARCO, De tranq. an. 19, 477 b)
Non è forse vero che – come soleva dire Carneade – gl’incensieri,
anche se siano stati svuotati, conservano il loro profumo per lungo
tempo2 e che nell’anima dell’uomo assennato le belle azioni lasciano
dietro di sé la rimembranza ognora gradita e fresca, che irriga di
gioia e rimane fiorente, mettendo in dispregio quelli che si
rattristano ed offendono la vita come una landa di calamita o come
un luogo di esilio che venga qui additato alle anime nostre?3
(PLUTARCO, Contra Epic. beat 4, 1089c)
Non è verosimile che persone moderate e temperanti perdano il tempo
a pensare a cose siffatte né a quelle per cui Carneade prendeva in
giro Epicuro4, ossia a raccogliere quasi da giornali murali queste
notizie: «Quante volte ho avuto convegno con Edeia o con Leonzio?»5
oppure «Quando ho bevuto vino di Taso» o «In quale ventesimo giorno
del mese6 ho fatto il più sontuoso banchetto?».
1. Cfr. PLUTARCH. De virt. mor. 10, 449e; De sust. ira 16, 463d.
2. Cfr. HOR. Epist. I,2, 69-70.
3. Per l’amore di Carneade alla vita cfr. DIOG. LAERT. IV,64.
4. Fr. 436 Usener.
5. Per le donne nel giardino di Epicuro cfr. DIOG. LAERT. X, 4, 7,
23; PLUTARCH. Contra Epic. beat. 16, 1097d-c; An recte dictum sit
lat. esse viv.4, 1128b.
6. Secondo Diogene Laerzio (X, 18) il 20 di ogni mese nel Giardino
si dava un pranzo in onore di Metrodoro e, dopo la morte del
maestro, in onore dello stesso Epicuro.
CLITOMACO
Clitomaco di Cartagine (187-110 a. C.) trasmise in oltre
quattrocento scritti il pensiero di Carneade, trattando con pari
abbondanza i temi più importanti e quelli più facili ad essere
diffusi tra un vasto pubblico. Nessuno meglio di lui era stato a
contatto con quell’uomo difficile che fu Carneade1; eppure, con
lodevole modestia, egli talvolta confessava di non aver bene inteso
che cosa il suo maestro effettivamente pensasse2. Ebbe una
particolare propensione per l’ἱστορία e per il metodo analitico3;
con la sua accurata e scrupolosa conoscenza dei vari «sistemi»
filosofici4 egli, senza volerlo, cominciò a spianare il terreno per
un accostamento tra gli indirizzi, come del resto, dall’opposta
sponda stoica, faceva anche il suo humanissimus coetaneo Panezio e
come avrebbe continuato a fare, dopo qualche decennio, l’
«enciclopedico» Posidonio di Apamea5.
Anche per Clitomaco l’ἐποχή rimane un punto fermo, come già per
Carneade; ma – cosa che era già implicita nel probabilismo di
quest’ultimo – essa non vietava categoricamente al sapiente di
formulare opinioni non aventi in sé nulla di assoluto, ma
limitantisi alle questioni della vita ordinaria6. E quest’ultima
ammissione portava ad un tendenziale distacco dalle posizioni
rigidamente astensionistiche di un Pirrone o, anche, di un Arcesilao
e induceva ad affermare oppure a negare non in modo perentorio, ma
solo in base al numero maggiore o minore delle probabilità:
l’Accademia, insomma, cominciava a non appagarsi più della
paradossalità del scetticismo, e ne è una conferma la polemica
condotta da Clitomaco contro Metrodoro di Stratonica, la quale
cominciò a causare, nell’interno della scuola, un certo scompiglio
che si sarebbe riacutizzato ai tempi di Filone di Larissa e di
Antioco di Ascalona7.
Notevole fu anche la battaglia ingaggiata dal pensatore cartaginese
contro la retorica8: egli si atteneva, anche lessicalmente, alla
posizione platonica del Gorgia, ma in realtà la sua polemica aveva
un respiro piuttosto limitato, giacché prendeva di mira l’eloquenza
delle assemblee e dei tribunali e non il concetto stesso di
retorica: implicitamente, infatti, le posizioni del Gorgia venivano
sussunte da quelle del Fedro, ove la filosofia, intesa soprattutto
come dialettica, si attribuiva le più autentiche prerogative di ars
dicendi9.
In sostanza, dopo Carneade, l’Accademia attraversava, ancora una
volta, una delle sue tante crisi. Essa si andava diffondendo anche
fuori di Atene e della stessa Ellade e, forse, aspirava ad un
proprio ecumenismo in rivalità con la Stoa10; ma, in realtà, ci
furono in essa divisioni in correnti al seguito di diversi
personaggi di rilievo (Agnone di Tarso11, Carmada12, Melanzio di
Rodi13, Eschine di Napoli14, Metrodoro di Stratonica15 e molti
altri), finché Filone di Larissa senti il bisogno di un nuovo
rimescolamento delle carte e di dare all’Accademia una sua quarta
fondazione.
1. I rapporti personali di Clitomaco col maestro subirono
un’interruzione, non sappiamo per quale motivo, intorno al 140 a. C,
quando il Cartaginese si staccò dairAccademia e fondò una sua
propria scuola nel Palladio (Acad, phil. ind. here, col. xxv, 8).
Quando Carneade nel 137, a causa della sua vecchiaia, si dimise
dallo scolarcato, gli succedette un secondo Carneade, figlio di
Polemarco, e quando anche questi mori nel 131/o, gli succedette
Cratete di Tarso (Acad. phil. ind. here, coll. xxv, 42; xxx, 8).
Solo dopo la morte del grande Carneade, nel 129 a. C, Clitomaco fu
richiamato nell’Accademia e ne assunse finalmente quella direzione
di cui più di ogni altro era degno (Acad. phil. ind. here, coll.
xxv, 11; xxvi, 3). Per più dettagliate discussioni di ordine
cronologico vedasi H. VON ARNIM, Kleitomachos, in «RE», XI, 1, coll.
656-7. Secondo Stobeo (Flor. VII, 55; vol. I, p. 325, 10 Hense),
Clitomaco sarebbe morto suicida per sottrarsi alle sofferenze di una
grave malattia.
2. Cfr. CIC. Lucull. XLV, 139.
3. Il che gli viene rimproverato da Sesto Empirico (Adv. phys. I,
1). L’accostamento alla metodologia e alla problematica dei
Peripatetici, specialmente di Critolao, non dovette limitarsi alle
polemiche anti-retoriche (cfr. SEXT. EMP. Adv. math. I, 20), ma
estendersi alle varie «parti» della filosofia.
4. Il risultato di queste ricerche storiche quasi certamente confluÌ
nell’opera ΠερÌ αἰρέσεων, che dovette essere una vera e propria
storia della filosofia in chiave Carneadea (cfr. CREDARO, Lo
scetticismo degli Accademici, I, pp. 155 segg.).
5. Per una singolare coincidenza Panezio assunse, alla morte di
Antipatro, la direzione della Stoa nello stesso anno in cui
Clitomaco assunse quella dell’Accademia. La storia filosofica, poi,
per Panezio diventò anche storia politica e variamente umana (cfr.
POHLENZ, La Stoa, I, pp. 391-2, 396-418, 403-5; J. M. RIST., Stoic
Philosophy, Cambridge, 1969, pp. 186-200). Per quanto, poi, concerne
le posizioni anti-crisippee di Posidonio, dovute anche all’influena
dell’Accademia, vedansi dello stesso POHLENZ, op. cit., I, pp.
176-8, 288, 293, 459-61 e il capitolo di J. K. KIDD, Posidonius on
Emotions in A. A. LONGProblems in Stoicism, London, 1971.
6. Cfr. CIC. Lucull. XXXII, 104; DAL PRA, Lo scetticismo greco, pp.
292-3.
7. Cfr. Cic. Lucull VI, 17; XXIV, 78; DAL PRA, op. cit., pp. 296-8.
Che i rilievi di Metrodoro contro Clitomaco già anticipino la
posizione meno rigorosamente scettica di Filone di Larissa è
sostenuto dal Brochard (Les sceptiques grecs, p. 188). Agostino
(Contra Acad. III, XVIII, 41) rafforzava sua ipotesi interpretativa
di tutta la storia dell’Accademia rifacendosi ad una tradizione, a
noi non altrimenti nota, secondo cui Metrodoro sarebbe stato il
primo a confessare che gli Accademici non ammisero la
incomprensibilità come loro punto di partenza teoretico, ma
l’assunsero come un’arma necessaria per combattere contro gli
Stoici. Per certe influenze clitomachee su Antioco vedasi LUCK, Der
Akademiker Antiochos, pp. 13, 53, 61.
8. Che nell’età di Clitomaco quasi tutti i seguaci dell’Accademia
fossero impegnati nella lotta anti-retorica sappiamo, tra l’altro,
anche da Quintiliano (II, 17, 15) e da Ateneo (XIII, 602c). Non è da
escludere che la straordinaria eloquenza di Carneade e il fascino
che essa esercitava sugli oratori comuni che abbandonavano le scuole
di retorica per ascoltarlo (cfr. DIOG. LAERT IV, 62) inducessero i
pur platonici diadochi di Carneade a fare le debite precisazioni
circa l’uso della parola, ed anche in questo settore i rapporti con
la Stoa non potevano essere che di attrazione-repulsione (cfr.
Pohlenz, La Stoa, I, pp. 512-4).
9. Per gli intimi rapporti e per le differenze intercorrenti tra i
due dialoghi platonici e la posizione aristotelica rinvio a quanto
scrissi in La filosofia della retorica in Aristotele, pp. 6-17.
10. Cfr. POHLENZ, La Stoa, I, pp. 269, 276. La stessa provenienza
intercontinentale dei numerosi Accademici dell’età clitomachea non
poteva non causare un definitivo abbandono della concezione
socratico-platonica della πóλις.
11. L’ingegno di questo scolaro di Carneade fu celebrato da Cicerone
(Lucull. VI, 16) e il suo impegno nel dare spiegazioni sulle lezioni
del maestro è ricordato in Acad. phil. ind. here, col. XXIII, 4. Per
altre notizie vedasi ARNIM, Hagnon, in «RE», VII, 2, col. 2209.
12. Sulle doti di Carmada, sulla sua eloquenza, sulla sua fedeltà a
Carneade persino nelle inflessioni della voce, sulla sua bravura nel
contrastare tutte le opinioni dei filosofi cfr. Cic. Lucull. VI, 16;
De ow. II, LXXXVIII, 360; I, XVIII, 84; Tusc. I, XXIV, 59. Carmada
ebbe una sua propria scuola, che poi passò a Diodoro ed a Metrodoro
di Scepsi (cfr. Acad. phil. ind. here, col. xxxvi, 2; CIC. De or.
XX, 75). Per altri ragguagli vedasi ARNIM, Charmadas, in «RE», X, I,
coll. 2172-3.
13. Per i rapporti di Melanzio con Aristarco cfr. Acad. phil. ind.
here, col. XXX, 4 segg.; per la sua squisitezza nell’esame dei πάϑη
cfr. WILAMOWITZ, Der Tragiker M. von Rhodos, «Hermes», XXIX, pp. 150
segg.; per più ampie notizie si rinvia a GOEDECKEMEYER, Gesch. des
griech. Skeptizismus, p. 101 ad a W. CAPELLE, Melanthios, in «RE»,
XV, 1, coll. 429-31.
14. Cfr. CIC. De or. I, XI, 45; DIOG. LAERT. II, 04; PLUTARCH. An
seni resp. gerenda sit,13.
15. Cfr. DIOG. LAERT. X, 9; Cic. Lucull. VI, 16; De or. I, 45. Per
numerosissimi altri Accademici di cui si sa solo qualche notizia
cfr. BROCHARD, Les sceptiques grecs, pp. 188-9.
Vita di Clitomaco (DIOGENE LAERZIO IV, 67)
Clitomaco era Cartaginese1. Egli si chiamava Asdrubale e professava
filosofia in patria nella propria lingua. Giunto ad Atene già
quarantenne2, divenne discepolo di Carneade; e questi, apprezzandone
la laboriosità, lo iniziò alla cultura greca e ne completo la
formazione spirituale3. E Clitomaco si impegnò tanto nel suo lavoro
da scrivere oltre quattrocento libri4.
Fu successore di Carneade e ne ha spiegato le dottrine massimamente
attraverso i propri scritti.
Fu un uomo che dedico il suo tempo ai tre indirizzi fil sofici:
all’accademico, al peripatetico, allo stoico5.
Timone dileggiava, in genere, gli Accademici in questo modo:
Né degli Accademici la lungaggine insipida6.
Ora, però, noi, dopo aver dato una scorsa ai Platonici
dell’Academia, passiamo ai Peripatetici, che pur da Platone trassero
origine: di essi fu caposcuola Aristotele.
1. Cfr. Acad. phil. ind. herc., col. xxv; MAX. TYR. X, 3.
2. La notizia è da ritenersi inesatta: dall’Index herc., col. xxv
risulta che Clitomaco giunse in Atene all’età di 24 anni (ossia nel
163/2 a. C.) e fece il suo ingresso nell’Accademia quattro anni
dopo.
3. Cfr. PLUTARCH. De Alex. fort. 5, 328 c; STEPH. BYZ. Eth. quae sup
P. 363, 511 Meineke = fr. 57 Wisniewski.
4. Di queste nuoerosissime opere conosciamo solo alcuni titoli: Περὶ
ἐποχῆ in quattro libri (Cic. Lucull. XXX, 98); Περὶ αἱρέσεων, in cui
Tautc esponeva le dottrine delle varie sette filosofiche (DIOG.
LAERT. II, 92); Παραμυϑητιϰóς, ossia una consolatoria ai Cartaginesi
per la caduta della loro patria (Cic. Tusc. III, XXII, 54); uno
scritto al poeta Lucilio ed uno a L. Censorino ed a M. Manilio, nei
quali si esponevano le dottrine gnoseologiche di Carneade (Cic.
Lucull. XXXII, 102-104).
5. Non nel senso che sia stato seguace di tutti e tre gli indirizzi
anche in tempi diversi, bensi da storico di essi e sempre dal punto
di vista aceademico-carneadeo.
6. Fr. 42 Wach. = 35 Diels.
Gli infiniti dettagli di Clitomaco (SESTO EMPIRICO, Adv. pkys. I)
In questa sede noi seguiremo, ancora una volta, lo stes; metodo
d’indagine, senza perderé tempo come i dettagli, con hanno fatto, in
un certo qual modo, Clitomaco e tutto il rimanente coro degli
Accademici1: costoro, infatti, avanzando su un terreno non
pertinente e adducendo le loro argomentazioni per fare concessioni a
dottrine dommatiche diverse dalle loro2 hanno dato alla loro
polemica un’estensione smisurata.
1. Sesto sembra riecheggiare il verso timoniano sopra citato,
ancorché in modo attenuato.
2. In particolare a quelle stoiche, senza le quali gli Accademici
non sapevano trovare la loro stessa ragion d’essere (cfr. DIOG.
LAERT. IV, 62) e verso le quali, dopo Carneade, essi si andarono
orientando sempre di più specialmente ad opera di Antioco.
Critica accademico-clitomachea della retorica (SESTO EMPERICO,
Adv. math. II, 20-43)
E Critolao1 e gli Accademici, tra i quali sono da annoverare
Clitomaco e Carmide2, sono soliti fare anch’essi argomentazioni di
tal genere, dicendo che le città non mettono al bando le arti perché
sanno bene che queste sono utilissime alla vita, così come noi non
cacciamo via di casa i domestici o dal gregge i pastori, mentre al
contrario tutti hanno perseguitato la retorica da ogni parte come se
fosse un grande nemico; e così il legislatore cretese3 vietò che
sbarcassero nelllsola quelli che millantavano la loro bravura nei
discorsi, e lo spartano Licurgo, che era pieno di ammirazione
per Talete di Creta, introdusse a Sparta la medesima legge; e per
questo motivo, molto tempo dopo, gli efori punirono un giovane che
rimpatriava dopo aver studiato la retorica all’estero e allegarono
come motivo della condanna il fatto che egli era versato in discorsi
ingannatori per spingere Sparta fuori della via maestra. E gli
Spartani tennero duro nella loro avversione contro la retorica4 e si
servirono di discorsi semplici e brevi. Perciò anche l’ambasciatore
che essi, dietro votazione, mandarono presso Tissaferne in
opposizione agli Ateniesi, mentre costoro facevano lunghe e
complicate esposizioni, tracciò col bastone sul suolo due linee –
Tuna retta e breve, l’altra lunga e tortuosa – e disse: «O re,
scegli quale tu vuoi di queste due linee», volendo indicare con la
linea lunga e tortuosa la ciurmeria della retorica e con quella
breve ed insieme diritta la semplice e concisa franchezza che essi
conservano, cercando di usare, non solo in patria ma anche con
gli stranieri, un linguaggio privo di espressioni superflue. E una
volta un ambasciatore dei Chii, venuto a fare una richiesta di
esportazione di grano, poiché esponeva questa sua richiesta con
molte lungaggini, fu da loro licenziato senza avere concluso
l’affare, e quando ne fu mandato un altro più conciso (dato che i
Chii erano incalzati dalla necessità), essi consentirono alla
richiesta: e quest’ambasciatore si era limitato a protendere verso
di loro un sacco vuoto e a dire che quello aveva bisogno di farina5.
Tuttavia non mancarono di biasimare anche costui come troppo
loquace, giacché la vista del sacco vuoto già sarebbe bastata
ad indicare la richiesta dei Chii. E il poeta tragico Oone, spinto
da questo episodio, disse degli Spartani6
Sparta non ha bastioni di parole;
Ma, se nuovo Ares con Tarmata irrompa,
Senno comanda e braccio pronto esegue,
volendo significare che gli Spartani sanno prendere le decisioni
migliori e detestano la retorica.
Perciò, se le città mettono al bando non già le arti, ma la
retorica, questa non può essere annoverata tra le arti7. È, pe da
stupidi rovesciare l’argomentazione dicendo che alcune città
elleniche espulsero anche i filosofi. In primo luogo, infatti,
nostri avversari non sarebbero in grado di dare a questa loro
asserzione tali prove quali ne possono dare i loro oppositori nei
riguardi della retorica; in secondo luogo, anche se certe città
espulsero la filosofia, non la espulsero in quanto filosofia, ma in
quanto si trattava di sette particolari, come fecero con quella di
Epicuro che, secondo loro, professava la dottrina del piacere, e con
quella di Socrate che, secondo loro, non teneva in nessun conto la
divinità. Ma le suddette città non respinsero un particolare
indirizzo della retorica e ne accolsero un altro bensi Favversarono
tutta quanta in blocco.
Ma, anche prescindendo da quello che abbiamo detto, se vuole che la
retorica sia arte ad ogni costo, bisogna provare che essa è utile –
come del resto lo sono anche le altre arti o a chi la possiede o
alla città. Ma, in realtà, essa non è vantaggiosa né a chi la
possiede né alla città, come dimostreremo: epperò essa non è arte.
E a chi la possiede essa non è utile, perché in primo luogo
questi – lo voglia o non lo voglia – è costretto ad aggirarsi per le
piazze e le cancellerie e a passare il tempo tra persone malvage e
false e accusatrici di mestiere, abbassandosi a frequentare gli
ambienti che costoro frequentano, e in secondo luogo egli è
costretto aqd avere scarso riguardo per la modestia, per non far
nascere nei più spregiudicati la credenza che egli sia un
sempliciotto da nulla, e deve parlare con tracotanza e mettere
in mostra l’audacia come un’armatura8 per essere terribile agli
sguardi degli avversari, e farsi ingannatore e ciurmatore e
ingolfarsi nei più luridi affari, come adultèri e furti e
ingratitudine verso i genitori, per confutare all’occorrenza queste
cose con uno scopo pratico e per renderle ancora più torbide;
ed egli deve avere, altresì, molti nemici e odiarli tutti,
alcuni perché sono stati suoi avversari, altri perché sanno che chi
si lascia prezzolare, qualora sia adescato da un guadagno più
vistoso, tratterà anche loro alla stessa stregua con cui ha trattato
gli altri; oltre a ciò egli deve trascorrere tutta la sua
esistenza in contese e, a guisa di pirata, deve ora fuggire ora
inseguire, sicché egli, stanco e stufo, deve stare notte e giorno in
mezzo a una caterva di persone che sono nei pasticci, e deve
trascorrere una vita tutta appesantita da lamenti e da lacrime,
mentre alcuni sono menati in carcere, altri agli strumenti di
tortura. Per tutti questi motivi la retorica è nociva a chi la
possiede9.
Ma essa non è vantaggiosa neppure alle città, giacché queste
sono tenute insieme dalle leggi e, come un corpo perisce quando il
respiro vien meno, così anche la città perisce quando si sopprimono
le leggi10. Perciò anche Orfeo, cantore delle usanze umane,
indicando la necessità delle leggi, dice11:
Tempo ci fu che i mortali menavan la vita mangiando
Gli uni le carni degli altri: sbranava il più forte il men forte.
Infatti, poiché non vigeva alcuna legge, ciascuno riponeva diritto
nella forza della mano, e in questo modo,
Proprio di pesci e di belve e ancor di pennuti avvoltoi12,
essi erano spinti
L’uno a far pasto dell’altro, mancando giustizia tra loro13,
finché il dio, mosso a pietà delle loro afflizioni, non inviò dee
legislatrici, che furono ammirate dagli uomini soprattutto perché
eliminarono l’ingiustissima costumanza del cannibalismo e, solo in
secondo luogo, perché esse tranquillizzarono la vita
sommministrando i frutti della terra. Perciò anche i raffinati
Persiani, quando muore il loro re, hanno la consuetudine di
trascorrere nel disordine i cinque giorni successivi, non per il
gusto di imbattersi in infortuni, ma per imparare di fatto qual
grande male sia la mancanza della legge, mancanza che provoca
uccisioni, rapine e altre cose peggiori, e fanno questo allo scopo
di divertare più fedeli custodi del loro sovrano.
Ma la retorica entra in scena proprio in opposizione alle leggi. E
di questo è validissima prova il fatto che presso i barbari, ove la
retorica non esiste affatto o fa solo qualche rara comparsa, le
leggi permangono salde, mentre presso quelli che la coltivano si
verificano rinnovamenti quasi quotidiani di leggi, e in particolare
in Atene, come tra l’altro nota anche Platone, poeta della commedia
antica14: infatti, secondo lui, se uno emigra per tre mesi e poi
ritorna, non riesce più a ravvisare la propria città, ma a guisa di
nottambulo si spinge oltre le mura, come fanno del resto anche i
corrieri a cavallo, giacché la città non è più la medesima per
quanto concerne le leggi. E che la retorica sia contraria alle
leggi risulta da quelle stesse disposizioni che si riscontrano nelle
loro cattive e artificiose «arti», giacché una volta essi esortano a
rispettare alla lettera gli ordinamenti e le parole del legislatore,
ritenendoli chiari non bisognosi di alcuna chiosa, un’altra volta,
invece, capovolgono le cose, affermando che bisogna badare non agli
ordinamenti e alle parole, bensì all’intenzione15. Infatti, colui
che si propone di punire chi solleva un ferro contro un altro,
non si è proposto affatto di punire chi sollevi un ferro in
qualsivoglia modo, giacché potrebbe, ad esempio, trattarsi di un †
anello16 †, né chi sollevi un ferro di qualsivoglia specie, ad
esempio anche un ago; ma se noi cerchiamo di penetrare
nell’intenzione del legislatore, troveremo che egli ha inteso
infliggere una punizione a colui che ha osato uccidere un altro
uomo17. Talvolta, poi, i retori ci esortano a leggere gli articoli
di legge operando qualche taglio e a cavar fuori da ciò che
rimane un significato diverso. E anche spesso essi sottopongono ai
loro «distinguo» espressioni ambigue, favorendo
quell’interpretazione che fa al caso loro; e fanno un’infinità di
altre operazioni che rnirano al sovvertimento delle leggi. Perciò
anche quell’oratore bizantino, al quale fu chiesto come andassero le
leggi di Bisanzio, rispose: «Vanno come voglio io». E come gli
illusionisti 39 ingannano gli sguardi degli spettatori con la
lestezza delle loro mani, così anche gli oratori, mediante raggiri,
fanno perdere ai giudici l’esatta nozione della legge e carpiscono
in tal modo il loro voto. Anzi nessuno, tranne gli oratori, ha avuto
la tracotanza di far passare per legge tutta una serie di
illegittimi decreti. Così Demostene, a furia di gridare e di
strom-bazzare meriti, riuscì a sopprimere la legge che era stata
emanata contro Ctesifonte. E perciò anche Eschine18 dichiara: «Un
mal costume è riuscito ad entrare nei tribunali: l’accusatore deve
difendersi e chi è in stato d’accusa si mette egli stesso ad
accusare, mentre i giudici sono costretti a dare il loro verdetto su
questioni di cui essi non sono stati chiamati a dar giudizio».
E se, allora, la retorica è contraria ale leggi, essa, oltre
a non essere per niente utile, è anche dannosa.
D’altra parte gli oratori che trascinano le folle non si limitano a
procedere contro il bene della città, ma in realtà il demagogo sta
di fronte al vero uomo politico nello stesso rapporto in cui
sta un droghiere di fronte a un medico19. Egli, infatti, perverte le
folle dicendo cose allettanti e con le sue calunnie le aizza contro
i migliori. Con chiacchiere e con parvenze egli promette di fare
ogni cosa per il pubblico vantaggio, ma in realtà offre soltanto
nutrimento malsano, come quelle nutrici che danno ai bambini
soltanto un poco di pappa e poi tutto resto se lo trangugiano
loro20.
Argomentazioni di tal genere sono riportate anche dagli Accademici21
contro la retorica allo scopo d’abbatterla e di dimostrare che la
retorica, se non è utile né a chi la possiede né al prossimo, non
può, di conseguenza, essere considerata come arte.
1. Fr. 34 Wehrli. In Adv. math. II 12 (= fr. 32 Wehrli), Sesto
accosta, sotto questo profilo, Critolao alla più rigorosa posizione
platonica contro la retorica (Gorg. 463 b). Anche Quintiliano (II,
17, 14) notava la differenza tra Critolao ed Aristotele in merito
alla retorica.
2. Le fonti greche (SEXT. EMP. Pyrrh. hyp. I, 220; EUSEB. Praep. ev.
XIV, 4, 15) ci danno Carmide; quelle latine (CIC. De or. II,
LXXXVIII, 360; Tusc. I, XXIV, 59; Quint. XI, 2, 26) ci danno
Carmada.
3. Talete di Creta (cfr. STRAB. X, 4, 19; ATHEN. X, 3, 611 a).
4. Per l’anti-retoricismo degli Spartani cfr. PLUTARCH. Lycurg. 11;
Apopht. lac.231d, 232d, 233b.
5. Cfr. HERODOT. Ill, 46.
6. Fr. 63 Nauck = 107 Blum.
7. Cfr. WEHRLI, Die Schule des Aristoteles, Hefte X, pp. 56-7.
8. Per la concezione della retorica-arma cfr. PLAT. Gorg. X-XI.
9. Parecchie di queste argomentazioni – che sono in gran parte di
schietta marca platonica – si riscontrano in TAC. Dialog. de or at.
XII-XIII. Al contrario i vantaggi che gli oratori traggono dalla
loro attività sono celebrati dal pur scetticheggiante Luciano in
Somn. 10 segg. e in Bis accus., passim. Per un vasto panorama della
questione nell’età Neo-sofistica cfr. H. v. ARNIM, Leben und Werke
des Dio von Prusa, Berlin, 1898, pp. 68 segg.
10. Si sente qui l’eco del Critone platonico.
11. Fr. 292 Kern.
12. HES. Op. 277.
13. Ibid. 278.
14. Fr. 220 Kock.
15. Aristotele (Rhet. II, 1400b 9-16) contempla questo topos
facendolo risalire ad un non meglio identificato Teodoro (cfr. A.
Russo, La fil. della ret. in Arist. p. 131).
16. L’integrazione è di Mutschmann-Mau.
17. Per queste discussioni retorico-giuridiche cfr. Pap. Halensis.,
I, 186 in Dikaiomata, ed. gr. Halensis, Berolini 1913.
18. Adv. Ctesiph. 193.
19. Anche questa quaternio terminorum risale a PLAT. Gorg.
464b-465e.
20. Per questa similitudine cfr. ARISTOPH. Equit. 715-8.
21. Come in § 20.
Filone di Larissa (160?1-79/8 a. C), che forse ebbe anche modo di
udire personalmente Carneade, fu discepolo di Clitomaco2 e, come in
genere i suoi predecessori dell’Accademia, recepì anche
l’insegnamento della Stoa3. Anche per le sue personali
vicissitudini4, egli si inserisce in quell’aspetto ecumenico della
filosofia accademica che si sviluppò dopo Carneade, sebbene il
centro di diffusione rimanesse ancora Atene.
A differenza di Clitomaco, Filone diede al probabilismo
un’interpretazione tanto moderata da suscitare quasi l’impressione
che volesse separarsene per battere una via nuova e ormai fatalmente
sfociante nel dommatismo5. Già prima che si aprisse la polemica tra
lui e il suo allievo Antioco di Ascalona, egli confessava proprio a
quest’ultimo certi suoi turbamenti in merito a qualche lato
contraddittorio del carneadismo che Antioco andava acutamente
rilevando6 Carneade, infatti, ammetteva che esistessero tanto
rappresentazioni vere quanto rappresentazioni false, ma nello stesso
tempo respingeva la possibilità che se ne potesse stabilire con
precisione la differenza. Per superare questa contraddizione
bisognava operare una revisione del probabilismo; ma, mentre Antioco
spingeva questa revisione fino al punto da staccarsi completamente
dallo scetticismo dell’Accademia Nuova, Filone, al contrario,
rimaneva convinto che la contraddizione potesse essere risolta
conservando l’essenziale del pensiero di Carneade. Smorzando ogni
tendenza radicalmente scettica, Filone era convinto di potere
recuperare anche il più antico platonismo dell’Accademia Antica,
facendolo riparare «sotto l’ombrello scettico»7 e non viceversa.
In questo suo riformismo Filone poneva con molto acume un problema
destinato ad avere vasto seguito nel pensiero posteriore: quello
della differenza tra verità e certezza. A suo avviso la prima ha una
sua oggettiva ed irrecusabile esistenza, mentre la seconda non può
essere conseguita sia per cause inerenti alle cose (il remo
nell’acqua, il collo della colomba o le due uova) sia per cause
sogettive di ordine sensoriale (sogni, allucinazioni, follia,
illusioni sensoriali) e di ordine intellettivo8. Si perviene, così,
non alla negazione della verità, ma solo a quella della
comprensione. L’acatalessia di Arcesilao viene riconfermata anche se
con le attenuazioni probailistiche, ma nello stesso tempo
l’originaria istanza di Platone è nuovamente presa in seria
considerazione9.
La ricerca non doveva essere abbandonata: teoricamente Filone non
negava la possibilità che la verità venisse conosciuta, ma
sosteneva, altresì, che questa possibilità non può diventare
certezza. La prova di questa drammatica antinomia era data
dall’infecondo sforzo degli Stoici che avevano creduto di trovare la
soluzione mediante l’equivoco della rappresentazione comprensiva. Né
Filone intendeva prospettare una soluzione nuova, giacché il
possibile, secondo lui, non era un potenziale suscettibile
aristotolicamente di diventare attuale10. In realtà, però, il
possibile, riassumendo in sé le istanze probabilistiche, si andava
sganciando non solo da Aristotele, ma anche dal necessitarismo, e in
tal modo potevano balenare idee davvero nuove e sorprendentemente
pre-esistenzialistiche. Ma Filone non seppe tracciare questa nuova
via e ripiegò verso quel concetto di verosimiglianza che era molto
familiare agli antichi e che, alla fine, aveva a che fare con la
retorica11.
L’attenuazione delle posizioni scettiche serpeggiava in tutta
l’Accademia e già Metrodoro di Stratonica ne aveva dato prova; nello
stesso tempo la Stoa, che sembrava messa in crisi mortale dagli
attacchi di Carneade, faceva anch’essa una politica di appeasement
dopo l’intervento moderatore di Panezio e di Posidonio. Ma proprio
la Stoa, che pareva sconfitta, si accingeva a dare all’Accademia
sœtticheggiante il colpo di grazia. Filone avverti il pericolo e
fece macchina indietro, come soleva fare Carneade nei momenti
cruciali12. Ma, mentre egli intendeva dimostrare che le sue
concessioni al dommatismo erano più apparenti che reali, apriva
certi spiragli palesemente dommatici. Ciò doveva riscontrarsi in
particolar modo nel suo pensiero morale, soprattutto con
l’accostamento tra filosofia e medicina13. Questo accostamento non
era affatto nuovo, ma risaliva alla lezione di Ippocrate che era
stata bene assimilata da Socrate e da Platone. Non ci deve sfuggire,
però, che, proprio nell’età Filone, si andava approfondendo il
contrasto tra medicina dommatica e medicina empirica: Filone si
accostava alla prima, ma non si lasciava sfuggire certi risvolti
acutissimi della seconda14. Siamo, però, troppo poco informati per
poter dire se il pensiero filoniano abbia avuto una qualche
incidenza sul dibattito scientifico-filosofico che ormai era aperto
e che, come risulterà dall’ultima sezione di questo volume, avrebbe
avuto la sua più approfondita rimeditazione nell’età di Sesto
Empirico e di Galeno.
Comunque, pur essendo – forse suo malgrado – non privo di diversi
spunti dommatici e pur avendo contribuito a mettere in crisi
l’Accademia Nuova, Filone ne rimase, in definitiva, l’ultimo
esponente.
Accanto alle poche fonti che riportiamo in questa breve sezione
dedicata al filosofo di Larissa, vanno collocati numerosi passi
degli Academica ciceroniani e soprattutto del Lucullus15, ove sono
evidenziati i tratti più salienti della prospettiva
scettico-probabilistica di Filone. Va, però, tenuto presente che non
è agevole l’assegnazione precisa di questi passi «filoniani»,
giacché Cicerone mira ridurre e quasi ad annullare le differenze che
dovettero intercorrere tra Filone e Carneade; anzi, persino nei
momenti di maggiore fedeltà ai suoi maestri probabilisti,
l’oratore-filosofo non si lascia sfuggire l’occasione di avanzare
qualche sua personale dottrina, il che rende ancora più complicato
ogni tentativo di cernita da parte nostra.
1. Questa è la data di nascita proposta dal Mekler sulla base di
Acad. phil. ind. herc, col. xxxii, 3 e sostenuta anche dal
Goedeckemeyer (Die Geschichte des griech. Skept., p. 103) e dal Dal
Pra (Lo scetticismo greco, p. 301), in disaccordo col Brochard, il
quale (Les sceptiques grecs, pp. 189-90) fa oscillare la data tra il
148 e il 140, fondandosi sia su una diversa data di nascita di
Clitomaco (175 e non 187) sia su un’interpretazione poco accettabile
di col. XXXIII, 18 dell’Index, secondo cui Filone sarebbe morto
all’età di anni, sia su precedenti indagini dello Zumpt, del Clinton
e soprattutto dello Hermann (Disputatio de Philone Larissaeo,
Göttingen, 1851, p. 4). Un ampio esame delle numerose difficoltà
cronologiche è in K. VON FRITZ, Philon, in «RE», XIX, 2, coll.
2535-7.
2. Secondo l’Index (col. XXXIII, 4 segg.), Filone all’età di anni
giunse ad Atene e divenne discepolo del Cartaginese, dopo aver udito
già dall’età di sedici anni le lezioni di Callicle a Larissa.
3. Secondo l’Index (col. xxxiii, 11), Filone all’età di anni (122 a.
C.) si sarebbe allontanato da Clitomaco per ascoltare le lezioni
dello stoico Apollodoro. Secondo le coll. xxv, 15 e xxxiii, 15
dell’Index, Filone ottenne lo scolarcato dell’Accademia alla morte
di Clitomaco (110/09 a. C); ma la notizia sembra contraddetta da un
altro luogo poco chiaro dello stesso Index (col. xiv, 16 seg.).
4. Sappiamo da Cicerone (Brut. LXXXIX, 306) che egli fuggì da Atene
durante la guerra mitridatica nell’88 a. C. e che rimase a Roma fino
alla morte riscuotendo grande successo per il suo insegnamento
(Tusc. V, XXXVII, 107-8; PLUTARCH. Cic.3).
5. Su questo stato di disagio insisteva Numezio (fr. 28 des Places)
con una certa crudeltà. In realtà il probabilismo stesso, a meno che
non volesse ritornare pienamente all’intransigenza pirroniana di
Arcesilao, non poteva non fare i conti quasi matematici con un
verità di fondo. Anche se non riconosciamo a Filone la prerogativa
di essere stato «il genuino fondatore» (DAL PRA, Lo scetticismo
greco, p. 339) del probabilismo, ma riteniamo di assegnare
giustamente questa prerogativa a Carneade, non possiamo negare, alla
fine, la maggiore consapevolezza di Filone in merito al gioco
d’azzardo cui il probabilismo andava incontro: di qui le perplessità
del filosofo di Larissa.
6. Cfr. CIC. Lucull. XXXIV, III; BROCHARD, Les sceptiques grecs, pp.
197-8.
7. L’espressione molto efficace è del Long (Hellenistic Philosophy,
p. 224) che riassume con bella ironia quanto era stato detto più
dettagliatamente dallo Hirzel (Untersuchungen zu Cic. philos.
Schriften, p. 198 segg.) e dal Brochard (Les sceptiques grecs, p.
195 segg.), in contrasto con lo Hermann e con lo Zeller, che
sostenevano un riassorbimento dell’Accademia Nuova nell’Antica.
Parlando di Filone, il Brochard, seguito dalla maggior parte degli
studiosi più recenti, scrive: «S’il n’y a eu, selon Philon, qu’une
seule Académie, c’est une Académie sceptique; ce n’est pas la
nouvelle qu’il ramène à l’ancienne, c’est l’ancienne qu’il absorbe
dans la nouvelle».
8. Cfr. CIC. Lucull. XVIII, 57 segg.; XXVI, 84 segg.; SEXT. EMP.
Adv. log. I, 409 segg. Una chiara disamina è in FRITZ, Philon, in
«RE», col. 2540.
9. Ciò ovviamente non implica un ritorno all’innatismo o
all’intuizione della pura ragione, come sosteneva lo Hermann nelle
sue due Disputations de Philone Larissaeo in parte sulla scorta di
Agostino (Contra Acad. III, 41).
10. Per l’intimo legame che tiene sempre unito il concetto di
possibile a quello di potenzialità cfr. ARISTOT. Metaph. V, 12. Per
l’approfondimento del concetto di possibile in Diodoro Crono cfr.
DÖRING, Dte Megariker, frr. 130-143 e commento a pp. 132 segg. Circa
l’influsso dei paradossi megarici su Filone (di cui è cenno in Cic.
Lucull. XXVIII, 92-XXIX, 95) vedasi FRITZ, Philon, in «RE», col.
2540.
11. Sulla grande preparazione retorica di Filone tanto nelle
suasoriae quanto nelle controversiae insisteva già l’Arnim (Dio von
Prusa, cit., pp. 98 segg.; 108 segg.). Ulteriori delucidazioni sono
state fatte dal Fntz (Philon, in «RE», cel. 2542). Un ampio quadro
delle influenze tanto di Filone quanto di Antioco sull’umanesimo
retorico-filosofico di Cicerone è in H. A. K. HUNT, The Humanism of
Cicero, Melbourne, 1954.
12. Tale doveva essere il tenore dei due libri di Filone ricordati
da Cicerone (Lucull. IV, 11) che suscitarono lo scandalo di Antioco
e il suo Sosus, ai quale Filone probabilmente rispose con un altro
scritto (cfr. Cic. Lucull. VI,17; AUGUSTIN. Contra Acad. III, XVIII,
41; HERMANN., De Phil. Lariss. disp., I, p. 7).
13. Quest’accostamento veniva fatto in un trattato di etica che
probabilmente fu una delle fonti dell’ Hortensius di Cicerone e di
cui si riscontra un fugace sommario in STOB. Ecl. II, 40.
14. Soprattutto nel terzo libro del suo trattato, discutendo delle
varie maniere di vivere (Περίì βίων), Filone probabilmente dava
grande rilievo all’osservazione e all’esperienza, e ciò coincideva
anche col suo bisogno estendere l’interesse per le questioni
filosofiche a un vasto pubblico non fatto di soli sapienti. Anche se
le fonti a nostra disposizione sono molto esigue ed incerte, notiamo
in Filone una conciliazione con la vita ordinaria e con
consuetudine; il che fa pensare a certi motivi che verranno
sviluppati dallo Scetticismo cosiddetto empirico (cfr. BROCHARD, Les
sceptiques grecs, pp. 200, 206-7).
15. Per orientare il lettore ricordiamo in particolare IV, 11 a
proposito della pubblicazione dei due libri filoniani che
scandalizzarono Antioco; VI, 17-8 a proposito della novità dei libri
suddetti pur nell’ambito dell’Accademia Nuova; XX, 66 a proposito
del limite dell’assenso da accordare alle rappisentazioni; XXIV,
73-76 a proposito della presenza di istanze probabilistiche in
Socrate, in Platone, nei Cirenaici e persino in Crisippo; XXXIV, 111
(come anche VI, 18 e XIV, 44) a proposito della perplessità di
Filone in merito al rapporto tra esistenza e conoscenza della verità
e alla non contraddittorietà del probabilismo; X, 32 e XI, 34 per i
rapporti tra «incerto» e «non-percpibile», tra «evidente» e
«percepito»; XXXIV, 109 circa l’importanza del probabilismo per le
nostre decisioni pratiche; XXII, 69-71 per gli spunti di polemica
personale con Antioco. Per quanto, poi, concerne l’interpretazione
data da Filone alla storia dell’Accademia come un unico indirizzo
che affonda le sue radici non solo in Platone e in Socrate, ma anche
nei Presocratici vedasi Varro IV, 13 e XII, 44. L’adesione di
Cicerone al pensiero filoniano è data esplicitamente in Ad fam. IX,
8. Infine sembra di ispirazione filoniana anche Lucull. III, 7-8,
ove si insiste sulla necessità della liberazione dal dommatismo.
Virtuale abbandono dell’epoché (NUMENIO, apud Euseb. Praep.
ev. XIV, 9, 1-3 = fr. 28 des Places)
Questo Filone – dice Numenio – non appena ricevette
la direzione della scuola1, caracollò dalla gioia e, per
mostrarsi grato, si comportava da servo fedele e faceva
l’esaltazione di quelle che erano state le dottrine di Clitomaco e
contro gli Stoici
di bronzo lucente s’armava2
Ma col trascorrere del tempo, poiché l’accademica sospensione del
giudizio era ormai logorata dalla consuetudine, egli si andò
staccando del tutto dal suo precedente modo di pensare: lo
volgevano, infatti, in senso opposto l’evidenza e l’accordo delle
affezioni3. Ed ormai nutrendo un grande presentimento, bramava
ardentemente di imbattersi in uno che lo confutasse4, per non
dare a vedere – come si può bene intuire – che egli stesso
il dorso volgendo5
si desse alla fuga di sua iniziativa.
(SESTO EMPIRICO, Pyrrh. hyp. I,235)
Filone sosteneva che, per quanto concerne il criterio professato
dagli Stoici – vale a dire la rappresentazione apprensiva –, le cose
sono incomprensibili, ma, per quanto concerne la natura stessa delle
cose, queste si possono comprendere6.
1. Ciò avvenne nell’anno 110/109 a. C. (Acad. phil. ind. here, coll.
xxv, 15; XXXIII, 15, quantunque la notizia sembri contraddetta in
col. xiv, 16 segg.). Filone, giunto ad Atene nel 136 (Index, col.
XXXIII, 4 segg.) all’età di 24 anni, era stato per cltre tre lustri
discepolo di Clitomaco, mentre Carneade si andava spegnendo.
2. Come Aiace Telamonio in HOM. II. VII, 206.
3. In quest’analisi dei πἀϑη gli Accademici continuavano ad avere
come emuli soprattutto i Cirenaici.
4. Per Filone l’uomo della provvidenza fu Antioco.
5. HOM. II. VIII, 94.
6. Scartando, sulle orme di Arcesilao e di Carneade, la fantasia
catalettica, il dommatismo naturalistico prendeva il sopravvento
sulle posizioni scettiche.
Considerazioni sul sillogismo ipotetico (SESTO EMPRICO, Pyrrh. hyp.
II, 10)
Filone1 sostiene che è valido quel sillogismo ipotetico che non
comincia da vero e finisce in falso – ad esempio, mentre è giorno ed
io sto discutendo, il nesso «se è giorno, io sto discutendo» –;
invece Diodoro2 sostiene che è valido quel silogismo ipotetico che
né ammetteva né ammette la possibilità di cominciare da vero e
finire in falso.
(SESTO EMPIRICO, Adv. log. II, 112-117)
Tutti quanti i dialettici3 sono generalmente d’accordo
nell’affermare che una proposizione ipotetica è valida allorché ciò
che in essa è antecedente tien dietro ciò che in essa è conseguente,
ma circa il tempo e il modo di questo tener dietro c’è sedizione tra
loro, e si danno, a proposito di questa «conseguenza», criteri che
sono tra loro contrastanti.
Ad esempio, Filone diceva che l’ipotetica risulta vera quando non
comincia da ciò che è vero e va a terminare in ciò che falso;
di guisa che, a parer suo, un’ipotesi risulta vera in tre modi e
falsa in un modo solo. Difatti, quando comincia da vero e termina in
vero, essa è vera, come nell’espressione «se è giorno, c’è luce»;
quando comincia da falso e finisce in falso, essa è ancora vera,
come nell’espressione «se la terra vola, la terra è alata»;
altrettanto vera è, infine, quella che comincia da falso e termina
in vero, come nell’espressione «se la terra vola, la terra esiste».
L’ipotetica risulta, invece, falsa soltanto nel caso che cominci da
vero e vada a finire in falso, come si ha nell’espressione «se è
giorno, è notte»; infatti durante il giorno è vera l’espressione «è
giorno», che funge da antecedente, mentre è falsa l’espressione «è
notte», che funge da conseguente.
Diodoro4, invece, sostiene che «è vera un’ipotetica la quale né
ammetteva né ammette la possibilità di cominciare da vero e
terminare in falso». Difatti la proposizione ipotetica così
formulata «se è giorno, io sto conversando», quando attualmente è
giorno ed io sto conversando, secondo Filone è vera, perché parte da
vero (da «è giorno») e finisce in vero (in «io sto conversando»);
secondo Diodoro, invece, essa è falsa, giacché essa stessa ammette
talvolta la possibilità di cominciare da vero (da «è giorno») e di
terminare in falso (in «io sto conversando»), nel caso che io abbia
smesso di parlare. Ed anche prima essa ammetteva di cominciare da
vero e di finire in falso (ossia in «io sto conversando»); infatti,
prima che io cominciassi a conversare, essa partiva da vero (da
«è giorno») e poi andava a finire in falso (in «io sto
conversando»). Ancora, l’espressione che si presenta così «se è
notte, io sto conversando», pronunciata mentre è giorno ed io me ne
sto zitto, secondo Filone è altrettanto vera, perché comincia da
falso e va a finire in falso; invece secondo Diodoro è falsa,
giacché essa ammette di terminare in falso, pur cominciando da vero,
perché è sopraggiunta la notte e, inoltre, io non sto conversando,
ma me ne sto zitto. Anzi persino l’espressione «se è notte, è
giorno», pronunciata durante il giorno, secondo Filone è vera
appunto per questo, perché, pur cominciando da falso (da «è notte»),
va a terminare in vero (in «è giorno»); invece secondo Diodoro è
falsa proprio per la seguente ragione, cioè perché essa ammette, al
soprav-venire della notte, di cominciare da vero (da «è notte») e di
terminare in falso (in «è giorno»).
1. Questo breve passo sestiano, come quello più ampio che segue, si
inserisce nella polemica scettica contro la riforma stoica della
sillogistica aristotelica (cfr. quanto ho osservato in SESTO
EMPERICO, Contro i logici, pagine XXXVIII-XLIV).
2. Test. 141 Döring. Per più ampie discussioni cfr. MATES, Stoic
Logic pp. 48-9; KNEALE, Development of Logic, pp. 129, 134.
3. Sia gli Stoici che gli Accademici, giacché tanto gli uni quanto
gli altri non avevano inteso operare una demolizione radicale della
sillogistica, come farà l’ultima scepsi da Enesidemo a Sesto
Empirico.
4. Test. 142 Döring.
Il recupero della retorica (CICERONE, De orat. I, XI, 45-47)
Allora egli1 disse: «So bene, o Scevola, che di solito su questi
argomenti si parla e si discute tra i Greci. Quando infatti mi
recai, da questore, dalla Macedonia ad Atene, ascoltai uomini
eccelsi: l’Accademia era in fiore, come si diceva a quei tempi,
quando la reggevano un Carmada, un Clitomaco, un Eschine. C’era
anche Metrodoro, che insieme con gli altri aveva prestato ascolto
personalmente e con zelo eccessivo al celebre Carneade, il più acuto
e dovizioso di tutti nel campo dell’eloquenza, come ci è stato
tramandato, ed erano nel pieno della loro attività anche
Mnesarco2, allievo del tuo grande Panezio, e Diodoro3, allievo
del peripatetico Critolao. Oltre loro ce n’erano molti altri, ben
noti e stimati in campo filosofico, ed io mi accorgevo che tutti
questi signori, quasi all’unisono, scacciavano l’oratore dal governo
della città, gli vietavano l’accesso ad ogni questione più
impegnativa di ordine filosofico o scientifico e lo sbattevano e
relegavano esclusivamente nei processi giudiziari4 e in piccole
adunanze, quasi mandandolo alla macina di un mulino5.
Ma io non ero affatto d’accordo con loro né con Platone, creatore di
questo modo di pensare e senz’altro il primo di tutti nel possedere
le più autorevoli ed eloquenti doti espressive. Insieme con Carmada
lessi, allora, ad Atene con particolare diligenza il Gorgia6 e in
questo libro rimanevo stupito di fronte a Platone soprattutto per
questo, ossia perché, nel mettere alla berlina gli oratori, egli
stesso risultava essere oratore sommo.
A dire il vero, le dispute sulle parole già da tempo mettono in
agitazione i Greculi, che è gente più bramosa di contese che di
verità.
(CICERONE, Tusc. II, III, 9)
Ecco perché ho sempre preferito la consuetudine dei Peripatetici e
degli Accademici di discutere il pro e il contro di tutte le
questioni7, non solo perché sarebbe impossibile scoprire altrimenti
quello che è «verosimile»8 in ogni problema, ma anche perché tale
consuetudine costituisce la più efficace esercitazione nel campo
dell’eloquenza.
Essa fu utilizzata in primo luogo da Aristotele9 e poi dai suoi
seguaci. D’altra parte Filone, di cui ho ascoltato le lezioni con
assiduità10, stabilì il metodo di trasmettere in un tempo le regole
della retorica e in un altro quelle della filosofia11; ed io sono
stato indotto a seguire questa consuetudine dai miei amici, e in
questa guisa ho trascorso, nella villa di Tu-scolo, il mio tempo
libero. Pertanto, dopo esserci dedicati ad esercizi di retorica
nella mattinata, siamo passati nel pomeriggio – come facemmo l’altro
giorno – all’Accademia, ove si è tenuta una discussione che non sto
esponendo in forma narrativa, ma quasi con le stesse parole con cui
è stata tenuta e si è svolta12.
1. L. Licinio Crasso, che con M. Antonio è il protagonista
dell’opera ciceroniana.
2. Cfr. POHLENZ, La Stoa, I, pp. 500-1.
3. Fr. 6 Wehrli.
4. Ossia in quel γένoς διϰανιϰóι che non era impegnato in grandi
questioni politiche o culturali, come avverrà, per testimonianza del
Dialogue de oratoribus, nell’età imperiale romana.
5. Come si soleva fare con gli schiavi e con i debitori inadempienti
ne commedie plautine.
6. Per un’interpretazione attenuata di questo dialogo già in clima
accademico cfr. QUINT. II, 15.
7. Secondo il método antilogistico inaugurato da Arcesilao e
continuato da Carneade.
8. Ormai il lato speculativo del probabilismo si è del tutto
eclissato e, sebbene il pensiero filoniano si professi ancora erede
dello spirito di Carneade, in realtà si muove in un mondo del tutto
diverso.
9. L’allusione sembra rivolta non tanto alle profonde aporie
contemplate da Aristotele soprattutto in Metaph. III, quanto a
quelle di Rhet. II, 1397 a 23-1402 a 28, ampiamente utilizzate da
Cicerone nei suoi Topici (cfr. Russo, La filosofia della retorica in
Aristotele, pp. 111-46).
10. Durante la sua permanenza in Roma nell’8o a. C.
11. Aristotele, nel suo insegnamento al Liceo, soleva dedicare le
lezioni antimeridiane alla filosofia e quelle pomeridiane alla
retorica: qui la consuetudine è, però, imitata alla rovescia, e Ciò
è abbastanza significativo.
12. Cfr. Cic. De or. III, XIV, 55.
ANTIOCO DI ASCALONA
Il pensiero di Antioco di Ascalona (130/20-68 a. C.)1 segna ormai la
fine di quasi tutte le istanze scettiche che avevano vivificato, pur
con alterne vicende, l’Accademia da Arcesilao a Filone. Dotato di
una mitezza quasi proverbiale2, Antioco, che era stato per lunghi
anni fedele discepolo di Filone, si sentì quasi in dovere di
insorgere contro il suo maestro quando questi cercò di correre ai
ripari contro l’invasione stoico-dommatica – da lui stesso provocata
– nella cittadella neo-accademica3. Ma, anche se Antioco favorì
l’invasione, bisogna riconoscere che egli non fu affatto un vero e
proprio stoico4. Infatti anche lui, quantunque in tono amichevole,
continuò la polemica antistoica sostenuta dai suoi predecessori:
accettò ma non sic et simpliciter la dottrina della rappresentazione
comprensiva5 e si ostinò a sostenere, erroneamente, la provenienza
delle principali e più attendibili teorie stoiche da Platone e da
Aristotele6. Né va dimenticato che lo Stoicismo stesso, dopo
Panezio, aveva assunto posizioni meno rigidamente dommatiche,
escludendo, ad esempio, l’astrologia e gran parte dell’apparato
divinatorio7, attenuando il suo congenito determinismo a favore
della libertà umana8, conciliando l’etica della virtù e della
dignità morale con le comuni consuetudini della vita e mostrando
vivo interesse per quei problemi estetici verso cui la raffinata
scuola di Platone aveva avuto particolare inclinazione anche nei
periodi della rigida ἐπoχή di Arcesilao.9 È vero che gli Stoici non
rinunciarono al loro sensismo e al loro materialismo di fondo, ma è
anche vero che essi facevano apprezzabili sforzi per accostare la
loro fisica e la loro gnoseologia all’idealismo di Platone, e ciò
faceva sembrare ad Antioco che l’Accademia, con l’abbandono dello
scetticismo perturbatore, avesse vinto la partita10.
Indubbiamente la Stoa entrava nell’Accademia, ma non col tripudio
del vincitore, bensì subendo essa stessa il fascino del bel paese
invaso, e Antioco continuava a contrastarle il passo quando essa si
ostinava a sostenere punti di vista che non si potessero armonizzare
con l’Accademia Antica, che egli era convinto di avere restaurata.
In realtà non solo nella storia politica, ma anche in quella della
filosofia la distensione porta al compromesso, ed ogni compromesso
ha i suoi equivoci pronti a rispuntare nei momenti della verità. In
filosofia il compromesso non porta al «sistema» e tanto meno alla
«sintesi degli opposti», ma solo all’eclettismo. E l’eclettismo già
affondava le sue radici nel più autentico e speculativo probabilismo
di Carneade11; ma ora che il probabilismo, nella sua fattispecie
neo-accademica, era al tramonto, l’eclettismo ne prendeva il posto
se non altro come Aufklärung retorico-culturale, come protreptica ad
ogni sorta di filosofia, come φτλανϑρωπία ed humanitas. Cicerone se
ne appagava, anche se nei momenti filosoficamente più impegnativi
recalcitrava contro l’Ascalonita: ma non se ne appagò il genio di
Enesidemo, con cui l’equivoco dell’appeasement viene bruscamente
troncato per dar vita ad una nuova e più agguerrita scepsi12.
I pochi passi13 riportati in questa breve sezione possono darci una
sommaria idea dei molteplici temi culturali di Antioco; ma, come per
Filone, così anche per lui dobbiamo soprattutto affidarci agli
Academica14 di Cicerone, pur con le precisazioni da noi fatte
proposito di Filone di Larissa.
1. Il Brochard (Les sceptiques grecs, pp. 209-10), seguendo Chappuis
(De Ant. A seal, vita et doctrina), pone la data di nascita tra il e
il 124; A. Hoyer (De Ant. Ascal., Inaug. diss.), attenendosi al
«plagiario» d’Allemand (De Ant. Ascal., Marpurgi Cattorum 1856),
anticipa la data di qualche anno; l’Arnim («RE», I, 2, coll. 2493-4)
la posticipa, invece, di qualche anno. Rifugiatosi a Roma col
maestro Filone durante la tempesta mitridatica dell’88 a. C, passò
ad Alessandria nell’anno seguente al seguito di Lucullo (cfr. Cic.
Lucull. IV, il). Nel 79 Cicerone (Brut. XCI, 315; De leg. I, XXI,
54; De fin. V, 1, 1; PLUTARCH. Cic. 4), rifugiatosi ad Atene per
timore di Silla, ascoltò Antioco ormai scolarca dell’Accademia da
lui rifondata e chiamata «Antica», non sappiamo se dopo una
riconciliazione con i filoniani (cfr. CREDARO, Lo scetticismo degli
Accademici, II, p. 168). Antioco seguì l’amico e protettore Lucullo
in Siria anche nella battaglia di Tigranocerta nel 69 a. C.
(PLUTARCH. Lucull. 28, 8, 511 b), di cui egli fece cenno nel
trattato IIερί ϑεῶν, dicendo che «il sole non ne aveva vista mai
un’altra simile». Morì l’anno dopo in Mesopotamia a causa delle
molte fatiche affrontate nella campagna militare (Cic. Lucull. II,
4; XXXV, 113; Acad. phil. ind. herc, coll. XXXIV-XXXVI segg.). Per
più ampie notizie biografiche si rinvia a G. LUCK, Der Akademiker
Antiochos, pp. 13-8).
2. Sappiamo da Stefano di Bisanzio (v. ’Aσϰάλων p. 132 Main = fr. 2
Luck) che Antioco era soprannominato «il cigno» ovviamente per la
sua gentilezza schiva e delicata. La sua eccezionale mitezza è
ricordata in CIC. Lucull. IV, 11.
3. Sulla necessarietà di questo epilogo cfr. BROCHARD, Les
sceptiques grecs, p. 209. Antioco reagì alla ritirata probabilistica
di Filone col suo Sosus, un libro intitolato ad un suo compatriota.
Altre opere di Antioco furono i Kανoνιϰἀ (SEXT. EMP. Adv. log. I,
201) ossia un trattato di logica, un’opera diretta a Balbo (Cíe. De
nat. deor. I, VII, 16) sull’identità di vedute tra Stoici e
Peripatetici, e il trattato Sugli Dei, composto nell’ultimo anno
della sua vita. Da Cicerone (Lucull. XXII, 69) sappiamo che Antioco
scrisse molto anche nella fase «filoniana» del suo pensiero (e
certamente Cicerone medesimo vi attinse a piene mani), ma ignoriamo
i particolari contenuti di questi suoi scritti.
4. Di questo parere è il Luck, quantunque nella sua ben documentai
interpretazione del pensiero del filosofo ascalonita non siano
assenti cer forzature per amor di tesi. Del resto anche il nostro
Dal Pra (Lo scetticisn greco, p. 323), il quale dice che il pensiero
di Antioco «intéressa solo marg nalmente in una storia dello
scetticismo greco», ha sentito il bisogno di nc sottovalutare gli
interessanti – e quasi capillarmente Carneadei — aspetti ci tici
dell’Ascalonita (cfr., in particolare, op. cit., pp. 326-39).
5. Antioco anzi estesa la critica della rappresentazione anche a
quel «probabile» difesa da Carneade, quantunque alle varié dottrine
della rappr sentazione egli contrapponesse una sorta di scetticismo
quasi aristotelic; mente disciplinato. Cfr. LUCK, Der Akad. Ant.,
pp. 52-4 anche per le questio: di ermeneutica sosiana nelTarco di
tempo che va da O. Ehle (Über den Sost des Ant. von Ask., Progr. O
fíe nb., 1847) e dallo Hirzel (Untersuchungen zu Ci phil. Schriften,
III, 251 segg.) a R. Philippson («Philol. Wochenschrift, 193 pp.
974-5), a M. Plezia (De Cic. Acad. Diss, tres, «Eos», 1937, PP. 26
segallo Schmekel (Die positite Philosophie, Berlin, 1938, I, pp. 651
segg.) e Pohlenz (La Stoa, I, pp. 516-27), ove, perô, il
disciplinamento della sensazioi viene troppo accostato alla
tormentata fantasia catalettica degli Stoici. S rapporti col
Protreptico di Aristotele cfr. R. MÜLLER, Bἰoς ϑεωρpητιϰóς Antiochos
von Ask. und Cwero, «Helicon», VIII, 1968, Hefte 1-4, pp. 222-3
L’interesse teoretico continuo con Eudoro di Alessandria, allievo di
Anticoo e commentatore del Timeo) e di varie opere aristoteliche
(cfr. MARTLNI, Eudoros, in «RE», VI, 1, coll. 915-6), e con Ario
Didimo, maestro di Augusto (cf ARNIM, Areios Didymos, in «RE», II,
1, col. 626).
6. II che implicava, tra l’altro, un’interpretazione panteistica
della teolog di Platone e di Aristotele e una tendenziale
subordinazione dello spirito al corj (cfr. BROCHARD, Les sceptiques
grecs, pp. 218-21).
7. Un’ampia eco di queste discussioni si avverte, attraverso la
meditazione ciceroniana, in AUGUSTIN, De civ. Dei, V, 1 segg.
8. Ciò veniva già rilevato da H. Doege (Quae ratio intercédât inter
Pana Hum et Antiochum A seal, in morali philosophia, Diss. Halle
1896) e da I Strache (Der Eklektizismus des Antiochos von Ask.,
«Philol. Untersuchungen XXVI, Berlin, 1921) ed è stato con maggiore
cautela riproposto dal Loi (Hellenistic Philosophy, pp. 222 segg.).
9. Per rinfluenza esercitata daU’estetica di Antioco sulle
generazio: romane da Cicerone ad O razio cfr. LUCK, Der Akad.
Antiochos, pp. 57-8.
10. Per la prontezza di Antioco nel rintuzzare gli amici della Stoa
quando costoro sostenevano teorie che egli – ancorché erroneamente –
riteneva contrastanti con l’Accademia Antica cfr. A. LUEDER, Die
philosophische Personlichkeit des Antiochos von Ask., Diss.
Göttingen, 1940, nonché LUCK, op. cit., p. 45. Che, poi, il suo
errore di far risalire tutta la Stoa a Platone meriti molte
attenuanti è sostenuto in P. SHOREY, Ancient and modem Platonism,
Berkeley, 1938, pp. 20 segg.
11. Se dobbiamo prestar fede a Cicerone (Tuse. V, XLI, 119-120; De
fin. III, XII, 41), già Carneade, nelle sue polemiche specialmente
in campo morale, aveva accostato Stoici e Peripatetici.
12. È da pensare che l’ormai tradizionale riduzione di Antioco allo
Stoicismo fondi le sue remote radici soprattutto sulla reazione
enesidemea all’Accademia quale l’aveva lasciata l’Ascalonita (cfr.
PHOT. Bibl. col. 212, p. 170 a 14 segg. = fr. 54 Luck). Che,
tuttavia, lo scetticismo se ne fosse volato ormai via dai platani di
Academo è altrettanto certo (cfr. O. GIGON, Die Erneuerung der
Philosophie in der Zeit Ciceros, Fond. Hardt, Gen. 1955, t. III, pp.
25-61; A. WEISCHE, Cicero und die Neue Akademie, pp. 103-5).
13. Nella traduzione dei passi di Numenio, di Sesto Emperico e di
Cicerone mi sono attenuto ai testi già più volte menzionati. Il
passo dei Topici ciceroniani, che il Luck non ha incluso nella sua
raccolta, ma che a me sembra di provenienza antiochea è stato
tradotto sul testo di A. S. Wilkins (Oxonii, i960).
14. Allo scopo di orientare il lettore ricordiamo del Varro
ciceroniano IV, 15-18 per l’interpretazione della storia
dell’Accademia da parte di Antioco forse prima della rottura col
maestro (cfr. DAL PRA, Lo scetticismo greco, p. 329) e V-XI, 18-42
per l’esposizione sintetica di tutto il pensiero di Antioco. Rice
diamo del Lucullus i seguenti passi: V-VI, 13-16 per
l’interpretazione apertamente anti-filoniana della storia
dell’Accademia; VI, 17-18 circa la necessità di non interrompere il
colloquio polemico con i Neo-accademici; VI, 18 per difesa di Zenone
di Cizio in merito al rapporto verità-persuasione; VII, 19-22 in
merito alla validità dei sensi, delle percezioni e della
rappresentazion VIII, 23-26 circa la necessità di ammettere la
catalepsis per le nostre responsbilità pratiche; IX, 27-29 per la
necessitaà di un criterio di verità; X-XI, 32-36 per la
contraddittorietà del probabilismo; XII, 37-39 per la nécessita
dell’assenso; XIV, 43-44 per la validità dell’analisi che
difíerenzia le rappresentazioni vere dalle false; XVI-XVII, 49-54
contro i soriti di Carneade contro la confusione tra i nostri stati
conoscitivi normali e quelli anormali.
Lo scetticismo esce dall’Accademia (NUMENIO, apud Euseb. Praep. ev.
XIV, 9, 4 = Fr. 28 des Places)
Allievo di Filone fu Antioco, che diede il via ad un’altra
Accademia1. Egli, infatti, volse la sua attenzione allo stoico
Mnesarco2, venne in contrasto col maestro Filone3 e introdusse
nell’Accademia infinite dottrine di ben altra provenienza.
(CICERONE, Brut. XCI, 315)
Giunto ad Atene, frequentai per sei mesi Antioco, il filosofo più
noto e più saggio dell’Accademia Antica4, e sotto la guida di questo
autorevolissimo maestro diedi nuovo stimolo al mio interesse per la
filosofia che non si era mai interrotto e che avevo coltivato fin
dai primi anni della mia adolescenza.
(SESTO EMPIRICO, Pyrrh. hyp. I, 235)
Antioco, invece, fece entrare la Stoa nell’Accademia, fino al punto
che si disse di lui che insegnava Stoicismo nell’Accademia. Egli,
infatti, cercava di dimostrare che già in Platone sono presenti le
dottrine stoiche5. Di conseguenza risulta con la più chiara evidenza
la differenza tra l’indirizzo scettico e la cosiddetta quarta o
quinta Accademia.
(SESTO EMPIRICO, Adv. log. I, 201-202)
Non lontani dall’opinione di costoro6 sembrano essere
quanti dichiarano di identificare il criterio della verità con
le sensazioni. E che ci siano stati alcuni filosofi di questo
avviso, è stato resto noto da Antioco l’Accademico, il quale nel
secondo libro dei Canonici ha scritto testualmente così: «Un altro,
a nessuno secondo nella medicina e studioso, altresì, di filosofia,
era convinto che le sensazioni s’identificano realmente e veramente
con le percezioni e che con la ragione noi non apprendiamo proprio
niente»7.
Con queste parole Antioco tratta del punto di vista sopra indicato e
intende alludere al medico Asclepiade8, il quale intendeva eliminare
l’«egemonico»9 ed era un suo contemporaneo.
Ma di questa sua propensione noi abbiamo discusso con richezza di
particolari e in modo più appropriato nei Commentari scettici10,
sicché non c’è necessità di ripetere la stessa canzone.
(CICERONE, Top. 6-8)
Se teniamo presente11 che ogni accurato metodo di dissertazione
comprende due parti – l’una inventiva e l’altra critica –, a mio
avviso Aristotele ha conseguito il primato dell’una dell’altra12.
Gli Stoici, invece, si sono distinti nella seconcda, giacché hanno
diligentemente percorso le vie del giudizio mercé quella «scienza»
che essi chiamano διαεχτιχήν, mentre hanno completamente abbandonato
quell’arte dell’invenzio che si chiama τoπιχή, la quale ebbe una
maggiore funzione pratica e avrebbe dovuto avere un’indubbia
precedenza nell’ordine naturale delle cose. Noi13, invece, teniamo
presente la somma utilità di entrambe e pensiamo di portare su tutte
e due la nostra indagine, se avremo tempo libero; ma cominceremo da
quella che merita priorità.
Orbene: come è facile la scoperta di oggetti nascosti, quando il
luogo in cui essi sono viene indicato con un ben marcato
contrassegno, allo stesso modo, quando intendiamo sviscerare una
qualche argomentazione, dobbiamo conoscere i «luoghi»14: è questo,
infatti, l’appellativo con cui Aristotele ha chiamato quei
fondamenti da cui le argomentazioni stesse vengono cavate. Ecco
perché è possibile definire il luogo
«fondamento dell’argomentazione» e l’argomentazione come una
«regola razionale che conferisce credibilità ad una cosa dubbia».
(CICERONE, De fin. V, II-III, 6-7)
«Ma hai bisogno di una nostra esortazione, o Lucio15 – disse
Pisone16 – oppure ti senti spinto spontaneamente in questa
direzione? A me, almeno, pare che tu ti stia dedicando in modo
senz’altro apprezzabile ad Antioco, di cui sei discepolo».
Allora Lucio – con timidezza, o, meglio, con rispettosità – rispose:
«Sì, lo faccio! Ma non hai sentito parlare poc’anzi di Carneade?17
Mi sento attratto anche verso quest’altra direzione, ma poi Antioco
mi richiama indietro. Oltre questi due non c’è altro maestro da
ascoltare».
Allora Pisone: «Quantunque sia, forse, impossibile che io ce la
spunti finché è qui presente costui (alludeva a me)18, tuttavia avrò
l’ardire di richiamarti da codesta Accademia Nuova a quella Antica,
nella quale – come solevi udire dalla bocca di Antioco – vengono
annoverati non soltanto quelli che hanno il nome di Accademici –
vale a dire Speusippo, Senocrate, Polemone, Crantore e tutto il
resto –, ma anche i Peripatetici Antichi, di cui fu capo Aristotele,
che, fatta eccezione di Platone, non so se sia giusto considerare il
primo di tutti i filosofi. Convertiti a loro, ti prego! Dai loro
scritti e dai loro insegnamenti non solo si può imparare ogni
cultura liberale, ogni indagine storica, ogni espressione
stilisticamente elegante, ma anche tanta complessità di attività
scientifiche, talché nessuno può accingersi a nessun altro lavoro
spirituale con un sufficiente grado di preparazione, ove prescinda
dai mezzi che essi ci forniscono. Essi hanno forgiato oratori,
condottieri e grandi uomini di stato. E per scendere ad attività
meno impegnative, sono partiti, insomma, da qui, come da una fucina
di tutte le arti, matematici e poeti, musicisti e medici19.
(CICERONE, De fin. V, V, 14)
Mi sembra che, invece, il nostro Antioco si attenga col massimo
scrupolo al punto di vista degli antichi che, secondo le sue
dottrine, fu comune ad Aristotele e a Polemone.
(CICERONE, De fin. V, VI, 15)
Si comporta, dunque, saggiamente il nostro Lucio nel voler sentir
parlare del sommo bene più di ogni altra cosa: difatti, una volta
che sia stato fissato il concetto di questo, resta fissata ogni
questione filosofica fondamentale. A dire il vero, se negli altri
settori del pensiero viene tralasciato o ignorato un qualeche
problema, si produce un danno che è, sì, grave, ma non esorbita da
quei settori in cui si viene a verificare la lacuna; se, invece,
viene ignorato il sommo bene, è inevitabile che si ignori la
condotta della vita; dal che deriva uno smarrimento tanto grave che
si cade nell’impossibilità di sapere in quale porto raccogliersi.
Invece, quando si viene a capire il limite ultimo dei beni e dei
mali, ecco che risultano già scoperti la via della vita e il
fondamento essenziale di tutti i doveri, e quindi risulta ritrovato
il punto di riferimento di ogni altra cosa; anzi in base ad esso è
possibile scoprire e costruirsi la regola della vita beata, ossia
l’oggetto di tutte le nostre aspirazioni20.
(CICERONE, De fin. V, XXV, 74)
Ci resta da parlare degli Stoici. Essi non si sono limitati a
prendere da noi21 uno o due concetti, ma si sono appropriati di
tutto quanto il nostro pensiero filosofico. E come gli altri ladri
cambiano i contrassegni agli oggetti di cui hanno fatto man bassa,
allo stesso modo costoro, allo scopo di sfruttare le nostre opinioni
facendole apparire come loro proprietà, hanno cambiato la
terminologia, che costituisce quasi il contrassegno delle cose. Così
sopravvive esclusivamente questo nostro sistema filosofico come
degno di quanti intendano dedicarsi con amore alle «arti liberali»,
come degno di ogni uomo di cultura, come degno degli uomini
illustri, degli statisti e dei re.
(CICERONE, De fin. V, XXVI, 76)
Allora Lucio disse: «A dire il vero, sono pienamente convinto di
quello che tu hai detto, e credo che anche mio cugino lo sia».
A questo punto Pisone mi chiese: «Ebbene? Dai anche tu
l’approvazione al giovanotto oppure preferisci che egli si metta ad
imparare quelle cose22 che, quando le avrà apprese fino in fondo,
non gli faranno sapere niente lo stesso?»
«A lui sì – diss’io –; ma non ti ricordi che è dato anche a me il
permesso di approvare quello che hai detto tu? Non c’è, infatti,
nessuno che possa rifiutare la sua approvazione a tutte quelle cose
che sembrano “probabili”».
«Ma può uno – soggiunse lui – dare la sua approvazione a ciò che non
abbia pienamente percepito, compreso e conosciuto?»
«Su questo – risposi io – non c’è motivo di grave dissenso, o
Pisone. Difatti non sussiste nessun altro motivo che mi induca a
negare la possibilità della percezione tranne la definizione che gli
Stoici danno alla facoltà di percepire cosa alcuna, eccettuata
quella rappresentazione vera che abbia tali caratteri da non poter
essere falsa23. È questo il punto in cui non sono d’accordo con
loro; con i Peripatetici, invece, non c’è proprio alcun dissenso».
(CICERONE, De fin. V, XXIX, 89)
La sola differenza sta nel fatto che io chiamo cose note con parole
note, mentre gli Stoici vanno alla ricerca di una nuova terminologia
per esprimere i medesimi concetti. Ad esempio, proprio come in
senato c’è sempre qualcheduno che fa la richiesta di un interprete,
allo stesso modo noi, se vogliamo prestar loro ascolto, dobbiamo
udirli con l’interprete accanto24. Io do il nome di «bene» a tutto
quello che è conforme alla natura, e il nome di «male» a tutto
quello che è contro natura; e non soltanto, ma anche tu, o Crisippo,
quando stai nel foro o a casa tua: nella scuola poi, no, non fai più
così! E allora? Pensi proprio che i comuni mortali debbano
esprimersi in una maniera e i filosofi in un’altra? La differenza
tra l’uomo di cultura e l’ignorante sta nel valore reale di
qualsiasi cosa. E quando tra le persone colte si è creato un accordo
sui contenuti reali di qualsiasi cosa – se essi fossero davvero
uomini, parlerebbero linguaggio della consuetudine! –, purché la
realtà permanga identica, si mettano pure a coniare una nuova
terminologia a loro talento25.
(CICERONE, De rep. I, II)
A dire il vero, non basta possedere la virtù come se questa fosse
una qualche arte, qualora non la si metta in pratica; anzi l’arte,
se non viene praticamente esercitata, può essere, tuttavia, ritenuta
scienza di per sé sola, mentre la virtù interamente riposta nella
sua pratica applicazione; e la sua più importante applicazione è il
governo dello Stato e il perfezionamento concreto e non solo
verbalmente asserito di tutti quei princìpi che costoro fanno
riecheggiare negli angolini delle loro scuole26. Difatti tutti quei
princìpi di rettitudine e di onestà di cui trattano i filosofi nelle
loro discussioni, sono stati fondati e resi stabili da quelli che
hanno posto le basi giuridiche dello Stato. Da dove, infatti, sono
derivati il sentimento di pietà e le pratiche religiose? Da dove il
diritto delle genti e quello cosiddetto civile? Da dove la
giustizia, la fede, l’equità? Da dove il rispetto per se stessi, la
temperanza, la fuga da ogni azione turpe e il desiderio di ciò che
dà gloria e onore? Da dove la fortezza nelle fatiche e nei pericoli?
Senza dubbio da quelli che in parte resero stabili con le
istituzioni etiche, in parte sancirono con le leggi quei princìpi
che le scuole filosofiche si erano limitate ad abbozzare. Ché anzi,
come si tramanda, Senocrate, uno dei filosofi più illustri27, poiché
gli veniva chiesto a quali risultati pervenissero i suoi allievi,
rispose: «A fare di loro spontanea iniziativa ciò che le leggi li
inducono a fare».
1. Ossia alla quinta, dopo quelle di Platone, di Arcesilao, di
Carneade di e Filone.
2. Allievo di Panezio, assunse lo scolarcato della Stoa con Dardano
dopo la morte del maestro (cfr. POHLENZ, La Stoa, I, pp. 500-1).
3. Questo contrasto è ampiamente svolto negli Academica di Cicerone.
4. La notizia è riconfermata in De fin. V, 1, in De nat. deor. I, 6,
in PLU-TARCH. Cic. 4, i segg. e in SEXT. AUR. VICT. De vir. ill. 8,
2, p. 71 Pichlmayr. La quinta Accademia, fondata da Antioco, si
chiamò apertamente «Antica» perché credeva di identificarsi ormai
pienamente con quella genuina di Platone; ma si trattava di un
Platone quantum mutatus ab illo! (cfr. PLUTARCH Lucull. 42, 3,
5191 f-520 a; Brut. 226, 2 segg. 984 e; GALEN. De hist. phil. 2:
Kühn = DIELS, Doxogr. graec. fr. 3).
5. Su questa riconduzione dello Stoicismo a Platone ed anche ad
Aristotele insiste più volte Antioco (CIC. De fin. V, III, 7; V V,
14; Lucull. XLV, 137-138). Secondo Antioco Ciò non significava una
resa dell’Accademia, ma un reale trionfo di questa sulla Stoa (Cic.
Varro XII, 43).
6. Ossia dei Cirenaici, che consideravano come criterio infallibile
solo le afffezioni (cfr. SEXT. EMP. Adv. log. I, 190-200).
7. Su questa rivalutazione stoicheggiante della sensazione operata
da Antioco e, nello stesso tempo, sulla necessità di disciplinare la
sensazione stessa a scopo conoscitivo c’è un’altra testimonianza in
SEXT. EMP. Adv. log. I, 162, ove è detto. Bisogna anche affermare
che la rappresentazione è una certa affezione che concerne l’essere
vivente e che sia in grado di presentare sé stessa e ciò che è altro
da lei. Ad esempio noi — come sostiene Antioco —, quando abbiamo
volto lo sguardo ad un determinato oggetto, disponiamo la vista in
un determinato modo e non la conserviamo nella medesima disposizione
in cui l’avevamo prima di guardare; comunque noi, mercé siffatta
alterazione, veniamo a percepire due cose: l’una è ’alterazione
stessa, cioè la rappresentazione, e la seconda è Ciò che ha prodotto
l’alterazione, vale a dire l’oggetto visibile». Pur non negando il
sensismo degli Stoici, Antioco sentiva in questo caso l’autentico
bisogno platonico-aristotelico di non sottovalutare, bensì di
approfondire l’indagine sulla sensazione.
8. Asclepiade di Bitinia, amico e medico di Cicerone, fu un
singolare espo nente della medicina dommatica. Per le sue teorie
cfr. SEXT. EMP. Phyrrh, hyp. III, 32; Adv. log. I, 91, 323, 380; II,
7, 188, 220; Adv. phys. I, 363; 318. Per altre notizie si rinvia,
tra l’altro, a B. P. REARDON, Courants Littéraires Grecs des IIe et
IIIe siècles après J. C, pp. 43-4.
9. Che costituiva il cardine non solo della filosofia teoretica e
dell’ant pologia stoica, ma anche di quella medicina «pneumatica»
che, sopratto per opera di Posidonio, si ispirava alla Stoa (cfr., a
tal proposito, G. VERBEIL’évolution de la doctrine du Pneuma du
Stoicisme à Saint Augustin, Louvain Paris, 1945, pp. 511-35).
10. Per quest’opera perduta di Sesto cfr. BROCHARD, Les sceptiques
gnecs pp. 320-1.
11. Anche se la fonte o le fonti dei Topici di Cicerone sono ancora
oggi oggetto di controversia, il brano che qui riportiamo – non
incluso nella r colta del Luck – ci sembra di tipica provenienza
antiochea nel quadro della riconduzione integrativa della Stoa
all’Accademia Antica [per la problematica già aperta dal Wallies (De
font. Topicorum Ciceronis, Diss. Halle 1872) vedasi LUCK, Der Akad.
Antiochos. p. 54].
12. Ossia nei Topici e negli Elenchi sofistici in particolare, ma
anche sistematicamente in tutta la sua complessa metodologia.
13. Ossia «noi Accademici che abbiamo recepito anche gli insegname
di Antioco».
14. Ossia gli «schemi»; cfr. ARIST. Top. I, 108 b 33.
15. Lucio Cicerone, cugino dell’autore.
16. Marco Pisone è il protagonista del V libro del De finibus, ove
sono esposte le dottrine accademiche revisionate da Antioco. Sembra
certo che la fonte principale di questo libro ciceroniano sia stato
il IIspl TSXCOV dell’Ascalonita (cfr. HIRZEL, Untersuchungen zu Cic.
philos. Schriflen, pp. 691 segg.; GOEDECKEMEYER, Die Gesch. des
griech. Skept., pp. 39, 69 segg.; LUCK, Der Akad. Antiochos, pp.
55-6).
17. Lucio, come suo eugino Marco, in fatto di morale oscilla tra
carneadismo e antiochismo.
18. Cicerone, pur apprezzando parecchi aspetti del pensiero di
Antioco, si professava aperto seguace di Filone di Larissa.
19. Da sottolineare la preoecupazione praticopedagogica degli
Archiani, i quali non possono più attenersi come pure faceva
nonostante nutrisse le stesse preoecupazioni dei suoi allievi
avversi.
20. Di questa priorità della «ragione pratica» è già cenno nel
pensiero di Carneade (cfr. CIC. De fato X, 21).
21. Ossia dall’Accademia. Come a noi risulta con chiarezza,
specialmente dopo le acute precisazioni fatte dal Couissin, così
doveva risultare anche agli antichi una certa dipendenza della
problematica medio e neo-accademica dalla Stoa. Antioco, che più
d’ogni suo predecessore era vicino alla Stoa, capovolgeva le
posizioni sostenendo che quest’ultima era figlia dell’Accademia, ma
non certamente di quella arcesileo-Carneadea, bensì di quella
autentica e originaria di Platone. Per questo capovolgimento, però,
chi pagava le pene era lo Scetticismo.
22. Ossia la metodologia neo-accademica.
23. Per l’opposizione di Filone alla teoria della rappresentazione
comprensiva cfr. SEXT. EMP. Pyrrh. hyp. I, 235.
24. A causa delle loro involuzioni terminologico-dialettiche.
25. Questi rilievi antiocheo-ciceroniani sembrano già anticipare
certi lati linguistici dello Scetticismo empirico.
26. La stessa critica era stata mossa a Socrate da Callicle in PLAT.
Gorg. XL, 485d.
27. Per analoghi giudizi elogiativi su Senocrate (essi sono di
provenienza antiochea) cfr. CIC. Tusc. V, XVIII, 51; De off. I, XXX,
109.
GLI ACADEMICA DI CICERONE
Tra i «ragionamenti»1 di Cicerone gli Academicorum libri o Academica
occupano un posto di particolare rilievo, sia perché
l’oratore-filosofo, che non amava l’incompiuto, essendosi immerso in
problemi impegnativi di alta filosofia, cercò in ogni modo di dare
alla sua opera una struttura e una forma definitive2, sia perché in
quell’opera viene presentato l’ultimo grande dibattito tenutosi
nell’Accademia.
Oggetto di questo dibattito è il pensiero di Filone di Larissa e di
Antioco di Ascalona, i due maestri che Cicerone intese celebrare
quasi con pari amore e devozione e le cui idee egli contribuì a
diffondere nel mondo latino ormai divenuto abbastanza sensibile ed
aperto alle questioni filosofiche. Cicerone doveva ad Antioco non
poco della sua concezione filosofica specialmente per quanto
concerneva i problemi etico-politici e quelli linguistico-retorici3,
ma si sentiva maggiormente legato a Filone nel campo della filosofia
teoretica e soprattutto nell’impostazione del problema
gnoseologico4. E gli Academica mettono a tema specialmente
quest’ultimo problema, ricostruendone la storia per sommi capi
attraverso i due opposti angoli visuali di Antioco e di Filone,
quasi che le soluzioni apportate da questi due pensatori non fossero
suscettibili di superamento. Cicerone, infatti, coglie lo stato
della questione in un momento culturalmente molto delicato e pone,
con molta timidezza, il suo personale sigillo ad un dibattito aperto
da Arcesilao, incrementato dalla grande personalità di Carneade e
ormai esauritosi. Anche se la tetralogia accademica del fecondo
scrittore non ebbe, forse, mai una redazione definitiva ed ha subito
la grave usura del tempo, tuttavia la notevole parte conservataci è
per noi molto preziosa ai fini della conoscenza della scepsi antica.
Il Varro e il Lucullus, che inseriamo per interi nella presente
raccolta5, sono il frutto di un raro stato di grazia filosofica:
essi quasi rivaleggiano per acutezza con i passi sestiani che
affrontano il medesimo tema, ma li superano per la quantità e la
varietà delle notizie. Oltre a ciò essi conservano la freschezza
dell’attualità culturale e la riproducono in quel clima (c oratorio»
che non fu solo di Cicerone, ma di tutto il suo tempo.
Se possedessimo le opere di Enesidemo, che fu posteriore a Cicerone
solo di pochi decenni, avremmo la visione esatta del passaggio –
certamente non indolore – dello Scetticismo dalla sua fase
accademica a quella neo-pirroniana. Ma la perdita totale dell’opera
di Enesidemo ci rende molto incompleta questa visione; né, in questo
caso, vale a sostituirla il pur grande Sesto Empirico, il cui
pensiero, pur ricco di risonanze enesidemee, si formò in una
temperie storica molto diversa,
Dobbiamo, perciò, appagarci di Marco Tullio e dei suoi Academica, e
ciò è già parecchio per capire come e perché l’istanza scettica
abbandonò quasi definitivamente la vecchia scuola di Platone6 e,
mentre quest’ultima si andava preparando alla svolta plotiniana ed a
soluzioni mistico-religiose, essa bussò ad altre porte meglio
disposte ad accoglierla.
1. Secondo lo Hegel (Lez. sulla St. della Fil., I, p. 186) Cicerone
scorgeva i pensatori precedenti «soprattutto per il tramite del
ragionamento, non della speculazione».
2. Cicerone ebbe piena consapevolezza deirimportanza e
dell’originalità di questi suoi scritti. In una lettera ad Attico
(XIII, 9, 3-5) egli sottolineava la singolare diligenza da lui posta
nell’esecuzione di questo lavoro che, a suo avviso, sarebbe parso
qualcosa di nuovo anche ai Greci. La prima sezione fu il Catulus
(perduto), in cui il protagonista, Q. Lutazio Catulo (120 circa-60
a. C), esponeva il pensiero di Carneade attraverso il ricordo delle
conversazioni tenute da suo padre, che era stato ascoltatore diretto
del filosofo greco. La seconda sezione fu il Lucullus, capolavoro
filosofico di Cicerone; in questo dialogo L. Licinio Lucullo (110-57
a. C.) espone e difende il pensiero di Antioco, mentre lo stesso
Cicerone prende le difese del probabilismo di Filone e della Nuova
Accademia in generale. Il Catulus ed il Lucullus costituivano gli
Academica priora, vale a dire la prima redazione del ciclo
accademico ciceroniano. Ma l’autore non ne fu contento: si proponeva
di cambiare i personaggi, sostituendo a Lucullo (che, nonostante gli
elogi del dialogo, in ad Atticum I, 10, 1 Cicerone diceva di
disprezzare e in ad Atticum I, 9, 1 definiva sarcasticamente
«piscinarii nostri» per le ben note e raffinate cene «luculliane»
per antonomasia) in un primo momento Catone Uticense e poi Varrone,
ampliando la disamina e approfondendo la problematica gnoseologica
ed etica dell’Accademia. Ne venne fuori una tetralogia, che è
comunemente intitolata Academica Posteriora. Di essa fa parte il
Varro, di cui ci sono pervenuti solo i primi dodici capitoli e
qualche frammento conservato da Nonio. Qui M. Terenzio Varrone
(116-27 a. C.), grande poligrafo, si professa seguace di Antioco e
ne illustra il pensiero; dopo il suo intervento Cicerone prende
personalmente le difese di Filone, ma l’opera rimane interrotta poco
dopo l’esordio ciceroniano. Già nelle prime battute si nota un tono
più disteso rispetto al Lucullus e si può ritenere che l’intera
tetralogia mirasse non ad acutizzare le differenze tra Filone ed
Antioco, ma a tentare una conciliazione. La tetralogia dei
Posteriora utilizzava quasi certamente buona parte dei Priora: nel
secondo libro Cicerone esponeva il pensiero di Carneade; nel terzo
Varrone ne faceva la critica; nel quarto Cicerone controbatteva,
come già aveva fatto nella seconda parte del Lucullus. Non è,
inoltre, da escludere l’inserzione di parti dell’Hortensius (già
scritto prima degli Academica) come solenne conclusione protreptica
alla filosofia in generale e a quella accademica in particolare.
Trentacinque frammenti dei Posteriora sono stati raccolti
soprattutto attraverso Nonio, Lattanzio (Inst. div. III, 14, 24) e
Agostino (Contra Acad. II, 26; III, 14, 20). Celebre è il passo
Contra Acad. III, 15 ove è detto: «Al saggio accademico viene
conferito il secondo posto da parte di tutti quelli delle altre
sette i quali sembrano saggi, giacché ciascuno di costoro conferisce
ovviamente il primo posto a sé stesso: dal che si puô, con prove
alla mano, concludere che non erra a ritenersi primo a proprio
giudizio chi è ritenuto secondo a giudizio di tutti gli altri».
Delle numerosissime questioni concernenti gli Academica non è qui il
caso di parlare. Ci limitiamo soltanto a ricordare H. A. K. HUNT,
The Humanism of Cicero, Melbourne, 1954; A. E. DOUGLAS, Cicero in
Greece and Rome New Surveys in the Classics, no. 2, Oxford, 1968; C.
B. SCHMITT, Cicero secepticus, a Study of the Influence of the
Academica in the Renaissance, The Hague, 1972, fondamentale per
capire certi lati non consueti del ciceronianesimo umanistico.
3. Antioco fu la fonte del quinto libro del De finibus, di quasi
tutto il primo libro delle Tusculanae, di molti tratti del Somnium
Scipionis, di alcuni c pitoli (certamente di XXXVII-XXXIX) del primo
libro del De legibus, non ché di parecchi passi dei Topici (6-78
secondo 1’Arnim). Ma la sua presenza è riscontrabile anche in altre
sezioni del Corpus ciceronianum (cfr. M. PLEZIA, De Cic. Acad. diss,
tres, «Eos», 1937, pp. 26 segg.; LUCK, Der Akademiker Antiochos, pp.
35-6, 55-7, 71).
4. Sotto questo profilo l’ossatura filosofica della tetralogia dei
Posteriora era filoniana, anche se Cicerone, a causa dei suoi
ripensamenti e delle sue perplessità, talora accentuava i contrasti
interni all’Accademia prendendo come fonte Clitomaco e difendendo,
almeno teoricamente, la posizione rigida di Arcesilao, talora invece
mirava ad attenuare quei contrasti e indirizzava la conversazione
verso una vera e propria protreptica. Sembra, comunque, troppo
drastico il Reid (p. 53) quando afferma che Cicerone scriveva gli
Academica tenendo sul tavolo il libro di Antioco, quello di Filone e
più di un’opera di Clitomaco, senza dir proprio nulla di personale,
giacché «the only questi personal to Cicero which can arise touches
his fidelity as a translator».
5. La nostra traduzione è stata eseguita, in linea di massimima, sul
testo del Plasberg (Lipsiae, 1922); di grande utilità sono stati
l’aureo volume M. T. CICERONIS, Academica, edidit et commentavit J.
S. Reiá, London, 1885 (ed. anast. Hidelsheim, 1966), il testo e la
traduzione inglese di H. Rackham (London-Cambridge Mass., 1967) e
l’edizione ottimamente scolastica del nostro Marmorale Academicus
Primus, Varro, Milano, 1935 e Lucullus, Milano, 1935).
6. Una certa continuità scettica permaneva nell’Accademia fino ai
tempi di Plutarco e di Favorino, ma anche queste due singolari
personalità, come altre di cui sappiamo solo i nomi, non erano prive
di altre esigenze e di orientamenti eterogenei.
VARRONE
Poco tempo fa il nostro Attico1 stava con me nella villa di Cuma,
quando ci giunse dalla casa di Marco Varrone2 la notizia che questi
era partito da Roma la sera precedente e che, se il viaggio non lo
avesse stancato, sarebbe ben presto arrivato da noi.
Non appena udimmo ciò, fummo d’accordo che non si dovesse mettere in
mezzo alcun impedimento a rivedere un uomo che era a noi congiunto
dai medesimi interessi culturali e da un’antica amicizia. Così
decidemmo subito di recarci da lui. Ed eravamo lontani solo un po’
dalla sua villa, quando ce lo vedemmo venire verso di noi. Lo
abbracciammo, come è costume tra amici ((non ci eravamo visti3) da
parecchio tempo). e lo riaccompagnammo alla sua villa.
Qui dapprima ci parlò di pochi avvenimenti, sol perché fummo noi a
chiedergli se a Roma ci fossero novità. Ma a questo punto Attico mi
disse: «Smettila, per favore, con queste faccende che non potremmo
né domandare né udire senza fastidio, chiedigli piuttosto quali
novelle sue personali egli ci rechi. Difatti le Muse di Varrone
stanno tacendo più a lungo del solito4, quantunque io creda che lui
non se ne stia in ozio, ma tenga celato ciò che scrive».
«Niente affatto! – rispose Varrone – A parer mio è da egoisti
scrivere una cosa con l’intento di tenersela nascosta; ma ho una
grande opera5 per le mani, e l’ho già da tempo e a questo signore
qui – e alludeva a me – ne ho dedicata una fetta che è già grossa e
che vado limando con pulizia anche eccessiva».
A questo punto diss’io: «Son cose, o Varrone, che già
sto aspettando da un pezzo. Ho sentito dire dal nostro Libone6,
di cui ben conosci l’affetto (e cose di questo genere non riusciamo
mai a tenercele nascoste), che tu a questa fetta stai lavorando
senza interruzione e la stai trattando con troppa diligenza senza
lasciarla mai di mano. C’è, però, una cosa che, prima dell’occasione
attuale, non mi è mai venuto in mente di chiederti. Ma ora, siccome
ho iniziato a metter per iscritto quelle dottrine che ho imparato
insieme con te ed a spiegare in lingua latina quell’antica filosofia
che trasse origine da Socrate7, ti chiedo di farmi sapere per quale
motivo, mentre pur scrivi di tanti argomenti, tralasci questo genere
di questioni, e te lo chiedo soprattutto perché tu sei eccellente in
esso e perché l’interesse per questo intero campo della cultura ha
di gran lunga la precedenza su tutti quanti gli altri interessi
culturali e artistici».
«Tu mi stai ponendo – rispose lui – un problema che sovente mi
sono posto anch’io e sul quale ho molto riflettuto. Pertanto, senza
esitare, ti risponderò, ma mi limiterò a dire quello che ho a
portata di mano, giacché proprio su questo tema, come dicevo, ho
fatto molte e lunghe meditazioni. Ho ben presente che la filosofia è
stata trattata con la massima scrupolosità in lingua greca ed ho,
perciò, ritenuto che quei pochi fra i nostri che ne provavano
interesse, nel caso che possedessero una piena conoscenza della
cultura greca, avrebbero letto le opere greche piuttosto che le mie;
nel caso, invece, che si tenessero lontani dalle arti e dalla
cultura ellenica, non si sarebbero curati neanche di questi
argomenti, che, del resto, è impossibile capire senza possedere una
soda preparazione nel campo della civiltà greca. Ecco perché non ho
voluto scrivere cose che gli sprovveduti non avrebbero potuto capire
e le persone cólte non si sarebbero degnate di leggere. E lo vedi da
te: difatti tu ben sai che io non potrei comportarmi come un
Amafinio8 o un Rabirio9, i quali, senza seguire alcun metodo
d’indagine, trattano di argomenti banali in un linguaggio
popolaresco, non danno alcuna definizione, non fanno alcuna
partizione, non riescono ad articolare alcuna dimostrazione per
mezzo di istanze appropriate e, alla fine dei conti, non credono
nell’esistenza di alcuna arte oratoria e dialettica10. Noi, invece,
portando anche alle regole dei dialettici e degli oratori
quell’obbedienza che si deve alle leggi, poiché i nostri11 assegnano
ad entrambe queste facoltà un ruolo di grande rilievo, siamo
costretti a fare uso anche di neologismi, che, come ho detto, le
persone cólte preferiranno desumere direttamente dai Greci e che gli
sprovveduti non saranno disposti ad accogliere neppure da noi;
sicché ogni fatica andrebbe sprecata.
Senza dubbio, per quanto concerne questioni di fisica, se io fossi
d’accordo con Epicuro – o, meglio, con Democrito12 –, sarei già in
grado di scrivere con la stessa chiarezza di Amafinio. Difatti, una
volta tolta di mezzo la ricerca delle cause efficienti, non si
presenta alcuna grave difficoltà a parlare del “concorso casuale dei
corpuscoli” (con questo nome egli chiama gli atomi). Ma la nostra
fisica tu la conosci bene: essa si fonda su un principio attivo e su
una materia che da questo principio attivo viene plasmata e riceve
una forma; perciò è indispensabile il ricorso anche alla
geometria13. Ma questa con quale linguaggio si potrebbe enunciare
chi è nelle condizioni di farsi guidare a capirla?
Queste stesse questioni concernenti la vita pratica e il
comportamento morale e quello cui bisogna aspirare o sfuggire,
essi14 le trattano in modo semplicistico, giacché identificano il
bene dell’uomo con quello di una bestia. Ma tu sai bene con quale e
quanta sottigliezza siffatti problemi vengano trattati dai nostri.
Se, infatti, tu intendi metterti al seguito di Zenone, è un’ardua
impresa far capire l’essenza di quel bene vero e assoluto che è
impossibile separare dalla rettitudine morale (bene la cui essenza
Epicuro dice di non poter neppure supporre senza quei piaceri che
mettono in moto i sensi); se, d’altra parte, intenderemo attenerci
all’Accademia Antica15 – alla quale, come sai, io do la mia adesione
–, a quanta acutezza, a quanta argutezza, a quanta oscurità di
concetti dovremo far ricorso per poter anche intavolare una
discussione contro gli Stoici!16
Ecco, allora, che l’intero ciclo degli studi filosofici io lo
percorro per conto mio, sia per dare – nei limiti del possibile –
una coerenza alla mia vita sia per rallegrare lo spirito; e credo –
come sta scritto in Platone17 – che dagli dei non sia stato offerto
agli uomini un dono più grande e più bello della filosofia.
Ma i miei amici, cui la filosofia sta a cuore, io li spedisco in
Grecia, vale a dire li esorto a rivolgersi agli autori greci, perché
possano attingere alle sorgive, piuttosto che mettersi alla ricerca
di rivoli d’acqua. Quelle cose, invece, che finora nessuno aveva
insegnato e di cui mancavano le fonti perché gli studiosi potessero
acquisirne conoscenza, io, nei limiti delle mie possibilità (non
sono, in verità, un grande ammiratore della roba mia), le ho fatte
conoscere ai nostri: esse, infatti, non si potevano pretendere dai
Greci e, dopo la morte del nostro Lucio Elio18, neanche dai Latini.
Eppure in quei miei vecchi scritti19, che io – facendo l’imitazione,
ma non la traduzione di Menippo – ho spruzzati di un certo buon
umore, sono mescolate molte cose provenienti dalla più profonda
filosofia e molte espressioni sono conformi alle norme della
dialettica, affinché le persone meno cólte, invitate alla lettura da
una certa piacevolezza, le potessero capire più agevolmente; e nelle
Celebrazioni20 e nelle stesse introduzioni alle Antichià21 ho inteso
scrivere con un andamento filosofico, se pur vi sono riuscito».
Allora io soggiunsi: «Sì, è vero, o Varrone. Difatti, mentre noi, a
guisa di ospiti, ci sentivamo pellegrini ed errabondi nella nostra
città, i tuoi libri ci hanno, per così dire, rimenato a casa,
mettendoci in grado di riconoscere, una buona volta, chi siamo e
dove viviamo. Tu ci hai appalesato l’età della nostra patria, le
successioni cronologiche, il diritto sacrale e quello sacerdotale,
le istituzioni di pace e di guerra, i nomi, i generi, le funzioni,
le cagioni dei quartieri, delle località, e, insomma, di tutte le
cose divine ed umane; tu hai gettato vivissima luce sui nostri poeti
e, in generale, sulla letteratura e sulla lingua latina e, per
giunta, hai creato opere poetiche di vario argomento e di forma
elegante in quasi tutti i metri, e in molti casi hai affrontato
anche temi filosofici, quantunque lo abbia fatto in maniera
sufficiente per indurci alla filosofia, ma non bastevole per darcene
veri e propri insegnamenti. E di ciò tu adduci un pretesto che è
indubbiamente accettabile: infatti o i competenti preferiranno
leggere le opere greche o gli incompetenti non leggeranno nemmeno le
nostre. Ma una dimostrazione esauriente tu non ce la stai dando;
ché, anzi, quanti non potranno leggere le opere greche, leggeranno
queste nostre, e quanti potranranno leggere quelle greche, non
disprezzeranno la roba di casa loro, Che motivo c’è, infatti, per
cui i conoscitori della cultura ellenica debbano conoscere i poeti
latini e non già i filosofi latini? Forse perché procurano diletto
un Ennio, un Pacuvio, un Accio e molti altri che non tradussero alla
lettera, ma riuscirono ad emulare il vigore espressivo dei poeti
greci? Quanto maggior diletto recheranno: filosofi, se, come quelli
hanno imitato Eschilo, Sofocle ed Euripide, così essi imiteranno
Platone, Aristotele e Teofrasto! Io constato che sono stati elogiati
anche quei nostri oratori i quali sono riusciti ad imitare un
Iperide o un Demostene. Da parte mia, poi, o Varrone (dirò la
cosa come è realmente), finché mi tenevano irretito e legato
con i loro molti impegni le ambizioni politiche, le cariche
pubbliche, i processi e non la semplice preoccupazione ma il
concreto esercizio del governo, tenevo chiusi nel mio animo questi
studi e, per non farli ammuffire, li rinfrescavo con la lettura,
quando mi era consentito; ma adesso, gravemente ferito dalla sorte22
ed esonerato dal governo dello Stato23, chiedo alla filosofia la
medicina del dolore e considero quella come il più dignitoso diletto
del mio ozio. Infatti o ciò si adatta soprattutto a questa mia età o
è, più di ogni altra cosa, in piena coerenza con queste mie azioni –
se pur mai ne ho compiute meritevoli di ricevere lode – o non v’è
nulla che sia più utile alla formazione culturale dei nostri
concittadini, oppure, se non è vero nulla di tutto questo, non vedo
niente altro che io sia capace di fare. Del resto, il mio caro
Bruto24, degno del più alto elogio per tutti i suoi ottimi
requisiti, si occupa di filosofia in lingua latina, fino al punto
che non si sente il bisogno di opere greche sugli argomenti da lui
trattati, e segue il medesimo indirizzo che segui tu: difatti per un
certo tempo è stato discepolo di Aristo, il cui fratello Antioco è
stato maestro tuo. Perciò, ti prego, impegnati anche in questo
genere letterario».
E Varrone: «Rifletterò su quanto dici e senza
tenertene all’oscuro. Ma che diamine sento dire sul tuo conto?»
«A proposito di che?» io chiesi.
«Che tu hai abbandonato l’Accademia Antica – disse lui – -e ti sei
messo a frequentare la Nuova»25.
«E che c’è di strano? – ribattei – Il nostro amico Antioco si sarà
preso il permesso di ritornare dalla casa nuova in quella vecchia ed
io non l’avrò per trasferirmi dalla vecchia in quella nuova?
Certamente quanto più una cosa è nuova tanto più ha avuto correzioni
ed emendamenti. Eppure il maestro di Antioco, il grande Filone –
come anche tu lo stimi – negava nei suoi libri26 – e l’abbiamo
ascoltato anche a viva voce – l’esistenza di due Accademie e confutò
l’errore di quanti la pensassero così».
«È come dici tu – osservò lui –, ma credo che tu conosca bene la
risposta che Antioco dette per iscritto contro le affermazioni di
Filone».
«Vorrei anzi – diss’io – che tu, se non ti è di fastidio, non solo
rinfrescassi queste polemiche, ma passassi in rassegna tutta quanta
l’Accademia Antica, dalla quale è un bel po’ che io mi tengo
lontano». Ed aggiunsi subito: «Mettiamoci a sedere, se ti pare
opportuno».
«Benissimo! – rispose lui – Non sto affatto bene in salute. Ma
vediamo se Attico gradisce che io faccia quello che m’accorgo essere
il tuo desiderio».
«Per conto mio – intervenne Attico – non c’è nulla che io preferisca
alla rievocazione di quanto ho già precedentemente udito dalla bocca
di Antioco27 e, nello stesso tempo, all’occasione di vedere se sia
possibile riportare abbastanza bene in lingua latina i suoi punti di
vista».
Dopo questo esordio di espressioni, ci sedemmo tutti e tre l’uo di
fronte all’altro.
Allora Varrone cominciò nel modo seguente:
«A mio avviso, Socrate – e su ciò tutti sono d’accordo – fu il primo
a sganciare la filosofia dalle cose occulte e inviluppate dalla
stessa natura, alle quali si erano dedicati tutti i filosofi prima
di lui, e ad indirizzarla verso la vita comune. E questo egli fece
allo scopo di fissare le sue indagini sulle virtù e sui vizi e,
insomma, sui beni e sui mali e per confortare, altresì, il suo punto
di vista secondo il quale i fenomeni celesti o sono lontani dalla
nostra capacità conoscitiva oppure, anche se fossero conosciuti alla
perfezione, non avrebbero, tuttavia, nulla a che vedere con la
buona condotta della vita. In quasi tutte le conversazioni, che dai
suoi allievi sono state tramandate per iscritto con varietà e
dovizia di particolari, egli discute in modo tale da non fare alcuna
sua affermazione personale, da confutare, invece, quelle degli altri
e da dire di non saper nulla tranne quest’ultima cosa soltanto; così
egli ribadisce la propria superiorità rispetto agli altri in ciò,
ossia nel fatto che costoro credono di sapere quello che non sanno,
mentre lui sa solamente di non sapere e sostiene che, a suo
giudizio, Apollo lo ha dichiarato il più sapiente di tutti proprio
per questo motivo, ossia perché l’unica sapienza riservata all’uomo
sta nel non illudersi di sapere quello che non si sa28.
Queste cose egli le ripeteva costantemente e perseverava in questo
modo di pensare e, perciò, ogni suo discorso era tutto quanto speso
a lodare la virtù e ad indurre gli uomini ad amarla, come si può
evincere dai libri dei Socratici e soprattutto da quelli di Platone.
E sull’autorità di Platone – il quale ebbe svariati,
molteplici e ricchi interessi culturali – è fondato un unico e
coerente sistema filosofico che pur ha due denominazioni, quella
degli Accademici e quella dei Peripatetici. Ma costoro si trovano
d’accordo tra loro sui contenuti essenziali e differiscono solo di
nome29.
Platone, infatti, aveva lasciato la sua filosofia quasi in eredità a
Speusippo, figlio di sua sorella, e, oltre che a lui, a due uomini
di profondo interesse per la filosofia e di altissimo livello
culturale, vale a dire Senocrate di Calcedonia e Aristotele di
Stagira; e i compagni di Aristotele furono chiamati “Peripatetici”
perché discutevano passeggiando nel Liceo, mentre quelli che,
secondo la costumanza instaurata da Platone, solevano tenere
riunioni e conversazioni nell’Accademia, che è l’altro ginnasio di
Atene, presero il loro appellativo dal nome di questa località. Ma
tanto gli uni quanto gli altri, fecondati dala ricchezza spirituale
di Platone, formularono un ben determinato insieme di teorie, un
ricco ed esauriente sistema filosofico e abbandonarono, invece, la
celebre consuetudine socratica di discutere su ogni questione
sollevando dubbi ed evitando di fare alcuna affermazione. Venne a
crearsi, in questo modo, ciò che Socrate non avrebbe mai approvato:
una certa “arte” filosofica, un sistema della realtà [rerum ordo],
una enciclopedia delle scienze [descriptio disciplinae].
Si trattava all’inizio, come ho detto, di una sola dottrina
filosofica con due nomi: non c’era alcuna differenza tra i
Peripatetici e la famosa Accademia Antica. Si estolleva, a mio
modesto avviso, per abbondanza di doti spirituali Aristotele, ma gli
uni e gli altri attingevano alla medesima fonte ed era identico il
loro modo di distinguere quello che si deve ricercare da quello che
si deve evitare.
Ma che sto combinando? – soggiunse Varrone – Non sono forse uno
stupido a farvi da maestro in queste cose? Sì, non è il caso del
povero maiale che pretende di dar lezione a Minerva, come dice il
proverbio, ma pur si comporta da sciocco chiunque pretenda di farla
da maestro a codesta divinità»30.
A questo punto intervenne Attico: «Va avanti, o Varrone: sono molto
innamorato delle nostre cose e dei nostri uomini e mi piace
ascoltare codesti argomenti in latino e nella maniera usata da te».
Ed io: «Immagina quale gioia provi io che mi sono proposto
ufficialmente di spifferare31 la filosofia al nostro popolo!».
«Tiriamo innanzi, allora – disse Varrone -, poiché vi è gradito! Già
Platone accettò il criterio di dividere la filosofia in tre
sezioni32: una riguardante la vita pratica e la morale, un’altra la
natura ed i suoi segreti, la terza le argomentazioni logiche e il
giudizio sul vero e sul falso, sull’espressione corretta o
scorretta, su ciò che è conforme a ragione o in contrasto con
questa.
Anzitutto quella parte della filosofia che concerne la vita beata
essi la facevano risalire alla natura33 e sostenevano che
quest’ultima si deve obbedire e che esclusivamente nella natura si
deve ricercare quel sommo bene al quale ogni cosa si riporta, e
identificavano l’oggetto supremo dei nostri desideri e il termine
ultimo dei beni col possesso di ogni cosa in conformità con la
natura, con l’anima, col corpo, con la vita.
Per quanto concerne il corpo, poi, alcuni beni li riponevano nella
interezza di questo, altri nelle sue parti: la salute, la prestanza
fisica, la bellezza nell’intero corpo, invece nelle parti di questo
la piena efficienza dei sensi e la specifica funzionalità dei
singoli organi, ad esempio la velocità nei piedi, la forza nelle
mani, la chiarezza nella voce, ed anche la pronuncia esatta delle
parole nella lingua. Per quanto, invece, concerne
l’anima, riponevano in essa quei beni che valgono a darci il
pieno possesso spirituale della virtù, e assegnavano quei beni in
parte alla natura, in parte alle costumanze morali. Attribuivano
alla natura la prontezza dell’apprendimento e la capacità mnemonica,
ritenendole entrambe come proprietà intellettive e intuitive; alle
costumanze morali, invece, assegnavano le tendenze e la
consuetudine, che reputavano costituita in parte dall’assiduo
esercizio, in parte da un metodo razionale, ossia dalle due cose in
cui ha sede la stessa filosofia.
Nell’ámbito di quest’ultima, ciò che viene intrapreso ma non portato
a compimento si chiama, per così dire, “avviamento alla virtù”,
mentre ciò che è compiuto – vale a dire la virtù – è, per dir così,
la perfezione della natura e di gran lunga la migliore di tutte le
proprietà che essi ripongono nell’anima.
Questi sono, insomma, i beni dell’anima; per quanto, infine,
concerne la condotta della vita (questa costituiva la terza
sezione), sostenevano che sono strettamente legate ad essa le cose
che valgono alla pratica della virtù. Ecco, dunque, che la virtù è
posta nei beni dell’anima, in quelli del corpo e in alcune cose che
sono collegate non tanto con la natura quanto con la vita beata.
Essi pensavano, infatti, che l’uomo è quasi una porzione dello Stato
e di tutto quanto il genere umano e che è congiunto con gli altri
uomini con un legame di solidarietà. Ed è questo il modo in cui essi
trattano del bene supremo e conforme a natura; reputano, invece, che
tutti gli altri beni – come la ricchezza, la potenza, la gloria, il
favore – mirano o ad accrescere quello o a conservarlo. Così essi
suddividono razionalmente i beni in tre sezioni.
Ecco, dunque, quelle tre specie di beni di cui, come generalmente si
crede, parlano i Peripatetici. E non si sbaglia a crederlo (ché a
costoro risale questa partizione); ma ci si comporta, invece, da
ignoranti, se si crede che quelli che allora erano chiamati
Accademici siano diversi dai Peripatetici. Questo criterio divisorio
essi lo hanno in comune, e agli uni e agli altri il fine dei beni
sembrava essere questo, ossia il conseguimento di quei beni che
occupano il primo posto nella natura e che si devono cercare di per
se stessi, o tutti quanti o i più importanti34; sono, poi, i più
importanti quelli che risiedono o nella stessa anima o nella stessa
virtù. Pertanto tutti i filosofi di quell’antico indirizzo pensarono
che la vita beata è riposta esclusivamente nella virtù, ma che,
tuttavia, essa non è beata in senso assoluto, se non vi si
aggiungono anche i beni del corpo e tutti gli altri che
precedentemente35 abbiamo definiti idonei alla pratica della virtù.
Sulla base di questa classificazione veniva trovato anche il
principio di una qualche attività nella vita e dello stesso dovere,
e questo principio consisteva nella preservazione di ciò che viene
prescritto dalla natura. Di qui scaturiva la necessità di evitare
l’inazione e di disprezzare i piaceri, di qui la necessità di
affrontare molte e grandi fatiche e sofferenze ai fini della
rettitudine e dell’onestà e di tutte quelle cose che sono conformi
ai comandamenti della natura, di qui desumevano la loro esistenza
l’amicizia, la giustizia e l’equità e venivano anteposte ai piaceri
e ai molti vantaggi della vita.
Questa fu, indubbiamente, presso di loro la norma della condotta
morale, questa la formulazione e la descrizione che essi fecero di
quella parte della filosofia che ho esaminata per prima.
Invece, a proposito della natura (questa sezione veniva posta subito
dopo), essi sostenevano che essa vada divisa in due princìpi,
concepiti in modo che il primo sia efficiente, mentre il secondo,
per così dire, si mette a disposizione del primo e ne subisce certe
modificazioni36.
Essi pensavano che nel principio efficiente sia immanente una forza
motrice, mentre in quello ad esso subordinato ci sia soltanto una
certa materia, ma che, tuttavia, entrambi i princìpi coesistano
l’uno entro l’altro, giacché la stessa materia non avrebbe potuto
trovare una sua coesione senza essere tenuta insieme da una forza né
la forza avrebbe potuto sussistere senza l’esistenza di una qualche
materia; infatti non esiste cosa alcuna senza essere necessariamente
in qualche luogo37. E il risultato dell’insieme di questi due
princìpi essi lo chiamavano corpo e, per così dire, “qualità
determinata”38 – mi darete senz’altro il permesso di usare
neologismi nella trattazione di argomenti che sono nuovi anch’essi
(così si comportano i Greci, dai quali questi problemi sono trattati
già da lungo tempo) –».
«Ma noi ti permetteremo – intervenne Attico – di usare a tuo
piacimento anche termini greci, nel caso che ti verranno meno quelli
latini»39.
«Fai benissimo – continuò Varrone –, ma mi sforzerò di parlare in
latino, tranne che nell’uso di termini quali “filosofia” o
“retorica” o “fisica” o “dialettica”, che, come molti altri, vengono
ormai usati per consuetudine al posto di quelli latini. Ho chiamato,
dunque, “qualità” quelle che i Greci chiamano πoιóτητας, vocabolo
che anche presso di loro non è popolare, ma proprio dei filosofi,
anzi si trova in uso presso molti di costoro; così pure non esiste
nessun termine dei dialettici che sia di uso comune, ma costoro si
servono di una terminologia che resta riservata solo per loro. Ed è,
questa, una caratteristica comune a quasi tutte le arti: difatti o
bisogna creare nuovi vocaboli per contenuti nuovi oppure bisogna
inferirli da altri vocaboli già in uso. E se lo fanno i Greci, che
ormai da tanti secoli si dedicano a questi problemi, quanto più
bisogna permetterlo a noi, che tentiamo di occuparci di questi
argomenti adesso per la prima volta!»40
«Ma proprio tu, o Varrone – diss’io –, avrai grandi meriti, a mio
avviso, presso i tuoi concittadini, se li farai più ricchi non solo
di cose, come già hai fatto, ma anche di parole».
«Avrò, allora, l’ardire – disse lui – di usare neologismi sotto la
tua alta protezione, se sarà indispensabile!
Orbene: fra le “qualità” di cui ho parlato, alcune sono primarie,
altre derivate dalle primarie. Le primarie sono uniformi e semplici;
quelle derivate da esse sono varie e, per così dire, multiformi.
Pertanto l’aria (usiamo anche questo termine come se fosse latino) e
il fuoco e l’acqua e la terra sono “qualità” primarie: da queste,
invece, sono scaturite le forme degli esseri animati e dei prodotti
della terra. Pertanto quelli sono chiamati “princìpi” o, per
tradurre dal greco, “elementi” e tra loro l’aria e il fuoco hanno la
potenza di muovere e di agire, mentre le rimanenti qualità – vale a
dire l’acqua e la terra – hanno quella di ricevere e, per dir così,
di patire41. Un quinto elemento, di cui sarebbero composti gli astri
e le sostanze intellettuali, Aristotele riteneva che fosse un genere
a sé stante e un qualcosa di dissimile dai quattro su menzionati42.
Essi, comunque, reputano che una certa materia sia sogiacente a
tutti gli elementi, priva di forma e di ogni qualità (diamo a questo
termine, a furia di parlarne, un uso più frequente e comune); e da
questa materia sono cavate fuori ed effettuate tutte quante le cose,
perché essa nella sua totalità può accoglierle tutte43 e può mutarsi
in ogni guisa e da ogni parte e, quindi, può anche corrompersi,
senza annullarsi, ma solo riducendosi alle sue parti, che è
possibile tagliare e dividere airinfinito, giacché nella natura
universale non esiste nulla di tanto piccolo da essere
indivisibile44. Poiché quella forza che noi abbiamo chiamata45
“qualità” si muove in questo modo e si agita da una parte e
dall’altra, essi reputano che la materia stessa muti profondamente
in tutta la sua interezza e si producano quelle cose che essi
chiamano “qualità”, da cui – come si riscontra in ogni essere
naturale die abbia coesione e continuità in tutte le sue parti – è
stato prodotto un unico mondo, al di fuori del quale non esistono
alcuna parte di materia e alcun corpo; sono, invece, “parti cel
mondo” tutte le cose che si trovano al di dentro di esso e che sono
tenute insieme da una natura fornita di sensi, nella quale è
immanente una ragione perfetta, che è pur essa eterna (giacché non
esiste cosa più forte di essa che possa distruggerla); e questo
potere essi lo chiamano “anima del mondo” e l’identificano anche con
un’intelligenza e una sapienza perfetta, che essi chiamano “Dio” e
sostengono che questo potere è, per così dire, una “provvidenza” per
tutte le cose che le sono soggette e che ha in sua cura soprattutto
le cose celesti e, poi, anche quelle che, sulla terra, riguardano
gli uomini; e questo potere essi lo identificano talora con la
necessità, perché nulla può esistere in modo diverso da come esso ha
stabilito, talora, invece, con la fatale ed immutabile continuità di
un ordine eterno, e qualche volta, infine, con la fortuna, giacché
produce molti effetti imprevisti e inattesi per noi, perché le loro
cause sono oscure e noi le ignoriamo.
La terza sezione della filosofia, che consiste di ragionamento e di
discussione, gli uni e gli altri la trattavano nel modo seguente.
II giudizio della verità, pur nascendo dai sensi, tuttavia non
risiede in essi. Sostenevano, infatti, che giudice delle cose sia
l’intelletto e ritenevano che solo quest’ultimo abbia requisiti
idonei a riscuotere fiducia, perché esso solo sa distinguere ciò che
è semplice ed uniforme e tale quale realmente è (essi lo chiamavano
“idea” con un appellativo già usato da Platone, mentre noi faremmo
bene a chiamarlo “species”46). Credevano, altresì, che tutti i
sensi sono inebetiti e lenti, del tutto incapaci di percepire le
cose che pur sembrano soggette ai sensi, perché esse o sono tanto
piccole da non poter cadere sotto il senso o hanno la possibilità di
muoversi con tanta velocità da non risultare mai nulla di unitario e
costante e neppure di identico, per il motivo che tutte scivolano
via e fluiscono continuamente47.
Ecco perché tutto questo insieme di cose essi lo
chiamavano “opinabile” pensavano, invece, che la scienza non
risiede in alcun luogo se non nelle nozioni dell’anima e nei
ragionamenti48. Per questo motivo erano inclini alle definizioni
degli oggetti e le usavano per tutti i temi delle loro
discettazioni; erano propensi anche alla spiegazione dei termini
linguistici, ossia a precisare per quale motivo ogni oggetto avesse
ricevuto il proprio nome, e quest’attività la chiamavano
“etimologia”49; poi si servivano di certe argomentazioni e, per così
dire, della guida di certi contrassegni delle cose50, per provare e
dimostrare ciò che volevano chiarire.
A questa sezione della filosofia51 veniva assegnata tutta la
dottrina della dialettica, ossia di un procedimento discorsivo
articolato da dimostrazione razionale; e quasi come controparte di
essa usarono la facoltà del linguaggio oratorio, la quale è in grado
di dispiegare un lungo discorso mirante alla persuasione52.
Era questo il loro originario “sistema filosofico” ricevuto in
eredità da Platone. Ma, se voi volete, ne esporrò i posteriori
mutamenti, per quel che sono riuscito a veder con chiarezza».
«Sì, lo vogliamo – diss’io – e ne potrei rispondere anche a nome di
Attico».
«E ne rispondi bene – soggiunse Attico –; difatti Varrone ci ha
spiegato la dottrina originaria dei Peripatetici e dell’Accademia
Antica con chiarezza esemplare».
«Orbene, – Varrone proseguì – Aristotele fu il primo a vibrare
un colpo alle “specie ideali” di cui poc’anzi ho parlato53 e di cui
Platone aveva trattato con meravigliosa complessità fino al punto da
affermare in esse la presenza di un qualcosa di divino. Poi
Teofrasto, uomo dalla parola attraente54 e dai costumi così retti da
conservare sul viso i lineamenti di una purezza dignitosa, riuscì ad
infrangere, in un certo qual modo, anche con maggiore impetuosità il
prestigio dell’antica dottrina. Egli tolse, infatti, alla virtù il
suo splendore e la indebolì negando che la vita beata sia riposta
esclusivamente in essa. E il suo allievo Stratone55, che pur ebbe un
ingegno acuto, deve essere completamente escluso da
quell’indirizzo filosofico: egli, infatti, accantonò quella sezione
fondamentale della filosofia che si occupa della virtù e dei costumi
e si dedico completamente all’indagine fisica, e persino nell’ambito
di quest’ultima venne in grave dissenso con i suoi colleghi56.
Invece Speusippo e Senocrate, che erano stati i primi ad ereditare
la metodologia e l’autorità di Platone, e, dopo di loro, Polemone e
Cratete e, parimenti, Crantore restarono raccolti nell’Accademia a
difendere con zelo le dottrine tramandate dai loro predecessori. E
assidui ascoltatori di Polemone furono, in un primo tempo,
Zenone ed Arcesilao57. Ma Zenone, che era più anziano di Arcesilao e
sapeva discettare con molta sottigliezza e dare intelligentissimo
movimento al suo pensiero, fece il tentativo di emendare il sistema.
Se vi sembra il caso, vi preciserò anche – come era solito fare
Antioco – in che cosa consista questo suo emendamento».
«A me senz’altro sembra il caso – diss’io – e vedi che anche
Pomponio fa cenno di sì».
«Orbene, – riprese Varrone – Zenone58 non aveva nessuna intenzione
di recidere, al pari di Teofrasto, i nervi della virtù, ma, al
contrario, riponeva esclusivamente nella virtù tutto quello che
riguardasse la vita beata e nessun’altra cosa annovera tra i beni e
assegnava alla rettitudine morale il titolo di assoluto ed
unico bene. Tutte le altre cose, invece, sebbene non fossero né beni
né mali, egli diceva che in parte erano “secondo natura”, in parte
“contro natura”; e anche tra questi due gruppi ne interponeva altre
e le annoverava come cose “intermedie”. Egli insegnava che bisogna
accogliere e ritener degne di una certa stima quelle cose che
fossero secondo natura, e che il contrario si deve fare con quelle
che fossero contro natura; invece quelle che non fossero
né-l’uno-né-l’altro le lasciava in mezzo e le considerava prive
di ogni rilievo. Ma, tra quelle che bisogna accogliere, alcune,
secondo lui, meritano stima maggiore, altre minore. Quelle che la
meritano maggiore egli le chiamava “preferite”, mentre chiamava
“respinte” quelle che la meritano minore59. E come aveva introdotto
questi mutamenti non tanto nella sostanza quanto nella terminologia,
così tra le azioni rette e quelle peccaminose, tra dovere e ciò che
è contro il dovere, collocava certe azioni intermedie, mentre
riponeva tra i beni esclusivamente le azioni rettamente compiute e
tra i mali quelle compiute in modo scorretto, ossia le peccaminose;
poneva invece, come ho detto, tra le cose intermedie la
conservazione o l’omissione di doveri. E mentre i pensatori
precedenti sostenevano che risiedono nella ragione non tutte le
virtù ma solo alcune che hanno come punto di partenza, diciamo così,
la natura e i costumi, egli, invece, le poneva tutte quante nella
ragione; e mentre quelli ritenevano separabili tra loro i generi
delle virtù sopra menzionate60, egli sosteneva che siffatta
separazione è assolutamente impossibile e, inoltre, che non solo la
pratica della virtù – come avevano sostenuto i pensatori precedenti
-, ma la stessa abitudine ad essa è di per sé eccellente e che,
tuttavia, nessuno la possiede senza farne un uso continuo; e mentre
quelli non intendevano eliminare dall’essere umano la perturbazione
dell’anima e so-stenevano che, per natura, l’uomo si duole e
desidera, teme ed è sollevato dalla gioia, e si limitavano, altresì,
a contrarre o a ridimensionare quei turbamenti, egli volle che il
sapiente ne fosse del tutto esente, quasi che si trattasse di
malattie; e mentre gli antichi sostenevano che quei turbamenti
dell’anima sono naturali e incontrollabili dalla ragione e
riponevano la cupidigia in una parte dell’anima e la ragione in
un’altra, egli non era d’accordo con loro neppure in questo. Difatti
reputava che anche i turbamenti sono volontari e originati dal
giudizio che si basa sull’opinione, e considerava l’intemperanza
smoderata come madre di tutte le perturbazioni61.
Era, questo, il suo pensiero morale.
A proposito, poi, degli elementi naturali egli la pensava così:
anzitutto poneva quattro elementi e non sapeva cosa farsene di quel
quinto elemento da cui i pensatori precedenti62 credevano che
fossero formati i sensi e l’intelletto. Egli, infatti, sosteneva che
è appunto il fuoco l’elemento naturale generatore di ogni cosa e,
quindi, anche dell’intelligenza e del senso. Era anche in contrasto
con quei pensatori, perché riteneva assolutamente impossibile la
produzione di alcun effetto da parte di una entità incorporea, ossia
da un genere in cui, secondo Senocrate e i filosofi precedenti,
rientra anche l’anima, ed aggiungeva che nessuna causa efficiente e
nessun effetto sono possibili senza essere corpi63.
Moltissimi mutamenti apportò, inoltre, alla terza sezione della
filosofia64. In questo settore egli introdusse, anzitutto, alcune
novità a proposito dei sensi, che ritenne essere in stretta
relazione con un certo impulso presentantesi dall’esterno, che egli
chiamò φαντασία e che a noi sia consentito chiamare
“rappresentazione [visum]”65 – e teniamo questo termine ben fisso in
mente, giacché lo dovremo ripetere alquanto spesso nel resto della
conversazione! –; ma a queste rappresentazioni che sono apparse ai
sensi e sono state quasi accolte da essi, egli aggiunse l’assenso
dell’anima66, il quale, secondo lui, è posto in noi e dipende dalla
nostra volontà. Egli non annetteva fiducia a tutte le
rappresentazioni, ma esclusivamente a quelle che possedessero una
certa nota chiarificatrice degli oggetti rappresentati; questa
rappresentazione, poi, poiché si lasciava scorgere di per sé, egli
la chiamava “comprensibile”67.
Mi permettete di parlare così?».
«Sì! – disse Attico – con quale altro termine mai avresti potuto
tradurre χαταλητóν?»
«Quando poi – proseguì Varrone – la rappresentazione era stata già
recepita e approvata, egli la chiamava “comprensione” paragonandola
all’atto con cui la mano prende possesso delle cose, e da quest’atto
egli cavò fuori anche il suddetto appellativo68, mentre prima
nessuno aveva usato quel vocabolo per esprimere un siffatto
concetto. E dava il nome di “senso” anche a ciò che per mezzo del
senso era stato percepito. E se la percezione sensibile era tale da
non poter essere eliminata dal ragionamento, egli la chiamava
“scienza”; altrimenti, la chiamava “ignoranza”, e da quest’ultima si
originava anche l’opinione, che, a parer suo, era fiacca e comune al
falso e all’ignoto69.
Tra la scienza e l’ignoranza egli poneva, però, quella
“comprensione” di cui ho parlato, senza annoverarla né tra le cose
buone né tra quelle cattive, ma sosteneva che ad essa soltanto
bisogna prestar fede. Ragion per cui egli annetteva credito anche ai
sensi, giacché – come ho detto prima70 – la comprensione avvenuta ad
opera dei sensi gli sembrava vera e fedele, non perché essa
riuscisse a comprendere l’intima essenza dell’oggetto, ma perché non
metteva da parte nulla che potesse presentarsele, e perché la natura
la pose, per così dire, come norma scientifica e come suo principio,
dal quale, in un secondo momento, sono impressi nell’anima i
concetti delle cose; e in base a questi ultimi si vengono a scoprire
non solo i tratti iniziali, ma anche più larghe vie per la
formulazione di un discorso razionale71. Invece l’errore e
l’avventatezza, l’ignoranza e l’opinamento, la congettura e,
insomma, tutto ciò che è estraneo ad un solido e coerente assenso,
erano da Zenone nettamente separati dalla virtù e dalla sapienza.
Ecco, dunque, in che cosa consiste quasi ogni modifica e ogni
dissenso di Zenone rispetto ai pensatori precedenti».
Quando Varrone ebbe finito di parlare, io osservai: «In
maniera molto concisa e con la massima chiarezza tu, o
Varrone, hai esposto sia il pensiero dell’Accademia Antica sia
quello degli Stoici. Ma io sono del parere – come, del resto, lo era
il nostro amico Antioco – che il pensiero di questi ultimi vada
considerato come un emendamento dell’Accademia Antica piuttosto che
come una dottrina originale»72.
Allora Varrone disse: «Ora spetta a te, che ti sei staccato dal
sistema degli Accademici Antichi e che plaudi alle innovazioni di
Arcesilao, il compito di mostrarci i motivi essenziali dell’avvenuta
scissione. Così potremo renderci conto se codesta defezione abbia
giustificati motivi».
Ed io: «Come ci è stato tramandato, Arcesilao si
accollò l’onere di una lotta totale contro Zenone, non per
partito preso né per desiderio di vincere, a mio avviso, ma per
l’oscurità stessa di quelle cose che avevano indotto Socrate a far
professione di ignoranza73 e che, già prima di Socrate, vi avevano
indotto Democrito74, Anassagora75, Empedocle76 e quasi tutti gli
antichi, i quali sostennero l’impossibilità di conoscere, di
percepire e di sapere cosa alcuna e misero in rilievo i ristretti
limiti dei sensi, la debolezza dell’anima, la brevità del corse
della vita e, come ebbe a dire Democrito, il fatto che “la verità è
immersa nel profondo degli abissi che tutto è in balia di opinioni e
pregiudizi, che nessun ruolo è lasciato alla verità e che tutte le
cose, l’una dopo l’altra, sono cosparse di tenebre»77.
Pertanto Arcesilao sosteneva l’impossibilità di qualsiasi
conoscenza, persino di quella che Socrate aveva riservata a se
stesso, ossia «il sapere di non saper nulla». Così egli pensava che
tutto è avvolto dall’oscurità e che non esiste niente che sia
possibile distinguere o capire; per queste ragioni era
indispensabile che nessuno facesse alcuna asserzione o affermazione
o desse il proprio assenso e che, invece, ciascuno frenasse e
trattenesse da ogni eventuale caduta la propria fretta ad assentire
– fretta che risulterebbe marchiana ove venissero approvate cose
false o sconosciute – e aggiungeva che non c’è nulla di più
vergognoso che anteporre frettolosamente l’assenso e l’approvazione
alla cognizione e alla percezione.
E il suo modo pratico di comportarsi era coerente con questa
metodología: così egli, discutendo contro i pareri di tutti, faceva
allontanare i più dalle loro convinzioni precedenti e di
conseguenza, poiché sullo stesso argomento si venivano a scoprire
ragioni equipollenti nelle tesi contrarie, più agevolmente da una
parte e dall’altra si giungeva alla sospensione dell’assenso.
Ecco l’Accademia che chiamano «Nuova»; ma essa mi sembra «antica»,
se, almeno, in quella Antica dobbiamo annoverare Platone, nei cui
libri non si fa alcuna affermazione e si fanno molte discussioni «in
un senso e nell’altro», si continua ad indagare su ogni cosa e nulla
viene detto con certezza78. Ciò nonostante, quella da me menzionata
per prima si chiami pure «Antica» e quest’altra si chiami «Nuova»! E
quest’ultima, protrattasi fino a Carneade – che ne fu il quarto
direttore dopo Arcesilao –, si conservò nella stessa metodologia di
Arcesilao. Carneade, poi, che era profondo competente di tutte le
sezioni della filosofia ed ebbe inimmaginabili risorse spirituali,
come ho saputo dai suoi diretti ascoltatori e, in particolare,
dall’epicureo Zenone79, il quale, pur dissentendo quasi totalmente
da lui, tuttavia ammirava più di tutti gli altri lui solo …
Perché80, poi, si adira Mnesarco?81 Perché Antipatro82 impugna la
spada contro Carneade in tanti volumi?
1. T. Pomponio Attico (109-32 a. C.), amico, editore e dedicatario
di molte opere ciceroniane, autore di Annales che esponevano la
storia romana dalle origini al 54 a. C, fu molto sensibile ai
problemi culturali del suo tempo e convinto assertore
dell’Ellenismo: la sua «filosofia» eclettica propendeva per un
raffinato Epicureismo.
2. M. Terenzio Varrone (116-27 a. C.), il massimo poligrafo della
latinità seguiva le dottrine accademico-stoicheggianti di Antioco.
3. L’integrazione è del Reitzenstein.
4. Allusione in particolare all’attività poetica di Varrone, autore
anche delle Satire Menippee.
5. Allusione ai venticinque libri del De lingua latina dedicati in
parte Cicerone.
6. L. Scribonio Libone fu suocero di Sesto Pompeo e comune amico dei
due scrittori.
7. Ossia la filosofia accademica, la quale, secondo Antioco, traeva
le sue origini da Socrate insieme con quelle dei Peripatetici e
degli Stoici.
8. C. Amafinio fu tra i primi espositori delle dottrine epicuree in
Roma (cfr. CIC. Tusc. IV, III, 6-7).
9. C. Rabirio fu, forse, autore di un Bellum Alexandrinum e di
poestia filosofica di ispirazione epicurea (cfr. A. ROSTAGNI, «Riv.
di filol. e d’istr. classica», 1931, pp. 316-7).
10. Ciòera, del resto, conforme ai princìpi epicurei, soprattutto
secondo le testimonianze degli avversari (cfr., tra l’altro, SEXT.
EMP. Adv. math. I segg.).
11. Tanto gli Accademici, quanto gli Stoici e quanto làélite
culturale romana in genere (cfr. CIC. De or. I, XI, 48; III, XVIII,
65; De fin. III, XXI, 72; QUINT. II, XX, 1).
12. Da cui, secondo Cicerone, il pensiero di Epicuro sostanzialmente
dipende.
13. Come, del resto, aveva ampiamente insegnato Platone nel Timeo,
il cui studio venne sistematicamente ripreso da Eudoro di
Alessandria (cfr. GOEDECKEMEYER, Die Gesch. des griech. Skept., p.
201).
14. Gli Epicurei del livello di Amafinio e Rabirio.
15. Così Antioco chiamò l’Accademia da lui rifondata per indicare
che ormai la parentesi aperta da Arcesilao era definitivamente
chiusa e si ritornava a Platone.
16. Soprattutto per quanto concerne il problema della conoscenza e
il problema del sommo bene (cfr. CIC. De fin. V, passim).
17. Tim. 47 e.
18. L. Elio Stilone Preconino fu grande filologo e maestro di
Varrone.
19. Allusione alle Saturae, che traevano il nome dal poeta-filosofo
cinico Menippo di Gadara (III sec. a. C).
20. Ossia nelle Imagines o Hebdomades, in cui Varrone faceva la
rassegna di ben settecento uomini illustri greci e latini.
21. Opera monumentale in quarantuno libri, ove l’eruditissimo
empirismo di Varrone trovava la sua metodologia nell’esame degli
homines, dei loci, dei tempora e delle res.
22. Per la perdita della figlia Tullia, avvenuta nel febbraio del 45
a. C. Per questo grave lutto Cicerone si rifugiò nella sua villa di
Astura, ove compose la Consolatio e l’Hortensius e tracciô il piano
degli Academica.
23. A causa della dittatura di Cesare.
24. M. Giunio Bruto, cesaricida, fu seguace dello Stoicismo e
simpatizzante di Antioco. Il discepolato di Bruto presso Aristo,
fratello dell’Ascalonita, è menzionato anche in CIC. Brut. XCVII,
332; Tuse. V, VIII, 21.
25. Ossia quella scetticheggiante fondata da Carneade e difesa, dopo
perplessità e turbamenti, da Filone di Larissa.
26. Probabile allusione ai due libri di filosofia teoretica che
provocarono lo scandalo di Antioco (cfr. CIC. Lucull. IV, 12).
27. Cfr. CIC. De fin. V, I,I; De leg. I, 54 segg.
28. Cfr. PLAT. Apol. 21a, 23a; XENOPH. Apol. 14; DIOG. LAERT. II,
37.
29. Questa interpretazione scorretta era di Antioco che, sorvolando
sulle forti differenze fisiche e logiche, insisteva sulle
somiglianze nel campo dell’etica (cfr. REID, ad hoc).
30. Allusione scherzosamente ironica a Cicerone. Il proverbio, di
origine greca, è ricordato, tra l’altro, in THEOCR. 5, 23.
31. HO preferito calcare un po’ la tinta nel rendere me exhibiturum
per sottolineare la scherzosa autocritica di Cicerone al proprio
esibizionismo.
32. Per questa tripartizione che risale a Senocrate piuttosto che a
Platone, cfr. DIOG. LAERT. III, 56; SEXT. EMP. Adv. log. I, 9;
SIDON. APOLL. XI, 100; AUGUSTIN. Contra Acad. III, XVII, 37; De civ.
Dei, VIII, 4.
33. Sia nel senso che la beatitudine si consegue conformandosi alla
natura sia nel senso che la teologia fa parte della filosofia della
natura (cfr. SEXT. EMP. Adv. phys. I, 13 segg.).
34. Cfr. CIC Lucull. XLII, 131.
35. In V, 41 L’intero passo - osserva il Reid ad hoc – è
copertamemte diretto contro la Nuova Accademia che, col suo
scetticismo, elimina le basi dell’azione e del dovere.
36. Nell’aitiologia aristotelica la causa efficiente giocava bene il
suo ruolo nelláambito del nascere e del perire (cfr. De gener. et
corr. I, 7-9). La fisica stoica tendeva a ridurre a questa sola
causa tutte le altre (cfr. SEXT. EMP. Adv. phys. I, 195 segg.; DIOG.
LAERT. VII, 134). Probabilmente Antioco aveva presente, come fonte
di questo riduzionismo stoico, PLAT. Theaet. 156a-157a.
37. Cfr. PLAT. Tim. 52b.
38. Cfr. PLUTARCH. De comm. not. 50, 1085 e, ove si mette anche in
rilievo la contraddizione del materialismo degli Stoici. Cicerone
usa il termine «corpus» col medesimo significato che ha σῶμα in
PLAT. Tim. 28b, 31b.
39. Tanto Varrone quanto i suoi ascoltatori, da linguisti non
superficiali, non si lasciavano sfuggire l’importanza delle
questioni terminologiche in sede filosofica, e in ciò ereditavano
davvero un ricchissimo patrimonio accumulato da Platone, da
Aristotele e dagli Stoici. Varrone, poi, moderava certi estremismi
dell’analogía grammaticale con un sapiente empirismo che poteva
riuscire gradito agli Scettici (cfr. SESTO EMPIRICO, Contro i
matematici, trad. it., pp. XVI-XVII).
40. Per la cereatività lingüistica di Cicerone cfr., tra l’altro,
PLUTARCH. Cic. 40.
41. Per questa distinzione operata dagli Stoici cfr. CIC. Tusc. I,
XVII 40; De nat. deor. II, 26.
42. Cfr. ARISTOT. De caelo I, 3, 270b 30 segg.; PS.-PLAT. Epinom.
981c, 984d. Per l’identificazione stoica del «quinto elemento» col
fuoco già era-cliteo cfr. DIOG. LAERT. VII, 137; CICDe nat. deor.
II, XXXVI, 92. Si ricorderanno anche le tormentate ipotesi kantiane
dell’Opus postumum.
43. La concezione stoica di una materia non priva di attività viene
qui mescolata con la concezione platonica della materia-ricettacolo
(Tim. 50b, 51a).
44. Come era stato sostenuto da Aristotele in contrasto con
l’atomismo di Democrito. Per questo aristotelismo degli Stoici cfr.
DIOG. LAERT. VII, 150; STOB. Phys. 344.
45. In VI, 24.
46. Il termine implica in parte la concezione aristotelica della
forma, in parte il modo di apparire dell’essere. Esso si ritrova
usato in Tuse. I, 58; Orat. 98; Top. 30; in Orat. IO Cicerone usa il
termine forma.
47. Come se già non bastasse la mistione di elementi platonici ed
aristotelici, gli Stoico-accademici seguaci di Antioco non potevano
mettere da parte l’Eraclitismo, che Platone menzionava spesso nel
Teeteto, nel Sofista e, sopratutto, in Phaed. 90 b-e.
48. Cfr. CIC. Lucull. VII, 22; X, 30; Tuse. I, XXIV, 57.
49. Il problema dell’etimologia, già profundamente posto da Platone
nel Cratilo e da Aristotele nel De interpretatione, si ripresentòai
grammatici della scuola di Pergamo (cfr. PFEIFFER, History of
classical Scholarship, pp. 201, 241-3, 260-1) ed ebbe un seguito
fino all’età di Sesto Empirico (Adv. math I, 241-247), che respinse
ogni pretesa scientifica degli etimologisti.
50. Le aporie del segno e le varie opinioni dommatiche al riguardo
sono ampiamente discusse in SEXT. EMP. Adv. log. II, 141-299.
51. Ossia alla logica, come intende il Plasberg.
52. L’antistrofia dialettica-retorica era in gran parte mutuata da
Aristotele (cfr. A. RUSSO, La filosofia della ret. in Arist. pp. 5
segg.).
53. In VIII, 30.
54. Per le doti linguistiche di Teofrasto cfr. QUINT. X, 1, 83; SEN.
Nat. quaest. VI, 13, 1.
55. Fr. 13 Wehrli.
56. Soprattutto per il suo filo-atomismo (cfr. CIC. Lucull. XXXVIII,
121).
57. Cfr. STRAB. XIII, 614; NUMEN, apud Euseb. Praep. ev. XIV, 6, 9;
Stoic. vet. frag. I, 10-13 Arnim.
58. Stoic. vet. frag. I, 188 Arnim.
59. Per i termini praeposita (προηγμένα) e reiecta (ἀποπροηλμένα)
cfr. AR. DID. apud Stob. Ecl. II, 79, vol. II, p. 84, 18 W. Una più
ampia trattazione trovasi in SEXT. EMP. Pyrrh. hyp. III, 191 e Adv.
eth. 62.
60. In V, 21.
61. Quest’aspetto intransigente dell’etica zenoniana coincideva col
rigorismo di Pirrone, pur partendo da opposti punti di vista
teoretici.
62. Soprattutto i Peripatetici.
63. Così il Platonismo veniva a subire un’involuzione
materialistica.
64. Ossia alla logica (cfr. V, 19).
65. Stoic. vet. frag. I, 55 Arnim.
66. Ossia la συγϰατάϑεσις, per cui vedasi CIC. Lucull XII, 37.
67. Questa fondamentale dottrina degli Stoici viene più ampiamente
trattata nella prima parte del Lucullus.
68. Cfr. CIC. Lucull XLVII, 145.
69. Cfr. SEXT. EMP. Adv. log. I, 151.
70. In XI, 40.
71. Le confusioni stoiche, qui aggravate dal linguaggio alquanto
immaginoso di Varrone, già duramente colpite dai Neo-accademici,
verranno ancor più smascherate dai Neo-pirroniani (cfr. SEXT. EMP.
Adv. log. I, 369-446).
72. Con questo cavallo di battaglia l’accademico Antioco aspirava
almeno ad una vittoria morale sugli Stoici, le cui dottrine egli
aveva in gran parte assorbite.
73. Cfr. IV, 16.
74. Cfr. DIOG. LAERT. IX, 72; CIC. Lucull. X, 32; SEXT. EMP. Adv.
log. I, 135-140.
75. Cfr. SEXT. EMP. Adv. log. I, 90.
76. Cfr. SEXT. EMP. Adv. log. I, 120-125.
77. Questi aspetti scettici del pensiero di Democrito esercitarono
notevole influsso sul primitivo Pirronismo.
78. Cicerone, sulle orme di Filone di Larissa, trascura gli aspetti
dommatici del pensierc platónico e ne rileva, invece, quelli
sospensivi, antilogistici, zetetici e aporetici. Ben diversamente
Sesto Empirico (Pyrrh. hyp. I, 220-229) metterà in rilievo il
duplice volto di Platone.
79. Zenone di Sidone (seconda metà del II sec. e prima metà del I
sec. a. C.) fu discepolo di Apollodoro e maestro di Filodemo (cfr.
CIC. De fin. I, V, 16).
80. Il breve frammento è riportato in Nonio 65: secondo il Reid (p.
161) esso sarebbe da considerare come appartenente alla
giustificazione dell’Accademia Nuova da parte di Cicerone e da
inserire tra le ultime battute del Varro.
81. Stoico allievo di Panezio, più volte citato da Cicerone (Lucull.
XXII, 62; De or. I, XI, 46; De fin. I, II, 6).
82. Antipatro di Tarso, contro cui polemizzò Carneade. Dei quattro
libri degli Academica Posteriora sono stati raccolti, soprattutto
attraverso Nonio e il Contra Academicos di Agostino, trentasei
frammenti, dai quali è, però, impossibile desumere i contenuti anche
di parte dell’opera ciceroniana con esattezza e non in via
ipotetica, come hanno fatto il Krische e il Reid (op. cit., p. 168).
LUCULLO
Il grande ingegno di Lucio Lucullo1, il suo grande amore per le arti
più elevate e, oltre a ciò, tutta quella cultura liberale e degna di
un autentico gentiluomo che egli si formò in tempi in cui avrebbe
potuto affermarsi soprattutto nell’attività fo rense, non ebbero
modo di esplicarsi attivamente nella nostra capitale. Infatti,
subito dopo che egli, ancora giovinetto e coadiuvato da suo fratello
– al pari di lui dotato di devoto sentimento filiale e di energia
morale –, ebbe colpito con gran successo i nemici privati di suo
padre, se ne andò come questore in Asia ed ivi fu alla direzione
della provincia, raccogliendo lode ed ammirazione per moltissimi
anni. Di poi, pur non essendo presente a Roma, fu eletto edile e,
immediatamente dopo, pretore (era ammessa, allora, l’assunzione di
questa carica anche prima del normale intervallo di tempo)2. Quandi
passò in Africa e di lì alla carica di console, da lui espletta così
bene che tutti ne ammirarono lo zelo e ne riconobbero Fingegno.
Mandato, in appresso, dal senato alla guerra contro Mitridate, non
solo superò l’opinione che tutti s’erano già fatta delle sue
capacità, ma anche la gloria di quanti lo avevano preceduto; e
questo fu un fatto tanto più stupendo, in quanto non ancora ci si
attendeva da lui l’aureola di condottiero, occupato – com’era stato
– durante la prima giovinezza nell’attività del foro e avendo egli
trascorso il lungo periodo della sua questura in un’Asia pacifica,
mentre Murena dirigeva la guerra nel Ponto. Eppure l’incredibile
grandezza del suo ingegno non gli fece sentire la deficienza di
tutto quel tirocinio di esperienze che egli non aveva avuto la
possibilità di fare. Pertanto, dopo aver utilizzato l’intero viaggio
per terra e per mare sia col chiedere informazioni agli esperti sia
con la lettura di tratatti militari, giunse nell’Asia con tutte le
carte in regola per fare subito da comandante supremo, pur essendo
partito da Roma completamente digiuno di arte della guerra.
Ebbe, invero, una prodigiosa memoria delle «cose» – delle «parole»
l’ebbe Ortensio3 più di lui –, ma, appunto perché nel disbrigo degli
affari le cose giovano più delle parole, quel tipo di memoria aveva
per lui maggiore efficienza. E una siffatta memoria dicono che
l’abbia avuta, in maniera tutta speciale, Temistocle, al quale non
esito ad assegnare il primo posto tra i Greci e che ad un tale che
gli prometteva di insegnargli Tarte mneminica, allora venuta appena
alla luce4, si dice abbia risposto che egli avrebbe preferito l’arte
della dimenticanza, perché, suppongo, gli rimaneva abbarbicato nella
mente tutto quello che avesse visto o udito.
Pur dotato di siffatti requisiti intellettuali, Lucullo vi aggiunse
anche quell’apprendimento metodico che Temistocle aveva avuto in
dispregio. Pertanto, come noi mettiamo per iscritto ciò di cui
vogliamo conservare il ricordo, così egli teneva le «cose» scolpite
nell’animo. E fu condottiero così grande nei vari tipi di attività
bellica – in combattimenti campali, in assedi, in battaglie navali,
nell’allestimento di tutti i servizi logistici per un’intera
campagna militare – che il più grande re5 che ci sia stato dopo
Alessandro ammetteva che questo condottiero, da lui direttamente
sperimentato, era superiore a tutti gli altri di cui avesse letto le
storie. Ed ebbe, inoltre, Lucullo tanta accortezza nella formazione
e nel governo degli Stati e tanto senso di equità che, ancora oggi,
l’Asia si regge nel rispetto delle istituzioni luculliane e nel
seguire, per dir così, le orme di lui.
Ma una così valida forza di virtù e d’ingegno rimase – ancorché con
grande vantaggio della repubblica – più a lungo di quanto avrei
voluto tra genti straniere, lungi dagli occhi del foro e della
curia. Ché anzi egli, tornato vincitore dalla guerra mitridatica,
ottenne il trionfo con tre anni di ritardo rispetto al dovuto, a
cagione di una calunnia imbastitagli dai suoi nemici personali6. E
sono stato proprio io, durante il mio consolato, a sospingere, quasi
letteralmente, in Roma il carro trionfale di un uomo tanto illustre!
E direi quali vantaggi io abbia tratto in quel tempo, nelle più
importanti faccende, dal suo autorevole consiglio, se ciò non mi
costringesse a parlare di me stesso, cosa che, nella presente
circostanza, non è il caso di fare. Così preferirò orbare lui di un
mio doveroso attestatato piuttosto che tributarglielo insieme ad un
elogio per me stesso.
Ma quei meriti di Lucullo che dovevano essere magnificaati dalla
gloria popolare, sono stati, in linea di massima, celebrati da opere
letterarie greche e latine. Io pure quei pregi esteriori li ho
potuto conoscere con molte persone, ma solo con poche – e sovente
cogliendoli dalle sue stesse labbra – ho potuto apprezzare quelli
interiori. Lucullo, infatti, si dedicò ad ogni ramo della cultura, e
in particolare alla filosofia, con impegno maggiore di quanto
supponessero quelli che non lo conoscevano. e non solo in età
avanzata, ma anche nei parecchi anni della sua questura e persino
durante la guerra, allorché l’attività della milizia suole essere
tanto impegnativa da non lasciare ad un generale neanche un po’ di
tempo libero persino sotto la tenda.
Così, data la stima di cui Antioco, allievo di Filone, godeva da
parte dei filosofi per il suo ingegno e per la sua cultura, Lucullo
lo tenne con sé sia mentre era questore sia quando, alcuni anni
dopo, fu capo supremo dell’esercito. E, in grazia di quelle doti
mnemoniche da me poc’anzi menzionate, ebee agio di conoscerne il
pensiero, perché udiva di frequente quelle cose che avrebbe potuto
ricordare anche se le avesse ascoltate una volta sola.
Ma, oltre a ciò, Lucullo aveva anche un singolare gusto della
lettura di libri a proposito dei quali sentiva fare dibattiti.
Eppure di tanto in tanto mi prende il timore che, mentre ho
intenzione di dare maggior rilievo alla gloria di siffatti
personaggi, io la vada, invece, sminuendo. C’è, infatti, molta gente
che non ama affatto la cultura greca, ce n’è molta di più che non
ama la filosofia, mentre gli altri, pur non riprovando questi studi,
non ritengono che sia una cosa tanto onorevole il fatto che se ne
occupino i più eminenti uomini politici. Ma io so che Marco Catone
imparò durante la vecchiaia la lingua greca e le storie ci
tramandano che Panezio fu il solo ad accompagnare Publio Africano in
quella famosa ambasceria che quest’ultimo diresse prima della
censura7; perciò non ho bisogno di ricercare alcun altro autorevole
difensore della cultura ellenica e della filosofia.
Mi rimane solo da dare una risposta a quanti vorrebbero che
personaggi così importanti non venissero presentati come impegnati
in discorsi siffatti. Quasi che i convegni degli uomini illustri
dovessero o essere silenziosi o limitarsi a conversazioni scherzose
ed a colloqui su argomenti più leggeri! In verità, se si tiene
presente l’elogio della filosofia che io ho fatto in un certo mio
libro8, senza dubbio l’occuparsi di questa è cosa ben degna di un
uomo eccellente e ragguardevole.
La sola cosa da cui dobbiamo guardarci noi altri, che il popolo
romano elevò a gradi così alti, è quella di togliere qualcosa alla
nostra attività pubblica a causa dei nostri studi privati. Ché, se
io, modestamente, quando dovevo svolgere un pubblico mandato, non
solo ho espletato pienamente il mio impegno senza astenermi dalle
assemblee popolari, ma non ho scritto neanche una lettera
dell’alfabeto che non riguardasse i pubblici affari, chi potrà
biasimare il mio «ozio», ossia l’attività intellettuale di un uomo
che non solo non intende arrugginirsi dentro ed appassire, ma si
sforza di arrecare giovamento anche a quante più persone sia
possibile? Credo, invece, che non solo non si sminuisca, ma che
addirittura si accresca la gloria di quelli ai cui meriti, già
ufficialmente apprezzati cal popolo, aggiungiamo anche questi altri,
che sono meno noti e meno diffusi.
Né mancano, poi, certuni i quali sostengono che quei personaggi che
discutono nei miei libri non ebbero competenza degli argomenti su
cui io li faccio discutere Mi sembra, però, che codesta gente sia
astiosa non solo con i vivi, ma anche con i defunti!
C’è, infine, anche un tipo di persone che sono pronte
a riprendermi: quelli che non approvano il metodo
dell’Accademia. Ma di ciò io sarei molto più afflitto, se qualcuno
fosse disposto ad approvare un qualche altro indirizzo filosofico
oltre quello che lui stesso segue. Noi, però, avendo l’abitudine di
dire il punto di vista che ci sembra opportuno contro quanti credono
di sapere, non ci esimiamo dall’accettare che altri non siano
d’accordo con noi. Quantunque, a dire il vero, la nostra causa può
essere facilmente difesa, dal momento che vogliamo scoprire una
verità che sia incontrovertibile e la ricerchiamo con sommo e
appassionato impegno! Difatti, sebbene ogni sforzo conoscitivo sia
ostruito da molte difficoltà e sebbene si annidino nella realtà
stessa tanta oscurità e nei nostri giudizi tanta debolezza da far
perdere bene a ragione ai più antichi e dotti filosofi la fiducia di
scoprire l’oggetto dei loro desideri, tuttavia né quelli si
perdettero d’animo né noi perderemo, per stanchezza, lo zelo della
ricerca. E le nostre discussioni, fondate sul dire e sull’ascoltare
«il pro e il contro», non fanno altro se non estrarre – anzi direi
fare sprizzar fuori – un qualcosa che o è vero o si accosta al vero
il più strettamente possibile. E tra noi e quelli che credono di
sapere non c’è altra differenza tranne questa: che essi non dubitano
della veracità delle tesi da loro patrocinate, mentre noi riteniamo
«probabili» molte cose cui possiamo agevolmente attenerci, ma che a
malapena riusciamo ad affermare. Inoltre noi siamo anche più liberi
e disciolti per il fatto che conserviamo intatta la facoltà del
giudizio e non siamo astretti da alcuna necessità a difendere tutto
quello che ci viene prescritto e, per così dire, imposto.
Tutti gli altri, infatti, sono in primo luogo vincolati da un
obbligo già prima di aver la possibilità di giudicare quale sia il
partito migliore; di poi, in un’età ancora molto instabile della
loro esistenza, essi, o mettendosi al seguito di un qualche amico o
attratti esclusivamente dal discorso del primo che a loro è capitato
di ascoltare, spiattellano il loro giudizio su cose che ignorano, ed
a qualunque corrente filosofica siano stati sospinti come da una
tempesta, vi si attaccano come ad uno scoglio. Ed io sarei pure
disposto a dare la mia approvazione, quando essi dicono di affidarsi
completamente a colui che giudicano essere stato sapiente, se questa
affermazione la facessero persone inesperte ed ignoranti (difatti
sembra spettare massimamente al sapiente il compito di stabilire chi
sia il sapiente)9; ma, dopo aver udito alla men peggio ogni cosa e
dopo aver conosciuto anche i pareri degli altri, si sono messi a
trinciare giudizi o, peggio, per aver ascoltato soltanto una volta
l’esposizione di un problema, si sono affidati all’autorità di uno
solo. Ma – non so come – i più preferiscono sbagliare e difendere
con la massima ostinazione quel parere al quale si sono affezionati,
anziché svincolarsi dalla cocciutaggine e mettersi alla ricerca di
quella dottrina che venga esposta con la massima coerenza10.
Su questi argomenti ho fatto spesso, anche in altre occasioni, molte
indagini e discussioni, e una volta anche nella villa di Ortensio
situata nei pressi di Bacoli, quando ci recammo colà Catulo11,
Lucullo ed io all’indomani del nostro soggiorno presso Catulo. Anzi
vi giungemmo un po’ prestino, perché s’era deciso che, se ci fosse
stato vento favorevole, ci saremmo recati per mare, Lucullo nella
sua villa di Napoli ed io nella mia di Pompei.
Dopo aver fatto poche chiacchiere sotto il portico coperto, ci
ponemmo a sedere proprio lì, nel recinto.
A questo punto Catulo cominciò a dire: «Sebbene ieri sia stato quasi
completamente esaurito tutto il tema della nostra indagine, fino al
punto che la questione sembra essere stata sviscerata nella sua
interezza, tuttavia, o Lucullo, resto in attesa di quanto tu avevi
promesso di riferirci per averlo sentito dire da Antioco».
«Per la verità – interloquì Ortensio – ho fatto più di quanto avrei
voluto, giacché, o Catulo, sarebbe stato opportuno riservare a
Lucullo l’intera faccenda ancora intatta. E tuttavia gli è stata
riservata, forse! Io, infatti, ho detto quello che era a portata di
mano; ma da Lucullo pretendo sapere più riposti segreti».
Allora intervenne Lucullo: «La tua attesa non mi turba un bel
niente, quantunque non ci sia nulla di tanto impiedoso per chi
voglia risultare gradito; ma, poiché non mi do pena dell’efficacia o
meno con la quale riuscirò a provare le mie affermazioni, proprio
per questo ne provo minor turbamento. Addurrò, infatti,
argomentazioni che non sono mie personali e che non sono tali che in
esse – nel caso che non approderanno a nulla – non preferirei esser
vinto anziché vincitore. Ma, per Ercole, sebbene la causa da me
patrocinata sia rimasta in bilico, almeno per ora, dopo il dibattito
di ieri, mi sembra, comunque, che essa sia molto corretta. Mi
comporterò, quindi, come si comportava Antioco. E si tratta di una
cosa che riuscirò a fare molto bene, giacché lo ascoltavo con animo
assolutamente libero e con grande attenzione, e anche parecchie
volte sul medesimo tema, e così susciterò su di me un’attesa anche
maggioire di quella che poc’anzi sia stata suscitata ad opera di
Ortensio».
Questo fu il suo preambolo; e noi, perciò, ci disponemmo ad
ascoltarlo con la massima attenzione.
E lui: «Per tutto il tempo in cui ero ad Alessandria in qualità di
questore – continuò – Antioco rimase con me; e già da un pezzo si
trovava ad Alessandria un amico di Antioco, Eraclito di Tiro12, che
per molti anni era stato allievo di Clitomaco e di Filone. Era,
questo Eraclito, una persona molto provetta in codesto indirizzo
filosofico che, dopo essere stato quasi accantonato, sta ora
ritornando in auge, e più di una volta io ho assistito ai suoi
dibattiti con Antioco. Entrambi, però discutevano con animo disteso;
eppure, a dire il vero, codesti due libri di Filone13, di cui ieri
ha parlato Catulo, proprio allora erano stati portati ad Alessandria
ed erano capitati per la prima volta nelle mani di Antioco: ciò
nonostante, quell’uomo dal temperamento tanto pacato (niente poteva
essere più mite di lui) cominciò a dar segni di stizza. Me ne
stupivo: prima di allora non lo avevo mai visto così. E lui,
supplicando vivamente la memoria di Eraclito, gli domandava se
quella robaccia gli sembrasse appartenere a Filone e se egli
l’avesse mai ascoltata vuoi da Filone vuoi da qualche Accademico.
Eraclito rispondeva di no, ma tuttavia la riconosceva come scritta
da Filone: e su questo non potevano sorgere dubbi, perché erano
presenti due persone molto colte, miei amici, Publio e Caio Selio e,
per giunta, Tetrilio Rogo14, i quali affermavano di aver udito
quelle cose a Roma dalle labbra di Filone e che avevano ricopiato
quei due libri dal manoscritto autografo. Allora Antioco venne a
quelle espressioni che ieri Catulo ricordò essere state usate già da
suo padre nei riguardi di Filone, e ne aggiunse anche molte altre;
né si trattenne dal pubblicare contro il suo maestro il libro
intitolato Soso15. In quella circostanza, dunque, poiché ascoltavo
con vivo interesse le dissertazioni di Eraclito contro Antioco e,
parimenti, quelle di Antioco contro gli Accademici, mi attaccai ad
Antioco con maggiore assiduità per acclarare da lui stesso l’intero
stato della questione. Così, per parecchi giorni, invitammo Eraclito
e numerosi uomini di cultura, tra i quali Aristo16, fratello di
Antioco, e inoltre Aristone17 e Dione18, dei quali egli, dopo suo
fratello, faceva grande stima, e trascorremmo lungo tempo in
quest’unico dibattito.
Ma bisogna tralasciare quella parte che era rivolta contro Filone:
infatti è un avversario meno pericoloso chi sostiene che gli
Accademici non hanno fatto quelle affermazioni che solo recentemente
sono state patrocinate: è, senza dubbio, costui un bugiardo, ma un
avversario che fa minor paura. Veniamo, invece, ad Arcesilao ed a
Carneade»19.
Dopo aver precisato ciò, riprese a parlare cosi: «Anzitutto mi pare
che voi (e faceva espressamente il mio nome), quando chiamate in
causa i “fisici” antichi20, vi comportiate alla maniera consueta dei
cittadini rivoltosi allorquando tirano in ballo certi uomini
illustri del passato e li chiamano amici del popolo per dare a
vedere di essere anch’essi simili a quelli. Si rifanno, ad esempio,
a Publio Valerio, che fu console nel primo anno dopo la cacciata dei
re, vanno ricordando quanti altri, durante il loro consolato,
promulgarono leggi democratiche in merito all’appello al popolo
quindi passano a codesti che sono noti, a Caio Flaminio, che, in
qualità di tribuno della plebe e contro la volontà del senato,
propose una legge agraria alcuni anni prima della seconda guerra
punica e poi fu eletto console due volte, passano a Lucio Cassio, a
Quinto Pompeo. E sogliono annoverare nel medesimo gruppo anche
Publio Africano; asseriscono pure che due uomini molto saggi ed
illustri, Publio Crasso e Publio Scevola – il primo apertamente,
come si può vedere, e il secondo più di nascosto, come essi
suppongono fossero sostenitori delle leggi di Tiberio Gracco. Vi
aggiungono anche Caio Mario, e su quest’ultimo non dicono affatto
uno bugia. Dopo aver fatto il nome di tutti questi grandi uomini,
professano di seguirne l’indirizzo politico. Allo stesso modo voi,
con l’intento di imbrogliare le acque di una filosofia ormai ben
consolidata, come quelli imbrogliarono le acque della politica,
tirate in ballo Empedocle, Anassagora, Democrito, Parmenide,
Senofane e, persino, Platone e Socrate. Ma né Saturnino – per fare,
a preferenza di ogni altro, il nome di un nostra nemico – ebbe nulla
in comune con quei grandi del passato, né la maliziosità di un
Arcesilao va paragonata al pudore di un Democrito. E tuttavia
codesti “fisici” solo di rado, quando si trovano impigliati in
qualche problema, esclamano, quasi usciti di mente (Empedocle,
almeno, fino al punto da sembrare un forsennato!) che tutte le cose
sono celate, che noi nulla sappiamo, nulla distinguiamo, nulla
possiamo conoscere nella sua essenza reale; invece a me sembra che,
il più delle volte, tutti costoro si espongano fin troppo a fare
asserzioni ed a professare di sapere più di ciò che realmente
sanno21. Ché, se essi vissero all’alba della ricerca filosofica ed
ebbero a quel tempo esitazione in questioni affrontate allora per la
prima volta, dobbiamo forse ritenere che nessun problema sia
stato risolto nel corso di tanti secoli da intelletti così elevati e
con indagini tanto accurate? E non è forse vero che, quando ormai le
più importanti dottrine filosofiche si erano consolidate, allo
stesso modo in cui Tiberio Gracco sorse a sconvolgere la
tranquillità di una repubblica che funzionava benissimo, così si
levò Arcesilao ad abbattere una filosofia ormai solidificata ed a
camuffarsi sotto l’autorità di quelli che avevano detto nulla
potersi conoscere o percepire?
Ma dal novero di questi ultimi bisogna togliere sia Platene sia
Socrate: l’uno, infatti, lasciò un compiuto sistema filosofico –
ossia quello dei Peripatetici e degli Accademici, che differiscono
tra loro per il nome, ma sono d’accordo sui contenuti reali e dai
quali gli Stoici stessi hanno dissentito più a parole che nel modo
di pensare –; Socrate, invece, nel vivo della discussione toglieva a
se stesso e dava di più a quelli che voleva confutare; e così,
poiché egli diceva una cosa e ne pensava un’altra, era solito
praticare volentieri quella dissimulazione che i Greci chiamano
“ironia” e che Fannio22 sostiene che fosse una caratteristica anche
dell’Africano, un uomo in cui essa non andava biasimata, per il
semplice fatto che era identica a quella di Socrate.
Ammettiamo pure, se così volete, che quelle antiche dottrine siano
rimaste per noi un’incognita: ma, allora, non si è fatto proprio
nulla, con tante indagini, dopo che Arcesilao, come si crede, nel
rinfacciare a Zenone che costui non faceva alcuna scoperta nuova ma
si limitava ad emendare i pensatori precedenti con semplici
modifiche terminologiche23, tentò di far calare le tenebre su cose
abbastanza chiare per mettere in bilico le conclusioni di quello?
Il metodo di Arcesilao – all’inizio non molto bene accolto,
quantunque egli brillasse per acutezza d’ngegno e per una
straordinaria grazia espressiva – fu conservato, immediatamente dopo
di lui, dal solo Lacide, ma fu poi perfezionato da Carneade. Questi
è stato il quarto scolarca a partire da Arcesilao: fu, infatti,
allievo di Egesino, che era stato allievo di Evandro, discepolo di
Lacide, come Lacide lo era stato di Arcesilao. Ma fu proprio
Carneade che tenne la direzione per molto tempo, giacché visse
novant’anni, e i suoi allievi mieterono grande successo. Fra loro il
più operoso fu Clitomaco (ce lo mostra il grande numero dei suoi
libri), ma non minori doti d’ingegno ebbe Agnone24, non minori doti
oratorie Carmada25, non minori attrattive Melanzio da Rodi26; si
riteneva, inoltre, che avesse una buona conoscenza del pensiero di
Carneade Metrodoro di Stratonica27. Per molti anni il vostro Filone
si dedico a Clitomaco e, finché Filone fu vivo, all’Accademia non
mancò mai chi la difendesse.
Ma ciò che noi adesso ci accingiamo a fare – ossia ad aprire un
dibattito contro l’Accademia – alcuni filosofi28, e per giunta non
mediocri, reputarono che non si dovesse proprio fare: essi non
stimavano che fosse segno di intelligenza mettersi a discutere con
persone che non ammettono niente, e rimproveravano lo stoico
Antipatro perché si era immerso in questa discussione: e sostenevano
che non c’è necessità di dare una definizione al concetto di
“conoscenza” o di “percezione” o, volendo usare una traduzione
letterale, di “comprensione” che quelli chiamano χατάληψις; e
affermavano che quanti volevano persuadere che c’è qualcosa di
comprensibile e di percettibile lo facevano in maniera incosciente,
perché non c’è nulla che sia più chiaro dell’ ἐνάργεια, come la
chiamano i Greci (noi chiamiamola, se vi piace, “perspicuità” o
“evidenza”, e mettiamoci pure a fabbricare vocaboli, se ce ne sarà
bisogno, perché costui e faceva il mio nome scherzosamente – non
creda di averne il permesso esclusivamente lui); comunque sia, essi
ritenevano che non è possibile trovare alcun discorso che sia più
palese dell’evidenza, ed erano del parere che non fosse il caso di
dare una definizione a cose che fossero tanto chiare. Altri, invece,
affermavano che non sarebbero stati mai i primi a dir nulla in
difesa di questa “evidenza”, ma ritenevano che si dovesse pur dare
una risposta alle argomentazioni eventualmente addotte contro di
essa, al solo scopo di evitare che alcuni si lasciassero trarre in
inganno. I più, tuttavia, non respingono le definizioni anche
delle stesse cose evidenti e reputano che si tratti di un argomento
su cui valga la pena di discutere e che quei signori meritino di
essere ammessi al dibattito.
Filone, invece, nel tentativo di aprire nuove prospettive al
problema, poiché ce la faceva a stento ad affrontare le obiezioni
addotte contro l’ostinatezza degli Accademici, non solo dice bugie
palesi, come gli è stato rinfacciato da Catulo padre29, ma, come ha
mostrato Antioco, si è andato ad impaniare proprio in quelle aporie
che avrebbe voluto scansare.
Così egli sosteneva che non c’è niente che si possa comprendere (in
questo modo intendiamo tradurre il termine ἀχατάληπτoν), se una
rappresentazione [visum] (già nella conversazione di ieri abbiamo
usato a iosa questo vocabolo al posto del termine φαντασία) ha
quella qualità che Zenone le assegna nel darne la definizione – una
rappresentazione, dunque, impressa e formata dall’oggetto da cui
proviene, quale non potrebbe mai essere impressa e formata da un
oggetto da cui non provenisse30 (e noi diciamo che questa
definizione data da Zenone è molto corretta, giacché un qualcosa che
fosse tale da poter essere anche falso non potrebbe mai essere
compreso fino al punto che noi possiamo nutrire la fiducia di averlo
capito o conosciuto) –. Ma quando Filone mette in bilico oppure
elimina tutto ciò, viene ad eliminare il giudizio dell’ignoto e del
noto; dal che viene a risultare che niente può essere compreso.
Così, senza aver provato tutto questo, viene risospinto là dove non
vorrebbe affatto31.
Ecco, allora, perché noi intraprendiamo tutto un discorso contro
l’Accademia, allo scopo di preservare quella definizione che Filone
ebbe la pretesa di abbattere; e se non riusciamo a conservarla, ci
rassegniamo ad ammettere che niente può essere percepito.
Orbene: cominciamo dai sensi. Questi ci danno giudizi così chiari e
certi che la nostra natura, se avesse facoltà di scegliere e se un
dio, tra l’altro, le ponesse l’alternativa di appagarsi dei suoi
sensi integri e incorrotti oppure di pretendere qualcosa di meglio,
non vedrei cosa abbia a chiedere di più E non dovete aspettarvi, a
questo punto, che io dia una risposta a proposito del remo spezzato
o del collo della colomba: io non sono uno che arrivi al punto di
affermare che tutto quello che appare è tale quale esso appare: si
occupi Epicuro32 di questa faccenda, e di molte altre! A parer mio,
invece, nei sensi è già immanente la massima verità, a patto che
essi siano sani e validi e si rimuovano tutti gli ostacoli e gli
impacci. Ecco perché noi vogliamo che cambi spesso la posizione
della lue e degli oggetti da noi giudicati e accorciamo o
allunghiamo le distanze e facciamo molte operazioni finché lo stesso
organo visivo ci fa fede del proprio giudizio. La medesima cosa si
riscontra nel suono, nell’odore, nel sapore, di guisa che non c’è
nessuno di noi che senta, nei propri sensi, la mancanza di in
giudizio più acuto su ogni sorta di cose.
Quando, poi, facciamo uso dell’esperienza e dell’arte affinché ad
esempio, i nostri occhi siano attirati da una pittura o le nostre
orecchie dalla musica, non c’è nessuno che non distingua il grande
potere che i sensi hanno. Quanti particolari riescono a vedere i
pittori nei punti ombreggiati e in quelli prominenti, mentre noi non
li vediamo! Quante battute musicali che sfuggono a noi, le ascoltano
quelli che sono provetti in quest’attività artística, essi che, al
primo soffio del flautista, dicono che tratta dell’Antiope33 o
dell’Andromaca34, mentre noi non lo sospettiamo neppure! Non è il
caso di parlare del gusto e dell’olfatto, in cui si riscontra
un’intelligenza che è, sì, un po’ perversa, ma che è pure qualcosa.
Che dire, poi, del tatto, specialmente di quello che i filosofi
chiamano “interno” e che ci fa provare o dolore o piacere e nel
quale, secondo i Cirenaici35, è riposto il giudizio di verità, per
il fatto che quest’ultimo viene sensibilizzato? (E c’è qualcuno il
quale possa asserire non esservi alcuna differenza tra chi sta
soffrendo e chi sta godendo? O non piuttosto chi così la pensasse
sarebbe manifestamente folle?) E alle qualità degli oggetti che noi
diciamo essere percepite per mezzo dei sensi, seguono
corrispettivamente quelle cose che non diciamo essere percepite per
mezzo dei sensi, ma, per così dire, con l’ausilio di questi ultimi,
come avviene nelle seguenti espressioni: “Questo è bianco, questo è
dolce, quello è armonioso, quell’altro è profumato, quell’ altro
ancora è ruvido”. Ormai noi conseguiamo la comprensione di queste
cose per mezzo dell’anima e non dei sensi. Vengono, poi, le
espressioni: “Questo è un cavallo, quest’altro è un cane”. Poi viene
ancora una serie più complessa di cose, come le espressioni
seguenti, che abbracciano quasi al completo la comprensione della
realtà: “Se è uomo, è animale mortale partecipe di ragione”. Di
questo genere fanno parte quei concetti delle cose che sono impressi
in noi e senza cui è impossibile comprendere o ricercare o abbattere
cosa alcuna. Ché, se i concetti fossero falsi (sembrava, invero, che
tu dessi l’appellativo di “concetto” notitia] alle ἔννoιαι) –,
se, ripeto, essi fossero falsi oppure fossero impressi in noi da
rappresentazioni in una maniera tale che le rappresentazioni vere
non potrebbero essere distinte da quelle false, come faremmo, in fin
dei conti, a servircene e come faremmo, poi, a vedere cosa è
conforme a ciascun oggetto e cosa gli è disforme? Certamente non
verrebbe lasciato alcun ruòlo alla memoria, la quale racchiude
implicitamente in sé non soltanto la filosofia, ma ogni esperienza
della vita e, in modo peculiare, ogni arte. Quale memoria vi
potrebbe essere, infatti, delle cose false, oppure che cosa mai
qualcuno potrebbe ricordare, senza averne comprensione e senza
preservarla nell’anima? E vi potrebbe essere una qualche arte che
non risultasse non da una o due, bensì da molte percezioni
dell’anima? E se tu eliminerai l’arte, come farai a distinguere
l’artista dall’inesperto? Non, dunque, a casaccio noi diciamo che
questi è un artista e che quest’altro non lo è, ma facciamo questa
distinzione quando l’uno dei due fa tesoro di rappresentazioni
comprensive, mentre l’altro no. E se noi teniamo presente che, fra
le arti, c’è una specie che è in grado di ricordare esclusivamente
con l’anima e c’è un’altra specie che modella e crea un qualche
oggetto, in che mode allora, il geometra potrebbe osservare quelle
cose che o non esistono o non possono essere distinte dalle false,
ovvero in che modo il citaredo potrebbe rispettare i ritmi e
comporre versi? La stessa cesa si riscontra anche in tutte le arti
simli che vengono eseguite mercé un’esecuzione o un lavoro manuale.
Infatti quale produzione artistica si potrebbe avere senza che
l’artista abbia avuto molte percezioni nell’ambito della propria
arte?
Soprattutto il concetto di virtù è quello che convalida la
possibilità di avere una rappresentazione comprensiva di molti
concetti particolari. E solo in questi ultimi noi diciamo che
risiede la scienza, che non solo identifichiamo con la comprensione
della realtà, ma reputiamo anche stabile e non soggetta a mutazione,
e la stessa cosa noi pensiamo della saggezza, vale a dire dell’“arte
della vita”36, la quale sa trovare in se stessa la propria
consistenza. Qualora, però, questa consistenza non si fondi su
alcuna percezione o su alcun concetto, io mi chiedo da dove e in che
modo sia potuta sgorgare. E mi domando anche il motivo per cui
quell’uomo buono che ha deciso di sopportare ogni tortura o di
essere straziato da un dolore insopportabile piuttosto che venir
meno al dovere o alla parola data, abbia imposto a se stesso leggi
così pesanti, dal momento che egli non aveva nessuna comprensione,
nessuna percezione, nessuna cognizione che gli indicassero
l’opportunità di questo suo comportamento. È, dunque, assolutamente
impossibile che uno abbia in tanta stima l’equità e la fede fino al
punto da non ricusare alcun supplizio allo scopo di conservarle,
senza aver conferito il proprio assenso a cose che non possono
essere false.
A dire il vero, la stessa saggezza, se non avrà consapevolezza di sé
medesima e se non saprà se essa stessa sia saggezza o meno, come
farà a conseguire per la prima volta il nome di saggezza? E, poi,
come avrà l’ardire di intraprendere una qualche azione o di
compierla con fiducia, quando non ci sarà nulla di certo cui tener
dietro? Quando essa metterà in dubbio quale sia il sommo ed ultimo
bene, ignorando il fine al quale tutte le cose si riconducono, come
potrà essere saggezza? Ed è anche ben manifesto questo: che, cioè, è
indispensabile stabilire un principio cui la saggezza debba
attenersi nell’intraprendere qualche azione e che questo principio
sia conforme a natura. In altra guisa, infatti, non può essere messo
in moto l’appetito (così vogliamo rendere il termine ὀρµή), da cui
siamo spinti all’azione e al desiderio di ciò che si è presentato al
nostro sguardo. Ma è indispensabile che quel principio motore
si renda prima manifesto e riscuota la nostra fiducia: il che è
impossibile, se la rappresentazione che a noi si sia presentata non
potrà essere distinta da quella falsa. Come mai, poi, l’anima
potrebbe essere indotta all’appetizione, qualora non si percepisse
se la rappresentazione è conforme alla natura o le è estranea? Allo
stesso modo, se non si presenta all’anima quale sia il suo dovere,
essa non compirà affatto alcuna azione, non sarà sospinta verso cosa
veruna, non si metterà mai in moto. Ché se, di volta in volta, essa
si accinge a compiere una qualche azione, è indispensabile che le
sembri vero ciò che le si presenta dinanzi.
Ebbene? Dal momento che, se codeste vostre teorie sono vere,
rimane soppressa ogni sorta di ragione, che è come una luce che
illumina la vita, voi persisterete, nonostante tutto ciò, nella
vostra perversione?
La ragione, che è produttrice di virtù, suol dare il via alla
ricerca, quando da questa ricerca la ragione stessa abbia trovato la
propria conferma: ed è ricerca il desiderio di conoscenza, ed è fine
della ricerca la scoperta: ma nessuno considera una scoperta le cose
false, né possono essere “scoperte” quelle cose che rimangono
incerte; si parla, bensì, di scoperta allorquando sono state aperte
quelle cose che precedentemente erano rimaste, per così dire,
coperte da un velo. In tal modo la ragione contiene in sé sia
l’inizio dell’indagine sia il fine della percezione e della
comprensione. Pertanto, la dimostrazione del nostro sillogismo – la
quale con termine greco si chiama ἀπóδειξις – viene cosiì definita:
“è ragione quella che da oggetti già percepiti ci porta a ciò che
non ancora era percepito”37.
Ché, se tutte le rappresentazioni fossero tali quali van di cendo
costoro38 – che, cioè, esse possono essere anche false e che non è
possibile distinguerale con nessun mezzo conoscitivo –, come faremo
a sostenere che qualcuno abbia fatto una dime strazione ovvero una
scoperta? O quale prova ci sarebbe della dimostrazione di
un’argomentazione? Anzi la stessa filosofisa, che deve procedere con
metodo razionale, quale fine farà? E che cosa accadrà della
saggezza, la quale non deve mettere in dubbio né se stessa né i suoi
“decreti” (che i filosofi chiamano ηóγµτα), nessuno dei quali può
essere messo da parte senza che si cada in colpa? Quando, infatti,
si trascura un decreto della saggezza, si viene a trascurare la
stessa legge della verità e della rettitudine, e da questa
deficienza sogliono derivare atti di tradimento nei riguardi
dell’amicizia e dello Stato. Bisogna, dunque, credere fermamente che
nessun “decreto” del saggio possa essere falso e che non basti che
esso non sia falso, ma esso deve essere anche stabile, fisso e
sancito, talché nessun ragionamento riesca a smuoverlo.
Ma è impossibile che questi decreti siano o appaiano tali se ci si
attiene alla maniera di ragionare di coloro i quali cosestengono che
quelle rappresentazioni da cui tutti i decreti sono scaturiti non
difieriscono per nulla dalle false.
Di qui è scaturita la richiesta avanzata ieri da Ortensio39ossia che
voi affermiate che almeno questo il saggio ha percepito, cioè che
niente può essere percepito.
E Antipatro40 appunto questa richiesta faceva nel sostenere – di
fronte all’affermazione di Carneade circa l’impossibilità di
percepire cosa alcuna – che è, comunque, coerente affermare la
possibilità di percepire quell’unica cosa, pur ammessa
l’impossibilità di percepirne altre; ma Carneade gli si opponeva con
maggiore acutezza. Questi, infatti, sosteneva che la richiesta di
Antipatro non solo è lungi dal possedere una coerenza logica, ma è,
anzi, in pieno contrasto con questa. Chi, infatti, nega l’esistenza
di qualcosa che possa essere percepita, non ammette eccezione
alcuna. Così, secondo Carneade, si arriva necessariamente
all’impossibilità di comprendere o concepire in alcun modo anche
quella stessa cosa che non costituisce eccezione.
Contro questo punto pareva che Antioco accentuasse la sua pressione.
Gli Accademici – egli diceva –, poiché si attengono a questo
“decreto” (vi state accorgendo che con questa parola intendo
tradurre il termine δóγµα), ossia che “nulla può essere percepito”
non dovrebbero essere titubanti anche in questa loro decisione come
fanno con le altre, specialmente perché in essa tutto il loro
pensiero trova consistenza. Difatti il principio regolatore di tutta
quanta la filosofia è la determinazione del vero e del falso, del
noto e dell’ignoto. Dal momento che essi accettano questo método e
intendono mostrarci quali rappresentazioni bisogna accogliere e
quali respingere, certamente essi avranno dovuto percepire almeno
questo “decreto” dal quale proviene ogni giudizio del vero e del
falso. Antioco sosteneva, infatti, che i problemi della filosofia
sono due: il giudizio di verità e il sommo bene, e che non può
essere saggio chi ignori l’esistenza o del principio della
conoscenza o dell’ultimo termine dell’appetizione, fino al punto da
non sapere o da dove egli stesso parta o dove debba approdare.
Nutrire dubbi su queste cose e non aver fiducia nella loro
inamovibilità significa – secondo Antioco – tenersi il più lontano
possibile dalla filosofia. Ecco perché si sarebbe dovuto pretendere
da loro che affermassero di aver percepito almeno questo, ossia che
nulla può essere percepito.
Ma circa l’incoerenza di tutto il loro modo di pensare – se pur può
essere “modo di pensare” quello di chi non ammette nulla – si
ritenga, come io credo, che abbiamo discusso abbastanza.
Segue ora un tema di dibattito che è senz’altro fecondo, ma un
po’ più astratto – esso prende lo spunto, in gran parte, dai
“fisici” e quindi corre il rischio di dover concedere più ampia
libertà e licenza al mio contraddittore: prevedo già infatti, il
futuro comportamento, in merito a questioni riposte ed oscure, da
parte di chi fa il tentativo di eliminare la luce!41.
Eppure sarebbe stato possibile intavolare una sottile disquisizione
prima sul grande criterio artistico con cui la natura ha prodotto
ogni essere vivente e poi su quello con cui ha “fabbricato” l’uomo,
sulla forza immanente ai nostri sensi, sul modo in cui noi subiamo i
primi impulsi delle nostre rappresentazioni; di poi si sarebbe
potuto trattare dell’appetito provocato da queste e, infine, del
modo in cui volgiamo i nostri sensi alla percezione della realtà.
Persino l’intelletto, invero, che è la fonte della sensibilità e che
è, esso stesso, un senso, ha una forza naturale che esso volge verso
gli oggetti da cui è mosso. Esso, pertanto, si impossessa
rapidamente di certe rappresentazioni e se ne serve con
immediatezza; altre, per così dire, se le tiene in serbo, e da
queste ultime nasce la memoria42; tutte le altre, invece,
l’intelletto le coordina in base a somiglianze43, e da queste ultime
vengono prodotti i concetti [notitiae] delle cose, che i Greci
talora chiamano ἔννια, talora πρoλήψεις44. Quando a queste tre
specie di rappresentazione si aggiungono la ragione e la
dimostrazione e una innumerevole moltitudine di altre cose, allora
risulta con evidenza la percezione di tutte quelle rappresentazioni,
e la stessa ragione, perfezionatasi mercé la gradualità di queste
acquisizioni, perviene alla sapienza.
Adunque, la mente umana ha la massima attitudine alla conoscenza
scientifica della realtà e alla coerenza nella condotta della vita,
e riesce ad abbracciare pienamente la conoscenza e codesta ϰατάλψις
che noi chiameremo “comprensione” (come ho detto45, facendone una
traduzione letterale) e ne prova amore sia di per se stessa (niente,
infatti, le è più gradevole della luce della verità) sia per l’uso
che ne fa. Appunto per questo motivo si serve dei sensi e produce le
arti quasi come secondi sensi e rinvigorisce la stessa filosofia
fino al punto che quest’ultima, a sua volta, produce la virtù, dalla
quale soltanto dipende tutta quanta la nostra esistenza. Perciò
quanti negano la possibilità che una qualche cosa venga compresa
eliminano tutti questi strumenti e ornamenti della vita e privano di
anima lo stesso essere vivente, sicché è difficile stigmatizzare,
come meritano, la loro leggerezza nella maniera richiesta da una
causa così importante.
Ma io non riesco a configurarmi con sufficiente
precisione quello che è il loro disegno o il loro volere. A
volte, infatti, quando noi facciamo loro l’obiezione che, se sono
vere le loro discettazioni, tutta la realtà rimane nell’incertezza,
essi rispondono: “E che ce ne importa? È forse colpa nostra? Accusa
la natura, che, come afferma Democrito, ha sommerso la verità in un
abisso profondo!”46. Invece con maggior raffinatezza altri47, che
pur si lamentano del fatto che noi li accusiamo di sostenere
l’incertezza di tutte le cose, si sforzano di dimostrare e di
sottolineare la differenza che passa tra “incerto” e
“impercettibile”. Vediamocela, allora, con questi ultimi, che fanno
codeste distinzioni, e mettiamo invece da parte, come gente
irrecuperabile, quelli che dicono che tutte le cose sono incerte
allo stesso modo in cui é incerto se il numero delle stelle sia pari
o dispari. Essi pretendono infatti (e mi sono accorto che voi altri
vi lasciate adescare specialmente da ciò) che ci sia qualcosa di
“probabile”, e, direi, di “somigliante al vero”, e intendono
servirsene come regola sia nella condotta della vita sia nelle
indagini e nelle discussioni.
Ma qual é codesta “regola” del vero e del falso, se noi non abbiamo
del vero e del falso alcuna nozione che ci dia la possibilità di
distinguere tra loro queste due cose? Se, infatti, noi possediamo
questa “regola”, viene necessariamente a risultare la differenza
come tra il retto e il malvagio così tra il vero e il falso. Se non
c’è alcuna differenza, non c’è alcuna regola ed è impossibile che
chi accomuna la rappresentazione del vero con quella del falso
possegga un giudizio o, in genere, un qualche contrassegno della
verità. Quando essi sostengono di eliminare esclusivamente la
possibilità che un qualcosa sia vero fino al punto da non poter
sembrare anche falso e di ammettere, invece, tutto quanto il resto,
fanno un discorso puerile. Infatti, dopo aver soppresso il mezzo con
cui sono giudicate tutte quante le cose, sostengono di non
sopprimere il resto, come se uno, dopo aver accecato una persona,
affermasse di non averle tolto dinanzi gli oggetti che possono
essere visti. Come, infatti, quegli oggetti vengono riconosciuti
soltanto per mezzo degli occhi, così vengono riconosciute le altre
cose per mezzo delle rappresentazioni, ma è indispensabile l’ausilio
di un contrassegno che appartiene esclusivamente al vero e non é
affatto comune al vero e al falso. Ragion per cui, tanto se tu
tirerai in ballo una rappresentazione semplicemente “probabile”
quanto una che è “probabile e non impedita” come voleva Carneade48,
quanto ancora una qualche altra cosa cui ti possa attenere, dovrai
pur sempre far ricorso a quella rappresentazione di cui stiamo
parlando49. E se questa avrà comunanza col falso, non ci sarà
giudizio alcuno, poiché ciò-che-è-proprio non può essere
contraddistinto da un segno che sia comune. Se, al contrario, non ci
sarà nulla di comune, allora ho conseguito il mio scopo: infatti io
sto cercando quello che a me sembra così vero da non poter sembrare,
nello stesso tempo, falso.
In siffatto errore essi cascano quando, costretti dal grido della
verità, vogliono distinguere tra oggetti “evidenti” e oggetti
“percepiti” e si sforzano di dimenticare l’esistenza di qualcosa che
è evidente, ma anch’esso impresso nell’anima e nell’intelletto e
che, tuttavia, non è suscettibile di essere percepito e compreso50.
Ma come mai potrai dire che un oggetto è evidentemente bianco,
quando si può dare il caso che sembri bianco quello che è nero? O
come mai faremo a dire che sono evidenti o impresse con precisione
codeste “nozioni”, quando è incerto se noi ci si muova in modo
conforme al vero oppure a vuote illusioni? A queste condizioni non
ci sono più né colore né corpo né verità né argomentazioni probative
né sensazione né evidenza.
Ecco perché suole loro accadere, nella vita pratica, di
trovare sempre alcuni che, per ogni loro affermazione, fanno
loro la domanda: “Ma almeno codesta cosa tu la percepisci?” Essi,
però, prendono in giro chi pone tale domanda. Né, a dire il vero,
gli oppositori li incalzano fino al punto da provare l’impossibilità
assoluta di fare una discussione o una qualsiasi affermazione senza
possedere un qualche segno determinato e peculiare di quella cosa
cui ciascuno sostiene di dare il proprio beneplácito.
Orbene: che vuol dire, allora, codesto vostro “probabile?” Esso
è la cosa più leggera di tutte, se dà conferma a ciò che si presenta
immediatamente dinanzi a ciascuno e che alla prima apparizione ha
tutta la parvenza della probabilità. Se, al contrario, essi
affermeranno di attenersi alla rappresentazione fondandosi su una
certa circospezione e su un’accurata meditazione, nonostante ciò,
non troveranno una via d’uscita, anzitutto perché a quelle
rappresentazioni che sono tra se stesse indifferenziate tutti
ugualmente negano la fiducia, e in secondo luogo perché, siccome
essi affermano che al saggio – con tutti gli sforzi che egli fa e
con tutte le sue accuratissime cautele -si può presentare un qualche
cosa che da una parte sembra verosimile e dall’altra è molto lungi
dal vero, non potranno aver fiducia in se stessi, neppure nel caso
che si accostino alla verità, come essi dicono, “in gran parte” o
“quanto più vicino è possibile”. Infatti, perché si possa nutrire
questa fiducia, dovrà essere noto a loro il contrassegno della
verità; ma se questo è oscuro ed è stato soppresso, quale verità,
alla fine dei conti, sembrerà loro di attingere? Nessuna assurdità
più grave si potrebbe sostenere di quando si fa un discorso come
questo: “Questo è certamente il contrassegno o la prova di quella
data cosa, e perciò io lo seguo, ma è possibile che l’oggetto
significato o sia falso oppure non esista affatto”51.
Ma fin qui basta per quanto concerne la percezione; se, infatti, c’è
qualcuno che intende mettere in bilico le mie precedenti
affermazioni la verità stessa avrà facile gioco a difendersi anche
in mia assenza.
Dopo aver fatto sufficientemente le precedenti precisazioni faremo
pochi rilievi sull’assenso e sull’approvazione, che i Greci chiamano
συγχατάϑεσις, non perché si tratti di un concetto di scarsa
importanza, ma perché poco fa ne abbiamo già poste le fondamenta.
Quando, infatti, abbiamo dato52 schiarimenti circa il potere che è
immanente ai sensi, abbiamo aperta anche la via a quest’altra
dimostrazione, ossia che molte cose possono essere comprese e
percepite dai sensi: il che è impossibile, ove si prescinda
dall’assenso. Inoltre, se teniamo presente che la mas sima
differenza che intercorre tra l’inanimato e l’animale sta nel fatto
che l’animale compie una qualche azione (se non agisse, sarebbe
addirittura impossibile concepirlo nella sua essenza), allora o
bisogna togliere all’anima la sensibilità op pure bisogna ammettere
quell’assenso che trovasi in nostro potere.
A dire il vero, a quelli cui s’intenda negare la sensibilità e
l’assenso, vien tolta, in un certo qual modo, anche l’anima. Come,
infatti, è inevitabile che un piatto della bilancia si inclini per
la sovrapposizione dei pesi, così è inevitabile che l’anima si
arrenda di fronte all’evidenza. Difatti, come è impossibile che un
qualche animale non appetisca ciò che si rivela conforme alla sua
natura (i Greci usano qui il termine oἰχεἴoν così è impossibile che
l’anima non dia la sua approvazione ad una cosa evidente che le stia
di fronte.
D’altronde, se è vero quello di cui abbiamo discusso53, non è
affatto il caso di parlare dell’assenso, giacché chi ha un
percezione lo dà immediatamente. Ma è bene notare anche le seguenti
conseguenze: che, ove si prescinda dall’assenso, non possono
sussistere né la memoria né i concetti degli oggetti né le arti. E
chi non darà l’assenso ad alcuna cosa non possiede neppure quella
che è la prerogativa più importante dell’uomo, ossia quella di aver
qualcosa in nostro potere54. Dov’è, allora, la virtù, se nulla
è riposto in noi stessi? La cosa più assurda, poi, sta nel riporre i
vizi in nostro potere e nel ritenere che nessuno faccia il male
senza assentirvi e nel non concedere, invece, questa stessa facoltà
alla virtù, la cui costanza e la cui saldezza sono totalmente
costituite da tutte quelle cose cui essa ha dato il suo assenso e la
sua approvazione. Ed è senz’altro necessario che noi abbiamo una
qualche rappresentazione prima di agire e che diamo l’assenso a
quella eventuale rappresentazione. Ragion per cui chi elimina o la
rappresentazione o l’assenso viene ad eliminare dalla vita ogni
azione.
Vediamo adesso le obiezioni che di solito costoro sollevano contro
quanto abbiamo detto. Prima, però, vi si dà facoltà di riconoscere
quasi le basi di tutto il loro modo di ragionare.
Orbene: in primo luogo essi imbastiscono un certo “sistema” di
quello che noi chiamiamo rappresentazioni e, usando la medesima
terminologia degli Stoici, definiscono la loro essenza e le loro
specie e la natura di quella che, tra esse, è percepibile e
comprensibile. Di poi mettono in rilievo quei due principi che, per
così dire, includono tutta la presente indagine: che, cioè, quelle
cose che ci appaiono in modo tale da poter sembrare anche diverse
pur avendo le stesse modalità e senza che ci sia tra esse differenza
alcuna, non possono essere alcune percepite e altre no; in secondo
luogo che non sussiste alcuna differenza tra di esse, non soltanto
se hanno le medesime modalità in ogni loro parte, ma anche se non
possono essere distinte tra loro.
Fatta questa premessa, tutto il dibattito viene da essi concluso con
un’unica dimostrazione. Ed ecco quale ne è l’articolazione: “Di
tutte le rappresentazioni, alcune sono vere e altre false, e ciò che
è falso non può essere percepito; ma ogni rappresentazione che
appare vera è tale da poter apparire, con le stesse modalità, anche
falsa; e quelle rappresentazioni che presentano tali modalità da non
avere tra loro alcuna differenza, escludono l’eventualità che alcune
di esse siano percepibili e altre no: epperò non esiste alcuna
rappresentazione che si possa percepire”.
Questi pensatori, inoltre, reputano che a loro si concedanco due di
queste premesse che essi assumono per giungere alla dimostrazione da
loro voluta (e nessuno fa obiezione). Queste premesse sono: in primo
luogo, le rappresentazioni che sono false non possono essere
percepite; in secondo luogo, di quelle rappresentazioni che non
presentano tra loro alcuna differenza, è impossibile che alcune
siano tali da poter essere percepite e altre no.
I rimanenti loro punti di vista essi li difendono con lunghi e
svariati discorsi, che si riducono, essi pure, a due: l’uno è che,
tra le rappresentazioni che eventualmente si offrono, alcune sono
vere e altre false; l’altro è che ogni rappresentazione proveniente
dal vero ha le stesse caratteristiche che se provenisse dal falso.
Su queste due proposizioni essi non sono disposti a sorvolare, ma le
estendono fino al punto da dedicarvi grande e meticolosa cura.
Difatti le dividono in parti, e, in primo luogo, in parti grandi:
anzitutto le distinguono secondo i sensi, poi secondo le derivazioni
dai sensi e da ogni altra esperienza su cui pretendono che si getti
un velo di oscurità; infine essi pervengono alla terza parte,
secondo la quale non è possibile percepire alcuna cosa neppure con
la ragione e con la congettura. Suddividono, poi, tutte queste tre
parti anche in maniera più dettagliata. E si comportano, per vero,
con le altre cose allo stesso modo in cui li avete visti comportarsi
con i sensi nella conversazione di ieri55; e in tutte queste parti,
che essi suddividono ancora in porzioni più piccole, intendono
dimostrare che a tutte le rappresentazioni vere sono congiunte
quelle false, le quali non differiscono affatto dalle vere; ed esse,
avendo siffatte caratteristiche, sono incomprensibili.
Da parte mia, giudico questa sottigliezza molto degna della
filosofia, ma molto remota dalla causa patrocinata da quanti fanno
quelle discriminazioni. Difatti le definizioni e le partizioni e un
discorso capace di utilizzare i lumi offerti da queste, e, inoltre,
le somiglianze e le dissomiglianze e la loro distinzione sottile ed
acuta sono pertinenza di pensatori i quali nutrono fiducia nella
verità, nella certezza, nella stabilità di ciò che intendono
sostenere, e non già di gente che dichiara ad alta voce che quelle
cose non sono affatto “più vere che false”.
Come si comporterebbero, invero, se, dopo che essi avessero data la
definizione di un determinato oggetto, si chiedesse loro se sia
possibile adattare quella medesima definizione ad un qualsivoglia
altro oggetto? Se diranno che è possibile, cosa avranno da dire per
giustificare che quella definizione è vera? Se, invece, negheranno
questa possibilità, dovranno confessare che, non essendo possibile
che almeno quella definizione vera si adatti al falso, l’oggetto
precisato da quella definizione può essere percepito: cosa che essi
non vogliono affatto.
Lo stesso discorso si potrà fare anche a proposito di tutte le
parti. Se, infatti, diranno di distinguere con la
massima chiarezza gli oggetti di cui parlano e di non esserne
impediti da alcuna comunanza di rappresentazioni, essi confesseranno
di comprenderli; se, al contrario, diranno che le rappresentazioni
vere sono indistinguibili da quelle false, come faranno a tirare
innanzi? Cozzeranno contro le stesse obiezioni contro cui son
cozzati di già, giacché sarebbe impossibile pervenire ad una
dimostrazione senza aver provato che le premesse assunte per la
dimostrazione sono tali che nessun’altra, avente le stesse modalità,
possa essere falsa.
Orbene: se un ragionamento che si fonda e procede su cose comprese e
percepite arriverà alla conclusione che nulla è comprensibile, che
cosa si potrà trovare di più contraddittorio con se medesimo? E
poiché, per sua stessa natura, un discorso accurato si propone di
manifestare un qualcosa che non è evidente e, per conseguire più
agevolmente questo scopo, di servirsi dei sensi e di ciò che è
evidente, quale validità ha il disccrso di costoro che pretendono
che tutte le cose non abbiano esistenza reale, ma solo apparenza? Ma
essi sono sconfitti specialmente quando assumono come coerenti
questi due principi che contrastano tanto fortemente tra loro: il
primo, cioè, che vi sono rappresentazioni false – e col sostenere
ciò vengono a dire esplicitamente che ce ne sono anche di vere –, e
contemporaneamente il secondo, che, cioè, non sussiste alcuna
differenza tra le rappresentazioni false e quelle vere. Ma si era
assunta la prima premessa col presupposto che questa differenza
sussistesse: pertanto la prima proposizione viene confutata dalla
seconda e la seconda dalla prima.
Ma tiriamo innanzi e comportiamoci in modo da non sembrare di essere
troppo compiaciuti con noi stessi, e pediniamo le loro affermazioni
senza tralasciarne nemmeno una.
In primo luogo, quell’evidenza di cui abbiamo parlato56 ha
un’efficacia tanto grande da indicarci di per sé le cose esistenti
nel modo in cui esse esistono. Comunque, per conservarci
nell’evidenza con maggiore stabilità e costanza, abbiamo bisogno di
un metodo e di un’accuratezza anche maggiori, se non vogliamo che,
per così dire, offuscamenti e seduzioni ci distacchino da quegli
oggetti che sono di per sé manifesti. Del resto Epicuro, che pure
avrebbe voluto ovviare a quegli errori che sembrano intorbidare la
conoscenza della verità e che affermò essere compito del sapiente
separare l’opinione dall’evidenza non fece alcun progresso: egli,
infatti, non riuscì ad eliminare in nessun modo l’errore cui la
stessa opinione va soggetta57.
Ecco perché, siccome ci sono due cagioni che fanno di ostacolo alla
perfetta evidenza, noi dobbiamo ricorrere, a nostra volta, ad
altrettanti ripari.
II primo ostacolo sta nel fatto che gli uomini non impegnano
sufficientemente il loro animo e la loro attenzione in direzione
delle cose evidenti, fino al punto da poter individuare da quanta
luce esse siano circonfuse; l’altro ostacolo sta nel fatto che
certuni, assiepati e ingannati da interrogativi attraenti e
menzogneri, non sono capaci di dar loro una soluzione e si staccano
dalla verità. È indispensabile, allora, che noi abbiamo a portrata
di mano le eventuali risposte da dare in difesa dell’evidenza – e di
queste risposte già abbiamo fatto menzione58 – e che siamo ben
armati per poter rintuzzare gli interrogativi di quei signori e
metterne in discussione la capziosità, cosa che ho stabilito di fare
in appresso.
Esporrò, dunque, a grandi linee le loro argomentazioni, tenendo
presente che anch’essi hanno l’abitudine di esprimersi in maniera
non confusionaria.
In primo luogo essi tentano di dimostrare che possono sembrare
esistenti molte cose che in realtà non esistono affatto, dal momento
che il nostro animo è mosso a vuoto dalle cose che non esistono allo
stesso modo che da quelle esistenti. “Difatti, poiché voi sostenete
– essi obiettano – che sono inviate dalla divinità certe
rappresentazioni – quali sono quelle che appaiono in sogno o quelle
che vengono rivelate da oracoli, auspici e viscere di animali (si
dice, infatti, che a queste cose danno la loro approvazione gli
Stoici, contro i quali è rivolta la polemica)59 –, come mai – essi
chiedono – un dio può far risultare probabili quelle
rappresentazioni che sono false, mentre non è capace di fare
altrettanto con quelle che si accostano al vero molto da vicino?
Oppure, se riesce a farlo anche con queste, perché non è capace di
farlo, tuttavia, anche con quelle che con difficoltà si distinguono
reciprocamente? E, se con queste, perché non con quelle che
reciprocamente non si distinguono affatto?”.
In secondo luogo essi osservano: “Poiché l’intelletto si muove
di per se stesso – come, del resto, è reso manifesto dalle
raffigurazioni che il nostro pensiero produce e dalle
rappresentazioni che di tanto in tanto si presentano a chi dorme o a
chi è pazzo –, è verosimile che anche l’intelletto sia mosso in
guisa tale che non solo esso non riconosca se quelle
rappresentazioni siano vere oppure false, ma che nelle stesse
rappresentazioni non si riscontri affatto differenza alcuna. Così,
ad esempio, avverrebbe nel caso che uno tremasse e impallidisse sia
per una qualche spontanea perturbazione del suo animo sia perché gli
si presenti dal di fuori un qualche spettacolo terrificante e non ci
sia alcuna possibilità di distinguere quel tremore e quel pallore e,
di conseguenza, non si riscontri alcuna differenza tra la loro
origine interna e quella esterna”.
Infine essi osservano: “Se non è probabile alcuna rappresentazione
che sia falsa, il ragionamento da farsi è un altro; se, invece,
alcune rappresentazioni sono probabili, perché non dovrebbero
esserlo anche quelle che non vengono tra loro facilmente distinte?
Perché, anzi, non dovrebbero esserlo finanche quelle che tra loro
non si differenziano affatto, dal momento che voi stessi affermate
che il saggio, in istato di forte eccitazione, si astiene da ogni
assenso, non manifestandosi, in questo caso, alcuna differenza tra
le sue rappresentazioni?”
A proposito di queste “immagini vuote”60 Antioco continuava a fare
tante osservazioni, e su questo solo tema la discussione durava
un’intera giornata. Io, però, non reputo di dover fare lo stesso, ma
mi limiterò a parlare per sommi capi.
E in primo luogo devo biasimare questo: che, cioè, la maniera di
interrogare da loro praticata ha un carattere molto capzioso, cosa
che non suole essere ammessa nel campo della filosofia, allorché si
apportano certe aggiunzioni e certe sottrazioni a pezzo a pezzo ed a
grado a grado. Questo metodo lo chiamano “sorite essi che riescono a
costituire un mucchio con l’aggiunta di un solo chicco di grano! Ma
si tratta di una maniera di argomentare che è, senz’altro, difettosa
e tendenziosa. Voi, infatti, fate il seguente crescendo: “Se a chi
sta dormendo un dio mette innanzi una rappresentazione siffatta da
essere probabile, perché non dovrebbe mettergliene innanzi anche una
siffatta da essere assai verosimile? Perché non anche una siffatta
da essere difficilmente distinta dal vero? E poi una che non sia
menomamente distinguibile? E, infine, una nella quale non ci sia
alcuna differenza tra vero e falso? “Se tu giungerai a quest’ultima
proposizione per il fatto che io ti concedo tutte le prime premesse,
la colpa sarà mia; se, invece, andrai avanti di tua iniziativa,
la colpa sarà tua. Ma Me chi, a dire il vero, sarebbe disposto a
concederti o che un dio può fare tutto o che, se pur lo potesse, lo
farebbe come dici tu? E come fai, poi, ad assumere una premessa in
base alla quale, se un qualcosa può essere simile a un
qualcos’altro, ne consegue che sia possibile distinguerlo da
quest’ultimo condifificoltà, e poi che non sia possibile
distinguerlo affatto, e, alla fine, che s’identifichi con esso? E se
è vero che i lupi sono simili ai cani, verrai tu, alla fine dei
conti, ad identificarli con i cani? E, per la verità, certe cose
disoneste sono simili alle oneste, certe cose buone a quelle non
buone, certi prodotti artistici a quelli non artistici: ma, allora,
perché esitiamo ad affermare che tra queste cose non c’è differenza
alcuna? E non ci accorgiamo neanche che si tratta di opposti?61 Non
c’è niente, invero, che dal proprio genere possa passare ad un
genere diverso62. Se, però, si riuscisse a dimostrare che non
intercorre alcuna differenza tra rappresentazioni di genere diverso,
si verrebbe a scoprire che certe cose sono presenti nel loro proprio
genere ed anche in un altro diverso dal loro. Ma come sarebbe
possibile questo?
C’è, poi, una sola maniera per cacciar via tutte quante le
rappresentazioni vuote, tanto se esse vengano formate dal pensiero –
cosa che noi ammettiamo possa verificarsi di solito – quanto se esse
si formano durante il sonno o a cagione dell’ebbrezza o della
follia. Noi sosterremo, infatti, che tutte le rappresentazioni di
questo tipo sono prive di quella evidenza che è un boccone troppo
ghiotto per farselo cascar giù dai denti63. Chi, infatti, nel creare
qualche fantasticheria o nel raffigurarsela con la riflessione, non
si accorge della differenza che intercorre tra le cose evidenti e
quelle vacue, non appena egli si riscuote e ritorna in se stesso? Il
medesimo ragionamento vale anche per i sogni. Pensi tu che Ennio,
dopo aver fatto la solita passeggiata nei giardini col suo vicino di
casa Servilio Galba64, dicesse: Mi è sembrato di andare a passeggio
con Galba? Quando, però, egli fece un sogno, lo narrò così:
Parve che Omero il poeta mi comparisse dinanzi65;
e lo stesso Ennio, nel suo Epicarmo66, diceva:
In verità mi parea di sognare che morto io fossi.
Pertanto, non appena ci ridestiamo, non diamo alcun peso a quelle
rappresentazioni e non le mettiamo sullo stesso piano delle azioni
che abbiamo realmente compiute nel foro!
“Ma pure – obiettate voi altri –, nel momento in cui appaiono, esse
hanno durante il sogno lo stesso aspetto di quelle che vediamo
durante la veglia”.
La differenza è, invece, grandissima, ma non ne parliamo per ora.
Noi intendiamo sostenere un’altra cosa: che, cioè, chi dorme non ha
la medesima facoltà e la stessa pienezza vitale di chi è sveglio, né
per quanto concerne l’intelletto né per quanto concerne il senso.
Neppure gli ubriachi fanno quello che fanno con la medesima
sicurezza dei sobri: essi hanno dubbiezze ed esitazioni, talvolta
fanno macchina indietro e danno un assenso più fiacco alle loro
rappresentazioni e, dopo che ci hanno dormito sopra, si rendono ben
conto della leggerezza delle loro rappresentazioni precedenti. Lo
stesso capita ai pazzi: costoro, all’inizio della follia, dicono di
avere l’impressione di vedere ciò che non esiste e, quando si
placano, se ne accorgone e ripetono le famose parole di Alcmeone67:
Ma il cuor mio non è affatto d’accordo
Con quello che vedono gli occhi.
“Ma, a dire il vero – voi insistete –, lo stesso saggio si astiene,
in momenti di eccitazione, dal dare l’assenso alle cose false invece
che a quelle vere”.
In realtà egli se ne astiene sovente anche altre volte, qualora, ad
esempio, i suoi sensi siano per caso appesantiti o impigriti, oppure
le rappresentazioni siano troppo oscure o la percezione gli venga
inibita dalla brevità del tempo. Comunque, questa intera faccenda –
ossia il fatto che talvolta il saggio trattiene l’assenso – gioca a
vostro danno. Se, infatti, tra le rappresentazioni † di generi
differenti68 † non ci fosse differenza alcuna, egli lo tratterrebbe
o sempre o mai.
Ma da tutto questo tipo di discussioni è possibile rilevar
l’infondatezza del discorso di quanti desiderano confondere tutte le
acque. Noi stiamo cercando un giudizio che abbia autorità, coerenza,
saldezza e saggezza, ma prendiamo, invece, come esempio gente che
sogna o che è pazza o che è ubriaca: vogliamo forse in questo campo
fare una mostra di quanti discorsi incoerenti sappiamo fare? Se così
non fosse, noi non tireremmo in ballo ubriachi o addormentati o
mentecatti in una maniera tanto assurda da affermare che, tra le
rappresentazioni di chi è sveglio e sobrio e sano e di chi si trova
in tutt’altra condizione, una volta c’è differenza e un’altra volta
non ce n’è affatto.
Essi non si accorgono neppure di questo, ossia di rendere 54 tutto
incerto: cosa che si rifiutano di ammettere. (Uso il termine
“incerto” al posto del greco ἄδηλoν). Ma se la faccenda è arrivata
ad un punto tale che non sussiste alcuna differenza tra il modo in
cui le rappresentazioni si presentano a chi è malato e quello in cui
si presentano a chi è sano, nessuno potrebbe avere la piena
sicurezza della propria sanità mentale. Ma pervenire volutamente a
questo risultato è gran follia!
In maniera puerile, a dire il vero, essi si appigliano alle
somiglianze dei gemelli o a quelle dei sigilli impressi da un
anello.
Nessuno di noi nega l’evidenza della somiglianza, dal momento che
questa si riscontra in una infinità di cose. Ma se, per eliminare la
conoscenza, è sufficiente la marcata somiglianza che sussiste tra un
grande numero di oggetti, perché non vi appagate di ciò, dato che ve
lo concediamo anche noi, e perché vi ostinate, invece, a sostenere
piuttosto una cosa che la natura non tollera, ossia che ciascun
oggetto, nel suo proprio genere, non è tale quale è realmente e che
tra due o più oggetti è impossibile alcuna comunanza che sia
assolutamente indifferenziata? Ammettiamo pure che tra loro le uova
siano molto simili alle uova e le api alle api: perché, allora,
continui a ostinarti e che cosa pretendi con i tuoi gemelli? Ti
viene concesso che essi sono simili, e avresti potuto esserne pago.
Ma no! Tu vuoi che essi siano identici in tutto e per tutto, e non
già simili: ma questa è una cosa assolutamente impossibile!
Poi fai ricorso proprio a quei “fisici” che soprattutto
nell’Accademia vengono presi in giro69 e dai quali neppure tu, tra
poco, saprai stare in guardia, e affermi che, secondo Democrito70, i
mondi sono numericamente infiniti e che, senza dubbio, alcuni non
sono soltanto simili tra loro, ma perfettamente e assolutamente
uguali sotto ogni profilo, fino al punto che tra di essi non
sussista alcuna differenza, e che sono, anche questi ultimi,
numericamente infiniti, e che lo stesso vale per gli esseri umani.
In un secondo momento, però, tu vieni a pretendere che, se tra un
mondo e un altro c’è tanta uguaglianza da non esserci tra loro la
benché minima differenza, ti si conceda che anche in questo nostro
mondo ci siano cose tanto uguali tra loro da non presentare alcun
segno di differenza di distinzione. “Perché, infatti – tu dirai –,
da quegli atomi da cui, secondo Democrito, sono generate tutte le
cose, negli altri mondi, che pur sono numericamente infiniti, non
c’é mera possibilità che esistano, ma esistono realmente infiniti
Quinti Catuli, mentre in questo mondo, che pur è così grande, non si
può produrre neanche un solo altro Catulo? “71.
In primo luogo tu mi accusi presso il tribunale di Democrito; ma io
non gli do il mio assenso, † anzi, piuttosto proprio lui può essere
messo sotto accusa72 † per il fatto che con molta chiarezza è stato
dimostrato da filosofi più raffinati di lui l’alpartenenza di
proprietà singole ad oggetti singoli.
Rendi pure quegli antichi Servili73, che furono gemelli tanto
somiglianti tra loro quanto vuole la tradizione: pensi tu, forse,
che essi furono addirittura identici? “Fuori casa non venivano
distinti”. Ma in casa sì! “Dagli estranei no”. Ma dai familiari sì!
E non vediamo capitare di solito che proprio quelle persone che non
avremmo mai creduto di poter riconoscere distintamente, con un po’
di consuetudine riusciamo a distinguerle tra loro con tanta
agevolezza da avere l’impre sione che esse non si somiglino affatto?
Battiti ora come vuoi: non mi opporrò; anzi ti concederò che persino
quel “saggio” – al quale si riferisce tutto il nostro attuale
dialogo –, quando gli si presentano oggetti simili di cui egli non
possiede contrassegni precisi, tratterrà il suo assenso e non lo
concederà a nessun’altra rappresentazione che non sia stata tale da
non poter essere falsa. Eppure egli non solo rispetto agli altri
oggetti avrà una certa abilità che gli rende possibile la
distinzione delle cose vere da quelle false, ma anche rispetto a
somiglianze come codeste dovrà servirsi di un’assidua frequenza:
come la madre distingue i gemelli per l’abitudine che ha di
guardarli, così tu riconoscerai quelle rappresentazioni, se ti sarai
abituato ad esse.
Tu vedi bene come sia divenuta proverbiale la somiglianza delle uova
tra loro! Tuttavia ci è stato tramandato anche il seguente aneddoto.
Una volta a Delo, quando le cose lì andavano bene, c’era una gran
numero di persone che di solito facevano grande allevamento di
galline per far denaro: ebbene bastava che questi competenti dessero
un attento sguardo all’uovo e quasi sempre sapevano dire quale
gallina l’aveva fatto!
Ma questo fatterello non ce la spunta contro di voi, giacché a voi
basterebbe che quelle uova non le riuscissimo a riconoscere noi.
Difatti non darei il mio assenso al fatto che questo è l’uovo che
cercavamo, per nulla più che se tra quelle uova non ci fosse la
benché minima differenza. Io, infatti, rispetto la norma di
giudicare vere quelle rappresentazioni che hanno qualità tali da non
potere essere false. Da questa norma non mi è lecito staccarmi
neppure, come si dice, “per lo spazio di un dito”74, allo scopo di
evitare una confusione generale: ché, se si annullasse ogni
differenza, andrebbe distrutta non solo la comprensione del vero e
del falso, ma anche la natura.
È da ritenersi un’assurdità anche quello che voi altri siete soliti
dire: che, cioè, quando le rappresentazioni s’imprimono nell’anima,
voi non intendete dire che tra quelle stesse impressioni non
sussista differenza alcuna, ma che questa differenza non si
riscontra, invece, tra le forme ideali di quelle rappresentazioni75.
Quasi che non venissero giudicate per mezzo delle idee quelle
rappresentazioni che non riscuoteranno alcuna credibilità, una volta
che sia stato eliminato il contrassegno del vero e del falso!
Ma la cosa più assurda di tutte sta nella vostra affermazione di
attenervi al “probabile”, qualora niente ve lo impedisca.
Anzitutto, quale possibilità avete voi di non esserne impediti, dal
momento che non c’è distacco tra vero e falso? In secondo luogo,
qual è il giudizio del vero, dal momento che esso è comune a quello
del falso? Di qui è venuta fuori, di necessità, quella celebre ἐπoχή
– vale a dire la sospensione dell’assenso -, nel sostenere la quale
è stato più coerente Arcesilao, se è vero quanto certuni76 pensano a
proposito di Carneade. Se, infatti, niente è percepibile – e tale è
stato il parere di enframbi costoro –, bisogna eliminare l’assenso,
giacché non c’è leggerezza maggiore che dare l’approvazione a un
qualcosa senza averne già conoscenza. Ieri77, invece, sentivamo
anche ripetere che Carneade, di solito, si lasciava andare fino al
punto da affermare che di tanto in tanto il saggio seguirà
l’opinione, vale a dire l’errore. Per conto mio, almeno, la
comprensibilità di una qualche cosa – di ciò sto discutendo fin
troppo già da un bel pezzo – è meno certa del fatto che il saggio
non segua affatto l’opinione, vale a dire del fatto che egli non dia
l’assenso ad una cosa che è falsa o ignota.
Ci resta da discutere la loro affermazione secondo la quale, allo
scopo di scoprire la verità, sarebbe indispensabile produrre
argomentazioni “a favore di tutto e contro tutto”. Ma voglio proprio
constatare che diamine hanno scoperto costoro!
“Non abbiamo il vezzo – dice l’Accademico – di metterlo in mostra”.
Ma cosa vogliono dire codesti vostri misteri? Perché tenete nascosto
il vostro punto di vista, come se fosse una vergogna? “Perché i
nostri allievi – risponde lui – si lascino guidare dalla ragione
piuttosto che dall’autorità!”. E perché non da tutte e due? Sarebbe
peggio, forse? L’unica cosa che non tengono nascosta è questa: che
non esiste nulla che sia percepibile. Ma, nel dire questo, non c’è
nocivo autoritarismo? A parer mio, ce ne sta a iosa! Chi, infatti,
avrebbe seguito dottrine così smaccatamente e palesemente
stravaganti e false, se Arcesilao – e molto più di lui Carneade –
non avessero avuta tanta dovizia di argomentazioni e tanta efficacia
oratoria?
Ecco, suppergiù, quello che sosteneva Antioco sia in quella
occasione ad Alessandria sia molti anni dopo, e con fermezza molto
più energica, mentre era con me in Siria, poco prima di morire.
Ma, ora che la mia causa è stata validamente patrocinata, non
esiterò a volgere un’esortazione a te (e qui faceva il mio nome),
che sei mio carissimo amico e di alcuni anni più giovane di me.
Proprio tu, pur avendo esaltato con tanti elogi la filosofia e pur
essendo riuscito a rimuovere il dissenso del nostro Ortensio78, ti
metterai a seguire quella corrente filosofica che fa un guazzabuglio
di vero e di falso, che ci dispoglia della facoltà di giudicare, ci
priva di ogni assenso, ci fa orbi dei nostri sensi? Persino i
Cimmeri, ai quali un qualche dio o la natura o la posizione
geografica in cui si trovano aveva strappato la vista del sole,
erano assistiti, tuttavia, dai bagliori del fuoco, di cui potevano
servirsi come luce; costoro, al contrario, cui tu batti le mani,
hanno diffuso intorno a sé tante tenebre, senza lasciare neppure una
favilla che ci permetta di sogguardare; e se noi ci mettessimo sulle
loro orme, rimarremmo legati da tali catene che non potremmo fare
neppure un passo avanti. Infatti, con l’eliminazione dell’assenso,
essi hanno tolto di mezzo ogni moto dell’anima e ogni attività
pratica; e questo non solo è ingiusto, ma è addirittura impossibile
che accada. Sta attento, poi, che proprio tu non hai affatto il
diritto di difendere codesto modo di pensare. Tu, che pur hai
disvelato più occulti segreti e li hai tratti alla luce, e hai detto
– sotto giuramento! – di essertene “accertato” (e lo avrei potuto
fare anch’io, che da te ne ero stato informato), proprio tu ti
metterai a dire che non esiste niente che sia possibile conoscere,
comprendere, percepire? Ti prego, cerca di non sminuire, tu proprio,
a poco a poco anche il fascino autorevole di quelle tue bellissime
gesta!»79.
Con queste parole Lucullo pose fine al discorso.
Ortensio era pieno di ammirazione (e ne aveva dato continuamente
segni mentre Lucullo parlava, fino al punto da alzare sovente le
mani; né c’era da stupirsene, dato che, a parer mio, non si erano
mosse mai obiezioni così penetranti contro l’Accademia) e un po’ per
celia, un po’ perché così effettivamente la pensava (questo io non
riuscivo a distinguerlo molto bene), cominciò ad esortarmi ad
abbandonare quella maniera di pensare.
A questo punto intervenne Catulo dicendo: «Se sei stato messo in
crisi da questo discorso che Lucullo ha tenuto coi una memoria così
fresca e con tanta diligenza e dovizia di argomentazioni, non mi
credo obbligato ad impedirti di cambiare opinione, se così ti sembra
opportuno. Ma una sola cosa non potrei credere: che tu ti lasci
smuovere dalla sua autorevolezza. Egli ti ha dato solo un
avvertimento – soggiunse con un sorrisetto –, cioè di stare in
guardia che qualche malizioso tribuno della plebe (e tu vedi che di
codesta genia ce ne sarà sempre ad ufo) ti possa prendere per il
bavero e chiederti, nell’assemblea popolare, quale coerenza è mai la
tua, dal momento che non ammetti la possibilità di fare alcuna
scoperta con certezza, mentre nel passato hai asserito di “esserti
accertato”. Per favore, non fartene spaventare! Per quanto, poi,
concerne l’attuale dibattito, preferirei il tuo dissenso da Lucullo;
ma se ti arrendi, non me ne stupirò gran che. Ricordo, infatti, che
lo stesso Antioco80 – che pur l’aveva pensata diversamente per tanti
anni – mutò parere non appena ne vide l’opportunità.
Quanto Catulo ebbe smesso di dir questo, tutti stavano a guardare
pur me. Allora io, agitato non meno di quello che mi suole capitare
nei processi più importanti, esordii con un discorso di questo
tenore: «O Catulo, io sono rimasto scosso dal discorso di Lucullo
sull’attuale tema, in quanto egli è una persona colta, ricca di
risorse spirituali, preparata e non ha tralasciato niente di quanto
si potesse dire in difesa della sua causa; ma non sono rimasto
scosso, tuttavia, fino a tal segno da perdere la fiducia di potergli
dare una risposta: eppure il suo così grande prestigio stava lì lì
per trascinarmi alla deriva, se tu non fossi intervenuto col tuo,
che non è da meno. Affronterò il problema, allora; ma prima farò
poche precisazioni, per così dire, a difesa della mia reputazione.
Se io, spinto dal desiderio di far bella figura o dalla passione per
le polemiche, mi sono dedicato soprattutto a questo indirizzo
filosofico, credo che se ne debba riversare la colpa non solo sulla
mia stoltezza, ma anche sul mio modo di vivere e sul mio carattere.
Se è vero che in faccende di scarsissimo rilievo si biasima
l’ostinazione e viene rintuzzata la mala fede, potrei, forse,
nutrire l’intento di fare un’aspra polemica con gli altri e di
trascinare nell’inganno loro e me stesso in faccende che riguardano
ogni condizione e ogni norma di tutta intera la vita? Pertanto, se
non stimassi un fuor d’opera, in una simile discussione, far quello
che di solito si fa nei dibattiti politici, mi metterei a giurare su
Giove e sugli Dei Penati che ardo dal desiderio di scoprire la
verità e di avere un pensiero che corrisponda alle parole.
E come non potrei bramare di trovare il vero, dal momento che
sono pago di trovare un qualcosa che ad esso è somigliante? Ma, come
ritengo che sia la cosa più bella vedere la verità, così è la cosa
più brutta dare il consenso al falso invece che al vero.
Io personalmente non ho tali requisiti da non dare talora
l’approvazione al falso, da non dare mai l’assenso, da non
abbassarmi mai ad opinare: ma noi stiamo facendo l’indagine sul
“saggio”. Per conto mio, sono un grande opinatore (non sono, per la
verità, un saggio!) e vado orientando le mie elucubrazioni non su
quella piccola Cinosura in cui
Come una guida notturna han fidanza in alto mare i Fenici81,
come afferma Arato, e drizzano meglio il timone seguendo quella
Che, col suo giro più interno, in orbita breve si volve82,
ma le oriento su Elice e sulle ben palesi stelle dell’Orsa, vale a
dire su questi ragionamenti di più ampio raggio e non su quelli che
vanno tanto per il sottile. E di qui derivano i miei più gravi
errori e vagabondaggi!
Ma, come dicevo, l’indagine non ha per oggetto me, bensì il saggio.
Infatti, quando codeste rappresentazioni sono riuscite ad eccitare
con vivacità il mio intelletto e i miei sensi, io le accetto e
talora do loro anche il mio assenso, ma tuttavia non le capisco a
fondo, giacché reputo che a fondo nulla si può percepire. Saggio io
non sono: pertanto cedo alle rappresentazioni e non riesco ad
opporvi resistenza. Invece Arcesilao pensa che la forza del saggio
risieda appunto in questo, ossia nel non lasciarsi abbindolare, nel
badare a non farsi ingannare, e almeno sotto questo profilo è
d’accordo con Zenone. Infatti l’errore, la leggerezza, il buttarsi a
capofitto sono le cose che maggiormente distano dalla concezione che
noi ci siam fatti circa la del gravità del saggio.
Perché, allora, dovrei mettermi a parlare della “fermezza del
saggio?” Anche tu, o Lucullo, ammetti che egli non opina nulla. E,
visto che tu l’approvi, lasciami anticipare un po’ le mie future
tesi (ben presto, comunque, ritornerò al rispetto dell’ordine!), e
considera già da ora il valore della dimostrazione seguente:
“Se il saggio darà qualche volta l’assenso a qualcosa, talora egli
opinerà anche; ma egli non opinerà mai; epperò non darà l’assenso a
nessuna cosa”.
A questa dimostrazione si atteneva Arcesilao83, giacché egli dava
conferma alla prima e alla seconda premessa. Carneade, invece,
talvolta rendeva affermativa la seconda premessa, ammettendo che
“certe volte” il saggio dà il suo assenso. Ne veniva, di
conseguenza, che il saggio “opina anche” cosa che tu fai bene a non
ammettere, a parer mio. Ma la prime premessa – quella, cioè, secondo
cui, se il saggio darà l’assenso opinera anche – è ritenuta falsa
dagli Stoici e dal loro zelante adepto Antioco: costoro, infatti,
sostengono che il saggio è in grado di distinguere il falso dal vero
e l’impercettibile dal percettibile.
A me, invece, sembra in primo luogo che, anche ammessa la
possibilità di percepire qualcosa, ciò nonostante, la stessa
abitudine all’assenso sia rischiosa e sdrucciolevole. Ragion per
cui, poiché risulta erroneo dare l’assenso a un qualcosa che sia
falso o ignoto, è preferibile astenersi da ogni assenso, per evitare
che si cada in errore, qualora si proceda con troppa disinvoltura.
Difatti le cose vere e quelle false, le cose impercettibili e quelle
percettibili (se pur, di queste ultime, ve ne sono; ma ciò lo
esamineremo ben presto) sono così confinanti tra loro che il saggio
non dovrebbe affidarsi ad una posizione così rischiosa. Se, al
contrario, assumerò da parte mia che non esiste proprio nulla di
percepibile, e accetterò la tua ammissione» ossia che il saggio non
formula opinione alcuna –, risulterà bello e dimostrato il fatto che
il saggio tratterrà ogni suo assenso. Sicché devi vedere proprio tu
se preferisci questa conclusione oppure quella secondo cui il saggio
formuli una qualche opinione.
Ma tu dirai: “Nessuna delle due!”. Cerchiamo, allora, di dimostrare
che niente si può percepire: difatti, appunto su ciò verte tutta la
nostra polemica.
Prima, però, dovrò fare un po’ i conti con Antioco, il qualeproprio
queste dottrine, di cui sto prendendo le difese, imparò alla scuola
di Filone per un lasso di tempo così lungo che, secondo l’opinione
generale, nessuno rimase allievo più a lungo di lui, e scrisse su
quegli argomenti con molto acume, e poi nella vecchiaia se ne fece
accusatore con accanimento non più grande di quanto precedentemente
ne fosse stato difensore abituale. Ma, sebbene egli abbia conservato
la sua acuta intelligenza, tuttavia il suo prestigio si è andato
eclissando a motivo della sua incoerenza. Ed io sono curioso di
sapere come brillasse il giorno che gli svelò quel “segno indicativo
del vero e del falso”84 la cui esistenza egli aveva avuto per molti
anni la consuetudine di negare.
Ma ha egli davvero escogitato un nuovo sistema filosofico? Sta
ripetendo le stesse cose degli Stoici! Si è pentito del suo antico
modo di pensare? Perché, allora, non è passato ufficialmente a
filosofi di altri indirizzi, e soprattutto agli Stoici? È stata
sempre una loro caratteristica codesto disaccordo con noi! Ebbene?
Forse egli si vergognava di Mnesarco, forse di Dardano, che allora
erano in Atene i capi più rappresentativi degli Stoici?85 Egli non
si allontanò mai da Filone, se non dopo che incominciò ad avere,
anche lui, un uditorio!
Ma in base a quale pretesto fu richiamata in vita, in un batter
d’occhio, l’Accademiia “Antica”? Forse che egli intendesse
conservare l’alto prestigio di quel nome, mentre in realtà se ne
staccava? Cera pure chi attribuiva questo suo comportamento alla
vanagloria e al fatto che egli nutriva l’illusione che i suoi
discepoli sarebbero stati chiamati “Antiochei”. A me, invece, pare
piuttosto che egli non ce la facesse più ad affrontare l’assalto di
tutti gli altri filosofi. Infatti, per quanto concerne tutti
costoro, esiste tra loro una notevole comunanza di vedute: invece
questo modo di pensare degli Accademici è l’unico a non ricevere
l’approvazione degli altri pensatori.
Egli, pertanto, se ne staccò, ma, come quelli che non sopportano il
sole alle Botteghe Nuove se ne vanno a passeggio all’ombra delle
Botteghe Vecchie di Menio86, così lui, grondante di sudore, si mise
a deambulare all’ombra degli Accademici Antichi. Nel tempo in cui
gli andava a genio la teoria deirinconoscibilità di tutte le cose
aveva l’abitudine di servirsi, a mo’ di argomentazione, della
domanda se il celebre Dionisio di Eraclea87, in base a
quell’infallibile “segno di riconoscimento” in virtù del quale voi
sostenete che bisogna dare l’assenso, fosse riuscito a capire ciò
che aveva sostenuto per molti anni fidando nell’insegnamento di
Zenone (ossia che è buono solo quello che è onesto) oppure ciò di
cui si era fatto poi abitualmente difensore (ossia che l’onestà è
vuoto nome e che sommo bene è il piacere); ebbene, prendendo lo
spunto dal mutamento di rotta efiettuato da Dionisio, Antioco
intendeva dimostrare che nella nostra anima non ci può essere alcun
segno lasciato dal vero senza che ci possa essere, allo stesso modo,
anche il segno lasciato dal falso. Così fece in modo che anche gli
altri, nelle loro argomentazioni, si servissero di lui come esempio,
proprio nella stessa guisa in cui egli si era servito di Dionisio.
Ma con Antioco regoleremo più a lungo i nostri conti in altra
occasione: ora torniamo a quello che hai detto tu, o Lucullo.
E anzitutto vediamo che cosa significa la tua affermazione
iniziale88, ossia che noi evochiamo i filosofi antichi allo stesso
modo come gli arruffapopolo hanno l’abitudine di nominare uomini
illustri che pur seguirono la causa popolare. Ma quei demagoghi, nel
sostenere cause non buone, vogliono apparire simili ai buoni; noi,
invece, diciamo di avere gli stessi punti di vista che anche voi
ammettete essere stati quelli condivisi dai più celebri filosofi.
Anassagora89 sostenne che la neve è nera: lo tollereresti tu, se lo
dicessi anch’io? Neppure se ne facessi appena afllorare il sospetto!
Anassagora, chi è costui? Forse un sofista (era questo il nome che
si dava a quanti professavano filosofia per esibizionismo e per
lucro)? No, anzi fu somma la gloria della sua serietà e del suo
ingegno.
Che dirò di Democrito? Chi potremmo mettergli alla pari non
solo per la grandezza delle doti naturali, ma anche per la
profondità del pensiero? Ebbene, egli osò fare questo preambolo:
“Queste sono le mie affermazioni a proposito dell’intero
universo”90. Egli professò di saper trattare di tutto, senza alcuna
eccezione: nulla, infatti, ci potrebbe essere al di fuori
dell’universo! Eppure a questo filosofo chi non darebbe la
preferenza rispetto a un Cleante, a un Crisippo, agli altri
“moderni” che, messi a confronto con lui, sembrano essere cittadini
di quinta classe?91 Tuttavia egli non arriva a sostenere quello che
sosteniamo noi, che non neghiamo l’esistenza di un qualcosa di vero,
ma soltanto la possibilità di percepirlo. Egli, invece, nega
completamente l’esistenza della verità; dice che i sensi non sono
oscuri, ma “offuscati dalle tenebre”92 (è questo l’aggettivo che
conferisce loro). E quegli che ebbe per lui la massima ammirazione,
Metrodoro di Chio93, all’inizio del libro che ha per titolo Sulla
natura, dichiara: “Io dico di non sapere se noi sappiamo qualcosa o
non sappiamo niente, e di non sapere neanche questo stesso nostro
sapere-o-non-sapere, e neanche, insomma, se esista qualcosa o non
esista”
A te pare che Empedocle sia un esagitato94; a me, invece, sembra che
egli emetta voci che sono pienamente all’altezza degli argomenti da
lui trattati. Forse che egli ci rende ciechi o ci fa orbi degli
altri sensi, quando pensa che poco grande è la loro attendibilità
nel giudicare gli oggetti che cadono sotto di essi?
Parmenide e Senofane95 – in versi meno risonanti, ma pur sempre in
versi – quasi con indignazione sgridano l’arroganza; di quelli che
ardiscono affermare di sapere, mentre in realtà non è possibile
saper nulla.
Ma tu dicevi96 che tra costoro non bisogna includere Socrate e
Platone. E perché? Forse non esiste nessun altro che io potrei
includervi con maggiore certezza! Ho l’impressione di essere vissuto
insieme con loro, tante sono le loro conversazioni rimaste per
iscritto da cui risulta impossibile mettere in dubbio che Socrate
sia stato del parere che nulla si può sapere: ne eccettuò una sola
cosa, quella di “sapere di non sapere”97, e nulla più. Che dire di
Platone? Egli certamente non avrebbe continuate ad esporre queste
parole in tanti libri, se non le avesse condivise: non avrebbe,
infatti, avuto motivo di star dietro all’“ironia” di un altro e,
soprattutto, d’insistere su di essa ad ogni piè sospinto98.
Non hai forse l’impressione che io non mi stia limitando a fare,
come Saturnino99, il nome di quegli uomini illustri, ma che faccio
persino l’imitazione esclusivamente di chi è illustre e celebre?
Eppure ne avevo in serbo anche di fastidiosi per voi, quantunque non
troppo preclari: Stilpone100, Diodoro101, Alessino102, ai quali
appartengono alcuni sofismi tortuosi e forniti di pungiglione (è
questo il nome che si dà a certe dimostrazioni ingannatrici).
Ma perché chiamare a convegno costoro, dal momento che ho a mia
disposizione Crisippo, il quale è ritenuto il puntello del portico
degli Stoici? Quante affermazioni egli ha fatto contro i sensi,
quante contro tutte quelle cose cui si dà di solito l’approvazione!
“Però le ha anche confutate”, dite voi. Per conto mio non la penso
così; ma poniamo pure che le abbia confutate: certamente non avrebbe
raccolto tante argomentazioni, che con grande probabilità ci
potrebbero trarre in inganno, sé non si fosse accorto che non è
agevole opporvi resistenza. E che ve ne pare dei Cirenaici,
filosofi da non sottovalutare affatto, i quali negano la possibilità
di percepire alcun oggetto esterno e limitano la percezione alle
sole cose che si sentono per un contatto interiore, come il dolore o
il piacere, e professano di non sapere il colore o il suono di un
oggetto, ma di accorgersi solamente di provare, in certo modo, certe
affezioni?103
Ma basta con le testimonianze autorevoli. Comunque, tu mi
chiedevi104 se io non reputassi che, tanti secoli dopo quegli
antichi filosofi, le indagini eseguite con sì grande zelo da tanti
uomini d’ingegno siano riuscite a scoprire la verità. Quali
scoperte, in realtà, siano state fatte, lo vedrò fra poco, e tu
stesso farai da giudice.
Che, poi, Arcesilao non abbia polemizzato con Zenone per astio, ma
col solo intento di scoprire la verità, si evince da quanto segue.
Tutti i filosofi precedenti non solo avevano constatato, ma avevano
asseverato che l’uomo non può limitarsi ad opinare e che il saggio
non solo non può, ma addirittura non deve opinare. Ad Arcesilao
questo modo di pensare parve non solo esatto, ma anche moralmente
corretto e degno del saggio. È probabile che egli chiedesse a Zenone
che cosa sarebbe accaduto nel caso che né il saggio potesse
percepire cosa alcuna né fosse pertinenza del saggio formulare
un’opinione. Zenone, io credo, rispose che il saggio non si limiterà
all’opinione, giacché, a parer suo, non manca un qualcosa che è
possibile comprendere. E quale sarebbe questo qualcosa? “La
rappresentazione”, credo che Zenone rispondesse. Ma qual è l’essenza
della rappresentazione? Io penso che a questo punto Zenone se ne sia
uscito con questa definizione: “È l’impressione, il segno e la forma
che derivano da ciò-che-è, così come esso è”105. Poi Arcesilao,
probabilmente, gli chiese se questo valesse anche nel caso che la
rappresentazione vera avesse le stesse caratteristiche di quella
falsa. A questo punto Zenone osservò con acutezza che non esiste
alcuna rappresentazione che si possa percepire nel caso che essa,
provenendo da ciò-che-è, abbia le stesse caratteristiche che
potrebbe avere provenendo da ciò-che-non-è. Giustamente Arcesilao
acconsentì che si aggiungesse alla definizione la precisazione che è
impossibile concepire tanto il falso quanto il vero, nel caso che
quest’ultimo abbia le stesse caratteristiche del falso. Egli, però,
si immerse in quelle discussioni per mostrare che nessuna
rappresentazione derivante dal vero ha tali caratteristiche da non
poter derivare, conservandole identiche, anche dal falso.
Ecco l’unica discussione rimastaci fino ad oggi. Difatti
l’affermazione che “il saggio non darà l’assenso a nulla” non
concerneva questo dibattito. Restava aperta la possibilità che il
saggio non percepisse nulla e che, tuttavia, formulasse opinioni: il
che si dice abbia avuto l’approvazione di Carneade. Per conto mio,
io accordo fiducia a Clitomaco più che a Filone o a Metrodoro106, e
ritengo che Carneade si sia limitato a mettere a tema questo punto,
senza, però, dame una dimostrazione.
Ma accantoniamo questo problema. Una cosa è certa e cioè che, una
volta eliminata la possibilità di opinare e di percepire, si ha,
come conseguenza, la sospensione di ogni assenso: sicché, se io
dimostrerò l’impossibilità di percepire cosa alcuna, tu dovrai
ammettere che non darai mai il tuo assenso.
Ma che cosa c’è di percettibile, se neppure i sensi ci
annunciano il vero? Tu, o Lucullo, li difendi con luoghi
comuni107. Ma l’assurdità di codesta tua difesa è stata già da me
rilevata, per l’appunto, ieri108, con una lunga dissertazione contro
i sensi che sembrava un fuor d’opera. Tu, invece, sostieni che non
ti lasci convincere né dal remo spezzato né dal collo della colomba.
Ma, in primo luogo, tu mi dovresti dire perché non ti convinci.
Difatti io provo la sensazione che nel remo non c’è realmente quello
che sembra esserci e che nella colomba appare una pluralità di
colori, ma in realtà non ce n’è più di uno solo. In secondo luogo,
io non ho detto proprio niente oltre a ciò?
“ Rimangano pure queste vostre obiezioni – tu risponderai –;
tuttavia il vostro punto di vista resterebbe bloccato: Epicuro,
infatti, sostiene che i suoi sensi sono veraci!”. Dunque tu hai
sempre pronto un filosofo a darti la garanzia, e per giunta uno che
patrocina la causa a suo rischio e pericolo. Epicuro, infatti,
spinge la sua tesi fino al punto da dire che, se nell’intera vita un
solo senso ha mentito una volta sola, non bisogna mai accordar
fiducia a nessun senso. Questo, in verità, significa aver piena
fiducia nei propri testimoni e perseverare nell’errore. Così
l’epicureo Timagora109 sostiene di non aver mai visto, per il
semplice fatto che egli si stravolgesse gli occhi, uscire due
fiammelle da una sola lucerna: a suo avviso l’errore starebbe,
infatti, nell’opinione e non già negli occhi: come se si stesse
ricercando quale sia realmente un oggetto e non già quale esso
appaia. Se anche lui la pensa così, è simile ai suoi maestri; tu,
invece, che pur hai la possibilità di dire che alcune
rappresentazioni sono vere per i sensi e altre sono false, come fai
a distinguerle? E ti prego: smettila di ricorrere a luoghi comuni:
cose come codeste, a casa nostra, ne nascono a bizzeffe!
Tu vuoi sapere110 cosa risponderei se un dio mi chiedesse: “Se i
tuoi sensi sono sani e intatti, che altro diamine vuoi tu?”. Magari
me lo chiedesse! Ascolteresti dalle mie labbra come ci ha
maltrattati!111.
Quale distanza prenderemo che sia adatta a farci scorgere il vero?
Da questo posto io vedo la villa di Catulo a Cuma; vedo la zona
della mia villa di Pompei: ma la villa di Pompei non la distinguo,
eppure non c’è in mezzo alcun ostacolo, ma è la mia pupilla che non
può spingersi oltre. Che spettacolo affascinante! Vediamo Pozzuoli,
ma non riusciamo a scorgere il nostro amico Publio Avianio112 che,
forse, sta passeggiando sotto il portico di Nettuno113.
“Ma – obietti tu – quel tale114 di cui non mi sovviene il nome e che
di solito viene menzionato nelle scuole, scorgeva gli oggetti a
milleottocento stadi di distanza!”. Certi uccelli anche a distanza
maggiore! Avrei, per questo, l’ardire di rispondere a codesto vostro
dio che io non sono contento affatto di questi miei occhi. Egli dice
che io, forse, ho la vista migliore di quei pesci che non vengono
visti da noi (eppure adesso essi stanno qui, sotto i nostri occhi) e
che non riescono, neppur essi, a sogguardare di laggiù la nostra
presenza: dunque, come per loro l’acqua, così per noi la densità
dell’aria si diffonde d’intorno e fa d’attrito.
“Tuttavia – obietti tu ancora – non desideriamo di più”. Ebbene?
Credi che la talpa abbia il desiderio della luce? Comunque, io mi
lamenterei col dio non già di avere la vista corta, ma di vedere il
falso. Vedi là quella nave? A noi sembra di star fermi; ma a quelli
che sono su di essa, sembra che questa villa si muova115. Vorrei
sapere per quale motivo debba sembrare così; e, anche ammesso che tu
trovi il motivo come meglio puoi – cosa su cui faccio tutte le mie
riserve –, riuscirai a mostrare che non sei tu ad avere un testimone
veritiero, ma che è quest’ultimo a commettere falsa testimonianza,
non senza averne motivo.
Perché parlare della nave? Vedo che tu non fai conto dell’esempio
del remo: forse ne cerchi di più prestigiosi? E quale lo può essere
più del sole, che i matematici sostengono essere oltre diciotto
volte più grande della terra? Come ci sembra piccolino! A me pare
quasi della misura di un piede. Ma Epicuro116 reputa che esso
potrebbe essere anche più piccolo di quanto sembra, ancorché non di
molto; e pensa che non sia neppure molto più grosso dell’apparenza o
che sia tanto grande quanto sembra, di guisa che gli occhi o non ci
ingannano o, almeno, non ci ingannano molto. Essi ci potrebbero
ingannare, comunque: dove va, allora, a finire la sua espressione:
“se una sola volta …?”117 Ma piantiamo in asso questo credulone,
quale pensa che i sensi non ingannino mai, neppure in questo
momento, quando ci sembra che stia fermo quel sole lì, che pur si
muove con tanta fretta che è impossibile anche immaginare la
grandezza della sua velocità!
Ma, per accorciare il dibattito, vedete, ve ne prego, come sia
piccolo il tema del dissidio.
Ci sono quattro argomenti principali che dimostrano che non esiste
nulla che sia conoscibile, percepibile, comprensibile, sulla qual
cosa verte l’intera nostra indagine. Il primo di essi è l’esistenza
di qualche rappresentazione falsa; il secondo è l’impossibilità di
percepirla; il terzo è che, tra le rappresentazioni che non
presentano alcuna differenza tra loro, non può risultare che alcune
di esse siano percepibili e altre no; il quarto è che non esiste
alcuna rappresentazione vera proveniente dal senso alla quale non se
ne accompagni un’altra falsa che, a sua volta, non è differente da
quella e non è percepibile.
Di questi quattro argomenti fondamentali tutti ammettono il secondo
e il terzo; Epicuro non ammette il primo; voi, con i quali si sta
discutendo, ammettete anche quello118.
Tutta la polemica si incentra sul quarto.
Orbene: chi vedeva, ad esempio, Publio Servilio Gemino119, se
credeva di vedere Quinto, incappava in una rappresentazione siffatta
da non poter essere percepita, perché nessun segno distingueva il
vero dal falso. Ma, una volta eliminato questo segno di distinzione,
la rappresentazione vera non avrebbe potuto presentare alcun segno
siffatto che non potesse essere falso, nel caso che si dovesse
riconoscere Cotta, che fu per ben due volte console insieme con
Gemino. Tu non ammetti una somiglianza così perfetta nella natura.
Vuoi polemizzare ad ogni costo, ma con un avversario remissivo.
Non esiste questa somiglianza, ammettiamolo: ma certamente può
sembrare che essa esista: essa, dunque, trarrà in inganno il senso.
E se una sola somiglianza lo ingannerà, scenderà il dubbio su tutte
quante le rappresentazioni: difatti, una volta eliminato quel
giudizio che è indispensabile per effettuare un riconoscimento,
anche se quella persona che ti sembra di vedere sarà proprio quella
che ti sembra di vedere, tuttavia tu non fonderai il tuo giudizio su
quel segno sul quale tu affermi che è indispensabile fondare il
riconoscimento di qualcuno, al punto che non ci possa essere un
segno falso che presenti le stesse caratteristiche. Allora, dal
momento che Publio Gemino può sembrarti Quinto, quale certezza hai
tu che non possa sembrarti essere Cotta uno che non lo è, dato che
egli sembra pur essere un qualcosa che non è?
Tu dici che120 ogni cosa appartiene ad un suo proprio genere e che
non esiste nulla di identico ad un’altra cosa. Ma questo è un
postulato stoico, e non è, di certo, attendibile: che, cioè in tutto
l’universo non c’è un sol pelo che sia tale quale un altro pelo, e
così pure nessun chicco di grano. Sono affermazioni ben confutabili
codeste! Ma non voglio mettermi a polemizzare: alla nostra attuale
causa non importa affatto se, nella rappresentazione di un oggetto,
non si riscontri alcuna differenza nei minimi particolari e se sia
impossibile contraddistinguerla anche nel caso che essa si
riscontri. Ma, se non ci può essere una somiglianza tanto perfetta
negli uomini, non c’è neppure nelle statue? Dimmi: forse Lisippo non
avrebbe potuto creare un centinaio di Alessandri aventi le stesse
caratteristiche, se avesse usato lo stesso bronzo, la stessa lega
metallica, la stessa aria, la stessa acqua e tutto quanto il resto?
Con quale contrassegno avresti potuto distinguerli tra
loro? Ebbene? Se in una cera identica, con questo mio anello,
io imprimerò cento sigilli, quale segno di distinzione si potrà
riscontrare, quando se ne vorrà effettuare il riconoscimento? Ti
dovrai, forse, mettere alla ricerca di qualche sigillatore di
professione, dal momento che sei riuscito a trovare quel celebre
pollicoltore di Delo che sapeva riconoscere così bene le uova?121
Ma, in soccorso dei sensi, tu invochi Tarte e la sfrutti: “Il
pittore – tu dici122 – vede quei particolari che non vediamo noi e,
non appena il flautista ha emesso un soffio, subito l’esperto
riconosce di che musica si tratta”. Ebbene? Non ti sembra che questo
valga contro di te, dal momento che noi non riusciamo né a vedere né
ad udire senza avere grande esperienza artistica, alla quale ben
pochi si accostano, specialmente nel nostro paese? E di tutte quelle
belle cose che hai dette – ossia le mirabili regole d’arte con cui
la natura ha prodotto i nostri sensi e il nostro intelletto e
l’intera struttura dell’uomo – perché non dovrei paventare di
farmene un’opinione con leggerezza? Puoi tu anche asserire, o
Lucullo, che esiste un qualche potere che – certamente con
prudenza e senno – ha creato o, per usare il tuo stesso vocabolo, ha
“fabbricato”123 l’uomo. Ma qual è codesta “fabbrica?” Dove è stata
usata? Quando, perché, come? Sono disquisizioni ingegnose le vostre,
sono discettazioni anche raffinate, ma, alla fine dei conti,
rendetele almeno evidenti e non limitatevi ad asserirle. Ma sui
problemi “fisici” parlero appresso124, e al solo scopo di non far
sembrar bugiardo te, che poc’anzi125 hai detto che io l’avrei fatto.
Ma, per venire ad esempi più chiari, mi metterò a sfoderare tutti
quanti i fatti sui quali sono stati riempiti alcuni volumi interi
non solo dai nostri, ma anche da Crisippo (a proposito del quale gli
Stoici sogliono rammaricarsi del fatto che egli, nel produrre
un’accurata ed esauriente raccolta di argomentazioni contro i sensi
e l’evidenza e contro ogni esperienza e ogni ragione, non si è
rivelato all’altezza del compito quando ha preteso di dare risposte
a se stesso, e così ha lasciato le armi nelle mani di Carneade)
Il tenore delle obiezioni, da te prospettate126 nella maniera più
accurata, è il seguente.
Tu sostenevi127 che le rappresentazioni degli addormentati, degli
ubriachi e dei pazzi sono più deboli di quelle degli svegli, dei
sobri, dei sani. E in che modo? Perché Ennio, quando si destò, non
disse di aver visto Omero, ma che gli era “parso” di vederlo, e
perché Alcmeone, da parte sua, disse: “Ma il cuor mio non è affatto
d’accordo…”, e lo stesso dicasi degli ubriachi. Come se si volesse
negare che chi si è destato non stia più sognando o che chi ha
recuperato il senno creda che non siano state vere le apparizioni
che gli si sono presentate durante la follia. Ma la questione non
sta qui: si sta ricercando, invece, come “apparivano” nel momento in
cui apparivano. A meno che non crediamo che tutto il famoso brano “O
pietà dell’anima”128 Ennio lo abbia ascoltato – se pur l’ascoltò
davvero in sogno – credendo di udirlo durante la veglia. Quando si
destò, poté credere che si trattasse di rappresentazioni – quali, in
realtà, esse erano – e di sogni; ma, mentre egli dormiva, le provava
proprio come se fosse sveglio. Ebbene? Durante il sogno Iliona129
non crede forse che il figlio ha detto “Madre, te proprio io chiamo”
in guisa tale da credervi anche quando ella si ridestò? Da dove,
infatti, sgorgavano queste sue espressioni:
Su, stammi vicino, rimani,
Ascolta: ripeti a me ancora
Codeste
parole?
Ti sembra, forse, che ella accordi alle rappresentazioni minore
fiducia di quanto non faccia chi è desto?
Cosa dire dei forsennati? Tale fu il tuo parente Tuditano130, o
Catulo: ma c’è qualche persona di mente ben sana che ritenga certe
le proprie rappresentazioni con la medesima intensità con cui egli
riteneva certe le proprie allucinazioni? Ebbene? Quel personaggio131
che dice:
Ti vedo, ti vedo, o Ulisse! Finché ti è permesso, sii vivo!
non esclamava due volte di vederlo, mentre in realtà non lo vedeva
affatto? Ebbene? Ercole132, nella tragedia di Euripide, quando
trafiggeva con le frecce i suoi figli credendo che fossero quelli di
Euristeo, quando assassinava sua moglie, quando tentava di uccidere
anche suo padre, non era agitato da rappresentazioni false allo
stesso modo che se lo fosse stato da quelle vere? Ebbene? Persino il
tuo Alcmeone133, che pure afferma che il cuore suo è in disaccordo
con i suoi occhi, non esclama forse, nello stesso episodio, a causa
dell’accentuarsi del suo furore:134
Donde nasce questa fiamma?
e, in seguito, non aggiunge
Avanzano, avanzano! Eccoli, cercano me?
Ebbene? Quando egli implora il pietoso affetto della fanciulla
dicendo
Aiutami! Da me il flagello allontana,
Questo assalto violento di
fiamme
Che mi tormenta!
Cinte di serpi avanzano cerulee,
Mi stanno
intorno con ardenti faci,
metti tu in dubbio che non gli sembri davvero di vedere queste cose?
E similmente vale per il resto:
Tende Apollo chiomato l’arco d’oro,
Alla luna poggiandosi; a
sinistra
Gli fa luce Diana con la torcia:
chi ci crederebbe di più, se queste cose esistessero realmente, di
quanto ci credeva lui per il semplice fatto che gli “sembrava” di
vederle? È evidente, ormai, che il cuore di Alcmeone è ben d’accordo
con i suoi occhi!
Tutti questi esempi vengono qui riprodotti per dimostrare una cosa
di cui non ci può essere niente di più certo: che, cioè, per quanto
concerne l’assenso dell’anima, non sussiste alcuna differenza tra le
rappresentazioni vere e quelle false. Voi, invece, non approdate a
nulla, quando tentate di confutare le false rappresentazioni dei
dementi e dei sognanti, servendovi del ricordo che costoro stessi ne
hanno. Infatti non si sta cercando di sapere il modo in cui
conservano, di solito, il ricordo quelli che si sono svegliati o che
si sono riscattati dalla follia, bensì di che sorta fosse la vista
dei folli e dei sognanti nel momento preciso in cui costoro ne erano
agitati.
Ma metto da parte i sensi: c’è qualcosa che possa essere percepita
per mezzo della ragione? Voi affermate che fu inventata la
dialettica come mediatrice e giudice del vero e del falso135. Ma di
quale vero e di quale falso e in che campo? Forse il dialettico dirà
il suo giudizio sul vero e sul falso in geometria, in letteratura,
nelle attività musicali? Ma egli non ne ha competenza! Vediamo,
allora, in filosofia. Ma che cosa ne sa lui, ad esempio, delle
dimensioni del sole? Quali elementi egli possiede per poter
giudicare quale sia il sommo bene? Su che diamine, allora, darà il
suo giudizio? Dirà egli, allora, quale rapporto di congiunzione o di
disgiunzione tra le cose sia vero, quale espressione sia stata
profferita in modo ambiguo, che cosa si adatti a ciascuna cosa e che
cosa le si opponga? Se la dialettica dà il suo giudizio su queste
cose e su altre simili a queste, non fa altro che dare un giudizio
su se stessa: ma ben più ampie erano state le sue promesse! Difatti
il giudizio su queste cose non è sufficiente per giudicare tutte
quante le altre, che nell’ambito della filosofia sono rilevanti per
numero e per importanza.
Ma, poiché a quell’arte voi assegnate tanto prestigio,
state attenti che essa, nella sua totalità, non sia nata a
vostro danno, essa che dapprincipio procede baldanzosa, offrendo gli
elementi del discorso e la possibilità di capire le ambiguità e il
metodo della dimostrazione, e poi, col fare piccole aggiunte
progressive, perviene ai “soriti”, ossia a una topica senza dubbio
sdrucciolevole e rischiosa, che tu stesso, poc’anzi136, dicevi
essere un genere difettoso di porre le questioni.
Ebbene? Noi non abbiamo colpa di questa difettosità. La natura
è quella che non ci ha dato alcuna cognizione dei limiti e, quindi,
neppure la possibilità di stabilire fin dove si può arrivare in
certi argomenti, e ciò vale non solo nell’ambito del “mucchio di
grano”, da cui è nato il nome “sorite”, ma neppure quando si
pretende da noi una risposta minuziosa in qualche altro campo della
realtà – se, ad esempio, uno sia ricco o povero, famoso ovvero
oscuro, se gli oggetti siano molti o pochi, grandi o piccoli, lunghi
o corti –, noi non abbiamo la possibilità di rispondere con certezza
in merito alla quantità che si debba aggiungere o sottrarre.
“Ma i soriti sono difettosi” obiettate voi. Fateli a pezzi,se vi è
possibile, affinché non vi rechino fastidio: e di fastidio ve ne
daranno, se non state in guardia! “Siamo stati in guardia – risponde
lo Stoico –; infatti, quando si chiede a Crisippo con gradualità se,
ad esempio, tre chicchi siano pochi o molti, egli, prima di giungere
a molti, preferisce fare una piccola pausa”137. “Per conto mio –
ribatte Carneade – ti puoi anche mettere a russare, e non limitarti
ad una pausa. Ma a che pro? Ti sta alle costole, infatti, uno che ti
sveglia dal sonno e ti chiede allo stesso modo: “Se al numero col
quale è cominciato il tuo silenzio io aggiungo un’unità, saranno
molti i chicchi?”. Procederai ancora finché ti pare. Ma perché dire
altro in più? Dovrai, infatti, fare la seguente ammissione: che non
sei in grado di indicare né l’ultimo dei pochi né il primo dei
molti. E questa sorta di pencolamento si propaga tanto da farmi
vedere con evidenza che esso può estendersi ad ogni questione.
“Ma esso non mi colpisce minimamente – risponde Crisippo –; io,
infatti, da esperto auriga, prima di giungere al limite estremo,
frenerò i cavalli, e tanto più se il luogo verso il quale i cavalli
si dirigono sarà scosceso. In questa guisa – egli aggiunge – io mi
tengo a bada e non do risposta a chi mi fa ancora domande capziose”.
Se tu hai in mente qualcosa di chiaro e non rispondi, tu ti comporti
con alterigia; se non l’hai, tu non riesci a capire. Se non rispondi
perché si tratta di cose oscure, io mi arrendo; ma tu sostieni di
non arrivare fino alle cose oscure; dunque tu ti fermi quando le
cose sono chiare. Se ti comporti così al solo scopo di stare zitto,
tu non approdi a niente: difatti per uno che ti vuole acchiappare
non c’è alcuna differenza se egli ti catturi mentre stai zitto o
mentre parli. Se, invece, tu rispondi senza esitare che i chicchi
sono pochi, ad esempio, fino a nove e ti fermi al dieci, tu freni
l’assenso anche su cose che sono certe e abbastanza chiare, mentre
non permetti a me di fare altrettanto su cose oscure.
Dunque, contro i soriti, codesta tua “arte”138 non ti giova affatto,
essa che non sa insegnare quale sia il limite iniziale e quello
finale dell’accrescimento e della diminuzione.
E allora? Il fatto che quella medesima “arte”, quasi distessendo la
tela di Penelope139, ti toglie alla fine quello che prima ti aveva
dato, è colpa vostra o nostra? Certamente è principio fondamentale
della dialettica il fatto che ogni enunciato (i Greci dicono ξίωμα,
che significa suppergiù dichiarazione [ecfatum])140 è o vero o
falso. Ebbene? Il seguente enunciato “Se tu dici di mentire ed è
vero questo che dici, tu stai mentendo o stai dicendo la verità?”141
è vero o falso? Ovviamente ve ne uscite col dire che enunciati
siffatti sono “inesplicabili”: espressione, questa, che è più
rischiosa delle nostre “non compreso” e “non percepito”142.
Ma soprassiedo a questo e ti chiedo quest’altro: se
questi sofismi sono “inesplicabili” e se nei loro riguardi non
si trova alcun giudizio che vi dia la possibilità di rispondere se
essi siano veri o falsi, dove è andata a finire la famosa vostra
definizione: “un enunciato è quello che è vero o falso”?
A proposito delle premesse143, poi, aggiungerò che alcune di esse
devono essere accettate, altre – cioè quelle che siano di genere
contrario alle prime – devono essere respinte. Come giudichi,
allora, che si articoli questa dimostrazione: “Se tu dici che ora
c’è luce e dici la verità, c’è luce; ma tu dici che c’è luce e dici
la verità: dunque c’è luce”? Voi approvate questo tipo di
argomentazioni e dite che è condotto nella maniera più corretta, e
pertanto, nelle vostre teorie, lo chiamate “prima forma di
dimostrazione”. Ma allora o approverete ogni dimostrazione che si
articoli con lo stesso procedimento oppure la vostra arte verrà
annullata. Vedi, dunque, se puoi approvare quest’altra
dimostrazione: “Se tu dici di mentire ed è vero quello che dici, tu
menti; ma tu dici di mentire e dici il vero: dunque tu stai
mentendo”. Come non potresti approvarla, dal momento che hai
approvato quella precedente, che pur è dello stesso tipo?
Questa è tutta roba di Crisippo, e neppure lui l’ha saputa dipanare.
Come si sarebbe comportato egli con quest’altra dimostrazione: “Se
c’è luce, c’è luce; ma c’è luce: dunque c’è luce”? Ovviamente si
sarebbe arreso: infatti lo stesso metodo della connessione ti
costringe ad ammettere la conseguente, una volta che tu abbia
ammesso l’antecedente.
Ma quale differenza sussiste, allora, tra questa dimostrazione e la
seguente: “Se tu menti, tu menti; ma tu menti: dunque tu menti”? Tu
dici di non potere né approvare né respingere quest’ultima: ma
perché lo puoi fare di più con quell’altra? Se hanno valore l’arte,
la ragione, il metodo e, insomma, l’efficienza stessa della
dimostrazione, tutti questi requisiti si riscontrano in entrambi i
casi.
Ma ecco la loro ultima scappatoia: la loro richiesta di
un’“eccezione” per quest’argomentazione “inesplicabile”. Li
consiglio di rivolgersi ad un qualche tribuno della plebe144; da me
quest’“eccezione” non l’otterranno mai!
Epicuro, dispregiatore e derisore dell’intera dialettica145, non è
disposto a concedere loro che sia vero il seguente enunciato:
“Domani Ermarco146 o vivrà o non vivrà”, mentre, dal canto loro, i
dialettici stabiliscono appunto che ogni disgiuntiva di questo tipo
– ad esempio “o… o non” – non solo è vera, ma è anche necessaria
(guarda quanta cautela ha quell’uomo che costoro giudicano un
ritardato mentale! “Se infatti – egli osserva – io ammetto la
necessità di una qualsiasi delle due cose, risulterà necessario che
domani Ermarco o viva o muoia: ma nella natura del mondo non c’è
nessuna necessità siffatta”); ecco perché contro questo suo pensiero
darebbero battaglia i dialettici o, per meglio dire, Antioco e gli
Stoici: difatti Epicuro smantella tutta quanta la dialettica,
giacché, se la disgiuntiva formata da contrari (chiamo contrari
quelli di cui l’uno è affermativo e l’altro è negativo), se, ripeto,
una siffatta disgiuntiva può essere falsa, non ce n’è nessuna che
sia vera.
Ma perché se la prendono con me, che pur mi attengo alle regole
della loro “arte”? Quando capitava un caso come questo, Carneade di
solito si metteva a scherzare così: “Se ho dimostrato in modo
corretto, vi tengo in pugno; se in modo scorretto, Diogene147 vi
renderà una mina”. Carneade, infatti, aveva imparato la dialettica
da quello Stoico e la mina era l’onorario che si prendevano i
dialettici.
Orbene: mi sto attenendo al metodo che ho imparato da Antioco, e non
riesco a trovare una maniera per cui dovrei giudicare vera
l’espressione “se c’è luce, c’è luce”, basandomi su quanto ho
imparato – ossia che ogni connessione ipotetica che risulti dagli
stessi elementi è vera –, mentre non dovrei giudicare che si
articoli allo stesso modo l’espressione “se tu menti, menti”: perciò
o giudicherò vera quest’ultima, oppure, se non giudicherò vera
questa, non giudicherò vera neanche quella.
Ma mettiamo da parte tutti questi pungiglioni e tutti
quanti questi tortuosi battibecchi e mostriamo la nostra vera
identità. Così, una volta che avrò fatto luce sull’intero pensiero
di Carneade, codeste frottole di Antioco crolleranno tutte in
blocco. E non vi aggiungerò proprio nulla di mio, per evitare il
sospetto che si tratti di mie invenzioni: prenderò da clitomaco, che
visse con Carneade fino alla vecchiaia e fu un uomo acuto, da
Cartaginese qual era, e senz’altro scrupoloso e diligente. Ci sono
ben quattro suoi libri Sulla sospensione dell’assenso, ma la mia
esposizione è tratta dal primo libro.
Carneade sostiene che ci sono due generi di
rappresentazioni: nel primo egli stabilisce la seguente
divisione: che ci sono alcune rappresentazioni “percepibili”, altre
“non percepibili”; nel secondo, invece, stabilisce la seguente
divisione: che alcune rappresentazioni sono “probabili”, altre “non
probabili”148.
Orbene: le obiezioni che si adducono contro i sensi e contro
l’evidenza spettano alla prima divisione; invece contro la seconda
non ci sono obiezioni da addurre. Pertanto è suo pensiero che non
esista alcuna rappresentazione avente tali caratteristiche che ne
derivi una percezione, ma che ce ne sono molte da cui deriva una
probabilità. Sarebbe, infatti, innaturale la non esistenza di alcuna
probabilità: ne conseguirebbe quella totale distruzione della vita
che tu, o Lucullo, menzionavi149.
Così, anche per mezzo dei sensi bisogna dare l’approvazione a molte
cose, purché si tenga ben presente soltanto questo: che, cioè, nei
sensi stessi non è insita alcuna cosa che sia tale da non poter
essere anche falsa e che non presenti alcuna differenza rispetto ad
una cosa falsa. Così qualunque rappresentazione capiterà che abbia
l’apparenza del probabile, se non si profilerà nulla che a questa
probabilità sia contrario, il saggio la utilizzerà, e in questo modo
verrà governata tutta la condotta della vita. Infatti anche quel
“saggio”150 che voi adducete come modello si attiene a molte cose
che sono probabili e che non sono né comprese né percepite né
gratificate dall’assenso, ma sono simili al vero151, e se egli non
le approvasse, l’intera vita sarebbe soppressa.
E allora? Forse che il saggio, nel momento in cui s’imbarca, ha nel
suo animo l’esatta comprensione e l’esatta percezione che egli farà
la navigazione secondo il suo intendimento? E come sarebbe
possibile? Ma, se egli si mette in viaggio da qui fino a Pozzuoli
per trenta stadi su un battello efficiente, con un buon pilota, con
questa bonaccia che c’è, sembrerebbe probabile che egli perverrà lì
sano e salvo152. Sulla base di siffatte rappresentazioni egli
deciderà di agire o di non agire, e sarà più propenso ad ammettere
che la neve sia bianca di quanto non lo fosse Anassagora153, il
quale non solo diceva che le cose non stavano così, ma aggiungeva
che a lui la neve non appariva neppure bianca, giacché egli sapeva
che è nera l’acqua da cui quella si era formata; e qualunque
cosa verrà in contatto col saggio in maniera tale che ne risulti una
rappresentazione probabile e priva di impedimento, egli ne sarà
mosso. Il saggio, infatti, non è stato scolpito nel marmo né
ritagliato nella quercia, ma possiede un corpo, ha un’anima, è mosso
dall’intelletto,è mosso dai sensi e, di conseguenza, molte
rappresentazioni gli sembrano vere, pur non avendo esse un “segno”
molto spiccato e suscettibile di percezione. E il saggio non dà
l’assenso per il semplice fatto che potrebbe esistere un qualcosa di
falso avente le medesime caratteristiche di ciò che è vero. E contro
i sensi noi facciamo obiezioni che non sono diverse da quelle che
fanno gli Stoici, i quali affermano l’esistenza di molte cose che
sono false e che sono ben lontane dall’apparire ai sensi.
Ma, se le cose stanno così – che, cioè, ai sensi si offre ancheuna
sola rappresentazione falsa –, si è già bella e negata la
possibilità di alcuna percezione sensibile. Così, anche se noi
stiamo zitti, in base ad una sola massima di Epicuro e ad un’altra
che è pur vostra, vengono eliminate percezione e comprensione. E
qualè questa massima di Epicuro? “Se una qualche rappresentazione
sensibile è falsa, nulla è percepibile”. Qual è la vostra? “Le
rappresentazioni sensibili sono false”. Quale ne è, quindi, la
conseguenza? Anche se io sto zitto, la dimostrazione lo dice da sé:
“Niente è percepibile!”.
Lo Stoico dirà: “Non sono d’accordo con Epicuro”. Mettiti allora a
polemizzare con Epicuro, che la pensa in modo del tutto diverso da
te, ma non farlo con me, che sono d’accordo con te almeno su questo
punto, ossia che nei sensi c’è qualcosa di falso.
Eppure non c’è nulla che mi sembri tanto strane quanto codeste
vostre affermazioni, specialmente se le fa un Antioco, al quale
erano ben noti i rilievi che poc’anzi io facevo. Ammettiamo pure che
una persona qualsiasi, di testa sua biasima questi miei punti di
vista, perché io negherei la possibilità di percepire alcuna cosa:
certamente quel biasimo ha un minor peso, perché io affermo,
comunque, l’esistenza di “rappresentazioni probabili”.
Quest’ammissione, però, non vi sembra sufficiente. Non lo sia: noi,
comunque, dobbiamo sottrarci a rimproveri come codesti che ci sono
stati mossi specialmente da te: “Dunque tu nulla vedi, nulla senti,
nulla per te è evidente”. Fondandomi sulla testimonianza di
Clitomaco, ho chiarito poc’anzi154 in che senso Carneade esprimesse
il suo punto di vista: ascolta in che modo ce lo dice clitomaco in
quel libro da lui dedicato al poeta Caio Lucilio, benché avesse già
scritto sui medesimi problemi un’altra opera dedicata a quel Lucio
Censorino che fu console con Marco Manilio155. Egli scrisse quasi
testualmente le seguenti parole (ed io le conosco bene, perché in
quel libro è contenuto il principio essenziale della dottrina
concernente le questioni che stiamo trattando). Sta scritto così:
che, secondo il pensiero degli Accademici, le cose presentano
dissomiglianze siffatte che alcune sembrano probabili, altre no. Ma
questo non è sufficiente perché tu possa affermare che alcune cose
sono percepibili e altre no per il solo fatto che molte
rappresentazioni false sono probabili; ed è, d’altra parte,
impossibile che risulti percepita e conosciuta alcuna cosa falsa.
Egli, dunque, afferma che cadono in un grosso errore quanti
sostengono che i sensi vengono soppressi dagli Accademici, i quali
non hanno mai sostenuto la non esistenza del colore o del suono, ma
si sono limitati ad osservare che questi non hanno alcun peculiare
“contrassegno del vero e del falso” che non si riscontri mai anche
altrove.
Esposti questi princìpi, egli aggiunge che si dice che il saggio
trattiene l’assenso in due modi: nel primo, quando si intenda che
egli non dà l’assenso a nessuna cosa in modo assoluto; nel secondo,
quando egli si astenga dal dare una risposta che significhi
approvazione o disapprovazione, sicché egli non esprime alcuna
negazione o alcuna affermazione. Stando così la faccenda, clitomaco
sostiene di condividere in teoria il primo modo col non dare mai
l’assenso e di attenersi in pratica al secondo, nel senso che, nel
rispetto della probabilità, ovunque questa sia presente oppure venga
meno, egli possa rispondere sì oppure no. E per poter pensare che a
chi si astiene dall’assenso in merito a tutte le cose, non viene,
comunque, inibito il compimento di un moto o di un’azione, ammise
l’esistenza di certe rappresentazioni siffatte che da esse siamo
spinti ad agire, e parimenti di certe altre che, quando siamo
interrogati, ci permettono di dare una risposta in un senso o
nell’altro, attenendoci esclusivamente a quello che ci è parso,
senza dare, però, il nostro assenso. Ciò non vuol dire, tuttavia,
che si dia l’approvazione a tutte le rappresentazioni siffatte, ma
solo a quelle che non sono soggette ad alcun impedimento.
Se non siamo capaci di rendere probabili questi princìpi anche
per noi, essi saranno falsi quanto volete, ma non affatto odiosi:
noi, infatti, non intendiamo strapparvi la luce, ma ci limitiamo ad
affermare che quelle stesse cose che voi dite di percepire e di
comprendere, a noi sembrano probabili, purché lo siano.
In questo modo, dunque, è stato presentato e costituito il principio
della probabilità, ed esso ha le caratteristiche della snellezza,
della scioltezza, della libertà e non trova nessun ostacolo di
fronte a sé: di conseguenza tu vedi certamente, o Lucullo, che ormai
è messa a terra la tua famosa difesa dell’evidenza156. Difatti
questo “saggio” di cui sto parlando guarderà cielo, terra e mare con
i medesimi occhi con cui li guarda il tuo, e proverà con i medesimi
sensi le sensazioni di tutte le altre cose che cadono sotto il
singolo senso. Quel mare che ora, al sorgere dello zeffiro, appare
purpureo, apparirà identico anche a questo nostro saggio, ma
tuttavia egli non darà il suo assenso, perché anche a noi poc’anzi
sembrava ceruleo quel medesimo mare che stamani era sembrato
grigiastro, e perché ora quella sua parte illuminata dal sole è
biancheggiante e lucente e non somiglia affatto al resto della
distesa marina che le è vicina, di guisa che, anche se avessimo la
possibilità di spiegare razionalmente il motivo di questo fenomeno,
non ti sarebbe possibile, tuttavia, sostenere che è vero quello che
appariva ai tuoi occhi.
“Da dove nasce, allora, la memoria, se non abbiamo alcuna
percezione?”. Era questa la tua istanza157. Ma perché mai ci sarebbe
impossibile serbare il ricordo delle rappresentazioni, anche senza
averne la comprensione? Ebbene, Polieno158, che gode fama di essere
stato un grande matematico, dopo che si mise al seguito di Epicuro e
fu dell’opinione che l’intera geometria fosse falsa, non dimenticò
affatto le sue precedenti conoscenze matematiche. Eppure quello che
è falso non è percepibile, come voi stessi sostenete. Se, allora,
esiste la memoria degli oggetti percepiti e compresi, ciascuno deve
aver compreso e percepito ogni oggetto di cui conservi la memoria;
ma non è possibile comprendere nulla di falso, e Sirone159, ad
esempio, ricorda tutti i “dogmi” di Epicuro: dunque questi ultimi
sono tutti quanti veri. Questa conclusione, per conto mio, potrebbe
anche andare; ma tu o devi ammettere che le cose stanno così – cosa
che non vorresti affatto – oppure devi consegnare la memoria nelle
mie mani e devi confessare, da parte tua, che c’è posto anche per
lei, quantunque comprensione e percezione vengano annullate160.
“E che accadrà delle arti?” chiederai tu. Ma di quali? Di quelle che
di per sé confessano di servirsi della congettura più che della
scienza, o di quelle che si attengono sçltanto alle apparenze e che
non posseggono codesta vostra arte “161 per discriminare – sua mercé
– il vero dal falso?
Ma ci sono due punti luminosi che, più di ogni altro, racchiudono il
vostro punto di vista. Il primo è la vostra affermazione
dell’impossibilità che non si dia l’assenso a cosa alcuna. Ma questo
è davvero evidente, dal momento che Panezio162, il quale, a mio
avviso, è quasi il più grande degli Stoici, dichiara di mettere in
dubbio ciò che è ritenuto certissimo da tutti gli altri Stoici
eccettuato lui, ossia che siano veri i responsi degli aruspici, gli
auspici, gli oracoli, i sogni, i vaticini, e sospende il proprio
assenso. E ciò che egli può fare persino a proposito di cose che
sono stimate certe dai suoi maestri, perché non potrebbe farlo il
saggio a proposito delle altre? Oppure c’è un motivo in base al
quale è possibile respingere o approvare una qualche tesi e non è
possibile, invece, metterla in dubbio? Tu nei soriti potrai fermarti
così a tuo piacimento163, ed egli, invece, non potrà farlo alla
stessa maniera, soprattutto se si tien presente che gli è possibile
prescindere dall’assenso e tener dietro alla stessa verosimiglianza
liberata ormai da ogni impedimento?
Il secondo punto luminoso è la vostra negazione che
possa compiere alcuna azione chi non dia, col suo assenso,
l’approvazione a cosa alcuna164. Anzitutto, infatti, a parer vostro,
bisognerebbe accogliere la rappresentazione, nella quale è presente
anche l’assenso (gli Stoici, invero, dichiarano che i sensi di per
sé si identificano con l’assenso165 e che l’azione segue
quest’ultimo, dal momento che l’appetizione ne è una conseguenza);
ma, una volta eliminate le rappresentazioni, tutto verrebbe
eliminato.
Su questo problema si è detto e scritto molto in un senso e
nell’altro [vedi più su166]; ma nel suo insieme esso si può
risolvere in breve.
Secondo me l’azione più importante è quella di opporre resistenza
alle rappresentazioni, di contrastare le opinioni, di trattenere
sdrucciolevoli assensi, ed ho fiducia in quello che scrive
clitomaco, ossia che Carneade si è accollata un’intera fatica di
Ercole, perché ha discacciato dal nostro animo, come una belva
feroce e mostruosa, l’assenso, vale a dire l’incontrollato
opinamento.
Tuttavia, mettendo da parte questo lato della difesa, mi domando
quale impedimento subisca l’azione di chi si attiene alla
probabilità quando nulla gli sia d’ostacolo.
“Ma l’ostacolo per lui sarà proprie questo – dice lo Stoico
– che, cioè, egli stabilirà l’impossibilità di percepire
persino quello a cui dà l’approvazione”. Sì, proprio codesto ti sarà
d’impaccio nella navigazione e nella semina, nella scelta della
sposa e nella procreazione dei figli e in quelle innumerevoli altre
faccende della vita nelle quali non ti atterrai a nient’altro se non
alla probabilità! E, ciò nonostante, tu ti metti a ripetere
un’obiezione fritta e rifritta e già tante volte respinta, non come
la porgeva Antipatro167, ma, secondo la tua asserzione168, in
maniera più incalzante. Tu affermi, infatti, che Antipatro è stato
rimproverato perché diceva che chi afferma l’impossibilità di
comprendere alcuna cosa deve, per coerenza, affermare la
comprensibilità almeno di questa sua affermazione; ma
quest’argomentazione sembrava grossolana persino ad Antioco, e in
contraddizione con se stessa. Difatti non è possibile sostenere in
modo corretto l’incomprensibilità di alcuna cosa, se si afferma la
comprensibilità di una qualche cosa. Egli reputa, invece, che si
sarebbe dovuto mettere alle corde Carneade appunto in questa
maniera, ossia sostenendo che, siccome nessun principio del “saggio”
può esserci ove esso non venga compreso, percepito e conosciuto, chi
sostiene essere appunto questo il principio del saggio – ossia che
nulla può essere percepito – viene ad ammettere che proprio questo
principio è stato percepito.
Quasi che il saggio non abbia alcun altro principio e
possa trascorrere la vita senza princìpi!169 Ma, come egli
ritiene probabili quegli altri senza averli percepiti, così ritiene
probabile anche questo, vale a dire l’impossibilità di percepire
cosa alcuna. Difatti, se in questo principio egli trovasse un segno
di riconoscimento, se ne servirebbe anche negli altri; ma, poiché
non lo possiede, si limita ad utilizzare la probabilità.
Carneade, pertanto, non temette di sembrare provocatore di una
confusione e di un’incertezza generale170: infatti egli non direbbe
di “non sapere” nel caso che gli venisse fatto un quesito a
proposito del dovere o delle altre cose di cui ha pratica ed
esperienza, allo stesso modo che nel caso in cui gli venisse chiesto
se il numero delle stelle sia pari o dispari: che nelle cose
oggettivamente incerte non sussiste affatto probabilità; invece in
quelle probabili non mancheranno al saggio né un’azione né una
risposta.
E tu, o Lucullo, non hai tralasciato171 neppure quest’altro biasimo
fatto da Antioco (e non è strano, giacché esso ha una particolare
importanza) e dal quale, come lo stesso Antioco era solito riferire,
Filone veniva messo in serio imbarazzo. Premesso, infatti, che
alcune rappresentazioni sono false e in secondo luogo che queste non
differiscono dalle vere, egli sosteneva che gli Accademici non fanno
attenzione al fatto che la prima premessa è stata concessa
esclusivamente perché risulta esservi una certa differenza tra le
rappresentazioni, ma che questa differenza viene eliminata dalla
seconda premessa, con la quale si nega che le rappresentazioni vere
e quelle false differiscano tra loro. Non esisterebbe, secondo
Antioco, una contraddizione altrettanto evidente. E la faccenda
starebbe davvero così, se noi eliminassimo la verità in senso
assoluto. Ma noi non lo facciamo: difatti riusciamo a scorgere certe
cose vere e certe cose false; ma, mentre sussiste un indizio della
probabilità – ossia l’apparenza –, della concreta percezione,
invece, non abbiamo segno alcuno.
Ma ho l’impressione di fare, anche adesso, una difesa troppo fiacca;
mentre ci sta aperto dinanzi un terreno nel quale il discorso
potrebbe liberamente spaziare, perché lo teniamo costretto tra le
tante trappole e i tanti greppi degli Stoici? Se, infatti, io
dovessi discutere con un Peripatetico il quale affermasse che è
percepibile l’impressione derivante dal vero senza mettervi accanto
quella grandiosa aggiunta “nel modo in cui l’impressione non
potrebbe derivare dal falso”, discuterei in maniera semplice con un
uomo semplice e non farei un’opposizione accanita, e se pure, mentre
io nego la possibilità che si percepisca alcuna cosa, egli dicesse
che, di tanto in tanto, il saggio formula opinioni, non mi metterei
a recalcitare, specialmente perché neppure Carneade recalcitrava
molto contro questo punto di vista. Ma allo stato attuale cosa posso
fare? Mi metto a domandare cosa sia comprensibile. Ma non sono
né Aristotele né Teofrasto, e neppure Senocrate o Polemone, bensì
questi filosofi di second’ordine a darmi la seguente risposta: “È
comprensibile solo quel vero che ha tali caratteristiche da non
poter essere falso”. Un vero così concepito io, però, non riesco a
trovarlo: pertanto non è strano che io dia l’assenso a ciò che è
sconosciuto, cioè che io mi limiti ad opinare172.
Questa concessione me la faranno sia i Peripatetici sia gli
Accademici Antichi: me la rifiutate voi, e soprattutto Antioco, il
quale mi lascia molto turbato, sia perché ho voluto bene a
quell’uomo come egli ne ha voluto a me, sia perché lo considero il
più raffinato ad acuto dei filosofi contemporanei. Ma anzitutto gli
devo chiedere come egli faccia ad appartenere a quell’Accademia di
cui pur si professa seguace. Quale filosofo dell’Accademia Antica o
quale Peripatetico ha mai sostenuto questi due princìpi — per non
dire anche gli altri – su cui ora verte la discussione, ossia che è
possibile percepire solo quel vero che abbia tali caratteristiche da
non poter essere falso e che il saggio nulla opina? Certamente
nessuno! E nessuno di questi due princìpi è stato mai tanto difeso
prima di Zenone; io, dopo tutto, li ritengo veri entrambi, e non lo
dico per opportunismo, ma li approvo pure senza mezzi termini173.
C’è, però, una cosa per me intollerabile: proprio tu, poiché mi
vieti di dare l’assenso a ciò che è sconosciuto e ritieni un assenso
di questo genere come una cosa molto vergognosa e leggera, ed hai tu
solo la presunzione di sapere la dottrina della saggezza, di
spiattellare tutta la natura dell’universo, di creare princìpi
morali, di stabilire il sommo bene e il sommo male, di precisare i
doveri, di definire la mia condotta di vita, e, come se non
bastasse, dichiari di consegnarmi il criterio e la regola della
discussione e dell’intelligenza, proprio tu – ripeto – sarai capace
di non farmi mai cadere, di non farmi mai abbassare all’opinione,
una volta che io abbia dato il mio abbraccio a tutte codeste
innumerevcli fandonie! Ma qual è, alla fine dei conti, codesta
dottrina alla quale mi vorresti trascinare, se riuscirai a staccarmi
dalla mia? Ho paura che tu ti comporti con molta arroganza, se la
chiami tua: eppure è inevitabile che tu la chiami così. Ma non sei
tu solo a comportarti in questo modo: ognuno vorrà trascinarmi alla
sua.
Suvvia, opporrò anche resistenza ai Peripatetici, i quali pur
affermano che sussiste un’affinità tra loro e gli oratori174 e che
uomini illustri, usciti dalla loro scuola, sono stati spesso alla
direzione dello Stato; sosterrò pure l’attacco di tanti miei amici
Epicurei175, gentiluomini così valenti e affezionati tra loro: ma
come dovrò comportarmi con lo stoico Diodoro176, mio vecchio
maestro, che sta vivendo con me da tanti anni, che sta a casa mia,
che io ammiro e amo e che pur disprezza codeste teorie di Antioco?
Tu dirai: “Esiste esclusivamente la nostra verità!” Sì,
esclusivamente la vostra, se essa è la verità: che più verità in
dissidio tra loro non possono esistere. Ma siamo, allora, spudorati
noi, che non vogliamo sdrucciolare, oppure sono presuntuosi quelli
che hanno la convinzione di sapere tutto essi soli?
“ Ma non sono io – egli obietta mi limito a dire che è il saggio a
saper tutto. Benissimo! Egli senza dubbio conosce ciò che sta nella
tua dottrina: ma che diamine di principio è codesto, ossia che la
saggezza viene determinata da chi saggio non è? Ma non facciamo
questioni personali: parliamo, invece, del “saggio su lui, infatti,
come ho già detto tante volte177, verte tutta questa discussione.
Orbene: lo scibile umano è stato diviso in tre parti sia
dalla maggioranza dei filosofi sia da voi stessi. Esaminiamo,
allora, se vi aggrada, in primo luogo le indagini che sono state
eseguite sulla natura o anche – per cominciare di qui – se ci sia
stato qualcuno tanto rigonfio di errore da essere convinto di averne
piena conoscenza. Non intendo indagare quei sistemi filosofici che
restano sospesi ad una congettura, che sono trascinati qua e là dai
dibattiti e non pretendono di suscitare convinzioni necessarie: se
la vedano i geometri, i quali hanno la pretesa non già di
persuadere, ma di costringere e che vi danno la dimostrazione di
tutte le figure da loro descritte178. Non chiedo a costoro quei
postulati matematici senza la cui ammissione essi non possono
avanzare di un dito, vale a dire che è punto quello che non ha
alcuna grandezza, e che è superficie – o, per così dire “livello” –
quella che non ha affatto spessore, e che è linea una lunghezza
priva di larghezza † e di ogni profondità179 †. Quando pure avrò
concesso che queste cose sono vere, credi tu che, se io costringerò
il saggio a giurare, questi giurerà che il sole è molte volte più
grande della terra, senza che prima Archimede, in sua presenza,
abbia eseguito tutti quei calcoli dai quali si perviene a questo
risultato? Se egli giurerà, avrà poco riguardo per quello stesso
sole che egli ritiene essere un dio! Che se egli non è disposto a
prestar fiducia ai calcoli geometrici che danno insegnamento in
maniera coercitiva, come dite voi stessi, ce ne vorrà un bel po’
perché egli si affidi alle argomentazioni dei filosofi; o, meglio,
se decide di affidarvisi, a quali di esse si affiderà in modo
particolare? Si potrebbe, invero, fare tutta una rassegna dei
princìpi dei “fisici”; ma essa sarebbe troppo lunga. Io desidero,
comunque, sapere a chi di loro egli terrà dietro. Immagina che
qualcuno stia ora imboccando la via della saggezza, ma non sia
ancora saggio: quale punto di vista, quale indirizzo egli si
sceglierà in modo preferenziale? Si badi, però, che qualunque sia la
sua scelta, egli la farà quando non è ancora saggio; ma ammettiamo
che egli abbia un ingegno divino: a quale dei “fisici” egli darà in
modo speciale e unico la sua approvazione? A più di uno solo non
potrà accordarla.
Non intendo mettermi alla caccia di questioni senza fine: vediamo a
quale dei “fisici” egli darà il suo beneplacito esclusivamente a
proposito dei princìpi naturali da cui è composto l’universo: su
questo punto, infatti, tra i grandi pensatori sussiste un disaccordo
grandissimo.
Primo fra tutti Talete180, uno dei Sette Sapienti – al quale,
come si tramanda, gli altri concessero il primo posto –, affermò che
dall’acqua derivano tutte le cose. Ma di ciò egli non riuscì a
persuadere il suo concittadino e compagno Anassimandro181: questi,
infatti, sostenne che un’infinita essenza è quella da cui tutte le
cose vengono generate. Dopo, il suo allievo Anassimene182 sostenne
che infinita è l’aria, ma che sono definite le cose che nascono da
essa, e sono generati direttamente terra, acqua e fuoco e, tramite
questi, in un secondo momento sono generate tutte le altre cose.
Anassagora183 sostenne l’infinità della materia e la derivazione da
essa di particelle minime, simili tra loro, prima confuse e poi
ordinate dal divino intelletto. Senofane184, un po’ più antico di
lui, sostenne che tutto è uno e che è immutabile ed è dio, non mai
nato e sempiterno, di figura sferica. Parmenide185 considerò
princìpi il fuoco che produce movimento e la terra che dal fuoco
riceve la forma; Leucippo186 il pieno e il vuoto; Democrito in ciò è
simile a lui, in altre dottrine ha una maggiore ricchezza di idee.
Empedocle sostenne i quattro elementi, che sono ormai popolari e ben
noti. Eraclito il fuoco; Melisso187, invece, affermò che
ciò-che-è-infinito-e-immutabile è sempre esistito e sempre esisterà.
Platone188 pensa che un dio ha fatto sempiterno il mondo,
plasmandolo con una materia che è “ricettacolo di tutte le cose”. I
Pitagorici fanno partire tutte le cose dai numeri e da princìpi
matematici.
Io credo che, tra tutti costoro, dal nostro saggio sarà scelto
qualcheduno come battistrada e che tutti gli altri filosofi, pur
essendo così numerosi e grandi, saranno sconfessati e condannati da
lui e costretti a far bagaglio. Ma qualunque dottrina egli
approverà, il saggio avrà dovuto comprenderla col suo pensiero come
comprende le cose che suole percepire con i sensi, e non sarà
disposto ad ammettere, ad esempio, che in questo momento c’è luce,
più di quanto – nel caso che egli sia uno Stoico – sia disposto ad
ammettere che questo mondo è sapiente e che ha una mente la quale ha
costruito se stessa e il mondo e tempera, muove e regge tutte quante
le cose; egli si sarà pure convinto che il sole, la luna, tutte le
costellazioni, la terra e il mare sono divinità per il fatto che una
qualche intelligenza fornita di anima promana e passa attraverso
tutte quelle cose; ma che, ciò nonostante, tutto quanto questo
mondo, una buona volta, subirà, per il suo stesso calore, la propria
conflagrazione189.
Ammettiamo pure che tutto codesto sia vero (tu vedi che ormai io
confesso che pur qualcosa di vero esiste!)190: ciò nonostante, io
dico che non se ne può avere né comprensione né percezione. Difatti,
quando codesto tuo “saggio stoico” avrà fatto tutte codeste
affermazioni scandendo le sillabe, verrà Aristotele191, che sparge
un aureo fiume di eloquenza, a dire che quel saggio è in realtà uno
stupido; che, a dire il vero, il mondo non è mai nato, perché un
improvviso atto di deliberazione non avrebbe mai potuto segnare
l’inizio di un’opera tanto eccellente, e che esso è così ben
acconcio in ogni sua parte che nessuna forza può produrvi movimenti
o mutamenti di tanto rilievo e che col lungo andar del tempo non
potrà esserci alcuna vecchiezza che faccia mai crollare o
distruggere questa bellissima opera d’arte. Tu sarai costretto a
respingere queste affermazioni e a difendere, invece, quelle
precedenti, come se ne andassero di mezzo la tua testa e il tuo
onore: a me, invece, non sarà lasciato neppure il permesso di
dubitare?
Metto da parte la leggerezza con cui voi altri vi precipitate a dare
l’assenso: che grande valore dobbiamo assegnare, già di per sé, a
quella libertà che mi esime dal fare una difesa che tu sei costretto
a fare! Io voglio sapere, infatti, perché mai il dio, pur facendo
tutto per il nostro bene (così voi pretendete), ha creato un sì gran
numero di serpenti e di vipere ed ha disseminato la terra e il mare
di tanti flagelli mortali192. Voi dite che sarebbe stato impossibile
produrre questo mondo con tanta raffinatezza e cura dei particolari
senza una qualche divina operosità; e voi abbassate la maestà di
questo dio fino a farle meticolosamente confezionare api e formiche,
talché può sembrare che anche tra gli dei ci sia stato un qualche
Mirmecide193, costruttore di minuscoli meccanismi.
Tu dici che senza un dio niente è possibile: ma eccoti a fianco
Stratone di Lampsaco194, che lascia in riposo codesto tuo iddio – e
lo lascia riposare da un grosso compito; ma, poiché i sacerdoti
degli dei fanno sempre vacanza, quanto è più giusto che lo facciano
gli dei stessi! – e dice che non gli abbisogna l’intervento dei numi
per costruire il mondo, e insegna che tutte le cose esistenti sono
prodotte dalla natura, anche se non è poi d’accordo con quel famoso
filosofo195 il quale sostiene che queste cose sono formate da corpi
ruvidi e levigati, fatti ad amo e ad uncino e che in mezzo a loro
sta il vuoto: egli pensa che tutto ciò è il frutto dei sogni di
Democrito, il quale non dà un insegnamento, ma esprime una sua
opzione, mentre lui, seguendo passo passo le singole parti del
mondo, insegna che tutto ciò-che-è o tutto ciò-che-diviene si sta
facendo o è stato fatto mediante pesi e moti naturali. Eppure egli
non riesce a svincolare il suo dio da una grande fatica e me dalla
paura! Nessuno, infatti, potrebbe stimare di essere oggetto della
cura di un dio senza provare spavento della divina potenza di giorno
e di notte e senza temere, se gli capita qualche guaio – e a chi non
capita? –, che questo guaio gli sia giustamente toccato196.
Dopo tutto, io non sono d’accordo né con Stratone né con te: una
volta mi sembra più probabile l’una delle due, un’altra volta
l’altra.
Tutte codeste, o Lucullo, sono cose che rimangono nascoste, coperte
e cosparse da dense tenebre. Di conseguenza non esiste alcun acume
d’ingegno umano che possa penetrare nella volta celeste o immergersi
nelle viscere della terra.
Noi non conosciamo il nostro corpo197, quale sia l’esatta
disposizione delle sua parti, e ignoriamo la funzione che ciascuna
di queste parti svolga. Gli stessi medici, ai quali interessava
acquisirne conoscenza, le sezionarono allo scopo di renderle
manifeste, ma, ciò nonostante, i medici dell’indirizzo empirico
dicono che esse non sono venute a risultare più note, perché,
secondo loro, è possibile che esse subiscano mutamenti quando sono
portate alla luce e allo scoperto198. Ma forse che noi possiamo
nella stessa maniera disseccare, squarciare, dividere la varia
natura del mondo per osservare se la terra rimanga fissa nelle
profondità e quasi abbarbicata alle sue radici oppure stia sospesa
al centro dell’universo?199
Senofane sostiene che la luna è abitata e che essa è una terra con
molte città e montagne200: sembrano asserzioni prodigiose; ma,
tuttavia, né quello stesso che le profferì avrebbe potuto giurare
che la faccenda sta realmente così, né io potrei giurare che non sta
così. Anche voi asserite che, in relazione alla nostra posizione
geografica, nella parte opposta della terra c’è gente che sta ritta
con le piante dei piedi poste in senso contrario alle nostre e a cui
voi date il nome di “antipodi”201: perché ve la prendete con me, che
non respingo codeste teorie, e non piuttosto con quelli che,
nell’ascoltarvi, vi considerano pazzi? Iceta di Siracusa202, a quel
che afferma Teofrasto, sostiene l’immobilità del cielo, del sole,
della luna, delle costellazioni, insomma di tutti i corpi superni, e
che nessuna cosa nell’universo si muova tranne la terra e che,
girando e volgendosi quest’ultima con la massima velocità intorno al
suo asse, si producano i medesimi effetti che si produrrebbero se la
terra stesse ferma e si muovesse il cielo. E alcuni reputano che
anche Platone203 faccia la stessa affermazione nel Timeo, ma in
maniera un po’ meno chiara. E che fai tu, o Epicuro? Parla: credi tu
che davvero il sole sia tanto piccolino? E che faccio io? A me,
almeno, non pare † grande neppure il doppio204 †. Lui prende in giro
voi e, a vostro turno, voi vi prendete gioco di lui. Ma da codesta
burletta è immune Socrate, è immune Aristone di Chio, il quale crede
che è impossibile la conoscenza di alcuna di codeste cose.
Ma io ritorno all’esame dell’anima e del corpo. Ci è
forse noto, alla fine dei conti, quale sia la natura dei nervi
o quella delle vene? Conosciamo noi per fermo che cosa sia l’anima,
dove sia e, infine, se essa esista oppure, come parve a Dicearco205,
non esista affatto? E, se essa esiste, ha tre parti – quella
razionale, quella irascibile e quella concupiscibile – secondo la
sentenza di Platone206, oppure è semplice e unitaria? E, se è
semplice, è fuoco o aria o sangue, oppure, come vuole Senocrate207,
puro numero senza corporeità, ossia una cosa la cui consistenza è
quasi incomprensibile? E qualunque cosa essa sia, è mortale o
eterna? A dire il vero, si fanno molte affermazioni in un senso e
nell’altro. Taluna di queste alternative sembra certa al vostro
saggio; al nostro, invece, non se ne presenta neanche qual-cheduna
che risulti almeno probabile. Infatti molte affermazioni vengono
fatte in un senso e nell’altro208.
Se, poi, ti comporti con maggior modestia e mi accusi
non perché io non dia l’assenso alle tue dottrine, ma perché
non lo do a nessuna dottrina, mi arrenderò e sceglierò a chi dare
l’assenso. A chi più di ogni altro, a chi? A Democrito!209 Difatti,
come voi sapete, sono stato sempre amante di chi ha massimi meriti.
Ma eccomi già aggredito dal vostro schiamazzo generale: “Credi tu
all’esistenza di un vuoto, mentre l’universo è così pieno zeppo che,
da una parte, un corpo è cedevole nella direzione in cui se ne muove
un altro, e, dall’altra parte, nel luogo dal quale esso si ritira un
altro immediatamente viene a spostarsi, oppure credi all’esistenza
di certi atomi, dai quali è molto dissimile qualunque loro prodotto,
o, infine, credi alla possibilità che venga prodotta una qualche
realtà meritevole di riguardo senza che esista un’intelligenza
divina? E, dal momento che in un unico universo esiste questa
artistica fattura così degna di ammirazione, credi tu nell’esistenza
di innumerevoli mondi, alcuni dissimili e altri uguali, e al di
sopra del nostro e al di sotto, a destra e a sinistra, avanti e
indietro? E credi tu nell’esistenza di innumerevoli altri uomini,
abitanti in località uguali a queste e aventi gli stessi nomi, gli
stessi titoli pubblici, il vanto delle medesime imprese, le medesime
doti naturali, le stesse fattezze, la stessa età e che discutono
degli stessi problemi, così come stiamo facendo noi qui a Bacoli,
mentre vediamo Pozzuoli qui di fronte? E credi tu che, se in questo
momento o anche durante il sonno ci par di vedere una qualche cosa
con la nostra mente, è dal di fuori che le immagini irrompono nelle
nostre anime attraverso i nostri corpi? Ma tu non fare codeste
asserzioni e non dare l’assenso a cose come queste che sono mere
finzioni: è meglio non avere un proprio pensiero che averne uno così
erroneo!”.
Allora non si pretende che io dia l’approvazione ad una qualche
dottrina col mio assenso, ma mi si chiede – sta bene attento! – di
darla esclusivamente a quella che vuoi tu, e me lo si chiede non
solo con arroganza, ma con spudoratezza, soprattutto perché codeste
tue dottrine non mi sembrano neanche “probabili”. Io penso, infatti,
alla totale inconsistenza di quella divinazione che voi approvate e
non ammetto affatto l’esistenza di quel fato che, secondo voi,
controllerebbe l’universo, e non credo neppure che questo mondo sia
stato costruito secondo un divino consiglio. Eppure non so se la
faccenda stia realmente così!210.
Ma perché sto trascendendo verso espressioni ostili? Mi date il
permesso di ignorare quello che io ignoro oppure agli Stoici si dà
la facoltà di discutere tra loro, mentre a noi no? Zenone211 e quasi
tutti gli altri Stoici sono del parere che con l’etere s’identifichi
il dio supremo, dotato di un’intelligenza che dirige tutto
l’universo; Cleante212, che fa parte – starei per dire – della più
antica aristocrazia stoica, allievo di Zenone, considera il sole
dominatore e padrone del mondo: così, a causa del dissenso dei
saggi, siamo costretti ad ignorare il nostro signore, non sapendo se
dobbiamo offrire i nostri servigi al sole oppure all’etere. La
grandezza del sole, poi (esso stesso, diffondendo in questo istante
i suoi raggi, par che mi guardi ed esorti a fare spesso cenno a
lui), questa sua grandezza voi, come se l’aveste misurata a parte a
parte, dite che è di dieci piedi; io, invece, mi rifiuto di prestar
credito alla vostra misurazione, ritenendovi architetti scadenti. Si
può mettere in dubbio chi di noi, per mitigare il mio linguaggio,
sia più modesto?
Comunque, io non penso che si debbano cacciare al bando codeste
questioni di fisica, giacché la considerazione e la contemplazione
della natura sono quasi un pascolo naturale dell’anima e
dell’intelletto: con esse noi ci eleviamo, guardiamo dall’alto le
cose umane e, pensando ai fenomeni superni del cielo, facciamo poco
conto di queste nostre cose e le riteniamo esigue e di minimo
valore. Di per sé la ricerca delle cose più grandi e più coperte dal
mistero ha le sue attrattive; e se si presenti una qualche
spiegazione che sembri essere quella della verità, l’anima si colma
di un piacere altamente umano. Queste ricerche, adunque,
verranno eseguite sia dal vostro “saggio” sia dal nostro: ma il
vostro le farà per dare l’assenso; il nostro, invece, per indugiare
ad affidarsi precipitosamente all’opinione e per valutare tra se
stesso che è apprezzabile risultato l’aver trovato, in problemi
siffatti, un qualcosa che sia verosimile.
Veniamo, ora, al concetto dei beni e dei mali; ma bisogna far prima
una piccola premessa.
Quando i fisici fanno recisamente affermazioni in questo settore, mi
pare che non si rendano conto di privarsi anche dell’autorevolezza
delle cose che eventualmente si manifestano con maggiore evidenza:
essi, infatti, danno l’assenso e l’approvazione all’attuale presenza
della luce con la medesima sicurezza con cui, quando la cornacchia
canta, reputano che intenda significare un comando o un divieto; e,
dopo aver misurato quella statua lì, affermano che essa è di sei
piedi con la stessa sicurezza con cui sostengono che il sole, che
essi non possono misurare, è oltre diciotto volte più grande della
terra. Di qui nasce il famoso modo di dimostrare: “Se è impossibile
percepire quanto grande sia il sole, allora chi dà l’approvazione a
tutte quante le altre cose nello stesso modo in cui la dà alle
dimensioni del sole, quelle cose egli non le percepisce; ma è
impossibile percepire le dimensioni del sole: epperò chi dà
l’approvazione a ciò come-se-ne-avesse-percezione, non percepisce
cosa alcuna”. Oseranno essi rispondere che è possibile percepire le
dimensioni del sole? Non farò opposizione, purché, però, dicano che
tutte quante le altre cose vengono percepite e comprese alla stessa
maniera. Essi, infatti, non potranno dire che la comprensione di una
cosa è maggiore o minore di quella di un’altra, giacché la
definizione del termine “comprensione” è unica per tutte quante le
cose.
Ma torniamo al tema che avevo annunciato: cosa sappiamo con certezza
sui beni e sui mali? Senza dubbio si devono precisare i limiti entro
cui ricondurre l’insieme dei beni e dei mali; ma su nessun’altra
questione sussiste tra i massimi pensatori un dissenso più grave.
Metto pure da parte quelle teorie che sembrano ormai in disuso:
Erillo213, che pone il sommo bene nella conoscenza e nella scienza,
proprio lui, benché allievo di Zenone, tu vedi bene come sia in
disaccordo con costui e quanto poco lo sia con Platone. Ben nota fu
la dottrina dei Megarici, di cui fu primo ispiratore, come vedo
scritto, quel Senofane che poco fa214 ho nominato, e, dopo di lui, i
suoi seguaci Parmenide e Zenone (da costoro, pertanto, trassero il
loro appellativo i filosofi “Eleatici”), poi Euclide, discepolo di
Socrate, megarese, dal quale assunsero il nome di “Megarici” quei
pensatori medesimi che sostenevano il solo bene esser quello che è
uno e simile e sempre identico; anche costoro presero molto da
Platone. Da Menedemo, poi, essendo questi di Eretria, assunsero
l’appellativo di “Eretriaci” quei pensatori secondo i quali ogni
bene è riposto nell’intelletto e nell’acume intellettuale con cui si
distingue il vero215: teoria, questa, che è simile a quella di
Erillo, ma, a parer mio, esposta con maggiore ricchezza e in più
bella forma.
Se noi facciamo poco conto di costoro e li riteniamo
ormai archiviati, certamente dobbiamo disprezzare di meno i
seguenti: Aristone216, che, essendo stato allievo di Zenone, provò
con i fatti ciò che questi aveva provato con le parole – ossia che
non c’è alcun bene al di fuori della virtù e alcun male al di fuori
di ciò che alla virtù è contrario –, ma pensò che non hanno alcun
valore quei “gradi intermedi” che erano stati ammessi da Zenone, A
proposito di siffatti gradi, secondo Aristone, il sommo bene sta nel
non muoversi in nessuna delle due direzioni, cosa che egli chiama
άδιαφορία: Pirrone, invece, dice che il saggio non avverte neppure
queste cose, e questa sua posizione ha il nome di άπάϑεια.
Orbene: tralasciamo tutti questi punti di vista e vediamo i
seguenti, che sono stati difesi per tanto tempo e con tanto zelo.
Alcuni217 hanno preteso d’identificare il fine col piacere, e
il loro primo esponente è Aristippo, discepolo di Socrate e
caposcuola dei Cirenaici, e poi Epicuro, la cui dottrina è ai nostri
giorni più nota e, tuttavia, non concorda con quella dei Cirenaici
persino a proposito del piacere. Callifonte, invece, considerò come
fine l’insieme del piacere e dell’onestà, Ieronimo218 la liberazione
da ogni molestia, Diodoro219 l’insieme di questa liberazione e
dell’onestà, ed entrambi questi ultimi furono Peripatetici. Che il
fine fosse la condotta di una vita onesta accompagnata dal godimento
delle cose primarie offerte dalla natura, lo pensò l’Accademia
Antica – come stanno ad indicarlo gli scritti di Polemone, al quale
Antioco dà la sua piena approvazione – e pare che si siano
avvicinati di molto a questa concezione Aristotele e i suoi amici.
Non perché desse il suo beneplacito a questa dottrina, ma per
opporla a quella degli Stoici, anche Carneade prospettava che è
sommo bene godere delle cose primarie che la natura ci abbia
offerte. Invece Zenone220, che fu il fondatore e il primo esponente
degli Stoici, prospettava che è fine dei beni quella onesta condotta
della vita che ha il suo fondamento nel più pieno rispetto della
natura.
È ben manifesto, inoltre, quanto segue: che, cioè, a tutti i fini
dei beni da me ora esposti sono contrari i fini dei mali. Ora, però,
vorrei sapere da voi a quale pensatore mi consigliate di attenermi;
ma nessuno mi dia una risposta così rozza e assurda come questa:
“Chiunque ti piaccia, purché ti attenga a qualcuno”. Non si potrebbe
dire nulla di più squilibrato!
Sarei smanioso di mettermi al seguito degli Stoici. Ne ho, però, il
permesso, non dico da parte di Aristotele, che, a mio giudizio,
occupa in filosofia un ruolo tutto personale, ma da parte di Antioco
stesso, che pur era chiamato accademico, e lo sarebbe stato davvero,
se avesse ridotto di molto i suoi emendamenti, egli fratello carnale
degli Stoici? Ma anche in caso affermativo le cose si presenteranno
in bilico: infatti il saggio che noi concepiamo dovrà essere o
Stoico oppure dell’Accademia Antica. Non è possibile l’uno e l’altro
insieme, giacché tra costoro sussiste una contesa non sui confini
del loro campicello ma sull’intero campicello: difatti ogni regola
di vita è contenuta nella definizione del sommo bene, e chi è in
dissenso su questo punto è in dissenso sull’intero regime della
propria esistenza. Ecco perché non possono essere saggi tutti e due,
essendo il loro dissenso così marcato, ma può essere saggio solo uno
dei due. E se il saggio deve attenersi a Polemone, il seguace della
Stoa cade in errore, perché dà il suo assenso ad una cosa falsa (e
voi, almeno, affermate che non c’è errore che sia altrettanto
estraneo ad un saggio); se, invece, sono vere le affermazioni di
Zenone, bisogna rivolgere le medesime obiezioni contro gli
Accademici Antichi e contro i Peripatetici.
Orbene: a questo punto non darai l’assenso a nessuno dei due. E
se io non lo darò mai, chi di noi è più accorto? Ebbene? Persino
Antioco, dal momento che su alcune questioni è in disaccordo con i
suoi prediletti Stoici, non vuole forse mettere in rilievo
l’impossibilità che il saggio dia alle dottrine di costoro la sua
approvazione? È un placito stoico l’eguaglianza di tutte le colpe;
ma contro questo placito Antioco prova il più vivo disgusto: a me
sia permesso, allora, di meditare finalmente a quale dei due punti
di vista io mi debba attenere!
“Taglia corto! – dice lo Stoico – Prendi una buona volta una
deliberazione, qualunque essa sia”. E che? Non mi devo guardare dal
commettere uno scempio, dal momento che le precedenti affermazioni
mi sembrano entrambe acute in un senso e nell’altro ed equipollenti?
Tu, o Lucullo, dicevi221 che è un delitto tradire i propri “dogmi”:
allora io mi trattengo per non dare l’assenso a ciò che è
sconosciuto: è, questo, un “dogma” che rispettiamo in comune io e
te.
Ma ecco un disaccordo anche molto più grave! Zenone reputa che
la vita beata è riposta solo nella virtù222. Che ne pensa Antioco?
“Sia pure beata – egli dice –, ma non in senso assoluto”. È un dio
il primo di questi due, che pensò che nulla manchi alla virtù; è,
invece, un omiciattolo il secondo, il quale crede che, oltre la
virtù, esistono per l’uomo molte cose, in parte rare, in parte anche
indispensabili. Ma per un verso io ho paura che il primo assegni
alla virtù più di quanto la natura permetta – specialmente se
teniamo presenti i molti rilievi fatti da Teofrasto223 con finezza
oratoria e ricchezza di esperienza –, e per un altro verso io temo
che il secondo non sia coerente con se stesso, dal momento che
ammette l’esistenza di certi malanni del corpo e della fortuna e,
ciò nonostante, giudica che sarà beato chi versa in tutti questi
malanni, purché sia “saggio”.
Sono sospinto in direzioni contrarie: ora mi sembra più probabile
questo, ora quello; e tuttavia io penso che, se una delle due cose
non è vera, la virtù è messa completamente con le spalle a terra.
“Ma il loro disaccordo – dite voi – si limita a questi aspetti
della questione”. Ebbene? Possiamo, forse, approvare come veri
quegli aspetti in cui sono d’accordo, ad esempio che L’anima del
saggio non è mai scossa dalla brama o esaltata dalli gioia? Suvvia,
ammettiamo pure che codeste affermazioni siano probabili: ma sono,
forse, anche probabili queste altre, ossia che egli non prova mai
timore, mai dolore? Il saggio, alcra, non dovrebbe temere la
distruzione della patria? Non dovrebbe soffrire, se la patria è
stata distrutta? È cosa dura ma necessaria secondo Zenone, per il
quale tranne la rettitudine morale non esiste alcun bene; ma per te,
o Antioco, non lo è affatto, perché per te, oltre la rettitudine
morale, ci sono molte altre cose che ti sembrano buone e, oltre la
turpitudine, ce ne sono molte altre che ti sembrano cattive e che il
saggio necessariamente teme quando sopravvengono e di cui
necessariamente si duole quando sono sopravvenute.
Ma io voglio sapere quando mai dall’Accademia Antica sono stati
sanciti questi decreti, fino al punto da negare che l’anima del
saggio sia commossa e perturbata: essi erano favorevoli al giusto
mezzo e sostenevano che c’è una certa misura in ogni naturale
commozione dell’anima224. Tutti leggiamo il trattato Sul lutto225 di
Crantore, filosofo dell’Accademia Antica: è un’opera piccola, ma
aurea, un libriccino da imparare a memoria, come Panezio consigliava
a Tuberone226. Anzi gli Accademici Antichi sostenevano che
proficuamente la natura ha assegnato all’anima nostra questi
turbamenti: il timore, affinché siamo cauti; la compassione e la
tristezza, affinché siamo clementi; e affermavano che persino
l’iracondia è quasi “la cote della fortezza” – che facessero bene o
male, lo vedremo un’altra volta227 –: comunque, io non riesco a
capire come mai codesta tua intransigenza abbia potuto fare
irruzione neirAccademia Antica. Ma ci sono certe cose che non saprei
tollerare, non perché mi dispiacciano (giacché quelle stranezze
degli Stoici che prendono il nome di “paradossi”228 per la maggior
parte sono di stampo socratico); ma dove le ha trattate Senocrate,
dove Aristotele (voi, infatti, pretendete che questi due pensatori
siano quasi identici)? Essi avrebbero detto, almeno talvolta, che
solo i saggi sono re, che essi soli sono ricchi, essi soli sono
belli? Che ogni cosa, ovunque essa sia, è proprietà del saggio? Che
nessuno è console, pretore, comandante, e forse neppure quinqueviro,
tranne il saggio? E, infine, che questo soltanto è cittadino, questo
esclusivamente è libero, mentre tutti quanti sono stupidi,
stranieri, esuli, schiavi, insomma pazzi scatenati? E gli scritti di
Licurgo, quelli di Solone, le nostre Dodici Tavole non sarebbero
leggi, e neppure le città e gli Stati sarebbero veramente tali, se
non appartenessero ai saggi?
Tu, o Lucullo, se dai l’assenso al tuo amico Antioco,
dovrai difendere codeste teorie come se fossero le mura della
patria; io, invece, le dovrò difendere nella misura giusta, nei
limiti in cui mi sembrerà opportuno.
Ho letto in clitomaco che, durante la permanenza di Carneade e
dello stoico Diogene presso il senato in Campidoglio, Aulo Albino,
che allora era pretore sotto il consolato di Publio Scipione e di
Marco Marcello – proprio quell’Albino che fu console con tuo nonno,
o Lucullo, e che era una persona indubbiamente colta, come sta a
provare la sua stessa Storia229scritta in greco –, domandò in tono
scherzoso a Carneade: “O Carneade, io non ti do l’impressione di
essere pretore, perché non sono saggio, né questa ti sembra una
città, né la popolazione che è in essa ti sembra una cittadinanza?
“Allora lui: “A questo Stoico qui230 non sembra!”.
Aristotele o Senocrate, di cui Antioco avrebbe voluto essere
seguace, non avrebbero messo in dubbio che Albino fosse un pretore e
Roma una città e che fosse una cittadinanza la gente che l’abitava;
ma quel nostro amico è, come ho detto prima, uno Stoico in piena
regola che poche volte si mette a balbettare. Però, mentre io
temo di scivolare verso l’opinione e di adottare e provare qualcosa
di sconosciuto – cosa che voi non vorreste affatto –, quale
consiglio mi date?
Spesso Crisippo231 attesta che esistono solo tre dottrine
difendibili sul sommo bene (egli ne spazza via e ne taglia un bel
numero di altre): che, cioè, è sommo bene o la rettitudine morale o
il piacere o l’una e l’altro. Infatti quelli232 che fanno consistere
il sommo bene nella liberazione da ogni molestia, evitano l’odioso
nome di piacere, ma vi si aggirano nei pressi; e fanno questa stessa
cosa anche quelli233 che lo congiungono con la rettitudine morale;
né si comportano molto diversamente quelli234 che aggiungono alla
rettitudine morale i vantaggi naturali primari. Così egli lascia tre
dottrine che, a parer suo, possono essere difese con probabilità di
successo.
Stia pure così la faccenda, quantunque non mi sia agevole staccarmi
dal sommo bene di Polemone e dei Peripatetici e di un Antioco235 e
finora io non ritenga più probabile niente altro. Tuttavia io vedo
con quanta dolcezza il piacere ci blandisce i sensi; mi lascio
scivolar giù fino al punto da essere d’accordo con Epicuro o con
Aristippo; ma la virtù mi richiama o, piuttosto, mi trattiene con la
mano, afferma che quelle emozioni sono proprie dei bruti, mentre
essa accosta strettamente l’uomo al dio. Posso prendere la via di
mezzo; quindi, poiché Aristippo bada soltanto al corpo, quasi che
noi non avessimo affatto l’anima, e Zenone tiene in conto soltanto
l’anima, quasi che di corpo noi fossimo privi, mi atterrò a
Callifonte – la cui dottrina Carneade soleva difendere con tanto
zelo da suscitare l’impressione di darle anche il suo beneplacito
(quantunque clitomaco solesse affermare di non essere mai riuscito a
capire che cosa ricevesse F approvazione da parte di Carneade) –. Ma
se io volessi attenermi, per l’appunto, al sommo bene di Callifonte,
l’austerità e la serietà e la retta ragione mi farebbero questa
obiezione: “Proprio tu, mentre la rettitudine morale risiede nel
disprezzo del piacere, vuoi accoppiarla con quest’ultimo, come se
accoppiassi un uomo con una bestia?”.
Rimane, dunque, in lizza una coppia sola: piacere e rettitudine
morale. Intorno ad essa, a quel che io penso, Crisippo non dovette
far molti sforzi. Se tu segui il primo, molte cose vanno a
catafascio e in modo particolare la solidarietà del genere umano,
l’affetto, l’amicizia, la giustizia, le altre virtù, nessuna delle
quali può esistere se non è disinteressata: difatti quella che è
spinta al dovere dal piacere – ossia da una qualche compensazione –
non è virtù, ma ingannevole imitazione e simulazione di essa. Ma tu
ascolta, altresì, da parte di quanti affermano di non capire neppure
il nome di rettitudine morale [honestatis] (a meno che non
intendiamo chiamare onesto ciò che riscuote la gloria presso il
volgo), che la fonte di tutti i beni risiede nel corpo, che questa è
la norma, questa la regola, questa la prescrizione della natura e
che chi abbia derogato da essa non avrà mai nulla da seguire nella
vita.
Pensate, dunque, che io non rimanga scosso nell’udire queste ed
altre infinite asserzioni? Rimango scosso quanto te, o Lucullo, e
non credermi meno uomo di te! La sola differenza sta in questo: che,
quando sei rimasto scosso, tu fai concessioni, tu dai l’assenso, dai
l’approvazione, pretendi che quella determinata cosa sia risultata
vera, certa, compresa, percepita, ratificata, confermata, fissata, e
non è possibile che alcun ragionamento ti scacci o ti rimuova da
essa; io, invece, giudico che nessuna cosa ha caratteristiche tali
che, se io le ho dato il mio assenso, non lo dia sovente al falso,
poiché il vero non è separato dal falso per mezzo di alcuna
rappresentazione distinta, soprattutto perché codesti vostri
“criteri” della dialettica non sono proprio nulla.
E vengo ormai alla terza parte della filosofia.
Uno è il giudizio di Protagora, il quale reputa che per ciascuno è
vero quello che a ciascuno appare, un altro è quello dei Cirenaici,
i quali stimano che non esista alcun criterio tranne le affezioni
interne, un altro è quello di Epicuro, il quale ripone ogni criterio
nei sensi e nelle “nozioni” delle cose e nel piacere; da parte sua
Platone ha preteso che ogni giudizio di verità – anzi la verità
stessa – si sottrae alle opinioni e ai sensi ed è proprietà
esclusiva del pensiero e dell’intelletto. A quale di queste teorie
dà il suo beneplacito il nostro Antioco? Egli non lo dà neppure a
quelle dei suoi predecessori. In che punto, infatti egli segue
Senocrate, di cui esistono molti libri di gran successo a proposito
del metodo del linguaggio236, oppure lo stesso Aristotele, di cui
non esiste indubbiamente nulla di più acuto e di più squisito? Da
Crisippo, invece, egli non stacca mai il suo piede!
Perché, dunque, ci chiamiamo “Accademici” (o almeno sfruttiamo la
fama di questo nome)? Ovvero perché ci si vuol costringere a seguire
filosofi che tra loro sono in disaccordo? Quanto è grave il
contrasto persino a proposito del seguente principio, che pure i
dialettici pongono tra i primi rudimenti della loro arte, vale a
dire, quale sia il modo in cui bisogna giudicare che si tratti di
vero o di falso quando si abbia un’articolazione sillogistica come
questa: “Se è giorno, c’è luce”! In un modo la pensa Diodoro237, in
un altro Filone238, in un altro ancora Crisippo239. E non basta. Su
quante questioni Crisippo è in contrasto col suo maestro Cleante! E
non basta! Anche due notabili della dialettica, Antipatro240 e
Archedemo241, uomini penetranti come spine242, non sono forse in
dissenso tra loro su molti problemi?
Perché, allora, o Lucullo, vuoi espormi all’odio e mi citi dinanzi
all’assemblea popolare e, come è usanza dei tribuni sediziosi, fai
anche scioperare tutte le botteghe? Invero, quella tua lagnanza
secondo cui noi sopprimiamo le arti, non mira ad altro se non a
promuovere una sollevazione di operai! Ma, se questi ultimi
affluiranno da ogni direzione in assemblea generale, non sarà
difficile aizzarli contro di voi. Io, infatti, metterò in rilievo,
in primo luogo, quelle vostre dottrine impopolari, ossia le vostre
asserzioni secondo cui tutti i presenti all’assemblea risultano
essere esuli, schiavi e pazzi. In secondo luogo, passerò a quei temi
che ormai non riguardano più la massa, ma voi stessi che siete qui
presenti. Difatti è proprio Zenone, è proprio Antioco a dichiarare
che voi non sapete un bel nulla. “E come? – dirai tu – Noi, per la
verità sosteniamo che anche il non-saggio ha la comprensione di
molte cose”. Ma voi affermate che nessuno conosce alcunché
eccetto il “saggio”; e anche ciò veniva espresso da Zenone243
con un gesto: con le dita completamente aperte faceva vedere il
palmo della mano: “Eccovi qui – egli diceva – la rappresentazione: è
così!”; poi contraeva un po’ le dita: “Questo qui è l’assenso!”; poi
le chiudeva interamente e mostrava il pugno e diceva che quella è la
comprensione e, fondandosi su questa similitudine, diede a quel
fenomeno anche il nome di ϰατάληΨις, che prima non esisteva; ma poi
accostava alla mano destra anche la sinistra e con quest’ultima
stringeva e comprimeva a viva forza il pugno che prima aveva fatto,
e diceva che quella è la scienza, il cui dominio non è riservato a
nessuno tranne che al saggio. Ma chi sia o sia stato questo
benedetto saggio non ce lo dicono di solito neanche loro. Così
adesso, o Catulo, tu non sai che c’è luce, e tu, Ortensio, non sai
che nei siamo nella tua villa.
Suscitano forse minor risentimento queste mie asserzioni? Esse,
anzi, non vengono neppure fatte con squisitezza di modi, mentre
quelle di prima hanno solo maggior sottigliezza. Ma, come tu
affermavi244 che crolla tutta la produzione artistica se si nega la
comprensibilità delle cose, e non intendevi concedermi che la
probabilità ha una validità bastevole a farci ammettere l’esistenza
delle arti, così ora io ti restituisco il colpo affermando che
l’arte non può esistere senza la scienza245. O forse Zeusi o Fidia o
Policleto sopporterebbero l’affermazione di non saper nulla, pur
possedendo così grande abilità artistica? Ma se qualcuno avesse loro
trasmesso con insegnamento tutta la forza che si dice appartenere
alla scienza, essi placherebbero i loro bollenti spiriti. Ma essi
non si sdegnerebbero neppure contro di noi, avendo acclarato che noi
eliminiamo ciò che non esiste in nessun luogo e che, invece,
lasciamo loro quello che basta.
Questo nostro modo di ragionare è confermato, del resto, anche dallo
scrupoloso comportamento dei nostri antenati, i quali pretesero in
primo luogo che ciascuno giudicasse secondo il convincimento della
propria coscienza, e in secondo luogo che ciascuno fosse ritenuto
responsabile se ingannava a ragion veduta, dal momento che è grande
l’ignoranza che si trova nella nostra esistenza; inoltre essi
pretesero che chi fosse chiamato a testimoniare affermasse di
“presumere” di aver visto anche quelle cose che avesse visto
realmente, e che quante cose i giudici giurati avessero acclarato
venissero rese note non in quanto fossero realmente accadute, bensì
in quanto “sembrasse” che fossero accadute o no246.
Ma i marinai, o Lucullo, ci fanno segno che ormai è tempo per noi di
metterci in mare, e la brezza ce lo suggerisce col suo sussurro, ed
io ho già parlato molto: perciò mi resta solo da fare la perorazione
finale. Nel futuro, comunque, quando riprenderemo queste nostre
indagini, ci metteremo a discutere dei gravi disaccordi che
sussistono tra gli uomini più eccellenti, della misteriosa oscurità
della natura, degli erramenti di tanti filosofi che, a proposito dei
beni e dei mali, sono tra loro in un dissidio tanto grave che, se la
verità non può essere che una sola, inevitabilmente rimangono
atterrate tante dottrine filosofiche pur così famose. E daremo
senz’altro la preferenza a questioni come queste, piuttosto che
metterci a discutere degli errori degli occñi e degli altri sensi o
del “sorite” o dello “pseudomeno”, ossia di quelle reti che, alla
fine dei conti, gli Stoici hanno tessute contro se stessi».
Allora Lucullo: «Sono ben contento che abbiamo fatto questo
dibattito. Riunendoci più spesso a convegno, specialmente nelle
nostre ville di Tuscolo, faremo le indagini su quegli argomenti che
ci sembreranno opportuni».
«Benissimo! – soggiunsi – Ma che cosa ne pensa Catulo? Che cosa
Ortensio?».
Allora Catulo intervenne: «Proprio io? Mi rifaccio al modo di
pensare di mio padre. Egli diceva di pensarla come Carneade: di
conseguenza io credo che nulla può essere percepito, e ritengo che
il saggio darà l’assenso a ciò che non è stato percepito, vale a
dire che egli formulerà opinioni, ma le formulerà in modo tale da
avere la consapevolezza di opinare e di sapere che non c’è niente
che sia comprensibile e percepibile. Perciò, confermando quella
famosa “epoche” su tutte le cose, do la mia più piena approvazione a
quest’altro punto di vista, ossia che non c’è nulla che si possa
percepire»247.
Allora io dissi: «Ho il tuo parere e non lo disprezzo del tutto. E
tu, alfine, cosa ne pensi, Ortensio?».
E quest’ultimo, con un sorriso: «Che si debbano levare le
ancore!»248.
«Ti prendo in parola! – conclusi – Proprio così la pensa, infatti,
anche l’Accademia!».
Ecco come ebbe fine la conversazione: Catulo rimase lì e noi ce ne
scendemmo ai nostri battelli.
1. L. Licinio Lucullo (120?-58/6 a. C.) fu una delle personalità più
notevoli dell’età ciceroniana. All’energia dell’uomo d’azione che
egli seppe dimostrare nella guerra contro Mitridate si disposavano
interessi culturali da lui coltivati soprattutto dopo il ritiro
dall’attività politica. Plutarco ne scrisse una stupenda biografia.
II giudizio pubblicamente elogiativo di Cicerone in quest’opera non
corrisponde, però, a certi giudizi privati di Cicerone stesso. S cri
vendo ad Attico (I, 10, 1), questi esprime un certo disprezzo per
Lucullo e in un’altra lettera allo stesso amico (II, 9, 1) allude
alle celebri cene luculliane chiamando questo suo protagonista
«piscinarii nostri». Del resto, nel rifacimento degli Academica
avrebbe voluto sostituirlo con l’austero Catone Uticense.
2. Fra le due cariche doveva intercorrere un biennio; ma Silla, con
una legge speciale, favori in modo particolare Lucullo, suo amico.
Per l’espressione cfr. CIC. Brut. 224; VAL. MAX., III, 7, 9.
3. Q. Ortensio Ortalo, maestro ed amico di Cicerone, che gli dedicò
la celebre opera omonima.
4. Per l’importanza dell’arte mnemónica, di cui si tramanda come
fondatore Simonide di Ceo, cfr. CIC. De or. II, LXXXVI, 351 segg.;
Part. orat. VII, 25; De fin. II, XXXII, 104; Tuse. I, XXIV, 59;
PLIN. Nat. hist. VII, 89.
5. Mitridate, che i Romani chiamarono l’«Annibale asiatico» (cfr.
IUSTIN. XXXVII, I, 7).
6. Infatti C. Memmio (PLUTARCH. Lucull. 37, 2) lo aveva accusato di
peculato e di lentezza nella condotta della guerra.
7. Per questa celebre ispezione dell’Africano Minore in Egitto e in
Asia cfr. IUSTIN. XXXVIII, 6; CIC. De rep. III, 47; VI, 11;
PLUTARCH. Apophthegm 200f. Fecero parte dell’ambasceria anche Sp.
Mummio e L. Metello.
8. Allusione all’Hortensius.
9. L’espressione è di origine senofanea (cfr. DIOG. LAERT. IX, 20) o
risale addirittura ad Anacarsi (cfr. ibidem I, 103).
10. È, questo, un modo neo-accademico di intendere il mito platonico
della caverna.
11. Q. Lutazio Catulo (120-61 a. C.) fu amico di Cicerone e
avversario di Cesare, da lui accusato nel 63 a. C. A lui Cicerone
intitolô il perduto Academicus primus (cfr. REID, pp. 39-46).
12. Discepolo di Clitomaco e seguace di Filone nella polemica contro
Antioco.
13. In quest’opera, di cui ignoriamo il titolo, Filone difendeva il
probabilismo di Carneade con maggiore intransigenza di quanto avesse
fatto precedentemente.
14. Dei due Seli non sappiamo nulla; per Rogo cfr. CIC. Ad fam. VII,
12.
15. Dal nome di un filosofo compatriota di Antioco e suo amico che,
forse, era passato dall’Accademia alla Stoa.
16. Fu maestro di Bruto ad Atene (cfr. CIC. Varro III, 12).
17. Aristone di Alessandria, amico di Andronico di Rodi, fu studioso
di lógica e commenté le Categorie e, forse, gli Analitici Primi di
Aristotele (cfr. DIOG. LAERT. VII, 164).
18. Dione di Alessandria sembra essere stato, al pari di Aristone,
un peripatetico: mori av velenato da Tolomeo Aulete, di cui era
stato accusatore presso il senato romano (cfr. CIC. Pro Caelio XXI,
51).
19. Poiché Filone cercava di ricondurre, con un certo eclettismo,
l’Accademia Nuova a quella Antica e in tal modo spianava già la via
alla più dommatica riforma di Antioco, giustamente Lucullo
preferisce esaminare direttamente il pensiero di Arcesilao e di
Carneade, che furono molto più intransigent verso ogni compromesso
col dommatismo.
20. I Filoniani non si lasciavano sfuggire ogni occasione per
mettere in evidenza i lati scetticheggianti dei Presocratici (cfr.
CIC. Varro XII, 44). Così si sarebbero comportati anche, pur con
maggior senso critico, i Neo-pirroniani (cfr. SEXT. EMP. Pyrrh. hyp.
I, 210 segg.; Adv. log. I, 48 segg.).
21. Anzi appunto per questo loro primitivo ed ingenuo dommatismo
erano stati criticati già da Platone e da Aristotele.
22. C. Fannio Strabone (II sec. a. C.) fece parte del circolo degli
Scipioni e fu autore di Annales (cfr. CIC. Brut. XXI, 81; Ad Att.
XII, 5, 3).
23. Erroneamente Lucullo attribuisce già ad Arcesilao quello che
era, invece, un pensiero di Antioco, ossia la sostanziale dipendenza
delle dottrine stoiche dall’Accademia Antica.
24. Autore, fra l’altro, di un trattato contro la retorica (cfr.
QUINT. I, 15 ATHEN. XIII, 602c). Il Reid invece di Agnone riporta
Eschine, che fu alliev di Melanzio (cfr. DIOG. LAERT. II, 14).
25. Per questo originale interprete del Carneadismo cfr. CIC. De or.
II, LXXXVIII; Tuse. I, XXV, 59.
26. Cfr. DIOG. LAERT. II, 64.
27. A lui risale un’interpretazione meno intransigente del
Carneadismo e un’apertura verso quelle che saranno le posizioni di
Filone.
28. Si tratta di Stoici intransigenti, i quali ritenevano «cosa non
solo molto infelice, ma anche molto sciocca venire ai ferri corti e
battagliare con gente cattiva e disperata [ossia gli Scettici]»
(NONIUS p. 65, Frg 12 ex tertio libro Acad.).
29. Cfr. IV, 12.
30. Per questa definizione, risultante da tutto un laborioso
pensamento e continuamente emendata dagli Stoici, cfr. DIOG. LAERT.
VII, 50 e SEXT. EMP. Pyrrh. hyp. II, 4; Adv. log. I, 248.
31. Ossia alla soppressione della verità e alla negazione non solo
stoica, ma anche assoluta della comprensione: cosa che era contraria
all’intenzione di Filone.
32. Per questa posizione epicurea cfr. CIC. De divin. II, L, 103.
Per corretta sensazione cfr. SEXT. EMP. Adv. log. I, 258.
33. Tragedia di Pacuvio (cfr. CIC. De divin. II, LXIV, 133; De or.
II 255).
34. Tragedia di Ennio.
35. Cfr. SEXT. EMP. Adv. log. I, 161. Osserva il Reid (ad hoc) «With
the Cyrenaics the πάοος of the mind was the sole test of truth».
36. Per una confutazione di questa concezione etico-dommatica
sostenuta soprattutto dagli Stoici cfr. SEXT. EMP. Pyrrh. hyp. III,
188-212; Adv. et) 173 segg.
37. Per questa definizione, che Lucullo ovviamente desume dal Sosus
di Antioco, cfr. SEXT. EMP. Adv. log. II, 181, 314; Pyrrh. hyp. II,
143; DIOC LAERT. VII, 45; PS.-PLAT. Def. 414.
38. Ossia i Filoniani.
39. Nel perduto Catulus. Per la seguente obiezione antiscettica cfr.
SEXI EMP. Pyrrh. hyp. I, 197 e soprattutto Adv. log. II, 281.
40. Cfr. Stoic. vet. frag. III, Ant. 21 Arnim. Per le
controargomentazioni Carneadee cfr. SEXT. EMP. Pyrrh. hyp. I, 14;
Adv. log. II, 480-481; DIOC LAERT. IX, 74, 75, 103, 104; SEN. Ep. ad
Luc. LXXXVIII, 45.
41. Ossia l’evidenza (cfr. CIC. De nat. deor. I, 6; SEXT. EMP.
Pyrrh. hyp. I, 20).
42. Che gli Stoici consideravano «tesoro della rappresentazione»
(cfr, SEXT. EMP. Adv. log. I, 373) e alla quale già Platone (Phaed.
96b) e Aristotele (An. Post. II, 19, 99 b 36) avevano conferito un
importante ruolo gnoseologic.
43. Anche gli Scettici e i Medici Empirici ammettevano il «passaggio
del simile» (cfr. SEXT. EMP. Adv. eth. 250 segg.).
44. Il primo di questi due termini era preferito dagli Stoici, il
secondo dagli Epicurei. Secondo molti studiosi, soprattutto secondo
Madvig, Cicerone sarebbe stato molto superficiale nell’accostamento
dei due termini; ma una efficace difesa dell’autore è stata fatta
dal Reid (pp. 213-4).
45. In VI, 17.
46. Cft. V, 14; DIOG. LAERT. IX, 72.
47. Allusione ai Filoniani, che attenuavano la scepsi di Arcesilao e
dello con artificiosa circospezione che con autentica coerenza
logica.
48. Una più dettagliata notizia su questa teoria Carneadea della
rappresentazione è in SEXT. EMP. Pyrrh. hyp. I, 226-231 e Adv. log.
I, 166-189.
49. Ossia alla pura rappresentazione, che già implica, secondo
Lucullo-Antioco, la netta distinzione del vero dal falso.
50. Si esprime qui il tentativo di recuperare l’idealismo platónico
attraverso la teoria stoica della rappresentazione.
51. Si tenga presente che una critica radicale al concetto stoico di
segno non venne fatta ex professo da Carneade, ma da Enesidemo e da
Sesto Empirico.
52. In VI, 19 segg.
53. In particolare nei capp. VI-VIII.
54. Allusione a quel libero arbitrio che gli stessi Carneadei
difendevano dai pericoli del determinismo (cfr. CIC. De fato XVII,
40 - XIX, 44).
55. Ossia nel perduto Catulus.
56. In XII, 38.
57. Giacché ripose ogni giudizio nei sensi e venne a negare
implicitamente il principio di non-contraddizione.
58. Non possiamo indicare alcun passo degli Academica cui Lucullo si
riferisca. É probabile che qui Cicerone si sia limitato a tradurre
dal Sosus di Antioco senza badare ad altro.
59. Un esame dettagliato di queste dottrine stoiche è nel De
divinatione, che Cicerone compose un anno dopo il Lucullus.
60. Ossia sogni ed allucinazioni.
61. Gli opposti, secondo la logica aristotelica, non ammettono
intermedi.
62. Infatti la μετάβασις εἰς ἄλλο γένος distruggerebbe il principio
di non contraddizione (cfr. sEXT. EMP. Pyrrh. hyp. I, 138). Molto
acutamente Antioco opponeva alle argomentazioni quantitativistiche
del probabilismo le argomentazioni qualitativistiche di origine
aristotelico-stoica.
63. L’evidenza, infatti, secondo gli Stoici ci induce quasi per i
capelli all’assenso. L’espressione era ripetuta in Acad. post. lib.
III (cfr. NON. p. 139).
64. Amico di Ennio, fu console nel 169 a. C. quando il poeta morï, e
si distinse molto per la sua eloquenza (cfr. CIC. Brut. XX, 78).
65. Ann. fr. 5 Warmington (cfr. CIC. Lucull. XXVII, 88; De rep. VI,
X, 10; LUCRET. I, 112 segg.).
66. Fr. 1 Warmington.
67. Fr. 37 Warmington.
68. L’integrazione è del Plasberg.
69. Di questa canzonatura accademica contro i fisici sono esempi in
CIC. De divin. II, XIII, 30; XXVI, 57; LVIII, 120; LXIV, 133; LXVII,
137.
70. Cfr. 68 A 80-81 Diels-Kranz.
71. È probabile che in questa sezione del Lucullus, come in altre,
Cicerone abbia ampiamente utilizzato il Περὶ ἐποχῆς di Clitomaco.
72. L’integrazione è suggerita dal Marmorale.
73. Si tratta di Publio e Quinto Servilio, vissuti durante la prima
guerra punica: la loro perfetta somiglianza li faceva paragonare ai
due re di Sparta Proclo ed Euristene (cfr. HERODOT. VI, 52; CIC. De
divin. II, XLIII, 90-91.)
74. Per questa locuzione cfr. PLAUT. Aulul. 55-56.
75. Tanto i Filoniani quanto gli Antiochiani si rifacevano, a modo
loro, all’idealismo di Platone: i primi per dargli una svolta
scettico-probabilistica, i secondi per adeguarlo al dommatismo della
Stoa.
76. L’allusione è diretta piuttosto a Filone che a Clitomaco (cfr.
XXIV, 78).
77. Nel discorso di Catulo nell’opera omonima.
78. Non con l’Hortensius, che fu scritto quando già Ortensio era
morto, ma con assidue conversazioni familiari.
79. Lucullo allude alla lotta di Cicerone contro Catilina e in
particolare al passo IV, 10 della prima Catilinaria. Il frequente
uso che Cicerone faceva del termine «comperisse» o «compertum habeo»
trasformò l’espressione in un ritornello canzonatorio contro lo
stesso oratore.
80. Antioco, infatti, aveva seguito Filone e il probabilismo per
lunghi anni (cfr. XXII, 69).
81. ARAT. Phaen. 39.
82. Ibid. 43. Per l’improprietà delle due autocitazioni cfr. L.
GAMBERALE, Tradizione indiretta di Cicerone in Cicerone: le opere
poetiche, «Ciceroniana», I, Roma, 1973, p. 110.
83. Per questa posizione arcesilea cfr. SEXT. EMP. Adv. log. I,
153-157.
84. Circa il carattere dommatico del segno «indicativo» e il
contrasto con quello «commemorativo» accettato dagli Scettici cfr.
SEXT. EMP. Adv. log. II, 141 segg.
85. Circa questi due stoici paneziani cfr. Stoic, phil. ind. herc.
col. 78; POHLENZ, La Stoa, I, pp. 500-1.
86. Le vecchie tabernae presso il foro erano state distrutte da un
incendio e poi furono ricostruite ad opera del censore Menio intorno
al 338 a. C. (cfr LIV. XXVI, 27): era una specie di Via dei Condotti
dell’antichità.
87. Questo pensatore, già seguace di Zenone di Cizio, si era poi
convertito all’Epicureismo ed era stato il quarto scolarca del
Giardino (cfr. DIOG. LAERT VII, 166; CIC. De fin. V, XXXI, 94, ove
la causa della conversione è attribuita ad un’insopportabile
malattia agli occhi).
88. In V, 13.
89. Cfr. 59 A 97 Diels-Kranz; SEXT. EMP. Pyrrh. hyp. I, 33; Adv.
log. I, 90.
90. Cfr. 68 B 165 Diels-Kranz. Queste parole erano all’inizio del
Περὶ φύσες di Democrito (cfr. DIOG. LAERT. IX, 46).
91. L’ultima classe degli aventi diritti civili secondo la
costituzione ser-viana (cfr. HOR. Serm. I, 2, 47).
92. Cfr. SEXT. EMP. Adv. log. I, 139. Tenebricosus è l’aggettivo
usato d Catullo (III, II) per indicare il cammino dell’Averno.
93. Per questo allievo di Democrito e maestro di Ippocrate cfr.
EUSEIPraep. ev. XIV, 19, 5; SEXT. EMP. Adv. log. I, 88; DIOG. LAERT.
IX, 58.
94. Cfr. V, 14.
95. Per questa interpretazione scettica degli Eleati cfr., tra
l’altro, SEXI EMP. Adv. log. I, no segg.; DIOG. LAERT. IX, 71-74.
96. In V, 14.
97. Cfr. CIC. Varro, IV, 15-18.
98. Cosi viene controbattuta l’interpretazione luculliana di V, 15.
99. Il demagogo cui ha alluso Lucullo in V, 13.
100. Uno dei massimi esponenti della scuola megarica: fu, tra
l’altro, maestro dello stoico Zenone (cfr. DIOG. LAERT. VII, 2 =
test. 168 Dõring).
101. Diodoro Crono, il massimo dialettico dei Megarici (cfr. test.
76 Dòring).
102. Alessino di Elide, discepolo di Eubulide di Mileto, polemizzò
molto contro Zenone e la Stoa (cfr. DIOG. LAERT. II, 109-110; Sext.
Emp. Adv. phys. I, 104, 108).
103. Cfr. DIOG. LAERT. II, 86, 92; SEXT. EMP. Adv, log. I, 190-200;
GUTHRIE, A History of Greek Philosophy, III, pp. 495 segg.
104. In VI, 16.
105. Cfr. VI, 18.
106. Cicerone, rifacendosi alla fonte più diretta di Carneade, mira
– almeno in questo passo – ad evitare le interpretazioni alquanto
attenuate del Carneadismo che erano state proposte da Metrodoro di
Stratonica e da Filone di Larissa prima che quest’ultimo aprisse la
polemica contro Antioco e facesse macchina indietro (cfr. AUGUSTIN.
Contra Acad. III, 41).
107. In VII, 19. Secondo Cicerone le affermazioni di Lucullo a
favore della conoscenza sensibile sono fondate su artifici retorici
(τóποι).
108. Nel Catulus.
109. Visse nel II sec. a. C. e si interessò soprattutto di questioni
politiche e letterarie (cfr. PHILIPPSON, Der Epik. Timag., «Berliner
Philol. Woch.», 1918, p. 1072). Rilievi simili a quelli di Timagora
sono in LUCRET. IV, 465 segg.
110. Cfr. VII, 19.
111. Cicerone si rifa qui alle polemiche neo-accademiche contro la
concezione stoica della Frovvidenza (cfr. De nat. deor. III, XXI, 65
segg.).
112. Per quest’amico di Cicerone cfr. Ad fam. XII, 75; 79.
113. Uno dei due portici di Pozzuoli; l’altro era quello di Ercole.
114. Si tratta di un certo Strabone che riusciva a scorgere da
Lilibeo la flotta cartaginese che salpava dall’Africa (cfr. PLIN.
Nat. hist., VII, 85).
115. Per l’esempio cfr. LUCRET. IV, 385 segg.; SEXT. EMP. Pyrrh.
hyp. I, 107; Adv. log. I, 414; Sen. Quaest. nat. VII, 25, 7.
116. Cfr. DIOG. LAERT. X, 91 = p. 39, 2 ss. Usener. Epicuro assumeva
una posizione di critica rispetto alla credenza popolare che
stabiliva 1: 18 come rapporto terra-sole (cfr., tra l’altro, STOB.
Phys. p. 524 Heeren).
117. Cfr. XXV, 79.
118. Cfr. XXIV, 77.
119. Per l’esempio di questi due celebri gemelli cfr. XVIII, 56.
120. XVI, 50.
121. Cfr. XVIII, 57.
122. In VII, 20.
123. Cfr. X, 30.
124. In XXXVI, 117.
125. In XVII, 55.
126. In XV, 46.
127. In XVI, 51 e in XVII, 52.
128. Ann. fr. 6 Warmington (cfr. DONAT. In Ter. Eunuch. III, 5, 12).
129. Cicerone allude alla celebre scena dell’ Iliona di Pacuvio in
cui il fantasma di Deifilo, figlio di Iliona, appare alla madre che
lo aveva fatto uccidere in sostituzione di Polidoro (cfr. Tusc. I,
XLIV, 106).
130. Costui, in accessi di follia generosa, lanciava manciate di
denaro al popolo (cfr. CIC. Philip. III, VI, 16).
131. Probabilmente Aiace Telamonio in una tragedia di cui ignoriamo
anche il nome dell’autore (per qualcosa di simile cfr. SOPH. Aiax
100. segg.).
132. Cfr. EURIP. Herc. fur. 982 segg. L’episodio è ricordato anche
in SEXT. EMP. Adv. log. I, 405 segg.; II, 67.
133. Ricordato da Lucullo in XVII, 52.
134. I seguenti versi dell’ Alcmeone di Ennio costituiscono i frr.
30-36 Warmington.
135.. Per questa definizione, criticata dagli Scettici, cfr. SEXT.
EMP. Pyrrh hyp. II, 229; DIOG. LAERT. VII, 60.
136. In XVI, 49.
137. Per l’espressione cfr. SEXT. EMP. Pyrrh. hyp. II, 244, 253;
III, 66; EPICTET. Diatr. II, 18, 18; DIOG. LAERT. VII, 197.
138. Ossia la dialettica.
139. La medesima similitudine è in PLAT. Phaed.84a ed è usata da
Cicerone anche in De or. II, 258.
140. Altrove Cicerone traduce il termine greco con ratio
enuntiationis (De fato I, 1) o con enuntiatio (ibid. X, 20) o con
pronuntiatum (Tuse. I, 14).
141. È, questo, il celebre sofisma dello Ψενδóμενον, attribuito ad
Eubu-lide di Mileto (cfr. GELL. XVIII, 2; DIOG. LAERT. II, 108; A.
RüSTOW, Der Lügner, Diss. Erlangen, 1910).
142. Ossia ϰατάληπτα (cfr. VI, 18).
143. Si tratta delle premesse del sillogismo ipotetico, che gli
Stoici avevano sostituito a quello categorico di Aristotele (vedasi
SESTO EMPIRICO, Contro i logici, pp. xxxviii segg.).
144. In quanto costoro potevano sollevare I’exceptio o inter cessio,
ossia il diritto di veto.
145. Su questo anti-dialettismo di Epicuro Cicerone ritorna in De
nat. deor. I, XXV, 70; De fato, IX, 19. In realtà la logica epicurea
opponeva il metodo induttivo a quello dialettico, come è attestato
dal Περὶ σημείων ϰαὶσημειώσεν di Filodemo.
146. Ermarco di Mitilene, qui citato solo come esempio, fu allievo
di Epicuro e diresse la scuola alla morte del Maestro (cfr. DIOG.
LAERT. X, 15 segg.). Analogo uso della disgiunzione è in CIC. De
fato XVI, 37.
147. Diogene di Babilonia aveva insegnato la dialettica a Carneade:
perciò, se quest’ultimo sbagliava, la colpa ricadeva sul suo maestro
che non glieFaveva fatta ben capire. L’aneddoto ricorda quello
famosissimo di Tisia e Corace riportato da Sesto (Adv. math. II,
96-99).
148. Carneade, da buon platonico, applicava il metodo diairetico a
proposito della rappresentazione, e che una siffatta applicazione
gli fosse consueta è provato anche dalla divisione dei fini
riportata in CIC. De fin. V, VI, 16 segg.
149. In X, 31.
150. Il famoso «saggio» stoico, che lo stesso Crisippo considerava
introvabile.
151. Per Cicerone «probabile» e «verosimile» continuano ad
identificarsi.
152. Qui il calcolo delle probabilità gioca maggiormente a favore
della precisione.
153. Cfr. XXIII, 72.
155. Nel 149 a. C. (cfr. CIC. Brut. XV, 61).
154. In XXXI, 98.
156. Sostenuta in VI, 17.
157. In VII, 22.
158. Polieno di Lampsaco fu allievo molto caro di Epicuro (cfr. CIC.
De fin. I, VI, 20; Sen. Ad Luc. I, 6, 6).
159. Di origine sira, si stabilì a Napoli ed ebbe come allievo
Virgilio. Cicerone ne parla più di una volta con ammirazione (Ad
fam, VI, 11, 2; De fin. ZI, 35, 119).
160. Anche dai Medici Empirici e dai Neopirroniani la memoria
continuerà ad essere preservata nonostante il ritorno di fiamma
della scepsi e dell’ἐποχή.
161. Ossia la dialettica, come in XXIX, 94.
162. Per l’opposizione di Panezio all’astrologia cfr. CIC. De divin.
II, XLII, 88; XLVII, 97.
163. Seguendo, cioè, le indicazioni di Crisippo (cfr. XXIX, 93).
164. Come è stato sostenuto da Lucullo in XII 39.
165. Come è detto in Varro XI, 41.
166. Evidente glossa marginale da espungere.
167. Cfr. IX, 28.
168. Fatta in IX, 29.
169. Questa concessione filoniano-ciceroniana sarà ritirata dai
Neo-pirroniani (cfr. SEXT. EMP. Pyrrh. hyp. I, 34) a favore di una
scepsi più radicale.
170. Come lo ha accusato Lucullo in X, 31.
171. In XIV, 44.
172. Questa sezione del Lucullus va inserita nel recupero filoniano
dell’Accademia Antica e del Peripato attraverso la mediazione del
probabilismo.
173. Quest’approvazione vien data con ironia, altrimenti crollerebbe
tutto il castello probabilistico che Cicerone sta costruendo.
174. Si ricorderà che la concezione ciceroniana dell’oratore in gran
parte uno sviluppo di dottrine peripatetiche. In questo passo
Cicerone fa scattare il tropo scettico della διαφωνία.
175. In particolare di Sirone e di Filodemo, di Attico, di Saufeio,
di Torquato, di Xenone e di Patrone, tutti amici di Cicerone.
176. Eccellente dialettico e maestro di Cicerone (cfr. Brut. LXXX,
309).
177. Ad esempio in XX, 66 e in XXXIII, 105.
178. Si riscontrano qui, sotto l’influsso Carneadeo-filoniano e non
senza qualche inferenza peripatetica, le prime avvisaglie di quella
polemica contro la matematica che sarà approfondita da Sesto
Empirico in particolare in Adv. math. III-IV.
179. L’integrazione è suggerita dal Plasberg sulla base di una
definizione varroniana riportata in GELL. I, 20.
180. Cfr. De nat. deor. I, X, 25 = 11 A 23 Diels-Kranz. Per
un’analoga esposizione delle varie teorie fisiche cfr. SEXT. EMP.
Pyrrh. hyp. Ili, 30 segg. Non è improbabile che fonte comune di
Cicerone e di Sesto sia stato il Περὶαἱρέσεων di Clitomaco. Da
notare, comunque, che alcune testimonianze ciceroniane sono
abbastanza precise, mentre altre sono confuse, frettolose o persino
scorrette.
181. Cfr. 12 A 13 Diels-Kranz.
182. Cfr. 13 A 9 Diels-Kranz.
183. Cfr. 59 A 49 Diels-Kranz.
184. Cfr. 21 A 4, 34 Diels-Kranz.
185. Cfr. 28 A 35 Diels-Kranz; un approfondimento è in ARISTOT. De
gen. et corr. II, 3, 330b 13 segg.
186. Cfr. 67 A 8 Diels-Kranz.
187. Cfr. 30 A 9 Diels-Kranz.
188. Tim. 51a.
189. Su questa dottrina stoica (negata da Panezio e da Boeto)
Cicerone torna in De fin. III, XIX, 64; De nat. deor. II, XLVI, 118
segg.; De divin. I, 49.
190. L’ammissione è solo ironica.
191. Probabilmente Cicerone attinge qui al perduto Περὶ φιλοσοφίαα
di Aristotele. Per analogo giudizio cfr. Top. 3; De or. I, 49;
Brut.101, etc.
192. Sull’argomento Cicerone torna in De nat. deor. III, XXV-XXIX
passim. Per un’affinità degli Accademici con gli Epicurei cfr.
LUCRET. V.
193. Mirmecide e Callicrate furono creatori di giocattoli e di
meccanismi invisibili (cfr. PLIN. Nat. hist. VII, 21, 85; XXXVI, 6,
44).
194. Che accostò la fisica aristotelica a quella democritea (cfr. 68
A 80 Diels-Kranz; fr. 32 Wehrli). La polemica di Stratone era
rivolta in particolare contro Platone (Tim. 28a segg.) e contro
Crisippo (Stoic, vet. frag. II, 304, 526 Arnim).
195. Ossia con Democrito.
196. In questa sezione Cicerone, sull’esempio di Carneade, si mostra
propenso ad accettare argomentazioni epicuree: ma si tratta solo di
tatticismo dialettico.
197. Questi spunti neo-accademici verranno approfonditi ed estesi al
concetto stesso di corpo dai Neo-pirroniani (cfr. SEXT. EMP. Pyrrh.
hyp. III, 38-55; Adv. phys. I, 366 segg.). Un’estensione dell’ἐποχή
dal corpo a tutto l’uomo è drammaticamente fatta da Sesto in Adv.
log. I, 263 segg.
198. Test. 66 Deichgräber.
199. Come sostenevano rispettivamente Senofane ed Anassimandro (cfr.
21 A 47 Diels-Kranz).
200. Per l’imprecisione di Cicerone cfr. DIELS, Doxogr. graec.121 n.
1: l’autore, infatti, confonde Senofane con Anassagora (DIOG.
LAERT., II, 8).
201. Questa celebre concezione della geografia classica, che provocò
tante discussioni nell’età medievale (cfr. AUGUSTIN. De civ. Dei
XVI, 9; LACTANT. Div. inst. III, 23), risaliva ai Pitagorici (58 B
Diels-Kranz) e fu prospettata ampiamente da Platone (Phaed. 108a
segg.; Tim.65a), come è attestato anche da Diogene Laerzio (III,
24).
202. Le dottrine geografiche di questo pitagorico, che hanno fatto
pensare ad un precorrimento di Aristarco di Samo, trovano in questo
passo ciceroniano la loro massima testimonianza (cfr. 50, 1
Diels-Kranz). Il passo colpì Copernico, che ne trasse il primo
spunto per le sue teorie eliocentriche, come risulta da una sua
lettera del 1543 a Papa Paolo III.
203. Tim.40b.
204. Così il Lambinus sulla base di XXVI, 82.
205. Test. 8f Wehrli. Cicerone ribadisce ciò in Tusc. I, X, 21.
206. Cfr. PLAT. Resp. IV, 439d segg.; Cíe. Tusc. I, X, 20.
207. Per la complessa concezione senocratea dell’anima si rinvia
alla nota di M. Isnardi-Parente in ZELLER-MONDOLFO, La filos, dei
Greci, parte II, vol. III, 2, pp. 970-7.
208. Per la concezione scettica dell’ἰσοσϑένεια cfr. SEXT. EMP.
Pyrrh. hyp. I, 8, 10, 190.
209. La scelta favorevole a Democrito non è affatto occasionale, ma
risale al Pirronismo originario, come abbiamo sottolineato nella
sezione riservata a pirrone.
210. Non è necessario supporre qui, col Reitzenstein, un’ampia
lacuna.
211. Cfr. Stoic. vet. frag. I, 154 Arnim.
212. Cfr. Stoic. vet. frag. I, 499 Arnim.
213. Discepolo e talora anche avversario di Zenone di Cizio (cfr.
CIC. De fin. I, XI, 35; De or. II, XVII, 62).
214. In XXXIX, 123. Sulla dipendenza dei Megarici dagli Eleati
insistevano spesso gli antichi (cfr. DIOG. LAERT. II, 106).
215. Test 26 A Döring.
216. Cfr. XXXIX, 123. Per l’accostamento di Aristone a Pirrone cfr.
Cic. De fin, IV, 43.
217. Per i filosofi che seguono vedasi la divisione Carneadea di De
fin. V, VI, 16 segg.
218. Test 9C Wehrli.
219. Test 4g Wehrli.
220. Cfr. Stoic, vet. frag. I, 181 Arnim.
221. In IX, 27.
222. Cfr. Varro, X, 25.
223. Cfr. XXXV, 113; De fin. V, 12, 17, 83; Tusc. V, 24.
224. Cicerone tende molto ad accostare l’etica dell’Accademia Antica
a quella aristotelica; egli si fondava probabilmente su una notevole
somiglianza tra la dottrina del πέρας, espressa da Platone nel
Filebo, e quella della μεσóτης, sostenuta da Aristotele nell’Etica
Nicomachea.
225. Per questo celebre trattato cfr. CIC. Tusc. I, XLVIII 115; II,
VI, 12; DIOG. LAERT. IV, 27.
226. Q. Elio Tuberone, nipote di Scipione Emiliano, fu allievo di
Panezio che gli dedicò il libro De dolore patiendo, ove erano
utilizzate molte meditazioni di Crantore (cfr. CIC. Brut. XXXI, 117;
Tuse. IV, II, 4).
227. Probabile rinvio alle Tusculanae disputationes.
228. Cicerone discute alcune di queste proposizioni in Paradox a
Stoicorum ad M. Brutum e proprio in quest’opera (§ 4) si insiste
sulla provenienza socratica dei paradossi stessi (cfr., del resto,
XENOPH. Mem. III, 9, 6).
229. Cfr. CIC. Brut. XXI, 81.
230. Ossia a Diogene di Babilonia.
231. Cfr. Stoic. vet. frag. III, 21 Arnim. Non è da escludere che
questa divisio Chrysippaea abbia suggerito lo spunto a Carneade per
fare la sua con maggiore ampiezza e precisione.
232. Allusione a Ieronimo (cfr. XLII, 131).
233. Allusione a Diodoro il Peripatetico (cfr. ibidem).
234. Allusione ai Peripatetici e agli Accademici o, exempli gratia,
a Carneade (cfr. ibidem).
235. Giacchè anche quest’ultimo non seguiva a pieno il rigorismo
stoico.
236. Cfr. DIOG. LAERT. IV, 13.
237. Per il pensiero di Diodoro Crono al riguardo cfr. XXIV, 75.
238. Probabile allusione al pirroniano Filone di Atene.
239. Cfr. XXIII, 73.
240. Cfr. VI, 17.
241. Esponente della Stoa Antica e condiscepolo di Apollodoro di
Seleucia (cfr. DIOG. LAERT. VII, 40, 68, 84, 88; EPICTET. Diatr. II,
197; POHLENZ, La Stoa, I, pp. 360, 380).
242. Ho seguito, col Marmorale, il suggerimento dello Hermann
(spinosissimi invece che opinosissimi dei codici). Il Reid si
attiene ai codici e vede nel termine (usato solo in TERTULL. Adv.
Marc. IV, 35) un’allusione ironica a certi atteggiamenti
marcatamente scettici dei due filosofi menzionati.
243. Cfr. Stoic, vet. frag. I, 66 Arnim; SEXT. EMP. Adv. log. VII,
153; Pyrrh. hyp. VII, 153.
244. In VII, 22.
245. Capovolgendo le posizioni, Cicerone sottintende questo
sillogismo: la scienza appartiene solo al saggio; l’artista non è
saggio; perciò l’artista non può compiere opera d’arte.
246. Cfr. Cic. Pro Font.19 ove si allude alla costumanza procedurale
di usare «arbitrer» anche per i fatti «comperta». Così, nella
conclusione, il probabilismo fa appello al fenomenismo. Per una
diversa teoria probabilistica bisognerà aspettare due millenni.
247. Si evince di qui che la posizione di Catulo è tanto rigidamente
Carneadea da accostarsi al pensiero di Arcesilao senza accettare la
riforma moderata di Filone di Larissa.
248. Ortensio risponde con un urbano doppio senso: infatti l’ancora
levata è un’immagine della sospensione del giudizio (cfr. CIC. Ad
Att. XIII, 21, 3).
Enesidemo – sulla cui vita e sulla cui epoca regna la massima
oscurità1 – è generalmente considerato il secondo fondatore dello
Scetticismo, che egli intese sganciare dall’interpretazione datane
dagli Accademici. Egli, che quasi certamente fu seguace non
occasionale di questa nobile e tormentata scuola, se ne staccò
soprattutto per opposizione all’indirizzo antiocheo, che ormai era
diventato palesemente dommatico, e per insofferenza anche nei
riguardi dell’indirizzo filoniano che, attenuando la sospensione del
giudizio col probabilismo e col retoricismo, aveva preparato la
crisi finale della scepsi accademica2. Ma Enesidemo non si sentiva
di accettare neppure il pensiero di Arcesilao e quello di Carneade,
che già gli sembrano tendenzialmente dominatici non solo per le
dottrine dell’εὔλογογ e dell πιϑαγóο, bensì anche per la recisa
negazione della comprensibilità di qualsiasi cosa, ossia per quel
dommatismo negativo che non avrebbe potuto conciliarsi con le
istanze «zetetiche» dello Scetticismo, come avrebbe, sulle orme di
Enesidemo, esplicitamente annotato Sesto Empirico3.
Tuttavia l’Accademia rimase sempre operante nel pensiero di
Enesidemo come grande palestra di dialettica, e il ritorno a Pirrone
ed a Timone è inconcepibile senza questa mediazione. I primi
fondatori dello Scetticismo non erano stati certamente digiuni, come
spesso si crede, di preparazione filosofica e variamente culturale,
ma non avevano fatto dell’«arte dei contrari» il loro cavallo di
battaglia: Enesidemo, invece, restaurò il Pirronismo su vigorose
basi dialettiche e quando, qualche secolo dopo di lui, Sesto
Empirico intese dare allo Scetticismo una ulteriore svolta
anti-razionalistica e intenzionalmente anti-dialettica, non poté
condurre le sue acute argomentazioni se non avvalendosi di
quell’arma possente4.
Secondo Enesidemo – che, non infondatamente, è stato spesso
accostato a Hume ed a Kant sia per la profondità speculativa sia per
i contenuti del suo pensiero5 – l’attrito col dommatismo non si
limita al problema della rappresentazione (sia essa «apprensiva»
come volevano gli Stoici, o «probabile» come voleva Carneade), ma si
estende al rapporto di fondo tra soggetto ed oggetto, tra l’uomo e
la realtà naturale delle cose6. Questo rapporto viene aperto dalla
sensazione; ma, poiché è impossibile che ogni conoscenza non cominci
dalla sensazione e poiché la sensazione è in sé stessa
contraddittoria, ne consegue che ogni conoscenza è impossibile, ed
ogni sforzo dell’intelletto è vano, giacché l’intelletto non può non
tener dietro alla sensazione e ne rimane necessariamente sempre
inficiato come da una macchia originale7. La gnoseologia soffre di
una contraddizione di fondo che non potrà mai essere superata.
Perciò è un’impresa assurda e disperata quella di voler andare al di
là dell’apparenza fenomenica, quantunque quest’ultima non possa non
lasciarci inappagati e delusi8. Enesidemo non si esalta di fronte a
quella soluzione fenomenistica che Protagora aveva già offerta col
suo relativismo, quantunque la relatività giochi il suo ruolo
importante non solo nella nostra attività teoretica, ma anche in
quella pratica. Per Protagora il fenomenismo e il relativismo non
segnavano la sconfitta della conoscenza, ma la determinavano nella
sua concreta essenza antropologica; per Enesidemo, invece, essi non
danno alcuna possibilità epistemologica di soluzione, ma lasciano
aperto il dramma conoscitivo. Le cose, infatti, continuano ad avere,
al di fuori di noi, una loro esistenza innegabile9, ma noi non le
conosciamo mai nella loro essenza, anche se mai abbandoniamo il
tentativo di svelarne il mistero. Così il problema gnoseologico
viene reso più difficile perché non può non rinviare a quello
ontologico10.
Su questa posizione doppiamente scettica, che da una parte ci libera
dalla prigione del dommatismo e dall’altra ci fa sentire nella non
meno angusta prigione del «non sapere» si svolge il dramma
filosofico di Enesidemo col suo bisogno catartico dell’epoche e
dell’atarassia. E il grande pensatore si preoccupa di dare alla sua
indagine i più ricchi approfondimenti; ma questi, quanto più
intendono non discostarsi dall’empiria e dal fenomeno, tanto più
celano istanze di ordine non empiristico e non fenomenistico11.
Forse già da quando ancora faceva parte dell’Accademia Enesidemo
dovette avvertire la necessità di dare una sistemazione a tutta
quella serie di argomentazioni e di aporie che dal primitivo
Pirronismo fino ai pensatori post-Carneadei erano state formulate
prima in difesa dell’afasia e poi in difesa dell’epoche. Perciò non
è improbabile che il primo contributo di Enesidemo alla scepsi sia
stato il quadro classificatorio dei «tropi»12, che assunsero il
numero canonico di dieci forse per essere contrapposti ai dieci
summa genera praedicabilia di Aristotele13. Ma è probabile che
personalmente Enesidemo non desse importanza al numero preciso,
giacché una schematizzazione troppo rigida poteva celare un risvolto
dommatico14. Certamente, però, egli non si propose alcuna «deduzione
trascendentale» dei tropi, come si sforzerà di fare –
paradossalmente – l’empirico Sesto15. Una simile deduzione implicava
la caduta nella metafisica: infatti dedurre, come farà Sesto, ogni
altro tropo dalla relatività significa fare, implicitamente,
del τòν ρτο un’σuiμα, cioè rovesciare Aristotele e
rimanere virtualmente aristotelici, come sarebbe accaduto tante
volte nel corso secolare del pensiero europeo. Di qui il carattere
empirico con cui Enesidemo intende contrassegnare la sua «tabella
delle categorie scettiche» e di qui anche i rimproveri da parte
della posteriore filosofia «speculativa»16 ed i commenti favorevoli
della posteriore metodologia filo-empiristica17. Che, però, questa
celebre tabella non appagasse del tutto gli stessi Scettici antichi
è provato dai posteriori emendamenti di Agrippa e dello stesso
Empirico. Enesidemo, invece, che pur era sensibilissimo alle
questioni di ordine logico-speculativo, volle limitarsi all’opera
del rapsodo, raccogliendo con omerica e quasi distratta dovizia di
particolari tutto quello che potesse portare acqua al mulino
dell’epochè18.
Enesidemo stesso, però, dovette avvertire l’alternativa tra una
interpretazione empiristica e un’interpretazione dialettica dello
Scetticismo, e forse la sua rapsodia tropologica segnò per lui lo
sganciamento liberatorio dalla dialettica accademica e, nel medesimo
tempo, il punto di partenza di una sua personale dialettica che
mirava ad essere più autenticamente pirroniana.
Il problema di fondo della tropologia – quello del rapporto tra
l’apparenza fenomenica e la realtà naturale delle cose – induceva
Enesidemo a dare un approfondito sviluppo alla disamina del criterio
di verità19. Questo criterio non può essere riposto né nei sensi né
nell’intelletto né nell’insieme di entrambi. I sensi non possono
essere criterio, perché la verità – ammettendo che possa essere
concepita e conseguita – anche per Enesidemo sarebbe un qualcosa di
razionale, mentre le nostre facoltà sensoriali – intese tanto nella
particolarità di ciascuna di esse quanto come sensibilità in
generale –non hanno nulla di razionale. Ma, d’altra parte, riporre
il criterio nell’intelletto – tanto se questo venga inteso come
qualcosa di comune a tutti, alla maniera di Eraclito20, quanto se
venga considerato come proprietà individuale di ognuno – significa
concepire una conoscenza che non abbia il suo punto di partenza
nella sensazione: il che è contrario ad ogni evidenza. Tra mundus
sensibilis e mundus intelligibilis esiste una frattura insanabile, e
se il primo dei due è in sé stesso contraddittorio, il secondo, che
pur vorrebbe avere una propria autonomia, non può riuscirvi, giacché
– come anche quasi tutti i Dommatici sono d’accordo – non c’è nulla
nell’intelletto che prima non sia stato nel senso. Perciò mescolare
i due mondi col ritenere come criterio l’insieme dei sensi e
dell’intelletto, ove pur fosse possibile, equivarrebbe ad un
raddoppiamento delle aporie. Ricorrere, poi, alla soluzione
probabilistica di Carneade col porre come criterio un’oscillazione
progressiva dallo zero all’unità significa pencolare tra il vero
(l’uno) e il falso (lo zero), senza adeguarsi a nessuno dei due: non
resta, allora, che la sospensione del giudizio.
A colmare l’abisso che divide il fenomeno e la
cosa-nella-sua-naturale-essenza non riesce alcun ritrovato dei
filosofi dommatici. Costoro, e in particolare gli Stoici, hanno
inventato tutta una particolare semeiotica la quale, secondo
Enesidemo, non regge ad un esame critico21. Infatti il segno, per
essere valido, dovrebbe rientrare tra le apparenze, ma, in tal caso,
già non avrebbe nulla a che vedere con la realtà delle cose e si
limiterebbe soltanto a significare sé stesso. D’altra parte sarebbe
assurdo concepirlo come non-apparente, giacché, se così fosse, una
cosa oscura verrebbe significata da un’altra cosa anch’essa oscura.
Ma i Dommatici sono anche capaci di sostenere una teoria di tal
genere, come è provato non solo dall’idealismo, che molti di loro
hanno giustamente criticato22, ma anche dalla loro logica
dimostrativa, che non è altro se non un’articolazione della
semeiotica. Invece di penetrare nella realtà sensibile, la
dimostrazione riduce quest’ultima a realtà intellegibile,
vanificando il fenomeno in un ragionamento discorsivo che, per
giunta, è fondato su un’ipotesi, come mostra la riforma stoica
dell’apodissi peripatetica23. Con tutti i suoi sforzi, quindi, la
dimostrazione non risolve il dissidio tra l’apparente e il non
apparente, ma lascia ciascuno dei due nello stato di prima.
Né vale l’aitiologia a risolvere la questione: il passaggio dalla
logica alla metafisica non è altro che il passaggio ad altre aporie.
A tal proposito Enesidemo sente il bisogno di dare una tropologia
della causalità, la quale ci sembra più autenticamente sua di quella
più celebre ma meno speculativa concernente la sospensione
dell’assenso24. Secondo questa tropologia la causa o si riduce essa
stessa a fenomeno, e allora la cosa nella sua naturale essenza
continua a rimanere oscura, oppure resta essa stessa una delle cose
oscure che, a loro volta, hanno bisogno di essere spiegate. A
quest’aporia di fondo si aggiungono le opzioni dei Dommatici, le
ipotesi che essi trasformano arbitrariamente in verità, gli
apriorismi ingiustificabili e, come se non bastasse, le
contraddizioni in cui i Dommatici vanno a cadere nel far funzionare
quelle cause che essi stessi hanno poste.
Il principio di causalità, su cui si reggeva ogni edifìcio
filosofico – fosse esso idealistico, materialistico oppure
organicistico – viene, così, a ricevere da questo Hume
dell’antichità un violento scossone. Ma bisogna anche tener presente
che la ricca aitiologia aristotelica25 era stata ridotta a mal
partito già dagli Stoici: le quattro cause, tra le quali Aristotele
aveva dato un ruolo distinto a quella finale, erano state ridotte ad
una sola, ossia a quella efficiente o agente, concepita per giunta
come anteriore ed esterna (post hoc, ergo propter hoc). E contro
questa si batte Enesidemo26, rilevando tutte le contraddizioni
insolubili tra corporeità e incorporeità, tra permanenza e
non-permanenza, tra simultaneità, anteriorità e posteriorità, tra
immanenza e trascendenza del principio operativo. Quest’ultimo non
potrà, infine, avere alcuna efficacia a causa delle aporie del
contatto. Soppressa, infatti, ogni possibilità che due entità di
qualsivoglia genere si tocchino tra loro, nessuna cosa può agire su
un’altra o patire da questa.
Il rapporto di causalità non può avere alcuna spiegazione razionale,
né ci può essere alcuna via d’uscita, se i due poli di questo
rapporto vengono posti analiticamente, come facevano gli antichi, e
non sinteticamente, come ha fatto la filosofia moderna. Carneade
aveva cominciato a dare alla questione un’aurorale prospettiva
sintetica col suo accurato studio della rappresentazione, come
abbiamo rilevato nella sezione di questa raccolta riservata a lui;
ma Enesidemo, escludendo recisamente che la rappresentazione,
comunque concepita, possa essere criterio di verità27, taglia corto
anche con quella prospettiva da cui il futuro soggettivismo sarebbe
partito per costruire una «metafisica dell’esperienza interna»28.
Tutte queste acutissime critiche conferivano al pensiero di
Enesidemo il carattere di una scepsi radicale, alla quale solo la
buona volontà del filosofo pirroniano poteva dare una soluzione
etica salutare. Pirrone aveva indicato la via della salvezza
nell’atarassia conseguente all’afasia e all’indifferenza; Enesidemo
crede di seguire l’antico maestro: dopo aver operato la demolizione
sistematica di tutte le «etiche» specifiche costruite durante
l’Ellenismo, egli si attiene ad un bene «generico» non meglio
identificabile, ma piuttosto astratto e formalistico, cioè
all’epoche, che di per sé già offre l’atarassia29.
Con Enesidemo, dunque, si tocca quello che può essere considerato il
vertice o il baratro dello Scetticismo. Il verbo di Pirrone ha
trovato, con lui, tutto il conforto di una ormai secolare esperienza
filosofica e tutta una formidabile articolazione logico-dialettica
cui le crisi stesse dello Scetticismo avevano dato un valido
contributo.
Ma gli Scettici antichi, sostenitori dell’atarassia, erano in realtà
inappagabili, e non per nulla i moderni, riferendosi a loro, hanno
usato il termine di «disperazione pirroniana»30. L’ombra di Banquo,
ossia di quel dommatismo che essi han creduto di sopprimere, li
perseguita sempre. E come i Dommatici si azzuffano tra loro per
quella «diafonia» così bene stigmatizzata dagli Scettici, così anche
questi ultimi sono disposti ad accusarsi reciprocamente di
dommatismo. Infatti Sesto Empirico, che tanto doveva ad Enesidemo e
che tante volte plaude all’eleganza e all’acutezza argomentativa del
suo predecessore, non gli risparmia l’accusa di essere stato
dommatico anche lui. L’espressione Aἰγησίδημος oppure οἱ περì τòν
Aἰγησίδημον ϰατὰ τòν ’ράϰλειτον, ripetuta più di una volta nel
Corpus sextianum31, ha suscitato e continua a suscitare molte
discussioni tra gli studiosi moderni32. Sono così validi e
suggestivi i pro e i contro di ogni soluzione prospettata che,
ancora una volta, si ha l’impressione di parlar di corde in casa di
impiccati e si propende anche qui per l’epoche, pensando che i
termini reali del problema sono destinati a rimanere oscuri
nonostante ogni impegno ermeneutico neiraccurata analisi dei singoli
passi in cui la fatidica espressione viene ripetuta. Essa può essere
intesa o Enesidemo «quando ancora seguiva Eraclito» o «quando seguì
Eraclito, dopo aver abbandonato lo Scetticismo» o «accostandosi, in
un certo qual modo, ad Eraclito» oppure, tirando un po’ il collo
alla lingua greca, «interpretando l’autentico pensiero di Eraclito
per purificarlo dalle incrostazioni stoiche specialmente di
Posidonio»; ma, comunque si faccia, il testo rimane sempre lì, come
il pascoliano libro del mistero, e nessuno ci può vietare la
suggestione di pensare che il grande Scettico non si sentisse immune
dal bisogno di estrapolare, con un salto mortale, le contraddizioni
inerenti alle sensazioni, ai πάϑη ed ai fenomeni in una più profonda
contraddizione immanente alla natura stessa delle cose. In molti
casi noi moderni siamo più dommatici degli antichi: gran parte di
noi, infatti, dopo aver ingurgitato tanta «metafisica» ammantata di
«storicismo» e di «dialettismo» e pur ostentando le più
spregiudicate aperture mentali, non vuole più sentir parlare di
«metafisica» come il padre del celebre cappuccino manzoniano non
tollerava che in sua presenza si usasse la parola «mercante» nemmeno
se si intendesse alludere, metaforicamente per giunta, alle sole
orecchie. Ma poiché la metafisica – anche ai nostri giorni e dopo
tante defenestrazioni – non è ancora disposta ad esalare l’ultimo
respiro, non ci sembra indispensabile usare tanta cautela
antimetafìsica a proposito di un antico pensatore di nome Enesidemo,
la cui vita, le cui crisi spirituali, i cui atti peccaminosi o
ammirevoli ci sono del tutto ignoti. I testi non ci permettono di
giungere a conclusioni senza che corriamo il rischio di pentircene
in un secondo momento. Una cosa soltanto si può chiedere: di non
aver tanta paura della metafisica e di non pretendere, con tutto il
nostro storicismo, che gli antichi subissero le nostre stesse
vicissitudini intellettuali, a meno che non si voglia ammettere che
in certi casi Veritas non est filia temporis. Un invito di tal
genere ci viene proprio dal grande Sesto Empirico che, pur avendo
preso le debite cautele contro i pericoli in cui era incorso
Enesidemo, seppe guardarsene solo fino a un certo punto con la sua
proposta scettico-empirica e col suo cader dalla padella nella brace
sostituendo a certe simpatie eraclitee altre non meno pericolose
simpatie eleatiche33.
Se, come ci tramanda Sesto, Enesidemo – in qualche momento della sua
vita – ritenne che lo Scetticismo sia «una via che mena
all’Eraclitismo» dobbiamo tener presente che Eraclito non parlava
solo di opposti nella natura delle cose, ma anche della loro
coincidenza in un λóγος, e ciò è non tanto metafisica quanto
misticismo. È probabile – come sostengono i più recenti studiosi del
problema –che l’Eraclitismo sia stato solo un momento – forse quello
iniziale –dell’attività filosofica di Enesidemo; ma non dobbiamo
dimenticare che lo Scetticismo greco, tanto nelle sue simpatie
eraclitee quanto in quelle eleatiche, fu storicamente – accanto al
suo opposto, il misticismo – una delle due ruote della biga che
portò a catafascio la filosofia antica.
I testi «enesidemei» di cui disponiamo, anche se non hanno
l’estensione di quelli «Carneadei» sono abbastanza consistenti per
un’approssimativa ricostruzione del pensiero di questo grande
filosofo. Il sommario dei Discorsi pirroniani lasciatoci da Fozio34
ci dà molto obbiettivamente l’idea di tutto un piano organico
seguito da Enesidemo nell’esporre il suo «sistema» scettico, anche
se l’erudito patriarca non mostra simpatia, bensì aperta inimicizia
per quel pericoloso pensatore che pure non pochi autori cristiani
avevano utilizzato nei secoli precedenti. Per quanto concerne i
passi sestiani35 la nostra scelta potrà essere considerata o troppo
ristretta, se teniamo presente che Enesidemo – anche se attraverso
la mediazione di Menodoto – fu la massima fonte dell’Empirico,
oppure troppo estesa e fatta con poca acribia, se teniamo, invece,
presente che alle argomentazioni enesidemee Sesto amava inserire e
sovrapporre quelle proprie. I testi filoniani del De Iosepho, del De
ebrietate e del De somniis36 sono stati visti o come la fonte più
vicina – e quindi meno insicura – del pensiero di Enesidemo o, al
contrario, come non aventi nulla a che vedere con quest’ultimo,
essendosi l’autore ispirato all’Accademia ormai in cammino verso
Plotino. Non si può, comunque, non tener conto, nella lettura di
pagine altamente umane e filosofiche, della loro sorprendente
affinità – pur tra le divergenze – con altre fonti enesidemee più
sicure. I brevi passi del De anima di Tertulliano37, infine, la cui
fonte fu quasi certamente sorano, non si reggono da soli ai fini di
una nostra comprensione di certe teorie «dommatiche» di Enesidemo,
ma vanno inseriti e discussi con altre fonti più consistenti,
specialmente con quella sestiana.
1. Suo luogo di nascita fu Cnosso, secondo Diogene Laerzio (IX,
116), o Ege, secondo Fozio (Bibliot. 212, 170a 41); suo luogo di
insegnamento fu Alessandria, secondo Aristocle (EUSEB. Praep. ev.
XIV, 18, 28). Il periodo della sua esistenza è stato variamente
spostato dall’80 a. C. fino al 130 d. C. con un ondeggiamento di
oltre due secoli. La seconda data fu sostenuta dal Maccoll (The
Greek Sceptics, p. 69) in base al fatto che Aristocle, vissuto verso
la fine del II sec. d. C, considerava Enesidemo un filosofo recente;
il Ritter (Historia philosophiae graecae, tom. IV, p. 223 nella
traduzione francese del Tissot, Ladrange, 1836), il Saisset (Le
scepticisme, p. 25) e lo Zeller (Die Philos, der Griech., III, 2, p.
8) hanno fatto vivere Enesidemo all’inizio dell’era volgare. Il
Fabricius, nella sua annotazione a SEXT. EMP. Pyrrh. hyp. I, 235,
aveva, invece, collocato l’acme della vita del filosofo tra l’80 e
il 60 a. C. e in ciò è stato seguito dal Ravaisson (Essai sur la
Métaphysique d’Aristote, Paris, 1837-46, II, p. 250) e, con maggiori
delucidazioni e precisazioni, dallo Haas (De phi-losophorum
scepticorum successionibus, p. 230), la cui ipotesi fu
sostanzialmente condivisa dal Diels (Doxographi graeci, p. 211) e
dal Natorp (Forsch. zur Gesch. des Erkenntnissprobl., p. 30) e
rimane ancora oggi la più accettata (cfr. DAL PRA, Lo scetticismo
greco, pp. 351-3). Pare, dunque, che Enesidemo sia stato un
contemporaneo un po’ più giovane di Cicerone, e se quest’ultimo non
ne ha parlato, ciò è dovuto o al fatto che non lo conosceva, non
essendo Enesidemo ancora famoso, o alla sua intenzione di non dare
importanza allo scetticismo radicale di certuni che, al contrario di
Filone, consideravano ogni cosa incerta ed oscura al pari del numero
delle stelle (Lucuti. X, 32) o ad altro motivo che a noi sfugge.
Delle opere enesidemee ci sono giunti cinque titoli: Discorsi
pirroniani, Contro la sapienza, Intorno alla ricerca, Lineamenti di
Pirronismo, Elementi (o, secondo Sesto Empirico, Prima
introduzione), ma è probabile che le ultime due opere non siano
state se non sezioni dei Discorsi pirronimii, che furono il suo
capolavoro (cfr. BROCHARD, Les sceptiques grecs, pp. 247-9). Molto
si è discusso su un Eraclide (di Taranto o di Eretria o altro),
maestro di Enesidemo (HAAS, De philos, scept. suce, pp. 232-6), ma
non si è giunti a capo di nulla, data l’oscurità che avvolge il
Pirronismo da Timone in poi (cfr. GOEDECKEMEYER, Die Gesch. der
griech. Skepi., pp. 209 segg.; ROBIN, Pyrrhon et le scept. grec, pp.
137 segg.).
2. La stessa Accademia, che guidava l’ebreo Filone verso il
misticismo e la trascendenza, induceva Enesidemo a rimeditare
Pirrone ed a respingere l’ultima involuzione dommatica o, anche, il
compromesso col dommatismo. Ma tanto per Filone quanto per Enesidemo
sussistevano le suggestioni eraclitee già sentite da Platone nel
Teeteto e nel Cratilo (cfr. WEISCHE, Cicero und die Neue Akademie,
pp. 91-2; H. JONAS, Gnosis und spätantiker Geist, Göttingen, 1954,
pp.6 segg.; BURKHARD, Die angebliche Heraklit-Nachfolge des skept.
Aenes., pp. 175-82).
3. Cfr. Pyrrh. hyp. I, 1-4 e 226 segg., ove il pensiero degli
Accademici viene respinto, quantunque gli venga assegnato un ruolo a
parte rispetto ai diversi filosofi dommatici.
4. Sesto, discutendo dei sofismi (Pyrrh. hyp. II, 229 segg.),
osserva a più riprese che la dialettica non è in grado di confutarli
pur con tutte le sue sottigliezze. Ma egli stesso sa essere quasi
ovunque un consumato dialettico, e non perché «il y met une sorte de
coquetterie» né perché egli intenda mostrare «aux dialecticiennes de
profession qu’il pourrait au besoin leur en remontrer», corne nota
il Brochard (Les sceptiques grecs, p. 327), ma perché è appunto di
ordine dialettico il suo stesso cosiddetto empirismo. Il Verdan (Le
scepticisme philosophique, p. 48) osserva: «Les pyrrhoniens… ne se
sont guère privés de recourir à la dialectique qu’ils condannaient,
et même d’en abuser! Mais ce fut toujours dans le but d’en dévoiler
la faiblesse et les limites. Jamais, depuis ces “misologues”, on n’a
fait le procès de la raison humaine avec une telle minutie et un tel
acharnement».
5. Cfr. BROCHARD, op. cit., p. 241.
6. Come rileva diligentemente la Stough (Greek Skepticism, p. 8i
n.), Sesto Empirico, specialmente nell’esposizione dei tropi di
Enesidemo, sottolinea il contrasto tra τò φαινóμενον ed ἡ φαντασία
da una parte e τò ύποϰείμενον, τò ἐϰτóς, τò πρᾶγμα ed ἡ φύσις
dall’altra. La studiosa americana propone di rendere, in generale,
il secondo termine del contrasto con «real (external) object».
7. Si rinvia in particular modo, a tale proposito, alle indagini
della Stough (op. cit., pp. 75 segg.) e soprattutto alla seguente
osservazione (p. 86): «The very conditions that make perception
possible make veridical perception impossible. Our impressions can
never be exact likenesses of the object, for impressions owe their
existence to a perceptual situation that is necessarily excluded by
the concept of “real object”».
8. Si ritorna all’adagio di Timone (SEXT. EMP. Adv. log. I, 30 =
DIOG. LAERT. IX, 105 = 69 Diels): «Sì, l’apparenza ha vigore in
tutti quei luoghi ove giunga»: ma questo ritorno non è affatto un
tripudio, bensì quasi la pena di una ὔβρις gnoseologica.
9. In ciò il dubbio di Enesidemo non ha nulla in comune con quello
iperbolico di Descartes.
10. Il Brochard (Les sceptiques grecs, p. 288) ha affermato in modo
categorico che Enesidemo era «avant tout un métaphysicien» e ciò gli
è stato aspramente rimproverato dal Dal Pra (Lo scetticismo greco,
pp. 402-4). Enesidemo però – fosse o non fosse un metafisico – era
un pensatore troppo profondo per permettersi di scartare i problemi
difficili con la fiducia di averli risolti o, se mai, dissolti.
11. Questo sembra essere il destino di ogni fenomenologia,
specialmente se teniamo presente le interessanti obiezioni di ordine
empirico-fenomenologico che, al nostro tempo, sono state fatte ad
Husserl, e che, per certi aspetti, sono analoghe alle istanze
dell’Empirio-criticismo auspicanti il ritorno ad un Kantismo per
nulla tormentato da problemi metafisici.
12. Nel tracciare le regole del sillogismo categorico Aristotele
(An. pr. I, 28, 45a 4) usa il termine τρóπονς («impostazioni» trad.
Colli) per indicare le figure o i luoghi (τóπονς) o gli schemi del
ragionamento. In seguito gli Stoici distinsero le forme delle
argomentazioni sillogistiche in due gruppi: quelle in cui si
servivano di esemplificazioni pratiche (ad es. «se è giorno, c’è
luce; ma è giorno: dunque c’è luce», come in SEXT. EMP. Adv. log.
II, 224 e altrove) e quelle in cu: si servivano esclusivamente di
formule generiche (ad es. «se c’è il primo, c’è il secondo; ma c’è
il primo: dunque c’è il secondo», come in SEXT. EMP. Adv. log. II,
227 e altrove). Questo secondo gruppo di argomentazioni gli Stoici
lo chiamavano σχῆμα = figura o τρóπος = modo (cfr. B. Mates, Stoic
Logic, p. 67, ove vengono citati anche DIOG. LAERT. VII, 76 e GALEN.
Inst. log. 15, 3 seg. Kalbfleisch). Come era accaduto per tanti
altri termini che potrebbero sembrare di genuino conio scettico,
così avvenne anche per il termine «tropo», che gli Scettici — in
primo luogo quelli dell’Accademia e poi i Neo-pirroniani –
utilizzarono a loro piacimento, adattandosi alla consuetudine di un
linguaggio filosofico ormai accreditato. Questi tropi venivano
arricchiti da esempi raccolti da ogni parte per dare il sussidio
dell’evidenza empirica alla loro classificazione, come si riscontra
nella tropologia di Enesidemo, che giustamente il Dal Pra (Lo
scetticismo greco, p. 364) ha visto «come un amalgama composito e
come una laboriosa compilazione». Circa l’origine e gli sviluppi
cella tropologia scettica le questioni sono ancora molto dibattute.
Kurt von Friz (Pyrrhon, in «RE», XIX, coll. 101-4), convinto e
solitario assertore che gran parte dello Scetticismo antico sia già
presente in Pirrone, ha assegnato al saggio di Elide anche – almeno
grosso modo – la «tabella» dei tropi. Ma è molto probabile, invece,
che questa tabella si sia andata formando a poco a poco ed a mano a
mano che si arricchivano le esperienze dell’indirizzo scettico
soprattutto in seno all’Accademia. Questo accumularsi progressivo
causò già nell’antichità un certo disagio nell’assegnare un numero
preciso e un ordine alle argomentazioni tropologiche: Filone
d’Alessandria (De ebriet, 17c segg.) ci ha trasmesso otto tropi;
Aristocle (EUSEB. Praep. ev. XIV, 18, II) dice che essi erano nove;
Favorino, che scrisse un’opera intitolata Sui tropi pirroniani (cfr.
l’edizione del Barigazzi, pp. 172-5), Sesto Empirico e Diogene
Laerzio ce ne presentano dieci, anche se l’ordine seguito da
ciascuno di loro è alquanto diverso. Della notevole letteratura
specialistica in materia dobbiamo in particular modo tener presente:
il Saisset (Le scepticisme, p. 78), il quale sostiene essere la
tropologia, già prima di Enesidemo, «le bien commun de l’école
sceptique»; il Pappenheim (Die Tropen der griech. Skeptizismus, p.
13 segg.), il quale si fonda soprattutto sulla testimonianza di
Aristocle per stabilire che i tropi raccolti da Enesidemo erano
nove; il Brochard (Les sceptiques grecs, pp. 253-5), che è d’accordo
con lo Zeller (Die Philos, der Griech., III, 2, pp. 24-5) e con lo
Hirzel (Untersuchungen zu Cic. philos. Schr., III, p. 114)
nell’attenersi al testo sestiano di Pyrrh. hyp. I, 36 segg.
soprattutto in base alla precisazione fatta dallo stesso Sesto in
Adv. log. I, 345. Grande rilievo è stato dato, invece, dall’Arnim
(Quellenstudien zu Philon von Alexandria, pp. 78-9) alla tropologia
trasmessa da Filone, che, secondo lui, sarebbe molto più fedele ad
Enesidemo rispetto a quella trasmessa da Sesto, e in ciò l’Arnim è
stato parzialmente anticipato dal Natorp nelle celebri Forschungen.
Lo Schmekel (Die positive Philosophie, p. 306 Anm. 2) ha ripreso in
parte le tesi dello Zeller e del Bernays (Gesch. der griech. Philos.
V, p. 410) col sostenere che Filone, nell’esporre la tropologia del
De ebriet., non tenne affatto presente Enesidemo, ma si rifece a
fonti neo-accademiche soprattutto di provenienza Carneadea — del
resto molti passi ciceroniani (ad es. Lucull. 114-146 passim) fanno
capire che una tropologia abbastanza ampia circolava sotto i platani
di Academo –, ma con lo Schmekel non sono stati d’accordo né il
Robin (Pyrrhon et le scept. grec, p. 141) né il Bréhier (Les idées
philosophiques et religieuses de Philon d’Alex., pp. 290-1), i quali
si sono rifatti all’Arnim dei Quellenstudien. Tuttavia la
provenienza neo,–accademica dei tropi filoniani, intesi non tanto in
funzione scettica quanto in funzione mistica, ha avuto recentemente
maggiore seguito (cfr. E. R. GOODENOUGH, An Introduction to Philo
Judaeus, p. 20; I. HEINEMANN, Philons griech. undjüd. Bildung, pp.
514 segg.), mentre uno stretto rapporto Enesidemo–Filone viene
parzialmente restaurato da Athenodoros E. Chatzilysandros (Gesch.
der sheptischen Tropen, p. 220). Un accostamento tra l’impostazione
tropologica di Filone e certi luoghi plutarchiani, specialmente di
De E apud Delphos 18, 392c, già fatto da J. Schröder (piutarchs
Stellung zur Skepsis) e condiviso dallo Ziegler (Plutarch, in «RE»,
XXI, 1 col. 939), è di conforto al Weische (Cicero und die Neue
Akademie, pp. 83-101) nel suo esame delle ripercussioni dello
Scetticismo neo-accademico sul grande Filone e al Burkhard (Die
angébliche Hera-klit-Nachfolge des skept. Aenes., pp. 182-94) per
dare una sistemazione all’Eraclitismo che in Enesidemo sarebbe solo
presunto mentre in Filone si ricondurrebbe ad un’esperienza
platonico-mistica.
13. Osserva il Burkhard (op. cit., p. 186, n. 4) sulle orme dello
Schmekel (Die positive Philosophie, I, p. 293) che i tropi «geben
nichts anderes an als die “Kategorien” für das Auftreten von
konkräten oder kontradiktorischen Gegensätzen zwischen
gleichwertigen Phänomenen und damit zugleich methodische
Gesichtspunkte für die Anwendung des Enantiologieprinzips in der
skeptischen Argumentation».
14. La Stough (Greek Skepticism, p. 77) molto acutamente ha
riscontrato nella tropologia enesidemea una non chiara distinzione
tra i «judgements of the value or worth of objects, institutions and
practices» e le «differences in perceptual experiences» ed ha
sottolineato una sproporzione molto favorevole ai primi, ed in ciò è
stata lodata dal nostro Dal Pra (Lo scetticismo greco, p. 364).
15. Cfr. Pyrrh. hyp. I, 38-39. Ci sembra in errore il Verdan (Le
scepticisme philosophique, pp. 42-41 nell’attenersi alla lista di
Diogene Laerzio, nella quale egli riscontra «un ordre plus logique»
che nella sestiana: proprio quest’ordine logico sarebbe un
pericoloso a priori!
16. Lo Hegel (Lez. sulla St. della Fil., II, p. 522) osserva: «Nei
tropi antichi scorgiamo appunto la mancanza di astrazione, come
incapacità di raccogliere la loro diversità sotto punti di vista
generali più semplici»; e, dopo aver riesposto la «tabella» di Sesto
Empirico ed aver avanzato l’ipotesi che siffatta tropologia sia
«piuttosto antica», annota (ibid., p. 532) che il loro contenuto si
limita ad indicare il mutamento dell’essere senza addurre la
contraddizione che è immanente al concetto stesso di essere [cosa
che non dovette sfuggire ad Enesidemo stesso nei suoi momenti più
speculativi] e che la loro forma rivela «un pensiero ancora
inesperto, che non è ancora in grado di raccogliere la moltitudine
di questi modi sotto i loro punti di vista generali».
17. La Stough, che considera Enesidemo come il fondatore della
metodologia scettico-empirica mentre Carneade si era limitato «to
deal with the perceptual statements of ordinary life» (Greek
Skepticism, p. 104), dedica, ovviamente dal suo punto di vista, il
massimo spazio alla disamina della tropologia nella sezione del suo
volume riservata ad Enesidemo.
18. Cfr., a tale riguardo, J. GRENIER, L’exigence de
l’intelligibilité du scepscepticisme grec, pp. 357-65.
19. Cfr. SEXT. EMP. Adv. log. II, 40-54.
20. Cfr. SEXT. EMP. Adv. log, II, 8. Questo passo non
necessariamente va inquadrato nelle testimonianze
eracliteo-dommaticrie di Enesidemo. La Stough (Greek Skepticism, pp.
94-7) lo inserisce nella scepsi, e A. Aubenque (Le filosofie
ellenistiche: Stoicismo, Epicureismo, Scetticismo in F. CHATELET,
Storia della filosofia, trad, it., Milano, 1976, I, p. 137),
citandolo testualmente, osserva: «Forse bisogna vedere qui una
semplice regola dell’uso empirico della ragione, la quale non
contraddice, bensì presuppone l’abbandono delle sue pretese
speculative».
21. Cfr. SEXT. EMP. Adv. log. II, 215-22, 234-8.
22. Basti ricordare le obiezioni aristoteliche alle «species»
platoniche. Esse erano ben note anche in quegli ambienti
accademico-antiochei che identificavano sostanzialmente tra loro i
due massimi pensatori greci (cfr. Cic. Varro IX, 33).
23. Rinvio alle mie osservazioni introduttive a SESTO EMPIRICO,
Contro i logici, pp. XXXVIII-XLIV. Il Dal Pra (Lo scetticismo greco,
p. 389), dopo aver messo in rilievo che la critica di Enesidemo al
sillogismo riduce quest’ultimo ad un’affermazione «sulla base
dell’evidenza ipotetica personale», conclude: «In tal modo il
neo-scetticismo attaccava la sillogistica aristotelica come la
dialettica stoica e demoliva il dogmatismo nella sua pretesa più
speciosa, quella della dimostrazione». Anzitutto, però, ad Enesidemo
– stando almeno alle testimonianze sestiane — sembra che sia
sfuggita la differenza tra gli Analitici di Aristotele e la
sillogistica ipotetica della Stoa; in secondo luogo Enesidemo, con
tutto il suo genio filosofico, sottovalutò la logica apodittica nel
ritenerla – se la ritenne davvero – la «pretesa più speciosa del
dommatismo». Era troppo presto, storicamente almeno, per fare i
conti con quella logica che non era stata neppure ancora studiata da
commentatori del livello di un Alessandro di Afrodisia!
24. Cfr. SEXT. EMP. Pyrrh. hyp. I, 180-186
25. Cfr. ARISTOT. Phys. II, 8-9. In contrasto, inoltre, con quanto
afferma Dal Pra (Lo scetticismo greco, p. 376), ossia che «il
pensatore di Cnosso prende di mira, nella sua critica, la dottrina
aristotelica della causalità e le altre dottrine dommatiche della
causalità che direttamente o indirettamente a quella aristotelica si
ricollegavano», non ci sembra che Enesidemo abbia inteso in
particolar modo colpire la teoria aristotelica in base alla quale
«la produzione di una cosa muove da ciò che costituisce la sua
essenza» (come è detto in Metaph. VII, 9, 1034a). Di questo tipo di
causa – che è quella formale – non appaiono cenni molto espliciti in
Sesto. Ci sembra, invece, che, come per la logica degli Analitici,
così per l’aitiologia Aristotele sia stato poco o nulla conosciuto o
almeno meditato dal binomio Enesidemo-Sesto.
26. Cfr. SEXT. EMP. Adv. phys. I, 218-64: il lungo passo, anche se
contiene parecchi ritocchi sestiani, sembra essere sostanzialmente
enesidemeo.
27. Cfr. SEXT. EMP. Adv. log. I, 388-396.
28. Secondo la celebre espressione del Windelband (Storia della
Filosofia, I trad, it., Palermo, 1948, p. 323) riferita al pensiero
di Agostino.
29. Cfr. SEXT. EMP. Adv. eth. 42-44; DIOG. LAERT. IX, 107; Aristocl.
Apud Euseb. Praep. ev. XIV, 18, 4. In quest’ultima testimonianza è
detto che Enesidemo pone come sommo bene il piacere accanto
all’afasia e all’atarassia. Il Natorp (Forsch. zur Gesch. des
Erkenntnissprobl., p. 300) respinge senz’altro questa testimonianza,
mentre lo Hirzel (Untersuchungen zu Cic. phil. Schriften, III, p.
109) la spiega come un ennesimo tentativo di accostare e quasi
identificare il pensiero scettico con quello cirenaico. In realtà
Enesidemo, come ha scritto il Brochard (Les sceptiques grecs, p.
271), «n’adfirmait rien en morale»: la sua epoche, intesa sul piano
della prassi, vuole essere solo un’affermazione polemica, una
replica ai Dommatici che al sommo bene avevano dedicato tanta
sterile attenzione (cfr. Dal Pra, LO scetticismo greco, pp.
389-92).
30. Cfr. VOLTAIRE, Trattato di metafisica in Scritti filosofici,
Bari, 1972, I, p. 159; Bayle, Dictionnaire historique et critique,
Rotterdam, 1720, VI, col. 2306; SESTO EMPIRICO, Contro i logici, mia
nota a pp. X-XI.
31. SEXT. EMP. Adv. log. II, 8, 286; Adv. phys. I, 337; II, 216 e,
molto probabilmente, anche 232-233; Pyrrh. hyp. III, 138.
Apertamente viene discussa e confutata l’affermazione dei «seguaci
di Enesidemo» secondo cui lo Scetticismo sarebbe una via verso
l’Eraclitismo in Pyrrh. hyp. I, 210 segg.
32. Il Saisset (Le scepticisme etc., pp. 209 segg.) ha sostenuto che
Enesidemo fu in un primo tempo eracliteo e poi passò allo
Scetticismo e che, sebbene la sua prima esperienza non abbia grande
rilievo nella sua filosofia, non è stata – anche se solo
ufficialmente – mai rinnegata per motivi apologetici. Mentre il
Diels (Doxogr. graec, pp. 209 segg.) e lo Zeller (Die Philos, der
Griech., III, 2, 36 segg.), nel trattare della questione,
sostenevano che, quando Enesidemo parlava di Eraclito, si sarebbe
riferito a tesi stoiche e non sue e che Sesto erroneamente e
distrattamente le avrebbe attribuite a lui, il Natorp
(Untersuchungen über die Skepsis in Altertum: Aenesidem, in
particolare pp. 51-8) avanza l’ipotesi che Enesidemo poté anche
essere insieme scettico ed eracliteo estendendo la contrarietà dal
mondo soggettivo a quello oggettivo e coinvolgendo entrambi in un
fenomenismo protagorizzante. L’ipotesi del Natorp ebbe l’appoggio
dello Hirzel (che già nelle sue Untersuchungen zu Cic. phil.
Schriften, III, 64 segg. aveva rilevato il fenomenismo di Enesidemo)
e dell’Arnim, che nei suoi Quellenstudien zu Philon von Alex
cominciava a porre il problema del rapporto tra l’autentico pensiero
di Eraclito e la contaminazione fattane dagli Stoici, soprattutto da
Posidonio. L’Arnim, che proponeva di non distinguere affatto
l’espressione οἱπεπì τòν AἰνΗσίδημον dal solo AἰνΗσίδημος (cfr.
Ainesidemos, in «RE», II, 1, coli. 1023-4) apriva embrionalmente un
nuovo tipo di indagini che avrebbe continuato dopo molti decenni a
dare i suoi frutti anche nelle Untersuchungen zu Heraklit di Olof
Gigon, da cui gli studiosi odierni di Eraclito non possono
prescindere. Ed anche il Pappenheim (Die angebliche Heraklitismus
des skept. Aenesid., pp. 29 segg.), che erroneamente considerava
come fonte delle espressioni sestiane un neo-pirroniano
stoicizzante, cercava una soluzione «filosofica» per evitare di
cogliere in contraddizione il grande scettico. Ma P. Leander Haas
(De philos, seep, suce, pp. 44 segg.) indicava una nuova via da
percorrere, ossia il passaggio di Enesidemo dallo Scetticismo ad
Eraclito; e questa strada venne percorsa dal Brochard (Les
sceptiques grecs, pp. 272-89), il quale, dopo aver detto
brillantemente contro l’ipotesi conciliativa del Natorp «on n’est
pas à la fois sur la route et au but» (op. cit., p. 284), vede quasi
come scontata la soluzione eraclitea della scepsi di Enesidemo a
causa della metafisicità di fondo del pensiero di quest’ultimo, allo
stesso modo che era scontato il passaggio dell’ultimo Platone al
Pitagorismo (op. cit., p. 286): ciò non pertanto Enesidemo non
avrebbe rinunciato alla scepsi, ma avrebbe derivato «son doute de la
source la plus élevée» (op. cit., p. 287). Ovviamente, però, non si
può galoppare su due cavalli, anche se il fantino è un uomo della
levatura di un Brochard, e la Patrick (Sextus Empiricus and Greek
Skepticism, «Revue philosophique», VIII, 1900, pp. 217-8) veniva a
proporre un dommatismo inconsapevole di Enesidemo, mentre il
Goedeckemeyer (Die Gesch. des griech. Skept., pp. 228-35) parlava
non di Eraclitismo enesidemeo bensì di semplice analogia tra il
pensatore di Efeso e quello di Cnosso. Il nostro Capone-Braga
(L’eraclitismo di Enes., «Rivista di filosofia», XXII, 1931, pp.
33-47), la cui tesi è stata condivisa dall’Abbagnano (Storia della
filosofia, Torino, 19632, I, p. 224), ha insistito sul carattere non
dommatico, bensì scettico dell’Eraclitismo, riproponendo in tal
modo, mutatis mutandis, l’ipotesi brochardiana, come gli è stato
rimproverato dal Dal Pra (Lo scetticismo greco, pp. 405-6).
Quest’ultimo, dopo aver illustrato lo stato della questione,
rifacendosi solo parzialmente al Saisset, ha sostenuto che Enesidemo
fu prima eracliteo, poi accademico e, infine, neo-pirroniano, e
queste conclusioni sono state accettate dal Rist (The Heracliteanism
of Aenes., «Phoenix», XXIV, 1970, 4, pp. 309-19) e, attraverso il
Rist, dal Long (Hellenistic philosophy, p. 76). La molteplicità
delle soluzioni proposte ha indotto alcuni studiosi ad epochizzare
la questione soprattutto per l’impossibilità di dare alle ermetiche
parole di Sesto una spiegazione non contraddittoria. Già il Saisset
(Le scepticisme, p. 209), cercando di minimizzare il problema,
scriveva che ad Enesidemo «au fond, rien ne parait certain, et le
parti le plus sage est de s’abstenir de tout système. Mais s’il
fallait en choisir un, celui d’Heraclite devrait avoir la
préférence»; e il Brochard, che proponeva la soluzione opposta,
prima di iniziare il discorso, osservava (Les sceptiques grecs, p.
271) che «le mieux serait d’appliquer la maxime sceptique, et de
retenir son jugement». Di questo avviso sono stati anche E. Bréhier
(Histoire de la philosophie, I, 2, Paris, 19485, p. 434), M. Soreth
(Ainesidemos von Knossos in Lexicon der Antike, Zürich-Stuttgart,
1965) e Ph. P. Hallie (Scepticism, Man and God, p. 26). Un’ampia
ricerca sulla questione è stata recentemente condotta da Ulrich
Burkhard nel suo volume Die angebliche Heraklit-Nachfolge des
skeptikers Aenesidem, Bonn, 1973. Escludendo, tra l’altro, che Sesto
abbia del tutto mal compreso il suo predecessore col fargli dire che
lo Scetticismo è una via verso l’Eraclitismo laddove Enesidemo
avrebbe sostenute esattamente il contrario (come ha proposto il
Chatzilysandros in Geschichte der skept. Tropen, p. 31), tenendo
parzialmente conto delle indagini del Weische più che di quelle
dell’Arnim in merito al rapporto Filone-Enesidemo, utilizzando
criticamente gli studi del Reinhardt, dello Schmekel, del Pohlenz,
del Pfligersdorffer e di altri sulla Stoa e in particolare sul
rapporto Eraclito-Posidonio, il Burkhard propone di intendere
l’espressione «via verso l’Eraclitismo» come «via per capire
correttamente il pensiero di Eraclito affrancandolo dall’ipoteca
stoica». A suo parere Enesidemo, forse sulla scia di Aristotele,
avrebbe inteso restituire Eraclito alla sua genuinità e fare di
questa scoperta ermeneutica una nuova arma contro gli Stoici (pp.
66-7). In sostanza Enesidemo avrebbe inteso solo interpretare
Eraclito in chiave scettica (p. 166) e aveva di che trovare nel
filosofo di Efeso, a conforto delle sue tesi, soprattutto nella
concezione del contrasto tra sensazione e intelletto (p. 116) e
della contraddittorietà nella realtà delle cose (p. 195). Le
informatis-sime indagini del Burkhard aprono nuove prospettive, ma
sembrano abbastanza lontane dalla testimonianza sestiana così
lapidaria pur nel suo ermetismo. Benché manchi il conforto della
filologia, la tesi più plausibile, almeno per ora, rimane quella di
Mario Dal Pra.
33. Rimando a quanto già è stato osservato nella mia introduzione a
SESTO EMPIRICO, Contro i logici, pp. XLVII-XLVIII.
34. La traduzione è stata eseguita sull’edizione a cura di R. Henry
(Paris, 1962). Il passo foziano che lo Zeller (Die Philos, der
Griechen, III, 2, 23 A 2) considerava un molto fedele riassunto
dell’opera di Enesidemo e a proposito del quale il Diels (Doxographi
Graeci, 211) scriveva «Aenesidemum qui vere intelligere voluerit, a
Photii Pyrrhoniorum librorum excerpto proficisci debet» e che,
infine, l’Henry (Photius, III, p. 119, n. 1) ha ripetuto essere «la
source la plus complète par laquelle nous pouvons encore connaitre
[l’ouvrage d’Énes.]», è stato molto recentemente esaminato da Karel
Janácek nell’articolo Zur Interpretation des Photios-Abschnittes
über Ainesidemos, «Eirene», Studia graeca et latina, XIV, Academia
Praha, 1976, pp. 93-100. Lo studioso cecoslovacco, esaminando il
testo di Fozio con gli stessi criteri analitico-lin-guistici da lui
diligentemente ed acutamente applicati in Prolegomena to Sextus
Empiricus, in Sextus Empiricus sceptical Methodos e in una nutrita
serie di articoli che vanno sempre tenuti presenti da chi voglia
avere una cognizione approfondita del linguaggio degli Scettici
(Eἰϰóς in SEXT. EMP.; Eine anonyme skeptische Schrift gegen die
Astrologen; Vergleichssãtze in SEXT. EMP.; Zur Würdigung des Diog.
Laert.; Πϱòς τῷ bei Sext. Emp. und Diog. Laert.; Zu den skeptischen
Widerlegungsformen; Über ein Plan eines Wörterbuches der
grie-chischen Philosophie, etc.), coglie con molta precisione certe
identità terminologiche tra Fozio, Sesto Empirico e talora anche
Diogene Laerzio, soprattutto nell’uso di vocaboli che non si
riscontrano quasi in alcun altro luogo della vasta Biblioteca del
patriarca bizantino. Sottolineando il tono ostile e sarcastico di
certe espressioni di Fozio (ad es. ὡς οἲεται e ϰρήσιμα τοĩς
διαλεϰτιϰοĩς) e, d’altra parte, la letterale corrispondenza di certe
altre espressioni con quelle usate da Sesto (ad es. τὴν ὖν τοĩς
οἐσιν ἀλήϑειαν, che è anche in SEXT. EMP. Adv. log. I, 114, 435;
ϰαταφάσει ϰαì ἀποφάσει, che è anche in Pyrrh. hyp. I, 197; φανερὰ
ϰαì ἀφανή, che è anche in Pyrrh. hyp. I, 181, 182, e soprattutto
αἰτιολογĩν, che è anche in Pyrrh. hyp. I, 180-181, 185-186), il
Janácek conclude che le caratteristiche della notizia foziana sono
«Feindschaft und Objektivitat». Un’analoga accurata indagine
terminologica andrebbe eseguita con pari serietà anche sui passi
«enesidemei» di Filone di Alessandria, senza quell’amor di tesi che
purtroppo si riscontra in parecchi studiosi della vexata quaestio
dell’Er aclitismo del filosofo di Cnosso.
35. Mi sono attenuto, come altrove, all’edizione del Mutschmann
(riveduta per Pyrrh. hyp. dal Mau).
36. Nella traduzione del De Josepho mi sono attenuto al testo del
Colson (PHILO, VI, London-Cambridge Mass., 1969), in quella del De
ebrietate al testo del Colson e del Whitaker (PHILO, III, ivi i960)
e in quella del De somniis al testo dei medesimi curatori (PHILO, V,
ivi, 1968).
37. Nella traduzione mi sono attenuto al testo di J. H. Waszink
(TERTULL. Opera, II, Turnholti, 1954).
I Discorsi pirroniani (Fozio, Bibliot. 212)
Di Enesidemo sono stati letti otto libri di Discorsi pirroniani1.
Disegno generale dell’opera è quello di stabilire che non si può
apprendere nulla di stabile né per mezzo della sensazione né
per mezzo del pensiero: ragion per cui né i Pirroniani né gli altri
filosofi conoscono la verità che è presente nelle cose esistenti.
Quelli che seguono gli altri indirizzi filosofici non si rendono
conto, tra l’altro, di logorarsi invano e di sprecarsi in angustie
continue, ignorando appunto questo, ossia di non aver compreso nulla
di tutto ciò ci cui sembra che abbiano conseguito la comprensione.
Invece il seguace della filosofia di Pirrone, tra i vari motivi
della propria felicità, possiede la «saggezza» di rendersi
soprattutto conto che egli non ha compreso nulla con certezza. E
anche delle cose che egli eventualmente conosca, è in grado di
esprimere l’assenso per via affermativa «non più»2 che per via
negativa. Ecco cosa si propone il piano generale dell’opera.
Enesidemo scrive i suoi Discorsi dedicandoli a Lucio Tuberone3, un
suo condiscepolo dell’indirizzo accademico, di stirpe romana, di
nobile famiglia e insignito di importanti cariche politiche.
Nel primo libro, tirando in ballo una distinzione tra Pirroniani e
Accademici, Enesidemo fa presso a poco testualmente le seguenti
affermazioni: che, cioè, gli Accademici sono dommatici4, giacché
pongono certi princìpi in modo indubitabile e ne sopprimono senza
esitazione certi altri, mentre i Pirronianisono «aporetici»5 e
liberi da ogni «dogma» giacché nessuno di loro ha affermato in senso
assoluto né che tutte le cose sono incomprensibili né che sono
comprensibili, ma che esse sono tali «non più» che tali, o «talora
tali e talora non tali» o «per uno sono di tal natura, per un altro
no, e per un altro ancora non sono esistenti affatto» né che sono
accessibili tutte in maniera comune né solo alcune di esse, né che
sono non-accessibili, bensì che sono accessibili «non più» che
inaccessibili, oppure «talora accessibili e talora no» oppure
«per uno accessibili e per un altro no». E ancora: non c’è nulla né
di vero né di falso, né di «probabile» né di «improbabile»6 né di
esistente né di non-esistente, ma la medesima cosa, per così dire,
non è vera più di quanto sia falsa, probabile più di quanto sia
improbabile, esistente più di quanto sia non-esistente, o
talora tale e talora talaltra o per uno di tal fatta e per un
altro no7.
In linea generale, infatti, il Pirroniano non definisce nulla, ma
non definisce neppure che egli non definisce nulla8: «Noi parliamo –
egli dice – senza avere alcun modo di esprimere il nostro
pensiero»9. «Gli Accademici invece – egli aggiunge –, specialmente
quelli del nostro tempo10, talvolta attingono persino ad opinioni
stoiche; anzi, a dire il vero, sembrano Stoici che combattono contro
altri Stoici».
In secondo luogo gli Accademici si comportano dommaticamente in
molte questioni. Essi, infatti, tirano in ballo virtù e stoltezza,
suppongono bene e male, verità e falsità, probabile e improbabile,
esistente e non-esistente, e definiscono con certezza molte altre
cose, limitandosi a mettere in bilico soltanto la rappresentazione
apprensiva11.
Ecco perché i Pirroniani, non dando alcuna definizione, restano
totalmente irreprensibili, mentre gli Accademici – sostiene
Enesidemo – vanno soggetti alle medesime critiche che vengono fatte
agli altri filosofi, e la cosa più grave è che quanti sono in dubbio
su ogni questione formano un solo blocco senza essere in contrasto
tra loro, mentre quanti contendono tra loro ne sono addirittura
inconsapevoli. Infatti porre un qualche principio ed eliminarlo
senza esitazione ed affermare, nel medesimo tempo, che esistono
comunemente cose comprensibili, significa introdurre un innegabile
contrasto, giacché non è affatto possibile che uno, conoscendo che
una data cosa è vera e un’altra è falsa, permanga ancora nell’aporia
e neh”incertezza, senza scegliere chiaramente la prima e guardarsi
dalla seconda. Se egli, infatti, non sa che una data cosa è bene o
male e che questo è vero e che quest’altro è falso e che questo
esiste e quest’altro no, non si potrà non convenire che ciascuna di
queste cose è incomprensibile; se, invece, tutte queste cose vengono
comprese in modo evidente mediante la sensazione o il pensiero,
allora non si potrà non dichiarare che ciascuna di esse è
comprensibile.
Queste, ed altre simili a queste, sono le argomentazioni che
Enesidemo di Ege12 scrive all’inizio dei suoi Discorsi con l’intento
di dimostrare la differenza che intercorre tra Pirroniani ed
Accademici. Subito dopo, nel corso dello stesso primo libro, egli ci
dà l’esposizione, in sintesi e per sommi capi, del
pensiero pirroniano.
Fin dall’inizio del secondo libro egli sviluppa nei dettagli quegli
argomenti che ha già trattati in maniera generale, dando
precisazioni sulle nozioni «vere»13, sulle cause, sulle affezioni,
sui movimenti, sul processo di generazione e corruzione e sui
contrari di tutte queste nozioni, sottolineando – come egli reputa –
con serrati «epilogismi»14 la dubbiosità di tutte queste cose e
l’impossibilità di dare ad esse l’assenso.
Il terzo libro tratta ancora del movimento e della sensalezione e
delle loro proprietà, esaminandone dettagliatamente le
contraddizioni e dimostrando, ancora una volta, l’impossibilità di
conseguire siffatte nozioni e di assentire ad esse.
Nel quarto libro Enesidemo nega in maniera assoluta l’esistenza dei
«segni» che noi consideriamo come «manifestazioni di cose non
manifeste»15, e sostiene che quanti credono in essi sono ingannati
da vuota emozione. Egli solleva in appresso le consuete aporie in
merito alla totalità della natura, al mondo e agli dei, impegnandosi
nella dimostrazione che nessuna di queste nozioni viene a cadere nel
dominio della comprensione.
Il suo quinto libro mette in rilievo le occasioni delle aporie
concernenti le cause16, professando che non esiste nessuna causa di
nessuna cosa e convenendo che si sono sbagliati quanti hanno parlato
di cause ed enumerando i «tropi»17 secondo cui egli reputa che
quelli, sospinti a trattare di cause, furono coinvolti in un
siffatto errore.
Il sesto libro riconduce alle medesime ciarle18 i beni e i mali, le
cose da scegliere e quelle da evitare e, inoltre, quelle di primaria
e quelle di non primaria importanza, escludendo anche queste
nozioni, a parere dell’autore, dalla nostra comprensione e dalla
nostra conoscenza.
Il settimo libro, poi, ci fornisce le armi contro le virtù,
affermando che quanti hanno filosofato su di esse, hanno inventato
cose fittizie mercé vuota opinione e che costoro escono dal branco
con l’illusione di poter pervenire all’attuazione pratica e alla
conoscenza teoretica di quelle.
L’ottavo ed ultimo libro se la prende col «fine» sostenendo che non
sono «fini» né la felicità né il piacere né la saggezza né
alcun’altra cosa, come, invece, pretenderebbe ciascuna delle varie
sette filosofiche, ma che ciò che viene celebrato da tutti come fine
non esiste affatto19.
In conclusione, i Discorsi di Enesidemo vanno a imbrattarsi di
polvere per una tal sorta di tenzone20. Ma che un sì grande impegno
si riduca a futilità e a un mucchio di chiacchiere è provato da un
confronto con Platone21 e con molti altri pensatori che ci hanno
preceduto. Che questi Discorsi, altresì, non diano alcun contributo
a un nostro modo personale di pensare, anche questo è ben chiaro, in
quanto essi mirano solo a scacciare dalla nostra mente quelle
dottrine dommatiche che sono presenti in essa. Ciò nonostante, per
quelli che si esercitano nella dialettica l’opera non è priva di
utilità, purché la loro debolezza non cada nei tranelli di quei
ragionamenti e il loro giudizio non s’imbastardisca perdendo il
proprio acume22.
1. Di questa grande opera perduta di Enesidemo è cenno in SEXT. EMP.
Adv. log. II, 215 e in DIOG. LAERT. IX, 106, 116.
2. Per il senso dell’espressione, che risaliva al più antico
Scetticismo, cfr. SEXT. EMP. Pyrrh. hyp. I,188-191.
3. Si tratta molto probabilmente di L. Elio Tuberone, un nobile
romano che seguì l’indirizzo accademico e che è più di una volta
menzionato da Cicerone (Ad Quint, fratr. I, 1, 3, 10; Pro Ligar. VI,
21; IX, 27).
4. Da questo passo di Enesidemo dovette trarre spunto Sesto in
Pyrrh. hyp. I, 220-235 (cfr. BROCHARD, Les sceptiques grecs, p. 251,
n. 5).
5. Cfr. SEXT. EMP. Pyrrh. hyp. I, 7; DIOG. LAERT. IX, 69.
6. Ciò è detto in polemica con la Nuova Accademia.
7. Da questi passi enesidemei qui ricordati trasse spunti Sesto
Empirico in Adv. log. II, 40-48 nell’epochizzare la verità (cfr.
Brochard, Les sceptiques grecs, pp. 249-51; Robin, Pyrrhon et le
scepticisme grec, pp. 141-4).
8. Cfr. SEXT. EMP. Pyrrh. hyp. I, 197.
9. Ossia senza possedere un’arte del linguaggio, sia essa grammatica
o retorica. Di qui Sesto dovette trarre alcuni spunti per Adv. math.
I-II.
10. Sembra chiara l’allusione all’Accademia di Antioco.
11. Qui l’allusione sembra estendersi anche all’Accademia di Filone,
che, per bocca di Cicerone (Lucull. X, 32), respingeva una scepsi
radicale (cfr. DAL PRA, Lo scetticismo greco, p. 352).
12. La notizia è in contrasto con DIOG. LAERT. IX, 116, ove
Enesidemo è detto nativo di Cnosso.
13. Il Pappenheim (Die Tropen der griech. Skept., p. 24), seguito
dal Brochard (Les sceptiques grecs, p. 249), preferiva leggere ἀρχῶν
invece di ἀλεϑῶν («sui princìpi»).
14. Ho preferito traslitterare, trattandosi di un termine tecnico
che la medicina empirica definiva «argomentazione dei fenomeni»
(cfr. GALEN., De sectis, in Script, min., III, 9, 4 Hehnreich =
DEICHGRABER, Die griech. Empiriker schule, p. 105).
15. Cfr. SEXT. EMP. Adv. log. II, 211-222 e 235 (Brochard) o 225-234
(Robin).
16. Di qui Sesto dovette trarre spunti in Adv. phys. I, 195 segg.
17. I tropi della causalità sono esposti in SEXT. EMP. Pyrrh. hyp.
I, 180-186.
18. Fozio esprime così il suo giudizio totalmente negativo in merito
alla scepsi di Enesidemo e in ciò è d’accordo con Numenio di Apamea.
19. Dagli ultimi tre libri Sesto trasse spunti per Pyrrh. hyp. III,
168 segg. e per il suo trattato Contro i moralisti.
20. Fozio è anche qui un lontano erede di Eusebio nel ritenere
inezie le fatiche degli Scettici.
21. Come Numenio (che forse fu tra le sue fonti) così anche Fozio si
appella a Platone, ovviamente in chiave dommatica.
22. Il patriarca Fozio, anche se a denti stretti, viene in tal modo
a riconoscere l’importanza della dialettica di Enesidemo.
La condizione umana e il suo flusso (FILONE, De Iosepho 125-147)
Poiché, dopo il significato letterale, ci proponiamo di esaminare
anche quello più allegorico1, anche per quanto concerne quest’ultimo
dobbiamo mettere in rilievo ciò che ci è utile.
Forse le persone un po’ troppo sconsiderate rideranno nell’udire le
mie parole, ma io dirò, senza alcuna esitazione, che l’uomo politico
è, ad ogni modo, un interprete dei sogni, non nel senso che egli sia
uno dei tanti parassiti o ciarlatani o di quelli che fanno mostra di
bravura per ricevere compensi e che si mettono a spiegare
pretestuosamente le rappresentazioni oniriche per far denaro, ma nel
senso che egli suole interpretare con esattezza il comune,
universale, gran sogno non solo di chi sta dormendo, ma anche di chi
è desto2.
Per dire tutta intera la verità, questo sogno s’identifica con la
vita umana. Come, infatti, nelle rappresentazioni che si hanno
durante il sonno noi, vedendo, non vediamo e, udendo, non udiamo e,
gustando e toccando, non gustiamo né tocchiamo e, parlando, non
parliamo e, passeggiando, non passeggiamo e, pur avendo
l’impressione di effettuare gli altri movimenti e di occupare certe
posizioni, noi non eseguiamo affatto queste azioni – si tratta,
invece, di vuote rappresentazioni della mente, la quale, senza avere
alcuna relazione con un oggetto realmente esistente, produce
raffigurazioni e immagini di cose-che-non-esistono,
come-se-fossero-esistenti –, allo stesso modo anche le
rappresentazioni che ci si presentano quando siamo svegli,
somigliano a sogni: esse vengono e vanno, appaiono e si dileguano, e
volano via, prima che noi le afferriamo saldamente3.
Ciascuno frughi dentro se stesso e ne riceverà la conferma da casa
sua, senza attendere le prove offerte da me, soprattutto se egli si
trova ormai ad essere avanti negli anni.
Ecco qui uno che era una volta bambino, poi ragazzo, poi efebo, poi
adolescente, quindi giovane, in appresso uomo e alla fine
vecchio. Ma dove sono tutte queste cose? Il bimbo si è dileguato nel
ragazzo, il ragazzo nell’efebo, l’efebo nell’adolescente,
l’adolescente nel giovane, il giovane nell’uomo, l’uomo nel
vecchio, e alla vecchiezza segue la morte4. Forse, dunque, ciascuna
di queste età, cedendo il potere a quella che viene dopo di lei,
prematuramente muore, mentre in silenzio la natura c’insegna a non
temere la morte che verrà al seguito di tutte quelle fasi della
vita, giacché agevolmente abbiamo sopportato le morti precedenti,
vale a dire quella del bimbo, del ragazzo, dell’efebo,
dell’adolescente, del giovane e dell’uomo, nessuno dei quali esìste
più, quando la vecchiezza è sopraggiunta.
E le altre cose riguardanti i corpi non sono forse sogni? Non è
effimera la bellezza, che appassisce già prima di fiorire? Non è
insicura la salute a causa delle infermità che incombono su di essa?
E il vigore fisico non è in preda alle malattie, che nascono da
infinite cagioni? E l’esattezza delle sensazioni, per quanto salda
essa sia, non viene travolta per l’interferenza di una breve
flussione?
E l’incertezza dei beni esterni chi non la conosce? In un solo
giorno grandi ricchezze sono andate sovente alla deriva;
innumerevoli persone, che avevano conquistato il primo posto nei più
alti onori, passarono nell’ingloriosa schiera dei negletti e degli
oscuri; i più grandi imperi furono abbattuti da un rapido tracollo
di circostanze. E le mie parole sono confermate da Dionisio di
Corinto, che fu tiranno della Sicilia e che, perduto il potere, si
rifugiò a Corinto e, da gran sovrano qual era stato, divenne maestro
elementare5. Sono confermate anche da Creso, re della Lidia, il più
ricco dei sovrani, il quale s’illuse di potere abbattere l’impero
dei Persiani e, invece, non solo perdette il proprio, ma fu anche
preso prigioniero e stette sul punto di essere bruciato vivo6. E che
si tratti di sogni lo testimonianonon solo singole persone, ma anche
città, popoli, paesi, l’Eliade e la terra dei barbari, gli abitanti
dei continenti e quelli delle isole, l’Europa e l’Asia, l’occidente
e l’oriente7. Nulla, infatti, è rimasto in alcun luogo nelle
medesime condizioni, ma ogni cosa, in ogni dove, è andata soggetta a
rivolgimenti e mutazioni. Una volta l’Egitto aveva la supremazia su
molte genti, ma ora esso è schiavo. I Macedoni, in tempi a loro
favorevoli, vigoreggiarono fino al punto da conquistare il dominio
di tutta la terra abitata, ma ora pagano agli esattori di tasse i
tributi annuali imposti a loro dai dominatori. Dov’è la
casa regnante dei Tolomei e la gloria di ciascuno dei Diadochi
che splendeva sino ai confini della terra e del mare? Dov’è la
libertà di popolazioni e di città indipendenti? I Persiani
dominavano una volta sui Parti; invece adesso i Parti dominano sui
Persiani.
Tutto ciò avviene a causa dei capovolgimenti delle cose umane e del
loro continuo spostarsi avanti e indietro, come nel gioco degli
scacchi!8
Alcuni si van fingendo lunghi e interminabili successi e, invece,
sono cominciati già per loro gravi malanni; e mentre si danno da
fare con l’illusione di conseguire un retaggio di beni, vengono a
trovare terribili disavventure, e, al contrario, mentre si attendono
il male, vengono ad imbattersi nei beni.Atleti che vanno orgogliosi
delle forze e della robustezza e della prestanza del loro corpo,
mentre sperano in una indubbia vittoria, spesso sono eliminati dalla
gara senza essere neppure messi alla prova, oppure, ammessi a
gareggiare, risultano sconfitti; altri, invece, che disperavano di
conseguire anche il secondo premio, conseguono il primo e
vengono incoronati. Alcuni, imbarcatisi d’estate – ossia nella
stagione favorevole alla navigazione – hanno fatto naufragio; altri,
invece, messisi a navigare d’inverno col timore di essere travolti,
sono stati portati senza pericolo fino ai loro porti. Certi mercanti
si lanciano verso quelli che a loro sembrano sicuri guadagni, senza
sapere i rovesci che li attendono; invece, mentre calcolano di
finire in perdita, riescono a conseguire grossi profitti.
Così le sorti sono oscure in un senso e nell’altro, e le umane
vicende oscillano come su di una bilancia dai pesi disuguali, ora
sollevandosi, ora invece tirando giù il piatto. Terribile è
l’incertezza e molta è l’oscurità che coinvolge i fatti della vita:
come in un sogno profondo, noi vaghiamo senza poter nulla percorrere
con esattezza di ragionamento e senza nulla afferrare con vigore e
fermezza, perché tutto è simile ad ombre e fantasmi. E come nei
cortei la fronte passa oltre e sfugge agli sguardi e nei torrenti
invernali il corso dell’acqua, spingendosi oltre, per la violenza
della sua velocità, precorre il nostro sguardo e gli si sottrae,
così anche gli eventi della vita, spingendosi innanzi e
sorpassandoci, danno tutta l’impressione di star fermi, mentre non
permangono neppure un istante, ma vanno ognora in rovina.
E gli svegli, che per l’incertezza della loro capacità di apprendere
non differiscono affatto dai dormienti, ingannano se stessi,
credendo di riuscire a scorgere la varia natura delle cose per mezzo
di ragionamenti non soggetti ad errore; in realtà, però, ogni
singolo senso costituisce per loro un impaccio al sapere
scientifico, essendo sedotto da visioni, da suoni, da diversi tipi
di sapori, da particolari esalazioni, verso cui esso si va piegando
e insieme con cui si lascia trascinare, senza permettere all’anima –
nella sua interezza – di stare eretta e di procedere speditamente
quasi lungo una strada molto affollata. In questo modo i sensi
provocano una contraddittoria confusione di alto e di basso, di
grande e di piccolo e di tutto ciò che è affine all’ineguaglianza e
all’irregolarità, e costringono a subire le vertigini e producono
grave smarrimento.
Orbene: poiché la nostra esistenza è piena di tanto
turbamento e disordine e, ancor più, di insicurezza, è
indispensabile che l’uomo politico si faccia avanti e, al pari di un
saggio interprete di sogni, sappia dare una spiegazione ai sogni
diurni ed ai fantasmi di quanti sembrano essere svegli, e fornisca
insegnamenti su ciascuna di queste cose con verosimili congetture e
con probabilità che siano razionali9, indicando che questo è bello e
quest’altro è brutto, che questo è buono e quello è cattivo, che
questo è giusto e il suo contrario è ingiusto, e allo stesso modo
farà per tutto il resto, ossia per ciò che è prudente, coraggioso,
pio, santo, vantaggioso, utile o, al contrario, inutile,
irrazionale, ignobile, empio, irreligioso, svantaggioso, dannoso,
egoistico. E, oltre a ciò, egli darà questi insegnamenti:
«Questa è roba d’altri, non desiderarla. Questo, invece, è tuo:
fanne uso, ma non abuso. Hai ricchezze eccessive: partecipane gli
altri, giacché il pregio della ricchezza non risiede nella
scarsella, ma nel soccorso a chi ne ha bisogno. Possiedi poco: non
insidiare chi ha di più, giacché nessuno avrà misericordia di un
povero insolente. Tu godi di buona reputazione e di onori: non
ringalluzzirne. Sei in basso loco quanto a beni di fortuna: ma
almeno il tuo intelletto non caschi giù! Tutto sta accadendo secondo
la tua intenzione: sappi prevedere con cautela un mutamento. Ti
trovi spesso nei guai: spera nel meglio, giacché per gli uomini le
cose si volgono in senso contrario». La luna e il sole e tutto
quanto il cielo posseggono i loro fulgori chiari e distinti, perché
tutte le cose che sono lassù rimangono identiche e sono misurate
dalle regole della stessa verità in una serie di ordinamenti
armoniosi e secondo le più profonde sinfonie; le cose terrene,
invece, sono piene di grave disordine e turbamento, difettano di
accordi musicali e di armonia nel senso più vasto dell’espressione,
perché sono in balia di oscurità profonda, mentre quelle celesti si
spostano ammantate di luce fulgentissima, anzi si identificano con
la luce stessa più incontaminata e pura.
Se, dunque, qualcuno vorrà penetrare con lo sguardo nell’intimo
delle cose, scoprirà che il cielo è un giorno eterno, completamente
immune dalla notte e da ogni foschia, perché è perennemente
illuminato, tutto intorno, da raggi di luce sempre vividi e
puri. E quanto è grande la differenza che, qui fra noi, intercorre
tra chi è sveglio e chi sta dormendo, altrettanta è quella che,
nell’intero universo, intercorre tra le cose celesti e quelle
terrestri. Le prime, infatti, si trovano in uno stato di veglia a
causa di energie che non vanno vagolando qua e là e non inciampano
ma tirano sempre diritto, mentre le seconde sono possedute dal sonno
e, ancorché si ridestino per breve tempo, vengono nuovamente
trascinate verso il basso e ricadono nell’assopimento, perché non
possono mirar nulla direttamente con la propria anima, ma procedono
per erramenti ed urti, essendo ottenebrate da false opinioni10, che
le costringono a sognare e ad indugiare sulle orme degli oggetti e
le gettano, perciò, nella incapacità di apprendere alcunché con
stabilità e sicurezza11.
1. L’interpretazione allegorica delle scritture, che ebbe tanto
sviluppo nell’età cristiano-medievale, era già in atto nel mondo
pagano presso gli Stoici e venne incrementata dall’accostamento del
loro pensiero a quello platonico.
2. Pare che Filone abbia ben digerito le argomentazioni Carneadee
(riportate da Cicerone in De divin. II) e si ponga genialmente su un
piano tutto nuovo utilizzando le critiche scettiche.
3. Alla critica Carneadea della rappresentazione si aggiunge Vanimus
eracliteo che si riscontra, tra l’altro, anche in PLUTARCH. De E
apud Dalph.18.
4. Cfr. PHILO, De Cher. 114.
5. Cfr. CIC. Tuse. III, XII, 27.
6. Cfr. HERODOT. I, 46 segg.
7. Cfr. PHILO, Quod Deus 173 segg.
8. L’immagine fa pensare al probabilismo di Carneade, anche se esso
viene subito implicitamente sconfessato.
9. Ossia facendo un accorto uso delle dottrine accademiche e
superandone, quasi con un afflato mistico, la scepsi.
10. La dottrina pirroniana dell’ἀδοξαστία, profondamente rivissuta,
porta Filone verso nuovi orizzonti di verità.
11. In De somn. I, 21-24 Filone, rifacendo un discorso scettico di
origine neo-accademica o enesidemea, estende l’ἀϰαταληΨία ai grandi
problemi della fisica: «Il cielo conserva incomprensibile la sua
natura, senza offrirci alcuna chiara possibilità di farsi conoscere.
Cosa potremmo dire? Che esso è un cristallo condensato, come certuni
[Empedocle, STOB. Eel. I, 23, p. 500 H] reputarono? O che è fuoco
allo stato di assoluta purezza [Parmenide, Eraclito, Stratone,
Zenone, DIELS, Doxogr. graec., p. 340]? O che è un quinto elemento
corporeo capace di eseguire la conversione circolare, senza
partecipare di nessuno degli altri quattro [Aristotele]? E non
basta. La sfera fissa e più esterna ha una profondità in senso
ascendente oppure è semplicemente una superficie priva di profondità
e simile alle figure piane? E poi? Le stelle sono masse terrose
piene di fuoco [Talete, DIELS, Doxogr. graec. p. 342] – difatti
alcuni [Democrito e Archelao] hanno asserito che esse sono forre e
burroni e masse di ferro infuocato, mostrandosi in tal modo essi
stessi meritevoli di prigione e di essere menati alla macina in
luoghi ove sono siffatti strumenti per la punizione degli empi?
Oppure esse sono un’armonia continua e, come disse qualcuno
[Anassimandro, STOB. Eel. I, 24 p. 510 H], compatta, indissolubile
condensazione di aria? Sono esse animate ed intelligenti [Zenone,
Diels, Doxogr. graec. p. 467] o prive di intelletto e di anima
[Epicuro]? Eseguono esse movimenti prescelti da loro oppure
dipendenti esclusivamente dalla necessità? E non basta. La luna
splende di luce propria o bastarda e riflessa dai raggi solari?
Oppure non è vera nessuna di queste due cose, ma il suo chiarore è,
invece, una fusione di entrambe, come un miscuglio di fuoco in parte
originario e in parte proveniente dal di fuori? In verità tutte
queste teorie ed altre simili a Queste, che concernono l’ottimo e
quarto “corpo” esistente nel mondo – ossia il cielo –, sono non
evidenti e non comprensibili, fondate su supposizioni e su
congetture, non sullo stabile ragionamento della verità. Di
conseguenza si potrebbe avere anche l’audacia di giurare che nessun
mortale riuscirà mai a comprendere con chiarezza alcuna di queste
cose». In scstanza questo ragionamento estende a tutta l’astronomia
la stessa incomprensibilità che si riferisce al numero pari o
dispari delle stelle.
I tropi dell’epoché (FILONE, De ebriet. 170-205)
Poiché la rappresentazione è instabile, anche il giudizio che ci si
forma di essa è necessariamente instabile1.
Le cause di questo fatto sono molte.
〈I〉 In primo luogo2 sono innumerevoli le differenze
che sussistono negli esseri viventi a proposito non di una sola
loro parte, ma di tutte, ossia di quelle che concernono la loro
nascita e la loro struttura, di quelle che concernono il nutrimento
e il modo di vivere, di quelle che concernono le scelte e le
ripulse, di quelle che concernono le attività dei sensi e i
movimenti, di quelle che concernono le proprietà delle
innumerevoli affezioni sia del corpo sia dell’anima. Difatti,
pur prescindendo dai soggetti giudicanti3, mettiti ad osservare
anche alcuni degli oggetti giudicati, ad esempio il camaleonte e il
polipo: si dice che il primo cangi il colore della pelle e divenga
simile al suolo su cui ha la consuetudine di strisciare, mentre il
secondo si assimila agli scogli marini ai quali eventualmente si
afferri, forse perché la salvatrice natura ha donato a questi
animali, come una medicina che rimuova il danno della
cattura, la capacità di mutare in vari colori. E non hai tu
osservato il collo della colomba4 cangiare, ai raggi del sole, in
un’infinita serie di tinte? Non presenta esso forse alcune volte un
colore purpureo e blu, altre volte igneo e di carbone ardente, e
ancora ocraceo e rossastro e altri colori di varia specie,
di cui sarebbe difficile menzionare anche i nomi? Si dice,
anche, che nel paese di quegli Sciti che hanno il nome di Geloi si
trovi, ancorché di rado, una fiera molto strana che si chiama alce5,
dalla mole non inferiore a quella di un bue, ma somigliantissima ad
un cervo per i lineamenti del volto. Si racconta che quest’animale
cangia sempre il colore dei peli a seconda di quello delle località
o degli alberi o, insomma, di ogni altra cosa presso cui esso si
fermi, e di conseguenza, mercé questa sua mimetizzazione, resta
celato ai passanti e difficilmente si lascia catturare in virtù di
questo fatto piuttosto che della sua vigoria fisica. Questi
fenomeni e gli altri simili a questi sono prove evidenti
dell’impossibilità dell’apprensione.
〈II〉 In secondo luogo6 sussistono tutte quelle diversità che, anche
a non voler tener conto di tutti quanti gli animali, sono
proprie degli uomini tra di loro. Difatti questi ultimi esprimono il
loro giudizio sulle medesime cose in modo diverso non solo a seconda
della diversità del tempo, ma anche a seconda delle loro diversità
interpersonali, recependo impressioni gradevoli o, al contrario,
sgradevoli dai medesimi oggetti. Di certe cose, infatti, alcuni
provano disgusto, altri godimento e, al contrario, quelle cose che
alcuni accolgono a braccia aperte come care e familiari, altri le
respingono lungi da sé come estranee e repugnanti. Così, trovandomi
a teatro, ho potuto sovente osservare che da una sola e
medesima melodia eseguita dagli attori sulla scena o dai citaredi,
alcuni ascoltatori erano scossi a tal punto da non riuscire neppure
ad applaudire a cagione della loro eccitazione e del bisogno di
riecheggiare le battute, mentre altri rimanevano così invulnerabili
che, almeno sotto questo profilo, li si sarebbe creduti non
differire affatto dagli scanni inanimati su cui sedevano, e altri,
infine, provavano tale repugnanza da abbandonare lo spettacolo e
andarsene via e da otturarsi, per giunta, tutte e due le orecchie
con le mani per evitare che qualche nota rimanesse ancor viva in
loro e facesse risuonare un senso di dispiacere nelle loro anime
irritate e malcontente.
〈III〉 Ma che bisogno c’è di scendere in questi
particolari? Ogni singolo individuo, pur essendo uno solo, di
per se stesso – ed è questa la cosa più paradossale! – subisce nel
corpo e nell’anima un’infinita serie di mutazioni e rivolgimenti, e
perciò talora respinge cose che non mutano affatto, ma che per loro
natura permangono nella medesima costituzione7. Infatti non si
provano le stesse impressioni quando uno è sano e quando è
malato, quando è sveglio e quando sta dormendo, quando è giovane e
quando è divenuto vecchio, e inoltre ciascuno recepisce
rappresentazioni diverse secondo che stia fermo o sia in movimento,
abbia coraggio o paura e, inoltre, secondo che si trovi
nell’afflizione o nella gioia, in uno stato d’amore o di odio. Ma
che bisogno c’è di dilungarsi fino alla noia su questo tema? A
dirla in breve, ogni movimento naturale o innaturale del corpo o
dell’anima è cagione di quell’incessante mutevolezza che coinvolge i
fenomeni e che riversa su di noi sogni contrastanti tra loro e privi
di coerenza.
〈IV〉 Ma la mutevolezza delle rappresentazioni è prodotta non di meno
dalle posizioni, dalle distanze e dai luoghi in cui ciascun oggetto
viene a trovarsi8. Non vediamo, forse, che i pesci al di sotto del
mare, quando nuotano stendendo le pinne, appaiono sempre
vistosamente più grossi delle loro normali dimensioni? E capita,
altresì, che i remi, per quanto dritti essi siano, si vedano
spezzati al di sotto dell’acqua. E indubbiamente gli oggetti molto
lontani sogliono ingannare la nostra mente, provocando
rappresentazioni false. Talora, infatti, cose inanimate suscitano
l’impressione di essere animate e, viceversa, quelle animate di
essere inanimate, e, inoltre, certi oggetti fermi danno
l’impressione di muoversi e quelli mossi di star fermi, e quelli che
si allontanano di avvicinarsi, e quelli molto lunghi di essere
cortissimi, e quelli poligonali di essere circolari. E, anche quando
la visione è chiara, viene erroneamente registrata un’infinità di
altre cose che nessuna persona ben pensante sottoscriverebbe come
cose salde.
〈V〉 E che dire dei rapporti quantitativi negli oggetti
confezionati?9 I danni e i vantaggi che questi ultimi procurano
dipendono dalla quantità maggiore o minore delle loro componenti,
come si riscontra in innumerevoli altri prodotti e soprattutto nei
farmachi usati dalle scienze mediche. Infatti la quantità che è
presente nelle composizioni viene misurata in base a regole ben
determinate, e, se ci si ritrae al di qua di esse o ci si spinge al
di là, si cade nell’insicurezza – difatti il meno attenua
l’efficacia del prodotto e il più la estende oltre misura; ma
ciascuna di queste due cose è nociva: la prima, perché rende il
farmaco incapace di produrre alcun effetto a causa della debolezza;
la seconda, perché lo costringe a recare danno a causa di un potere
eccessivo – e, ancora, a cagione della levigatezza o ruvidezza,
della densità e compattezza o, al contrario, della rarità e
porosità, quel preparato mostra in maniera evidente le proprie carte
in regola per procurare soccorso oppure nocumento.
〈VI〉 Ma ognuno sa anche che nessuna delle cose esistenti viene
affatto pensata di per sé sola e in sé sola, ma che ciascuna viene
esaminata mercé il confronto col suo contrario10, come, ad esempio,
il piccolo in confronto col grande, l’asciutto con Tumido, il caldo
col freddo, il leggero col pesante, il nero col bianco, il debole
col forte, i pochi con i molti. Suppergiù lo stesso discorso
vale anche per ciò che si attiene ad una virtù o a un vizio: ad
esempio, le cose vantaggiose vengono riconosciute per mezzo di
quelle dannose, le cose belle mercé il contrasto con quelle brutte,
le cose giuste e, in genere, buone in base al confronto con quelle
ingiuste e cattive; e, comunque, chi bene osserva potrà scoprire che
a tutte quante le altre cose del mondo si dà un giudizio secondo il
medesimo modo di caratterizzarle: difatti ciascuna cosa è di per sé
incomprensibile, ma sembra essere riconosciuta soltanto in base al
confronto con un’altra. Però quello che non è sufficiente a
dare un attestato della propria identità ed è bisognoso del
sostegno di un’altra cosa, non è valido a produrre una credenza. Di
conseguenza, anche sotto questo profilo, noi possiamo confutare
quelli che con leggerezza profferiscono affermazioni o negazioni su
qualsivoglia argomento.
〈VII〉 E non c’è niente di strano! Ognuno, infatti, se riesce a
penetrare nelle cose con maggiore profondità ed a rimirarle con
maggiore purezza, verrà ad acclarare che neanche una sola cosa ci si
presenta nella sua essenza assoluta, ma che tutte quante contengono
mescolanze e mistioni molto complicate11. Per far subito un esempio,
in che modo apprendiamo i colori? Non forse per mezzo dell’aria
e della luce, che sono cose esterne, e per mezzo dell’umore, che è
interno al nostro occhio? In che modo vengono esaminati il dolce e
l’amaro? Possiamo condurre quest’operazione senza i succhi che
stanno all’interno della nostra stessa bocca, tanto quelli che sono
conformi a natura quanto quelli che non le sono conformi?12 Niente
affatto! E poi? I profumi che si sprigionano dal bruciar degli
incensi ci offrono forse, in modo semplice e puro, le sostanze
naturali dei corpi? O non ci offrono piuttosto le sostanze mescolate
di quei corpi stessi e dell’aria e, talvolta, anche del fuoco che
dissolve quei corpi, nonché delle facoltà delle nostre narici? Da
queste considerazioni si evince che noi non apprendiamo i colori, ma
solamente la mistione che risulta dai materiali cui i colori
appartengono e dalla luce, e che non apprendiamo odori, ma soltanto
la miscela che risulta dall’esalazione che i corpi emanano e
dall’aria che tutto accoglie, e che non apprendiamo sapori, ma solo
ciò che si produce per mezzo dell’oggetto esterno gustato e della
sostanza umida interna alla nostra bocca.
Poiché le cose stanno in questa maniera, è giusto accusare di
semplicioneria di frettolosità e di millanteria quanti non sanno
trattenersi dal profferire facili affermazioni o negazioni su
qualsivoglia cosa. Se, infatti, le proprietà semplici delle cose
sono fuori della nostra portata e se, al contrario, si offrono al
nostro sguardo esclusivamente quelle che sono miste e che hanno
ricevuto il contributo di una pluralità di componenti, e se è
impossibile scorgere quelle proprietà che sono invisibili – vale a
dire distinguere appropriatamente, attraverso la mescolanza, i
tratti peculiari di ciascuna delle componenti –, che altro ci potrà
rimanere se non la sospensione del giudizio?
Ma non siamo forse indotti a non accordare troppo facile credito
alle cose non-manifeste anche da certi fatti che sono comunemente
diffusi in quasi tutta quanta la terra abitata e che inducono Elleni
e barbari a sdrucciolare a causa dei loro giudizi?13 Intendo
alludere, ovviamente, a quelle maniere di vivere che abbiamo
praticate fin da fanciulli, alle costumanze patrie, alle antiche
leggi, ossia a cose di cui neppure una sola è ammessa da tutti allo
stesso modo, ma ciascuna delle quali è giudicata in maniera
totalmente diversa secondo le regioni, le popolazioni e le città,
anzi secondo ogni singolo villaggio o ogni singola casa o,
addirittura, secondo ogni singolo uomo o donna o bimbo ancor
privo di parola. Ciò che è brutto presso di noi è senz’altro bello
presso altri, e ciò che è per noi conveniente è sconveniente per
altri, e ciò che è illegittimo legittimo, e, ancora, ciò che è
lodevole biasimevole, e ciò che è meritevole di onore risulta
meritevole di condanna, e questo vale per tutte le altre cose su cui
si formulano giudizi contrari ai nostri.
Ma che bisogno c’è di andare per le lunghe, dal momento che noi
siamo trascinati da cose più impellenti? Comunque, se uno di noi,
senza lasciarsi distrarre da alcun altro spettacolo più nuovo,
volesse fare attenzione all’insieme delle cose che ora ci sono state
messe innanzi e intendesse prendere in esame modi di vivere e
costumi e leggi di paesi, di popolazioni, di città e di luoghi, di
sudditi e di capi, di nobili e di plebei, di liberi e di schiavi, di
ignoranti e di dotti, dovrà consumare non una giornata o due e
neppure un mese o un anno, ma tutta quanta la propria vita, per
quanto lunga possa esserne la durata, e nondimeno si lascerà dietro
le spalle molti problemi senza averli esaminati o presi in
considerazione o, almeno, ascoltati.
Poiché, pertanto, non sono piccole le differenze che
contraddistinguono certi modi di vivere da certi altri, ma
questi discordano interamente tra loro fino al punto da venire in
opposizione e contrasto, inevitabilmente differiscono anche le
rappresentazioni che si presentano a noi, ed anche i giudizi sono in
istato di guerra tra loro. E se queste cose stanno così, chi è tanto
insensato e stupido da asserire nettamente che questa determinata
cosa è giusta o saggia o bella o giovevole? Infatti quello che da
costui viene così definito sarà respinto da un altro che, fin da
fanciullo, avrà avuto abitudini contrarie.
Per conto mio, non trovo strano se una massa confusa e mista,
che è divenuta ignobile mancipia di costumanze e di leggi importate
da ogni dove e che fin dalle fasce ha imparato a prestar loro
obbedienza come se si trattasse di padroni o di tiranni – una massa
spiritualmente prostrata da una scarica di pugni e resa incapace di
concepire un pensiero grande e generoso14 –, dia credito a
tradizioni che le sono state imbandite una volta per tutte e,
lasciando inesercitata la propria mente, si metta a dare
approvazione o riprovazione che non presuppongono né una ricerca né
una disamina. Provo, invece, stupore del fatto che la massa dei
cosiddetti filosofi, che simula di voler rintracciare quanto vi è di
certo e che pretende di dire la verità sulle cose esistenti, si è
divisa in eserciti e plotoni e propone soluzioni dommatiche spesso
discordanti e contrarie tra loro non a proposito di una sola
questione sollevata a caso, ma quasi su tutte quante le questioni
piccole e grandi su cui si concentrano le loro indagini.
Quando, invero, alcuni intendono spiegare che l’universo è infinito
e altri che è finito, o alcuni pretendono di rivelare che esso è
ingenerato e altri che è generato, o quando alcuni escludono
l’esistenza di un capo e di un condottiero del mondo e lasciano
quest’ultimo in balia di un moto irrazionale e spontaneo e altri,
invece, postulano una mirabile provvidenza che ha cura del tutto e
delle parti, giacché un dio regge le briglie e il timone del mondo
in maniera infallibile e salutare, non c’è alcuna possibilità che
quei filosofi riescano a conseguire un’identica comprensione delle
cose nella loro reale sussistenza.
E le rappresentazioni che a noi si presentano durante l’indagine sul
bene, non ci inducono, forse, a sospendere il giudizio piuttosto che
a dare l’assenso, dal momento che alcuni15 reputano che sia bene
soltanto ciò che è moralmente bello e se lo conservano nell’anima
come un tesoro, mentre altri16 sbrindellano il bene in una pluralità
di cose e lo estendono fino al corpo e alle cose esteriori?
Questi ultimi asseriscono che i successi fortuiti sono le guardie
protettrici del corpo e che salute e forza e, inoltre, l’integrità e
l’esatto funzionamento degli organi sensoriali e tutte le altre cose
siffatte sono le guardie protettrici dell’anima sovrana: la natura
del bene, infatti, si dividerebbe in tre ordini di cose, di cui il
terzo – ossia quello più esteriore – farebbe da protezione al
secondo, quando questo è «ai ripari»17, mentre il secondo diventa
grande baluardo e salvaguardia del primo. Comunque, a proposito
di queste cose e dei differenti modi di vivere e dei fini ai quali
bisogna ricondurre tutte quante le azioni e di infinite altre cose
che sono contemplate dall’indagine logica o da quella fisica o da
quella etica, sono sorti infiniti problemi su nessuno dei quali i
«ricercatori»18 si sono trovati finora tutti d’accordo.
È verosimile, allora, presentare l’Intelletto come orbo di ogni
conoscenza scientifica, allorché le sue due figlie – ossia la
Deliberazione e l’Approvazione – gli stanno accanto e gli fanno da
ancelle. Si dice, infatti: «Egli non sapeva quando esse si
addormentarono e quando si svegliarono»19. A quanto pare,
infatti, l’intelletto non riesce a comprendere in maniera chiara e
ferma né il sonno né la veglia, né la quiete né il moto, ma, proprio
quando sembra che abbia preso la migliore deliberazione, proprio
allora si viene a scoprire che esso è assolutamente sfornito di
capacità deliberativa, perché la realtà dei fatti è andata a
terminare in una maniera per nulla simile alle aspettative, e quando
all’Intelletto è sembrato opportuno sottoscrivere certe cose
come vere, esso soggiace all’accusa di facilismo, perché risultano
immeritevoli di credito e insicure quelle cose in cui
precedentemente esso riponeva la fiducia come in oggetti saldissimi.
Ne consegue che, siccome la realtà delle cose suole andare a finire
nel contrario di come ce la prefiguravano, la cosa più sicura è
sospendere il giudizio20.
(SESTO EMPIRICO, Pyrrh. hyp. I, 36-163)
Di solito vengono prospettati, da parte degli Scettici più
antichi21, dieci «tropi» per mezzo dei quali sembra che si pervenga
alla sospensione del giudizio. Essi vengono anche chiamati, per
sinonimia, «argomentazioni» e «luoghi».
Essi sono i seguenti: il primo si fonda sulla diversità
degli esseri viventi, il secondo sulle differenze degli uomini
tra loro, il terzo sulle differenti strutture degli organi
sensoriali, il quarto sulle circostanze, il quinto sulle posizioni,
sulle distanze e sui luoghi, il sesto sulle mescolanze, il settimo
sulle quantità e sulle confezioni degli oggetti, l’ottavo sulla
relazione, il nono sulla frequenza o sulla rarità degli accadimenti,
il decimo sulle regole di condotta, sui costumi, sulle leggi, sulle
credenze mitiche e sui preconcetti di ordine dommatico. È
questo l’ordine che noi convenzionalmente22 utilizziamo.
Tutti questi tropi, però, vengono a ridursi a tre: a quello che
deriva dal giudicante, a quello che deriva dal giudicato, a quello
che deriva da entrambi. Sono, infatti, subordinati a quello che
deriva dal giudicante i primi quattro (giacché ciò-che-giudica è o
un animale o un uomo o un senso oppure viene a trovarsi in una
qualche circostanza); al tropo derivante dal giudicato (si
riducono)23 il settimo e il decimo; a quello, infine, che deriva
insieme da entrambi, si riconducono il quinto, il sesto, l’ottavo e
il nono.
A loro volta, però, questi tre tropi si riducono a quello della
relazione, sicché quest’ultimo è il più generico, i tre sono
specifici e i dieci sono sottospecie. Questo noi diciamo del loro
numero, attenendoci alla probabilità24; invece, a proposito della
loro efficacia, diciamo quanto segue.
〈I tropo〉 Dicevamo che è prima argomentazione quella secondo cui, (a
cagione della)25 differenza sussistente tra gli esseri viventi, non
ci si presentano come identiche quelle rappresentazioni che pur
provengono da oggetti identici. Questo noi lo desumiamo dalle
differenze genetiche dei viventi e dalla diversa composizione dei
loro corpi.
Per quanto concerne la loro genesi, alcuni animali nascono senza il
coito, altri dalla copulazione. E fra quelli che nascono senza il
coito, alcuni nascono dal fuoco, come gli animalucci che si vedono
nelle fucine, altri dall’acqua marcia, come le zanzare, altri
dall’inacidirsi del vino, come i foralegno, altri dalla terra (come
i topi)26, altri dal fango, come le rane, altri dal letame, come i
vermi, altri dagli asini, come gli scarafaggi, altri dagli ortaggi,
come i bruchi, altri dai frutti, come le vespe dei caprifichi, altri
da animali putrefatti, come le api dai tori e i calabroni dai
cavalli. Tra gli animali che nascono per copulazione, alcuni
provengono da animali della medesima specie, come avviene per la
loro stragrande maggioranza, altri da animali di specie diversa,
come è il caso dei muli. D’altra parte, alcuni animali nascono già
vivi, come gli uomini, altri dalle uova, come gli uccelli, altri,
infine, sono soltanto un ammasso di carne, come gli orsi. È
verosimile, pertanto, che le dissomiglianze e le differenze
dovute alla nascita producano notevoli contrarietà nelle affezioni
sensibili, le quali, a loro volta, comportano divergenza di
giudizio, discordanza e contrasto.
Ma anche la differenza delle parti principali del corpo,
specialmente di quelle che hanno le naturali funzioni di
giudicare e di recepire una sensazione, possono produrre un
gravissimo contrasto di rappresentazioni [a causa della diversità
degli esseri viventi]27. Così, ad esempio, gli itterici dicono che
sono gialli quegli oggetti che a noi appaiono bianchi, mentre gli
iperemici dicono che sono color sangue. Poiché, pertanto, anche tra
gli animali, alcuni hanno occhi giallastri, altri sanguigni, altri
biancastri, altri di un altro colore, è verosimile28, credo, che per
loro anche la ricezione dei colori venga a risultare differente.
D’altronde, se noi teniamo fissi gli occhi per lungo tempo
verso il sole e poi li abbassiamo sopra un libro, ci sembra che le
lettere siano dorate e facciano la girandola. Poiché, pertanto,
alcuni animali hanno una luminosità negli occhi ed emettono da
questi una luce sottile e penetrante fino al punto da vedere anche
di notte, possiamo sentirci autorizzati a credere che gli oggetti
esterni non si presentano nello stesso modo a noi e a loro. E i
prestigiatori ungono i lucignoli con verderame e con inchiostro e
fanno apparire gli astanti ora abbronzati ora anneriti a cagione del
lieve diffondersi di quel miscuglio. È, perciò, molto più conforme a
ragione ritenere che, essendo mescolati umori diversi nell’organo
visivo degli animali, per questi ultimi risultino (anche)29
differenti le rappresentazioni degli oggetti. E quando noi
comprimiamo l’occhio da un lato, le forme e le figure e le
dimensioni degli oggetti visibili ci appaiono allungate e strette. È
verosimile, quindi, che quanti animali hanno la pupilla obliqua e
allungata – come capre, gatti e simili – immaginino che gli oggetti
siano differenti e non quali li suppongono quegli animali che hanno
la pupilla tondeggiante. Del resto gli specchi, secondo la
diversità della loro struttura, talvolta fanno vedere molto
rimpiccioliti gli oggetti esterni – come, ad esempio, fanno gli
specchi concavi –, talvolta, invece, li fanno vedere molto allungati
e stretti – come fanno quelli convessi –, e alcuni mostrano la
persona che vi si specchia col capo all’ingiù e con i piedi
all’insù. Orbene, poiché, anche tra i vasi che circondano l’occhio,
alcuni per la loro convessità si spingono agevolmente al di fuori
dell’occhio, altri sono più concavi e altri infine, giacciono su un
piano livellato, è verosimile, anche per questo motivo, che le
rappresentazioni subiscano un’alterazione e che da cani, da pesci,
da leoni, da uomini, da locuste i medesimi oggetti non siano visti
uguali per dimensioni né simili per forme, ma che variino a seconda
della particolare impressione prodotta dall’organo visivo che
recepisce le apparenze.
II medesimo discorso vale anche per gli altri sensi. Come, infatti,
si potrà affermare che, per quanto concerne il tatto, subiscano
affezioni tra loro simili gli animali coperti di crosta e quelli che
hanno la carne scoperta, quelli spinosi e quelli alati o squamosi?
Come potranno, per quanto concerne l’udito, recepire i suoni allo
stesso modo quegli animali che hanno molto stretto il canale
acustico e quelli che ne possono utilizzare uno molto largo, oppure
quelli che hanno le orecchie pelose e quelli che le hanno glabre?
Del resto anche noi, per quanto concerne l’udito, proviamo
un’affezione diversa secondo che ci otturiamo le orecchie oppure le
conserviamo libere.
Anche l’olfatto differirà secondo le diversità degli animali. Se,
infatti, anche noi in un modo subiamo le affezioni quando siamo
raffreddati e in noi si è moltiplicato il muco, e in un altro modo
quando le parti della nostra testa abbiano accolto un eccesso di
sangue, e ci distogliamo da quegli oggetti che agli altri sembrano
profumati e crediamo di esserne quasi malamente percossi, allora,
dal momento che alcuni animali sono per natura bavosi e pieni di
muco, altri sono molto sanguigni e altri hanno in prevalenza o in
sovrabbondanza la bile gialla o quella nera, è conforme a ragione
che, anche per questo motivo, gli oggetti odorati appaiano
differenti a ciascuno di noi.
Lo stesso vale anche a proposito del gusto, giacché
alcuni animali hanno la lingua ruvida e asciutta, altri l’hanno
molto umida; del resto anche noi, quando nello stato febbrile
abbiamo la lingua troppo secca, crediamo anche che i cibi che ci
vengono imbanditi siano terrosi, disgustosi e amari, e subiamo
queste affezioni anche a seconda della differente prevalenza dei
succhi che si dice siano in noi. Poiché, pertanto, gli animali hanno
l’organo sensoriale del gusto che differisce da uno ad un altro e
che ha una diversa abbondanza di succo, essi recepiranno come
diverse, anche per quanto concerne il gusto, le rappresentazioni
degli oggetti. Come, infatti, il medesimo alimento, quando è
stato digerito, in un posto del nostro corpo diventa vena, in un
altro arteria, in un altro osso, in un altro nervo o ciascuna delle
altre componenti del corpo, mostrando di avere un potere diverso a
seconda della diversità delle parti del corpo che lo ricevono, e
come l’acqua, che pur è unica e di una sola specie, quando si
diffonde negli alberi, in un posto diventa corteccia, in un altro
ramo, in un altro frutto e, insomma, fico o melagrana o ciascuno
degli altri frutti, e come il fiato del suonatore, che è pur
unico e identico, quando spira nel flauto, diventa suono ora acuto o
ora grave, e la stessa pressione della mano sulla lira produce qui
un suono grave e lì uno acuto, così è verosimile che anche gli
oggetti posti fuori di noi vengano contemplati come differenti
secondo la differente struttura degli animali che subiscono le
rappresentazioni.
Di ciò possiamo renderci conto con maggiore evidenza in base
alle scelte e ai rifiuti operati dagli animali. Così, ad esempio,
l’unguento profumato risulta molto piacevole agli uomini, ma
insopportabile agli scarafaggi e alle api; e l’olio d’oliva è di
giovamento agli uomini, mentre sopprime vespe ed api, se viene
riversato su di esse; e l’acqua marina, se viene bevuta, è
sgradevole per gli uomini ed è amara come un veleno, mentre è
molto gradevole e potabile per i pesci. Ed i maiali diguazzano con
maggior diletto nella melma fetente che in acqua trasparente e
tersa. Alcuni animali, poi, si nutrono di erbe, altri di stecchi,
altri di piante selvatiche, altri di semi, altri di carne, altri di
latte, e alcuni godono di alimenti in putrefazione, altri di cibi
freschi, alcuni di cibi crudi, altri di pietanze ben preparate in
cucina. Insomma, certe cose che per alcuni sono piacevoli, per altri
sono spiacevoli e repellenti e addirittura letali. Così, la
cicuta fa ingrassare le quaglie e la fava porcina le scrofe, le
quali si sollazzano a divorare anche salamandre, come i cervi
mangiano con piacere gli animali velenosi e le rondini mangiano le
cantaridi. Le formiche ed i foralegno, se sono ingoiati dagli
uomini, provocano ribrezzo e nausea, ma l’orso se li mette a leccare
e ne trae vigore, quando si sente oppresso da stanchezza. La
vipera sviene ad un semplice tocco di ramo di faggio, come anche il
pipistrello a quello di una foglia di platano. L’elefante scansa il
caprone, e il leone scansa il gallo, e i cetacei marini fuggono via
al crepitar di fave tritate e la tigre al suono di un tamburo.
Si potrebbero addurre molti altri esempi oltre questi; ma, perché
non sembri che noi vogliamo perder tempo più del dovuto, concludiamo
che, se le medesime cose per alcuni sono sgradevoli e per altri sono
gradevoli, e se gradevolezza e sgradevolezza risiedono nella
rappresentazione, allora gli animali ricevono dagli oggetti
rappresentazioni differenti tra loro. Ma, se le cose identiche
appaiono dissimili a causa della diversità degli esseri viventi, noi
saremo in grado di dire, senz’altro, quale si offra l’oggetto alla
nostra vista, ma sospenderemo il giudizio sulla sua naturale
essenza30. Né, a dire il vero, noi stessi potremo esprimere un
giudizio che distingua le rappresentazioni nostre da quelle degli
altri animali, essendo anche noi parte in causa del disaccordo e
avendo, perciò, noi stessi bisogno di chi operi la distinzione
piuttosto che essere, proprio noi, capaci di operarla.
D’altronde noi non possiamo dare un giudizio preferenziale alle
nostre rappresentazioni rispetto a quelle degli animali
irragionevoli, tanto se non ne diamo dimostrazione quanto se ne
diamo. Difatti, anche a voler prescindere dalla probabilità che –
come mostreremo31 – non esista dimostrazione alcuna, la stessa
cosiddetta dimostrazione sarà per noi o apparente o non-apparente. E
se essa ci risulterà non-apparente, noi non la porteremo affatto
innanzi con convinzione; se, invece, essa ci risulta apparente,
poiché proprio su ciò-che-appare agli animali si sta svolgendo
l’indagine, e poiché la dimostrazione risulta apparente a noi, che
pur siamo animali, allora si dovrà aprire anche l’indagine su di
essa per scoprire se sia vera allo stesso modo che è apparente. Ma è
assurdo cercare di dimostrare ciò che è sotto inchiesta con ciò
che è, anch’esso, sotto inchiesta32, giacché la medesima cosa
verrebbe a risultare – il che è impossibile! – meritevole e non
meritevole di credito: meritevole di credito, in quanto intende
fornire una dimostrazione; non meritevole di credito, in quanto essa
stessa ha bisogno di essere dimostrata. Noi non avremo, quindi, una
dimostrazione che ci autorizzi a dare un giudizio preferenziale alle
nostre stesse rappresentazioni rispetto a quelle degli animali
cosiddetti irragionevoli.
Adunque: se le rappresentazioni risultano differenti a seconda della
diversità degli esseri viventi, e se è impossibile esprimere un
giudizio su di esse, si deve, allora, necessariamente sospendere il
giudizio circa gli oggetti che giacciono fuori di noi.
Ma, per sovrappiù, noi stabiliamo un confronto tra gli
animali cosiddetti irragionevoli e gli uomini per quanto
concerne il credito che essi meritano33.
Dopo aver addotto questi nostri argomenti così efficaci non
riteniamo che sia poco dignitoso prendere in giro i boriosi e
vanagloriosi Dommatici. Orbene, i nostri pensatori, di solito, si
limitano a stabilire un confronto tra la moltitudine degli animali
irragionevoli in genere e l’uomo. Ma poiché i Dommatici, con
una delle loro trovate capziose, dicono che il confronto è impari,
allora noi, caricando la dose del nostro divertimento, fonderemo la
nostra argomentazione su un solo animale, ad esempio – se vi pare –
sul cane, che sembra essere una bestia di scarso pregio. Scopriremo,
anche in questo modo, che gli animali di cui si sta parlando non
sono da meno di noi per quanto concerne la credibilità di tutto
quello che appare. La superiorità di quest’animale rispetto a
noi per quanto concerne la facoltà di sentire è concordemente
ammessa dai Dommatici: difatti, per quanto concerne l’odorato, il
cane ha una facoltà ricettiva che è superiore alla nostra, giacché
se ne serve per seguire le orme delle fiere non ancora avvistate, e
con i suoi occhi le scorge più rapidamente di noi e col suo udito ne
prova una sensazione acuta. Veniamo ora alla facoltà
logico-espressiva34. Questa si distingue in «riposta» e
«profferita»35.
Esaminiamo prima quella riposta. Essa – secondo quei Dommatici che
professano opinioni massimamente in contrasto con le nostre, vale a
dire secondo gli Stoici – sembra darsi da fare per scegliersi cose
appropriate e per rifiutare cose estranee, per acquisire conoscenza
delle arti che tendono a questo fine e per impossessarsi delle virtù
che sono conformi alla propria natura 〈e〉36 di quelle relative
alle affezioni. Orbene, il cane – che ci è parso opportuno prendere
come esempio per la nostra argomentazione – opera una scelta delle
cose che fanno al caso suo e un rifiuto di quelle che gli sono
dannose, inseguendo le cose che lo possono nutrire e ritirandosi
quando su di lui si alza la frusta. Ma il cane possiede anche
un’arte che gli sa procurare le cose proficue: la caccia. E
neanche di virtù esso è privo! Se teniamo presente che la giustizia
è quella virtù «che sa distribuire a ciascuno secondo il merito»37,
il cane, facendo le feste e dando la sua protezione a quelli che gli
sono familiari e che gli fanno del bene, e avventandosi contro
quelli che gli sono estranei e che gli fanno dei torti, è certamente
partecipe della giustizia. E se possiede questa, allora – data
l’interdipendenza che sussiste tra le virtù – è in possesso anche
delle altre che, secondo i sapienti38, non sono possedute dalla
maggioranza degli uomini. E noi vediamo che il cane sa comportarsi
con coraggio e con intelligenza, come attesta anche Omero39 nel
presentarci Odisseo irriconosciuto da tutti i suoi familiari, ma
riconosciuto dal solo Argo, il cane che non si lasciò ingannare
neppure dalle alterazioni fisiche subite dall’eroe e che non rimase
privo della «rappresentazione apprensiva»40, che mostrò di possedere
meglio degli esseri umani. E secondo Crisippo, che si schiera,
più di altri, in difesa degli animali irragionevoli, il cane
partecipa persino della tanto celebre «dialettica»41! Il suddetto
signore dice, infatti, che il cane sa utilizzare il quinto
sillogismo indimostrabile42 – che è abbastanza complicato! –,
allorché, dopo essere giunto ad un trivio e dopo aver fiutato le due
vie per le quali la fiera non è passata, non si mette neppure a
fiutare la terza, ma immediatamente si lancia su di essa. L’antico
filosofo assevera che il cane fa virtualmente questo ragionamento
sillogistico: «La fiera è passata o di qui o di qui o di qui; ma
essa non è passata né di qui né di qui: dunque è passata di qui». Né
basta: il cane riesce a rendersi conto delle sue stesse
sofferenze e ad alleviarle: se, infatti, gli si conficca uno spino,
si affretta a cavarselo sfregando il piede a terra e usando i denti.
Se ha una piaga in qualche parte del corpo, poiché le piaghe
insudicite sono difficilmente guaribili e quelle ripulite si
lasciano facilmente sanare, esso pian pianino la deterge del
marciume che vi si è fatto. E non è finita: il cane si attiene
scrupolosamente finanche al precetto di Ippocrate: difatti esso,
tenendo presente che «medicina del piede è stare immobile» nel caso
che abbia un piede ferito, lo tiene sollevato da terra e tenta di
mantenerlo fermo come meglio può. Se viene disturbato da umori
malsani per lui, mangia erba e, con l’aiuto di questa, emette ciò
che non fa per lui, e guarisce.
Se, allora, è risultato con evidenza che l’animale, di cui ci siamo
serviti come esempio per addurre la nostra argomentazione, non solo
sa scegliere cose che fanno al caso suo, ma sa anche scansare quelle
fastidiose e, inoltre, possiede un’arte che gli procura le cose a
lui appropriate, e si rende conto delle proprie sofferenze e le sa
alleviare, e non è privo di virtù – tutte cose in cui risiede la
ragione «riposta»43 –, allora, a motivo di tutte queste belle cose,
il cane risulterà essere un animale perfetto. Ed ecco anche perché,
a mio avviso, certi praticanti di filosofia44 hanno dato a se stessi
un titolo di nobiltà, desumendo il loro appellativo da questa
bestia!
A proposito della facoltà logico-espressiva «profferita» non è
necessaria l’indagine, almeno per ora: difatti, anche alcuni tra i
Dommatici45 l’hanno accusata come controproducente ai fini
dell’acquisizione della virtù, e perciò, durante il tempo del loro
apprendistato, essi praticarono il silenzio; d’altronde, anche a
voler supporre che un uomo sia muto, nessuno dirà che egli è privo
di facoltà razionale ed espressiva. Ma, per accantonare queste
questioni, noi vediamo certamente che gli animali sui quali stiamo
discutendo, profferiscono anche certe voci, come le piche e
alcuni altri. Ma, per tralasciare anche ciò, se pur è vero che noi
non comprendiamo le espressioni vocali degli animali cosiddetti
irragionevoli, non è affatto inverosimile che costoro conversino tra
loro, mentre noi non ne abbiamo contezza46. Difatti, anche quando
noi ascoltiamo la voce dei barbari, non riusciamo a capirla, ma ci
sembra cheessa sia uniforme. E così pure udiamo i cani emettere una
voce quando vogliono respingere qualcuno, un’altra quando latrano,
un’altra quando vengono percossi e un’altra, ancora differente,
quando fanno le feste. Insomma, se si facesse bene attenzione, si
scoprirebbe una grande varietà di voci in que-st’animale e negli
altri a seconda delle differenti circostanze. Di conseguenza, per
questi motivi, si potrà con verosimiglianza dire che anche i
cosiddetti animali irragionevoli partecipano della facoltà
logico-espressiva «profferita». Ma se questi animali non sono
da meno degli uomini né per la precisione della loro sensibilità né
per la facoltà razionale «riposta» né, per giunta, per quella
«profferita» essi non meriteranno minor credito di noi neppure per
quanto concerne le rappresentazioni. E di tutto ciò noi possiamo
fornire una dimostrazione, se fondiamo la nostra prova su
ciascuno degli animali irragionevoli. Nessune negherebbe, ad
esempio, che gli uccelli si distinguono tra loro per intelligenza e
si servono della ragione profferita, essi che conoscono non solo il
presente, ma anche il futuro e, a quanti sono in grado di capirlo,
lo predicono dandone segno in varie maniere e preannunciandolo con
la loro voce47.
Ho fatto questo confronto – come precisavo anche prima48 – solo per
sovrappiù, dopo aver già dimostrato, credo, a sufficienza che noi
non possiamo dare un giudizio preferenziale alle nostre
rappresentazioni rispetto a quelle degli animali irragionevoli. Ma,
se questi animali non meritano minor credito di noi relativamente al
giudizio delle rappresentazioni e se si riscontrano rappresentazioni
differenti a seconda della diversità degli animali, allora io potrò
dire quale ciascuno di questi oggetti appaia a me, ma a proposito
della sua naturale essenza sarò costretto a sospendere il giudizio,
in base a quanto precedentemente abbiamo precisato.
〈II tropo〉 Ecco, dunque, il primo tropo della sospensione del
giudizio. Dichiaravamo49 poi, come secondo, quello che si basa sulle
differenze che sussistono tra gli uomini. Difatti, anche a voler
concedere, per ipotesi, che gli uomini meritino maggior credito
degli animali irragionevoli, noi scopriremo che si addiviene alla
sospensione del giudizio anche a cagione delle differenze
intercorrenti tra noi.
Due sono le cose di cui si dice che l’uomo sia composto – l’anima,
cioè, e il corpo –, e in relazione ad entrambe queste due cose ci
differenziamo tra noi.
Relativamente al corpo noi differiamo per la figura e per
la costituzione individuale di ognuno50. Infatti il corpo di
uno Scita presenta una figura diversa da quello di un Indiano, e la
diversità – a quel che si dice51 – è dovuta ad una diversa
prevalenza degli umori; e a seconda della differente prevalenza
degli umori vengono a risultare differenti anche le
rappresentazioni, come abbiamo sottolineato52 nella nostra prima
argomentazione. Così anche nella scelta e nel rifiuto degli oggetti
esterni si riscontra grande differenza a seconda della diversità
degli umori: infatti di certe cose provano godimento gli Indiani e
di certe altre quelli del nostro paese; e il fatto che si provi
godimento in modo differente, è indizio del diverso modo di recepire
le rappresentazioni provenienti dagli oggetti.
Per quanto, invece, concerne la costituzione individuale di ognuno,
noi ci differenziamo nel senso che, ad esempio, alcuni digeriscono
carni bovine con minor fatica che pesciolini di scoglio e si
ammalano di diarrea per un po’ di vinello di Lesbo. A quanto si
racconta, c’era una vecchia attica che ingoiava, senza correr
pericolo, trenta dramme di cicuta, e Liside riusciva a prendere ben
quattro dramme di papaverina senza ricevere fastidi. E
Demofonte, il maestro di tavola di Alessandro, quando si trovava al
sole o al bagno caldo, sentiva freddo, mentre sentiva caldo
all’ombra; e Atenagora di Argo non sentiva dolore se lo pungevano
uno scorpione o una tarantola, e i cosiddetti Psilli53 non subiscono
nocumento neppure quando sono morsicati da serpenti o da
aspidi; e, fra gli Egiziani, i Tentiriti54 non subiscono danni
neppure dal morso dei coccodrilli. Ed anche gli Etiopi che abitano
al di là di Meroe presso il fiume Astapo55, mangiano, senza correre
rischi, scorpioni e serpenti e altri animali siffatti. E Rufino di
Calcide beveva l’elleboro senza vomitare e senza subire effetti
purgativi, ma lo ingoiava e lo digeriva come se si trattasse di un
alimento ordinario. Crisermo, seguace di Erofilo56, se solo gustava
un po’ di pepe, correva pericolo di un attacco cardiaco; e al
chirurgo Soterico, se solo sentiva odore di siluri, veniva un
attacco di diarrea. Androne di Argo era tanto immune dalla sete che
attraversava il deserto libico senza sentir bisogno di bere. E
Tiberio Cesare ci vedeva nelle tenebre. E Aristotele57 racconta di
un certo abitante di Taso che aveva l’impressione di essere
preceduto dappertutto dal fantasma di un uomo.
Orbene, se – per limitarci [a pochi dei tanti esempi
che trovansi presso gli stessi Dommatici]58 – è così grande la
diversità tra gli uomini relativamente al corpo, risulta verosimile
che gli uomini differiscano tra loro anche relativamente all’anima.
Difatti il corpo è un certo «segno esteriore» dell’anima, come
mostra anche la scienza fisiognomica. Ma la prova fondamentale della
grande – e starei per dire infinita – differenza che intercorre tra
gli uomini per quanto concerne l’intelligenza, è la discordanza
delle asseverazioni fatte dai Dommatici sia su tante altre questioni
sia sulla convenienza delle scelte e dei rifiuti. Anche i poeti, del
resto, hanno lasciato su ciò opportune dichiarazioni. Pindaro,
ad esempio, dice59:
Taluno è allietato da onori e corone
Di cavalli dal piè di
procella,
Altri dal vivere in talami dal molto oro,
Gode altri a
passare con nave
Veloce sul fiore dell’onda.
E il poeta dice60:
Un uomo gioisce di un’opra, un altro gioisce di un’altra.
Ma anche la tragedia è piena di affermazioni siffatte; vi si dice,
tra l’altro61:
Se la medesma cosa per natura
Fosse per tutti bella e saggia,
lite
Non sarebbe tra gli uomini dubbiosa.
E in un altro passo62:
È tremendo che pur la stessa cosa
Ad alcuni mortali sia gradita,
Ad
altri odiosa.
Orbene, se teniamo presente che la scelta e il rifiuto si fondano
sul piacere e sul dispiacere e che il piacere e il dispiacere sono
riposti nella sensazione e nella rappresentazione, allora, ogni
volta che le medesime cose da alcuni sono scelte e da altri sono
evitate, siamo portati a concludere che essi subiscono affezioni
dissimili da parte delle medesime cose; difatti, se la faccenda
stesse altrimenti, essi sceglierebbero o scanserebbero tutti quanti
le medesime cose nella stessa maniera. Ma, se (le medesime cose)63
provocano affezioni differenti a seconda della differenza degli
uomini, verosimilmente, anche per questo motivo, è possibile
introdurre la sospensione del giudizio, giacché noi possiamo, forse,
dire quale appaia ogni singolo oggetto relativamente ai caratteri
differenziali di ogni singola persona, ma non siamo in grado di
dichiarare che cosa quell’oggetto sia in relazione alla sua stessa
natura.
Invero, noi dovremmo prestar fede o a tutti quanti gli uomini o solo
ad alcuni. Ma, se presteremo fede a tutti, ci accingeremo ad
un’impresa assurda, dovendo accettare simultaneamente gli opposti64;
se, invece, accorderemo la fiducia solo ad alcuni, ci dicano a chi
dobbiamo dare l’assenso; difatti il Platonico dirà «a Platone»
l’Epicureo «ad Epicuro» e in modo analogo tutti gli altri; e così
essi, tumultuando tra loro senza pervenire ad una decisione, ancora
una volta ci sospingeranno alla sospensione del giudizio65. Se, poi,
si sostiene che bisogna dare l’assenso alla maggioranza, si fa
una proposta puerile66, giacché nessuno può avvicinare tutti quanti
gli uomini e mettersi a calcolare che cosa piace alla loro
maggioranza, dandosi anche la possibilità che presso popolazioni a
noi ignote sia diffuso, tra la maggioranza, quello che tra di noi è
raro e ci sia, invece, raramente quello che suole capitare presso la
maggioranza di noi – ad esempio, che i più, morsicati da una
tarantola, non provino dolore e lo provino, invece, solo raramente
alcuni –; e in maniera analoga si parli a proposito delle
costituzioni individuali da noi precedentemente menzionate67.
Dunque necessariamente, anche a cagione delle differenze che
intercorrono tra gli uomini, si addiviene alla sospensione del
giudizio.
〈III tropo〉 I Dommatici, che sono innamorati di se
stessi, asseriscono che, nel giudizio in merito alla realtà
delle cose, si deve dare la precedenza a loro sul resto
dell’umanità; ma noi sappiamo che questa loro pretesa è assurda
(anche loro, infatti, sono parte in causa del disaccordo; e, qualora
giudichino in questa guisa i fenomeni con l’accordare a se stessi la
precedenza, essi, facendo da arbitri a loro favore nel giudizio, si
appropriano indebitamente della conclusione della ricerca già prima
di aprire il dibattito giudiziario). Tuttavia, per poter
arrivare alla sospensione del giudizio fondando il nostro discorso
anche su un solo uomo – ad esempio, sul «saggio» che essi vedono
solo in sogno68 –, poniamo mano a quel tropo che occupa il terzo
posto.
Noi dicevamo69 che esso è quello che deriva dalla differenza delle
sensazioni. E che le sensazioni differiscono tra loro è cosa di per
sé evidente. Così, ad esempio, le pitture sembrano avere
rientranze e sporgenze alla vista, ma non al tatto. E il miele,
secondo alcuni, appare gradevole alla lingua, ma sgradevole agli
occhi, e perciò è impossibile che esso sia gradevole o sgradevole in
senso assoluto. E lo stesso dicasi dell’unguento profumato: esso,
infatti, offre diletto all’odorato, ma spiace al gusto. E, se
teniamo presente che l’euforbio è nocivo agli occhi ma innocuo a
tutto il resto del corpo, non saremo in grado di dire se esso, per
quanto concerne la sua stessa natura, sia innocuo o nocivo ai corpi
in senso assoluto. E l’acqua piovana è utile agli occhi ma provoca
irritazione alla trachea e ai polmoni, come fa anche l’olio d’oliva,
che pur dona sollievo alla superficie del corpo. E la torpedine
marina, se viene accostata alle estremità, provoca torpore, ma può
essere avvicinata alle altre parti del corpo senza che essa dia
fastidio. Ecco perché noi non saremo in grado di dire quale sia
ciascuna di queste cose in relazione alla sua naturale essenza, ma
ci è possibile dire soltanto quale di volta in volta essa
appaia. E si potrebbe addurre un maggior numero di altri esempi; ma
noi, per non perdere tempo e per rispettare il piano generale di
questo trattato, dobbiamo precisare solo quanto segue.
Ciascuno degli oggetti sensibili che ci appaiono sembra presentarsi
con varie qualità, come, ad esempio, la mela si presenta liscia,
profumata, dolce e gialla. Non è, però, chiaro se essa abbia tutte
queste qualità [soltanto]70, o ne abbia esclusivamente una, ma
appaia diversa in ragione della diversa struttura degli organi
sensoriali, oppure abbia un numero di qualità ancora maggiore di
quelle che appaiono, ma alcune di esse non cadono sotto i
nostri sensi. Si può pensare che la mela abbia esclusivamente una
qualità, se ci atteniamo a ciò che abbiamo detto precedentemente71 a
proposito del nutrimento digerito dai corpi, dell’acqua che si
diffonde negli alberi e del fiato (immesso)72 in fiauti e in
zampogne o negli altri strumenti affini. Anche la mela, infatti, può
avere una sola qualità specifica, ma viene contemplata come diversa
in ragione della diversità degli organi sensoriali mediante i quali
ne avviene la percezione. Ma che, d’altra parte, la mela possa avere
più qualità di quelle che a noi appaiono, possiamo arguirlo dal
ragionamento seguente. Immaginiamo un tale che dalla nascita abbia
avuto tatto e olfatto e gusto, ma non udito e vista. Questi,
pertanto, supporrà che non ci sia affatto nulla di visibile né di
udibile, ma che esistano solo quei tre generi di qualità che egli
riesce a percepire. È ammissibile, allora, che anche noi,
avendo i cinque sensi, percepiamo soltanto [tra le qualità che
appartengono alla mela]73 quelle che siamo in grado di percepire;
invece è pur possibile che sussistano altre qualità che si
presentano ad altri organi sensoriali di cui noi non siamo stati
fatti partecipi, e perciò non percepiamo neppure i dati sensoriali
che sono conformi a quelle qualità74.
«Ma – si potrà obiettare – la natura ha commisurato i sensi
agli oggetti sensibili» – Quale natura? – controbattiamo noi, dal
momento che presso i Dommatici regna un disaccordo così grande e
ancor privo di soluzione in merito alla reale consistenza della
natura. Difatti, se chi dà, per l’appunto, un giudizio sulla reale
consistenza della natura è un semplice mortale, non riscuoterà
credito presso i Dommatici; nel caso, invece, che sia filosofo,
verrà ad essere parte in causa della controversia ed egli stesso
soggetto a giudizio, ma non giudice.
Senonché, siccome si può ammettere vuoi che sussistano nella
mela esclusivamente quelle qualità che ci sembra di percepire, vuoi
che ce ne siano più di quelle, vuoi, al contrario, che non
sussistano neppure quelle che a noi si presentano, non ci risulterà
con chiarezza quale sia realmente la mela. E lo stesso discorso vale
anche per le altre cose sensibili.
Ma allora: se i sensi non possono apprendere gli oggetti esterni,
non li può apprendere neppure l’intelletto (dal momento che le sue
guide lo ingannano)75, e di conseguenza, anche in grazia di questo
ragionamento, si addiverrà, come sembra, alla sospensione del
giudizio in merito agli oggetti che giacciono fuori di noi.
〈IV tropo〉 Ma per poter giungere alla meta della sospensione del
giudizio sia fondando la nostra argomentazione su ciascun senso in
particolare sia prescindendo persino dai sensi, poniamo mano al
quarto tropo della sospensione stessa. Esso è quello che prende il
nome dalle circostanze, intendendo noi per circostanze le
«disposizioni»76.
Sosteniamo che esso trova riscontro nel fatto che (ci troviamo)77 in
uno stato naturale o innaturale, in uno stato di veglia o di sonno,
a seconda delle età, secondo che siamo in moto o in quiete, che
odiamo o amiamo, che siamo digiuni o sazi, in istato di ebbrezza o
di sobrietà, a seconda delle predisposizioni e del fatto che siamo
coraggiosi o timidi, afflitti o lieti.
Così, a seconda che ci troviamo in uno stato naturale o innaturale,
gli oggetti ci si presentano dissimili, come quando, ad esempio, i
deliranti e gli invasati credono di ascoltare voci sovrumane e noi,
invece, no. Allo stesso modo essi dicono sovente di percepire odori
di stirace o d’incenso o di altre cose siffatte o di tante altre
cose ancora, mentre noi non ne abbiamo percezione. E la medesima
acqua, se viene versata su chi soffre di infiammazione, sembra
bollente, ma a noi sembra tiepida. E lo stesso mantello a chi ha gli
occhi arrossati sembra arancione, ma a noi no. E il medesimo miele a
noi sembra dolce, agli itterici amaro. E se qualcuno ci venisse
a dire che la mescolanza di certi umori fa partire dagli oggetti
rappresentazioni improprie verso persone che si trovano in uno stato
innaturale, bisognerà rispondere che, siccome anche le persone sane
sono fornite di umori mescolati, anche ad esse è possibile che, a
causa di questi umori, gli oggetti esterni, che per natura sono tali
quali appaiono a coloro che si dice siano in uno stato innaturale,
si mostrino, invece, diversi da come realmente sono. Infatti,
attribuire agli umori delle persone sane la facoltà di apportare
modifiche agli oggetti e non attribuirla a quelli delle persone
malate è una cosa fittizia, dato anche che, come le persone sane si
trovano in uno stato che è naturale per i sani e innaturale per gli
ammalati, così le persone malate si trovano in uno stato che è
innaturale per i sani e naturale per gli ammalati; sicché bisogna
dar credito anche a questi ultimi, in quanto costoro si trovano in
uno stato che è relativamente naturale78.
Si riscontrano, inoltre, rappresentazioni differenti
secondo che ci troviamo in uno stato di sogno o di veglia,
giacché noi, da svegli, ci rappresentiamo le cose non come ce le
rappresentiamo durante il sonno, né ce le rappresentiamo durante il
sonno come ce le rappresentiamo da svegli; sicché la loro esistenza
o la loro non-esistenza viene ad essere non assoluta, ma relativa:
relativa, cioè, al fatto che noi stiamo dormendo o siamo desti.
Verosimilmente, pertanto, durante il sonno noi vediamo cose che,
poi, risultano inesistenti quando ci siamo svegliati, pur non
essendo esse inesistenti in senso assoluto79: esse, infatti, hanno
una loro esistenza durante il sonno, come le cose che vediamo da
svegli hanno una loro esistenza, anche se non esistono più mentre
dormiamo.
Si riscontrano rappresentazioni differenti anche a
seconda dell’età, giacché, ad esempio, la stessa aria ai vecchi
sembra essere fredda, ai giovani temperata, e il medesimo colore ai
vecchi pare sbiadito, ai giovani vivace, e similmente un suono, pur
essendo identico, agli uni sembra fievole, agli altri ben udibile.
Anche per quanto concerne le scelte e le ripulse, sono messi in
modo dissimile quelli che differiscono tra loro per età. Difatti i
ragazzi prendono sul serio, ad esempio, palle e cerchi, invece i
giovani scelgono altri oggetti, e altri ancora ne scelgono i vecchi.
E da tutto ciò si viene a concludere che rappresentazioni
provenienti dai medesimi oggetti esterni risultano differenti anche
a seconda della differenza di età80.
A seconda, poi, che noi siamo in moto o in quiete gli oggetti
appaiono dissimili, giacché quelle cose che noi, stando fermi,
vediamo non scosse, crediamo che si muovano quando vi passiamo
accanto con una nave81.
Le cose, inoltre, appaiono differenti anche secondo che proviamo per
esse amore oppure odio: così, ad esempio, alcuni provano
un’esagerata avversione per le carni suine, mentre altri le gustano
con sommo piacere. Onde anche Menandro dichiarò82:
Come appare diverso anche alla vista
da che divenne tal! sembra un
bestione!
il non far torto ci rende anche belli.
E molti, che pur hanno amanti brutte, le credono un fior di
bellezza!83
A seconda che si sia digiuni o sazi: difatti il medesimo cibo a chi
ha fame sembra essere molto appetitoso, a chi è satollo sembra,
invece, sgradevole.
A seconda che si sia ubriachi o sobri: difatti quelle cose che da
sobri reputiamo turpi, non ci appaiono turpi nella nostra ebbrezza.
A seconda delle predisposizioni: difatti il medesimo vino a chi ha
mangiato datteri o fichi secchi sembra acido, mentre a chi ha appena
messo nello stomaco noci e ceci sembra esser dolce; e il vestibolo
del bagno per chi vi entra dall’esterno è caldo, per chi esce dal
bagno è freddo, se vi si indugia a lungo.
Secondo che si sia timidi o coraggiosi: difatti la medesima cosa al
codardo sembra essere temibile e spaventosa, ma niente affatto anche
a chi ha più animo.
Secondo che si sia afflitti o lieti: difatti le medesime cose per
chi è afflitto sono odiose, per chi è lieto sono piacevoli.
Orbene: tenendo presente che si riscontra così grande dissomiglianza
anche a seconda delle «disposizioni» e che gli uomini vengono a
trovarsi ora in una disposizione ora in un’altra, possiamo
agevolmente, forse, affermare quale ciascun oggetto appaia a
ciascuno, ma non già quale esso realmente sia, dal momento che anche
la dissomiglianza è sotto inchiesta. Difatti, chi intende darne un
giudizio, o si trova in una delle suddette disposizioni o non si
trova affatto in nessuna di esse. Dire, però, che non si trova
affatto in nessuna disposizione – ad esempio, che egli non è né sano
né malato, non si muove e non sta fermo, e che non ha alcuna età, e
che è immune da tutte le altre disposizioni – è la più perfetta
assurdità. Se, invece, egli si metterà a giudicare le
rappresentazioni mentre si trova in una qualche disposizione, è egli
stesso parte in causa del disaccordo e, peraltro, non sarà un
giudice intaminato e puro degli oggetti che giacciono fuori di
lui, essendo egli offuscato dalle disposizioni in cui è venuto a
trovarsi. Così né chi è desto può stabilire un confronto tra le
rappresentazioni di chi dorme e quelle di chi è desto, né chi è sano
può confrontare le rappresentazioni dei malati con quelle dei sani:
difatti noi diamo l’assenso a cose che ci stanno dinanzi o provocano
in noi un’affezione presente, piuttosto che a quelle che non ci
stanno dinanzi.
Ma84 la dissomiglianza di siffatte rappresentazioni
rimane ancora sotto inchiesta anche per un altro motivo.
Infatti chi dà la preferenza ad una rappresentazione piuttosto che
ad un’altra o ad una circostanza piuttosto che ad un’altra, fa ciò o
senza adibire un giudizio e una dimostrazione oppure giudicando e
dimostrando; ma egli non può farlo né prescindendo da queste due
cose (in tal caso, infatti, non riscuoterà credito) né per mezzo di
queste, giacché, se formulerà un giudizio sulle rappresentazioni,
egli lo formulerà, in ogni caso, per mezzo di un criterio. Pertanto
egli dovrà dire che questo criterio è vero o falso. Ma, se dirà
che è falso, non riscuoterà credito. Se, invece, dirà che è vero,
dovrà proclamarlo vero o senza dimostrazione oppure per mezzo di una
dimostrazione. E, senza dimostrazione, non riscuoterà credito; se,
invece, per mezzo di una dimostrazione, in ogni caso bisognerà che
anche la dimostrazione sia vera, giacché (in caso contrario)85 non
riscuoterà credito. Ma la dimostrazione da lui assunta per provare
il criterio egli la proclamerà vera dopo averne formulato un
giudizio oppure senza averla giudicata? Se egli la proclamerà vera
senza averne formulato un giudizio, ancora una volta non riscuoterà
credito; se, invece, la proclamerà vera dopo averla giudicata, è
chiaro che dirà di averla giudicata per mezzo di un criterio; ma
appunto di questo criterio noi cerchiamo una dimostrazione, e poi
ancora un criterio di quest’ultima. Difatti la dimostrazione ha
sempre bisogno di un criterio per essere confermata, e il criterio,
a sua volta, ha bisogno di una dimostrazione, perché si mostri che
esso è vero: e né una dimostrazione può essere valida se non
preesiste un criterio che sia vero, né un criterio può essere vero
se non sia prima confermato da una dimostrazione. In questo modo il
criterio e la dimostrazione vengono a cascare nel tropo del
diallelo86, in cui entrambi si scoprono non meritevoli di credito:
difatti ciascuno dei due, attendendo la prova dell’altro, viene a
risultare carente di prova al pari dell’altro. Ma allora: se né
senza dimostrazione (e)87 senza criterio né per mezzo di questi due
si può dare un giudizio preferenziale ad una rappresentazione
piuttosto che ad un’altra, quelle rappresentazioni che risultano
differenti a seconda delle differenti «disposizioni» rimarranno
ancora sotto inchiesta.
Ne consegue che, anche per quanto concerne il presente tropo, si
addiverrà alla sospensione del giudizio circa la natura degli
oggetti che giacciono fuori di noi.
〈V tropo〉 Quinta argomentazione è quella che si fonda sulle
posizioni, sulle distanze e sui luoghi: difatti anche a seconda di
queste condizioni i medesimi oggetti appaiono differenti, come, ad
esempio, lo stesso portico, visto da una celle due estremità, appare
conico, visto, invece, dalla parte mediana, appare di egual misura
dovunque, e la stessa imbarcazione da lontano appare piccola e
ferma, da vicino grande e in moto, e la stessa torre da lontano
appare circolare, da vicino quadrata88.
Questo si riscontra a seconda delle distanze; a seconda dei luoghi,
invece, si osserva, ad esempio, che la luce di una lampada al sole
appare fioca, ma luminosa all’ombra, e lo stesso remo nell’acqua
appare spezzato, ma fuori dell’acqua diritto, e l’uovo dentro la
gallina appare molle, ma all’aria duro, e il lincurio89 appare umido
nella lince, ma duro all’aria, e il corallo nel mare appare molle,
all’aria duro, e un suono si diffonde in un modo se si produce in
una zampogna, e in un altro se si produce in un flauto, e in un
altro ancora diverso se si produce semplicemente all’aria.
A seconda delle posizioni, infine, risulta, ad esempio, che la
stessa pittura, se è supina, pare liscia; se, invece, è inclinata
secondo una certa angolazione, sembra avere rientranze e sporgenze.
E i colli delle colombe, a seconda dei differenti gradi di
inclinazione, appaiono di colore differente.
Poiché, pertanto, tutti gli oggetti che appaiono vengono
visti in un qualche luogo e da una certa distanza e secondo una
certa posizione – e ciascuna di queste tre condizioni produce molta
diversità nelle rappresentazioni, come già abbiamo ricordato90 -,
saremo costretti, anche a causa di questo tropo, ad approdare alla
sospensione del giudizio. Chi, invero, voglia dare un giudizio
preferenziale ad alcuna di queste rappresentazioni, porrà mano ad
un’impresa impossibile. Se, infatti, egli farà la sua dichiarazione
in modo immediato e senza dimostrazione, non riscuoterà
credito; se, invece, vorrà servirsi di una dimostrazione, i casi
sono due: qualora egli dica che la dimostrazione è falsa, travolgerà
se stesso; qualora, invece, dica che la dimostrazione è vera, gli si
chiederà una dimostrazione del fatto che quella sia vera, e una
terza dimostrazione del fatto che la seconda sia vera, e così via
all’infinito91. Ma produrre un infinito numero di dimostrazioni è
impossibile: pertanto egli, neppure a seguito di una
dimostrazione, potrà assegnare un giudizio preferenziale ad una
rappresentazione piuttosto che ad un’altra. Ma, se né senza
dimostrazione né in base ad una dimostrazione si potrà esprimere un
giudizio in merito alle rappresentazioni, si ha come conclusione la
sospensione del giudizio, dal momento che noi siamo in grado, forse,
di dire quale ciascuna cosa appaia secondo questa determinata
posizione o da questa determinata distanza o in questo determinato
luogo, ma non possiamo, a causa dei motivi suddetti, dichiarare
quale essa sia in relazione alla sua naturale essenza.
〈VI tropo〉 Sesto tropo è quello che si fonda sulle mescolanze:
secondo esso noi concludiamo che, siccome nessuno degli oggetti
esterni viene a cadere sotto i nostri sensi di per sé isolato, ma
insieme con qualche altra cosa, è forse possibile dire quale sia la
mistione risultante dall’oggetto esterno e da ciò insieme con cui
quest’ultimo viene osservato, ma non saremo in grado di dire quale
sia l’oggetto esterno nella sua purezza. Ed è, a parer mio, un fatto
di per sé evidente che nessuno degli oggetti esterni ci si presenta
di per sé isolato, ma in ogni caso insieme con qualche altra cosa e
che, a cagione di ciò, noi lo vediamo diverso. Così, ad esempio, il
colore della nostra pelle viene visto in un modo all’aria afosa e in
un altro all’aria fredda, e noi non riusciremo a dire quale sia per
natura il colore della nostra pelle, ma possiamo dire soltanto quale
essa viene osservata insieme con ciascuna di queste condizioni. E lo
stesso suono si diffonde in un modo quando l’aria è sottile, in un
altro quando questa è densa, e gli stessi aromi sono più piccanti
nel bagno e al sole che non all’aria fresca, e il corpo, immerso
nell’acqua, è leggero, ma, sollevato in aria, è pesante.
Ma, anche se prescindiamo dalla mistione esterna, i nostri occhi
hanno in se stessi membrane e liquidi. Pertanto gli oggetti
visibili, poiché non vengono contemplati senza queste cose, non
saranno appresi con esattezza: infatti noi percepiamo la mistione, e
perciò gli itterici vedono gialle tutte le cose, mentre quelli che
hanno gli occhi iperemici le vedono color sangue92. E poiché il
medesimo suono si diffonde in un modo in luoghi aperti e in un altro
in luoghi stretti e tortuosi, in un modo nell’aria pura e in un
altro nell’aria inquinata, è verosimile che noi non recepiamo il
suono allo stato puro: difatti i nostri canali uditivi sono alquanto
tortuosi ed angusti e sono inquinati da esalazioni di vapore che, a
quel che si dice, si spostano dalle regioni della testa. Ma, poiché
sono presenti certi inquinamenti anche nelle narici e nelle
regioni del gusto, noi percepiamo insieme con questi, e non già allo
stato puro, gli oggetti del gusto e dell’ olfatto. Ne consegue che,
a causa delle mescolanze, i nostri sensi non percepiscono quali sono
esattamente gli oggetti esterni.
Ma non li recepisce neppure l’intelletto, soprattutto perché
i sensi, che sono le sue guide93, lo traggono in inganno; e
forse anch’esso aggiunge una sua propria mescolanza alle cose che
gli vengono annunciate dai sensi: difatti noi riscontriamo la
presenza di certi umori in ogni regione particolare in cui i
Dommatici credono che risieda la «parte egemonica»94, tanto se la si
voglia collocare presso il cervello, quanto presso il cuore, quanto
in qualsivoglia altro posto dell’essere vivente.
Adunque, anche mercé questo tropo, noi ci accorgiamo che, non avendo
nulla da dire circa la natura degli oggetti esterni, siamo costretti
a sospendere il giudizio.
〈VII tropo〉 Settimo tropo dicevamo95 essere quello che si fonda
sulla quantità e sulla «costituzione» degli oggetti, intendendo per
costituzione le varie guise in cui gli oggetti sono composti. E
risulta con chiarezza che, anche secondo questo tropo, noi siamo
costretti a sospendere il giudizio sulla natura delle cose. Così, ad
esempio, le raschiature di un corno di capra appaiono bianche quando
sono viste semplicemente di per sé e prescindendo da ciò di cui è
composto il corno, ma risultano nere quando sono contemplate nella
concreta composizione del corno. E le limature d’argento, quando
stanno di per sé, appaiono nere, mentre si presentano bianche ai
nostri sensi quando stanno con l’intera massa di questo metallo. E i
singoli pezzi di marmo tenario96 risultano bianchi alla vista quando
sianolevigati, ma nell’intero blocco appaiono gialli. E i granelli
di sabbia, separati gli uni dagli altri, appaiono ruvidi, ma, quando
sono ammucchiati, danno una sensazione di morbidezza. E l’elleboro,
se viene inghiottito a pezzi e lanuginoso com’è, ci fa soffocare, ma
non produce più quest’effetto se viene polverizzato97. E il
vino, se è bevuto misuratamente, ci rinforza; ma se viene tracannato
in quantità eccessiva, sfibra il nostro organismo. E allo stesso
modo il cibo, a seconda della sua quantità, mostra un potere
diverso: così esso, se viene ingerito in gran copia, spesso purifica
il corpo con indigestioni e diarree. Orbene, anche in tutti questi
casi, noi avremo la possibilità di dire le qualità della parte
leggera del corno e quelle dell’insieme di molte parti leggere, le
qualità delle piccole parti d’argento e quelle dell’insieme di tante
piccole parti, le qualità dei piccoli pezzi di marmo tenario e
quelle del composto di tanti piccoli pezzi, e, per quanto concerne i
granelli di sabbia, l’elleboro, il vino e il cibo, noi possiamo
dirne le qualità in senso relativo, ma non possiamo dire affatto
quale sia di per sé la natura delle cose, a causa di quella
dissomiglianza delle rappresentazioni che è dovuta alle
composizioni.
In linea generale sembra che anche le cose utili diventino nocive a
cagione dell’uso quantitativamente esagerato che se ne fa, e le cose
che sembrano dannose quando vengono prese in quantità eccessiva, non
producono dolore se sono prese a dosi minute. Quest’argomentazione è
attestata soprattutto da quel che si osserva nelle sostanze
medicinali, in cui la miscela esatta dei farmachi semplici rende
utile il composto, mentre, se qualche volta non si osserva
attentamente la più piccola inclinazione della bilancia, il composto
non solo non è utile, ma spesso è dannosissimo e perfino deleterio.
Così l’argomentazione che si fonda sulla quantità e sulla
costituzione degli oggetti genera confusione in merito alla sostanza
degli oggetti esterni. Perciò verosimilmente anche questo tropo
potrà indurci alla sospensione del giudizio, non potendo noi fare
dichiarazioni perentorie in merito alla natura degli oggetti che
giacciono fuori di noi.
〈VIII tropo〉 Ottavo tropo è quello che si fonda sulla relazione98:
secondo esso noi giungiamo alla conclusione che, siccome tutte le
cose sono relative, sospenderemo il giudizio su ciò che le cose
siano in senso assoluto e sulla loro reale natura. Ma bisogna
sottolineare che in questo caso, come anche in altri, noi usiamo
l’espressione «sono» invece di quella «appaiono», volendo
virtualmente dire «tutte le cose appaiono relative»99. E
quest’espressione viene usata secondo due accezioni: in un senso, in
quanto tutte le cose appaiono relative al giudicante (infatti
l’oggetto che giace fuori di noi e che viene giudicato si manifesta
relativamente a chi lo giudica), e in un secondo senso, in quanto
sussiste relazione tra oggetti che vengono osservati insieme, come
il destro in relazione al sinistro100. E che tutte le cose siano
relative noi l’abbiamo precisato anche prima101, quando, ad esempio,
per quel che concerne il giudicante, dicevamo che ciascuna cosa
particolare appare in relazione a questo determinato animale, a
questo determinato uomo, a questo determinato senso ed a questa
determinata circostanza, oppure quando, per quel che concerne gli
oggetti che vengono osservati insieme, dicevamo che ciascun oggetto
appare in relazione a questa determinata mistione, a questo
determinato luogo, a questa determinata composizione e quantità e
posizione.
Ma anche con argomentazioni specifiche si può giungere alla
conclusione che tutte le cose sono relative, ad esempio col seguente
procedimento: c’è differenza o no tra le cose che hanno una loro
propria e distinta esistenza e le cose relative? Se non c’è
differenza, allora, poiché tutto ciò che differisce è relativo
(infatti si parla di esso in relazione a ciò da cui esso
differisce), anche ciò che ha una sua propria e distinta esistenza
risulta relativo.
Inoltre, secondo i Dommatici102, tra le cose esistenti alcune sono
sommi generi, altre infime specie e altre generi-e-specie; ma tutte
queste determinazioni sono relative: epperò sono relative tutte
quante le cose.
Ancora: tra tutte le cose, alcune sono di-per-sé-evidenti103, altre
non-evidenti, come i medesimi Dommatici affermano, e le cose che si
manifestano sono significanti, mentre quelle che non si manifestano
vengono significate da quelle che si manifestano: infatti, a parer
loro, le cose apparenti sono visione di quelle non-evidenti104; ma
il significante e il significato sono relativi: epperò sono relative
tutte quante le cose.
Oltre a ciò, tra tutte le cose alcune sono simili e altre dissimili,
alcune uguali e altre disuguali; ma anche in questi casi si tratta
di relativi: epperò tutte quante le cose sono relative.
Del resto chi sostiene che non tutte le cose sono relative viene a
confermare la relatività di tutte le cose: difatti, con
l’opposizione che egli ci muove, viene a mostrare che la stessa
affermazione «〈non〉105 tutte le cose sono relative» è relativa a
noi, e non già universale.
Ma allora: una volta che noi stabiliamo che tutte le cose sono
relative, viene a risultare con evidenza che non potremo dire quale
sia ciascuno degli oggetti secondo la propria natura e nella sua
purezza, ma potremo dire soltanto quale esso appaia nelle sue
relazioni. Ne consegue che, in merito alla natura delle cose, noi
dobbiamo sospendere il giudizio.
〈IX tropo〉 A proposito del tropo che si fonda sulla frequenza o
sulla rarità degli accadimenti – tropo che dicevamo106essere per
ordine il nono –, daremo suppergiù le seguenti spiegazioni.
Indubbiamente il sole può turbarci più di una cometa; ma, poiché noi
vediamo il sole di continuo e la cometa di rado, proviamo turbamento
per la cometa fino al punto che essa ci sembra un segno
soprannaturale, mentre per il sole non ne proviamo affatto. Ma, se,
al contrario, noi supponessimo che il sole apparisse raramente e che
raramente tramontasse e che illuminasse d’un baleno tutte quante le
cose e che all’improvviso le facesse piombare nel buio, noi
scopriremmo in questo fenomeno un motivo di grande turbamento. Così
un terremoto non spaura allo stesso modo quelli che ne fanno
esperienza per la prima volta e quelli che ormai vi sono abituati. E
che grande emozione suscita il mare nell’uomo, quando è visto per la
prima volta! Anche la bellezza di un corpo umano, contemplato
primieramente e all’improvviso, ci affascina molto più che se si
facesse vedere abitualmente! E le cose rare sembrano
esser preclare, mentre quelle che per noi sono di uso comune e
di facile acquisto non lo sembrano affatto. E se noi supponessimo
che l’acqua è rara, quanto più preziosa di tutte le cose che pur ci
sembrano preziose essa ci apparirebbe!107 E se noi immaginassimo che
l’oro si riversasse sulla terra con immediatezza e in gran copia al
pari delle pietre, da chi penseremmo che esso sarebbe tanto valutato
e tenuto sotto chiave?
Orbene: poiché le medesime cose, a seconda della frequenza o
della rarità della loro presenza, talora ci sembrano essere
attraenti e pregevoli e talora no, noi arriveremo alla conclusione
che, forse, potremo dire quale ciascuna di queste cose appare a
cagione della sua presenza continua o rara, ma non siamo in grado di
asseverare quale sia nella sua nuda essenza ciascuno degli oggetti
che giacciono fuori di noi. Anche in virtù di questo tropo, adunque,
noi su di essi sospendiamo il giudizio.
〈X tropo〉 Decimo tropo è quello che ha a che fare
massimámente con i fattori di ordine etico108: quello, cioè,
che si fonda sulle regole di condotta, sui costumi, sulle leggi,
sulle credenze mitiche e sui preconcetti dommatici.
Orbene: è regola di condotta la scelta di un comportamento o di
un’azione da parte di uno solo o di molti, ad esempio di Diogene o
dei Laconi. È legge un patto scritto da parte di cittadini
politicamente organizzati, il cui trasgressore viene punito; è,
invece, costume o consuetudine (non c’è differenza tra questi due
termini) il comune accoglimento di un certo tipo di comportamerto da
parte di molti uomini, il cui trasgressore non viene, comunque,
punito: cosi, ad esempio, è legge il non commettere adulterio,
mentre è nostro costume non congiungerci in pubblico con la
propria donna. È, poi, credenza mitica l’accettazione di fatti che
non sono accaduti ma sono stati inventati, quali sono, tra l’altro,
le leggende di Cronos: queste credenze, infatti, conquistano la
buona fede di molta gente109. È preconcetto dommatico l’accettazione
di una cosa che sembra convalidata per mezzo di un’analogia o di una
dimostrazione, come, ad esempio, il fatto che elementi delle cose
esistenti siano gli atomi110 o le omeomerie111 〈o〉112 i corpi
minimi113 o qualche altra cosa.
Noi114, però, contrapponiamo ciascuno di questi fattori talora a se
stesso, talora a ciascuno degli altri.
Contrapponiamo, ad esempio, costume a costume nel modo seguente:
alcuni Etiopi tatuano i loro bambini, noi no; i Persiani credono che
sia decoroso vestire abiti variegati e con lo strascico, noi lo
crediamo indecoroso; e gli Indiani si congiungono con le loro donne
in pubblico, mentre la massima parte degli altri popoli ritiene che
questo sia turpe.
Contrapponiamo legge a legge nel modo seguente: presso i Romani chi
ha rinunziato all’eredità paterna non paga i debiti del padre,
mentre presso i Rodi li paga in ogni caso; e tra i Tauri della
Scizia era legge sacrificare gli stranieri ad Artemide115, mentre
presso di noi è proibito uccidere una creatura umana in un
santuario.
Contrapponiamo regola di condotta a regola di condotta116, quando
mettiamo le norme di Diogene contro quelle di Aristippo o quelle dei
Laconi contro quelle degli Italici.
Contrapponiamo credenza mitica a credenza mitica, quando
(diciamo)117 che talora viene rappresentato quale padre degli uomini
Zeus, talora, invece, Oceano, come nel verso
Oceano genitore di numi e Teti genitrice118.
Contrapponiamo tra loro preconcetti dommatici
quando sottolineiamo che alcuni proclamano l’esistenza di un
solo elemento, altri di infiniti, e alcuni la mortalità dell’anima,
altri la sua immortalità, e che alcuni ammettono essere le umane
cose governate da una provvidenza degli dei, altri non ammettono
provvidenza alcuna.
Contrapponiamo, invece, il costume agli altri fattori,
ad esempio ad una legge, quando diciamo che presso i Persiani è
costume avere rapporti omosessuali tra maschi, mentre presso i
Romani siffatti rapporti sono vietati per legge, e che presso di noi
è proibito commettere adulterio, mentre presso i Massageti
quest’ultimo è abitualmente accettato con indifferenza, come
racconta Eudosso di Cnido nel primo libro del suo Giro intomo al
mondo119, e che presso di noi è vietato accoppiarsi con la propria
madre, mentre presso i Persiani è costumanza sposarsi specialmente
così. E presso gli Egiziani i maschi si uniscono in matrimonio con
le loro sorelle, mentre ciò è vietato per legge presso di noi.
Una costumanza si contrappone ad una regola di
condotta, quando, ad esempio, la maggioranza degli uomini si
unisce con le proprie donne ritirandosi in luoghi appartati, mentre
Cratete120 si univa ad Ipparchia in pubblico, e Diogene gironzolava
con la sola esomide addosso, mentre noi come si va di solito.
Una costumanza si contrappone ad una credenza mitica, quando,
ad esempio, mentre le leggende dicono che Cronos divorava i suoi
stessi figli, è nostro costume avere cura dei nostri; e, mentre
presso di noi è consuetudine onorare gli dei come buoni e immuni da
malanni, i poeti, invece, li rappresentano feriti e invidiosi tra
loro.
Una costumanza si contrappone ad un preconcetto dommatico, quando
per noi è costume chiedere agli dei le cose buone, mentre Epicuro121
diceva che la divinità non ci ha in sua cura, e quando Aristippo122
ritiene indifferente indossare una stola di donna, mentre noi
riteniamo ciò una cosa vergognosa.
E contrapponiamo una norma di condotta ad una legge, quando, pur
vigendo una legge che vieta di percuotere un uomo libero e di buona
famiglia, i pancraziasti se le suonano tra loro perché hanno dato
alla propria condotta quella determinata norma, e quando, pur
essendo vietata l’uccisione dell’uomo, i gladiatori si scannano per
lo stesso motivo.
Contrapponiamo una credenza mitica ad una regola di condotta,
allorché diciamo che le leggende narrano di Eracle che accanto ad
Onfale
Lana soleva cardare e sotto servizio si stava123
e faceva cose che non avrebbe fatto neppure una persona di modesta
estrazione, mentre, poi, la norma della vita di Eracle era tanto
generosa!
Contrapponiamo una credenza mitica ad un preconcetto dommatico
quando gli atleti gareggiano per la gloria ritenendola un bene e si
scelgono per essa un faticoso tenore di vita, mentre molti filosofi
asseverano decisamente che la gloria è cosa futile.
Contrapponiamo la legge ad una credenza mitica, quando, mentre i
poeti rappresentano gli dei nell’atto di fare adulterio o di
praticare amori omosessuali tra maschi, la legge vigente presso di
noi vieta di compiere questi atti.
Contrapponiamo, invece, la legge ad un preconcetto dommatico,
quando, mentre Crisippo124 dice che è indifferente congiungersi con
la propria madre e con le proprie sorelle, la legge lo vieta
esplicitamente.
Contrapponiamo una credenza mitica ad un preconcetto dommatico,
quando i poeti dicono che Zeus scende dal cielo e si unisce ad una
donna mortale, mentre da parte dei Dommatici si reputa che ciò sia
impossibile; e il poeta dice che Zeus, a causa del dolore per
la morte di Sarpedone125,
gocce di pioggia sanguigna sopra la terra versava,
mentre è un dogma dei filosofi che la divinità sia impassibile, e
quando eliminano la leggenda degli Ippocentauri, adducendo, appunto,
rippocentauro come esempio di ciò che non ha reale esistenza.
Indubbiamente si sarebbero potuti addurre anche tanti altri esempi
per ciascuna delle suddette contrapposizioni, ma questi basteranno
per un discorso succinto come il nostro.
Senonché, essendo palese una così grande divergenza tra le cose
anche mercé questo tropo, noi non saremo in grado di dire quale sia
l’oggetto secondo la sua naturale essenza, bensì esclusivamente
quale esso appaia in relazione a questa particolare regola di
condotta o a questa particolare legge o a questa particolare
costumanza o a ciascuno degli altri fattori. Anche per questo
motivo, noi siamo costretti a sospendere il giudizio circa la natura
degli oggetti che giacciono fuori di noi.
Così, allora, a cagione dei dieci tropi, noi abbiamo come approdo la
sospensione del giudizio.
1. Il quadro sinottico dei tropi di Enesidemo sulla base delle fonti
di cui disponiamo è il seguente:
La tropologia riportata da Filone è, rispetto a quella riportata da
Sesto e da Diogene, più specificamente legata alla rappresentazione,
che era stata la punta di diamante delle polemiche medio e
neo-accademiche contro i Dommatici. Nella presentazione filoniana
dei tropi mancano quello che si riferisce alla diversità delle
sensazioni (il terzo nell’ordine fissato da Sesto in Pyrrh. hyp. I,
90-99; DIOG. LAERT. IX, 81) e quello che si fonda sulla frequenza e
sulla rarità degli accadimenti (il nono nell’ordine fissato da Sesto
in Pyrrh. hyp. I, 141-144; D10G. Laert. IX, 87).
2. Cfr. SEXT. EMP. Pyrrh. hyp. i, 40-78; DIOG. LAERT. IX, 79-80.
3. Per la distinzione fra il soggetto giudicante, l’oggetto
giudicato e l’insieme di entrambi cfr. SEXT. EMP. Pyrrh. hyp. I, 38.
4. Per questo esempio usitatissimo cfr., tra l’altro, CIC. Lucull.
XXV, 79; Lucret. II, 801; SEXT. EMP. Pyrrh. hyp. I, 120; DIOG.
LAERT. IX, 86.
5. L’esempio dell’alce, che non trova riscontro né in Sesto né in
Diogene, sarebbe più appropriato al tropo che si riferisce ai luoghi
e alle posizioni.
6. Cfr. SEXT. EMP. Pvrrh. hyp. I. 79-89: DIOG. LAERT. IX. 80-81.
7. È, questo, il tropo delle circostanze, contemplato in SEXT. EMP.
Pyrrh. hyp. I, 100-117 e in DIOG. LAERT. IX, 82.
8. Cfr. SEXT. EMP. Pyrrh. hyp.I, 118-123; DIOG. LAERT. IX, 85-86.
9. Cfr. SEXT. EMP. Pyrrh. hyp. I, 129-134; DIOG. LAERT. IX, 86.
10. Cfr. SEXT. EMP. Pyrrh. hyp. I, 135-140; DIOG. LAERT. EX, 87-88.
11. Cfr. SEXT. EMP. Pyrrh. hyp. I, 124-128; DIOG. LAERT. IX, 84-85.
12. Cfr. Plat. Tim. 64d.
13. Cfr. SEXT. EMP. Pyrrh. hyp. I, 145-163: DIOG. LAERT. IX, 83-84.
14. Piuttosto che alla somiglianza con Ps.-LONG. De sublim. XLIV
(come fanno Colson e Whitaker nell’appendice ad hoc) sembra
opportuno ricordare analoghe espressioni di Callide in PLAT. Gorg.
483a segg., che furono tra le fonti sia di Filone sia dell’autore
del Sublime.
15. Gli Stoici.
16. I Peripatetici.
17. L’immagine è tratta, come suggeriscono Colson e Whitaker, da
Hom. Il- II, 338.
18. A bella posta Filone usa il termine τοῖς σϰεπτιϰοĩς, quasi a
contrassegnare la fatalità del passaggio dal Dommatismo allo
Scetticismo a causa di quella discordia filosofica su cui Agrippa
fonderà il suo primo tropo (cfr. SEXT. EMP. Pyrrh. hyp. I,164-165).
19. Cfr. Genesis, XIX, 31, 35.
20. Ovviamente per Filone le istanze scettiche, da lui avvertite con
straordinaria sensibilità, sono soltanto lo stimolo ad accettare la
rivelazione, ed in ciò egli anticipa genialmente i pensatori
cristiani.
21. L’espressione è comunemente interpretata come un’allusione ai
primi Neo-pirroniani e in particolare ad Enesidemo, per
contraddistinguerli sia da Agrippa sia dagli Scettici
post-menodotei, di cui Sesto faceva parte.
22. Sesto si riferisce ad un’ormai inveterata e consolidata
scolastica scettica: il termine ϑετιϰῶς da lui usato va inteso come
ϑέσι: «dandogli un valore convenzionale» (Tescari); «without
préjudice» (Bury).
23. L’integrazione è del Pappenheim.
24. Ossia non riducendo la tropologia ad uno schematismo di
carattere dommatico. Sesto utilizza – e non solo qui – formule
Carneadee.
25. L’aggiunta è dello Chouet.
26. Così colmava la lacuna il Fabricius; invece il Kochalscky, sulla
base di LACTANT. Div. inst. VII, 7, 9, ha proposto ὡς ἔντερα γῆς
(«come vermi della terra»ì.
27. L’espunzione è del Mutschmann.
28. A sottolineare il carattere non categorico della sua tropologia
Sesto applica un sapiente dosaggio di termini, usando talora
«verosimile», come in § 54, talora «probabile», talora «ragionevole»
come in §§ 46, 51 etc. (cfr. K. Janácek, Eἰϰóς in Sextus Empiricus).
29. L’aggiunta è ricalcata sulla traduzione latina dal Mutschmann.
30. Solo su questa, ma non sulla sua esistenza.
31. In Pyrrh. hyp. II, 134 segg.
32. Giacché si avrebbe un diallelo (cfr. §§ 117, 164).
33. Heintz sostituisce ϰατὰ φαντασίαν (per quel che riguarda la
rappre sentazione) con ϰατ’ ἀξιοπιστίαν. Il Mau (p. 211) spiega: «De
fide quae hominum et animalium sensibus habenda sit agitur, non de
ipsis sensibus».
34. Ossia quelλόγος cui gli Stoici conferiscono un’eccezionale
ricchezza di significati.
35. Per questa distinzione sostenuta dagli Stoici e criticata da
Sesto cfr. Adv. log. II, 275, 287.
36. L’aggiunta è del Mutschmann in base alla traduzione latina. Per
il § 65 cfr. PORPHYR. De ab st. Ili, 2.
37. Cfr. Ps.-Plat. Def. 411e. Una glossa marginale ai codd. A amplia
la definizione così: «Giustizia è una volontà salda e costante che
assegna a ciascuno il giusto secondo merito».
38. Ironicamente gli Stoici e in particolare Crisippo.
39. Od. XVII, 300.
40. Il cavallo di battaglia della gnoseologia stoica, contro cui
Sesto non risparmia mai i suoi colpi (cfr. Pyrrh. hyp. II, 241; Adv.
log. I, 369 segg.), viene qui ridicolizzato in maniera quasi
aristofanesca.
41. Che gli Stoici identificavano con la logica (cfr. SEXT. EMP.
Pyrrh. hyp. II, 94; Stoic, vet. frag. I, 482; II, 35, 125 Arnim).
42. Per i cinque sillogismi indimostrabili degli Stoici cfr. SEXT.
EMP. Pyrrh. hyp. II, 158. Il sillogismo qui applicato dal cane si
articola così: «O A o B o C esiste; ma non esiste né A né B: dunque
esiste C».
43. Che gli Stoici consideravano più valida di quella «profferita».
44. Allusione arguta e ironica ai Cinici (cfr. DIOG. LAERT. VI, 13).
45. In particolare i Pitagorici, che praticavano l’ὖχεμνϑία (cfr.
DIOG. LAERT. Vili, 10; PHILOSTR. Apoll. vita I, 14-16. La
spiegazione di questa concezione è ampiamente fatta in AUGUSTIN. De
Trin. XV, passim).
46. Il linguaggio degli animali e la sua conoscenza da parte degli
uomini erano temi in voga nell eta di sesto (cfr. PHILOSTR. apoll.
vita I,20).
47. L’auspicina, qui ironicamente tirata in ballo a favore dello
Scetticismo, era stata ampiamente criticata dai Neo-accademici (cfr.
CIC. De divin. II, XXXVIII, 80 segg.).
48. In § 62.
49. In § 36.
50. Il termine ἰδιοσνγϰρασία, nato da un approfondimento della
σύγϰρασις di Ippocrate (cfr. 22 C i Diels-Kranz) e di Empedocle
(cfr. 31 A 86 Diels-Kranz), ha qui uno stretto significato medico
(cfr. GALEN. De cuy. meth. X, 169, 2; 209, 4 = Deichgräber 108,
115).
51. La teoria degli umori fu ampiamente seguita dagli antichi
antropologi e in particolare da Strabone. L’utilizzazione fattane da
Sesto (o già da Enesidemo) indica l’accostamento degli Scettici alle
cosiddette «scienze empiriche».
52. In § 57.
53. Tribù nordafricane menzionate in HERODOT. IV, 173.
54. Tentira, città dell’alto Egitto, è menzionata in JUVEN. XV, 35.
55. Il Nilo Azzurro.
56. Erofilo di Calcedonia (III sec. a. C.) fu uno dei primi
rappresentanti della medicina dommatica.
57. Cfr. ARISTOT. Meteor. Ili, 4, 373b 4. I §§ 81-84 riportati in
Deichgräber, pp. 217-8.
58. L’espunzione è dello Heintz.
59. Fr. 242 Boeckh = 221 Schroeder e Snell. Ne trasse ispirazione
Orazio in Carm. I, 1, 3 segg.
60. HOM. Od. XIV, 228.
61. EURIP. Phoen.499-500.
62. Frag. trag. adesp. 462 Nauck (si tratta probabilmente di un
frammento euripideo).
63. L’aggiunta è del Bekker.
64. Si eliminerebbe in tal modo il principio di non-contraddizione,
che gli Scettici rispettavano al pari dei Dommatici. Quasi
certamente i §§ 88-91 non hanno nulla a che vedere con Enesidemo, ma
esprimono considerazioni personali di Sesto (cfr. DAL PRA, LO
scetticismo greco, p. 357).
65. Viene qui a giocare il primo tropo di Agrippa (cfr. SEXT. EMP.
Pyrrh. hyp. I, 165).
66. Il criterio di attenersi al pensiero della maggioranza è
respinto come il peggiore di tutti in SEXT. EMP. Adv. log. I,
327-335.
67. In § 81 segg.
68. È il saggio introvabile di Crisippo (cfr. Stoic, vet. frag. Ill,
662, 668 Arnim).
69. In § 36.
70. L’espunzione è dello Heintz.
71. In § 53.
72. L’aggiunta è suggerita dalla traduzione latina eseguita in base
al.
73. L’espunzione è dello Heintz.
74. Per queste considerazioni e per altre simili che si riscontrano
in Pyrrh. hyp. III, 47-48, vedasi l’eco, tra l’altro, in VOLTAIRE,
Trattato di Metafisica, trad. it. in Scritti filosofici, Bari, 1972,
I, pp. 154-9. I §§ 98-99 sono da ritenere un’aggiunta personale di
Sesto.
75. L’integrazione è dello Heintz sulla base della traduzione
latina.
76. Ossia i diversi stati fisici o mentali del percipiente nell’atto
della percezione (cfr. ARISTOT. Metaph. V,11).
77. L’asrermnta è del Mutschmann.
78. Questi rilievi – che ci fanno pensare alla celebre espressione
goethiana «anche l’innaturale è natura» – sono rivolti sia agli
Stoici sia a quei Medici Dommatici che stimavano naturale solo lo
stato di buona salute.
79. Il § 104, dall’inizio fino a questo punto, andrebbe così
tradotto secondo la ricostruzione dello Heintz: «Secondo, poi, che
si sia addormentati o svegli, le rappresentazioni variano, perché,
come da svegli non ci rappresentiamo (quelle cose che) ci
rappresentiamo nel sonno, (così neppure) nel sonno ci rappresentiamo
(quelle cose che) ci rappresentiamo da svegli; di conseguenza la
loro esistenza o non-esistenza risultano essere non cose assolute,
ma relative: relative, invero, al sonno e alla veglia.
Verosimilmente, adunque, (quelle cose che) noi vediamo nel sonno,
proprio esse sono inesistenti nello stato di veglia, ma non
risultano inesistenti in modo assoluto».
80. Per analoghi rilievi sulle differenze di età cfr. ARISTOT. Rhet.
II, 12 segg.
81. L’argomentazione è di provenienza epicurea (cfr. LUCRET. IV,
388).
82. Fr. 518 Kock = 790 Koerte.
83. Cfr. HOR. Serm. I, 3, 38.
84. I §§ 114-117 sono probabilmente rilievi personali di Sesto.
85. Il Mau suggerisce un’integrazione che avrebbe la seguente
traduzione: «bisognerà che anche la dimostrazione sia vera o falsa;
ma egli non dirà che è falsa, giacché in tal caso lui stesso non
meriterebbe fiducia».
38. Scettici antichi.
86. Per i §§ 116-117 cfr. SEXT. EMP. Adv. log. II, 34. Per il
diallelo «che non offre via di scampo» cfr., tra l’altro, Pyrrh.
hyp. I, 60, 62; II, 34, 121.
87. L’aggiunta è dello Stephanus.
88. Questi rilievi erano stati ampiamente fatti da Epicuro (cfr.,
tra l’altro, LUCRET. IV, 428 segg.).
89. Fra i tanti errori popolari degli antichi c’era anche quello di
credere che questa pietra fosse prodotta da urina di lince.
90. In § 118.
91. Si cadrà, così, in un tropo che fu particolarmente rilevato da
Agrippa (cfr. Pyrrh. hyp. I, 116).
92. Per questo esemoio cfr. §§ 44. 101.
94. Per questa dottrina stoica cfr. Stoic, vet. frag. I, 143; II,
828, 836 Arnim. Sesto ne discute anche in Adv. log. I, 313.
95. In § 36.
96. Il marmo del Tenaro (promontorio dell’estremo sud della Laconia)
era grigio-giallastro.
97. Cfr. PLIN. Nat. hist. XXV,21 segg.
98. Questo tropo rientra anclue nella tabella di Agrippa (cfr.
Pyrrh. hyp. I, 167); la sua particolare importanza è rilevata in più
riprese da Sesto e da Diogene Laerzio.
99. Questo spunto fenomenistico – per il quale cfr. anche Pyrrh.
hyp. I, 196, 203 e erpretazioni troppo schematiche dello Scetticismo
neo-pirroniano e soprattutto sestiano – viene così chiarito dal Bury
(ad hoc): «The main point urged here is that no object can be
apprehended in its purity. As perceived it is always conditioned by
(i) the physical or mental state of the percipient (“ the thing
which judges “), and (2) by the “concomitant percepts “, which
accompany its emergence into the world of space and time. As thus
conditioned, the object is no longer absolute, but relative».
100. Si tratta, insomma, di due relatività – Tuna soggettiva,
l’altra oggettiva – che raddoppiano le già complesse aporie della
conoscenza.
101. In § 39.
102. Tanto Peripatetici quanto Stoici.
103. O «superlativamente evidenti» (cfr. SEXT. EMP. Adv. log. II,
141).
104. ANAXAG. B 2ia Diels-Kranz.
105. L’aggiunzione estremamente chiarificatrice è del Pappenheim, in
conformità con Sext. Emp. Adv. log. I, 390.
106. In §36.
107. Cfr. PLAT. Euthyd. 304e. Per l’accostamento dell’acqua al fuoco
e all’oro cfr. PIND. Ol. I, i segg.
108. Uno sviluppo organico di questo tropo sarà, in gran parte, il
trattato sestiano Contro i moralisti.
109. Qui lo Scetticismo segue il filone illuministico aperto da
Senofane e continuato, in parte, da Platone.
110. Come affermavano Leucippo, Democrito ed Epicuro.
111. Come affermava Anassagora.
112. L’aggiunta è suggerita dalla traduzione latina (cfr. Diels,
Doxogr. graec, p. 312, 4).
113. Come affermava Diodoro Crono (cfr. Adv. phys. I, 363, ove
questa dottrina fisica del celebre dialettico è accostata a quella
delle masse intelle-gibili di Asclepiade di Bitìnia).
114. In quanto Scettici.
115. Cfr. HERODOT. IV, 103, nonché il tema dell’Ifigenia in Tauride
di Euripide.
116. Il termine áyoy-yj implica una scelta di ordine filosofico,
come è provato dalla paradigmatica opposizione di Cinici e
Cirenaici; ma esso viene applicato anche alla scelta di una
qualsiasi attività, come è provato «dagli esempi del pancraziaste e
del gladiatore in § 156.
117. L’aggiunzione è suggerita dalla traduzione latina.
118. Hom. Il. XIV, 201.
119. Fr. 15 Brandis.
120. Filosofo cinico del III sec. a. C. Di lui è menzione anche in
SEXT. EMP. Pyrrh. hyp. III, 200. Luciano lo fa protagonista del
secondo dialogo dei morti.
121. Cfr. Pyrrh. hyp. III, 219.
122. Cfr. ibidem,204.
123. Hom. Od. X, 423.
124. Per questo aspetto «cinico» dell’etica crisippea cfr. Stoic,
vet. frag. III 743-746 Arnim. Sesto vi insiste in Pyrrh. hyp. III,
246 e in Adv. eth. 192.
125. Hom. Il. XVI, 459.
La rappresentazione non è criterio di verità (SESTO EMPIRICO, Adv.
log. I, 388-396)
Su queste aporie1, comunque, passiamo oltre e solleviamone altre che
si prospettano anche se si concede che la rappresentazione sia
proprio quella che i Dommatici la voglion far essere.
Se, invero, si deve lasciar correre che la rappresentazione è
«criterio», allora bisogna affermare o che ogni rappresentazione è
vera, come diceva Protagora2, oppure che ognuna è falsa, come andava
dicendo Seniade di Corinto3, oppure che qualcuna è vera e qualcuna è
falsa, come hanno affermato gli Stoici e gli Accademici e,
anche, i Peripatetici4. Ma non è lecito asserire né che ognuna è
vera né che ognuna è falsa né che qualcuna è vera e qualcuna è
falsa, come stabiliremo: epperò non si deve affermare che la
rappresentazione è criterio.
Orbene: nessuno potrebbe asserire che ogni rappresentazione è vera,
giacché essa si ritorce contro se stessa, come hanno insegnato
Democrito5 e Platone6 contraddicendo Protagora7. Se, infatti,
ogni rappresentazione è vera, anche il dire che non ogni
rappresentazione è vera, essendo anch’esso fondato su una
rappresentazione, sarà vero, e in tal modo la proposizione «ogni
rappresentazione è vera» sarà falsa8.
Ma, anche a prescindere da questo ritorcersi della rappresentazione
contro se stessa, il dire che ogni rappresentazione è vera è in
contrasto con le apparenze fenomeniche e con l’evidenza, perché ci
sono molte apparenze indubbiamente false. Difatti noi, in
questo momento, non reagiamo allo stesso modo alla proposizione «è
giorno» e a quella «è notte» o alla proposizione «Socrate è vivo» e
a quella «Socrate è morto», né queste proposizioni ci mettono tutte
di fronte ad un’uguale evidenza, ma le proposizioni «è giorno» e
«Socrate è morto» risultano attendibili, mentre quelle «è notte» e
«Socrate è vivo» non sono parimenti attendibili, ma sembrano
riferirsi a cose irreali.
II medesimo discorso vale anche a proposito della conseguenza e del
contrasto che si riferiscono ad alcuni fatti. La presenza della luce
consegue con evidenza al fatto che è giorno, e il movimento al fatto
che tu stai camminando; invece la presenza della notte è in aperto
contrasto col fatto che adesso è giorno, e il non muoversi col fatto
che tu stai camminando; e mettere una cosa significa levarne
un’altra [e se una cosa è conseguente ad un’altra, è anche vero che
un’altra cosa è in contrasto con un’altra]9. Ma, se c’è un qualcosa
che è in contrasto con un altro qualcosa, allora non ogni
rappresentazione è vera. Difatti ciò che è in contrasto con
qualcosa, si oppone o come vero a falso o come falso a vero.
Se, poi, accade che tutte le rappresentazioni sono vere, non
c’è nessuna cosa che non ci risulti evidente. Quando, infatti, una
rappresentazione è vera e un’altra è falsa e non si sa quale di esse
sia vera e quale falsa, ci si presenta il caso della non-evidenza, e
chi dice «è per me non-evidente che le stelle siano di numero pari o
dispari»10 viene a dichiarare virtualmente di non sapere quale delle
due cose sia vera e quale falsa, cioè se le stelle siano di numero
pari o dispari. Sicché, se tutte le cose sono vere e se sono vere
tutte le rappresentazioni, non esiste nulla che sia per noi
non-evidente. E se nulla è per noi non-evidente, tutto sarà
evidentissimo. E se tutto sarà evidentissimo, verranno nullificati
l’indagine e il dubbio su una qualsiasi cosa, giacché uno si mette
ad indagare ed a dubitare intorno all’oggetto che è per lui
non-evidente, ma non intorno a quello che è manifesto. Ma è
senz’altro un’assurdità l’abolizione dell’indagine e del dubbio:
epperò né ogni rappresentazione è vera né sono vere tutte le cose.
Se, poi, ogni rappresentazione è vera e sono vere tutte le
cose, non ci saranno né veracità né errore, né insegnamento né
apprendimento11, né arte né dimostrazione, né virtù né alcun’altra
cosa di tal genere.
Esaminiamo ciò che stiamo dicendo. Se ogni rappresentazione è vera,
nulla è falso, e, poiché niente è falso, non verranno ad esserci né
il mentire né l’errore né mancanza di arte né difetto alcuno, dato
che ciascuna di queste cose partecipa del falso e assume la
propria consistenza da esso. Ma, se non c’è nessuno che dica il
falso, non ci sarà neppure chi dica il vero, e se non c’è nessuno
che sbaglia, non ci sarà neppure uno che non sbagli. Allo stesso
modo, se non c’è l’inesperto di un’arte, viene soppresso, insieme
con lui, anche l’artista, e se non esiste lo sciocco, viene
eliminato anche il saggio: tutte queste cose, infatti, vengono
concepite mediante un raffronto, e come, se non c’è il destro, non
ci sarà neanche il sinistro, e se non c’è il basso, non ci sarà
neppure l’alto, così, se non c’è uno dei due opposti, verrà a
mancare anche l’altro. E si dilegueranno anche la dimostrazione
e il «segno». La dimostrazione, infatti, è prova dell’esistenza del
vero e della non-esistenza del falso; ma, se nulla è falso, non c’è
neppure bisogno di ciò che ci mostri che il falso non esiste, Con i
termini, poi, di «segno» e di «indizio» è stato chiamato ciò che è
in grado di rilevare il nonevidente; ma, se tutte le cose sono di
per sé evidenti e manifeste, noi non abbiamo bisogno di un qualcosa
che ci indichi ciò che non è conosciuto, se esso sia vero o, anche,
se sia falso.
1. Sesto si riferisce alle aporie che nascono quando vogliamo
stabilire il rapporto tra la rappresentazione e la «parte egemonica»
della quale parlavano gli Stoici e tra il concetto di causa (oggetto
rappresentato) e quello di effetto (rappresentazione). Analoghi
rilievi sono in Pyrrh. hyp. II, 76.
2. Le teorie di Protagora intorno al criterio sono esposte e
criticate da Sesto in Adv. log. I, 60-64.
3. Le teorie di Seniade (sofista contemporaneo di Protagora) seno
esposte da Sesto in Adv. log. I, 53 = Si Diels-Kranz.
4. Per quest’accostamento di origine tardo-accademica cfr. SEXT.
EMP. Pyrrh. hyp. II, 18, 76, 86; Adv. log. I, 48, 60, 53.
5. Cfr. 68 A 8 e 114 Diels-Kranz.
6. Cfr. Theaet. 171a; Euthyd. 286b-c.
7. Cfr. 80 A 19 Diels-Kranz.
8. Analoga argomentazione è in pyrrh. hyp. 1, 139.
9. L’espunzione è dello Heintz: si tratta di una glossa molto
evidente.
10. Esempio frequentemente in uso presso gli Scettici per indicare
ciò-che-per-natura-è-non-evidente (cfr., tra l’altro, SEXT. EMP.
Adv. log. I, 243; Pyrrh. hyp. I, 97; II, 90).
11. Heintz ha opportunamente sostituito µάϑησςall’assurdo πλάνησς
(«erramento»), già atetizzato dal Kayser e sostituito con µήνυσς
(«indicazione») dal Kochalsky.
Le aporie del vero (SESTO EMPIRICO, Adv. log. II, 8-9, 40-54)
Enesidemo, poi, (seguendo in ciò Eraclito1) ed Epicuro sono discesi
tutti e due alle cose sensibili, ma si sono distaccati tra loro
nella fattispecie. Enesidemo, infatti, afferma che esiste una certa
differenza tra le apparenze fenomeniche e sostiene che, tra queste,
alcune appaiono in comune a tutti, altre in particolare a qualcuno e
che, tra esse, sono vere quelle che appaiono in comune a tutti,
false quelle che non hanno questa caratteristica; ragion per cui,
del resto, ciò-che-non-si-nasconde [µή λῆϑoν] alla comune opinione è
stato chiamato «vero» [ἀληήές] per derivazione linguistica. Epicuro,
invece, ha affermato2 che tutte le cose sensibili sono vere ed
esistenti.
Virtualmente anche3 Enesidemo pone, in questo ambito, un simile tipo
di aporie. Se, difatti, c’è un qualcosa di vero, questo o è
sensibile o è intellegibile o è sia-sensibile-sia-intellegibile. Ma
esso4 non è né sensibile né intellegibile e neppure entrambe queste
cose, come verrà precisato: epperò non c’è qualcosa di vero.
Orbene: che esso non è sensibile lo argomenteremo nel modo
seguente. Tra le cose sensibili, alcune sono generi, altre specie, e
sono generi quelle «comunanze» che penetrano nelle cose particolari,
come, ad esempio, è uomo quello che viene a trovarsi in tutti gli
uomini particolari, e cavallo quello che è presente in tutti i
particolari cavalli; invece sono specie le proprietà particolari di
ciascuno, ad esempio di Dione, di Teone o di altri. Se
pertanto, il vero è sensibile, anch’esso risulterà in ogni caso
sensibile (perché è) comune ad una pluralità di cose (oppure) perché
risiede (in una) proprietà particolare. Ma esso né è comune né
risiede in una proprietà particolare; epperò il vero non è
sensibile.
Inoltre, come il visibile può essere percepito dalla vista e
l’udibile è conosciuto dall’udito e l’odorabile dall’olfatto, così
anche il sensibile viene conosciuto da un senso in generale. Ma (il
vero)5 non è conosciuto da un senso in generale: infatti il senso è
privo di ragione, mentre il vero non viene conosciuto in modo
irrazionale. Epperò il vero non è sensibile.
E neppure è intellegibile, perché in tal caso nessuna delle cose
sensibili sarà vera: il che, ancora una volta, è assurdo. Difatti
esso o sarà generalmente intellegibile a tutti oppure ad alcuni in
particolare. Ma il vero non è tale né da essere generalmente
intellegibile a tutti né da esserlo ad alcuni in particolare.
È impossibile, infatti, che il vero sia pensato in modo comune da
tutti, mentre, d’altra parte, se viene pensato in modo particolare
da qualcuno o da alcuni, non risulta attendibile e si presta a
controversie. Dunque il vero non è neppure intellegibile.
Ma non è neanche sensibile-e-insieme-intellegibile. Infatti è vera
ogni cosa sensibile o ogni cosa intellegibile oppure
qualche cosa sensibile e qualche cosa intellegibile. Ma
l’asserire che ogni cosa sensibile e ogni cosa intellegibile è vera,
è un’assurdità: difatti le cose sensibili contrastano con le
sensibili e quelle intellegibili con le intellegibili, e, per
converso, le sensibili con le intellegibili [e le intellegibili con
le sensibili]6, e, se tutte le cose sono vere, inevitabilmente ogni
cosa dovrà essere-e-nonessere, e risultar vera-e-falsa. Ma, poi, va
soggetto ad aporia il reputare che qualcosa di sensibile sia vera e
qualcosa di intellegibile sia vera, giacché trattasi di una
questione ancora aperta.
D’altronde, sarebbe conseguenziale o l’affermazione che le cose
sensibili sono tutte vere o l’affrmazione che sono tutte false:
esse, infatti, sono ugualmente sensibili tutte, e non già una più e
una meno, e, a loro volta, le intellegibili sono ugualmente
intellegibili, e non una più e una meno. Ma non tutte le sensibili
sono dichiarate vere, né tutte false. Epperò non esiste vero alcuno.
«Sì, ma la verità viene recepita non come essa appare, ma in virtù
di un’altra causa»7. E qual è questa causa? La tirino pure in ballo
i Dommatici, perché essa o ci trascini all’assenso o ci faccia
scappar via di corsa! Ma come faranno essi, poi, a recepire proprio
questa causa? Come apparente a loro o come non-apparente? Se come
apparente, essi mentono quando vanno affermando che la verità non è
realmente quale essa appare; se come non-apparente, come fanno essi
a recepire ciò che a loro non appare? Dalla causa di per sé o
per mezzo di altro? Dalla causa di per sé è impossibile, dal momento
che nessuna cosa che non appaia può essere recepita di per sé; se
per mezzo di altro, quest’altro, a sua volta, è o apparente o
non-apparente. Ma poiché l’indagine così condotta si va lontanando
nell’infinito, il vero risulterà introvabile.
E allora? Bisogna chiamar vero ciò che ci persuade –
il «probabile»8 –, qualunque sia mai la sua essenza, vuoi
sensibile vuoi intellegibile vuoi tutte e due le cose, ossia
sensibile-e-insieme-intellegibile? Ma anche ciò offre il destro alle
aporie.
Se, infatti, il «probabile» s’identifica col vero, poiché
la medesima cosa non persuade tutti e neppure sempre le
medesime persone, noi verremo a concedere che la stessa cosa esiste
e non-esiste e che la stessa cosa è simultaneamente vera e falsa: in
quanto persuade alcuni, è vera ed esistente; ma, in quanto non
riesce a persuadere altri, è falsa e non-esistente. Però è
ovviamente impossibile che la medesima cosa sia e non-sia e che
risulti vera e falsa. Pertanto neppure il «probabile» è vero. A
meno che non vogliamo asserire che «è vero ciò che riesce a
persuadere un maggior numero di persone»9. Poiché, infatti, il
miele10 crea in molte persone di buona salute il convincimento che è
dolce e non riesce, invece, a convincerne una sola, perché questa è
itterica, noi affermiamo, in conformità col vero, che esso è dolce.
Ma questo significa parlare a vanvera! Che, quando noi facciamo la
ricerca della verità, non dobbiamo, proprio allora, guardare alla
massa di quelli che sono d’accordo, ma solo alle loro
«disposizioni». E in una disposizione si trova l’ammalato, in un
altro stato tutti quelli che godono buona salute11.
Pertanto c’è da prestar fede «non più» a questa disposizione che a
quest’altra, giacché se, rovesciando le cose, supponiamo che i più –
in quanto, ad esempio, febbricitanti – vengano amareggiati dal miele
e che solo chi è in buona salute ne venga raddolcito, dovremo,
senz’altro, di conseguenza dire che il miele è amaro: il che è
assurdo. Pertanto, come in quest’ultimo caso noi mettiamo da parte
l’attestazione della massa e chiamiamo, ron di meno, dolce il miele,
così anche, quando molti provano un senso di dolce e uno solo un
senso d’amaro, dobbiamo evitare di chiamare dolce il miele solo
perché la massa subisce quest’affezione, e dobbiamo cercare il vero
in altra guisa.
1. Per questa espressione tanto discussa cfr. SEXT. EMP. Pyrrh. hyp.
I, 210; Adv. log. I, 349. II Brochard (Les sceptiques grecs, pp.
275-6) inserisce il presente passo nell’«Eraclitismo» di Enesidemo;
ma la Stough (Greek Skepticism, pp. 94-7) non vede in esso alcun
contrasto con le posizioni scettiche.
2. Cfr. fr. 244 Usener. Questa concezione epicurea è menzionata da
Sesto anche in Adv. log. I, 203 segg.
3. Al pari degli Accademici, da cui il pensatore di Cnosso si
distingue nettamente, pur utilizzandone il metodo diairetico. Per
quanto concerne la presente sezione, il Saisset l’estende fino al §
54, mentre lo Zeller e lo Haas la limitano fino al § 47, escludendo
che Enesidemo utilizzasse il tropo del regresso all’infinito che
risalirebbe solo ad Agrippa.
4. Ho tenuto presenti, nel tradurre i §§ 41-42, le integrazioni del
Kochalsky.
5. L’integrazione è dello Heintz.
6. L’espunzione è del Mutschmann.
7. A questa obiezione stoico-dommatica i Neo-pirroniani rispondevano
con le argomentazioni contro il principio di causalità riportate da
Sesto in Adv. phys. I,218-227.
8. Come vogliono i seguaci di Carneade (cfr. SEXT. EMP. Adv. log. I,
174 segg.).
9. In questo caso il probabilismo, perdendo la sua carica
speculativa, scade nella retorica e diviene filosofia delle
maggioranze, come era accaduto storicamente nella crisi finale
dell’Accademia post-Carneadea.
10. Per questo esempio cfr. Pyrrh. hyp. I, 101.
11. Cfr. Pyrrh. hyp. II, 44 e Adv. log. I, 333.
Le aporie del segno (SESTO EMPIRICO, Adv. log. II, 215-222, 234-238)
Enesidemo1 nel quarto libro dei Discorsi pirroniani2, a proposito
dello stesso tema3 e certamente con la stessa efficacia, propone
un’argomentazione che è suppergiù la seguente: «Se le cose apparenti
appaiono allo stesso modo a tutti quelli che si trovano in
condizioni simili, e se i segni sono apparenti, i segni appaiono
allo stesso modo a tutti quelli che si trovano in condizioni simili.
Ma i segni, in realtà, non appaiono affatto allo stesso modo a tutti
quelli che si trovano in condizioni simili; le cose apparenti,
invece, appaiono allo stesso modo a tutti quelli che si trovano in
condizioni simili; adunque i segni non sono cose apparenti».
Sembra che Enesidemo assegni qui il termine «cose apparenti» agli
oggetti sensibili e proponga, altresì, un’argomentazione nella quale
una seconda proposizione indimostrabile si aggiunge ad una terza. Lo
schema di quest’argomentazione è suppergiù il seguente: «Se c’è il
primo e c’è il secondo, c’è anche il terzo; ma il terzo non c’è,
bensì c’è solo il primo: dunque non c’è il secondo». E che la
faccenda stia davvero così lo staremo a vedere tra poco4; per ora,
invece, ci limiteremo a dimostrare più semplicemente che le premesse
dell’argomentazione sono valide e che in esse è conseguenziale la
conclusione.
Tanto per cominciare, dunque, la premessa maggiore è vera; difatti
alla proposizione che in essa fa da congiuntiva tien dietro la
conclusione: vale a dire all’espressione «le cose apparenti appaiono
allo stesso modo a quanti si trovano nelle stesse condizioni, e i
segni sono cose apparenti» tien dietro l’espressione «i segni
appaiono allo stesso modo a quanti si trovano nelle stesse
condizioni». Se, infatti, tutti quelli che hanno gli occhi non
appannati percepiscono il colore bianco in modo simile e non
differente, e se tutti quelli che hanno un gusto normale
percepiscono il dolce provando una sensazione di dolcezza, allora
necessariamente, anche per quanto concerne il segno – se esso
veramente fa parte delle cose sensibili al pari del bianco e del
dolce -, tutti quelli che si trovano nella disposizione simile,
devono in modo simile percepirlo. Sicché la premessa maggiore è
valida; però è vera, certamente, anche la seconda, quella cioè «ma i
segni non appaiono affatto allo stesso modo a quanti si trovano in
condizioni simili». Così, ad esempio, nel caso dei febbricitanti, il
rossore e la sporgenza delle vene e l’umidità della pelle e
l’aumento della temperatura e l’accelerazione del polso e gli altri
«segni» non si presentano come segni della medesima cosa per quanti
si trovano in condizioni simili relativamente ai sensi e al resto
della loro costituzione fisica, né appaiono a tutti allo stesso
modo, ma ad Erofilo5, ad esempio, appaiono indizi evidenti di buon
sangue, ad Erasistrato6, invece, indizi del travaso del sangue in
arterie, ad Asclepliade7, infine, come segni della presenza di
«masse» intellegibili. Sicché anche la seconda premessa è
valida. Ma è valida pure la terza, quella cioè che «le cose
apparenti appaiono allo stesso modo a quanti si trovano nelle stesse
condizioni». Infatti il colore bianco, putacaso, non si presenta
allo stesso modo all’itterico e a chi ha gli occhi iperemici8 e a
chi si trova in uno stato normale(che costoro si trovano in
condizioni dissimili e, per questo motivo, all’uno il bianco appare
giallognolo, all’altro rossiccio e all’altro, infine, bianco);
tuttavia, però, a quelli che si trovano nella medesima
disposizione – cioè ai sani – il bianco appare solamente
bianco. Pertanto da queste premesse, che sono vere, si trarrà anche
la conclusione «Epperò il segno non è una cosa apparente».
Di tal genere sono le argomentazioni costituite da componenti
omogenee. Rimangono da esaminare quelle risultanti da componenti
non-omogenee, come quella che Enesidemo proponeva9 a proposito del
segno e che si presenta così: «Se le cose apparenti appaiono allo
stesso modo a quanti si trovano in condizioni simili, e se i segni
sono apparenti, i segni appaiono allo stesso modo a quanti si
trovano in condizioni simili; ma le cose apparenti appaiono allo
stesso modo a quanti si trovano in condizioni simili; i segni,
invece, non appaiono allo stesso modo a quanti si trovano in
condizioni simili: dunque i segni non sono apparenti».
Un’argomentazione di tal genere risulta composta da una seconda
argomentazione indimostrabile e da una terza, come si può evincere
dall’analisi10, e quest’ultima diventerà alquanto più chiara quando
ne avremo data la spiegazione in base al «modo» che è il seguente:
«Se ci sono il primo e il secondo, c’è il terzo; ma il terzo non c’è
affatto, bensì c’è solo il primo: dunque non c’è il secondo».
Difatti, poiché abbiamo una premessa maggiore in cui fanno da
antecedente il primo e il secondo congiunti tra loro e in cui il
terzo fa, invece, da conseguente, e poiché abbiamo anche l’opposto
del conseguente ossia l’espressione «ma il terzo c’è» – noi porremo
come conclusione anche l’opposto dell’antecedente – cioè «dunque non
ci sono il primo e il secondo» – per mezzo di una seconda
argomentazione indimostrabile. Ma, in realtà, proprio questa stessa
conclusione è potenzialmente contenuta nell’argomentazione, giacché
noi possediamo le premesse che sono atte a provarla, quantunque essa
non sia esplicitamente enunciata. E quando le avremo disposte
accanto alla premessa rimanente, ossia alla prima, noi saremo in
possesso della conclusione già nell’atto in cui questa viene
dedotta, cioè dunque il terzo non c’è:, per mezzo della terza
argomentazione indimostrabile. Sicché ci sono due argomentazioni
indimostrabili: la prima di esse è: «se ci sono il primo e il
secondo, c’è il terzo; ma il terzo non c’è affatto: dunque non ci
sono il primo e il secondo» e questa costituisce una seconda
argomentazione indimostrabile l’altra, ossia la terza, è: «non ci
sono affatto il primo e il secondo, ma c’è solo il terzo: dunque il
secondo non c’è».
Per quanto concerne lo schema, l’analisi è questa, e in modo
analogo essa va condotta anche per quanto concerne l’argomentazione:
difatti viene messa da parte la terza premessa, ossia «non è affatto
vero che le cose apparenti appaiono allo stesso modo a quanti si
trovano in condizioni simili e che i segni sono apparenti»; la quale
premessa, congiunta con quella secondo cui le cose apparenti
appaiono allo stesso modo a tutti quelli che si trovano in
condizioni simili, porta alla «conclusione dell’argomentazione»11
enunciata, (cioè a «dunque i segni non sono apparenti»), vale a dire
alla terza indimostrabile. Sicché viene a risultare come seconda
indimostrabile questa: c se le cose apparenti appaiono allo stesso
modo a quanti si trovano in condizioni simili e se i segni sono
apparenti, i segni appaiono allo stesso modo a quanti si trovano in
condizioni simili; ma i segni non appaiono affatto allo stesso modo
a quanti si trovano in condizioni simili: dunque i segni non sono
apparenti». E come terza verrà a risultare questa: «non
è affatto vero che le cose apparenti appaiono allo stesso modo
a quanti si trovano in condizioni simili e che i segni sono
apparenti; ma le cose apparenti appaiono allo stesso modo a quanti
si trovano in condizioni simili: dunque i segni non sono apparenti».
1. Il presente paragrafo è parallelo a Adv. log. II, 234. Per quaato
concerne la presente sezione, Zeller la chiude al § 235, mentre
Natorp Festende fino a § 242 e Saisset fino a 244. D’accordo con
Brochard (Les sceptiqvxs grecs, p. 250) ho escluso i §§ 223-233.
Inoltre lo stesso Brochard (pp. 268-70 in contrasto col Natorp
(Forschungen zur Gesch. des Erkenntnissprob., pp. 127-30) sottolinea
l’assenza della distinzione tra segno indicativo e segno
commemorativo (presente in SEXT. EMP. Adv. log. II, 141-144 e
altrove). Tale distinzione risale alla Medicina Empirica e in
particolare a Menodoto (cfr. DEICH-GRABER, Die griech.
Empirikerschule, pp. 105, 107, 121).
2. Cfr. Phot. Bibl. 212, 170b, 12-18.
3. Ossia dell’impossibilità che il segno sia sensibile, come è stato
illustrato nei §§ 212-213. L’attacco è diretto non solo contro gli
Epicurei, ma anche contro gli stoici (cfr. STOUGH, Greek skepticism,
p.103).
4. In § 234 segg.
5. La presente citazione di Erofilo di Calcedonia (menzionato da
Sesto anche in Pyrrh. hyp. II, 245, in Adv. log. II, 188 e in Adv.
eth. 50) è una conferma del carattere dottrinario di quell’indirizzo
medico (cfr. DAL PRA, Lo scetticismo greco, p. 435).
6. Erasistrato di Iulis, vissuto nel III sec. a. C. (menzionato da
Sesto anche in Adv. log. II, 188 e in Adv. math. I, 258), esponente
dell’indirizzo dottrinario, seguì le teorie aristoteliche attraverso
Stratone di Lampsaco e Diocle di Caristo.
7. Asclepiade di Bitinia, amico e medico di Cicerone (menzionato da
Sesto in Pyrrh. hyp. III, 32, 33, in Adv. log. I, 91, 202, 323, 380;
II, 7, 188, in Adv. phys. I, 363; II, 318) sostenne una sua
peculiare dottrina parzialmente e confusamente
anassagoreo-democritea, supponendo l’esistenza di «masse» e di
«pori» intellegibili, dal cui reciproco rapporto dipenderebbero lo
stato di salute o di malattia.
8. Per questo esempio cfr. Pyrrh. hyp. I, 44.
9. In § 215.
10. L’analisi è nei §§ 225-226.
11. L’integrazione è del Kochalsky.
La dimostrazione e le sue aporie (SESTO EMPIRICO, Adv. log.
II, 300-315, 391-395)
Per quale motivo noi, nella presente trattazione, ci occupiamo della
dimostrazione, è stato indicato già precedentemente1, quando
portavamo l’indagine sul criterio e sul segno; ma, perché il nostro
procedimento non risulti privo di metodo e perché con maggiore
sicurezza possano progredire sia la nostra «sospensione del
giudizio» sia il nostro dibattito contro i Dommatici, dobbiamo
fornire certe indicazioni sul concetto di dimostrazione.
Orbene2: la dimostrazione, in quanto al genere, è un’argomentazione,
giacché, ovviamente, non è un oggetto sensibile, ma un certo
movimento e assenso del pensiero, e questi sono fattori di natura
razionale. E un’argomentazione è, per dirla in modo più semplice,
l’insieme di premesse e di conclusioniChiamiamo «premesse» non certe
proposizioni assunte d’arbitrio, ma quelle che il nostro
interlocutore ammette e concede per il fatto che sono manifeste. È,
invece, «conclusione» ciò che viene stabilito sulla base di queste
premesse. Così, ad esempio, è un’argomentazione l’intero costrutto
seguente: «se è giorno, c’è luce; ma è davvero giorno: dunque
c’è luce». Sue premesse risultano essere: «se è giorno, c’è luce» e
«ma è davvero giorno»; sua conclusione è «dunque c’è luce». Tra le
argomentazioni, poi, alcune sono «conclusive», altre no. Sono
conclusive quelle in cui, ammessa la consistenza delle pre messe,
messe in virtù dell’ammissione di queste risulta conseguire anche la
conclusione, come avveniva neirargomentazione poc’anzi esposta.
Poiché, infatti, quest’ultima risultava composta da una premessa
ipotetica maggiore, cioè da «se è giorno, c’è luce» – la quale
prometteva che, essendo vera la prima delle due proposizioni in essa
contenute, sarebbe stata vera anche la seconda -, e, inoltre, dalla
proposizione «è giorno» – la quale faceva da antecedente nella
premessa maggiore -, allora io affermo che, ammessa la verità della
premessa maggiore, talché all’antecedente che è in essa tenga dietro
la conseguente che pure è in essa, e ammessa anche la consistenza
della prima delle due proposizioni che sono in essa – ossia «è
giorno» –, necessariamente verrà dedotta, in base alla connessione
di quelle, anche la seconda proposizione presente nella premessa
maggiore – cioè «c’è luce» -, la quale risultava essere, per
l’appunto, la conclusione. Così si presentano3, in
conformità col loro carattere, le argomentazioni conclusive;
risultano, invece, inconclusive quelle che non si trovano in questo
stato.
Delle argomentazioni conclusive, poi, alcune danno una conclusione
immediatamente evidente, come quella che abbiamo sopra riportata e
che diceva «se è giorno, c’è luce; ma è davvero giorno: dunque c’è
luce»: difatti la proposizione «c’è luce» è manifesta in modo uguale
a quella «[se]4 è giorno». E lo stesso dicasi anche per questa: «se
Dione passeggia, Dione si muove; ma Dione passeggia: dunque Dione si
muove»; difatti la proposizione «Dione si muove» – la quale è, per
l’appunto, la conclusione – risulta manifesta di per sé. Dà, invece,
una conclusione non-evidente un’argomentazione come questa: «se
scorre sudore lungo la superficie del corpo, esistono pori
intellegibili della carne5; ma c’è il primo: dunque c’è anche il
secondo»: difatti l’esistenza di pori intellegibili della carne fa
parte delle cose non-evidenti. E ancora: «ciò che, quando viene
separato dal corpo, determina la morte degli uomini, è anima; ma
quando il sangue viene separato dal corpo, gli uomini muoiono:
dunque il sangue è anima»: difatti non è evidente che l’essenza
dell’anima risieda nel sangue.
A loro volta, tra queste argomentazioni che danno una conclusione
non-evidente, alcune ci guidano dalla premessa alla conclusione
solo mediante una progressione, altre, invece mediante una
progressione e, insieme, una rivelazione. Ci guidano soltanto
mediante una progressione quelle che sembrano dipendere da una
credenza o da un ricordo, come si ha nell’argomentazione seguente:
«se un dio ti dicesse che costui si arricchirà, costui si
arricchirà; ma questo dio qui (e gli faccio vedere, putacaso, Zeus)
ti ha detto che costui si arricchirà: dunque costui diventerà
ricco». In questo caso noi accettiamo la conclusione – ossia che
costui si arricchirà – non perché essa sia stata stabilita
dall’efficacia dell’argomentazione, ma perché abbiamo fede
nell’assicurazione del dio. Ci guida, invece, dalle premesse alla
conclusione mediante una progressione e, insieme, mediante una
rivelazione, l’argomentazione proposta, ad esempio, in merito ai
pori intellegibili. Difatti l’espressione «se scorre sudore lungo la
superficie del corpo, ci sono pori intellegibili della carne» e
quella «sudore scorre lungo la superficie del corpo» ci portano a
concludere, in base alla loro stessa natura, che esistono pori
intellegibili della carne, e fanno ciò secondo una progressione che
è suppergiù la seguente: «è impossibile che un liquido scorra
attraverso un corpo compatto; ma il sudore scorre indubbiamente
attraverso il corpo; pertanto non è possibile che il corpo sia
compatto, ma esso è poroso».
Stando così le cose, la dimostrazione deve essere anzitutto
un’argomentazione, in secondo luogo deve essere conclusiva, in terzo
luogo deve essere vera, in quarto luogo deve avere una conclusione
non-evidente, in quinto luogo anche quest’ultima deve essere
disvelata in base all’efficacia delle premesse, Così6,
un’argomentazione come la seguente, fatta durante il giorno «se è
notte, c’è buio; ma è davvero notte: dunque c’è buio» risulta
conclusiva (che, ammessa la consistenza delle sue premesse, anche la
conclusione verrà dedotta), ma, ovviamente, non è vera (che ha in sé
una premessa falsa, cioè «è notte»),ragion per cui non è apodittica.
Al contrario, un’argomentazione come la seguente «se è giorno, c’è
luce; ma è giorno: dunque c’è luce», oltre ad essere conclusiva, è
anche vera, dal momento che, date le sue premesse, viene data anche
la conclusione, e mediante premesse vere dimostra anche qualcosa di
vero. Ma, pur essendo tale, ancora una volta essa non è
dimostrazione, per il fatto che la sua conclusione – ossia «c’è
luce» – è già immediatamente evidente e non affatto non-evidente.
Allo stesso modo7 anche un’argomentazione come questa «se un
dio ti dicesse che costui si arricchirà, costui si arricchirà; ma
questo dio qui ti ha detto che costui si arricchirà: dunque costui
diventerà ricco» ha, sì, una conclusione non evidente – cioè
l’arricchimento di costui., ma non è apodittica, perché la
conclusione non viene disvelata in base all’efficacia delle
premesse, ma viene accettata in base alla fiducia nel dio.
Quando, pertanto, siano venuti a concorrere tutti
questi fattori – cioè che l’argomentazione sia conclusiva, sia
vera e sia in grado di stabilire una cosa non evidente –, solo
allora la dimostrazione viene a sussistere. Ecco perché la
descrivono8anche così: «è dimostrazione un’argomentazione che,
mediante premesse convenute, rivela, secondo una deduzione, una
conclusione non-evidente», come, ad esempio, nel caso seguente9 «se
c’è movimento, c’è vuoto; ma certamente c’è movimento: dunque c’è
vuoto». L’esistenza del vuoto è non-evidente, ma risulta disvelata
mediante un procedimento deduttivo e in base a premesse vere, ossia
in base a «se c’è movimento, c’è vuoto» ed a «ma c’è movimento».
Queste sono le precisazioni che andavano preliminarmente fatte
in merito alla nozione dell’oggetto della nostra indagine.
Inoltre10, la dimostrazione che è nell’atto di dimostrare, è o una
dimostrazione immediatamente evidente di una cosa immediatamente
evidente, o non-evidente di una cosa nonevidente, o non-evidente di
una cosa immediatamente evidente, o, infine, immediatamente evidente
di una cosa non-evidente.
Ma essa non è nessuna di queste cose, come stabiliremo: epperò non
c’è dimostrazione alcuna.
Orbene: non ci può essere una dimostrazione che sia immediatamente
evidente di cosa immediatamente evidente, giacché ciò che è
immediatamente evidente non abbisogna di una dimostrazione, ma è
conoscibile di per sé.
Quella non-evidente di ciò che è non-evidente non potrà essere, a
sua volta, una dimostrazione, in quanto che essa medesima, essendo
non-evidente, avrà bisogno di ciò che la stabilisca, e non risulterà
in grado di stabilire un’altra cosa.
Allo stesso modo non è dimostrazione quella non-evidente di ciò che
è immediatamente evidente, giacché in tal caso vengono a convergere
ben due difficoltà: difatti, ciò che si sta dimostrando, essendo già
immediatamente evidente, non avrà bisogno di dimostrazione alcuna,
mentre la dimostrazione, essendo non-evidente, avrà bisogno di ciò
che la stabilisca; sicché neanche quella non-evidente di ciò che è
immediatamente evidente può mai risultare dimostrazione.
Resta da affermare che è dimostrazione quella immediatamente
evidente di ciò che è non-evidente; ma anche ciò non sfugge alle
aporie: se, infatti, la dimostrazione non fa parte delle cose
concepite come circoscritte e assolute, bensì di quelle relative11,
e se le cose relative – come abbiamo indicato nell’indagine
concernente il segno12 – vengono apprese insieme reciprocamente, e
se le cose apprese insieme non sono disvelate l’una dall’altra, ma
sono di per sé stesse immediatamente evidenti, allora la
dimostrazione non sarà una dimostrazione immediatamente evidente di
ciò che è non-evidente, giacché anche quest’ultimo, essendo appreso
insieme con essa, viene a presentarsi di per sé.
Se, allora, una dimostrazione non esiste né come dimostrazione
apparente di apparente né come non-evidente di nonevidente né come
non-evidente di apparente né come apparente di non-evidente, e se al
di fuori di queste possibilità non se ne dà alcun’altra, bisogna
affermare che una dimostrazione non è proprio nulla.
1. In Adv. log. I, 27 segg.; II, 142 segg. Analoghi rilievi sono in
Pyrrh. hyp. II, 113-118, 134-143, 159-162. Sulle orme del Robin
(Pyrrhon et le scept. grec., p. 164), il Dal Pra (Lo scetticismo
greco, p. 385) avverte: «Né Sesto né Diogene Laerzio fanno espresso
riferimento ad Enesidemo; pertanto, quanto ci è dato desumere
sull’argomento di tali fonti non può considerarsi come riferibile al
pensatore di Cnosso che in maniera indiretta ed approssimativa».
2. I §§ 301-304 sono paralleli a Pyrrh. hyp. II, 135-138. La
discussione si svolge intorno al sillogismo ipotetico quale era
stato strutturato dalla logicastoica.
3. I §§ 305-310 sono paralleli a Pyrrh. hyp. II,140-143.
4. L’espunzione è del Kochalsky.
5. Secondo le teorie di Asclepiade di Bitinia (cfr. Pyrrh. hyp.
II,50).
6. Questo paragrafo è parallelo a Pyrrh. hyp. II, 139.
7. Questo paragrafo è parallelo a Pyrrh. hyp. II,141.
8. Ovviamente gli stoici (cfr. Stoic, vet. frag. II, 266 Arnim).
9. Già citato come argomentazione democriteo-epicurea in Adv. log,
I, 213; II,277.
10. I §§ 391-395 sono paralleli a Pyrrh. hyp. II, 177-179. anche qui
enesidemo-sesto applicano il metodo platonico della diairesis.
11. Come è stato precisato in Adv. log. II,273, 287.
12. Ossia in Adv. log. II, 174 segg.
I tropi e le aporie della causa (SESTO EMPIRICO, Pyrrh. hyp. I,
180-186)
Come noi stiamo offrendo i tropi 〈della〉1 sospensione
del giudizio, così alcuni Scettici2 propongono anche certi
tropi mercé i quali esprimiamo le nostre riserve in merito alle
particolari teorie della causalità ed arrestiamo i Dommatici per il
fatto che essi vanno massimamente orgogliosi di queste teorie.
Così Enesidemo presenta otto tropi in virtù dei quali egli reputa di
confutare ogni teoria dommatica in merito alle cause e di disvelarne
le deficienze.
II primo di questi tropi egli dice essere quello secondo
cui l’intero genere delle teorie concernenti le cause, poiché
ha a che fare con cose non-evidenti, non riceve l’appoggio della
testimonianza proveniente dalle cose apparenti.
Secondo tropo è quello in virtù di cui, mentre sussiste spesso ampia
facoltà di far risalire l’oggetto di una nostra ricerca a tutta una
varietà di cause, alcuni ne danno un’aitiologia in maniera univoca.
Terzo tropo è quello in virtù di cui assegniamo ad
accadimenti ordinati cause che non rivelano ordine alcuno.
Quarto tropo è quello in virtù di cui i Dommatici, avendo percepito
il modo in cui accadono le cose apparenti, credono di aver compreso
anche come accadono quelle non-apparenti, mentre è possibile che le
cose non apparenti si effettuino tanto in modo simile a quelle
apparenti, quanto in modo non simile, ma tutto peculiare ad esse.
Quinto tropo è quello in virtù di cui tutti danno una
sola teoria delle cause secondo le loro personali ipotesi circa
gli elementi primordiali e non già secondo certi procedimenti
metodologici comunemente ammessi da tutti.
Sesto tropo è quello in virtù di cui i Dommatici accettano quei
fatti che concordano con le loro ipotesi personali, mentre
respingono quelli che si presentano in contrasto con esse e che pur
hanno pari «probabilità»3.
Settimo tropo è quello in virtù di cui i dommatici spesso danno
cause che sono in contrasto non solo con le apparenze fenomeniche,
ma anche con le loro stesse ipotesi.
Ottavo tropo è quello in virtù di cui, pur essendo similmente
incerte tanto le cose che sembrano apparire quanto quelle su cui
verte un’indagine, i Dommatici si mettono a formulare teorie su cese
che sono similmente incerte fondandosi su cose che pur sono
similmente incerte.
Enesidemo aggiunge anche che non è da escludersi che alcuni, nel
dare la loro teoria sulle cause, cadono in errore mercé certi tropi
misti, che sono una derivazione di quelli sopraddetti.
Ma forse anche i cinque tropi della sospensione del giudizio4
sarebbero sufficienti contro la teoria delle cause. Infatti chi
addurrà una causa ne addurrà o una che sia concordante con tutti gli
indirizzi filosofici e con gli Scettici e con le apparenze
fenomeniche, oppure una che non sia concordante con tutto ciò. Ma
trovarne una che sia concordante non è, forse, possibile, giacché su
tutte le cose che appaiono e su tutte quelle che sono
non-evidenti regna discordia. Se, invece, la causa da lui proposta è
discordante, gli si chiederà anche la causa di questa causa, e,
tanto se egli assume una causa apparente di una causa apparente
quanto se assume una causa non-evidente di una causa non-evidente,
andrà a cascare nel regresso all’infinito, oppure, se cercherà una
causa reciproca, incapperà nel diallelo. Se, poi, egli si ferma ad
un determinato punto, allora o dirà che la causa trova una sua
consistenza in base a quello che egli ha già detto, e quindi mette
in campo ciò-che-è-relativo eliminando ciò-che-è-per-natura, oppure
farà un’assunzione basata su un’ipotesi e noi lo bloccheremo.
È possibile, pertanto, anche in virtù di questi tropi, confutare,
forse, l’avventatezza dei Dommatici nelle loro teorie delle cause.
(SESTO EMPIRICO, Adv. phys. I, 218-264)
In maniera alquanto semplice, dunque, alcuni vengono
a stabilire le premesse dei ragionamenti ora proposti5.
Enesidemo, invece, sempre a proposito di queste premesse, ha fatto
un più eccellente uso delle aporie della generazione.
Il corpo, invero, non potrà essere causa del corpo, dal momento
che un corpo siffatto o è ingenerato, come l’atomo di Epicuro,
oppure è generato, come avviene di solito6, ed è o manifesto, come
ferro e fuoco, oppure non manifesto, come l’atomo. Ma qualunque di
queste cose esso sia non ha facoltà di agire. Esso, infatti, produce
un qualcosa o permanendo in se stesso oppure congiungendosi con
un’altra cosa. Ma, permanendo in se stesso, non potrebbe compiere
cosa alcuna oltre se stesso e la propria natura; congiungendosi,
invece, con un’altra cosa, non potrebbe effettuarne una terza, senza
che questa già precedentemente non esista nella realtà. Infatti non
è possibile che l’uno diventi due né che due faccia tre7! Se,
infatti, fosse possibile che l’uno diventasse due,
anche ciascuna delle due cose che si sono prodotte, pur essendo
una, farà due, e ciascuna delle quattro, pur essendo una, farà due,
e allo stesso modo ciascuna delle otto, e così via all’infinito8. Ma
è completamente assurdo affermare che da una sola cosa se ne possono
generare infinite: epperò è assurdo affermare che da una sola cosa
se ne venga a generare qualcuna in più.
Lo stesso vale, anche, nel caso che si reputi che da un minor numero
di cose se ne effettuino di più mercé aggiunzione: se, infatti, una
sola cosa, aggiunta ad una sola cosa, ne produce una terza, anche la
terza, aggiunta alle due ne farà una quarta, e la quarta, aggiunta
alle tre, ne effettuerà una quinta, e così ancora una volta
all’infinito9.
Pertanto un corpo non è causa di un corpo. E neppure un incorporeo
di un incorporeo, per le medesime cagioni: difatti né da un’unica
cosa né da più di un’unica cosa si potrebbe produrre un qualcosa di
più. D’altronde l’incorporeo, essendo una natura intangible,
non può né agire né patire. Ne consegue che neppure un incorporeo
può essere in grado di produrre un incorporeo.
E allo stesso modo non è possibile neppure il caso inverso, ossia
che un corpo produca un incorporeo oppure un incorporeo il corpo.
Infatti il corpo non possiede in se stesso la natura di incorporeo,
e l’incorporeo, a sua volta, non contiene in sé la natura di
corpo. Perciò nessuna delle due cose può risultare dall’altra, ma,
come da platano non nasce cavallo, per il fatto che nel platano non
c’è la natura del cavallo, né da cavallo viene a formarsi uomo, per
il fatto che nel cavallo non c’è la natura dell’uomo, cesi neppure
da corpo potrà risultare l’incorporeo, per il fatto che nel corpo
non c’è la natura dell’in corporeo, né, per converso,
dall’incorporeo il corpo. Pur tuttavia, anche se l’una delle due
cose è presente nell’altra, ancora una volta l’una non nascerà
dall’altra. Se, infatti, ciascuna delle due è di già esistente, non
viene a nascere dall’altra, ma già esiste nella realtà, ed essendo
già 〈nella〉10 realtà, non viene generata, dato che la generazione è
processo verso l’esistenza reale11. Adunque, né un corpo è causa di
un incorporeo né un incorporeo di un corpo: dal che consegue che non
c’è causa alcuna.
E ancora: se un qualcosa è causa di un qualcosa, allora o
ciò-che-permane è causa di ciò-che-permane o ciò-che-è-mosso di
ciò-che-è-mosso o ciò-che-è-mosso di ciò-che-permane o, infine,
ciò-che-permane di ciò-che-è-mosso. Ma né ciò-che-permane potrà
risultare causa di permanenza per ciò-che-permane, né
ciò-che-è-mosso causa di movimento per ciò-che-è-mosso, né
ciò-che-permane causa di permanenza per ciò-che-è-mosso, né
viceversa, come preciseremo: epperò non esiste causa alcuna.
Orbene: ciò-che-permane non potrebbe essere causa di
permanenza per ciò-che-permane, né ciò-che-è-mosso causa di
movimento per ciò-che-è-mosso, a cagione della loro
indistinguibilità. Infatti, poiché entrambi ugualmente permangono o
entrambi ugualmente sono mossi, noi non diremo che questo è causa di
permanenza o di movimento per quello più di quanto quello non lo sia
per questo. Se, infatti, L’uno dei due, in quanto è mosso, risulta
essere la causa del movimento per l’altro, allora, poiché anche
l’altro è parimenti mosso, si dirà che esso è fornitore di movimento
al primo. Così, ad esempio, se si muove la ruota del carro, si muove
anche l’auriga: difatti per quale motivo, a causa della ruota
dovrebbe muoversi [anche]12 l’auriga, piuttosto che, al
contrario, la ruota a causa dell’auriga? Se, ovviamente, l’uno dei
due non si muovesse, non si muoverà neppure l’altro. Onde, se è
causa «ciò per la cui presenza si produce l’effetto», poiché
l’effetto viene prodotto per la presenza di entrambi, e si ottiene
l’effetto quando non sia assente né la ruota né l’auriga, allora
bisognerà affermare che l’auriga è causa di movimento per la ruota
«non più» di quanto lo sia la ruota per l’auriga. E ancora: permane
la colonna epermane anche l’architrave, ma non si deve affermare che
l’architrave permane a causa della colonna più di quanto la colonna
a causa dell’architrave, giacché, se l’una delle due cose viene
tolta, viene a cascare anche l’altra. Sicché, per questo motivo, noi
non potremmo asserire che ciò-che-permane è causa di permanenza per
ciò-che-permane e che ciò-che-è-mosso è causa di movimento per
ciò-che-è-mosso.
Parimenti né ciò-che-permane è causa di movimento
per ciò-che-è-mosso, né ciò-che-è-mosso è causa di permanenza
per ciò-che-permane, per la contrarietà della loro essenza. Come,
infatti, il freddo, non avendo la proprietà essenziale13 del caldo,
non può mai riscaldare, e come il caldo, non avendo la proprietà
essenziale del freddo, non potrà mai raffreddare, allo stesso modo
neppure il mosso, non possedendo la proprietà essenziale di
ciò-che-permane, può essere in grado di produrre permanenza.
Ma, se né ciò-che-permane è causa di permanenza per ciò-che-permane,
né ciò-che-è-mosso è causa di movimento per ciò-che-è-mosso, né
ciò-che-permane è causa di movimento per ciò-che-è-mosso, né
ciò-che-è-mosso è causa di permanenza per ciò-che-permane, e se al
di fuori di queste alternative non è possibile concepirne
alcun’altra, allora bisogna affermare che non esiste causa alcuna.
Oltre a ciò14, se un qualcosa è causa di un qualcosa, allora o
ciò-che-è-simultaneo è causa di ciò-che-è-simultaneo o l’anteriore
del posteriore oppure il posteriore dell’anteriore. Ma né il
simultaneo è causa del simultaneo né l’anteriore del posteriore né
il posteriore dell’anteriore, come preciseremo: epperò non c’è causa
alcuna.
Orbene: il simultaneo non può trovarsi ad essere causa del
simultaneo, perché coesistono entrambi e perché questo può essere
generatore di quello «non più» di quanto quello lo possa essere di
questo, avendo l’uno e l’altro un’esistenza uguale.
Né l’anteriore potrà produrre ciò-che-si-genera-dopo. Se, infatti,
quando esiste la causa, non ancora esiste ciò-di-cui-questa-è-causa,
allora non vengono più ad esistere né la prima in quanto causa, non
avendo essa ciò-di-cui-è-causa, né il secondo in quanto effetto, non
esistendo, insieme con esso, ciò-di-cui-esso-è-effetto: difatti
ciascuna delle due cose fa parte dei relativi, e i relativi devono
necessariamente coesistere reciprocamente, e non devono andarsene
«l’un dinanzi e l’altro dopo»15.
Resta, allora, da affermare che il posteriore è causa
dell’anteriore. Ma questa è la massima assurdità ed è propria di
uomini che intendano capovolgere la realtà delle cose16: difatti
risulterà inevitabile asserire che l’effetto è più antico di ciò che
lo produce e che, perciò, esso non risulta essere assolutamente
effetto, poiché non potrebbe essere ciò-di-cui-è-effetto. Come,
infatti, è balordo affermare che il figlio è più anziano del padre e
che il tempo della mietitura precede quello della semina, allo
stesso modo è una sciocchezza stimare che ciò-che-non-esiste-ancora
sia una [qualche]17 causa di ciò-che-esiste-già.
Ma, se né il simultaneo è causa del simultaneo né
l’anteriore del posteriore né il posteriore dell’anteriore, e
se oltre queste alternative non se ne danno altre, allora non ci
potrà essere causa alcuna.
Inoltre, se c’è una qualche causa, essa è causa di qualcosa o
in senso assoluto e in quanto fa uso assolutamente della propria
potenza oppure ha bisogno della materia passiva come collaboratrice
per conseguire questo scopo, sicché l’effetto viene concepito come
il risultato di un comune concorso di entrambe le cose. E se la
causa è adatta a produrre qualcosa in senso assoluto e in
quanto fa uso della propria potenza, è indispensabile che essa
produca il suo effetto conservando costantemente il possesso di se
medesima e della propria potenza, e non già che una volta si metta a
produrre e un’altra volta se ne stia inerte. Ma se, come asseriscono
alcuni Dommatici18, essa non fa parte delle cose assolute e
indipendenti ma solo di quelle relative, per il fatto che viene
contemplata in relazione al paziente e il paziente in relazione a
lei, allora balzerà alla luce qualcosa di peggio19.
Difatti, se l’una delle due cose viene concepita come
relativa all’altra, e se di esse l’una è l’agente e l’altra il
paziente, la loro nozione rimarrà, sì, una sola, ma esse verranno ad
assumere due appellativi: quello di agente e quello di paziente; e
perciò la potenza operante verrà a risiedere nell’agente «non più»
di quanto non risieda in quello che è chiamato paziente. Come,
infatti, l’agente non può far nulla ove prescinda da ciò che si
chiama paziente, così neppure ciò che si chiama paziente può patire
ove prescinda dalla presenza di quello.
Ne consegue, quindi, che la potenza operatrice dell’effetto risiede
nell’agente «non più» che nel paziente. Così (le nostre
affermazioni, infatti, risulteranno chiare con un esempio), se il
fuoco è causa di combustione, è in grado di produrre combustione o
in modo assoluto e facendo uso esclusivamente della propria potenza,
oppure ha bisogno della materia combusta come collaboratrice
per conseguire questo scopo. E se esso produce la combustione in
modo assoluto e appagandosi della propria natura, sarà
indispensabile che esso abbia continuamente operato combustione, dal
momento che è perennemente in possesso di 〈se stesso e〉20 della
propria natura. Esso, però, non brucia affatto perennemente, ma
certe cose le brucia e certe altre non le brucia. Epperò esso non
brucia in modo assoluto né facendo uso della propria natura.
Se, invece, esso brucia con l’aderenza della legna che viene
bruciata, in base a che cosa noi possiamo affermare che proprio il
fuoco è causa di combustione e non già l’aderenza della legna? Come,
infatti, se esso non c’è, non avviene la combustione, così anche, se
manca l’aderènza della legna, la combustione non avviene. In tal
modo, allora, se esso è causa in quanto per la sua presenza si ha
l’effetto e per la sua assenza non si ha, per questi due motivi sarà
causa anche l’aderenza. Come, pertanto, nel caso della sillaba «di»,
risultante dalle lettere «d» ed «i», cade in assurdità chi dice che
causa del compimento di questa sillaba è la lettera «d» e non la
lettera «i», così, essendo simile alla sillaba l’atto del bruciare
ed essendo simili alle lettere dell’alfabeto il fuoco e la legna,
cadrà nella massima assurdità chi dice chè il fuoco è causa della
combustione e la legna non lo è affatto. Che né senza il fuoco né
senza la legna la combustione si verifica, come neanche la sillaba
ha luogo senza lelettere «d» ed «i». Ragion per cui, ancora una
volta, se la causa non è produttrice di qualcosa né in modo assoluto
né con l’aderenza del paziente, la causa non è in grado di fare
proprio nulla.
Inoltre, se c’è la causa, essa ha o un unico potere
operativo oppure ne ha di più: ma essa non ne ha né uno solo,
come preciseremo, né di più, come mostreremo: epperò non esiste
causa alcuna.
Essa non ha un unico potere, perché, se ne avesse uno
solo, dovrebbe disporre tutte le cose alla stessa guisa e non
in modo differente. Ad esempio, il sole brucia le regioni del mondo
nei pressi dell’Etiopia, riscalda le regioni nostrane, si limita,
infine, ad illuminare gli Iperborei, e dissecca il fango ma
discioglie la cera21, e imbianca i vestimenti ma imbrunisce la
nostra pelle e arrossa alcuni frutti, ed è per noi causa del vedere,
ma del non vedere per gli uccelli notturni, come civette e nottole.
Sicché, se la causa avesse un unico potere, dovrebbe produrre il
medesimo effetto in ogni caso; ma non lo produce identico in ogni
caso: dunque non ha un unico potere.
E neppure ne ha molti, giacché dovrebbe attuarli tutti quanti in
tutti i casi, ad esempio ardere tutto o liquefare tutto o congelare
tutto. Ma, se esso non ha né uno solo né molti poteri, non potrà
essere causa di cosa alcuna.
Sì, ma a questo punto i Dommatici sono soliti replicare dicendo
che gli effetti prodotti dalla medesima causa si verificano
naturalmente secondo gli oggetti che patiscono e secondo le
distanze, come avviene, ad esempio, per il sole. È verosimile,
infatti, che esso, stando vicinissimo agli Etiopi, li bruci, stando,
invece, a moderata distanza da noi, ci riscaldi, e stando, infine,
molto remoto dagli Iperborei, non li riscaldi affatto, ma si limiti
ad illuminarli; e che dissecchi il fango separandone la parte
liquida da quella terrea, e dissolva, invece, la cera, perché questa
non ha la proprietà del fango. Ma quelli che ricorrono a questa
replica vengono, quasi senza opposizione, ad ammettere insieme con
noi che tra l’agente e il paziente non c’è alterità. Se, infatti, il
coagulo della cera non si verifica a causa del sole bensì mercé la
proprietà naturale della cera, è evidente che nessuna delle due cose
è causa del coagulo della cera, ma ne è causa il concorso di tutte e
due, ossia del sole e della cera. Ma, poiché è il concorso di
entrambe le cose a produrre l’effetto, cioè il coagulo, la cera
subisce la coagulazione per mezzo del sole «non più» di quanto il
sole la produca per mezzo della cera. E in questo modo è assurdo non
assegnare alle due cose l’effetto prodotto dal loro concorso e
attribuirlo, invece, ad una sola di esse.
Inoltre, se un qualcosa è causa di un qualcosa, esso o è separato
dalla materia paziente oppure coesiste con questa. Ma esso non può
causare il patire della materia né qualora sia separato da questa né
qualora sia ad essa congiunto, come preciseremo: epperò non esiste
alcuna causa di alcuna cosa.
Separato dalla propria materia, esso, ovviamente, non è causa, non
essendo presente quella materia in relazione alla quale esso viene
chiamato causa, né la materia patisce, poiché insieme con essa non è
presente l’agente.
Se, invece, una cosa si accoppia all’altra, allora quello che vien
detto essere causa, o agisce solamente senza patire affatto, oppure
agisce-e-insieme-patisce. E se agisce-e-insieme-patisce, ciascuna
delle due cose verrà ad essere agente-e-insieme-paziente: infatti,
in quanto essa agisce, la materia sarà quella che patisce, e in
quanto la materia agisce, sarà proprio la causa quella che viene a
patire. E così l’agente risulterà essere agente «non più» che
paziente, e il paziente sarà paziente «non più» che agente: il
che è assurdo. Se, invece, agisce ma non subisce azione, allora
agisce o mediante una semplice toccata – vale a dire mediante un
contatto superficiale – oppure mediante penetrazione. E se
sopravviene esternamente e si accosta alla materia passiva solo
superficialmente, non potrà fare nulla: difatti la superficie è
incorporea22, e l’incorporeo non può, di sua natura, né agire
né patire. Perciò la causa non può compiere alcuna azione sulla
materia, qualora si accosti meramente alla superficie. Ma essa non è
in grado di operare neppure mediante penetrazione. Essa, infatti, si
introdurrà o attraverso corpi solidi oppure attraverso certi «pori»
intellegibili e impercettibili23. Ma attraverso corpi solidi non
potrà certamente spostarsi, giacché un corpo non può passare
attraverso un altro corpo. Se, invece, passerà attraverso certi
«pori», dovrà agire venendo ad imbattersi prima con le superfici che
circoscrivono i pori. Ma le superfici sono incorporee, e non è
conforme a ragione che l’incorporeo agisca o patisca. Pertanto,
neppure per penetrazióne la causa agisce; dal che consegue che essa
non si trova affatto ad essere causa.
Ma, a proposito dell’agente e del paziente, si
possono sollevare aporie di carattere più generale in base al
contatto. Infatti, affinché un qualcosa possa agire o patire, deve
toccare o essere toccato. Ma non c’è nulla che possa toccare o
essere toccato, come preciseremo: epperò non esistono né l’agente né
il paziente.
Se, infatti24, un qualcosa è in contatto con un qualcosa e lo
viene a toccare, allora o come intero è in contatto con un intero o
come parte con una parte o come intero con una parte o come parte
con un intero; ma né come parte può venire in contatto con una
parte, né come intero con un intero, né come intero con una parte,
né viceversa, come mostreremo: epperò un qualcosa non è in contatto
con un qualcosa. E se nulla è in contatto con nulla, allora non
esistono neanche né il paziente né l’agente.
Orbene: che un intero non sia in contatto con un intero è
conforme a ragione: se, infatti, un intero è in contatto con un
intero, non ci sarà contatto, bensì unificazione di entrambi i
corpi, e i due corpi verranno ad essere uno solo, giacché l’uno dei
due deve toccare l’altro anche con le parti profonde, per il fatto
che anche quest’ultime risultano essere parti dell’intero.
E neppure è possibile che una parte tocchi una parte. Infatti
la parte viene, sì, concepita come parte secondo il suo stato di
relazione rispetto all’intero, ma, secondo la propria circoscritta
entità, è un intero, e, ancora una volta, per questo motivo, o
l’intera parte è in contatto con l’intera parte o una parte con una
parte. E se un’intera parte è in contatto con l’intera, si
unificheranno e diventeranno entrambe un unico corpo; se, invece,
una parte è in contatto con una parte, ancora una volta quella
parte, essendo concepita come intera secondo la propria circoscritta
entità, o sarà in contatto come intera con la parte-come-intera,
oppure con qualche parte toccherà una qualche parte, e così via
all’infinito25. Pertanto neppure una parte è in contatto con una
parte.
E neanche un intero con una parte. Se, infatti, l’intero viene a
contatto con la parte, allora anche Tintero, mettendosi insieme alla
parte, sarà parte, e la parte, al contrario, estendendosi
all’intero, sarà intero: difatti ciò che è uguale alla parte ha la
proporzione della parte, e ciò che è uguale all’intero ha quella
dell’intero. Ma è una perfetta corbelleria vuoi ridurre l’intero a
parte vuoi stimare che la parte sia uguale all’intero26. Pertanto
neppure l’intero è in contatto con la parte.
D’altronde, l’intero, se è in contatto con la parte, verrà ad essere
più piccolo di se stesso o, anche, più grande di se stesso. E questa
è una corbelleria peggiore della precedente. Infatti, di certo,
l’intero, se occupa lo stesso luogo della parte, sarà uguale alla
parte; ma, una volta divenuto uguale a questa, verrà ad essere più
piccolo di se stesso, e, al contrario, la parte, se viene ad
estendersi fino a toccare Tintero, si impossesserà dello stesso
luogo di quest’ultimo; ma, una volta che si sia impossessata dello
stesso luogo dell’intero, verrà ad essere maggiore di se
medesima. Lo stesso ragionamento vale anche per il caso inverso: se,
infatti, l’intero non può venire a contatto con la parte per i
motivi poc’anzi addotti, neppure la parte potrà essere in contatto
con l’intero.
Ragion per cui, se né l’intero è in contatto con l’intero né la
parte con la parte né l’intero con la parte né viceversa, allora
nulla viene in contatto con nulla. Perciò neppure esisterà un
qualcosa che sia causa di un qualcosa, né un qualcosa che patisca
un’azione da parte di un qualcosa27.
1. L’aggiunzione è del Bekker. per i §§ 180 segg. cfr. PHOT. Bibl.
212, 170b 17-22. circa il significato che il termine «tropo» assume
nella presente sezione, il Brochard (Les sceptiques grecs, P. 265)
annota acutamente: «Il ne s’agit plus ici d’opposer les unes aux
autres des opinions d’Égale valeur et contradictoires, mais
seulement d’indiquer les manières de mal raisonner sur les causes:
le mot trope est employé dans un sens nouveau. la liste d’aenesidème
est, a vrai dire, une liste de sophismes».
2. Sia Accademici (infatti un accenno al probabilismo È in § 183)
sia soprattutto enesidemo.
3. Tanto Enesidemo quanto Sesto, pur non accettando il probabilismo,
ne conservano un vivo rispetto e lo utilizzano a tempo debito.
4. Allusione ai cosiddetti tropi di Agrippa, illustrati da sesto in
Pyrrh. hyp. I,164 segg.
5. Ossia delle aporie della generazione, fondandole sul rapporto tra
corpo e incorporeo (cfr. Adv. phys. I, 210 segg.). I pensatori cui
Sesto allude sono accademici. queste critiche enesidemee sono
riassunte in DIOG. LAERT. IX, 97-99. per quanto concerne l’intera
sezione, il saisset e il Natorp considerano enesidemei i §§ 218-258,
lo zeller i §§ 218-227, il Robin, come già il Fabricius, i
§§218-226.
6. Così i codici. Hirzel, in modo piuttosto strano, propone di
emendare «come un uomo» (Untersuchungen zu Cic. philos. Schriften,
p.146).
7. In base al sacrosanto principio di non-contraddizione che
enesidemo, con tutto il suo cosiddetto eraclitismo, non si sente di
abbattere.
8. Enesidemo utilizza qui l’aporia eleatica del mucchio.
9. Le aporie dell’addizione sono illustrate daSesto in Adv.
mata.21-34.
10. L’aggiunta è del Bekker.
11. IL problema era stato discusso con ampiezza e profondità in
ARISTOT. De gen. et corr. I,3-4.
12. L’espunzione è del Bekker.
13. II termine λóγoς, usato qui da sesto, ha il complesso
significato di «qualità» e di «ragion sufficiente». ovviamente il
brillante autore non crede affatto a queste «qualità» che
imperverseranno per secoli nel pensiero scolastico, ma le usa per
sconfiggere i Dommatici con le loro stesse armi.
14. I §§ 232-236 sono paralleli a Pyrrh. hyp. III,26-28.
15. Ho preferito usare la celebre espressione dantesca (Inf.,
XXIII,2) per evidenziare l’ironia di Sesto-Enesidemo.
16. Così viene frustrato qualsiasi aurorale spunto evoluzionistico
per quel rispetto che gli scettici nutrivano.
17. L’espunzione È del mutschmann.
18. si tratta, probabilmente, di stoici che, per confortare il loro
immanentismo, erano indotti a relativizzare la causa.
19. ossia una caotica indiscernibilità della causa dall’effetto, e,
quindi, la distruzione del cosmo.
20. L’integrazione è proposta dal Mustschmann is base a 439, 17
Bekker.
21. Per questo esempio cfr. SEXT. EMP. Adv. log. II,194.
22. Cfr. pyrrh. hyp. III, 39 e, per le aporie della superficie come
«larghezza priva di profondità», cfr. adv. math. III,77-82.
23. Come sostenne asclepiade (cfr. pyrrh. hyp. II, 98, 140; Adv.
log. II, 306, 309).
24. I §§259-261 sono paralleli a Pyrrh. hyp. III,45-46.
25. Molto acutamente Aristotele (De gen. et corr. I, 2, 316a 14
segg.) aveva già rilevato l’aporia dell’esecuzione della divisione
reale della grandezza e aveva spiegato l’origine del paralogismo su
cui erano fondate le teorie atomistiche (cfr. anche ARISTOT. An.
pr.64b 10-23).
26. Queste due nozioni, già studiate da Aristotele in Metaph. V,
25-26, vengono discusse ed epochizzate da Sesto, probabilmente
dietro le indicazioni di Enesidemo, in Adv. phys. I,331-358.
27. La problematica del contatto in relazione al rapporto
aitiologico agire-patire era stata discussa da Aristotele in De gen.
et corr. I, 6, 322b 21 segg. ed era stata risolta con
l’irreversibilità del contatto stesso da parte del paziente
sull’agente. Sesto mostra di ignorare questa prospettiva.
Bene generico e bene specifico (SESTO EMPIRICO, Adv. eth. 42-44)
Nelle nostre precedenti considerazioni abbiamo notato che i
Dommatici non hanno descritto in modo convincente il concetto del
bene e del male1; per acquisire, però, una maggiore familiarità con
le argomentazioni concernenti l’esistenza di queste due cose, basta
dire che, in fin dei conti, tutti gli uomini – come soleva affermare
anche Enesidemo -, poiché reputano come bene ciò che li attrae,
qualunque mai esso sia, posseggono necessariamente sul bene giudizi
contrastanti, quando scendono alle determinazioni specifiche. E
come, putacaso, essi pur trovandosi d’accordo sull’esistenza di una
certa formosità corporea, sono invece in contrasto sulla donna
formosa e bella, poiché l’Etiope dà la preferenza a quella più
camusa e più nera, e il Persiano gradisce la più aquilina e la più
candida, e un altro proclama più bella quella che è intermedia tra
tutte per i lineamenti e per il colorito2, allo stesso modo i comuni
mortali e i filosofi, pur opinando – in base ad una prenozione
comune – l’esistenza di un certo bene e di un certo male, e pur
dicendo che è bene ciò che li attrae e ciò che è utile, ed è male
ciò che si trova in una condizione contraria alle precedenti, sono
tuttavia in guerra tra loro per quanto concerne le determinazioni
specifiche:
un uom si diletta di un’opra, un altro, invece, di un’altra3
e, secondo Archiloco4
Chi placa il cor con questo, chi con quello.
1. Questi paragrafi sono un ampliamento di Pyrrh. hyp. III, 175.
Maggiori notizie sul pensiero morale di Enesidemo sono in PHOT.
Bibl. 212, 170b 22-35; DIOG. LAERT. IX, 107; ARISTOCL. apud Euseb.
Praep. ev. XIV, 19, 4.
2. Probabile allusione al canone di Apelle.
3. HOM. Od. XIV, 228 cit. anche in Pyrrh. hyp. I, 86.
4. FR. 36 BERGK.
Il cosiddetto Eraclitismo di Enesidemo
a) Eraclito, Enesidemo e lo Scetticismo (SESTO EMPIRICO, Pyrrh. hyp.
210-212)
È cosa di per sé palese che la filosofia di Eraclito
differisce dal nostro indirizzo. Eraclito, infatti, fa dichiarazioni
di ordine dommatico in merito a molte cose non-evidenti1; noi,
invece, no, come abbiamo già detto2. Teniamo, però, senz’altro,
presente che Enesidemo soleva affermare che l’indirizzo scettico è
«una via che porta alla filosofia di Eraclito», in base al fatto che
ammettere l’apparenza dei contrari in un medesimo oggetto3 è una via
preliminare all’ammissione della reale sussistenza dei contrari in
un medesimo oggetto – e gli Scettici sostengono che i contrari si
manifestano in un medesimo oggetto, mentre gli Eraclitei partono da
quest’affermazione per passare alla reale sussistenza dei contrari4
–; ma a costoro obiettiamo che l’apparire dei contrari in un
medesimo oggetto non è «dogma» degli Scettici, bensì un dato di
fatto che si presenta sotto i sensi non solo degli Scettici, ma
anche degli altri filosofi e di tutti gli uomini.
Nessuno, ovviamente, oserebbe asserire che il miele non raddolcisca
quelli che godono buona salute e non amareggi gli itterici; quindi è
da una comune percezione umana che prendono l’abbrivo tanto gli
Eraclitei quanto noi e quanto, forse, tutte le altre correnti
filosofiche. Perciò, se essi avessero desunta
l’esistenza-dei-contrari-in-un-medesimo-oggetto da qualcuna delle
formule scettiche – ad esempio da «tutte le cose sono
incomprensibili» o da «nulla definisco» o da un’altra affine a
queste – forse sarebbero pervenuti a quella conclusione che essi
dicono. Ma, dal momento che assumono come punto di partenza ciò che
si presenta non solo sotto i sensi nostri, ma anche sotto quelli
degli altri filosofi e della gente ordinaria, non c’è alcun motivo
per affermare che il nostro indirizzo sia una via che porta alla
filosofia di Eraclito più di quanto non portino colà ciascuna delle
altre filosofie o persino il modo di pensare della gente ordinaria,
soprattutto perché tutti quanti utilizziamo materiali comuni5.
Anzi c’è il rischio che l’indirizzo scettico non solo rifiuti
la sua collaborazione alla conoscenza della filosofia di
Eraclito, ma le sia addirittura di ostacolo, se teniamo presente che
lo Scettico tratta le affermazioni dommatiche di Eraclito come
profferite in maniera temeraria e si oppone alla teoria della
conflagrazione6 e si oppone, altresì, alla reale sussistenza dei
contrari nel medesimo oggetto7 e prende in giro – a proposito di
ogni «dogma» di Eraclito – la sua faciloneria tipicamente dommatica
col ribadire, ad ogni pié sospinto, gli adagi «non comprendo» e
«nulla definisco», come prima dicevo: espressioni che sono in
contrasto con gli Eraclitei.
Ma è assurdo dire che un indirizzo, il quale è in polemica con un
altro, sia una «via che porta» verso quella corrente filosofica con
cui è in conflitto.
Epperò è assurdo asseverare che l’indirizzo scettico sia una «via
che porta alla filosofia di Eraclito»8.
b) L’intelligenza e gli organi sensoriali (SESTO EMPIRICO, Adv. log.
I, 349-350)
Ma il pensiero non può affatto osservare insieme tali
cose9, dal momento che alcuni, come fa Dicearco10, affermano
che esso non è nulla se non un certo stato del corpo, altri, invece,
hanno assicurato che esso esiste, però non sono d’accordo a
riconoscerlo situato nel medesimo luogo, ma alcuni lo pongono al di
fuori del corpo, come fa Enesidemo seguendo Eraclito, altri
nell’intero corpo (come fanno certuni sulle orme di Democrito),
altri, infine, in una parte del corpo, e le opinioni di
questi ultimi hanno, a loro volta, ulteriori diramazioni11.
Alcuni poi – e sono i più – affermano che il pensiero differisce dai
sensi, altri lo identificano con i sensi, dicendo che esso si sparge
dagli organi sensoriali quasi attraverso i buchi di un flauto:
dottrina, questa, che fu introdotta dapprima da Stratone il fisico12
e da Enesidemo. Perciò, dunque, il pensiero non è criterio.
c) Corporeità del tempo (Sesto Empirico, Adv. phys. II, 215-218)
Ma è possibile mettere in bilico il tempo anche partendo dalla
sostanza, come l’abbiamo messo in bilico partendo dalla nozione13.
Per far subito un esempio, infatti, tra i filosofi dommatici alcuni
asseriscono che il tempo è corpo, altri che è incorporeo; e tra
quelli che ne affermano l’incorporeità, alcuni lo considerano come
una cosa che venga concepita di per sé, altri come attributo14 di
un’altra cosa.
Enesidemo, seguendo Eraclito15, disse che il tempo è corpo, giacché
esso non differisce dal corpo realmente esistente ed originario16.
Ragion per cui egli, quando nella sua Prima introduzione17 sostiene
che gli appellativi semplici – vale a dire le parti del discorso –
sono coordinati a sei cose, afferma che gli appellativi «tempo» e
«unità» sono coordinati alla sostanza, la quale è corporea, mentre
le dimensioni temporali e le somme numeriche vengono soprattutto
prodotte da una moltiplicazione di quelli. Infatti il termine
«istante», che è una indicazione temporale, e, inoltre, il termine
«unità» non sono altro se non la sostanza, mentre i termini «giorno»
e «mese» sono multipli dell’istante (vale a dire del tempo) e i
termini «due» e «tre» e «dieci» e «cento» sono multipli dell’unità;
sicché costoro considerano corpo il tempo18.
d) Identità del tutto e delle parti (SESTO EMPIRICO, Adv. phys. II,
337)
Enesidemo, poi, seguendo Eraclito, afferma che la parte è, rispetto
all’intero, sia identica sia altra: difatti la sostanza è intera ed
è parte – è intera nell’universo, è parte nella natura di questo
determinato animale –. Anche lo stesso termine «particella» viene
usato in due sensi: talora come differente dalla parte, quale questa
è propriamente concepita – e in questo senso si dice che essa è
«parte di una parte», come, ad esempio, un dito è parte di una mano
e un occhio della testa –, talora, invece, come non-differente,
bensì come facente parte dell’intero – e in questo senso alcuni
dicono comunemente che una particella è quella che riesce a
completare l’intero.
e) Dottrina del movimento (SESTO EMPIRICO, adv. phys. II, 37-41)
Aristotele19 affermava che si danno sei specie di
movimento, delle quali una è spostamento locale, un’altra
cangiaménto, un’altra generazione, un’altra corruzione, un’altra
accrescimento e un’altra diminuzione20. Ma’ la maggior parte dei
filosofi – tra cui è anche Enesidemo – ammettono due tipi di
movimento, facendo una riduzione ai sommi generi21: l’uno è quello
che produce cangiamento, l’altro è quello che produce spostamento; e
di essi è movimento che produce cangiamento quello in virtù di cui
il corpo, pur rimanendo sostanzialmente identico, riceve ora una
qualità e ora un’altra, e una ne lascia e un’altra ne prende, come
avviene, ad esempio, per il vino che cambia in aceto e per l’uva che
passa dal sapore agro a quello dolce, e per il camaleonte e per il
polipo che cangiano il colore della pelle ora in un modo ora in un
altro. Ragion per cui bisogna dire che sono cangiamenti specifici
anche la generazione e la corruzione, e così pure l’accrescimento e
la diminuzione: cosa che essi dicono di inserire nel movimento che
produce cangiamento, a meno che non si obietti che l’accrescimento,
in un certo qual modo, fa parte del movimento che
produce spostamento, in quanto è un progresso dei corpi in
lunghezza e in larghezza. È movimento che produce spostamento quello
secondo cui il mosso perviene da un luogo ad un altro o interamente
o parzialmente: interamente, come possiamo osservare nel caso di
quelli che corrono o camminano; parzialmente, come nel caso della
mano che si stende e si chiude o in quello delle parti della sfera
che gira intorno al centro. Infatti, pur rimanendo essa – come
intera – nello stesso luogo, le sue parti cangiano sito, giacché la
parte che prima era in basso va in alto e quella che era in alto va
in basso, e quella che era davanti va a finire indietro.
f) La provenienza esterna dell’anima (TERTULLIANO, De anim. XXV, 2)
Chi22 professa la verità non tiene in alcun conto quelli che
l’avversano, specialmente se questi ultimi sono tanto tracotanti
quanto lo sono più di ogni altro quelli che presumono che l’anima
non venga concepita nell’utero né sia allestita e prodotta insieme
con la formazione della carne, ma venga impressa dall’esterno, non
essendo ancora vivo il bambino quando il parto è stato già
effettuato. Essi reputano, del resto, che, in seguito all’unione
sessuale, il seme, depositato nelle parti femminili e reso vegeto
dal natural movimento, si vada sviluppando esclusivamente in
sostanza di carne e che quest’ultima, una volta che, ancora fumante
e dilatata per il calore, sia stata emessa dalla fornace dell’utero,
allora, come ferro arroventato che venga istantaneamente immerso
nell’acqua, così, percossa dal rigore dell’aria23, colga avidamente
la potenza animale e reagisca con l’effondere il suono della voce.
Così la pensano gli Stoici insieme con Enesidemo e talvolta persino
Platone, quando afferma che l’anima – quasi straniera in altra sede
e bandita dall’utero – viene immessa nel corpo con la prima
inspirazione del neonato nella stessa guisa in cui essa viene emessa
con l’estremo respiro.
1. Il dommatismo delie dottrine eraclitee è rilevato da sesto anche
in adv. log. I, 126 segg. e in adv. phys. II,232-233.
2. In Pyrrh. hyp. I,13-15.
3. Per la contrarietà immanente ai fenomeni cfr. pyrrh. hyp. I, 39,
91, 101 segg.
4. In virtù del loro fisicalismo dommatico.
5. Ossia quelle esperienze e quelle osservazioni che nascono dalle
impressioni sensibili.
6. questa dottrina era stata accettata proprio dai dommatici più
ostinati, gli stoici (cfr. Stoic, vet. frag. II,397, 585, 596
ARNIM).
7. in quanto non negan é il principio di identità né, tanto meno,
quello di non-contraddizione (cfr. i nostri rilievi in SESTO
EMPIRICO, Contro i logici, pp. XLVII-XLVIII).
8. La dialettica di Sesto è chiaramente eleatica: di qui la sua
opposizione recisa ad ogni tentativo di eraclitizzare lo scetticismo
o di intendere in chiave scettica il pensiero di Eraclito.
9. Ossia essere consapevole della propria natura, della propria
sostanza, del proprio luogo e così via (cfr. §348).
10. Fr.8a Wehrli.
11. Come È stato detto in §313.
12. Fr. 109 Wehrli.
13. Ossia spostando la questione dai suoi termini logici a quelli
fisici (cfr. pyrrh. hyp. III,138).
14. Per la duplice accezione di questo termine, ossia come
ciò-che-appar-tiene o necessariamente o accidentalmente ad un
oggetto, cfr. Aristot. Metaph. V, 30 e SEXT. EMP. adv. phys. II,
220.
15. Per questo paragrafo cfr., tra l’altro, SEXT. EMP. adv. phys. i,
337.
16. Ossia dall’aria, come viene precisato in adv. phys. II, 232-233.
17. Quest’opera (o parte di un’opera) enesidemea è menzionata solo
nel presente passo.
18. Stando a Sesto, la scepsi di enesidemo implicherebbe un recupero
«materialistico» non solo dell’eraclitismo, ma anche del
pitagorismo.
19. Il presente passo è un ampliamento di pyrrh. hyp. III,64.
20. Cfr. ARISTOT. Cat. 15a 13; phys. V, I, 225b 5-8; 2, 226a
24-09.
21. La riduzione risaliva probabilmente già agli stoici, cui
Enesidemo si rifaceva non tanto in senso dommatico quanto a scopo
critico-scettico, come avevano già fatto i medio e i neo-accademici
con altre nozioni stoiche (cfr. NATORP, Forschungen zur Gesch. des
Erhenntnissproblems, P. 110; ARNIM, Quellenstudien zu Philon von
Alex., P. 92; BURKHARD, Die angebliche Heraklit-Nachfolge des
skeptikers Aenesidem, pp.137-9).
22. Per analoghe dottrine cfr. SEXT. EMP. adv. log. I, 129, 349,
350. circa l’inattendibilità del passo tertullianeo per quanto
concerne non solo enesidemo ma lo stesso Eraclito cfr. Arnim,
Quellenstudien zu Philon von Alex., P. 93; Pappenheim, Die
angebliche Heraklitismus des skept. Aenes., P. 30; Schmekel, Die
positive Philosophie, P. 315. che erroneamente tertulliano
attribuisca ad Enesidemo una dottrina che, fatta già erroneamente
risalire alla prima stoa dall’Arnim (Stoic, vet. frag. II, 806),
sarebbe stata propria di posidonio è sostenuto dal Burkhard (Die
angebliche Heraklit-Nachfolge des skept. Aen., pp. 85-7), come si
evincerebbe anche da Cic. De divin. II, LVIII,119(per cui cfr.
REINHARDT, kosmos and sympathie, pp.313 segg).
23. Secondo Tertulliano (De anim. IX,5), ENESIDEMO, al pari di
Anassimene e, secondo alcuni, anche di Eraclito, avrebbe reputato
che l’aria è la sostanza dell’anima.
Agrippa – la cui identità è avvolta nel più fitto mistero1 – diede
alla tropologia scettica una svolta di immensa portata filosofica e
quasi un «possesso per sempre» ad ogni Scetticismo possibile.
I suoi cinque «modi della sospensione dell’assenso» – la discordanza
nelle affermazioni dei filosofi e nella vita ordinaria, il regressus
ad infinitum, la relatività, l’ipotesi e il diallelo –, considerati
ciascuno isolatamente, non costituivano affatto una novità: secondo
i filosofi dommatici, e in particolare secondo Aristotele2, essi
segnalavano il pericolo da cui ogni pensatore deve guardarsi nel
formulare le proprie dottrine e nell’addurre le proprie
argomentazioni in qualsivoglia settore d’indagine. Agrippa non solo
li trasformò in un patrimonio inalienabile dello Scetticismo e li
determinò singolarmente nella loro più nuda essenza, ma – cosa molto
più importante – conferì loro anche quello sviluppo «circolare» e
quella funzionalità organica con cui solo i più autentici filosofi
sanno far camminare il loro pensiero.
La scepsi radicale di Enesidemo poteva volgersi – e forse si volse3
– verso due direzioni: l’empirismo e la più rigorosa razionalità. La
prima direzione ebbe più numerosi adepti, perché trovò facilitazioni
sia nella cultura comune dell’età imperiale4 sia in quella Medicina
Empirica che già aveva – come vedremo nell’ultima sezione di questo
volume – tutta una sua storia in parte autonoma e parallela, in
parte intrecciata con quella dello Scetticismo; la seconda direzione
trovò nel solitario Agrippa la sua espressione più lapidaria e
potente: Sesto Empirico, che non si peritò neppure di fare il nome
del misterioso filosofo, si professò – ed è stato generalmente
ritenuto – seguace della prima direzione, ma la sua logica vigorosa
si attiene di solito, con geniale libertà, all’indirizzo tracciato
da Agrippa e ne utilizza – da par suo – l’apporto tropologico5.
I tropi di Agrippa dovettero avere «sapor di forte agrume» non solo
per i Dommatici, che se ne sentivano duramente colpiti e bloccati,
ma anche per quegli Scettici che si attenevano alla metodologia del
παρατηρητιϰῶς σϰέπτεσϑαι ossia dell’indagine meramente
empirico-osservativa, e che respingevano – con un apriorismo poco
scettico – la metodologia del λoγιϰῶς σϰέπτεσϑαι, vale a dire
dell’indagine speculativa e tendente all’universale6. Di qui, forse,
la caduta del sipario su Agrippa, lo sforzo di Sesto nel dimostrare
che i tropi degli Scettici «recenziori» non erano affatto in
contrasto con quelli più fenomenistici ed empirici di Enesidemo7, di
qui – dopo circa due millenni – il plauso di Hegel che non solo
considerò quei tropi come il vertice della scepsi antica, ma li usò
come una valida arma contro i filosofi moderni e in particolare
contro l’infinità «cattiva» di Kant e di Fichte, contro il sapere
immediato di Schelling e contro gli Scettici del suo tempo –
soprattutto contro lo Schulze8 – che, a parer suo, non avevano l’ala
filosofica di quelli antichi.
La vita che circola all’interno dei tropi di Agrippa e che Sesto –
forse ispirandosi all innominato predecessore – sa mettere
acutamente in rilievo nel mostrare che ognuno di quei tropi può
essere virtualmente il principio e la fine di ogni argomentazione
scettica, è il dono più prezioso venuto a noi, quasi magicamente, da
un indirizzo filosofico che, ormai ricco di esperienze e di lotte
secolari, si avviava al suo compimento e stava per trovare la sua
summa sceptica nell’opera di Sesto Empirico.
I cinque tropi «speculativi» (SESTO EMPIRICO, Pyrrh. hyp. I,
164-179)
Gli Scettici più recenti9 ci trasmettono come tropi della
sospensione del giudizio i cinque seguenti: primo, quello che si
basa sulla discordanza; secondo, quello che rimanda all’infinito;
terzo, quello che si basa sulla relazione; quarto, quello ipotetico;
quinto il diallelo.
〈I tropo〉 II tropo che si basa sulla discordanza è quello secondo
cui, a proposito di un oggetto che ci proponiamo di spiegare, noi
veniamo a scoprire che si è sviluppata una controversia priva di
soluzione tanto nella vita ordinaria quanto tra i filosofi, e a
cagione di questa controversia noi, non essendo in grado di
scegliere o di rigettare alcun punto di vista, approdiamo alla
sospensione del giudizio.
〈II tropo〉 II tropo che si fonda sul regresso all’infinito
è quello nel quale noi diciamo che ciò che viene addotto come
prova di un oggetto che ci siamo proposti di spiegare, ha bisogno
esso stesso di un’altra prova, e questa ancora di un’altra, e così
all’infinito, sicché, non avendo noi da dove dare inizio alla nostra
argomentazione, ne consegue la sospensione del giudizio.
〈III tropo〉 II tropo che si basa sulla relazione, come
abbiamo detto precedentemente10, è quello in cui l’oggetto
appare tale o talaltro in relazione al giudicante e alle altre cose
che insieme con l’oggetto vengono contemplate, ma noi ci asteniamo
dal giudicare quale esso sia in relazione alla sua naturale essenza.
〈IV tropo〉 II tropo che deriva da un’ipotesi si ha quando i
Dommatici, costretti al regresso all’infinito, prendono come punto
di partenza un qualcosa che essi non stabiliscono mercé
un’argomentazione, ma che reputano di dover assumere per
concessione, in maniera semplice e senza dimostrazione.
〈V tropo〉 II tropo del diallelo viene a risultare quando
la cosa che dovrebbe essere capace di confermare l’oggetto di
un indagine, ha essa stessa bisogno della prova derivante
dall’oggetto dell’indagine: in questo caso noi, non potendo assumere
nessuna delle due cose per stabilire l’altra, sospendiamo il
giudizio su entrambe.
La possibilità di riportare ogni oggetto di indagine a questi tropi
sarà da noi, in breve, illustrata nel modo seguente.
L’oggetto che ci proponiamo di indagare è o sensibile
o intellegibile, ma, qualunque delle due cose esso sia,
soggiace a controversia: difatti alcuni11 affermano che sono vere
solo le cose sensibili, altri12 solo le intellegibili, altri13 in
parte le sensibili e in parte le intellegibili. Diranno allora che
questo disaccordo può o, piuttosto, non può aver soluzione? Se
diranno che non può averla, noi affermiamo che bisogna sospendere il
giudizio, giacché, a proposito di cose che permangono in disaccordo
privo di soluzione, non è, ovviamente, possibile fare asserzioni.
Se, invece, diranno che il disaccordo si può risolvere,
vogliamo sapere da dove la soluzione giungerà. Ad esempio, l’oggetto
sensibile (su questo, infatti, fonderemo in primo luogo la nostra
argomentazione) verrà giudicato da parte di un sensibile o ci un
intellegibile? Se da parte di un sensibile, poiché stiamo indagando
proprio sui sensibili, anche quello avrà bisogno di un
altro oggetto che lo convalidi. E se anche quest’altro sarà
sensibile, avrà bisogno, a sua volta, di un altro oggetto che lo
convalidi, e ciò continuerà all’infinito. Se, invece, il sensibile
avrà bisogno di essere giudicato da un intellegibile, allora, poiché
c’è disaccordo anche a proposito degli intellegibili, anch’esso,
essendo intellegibile, avrà bisogno di giudizio e di prova. E da
dove andrà a desumere questa prova? Se da un intellegibile, andrà a
cascare ugualmente nell’infinito; se da un sensibile, allora, poiché
per provare un sensibile è stato assunto un intellegibile e per
provare un intellegibile è stato assunto un sensibile, entrerà in
campo il tropo del diallelo.
Se, poi, chi sta disputando con noi, per evitare questi risultati,
reputerà di assumere per mera concessione e senza dimostrazione una
qualche cosa allo scopo di dimostrare certe sue successive
assunzioni, entrerà in ballo il tropo dell’ipotesi, che non ammette
via di scampo14. Se, infatti, chi formula un’ipotesi merita credito,
noi, ogni qualvolta formuleremo l’ipotesi opposta, non saremo meno
meritevoli di credito. E se chi formula un’ipotesi ipotizza un
qualcosa di vero, lo rende sospetto per il solo fatto che lo assume
in via ipotetica e non già in virtù di un’argomentazione; se,
invece, ipotizza qualcosa di falso, il sostegno delle sue
argomentazioni risulterà di pasta frolla. E se l’ipotizzare dà
un certo contributo alla prova, si ipotizzi, in tal caso, lo stesso
oggetto dell’indagine e non già qualche altra cosa che sia un
semplice mezzo per dar conferma all’oggetto della nostra
discussione; se, invece, è assurdo ipotizzare l’oggetto su cui
stiamo indagando, sarà assurdo assumere per ipotesi anche quello che
lo trascende.
Inoltre, che tutte le cose sensibili siano relative, è
evidente: esse, infatti, sono in relazione con chi prova una
sensazione. Risulta, pertanto, manifesto che, qualunque oggetto
sensibile ci venga proposto, è agevole riportarlo ai cinque tropi.
Ragionamenti simili ai precedenti faremo anche a proposito degli
intellegibili. Se, infatti, si dirà che essi sono oggetto di un
disaccordo insolubile, sarà bella e assicurata la necessità di
sospendere il giudizio. Se, invece, il disaccordo ammetterà una
soluzione, allora, nel caso che esso sia risolto per mezzo di un
intellegibile, sconfineremo all’infinito; nel caso, invece, che esso
sia risolto da un sensibile, cascheremo nel diallelo: infatti il
sensibile, essendo a sua volta controverso e non potendo essere di
per sé giudicato a causa del regresso all’infinito, avrà bisogno
dell’intellegibile, come anche quest’ultimo avrà bisogno del
sensibile. Per questi motivi, chi fa un’asserzione per ipotesi,
ancora una volta, cade in assurdità.
Inoltre, gli intellegibili sono relativi: infatti hanno il nome di
intellegibili in relazione all’intelletto15, e se avessero le
proprietà naturali che in merito a loro si va dicendo, non vi
sarebbe disaccordo su di essi. Così anche l’intellegibile viene
riportato ai cinque tropi; ragion per cui siamo costretti, in ogni
caso, a sospendere il giudizio sull’oggetto che ci proponiamo di
indagare.
Suppergiù questi sono i cinque tropi trasmessi dai pensatori
scettici più recenti; e costoro li espongono non con l’intento di
estromettere i dieci tropi «antichi»16, ma per fare una più
variegata confutazione della frettolosità dei Dommatici utilizzando
tanto gli uni quanto gli altri.
Ci trasmettono17 anche altri due tropi della sospensione del
giudizio.
Poiché, invero, tutto quello che viene appreso sembra essere appreso
o di per sé o in base ad un’altra cosa, essi 〈facendo presente che
un qualcosa〉18 non viene appreso 〈né di per sé né in base ad
un’altra cosa〉, reputano di introdurre il dubbio su tutto. E che
nulla venga appreso di per sé – essi dicono – risulta evidente dal
disaccordo che è scoppiato, a parer mio, presso i fisici circa tutte
le cose sensibili e quelle intellegibili: disaccordo che è privo di
soluzione, non potendo noi servirci né di un «criterio» sensibile né
di uno intellegibile19, per il fatto che, qualunque criterio noi
eventualmente assumiamo, essendo esso oggetto di disaccordo,
risulterebbe screditato. D’altra parte, essi non concedono che
si apprenda qualcosa neppure in base ad altro, per il motivo
seguente. Se, invero, ciò-in-base-a-cui-si-apprende-qualcosa avrà
sempre bisogno di essere appreso in base a qualche altra cosa
ancora, si casca o nel tropo del diallelo o in quello del regresso
all’infinito. Se, infatti, uno vorrà assumere che un
qualcosa-in-base-a-cui-l’altra-cosa-viene-appresa venga esso stesso
appreso di per sé, verrà bloccato per i motivi anzidetti dal fatto
che nulla viene appreso di per sé. Ma noi siamo dubbiosi circa il
modo in cui un oggetto controverso possa essere appreso (o)20 di per
sé o in base ad altro, e il nostro dubbio è dovuto al fatto che non
è manifesto il «criterio della verità» o dell’apprendimento21 e al
fatto che i «segni» – anche a non voler tirare in ballo la
«dimostrazione» – vengono confutati in modo travolgente, come
verremo ad acclarare nei trattati che seguono22.
Basta, pertanto, aver detto tutto questo – almeno per ora23 – anche
a proposito dei «tropi» della sospensione del giudizio.
1. Agrippa, come Sesto, ebbe un nome romano, ma nulla sappiamo dei
suoi rapporti con gli ormai raffinatissimi dominatori del
mondo. Lo Haas (De philos, scept. succ., p. 85) ha sostenuto
che egli visse tra la seconda metà del I sec. d. c. e la prima metà
del secondo. Diogene Laerzio (IX, 88-89), che espone i cinque tropi
nello stesso ordine che troviamo in Sesto, gli assegna anche dei
seguaci, ma non ne inserisce il nome nella successione scettica
alquanto oscura e tanto discussa di IX, 116. Il fatto che vengano
menzionati, come allievi enesidemei, Zeusippo, concittadino di
Enesidemo, e poi Zeusi, autore di alacroi Δισσοι λóγοι di
reminiscenza vetero-sofistica e forse medico empirico, e infine
Antioco di Laodicea, contemporaneo di quell’apollonide di nicea che,
ai tempi di tiberio, commentò I Silli di Timone (CFR. Goedeckemeyer,
Die Gesch. des griech. Skept., pp. 236 segg.), mentre nella lista
manca il nome di Agrippa, ha indotto a pensare che quest’ultimo non
abbia avuto molta voce nel capitolo enesidemeo e non sia stato mai
caposcuola (CFR., Unter-suchungen zu Cic. philos. Schriften, III, P.
131; Brochard, Les sceptiques grecs, pp. 300-1). sebbene agrippa non
abbia avuto buone occasioni per diventare celebre (l’accademia, pur
con qualche ultimo crepuscolo scettico suscitato da mnasea e da
filomelo, si avviava ad altri lidi, la scuola di enesidemo si andava
fondendo con l’indirizzo medico-empirico e quest’ultimo non poteva
avere, almeno ufficialmente, molta simpatia per uno scettico
«speculativo»), tuttavia non dovette mancare al misterioso maestro
un qualche seguito: difatti diogene laerzio (IX, 106) ci informa che
apelle gli intitolÒ un’opera in cui si sosteneva la validità dei
soli fenomeni. dopo enesidemo e fino a sesto empirico possiamo
ripetere col brochard (Les sceptiqttes grecs, P. 299) «la nuit est
complÈte» e ciÒ, Mentre frustra ogni nostro tentativo storicistico,
accresce su di noi il fascino di agrippa.
2. il rischio del primo tropo (la sioccpovioc) È lungamente
contemplato, anche se mai esplicitamente definito, in molti luoghi
dei Topici (II, 4, MB 24-31), ove si fa l’esempio del contrasto tra
nutrirsi ed accrescersi e tra sapere e ricordare; II, 10, 114b
25-36, ove si discute del contrasto tra sapere e pensare; IV, 2,
121b 24-122b 7, ove si discute del contrasto tra generi superiori e
inferiori e tra specie ed oggetti particolari; VI, 6, 145b 20-33,
ove si discute del contrasto tra ciò-che-è-ora-immortale e
ciò-che-è-incorruttibile; VII, 1, 152b 25-29, ove – sempre in linea
esemplificatoria – si prospetta la discor danza tra due soggetti e i
loro predicati (circa la funzione di queste esemplificazioni cfr. I.
During, Aristotle’s Use of examples in the Topics, «proceedings of
the third symp. aristot.», oxford, 1965, pp. 202-29). sul pericolo
del secondo tropo (il regres sus ad infinitum) È fondata grandissima
parte di tutto l’aristotelismo, mentre in sede strettamente logica
si fonda su di esso la necessità che ogni dimostrazione trovi un
punto di arresto (An. pr. I, 19-21) E che abbia un suo principio
(ivi, 22). il terzo tropo è particolarmente contemplato in Cat. 7,
in tutte le sue implicazioni con la prova circolare o della
determinazione reciproca. il quarto tropo (la ὑπóϑεσις) trova un
cenno in Metaph. V, 1, 1013a 16, b2o come «Premessa della
dimostrazione»; né bisogna identificare la concezione aristotelica
dell’assioma con quella dell’ipotesi, come ha fatto persino – e ne
aveva le sue ragioni! – lo Hegel. Il Bonitz (Index aristotelicus,
GRAZ, 19552, p. 796-7) avverte che in sede logica le ipotesi «eae
sunt propositiones, sive demonstratae sive non demonstratae [e gli
assiomi non sono mai dimostrati nÉ dimostrabili] quibus positis
aliquid demonstratur» e che nei sillogismi «nominis ὑπóϑεσις vim
aristoteles in angustiorem ambitum restringit». il bonitz dà,
quindi, la seguente definizione: «hypothetica dicitur demonstratio
quae non recta pergit a propositionibus ad id quod colligi debet,
sed quae ut efficiat quod vult, alia quaedam praeter ipsas
propositiones, ut sibi concedantur postulat». aristotele, insomma –
sia per un modo di indagine quasi pre-newtoniano che lo induceva a
pensare «hypotheses non fingo» sia per quel suo profondo senso delle
aporie che mai gli venne meno – solo in parte anticipava la
sillogistica ipotetica della sto a (CFR. j. Lukasiewicz, Aristotle’s
Syllogistic from the Standpoint of modern Formal Logic, in
particolare pp. 3, 10, 94, 98, 186), mentre, d’altro canto, ne
anticipava la critica scettica. Il quinto tropo (quello del δι’
ἀλλήλων δείϰνυσϑαι o del ϰύϰλῳ) viene definito (An. pr. II, 5, 57b
18-20) come consistente «nello sviluppare – mediante la conclusione
ed una delle due premesse, assunta nel rapporto di predicazione
inversa – la deduzione dell’altra premessa, che era stata assunta
nel sillogismo primitivo» (Aristotele, Organon, TRAD. COLLI, TORINO,
1955, P. 221). una implicazione di progressione all’Infinito, di
ipotesi e di circolarità si riscontra in An. pr. I, 3, ove
l’apodittica aristotelica trova per sÉ e per noi la sua croce e la
sua delizia. non credo che sesto abbia mai studiato – o forse anche
conosciuto – questi luoghi: li conosceva Agrippa? o forse, come è
più probabile, egli, al pari di Sesto, si limitava a conoscerne la
mediazione alquanto deviante – anche se geniale dal punto di vista
formalistico – fattane dagli stoici?
3. A questa duplicità accenna alquanto oscuramente lo Hirzel
(Untersuchungen zu Cic. phil. Schriften, III, P.131).
4. Lo Hegel (Lez. sulla St. della Fil. II, PP. 548-9), che non
sempre faceva camminare l’uomo con i piedi all’aria, parlando della
«semplicita»e del «puro scompiglio» dello scetticismo, osservava che
la fioritura di quest’ultimo si ha soprattutto nel mondo romano,
giacché «nell’estrinseca morta astrazione del principio romano (così
repubblicano come dispotico-imperiale) lo spirito doveva ritrarsi da
un’esistenza che non poteva offrirgli appagamento, e rifugiarsi
nell’intellettualità». con tutta la sua grandezza, che nessuno come
hegel ha messo in rilievo, «lo scetticismo è anch’esso una delle
manifestazioni della decadenza della filosofia e del mondo». ci
piace immaginare agrippa in questa solitudine, al pari, in fondo,
dell’imperiale stoico marco aurelio. il suo discorso filosofico, per
usare un’espressione dello hegel (ivi, P. 544) inoculava
«all’infinito la rogna per poterlo grattare».
5. Basterà passare in rassegna, nel prezioso indice di Karel Janáček
(Lipsiae, 1962), le voci διαφωνία, διάφωνoς e διαφωνῶ (pp. 70-1),
ἄπειρoς (p. 134),πρóςτι (pp.194-5),ύπóϑεσζ (p. 239) e διάλληλoς(p.
66) per rendersi conto della frequenza della tropologia speculativa
di enesidemo nell’empirico sesto.
6. Parafraso l’espressione di Claudio Tolomeo(Tetrab. I, 214), che
ad entrambi questi metodi di ricerca preferiva, nonostante ogni
incrostazione astrologica, il φυσιῶς σϰέπτεσϑαι, applicando in
chiave più marcatamente anti-empirica la distinzione aristotelica(De
gen. et corr. I, 2, 316a 11) «tra quelli che eseguono l’indagine su
basi fisiche e quelli che l’eseguono su basi astrattamente logiche».
7. Cfr. pyrrh. hyp. I, 177, ove si parla di un πoιϰιιώτερoν ἐλέγχειν
come fine del contributo arrecato da Enesidemo. in realtà non si
trattava affatto di introdurre maggiore varietà in una tropologia
che era già abbastanza rapsodica, e lo stesso empirico ne dà una
conferma nel riprodurre o nel far lui l’articolazione dei cinque
tropi in pyrrh. hyp. I, 170 segg. Il Dal Pra, che (Lo scetticismo
greco, p. 420) non esclude l’attribuzione allo stesso Agrippa della
suddetta articolazione, rileva giustamente l’intento sintetico e
deduttivo di questa tropologia(ivi, p. 424), parla di essa come di
un abbozzo sistematico «delle condizioni formali del dommatismo, in
termini non empirici, ma sistematici»(ivi, p. 425), la considera
come lo sforzo «forse il più rilevante ed efficace» compiuto
dallo scetticismo greco per articolare «in termini universali e
formali» la propria sfiducia (ivi, p. 426) e vede ormai nell’epocé
di Enesidemo e di Agrippa «il criterio di fondazione esplicita dello
scetticismo»(ivi, p. 428). questa ricca messe di rilievi fatti dal
nostro maggiore studioso dello scetticismo antico elimina il vecchio
errore del Ritter, che nella sua Storia della filosofia antica (Tomo
IV, p. 230 della trad, francese del Tissot) aveva parlato di
mancanza d’ordine e di metodo nell’esposizione dei tropi agrippei,
dà una dimostrazione del perché ci sia tra questi tropi quella
«sorte d’enchainement logique» di cui aveva parlato il Brochard (Les
sceptiques grecs, p. 301), ci fa capire anche quel rapporto tra i
cinque tropi di Agrippa e gli otto aitio-logici di Enesidemo cui
aveva accennato lo Hirzel (undersuch, zu Cic. phil. Schriften, III,
p. 130) e di – una buona volta – ragione, pur sensa farne il nome,
allo Hegel.
8. Allo Schulze, che contaminava con Kant l’autentico Enesidemo,
intendeva alludere il filosofo di Stoccarda quando scriveva: «oggi
si preferisce asserire e si parla di fatti di coscienza»(Lez. sulla
St. della Fil., II, p.535).
9. Ossia quelli posteriori ad Enesidemo: in particolare Agrippa
(cfr. DIOG. LAERT. IX,88-89)
10. In pyrrh. hyp. I, 135 segg.
11. Ad es. Protagora ed Epicuro.
12. Ad es. Democrito e Platone.
13. Ad es. peripatetici e stoici.
14. In modo più ampio e dettagliato il concetto di ipotesi è
discusso e smantellato da Sesto con intento anti-matematico in adv.
math. III, 6-17 ed a scopo anti-logico in adv. log. II,372-378.
15. L’argomentazione era stata ampiamente usata già da Aristotele
(Metaph. I, XIII, XIV passim) per demolire l’idealismo platonico.
16. Ossia quelli attribuiti ad Enesidemo ed esposti da Sesto in
pyrrh. hyp. I, 36 segg.
17. Da sottintendere, come soggetto, «gli Scettici più recenti»: lo
stesso Agrippa (SAISSET, Le scepticisme, p. 225) o, meglio, alcuni
suoi seguaci (Dal Pra, Lo scetticismo greco, pp. 427-8) o Menodoto
(Ritter e Zeller).
18. L’integrazione proposta dal Mutschmann è suggerita dalla
traduzione latina e da col. 80, 15. Bekker.
19. Come già aveva rilevato Enesidemo (cfr. Sext. Emp. adv. log. II,
40-54).
20. L’aggiunta è del Mutschmann in base alla traduzione latina.
21. Sulle aporie dell’apprendimento Sesto insiste in Pyrrh. hyp.
III, 252 segg., in Adv. math. I, 9 segg. e in Adv. eth.224 segg.
22. In pyrrh. hyp. II, 96 segg. e in Adv. log. II, 141 segg.
23. Questa precisazione ci induce a credere ad un proposito sestiano
di dare ulteriori sviluppi alla tropologia. Ma, mentre nelle opere
ulteriori gli altri temi vengono ampiamente sviluppati nei contenuti
e nella forma, la tropologia, pur riccamente applicata. non viene
più trattata ex professo.
FAVORINO
Nel suo aspetto più rigorosamente speculativo lo Scetticismo non
poteva aver facile accesso tra le persone di media cultura, le quali
erano attratte, invece, dall’Epicureismo e dallo Stoicismo, donde
potevano attingere, anche se in maniera mitizzante, una certa fede,
una qualche ragione per vivere e un insieme di precetti per dare un
qualche assestamento ai propri pensieri. Tuttavia secoli di
meditazione scettica non potevano non avere le loro ripercussioni
anche nella ricca e variopinta repubblica letteraria
ellenistico-romana; e se è vero – come avrebbe detto Lutero – che
Spiritus Sanctus non est scepticus1, è anche vero che uno scettico
disincantato serpeggia di frequente nella vox populi e in quei
fenomeni letterari che la riflettono in raffinate maniere e con
linguistiche squisitezze.
A favore della diffusione dello Scetticismo militavano un certo
«illuminismo» inteso a canzonare gli «errori popolari degli
antichi», la splendida forma letteraria con cui gli Scettici –
specialmente quelli di provenienza accademica – adornavano le loro
argomentazioni, la trattazione acutamente problematica di cose della
vita e della cultura ordinaria (quali l’esistenza e l’essenza degli
dei, la loro influenza o meno sulle umane opinioni, il significato
delle leggi e della giustizia e il valore delle costumanze, il
dilemma del destino e della libertà); a tutto ciò si aggiunge quella
«coscienza abietta» da nipote di Rameau che, per dirla con lo Hegel,
è sempre pronta a demitizzare ogni ideale senza saper costruire
nulla di positivo.
L’apparenza di questa cultura – soprattutto di carattere
retorico-letterario – era quella dell’eclettismo, come si evince dai
dibattiti accademici dell’età ciceroniana; ma proprio l’eclettismo,
nella sua illusione di saper cogliere il meglio dei vari indirizzi
filosofici, finiva col neutralizzarli tutti. Del resto, ancora ai
nostri giorni, quale uomo comune non crede di saperla lunga e non
sorride, beato della sua dotta ignoranza, di fronte alla ridda
lucianea dei filosofi all’incanto e alla filastrocca delle loro
contraddittorie opinioni?2
La prova più illustre di questo stato d’animo retorico-letterario è,
nel suo insieme, la ricca produzione «filosofica» di Cicerone, il
cui eclettismo s’identifica spesso con una scepsi camuffata, quando
la grazia letteraria prende il sopravvento su quella filosofica. E i
Romani, che erano propensi a philosophari sed paucis ed a condire di
aceto satirico la loro ripulsa nei riguardi della pura teoresi,
conservarono questo loro atteggiamento anche nell’età imperiale, da
quando l’epicureizzante Mecenate dovette assecondare la politica
religiosa del suo princeps e Orazio, scapolo impenitente, ebbe a
scrivere il Carmen saeculare in appoggio alle leggi demografiche
augustee, fino a quando, dopo lunghe perplessità, Diocleziano prese
la tremenda risoluzione dello sterminio totale del Cristianesimo. In
sostanza la scepsi si aggirava per i palazzi imperiali e per le
splendide ville dei dominatori del mondo e un loro emblematico
procuratore chiedeva quasi distrattamente al povero Re dei Giudei:
«Quid est veritas?».
In questo cosmo culturale, nel quale le molteplici fedi religiose e
filosofiche si accavallavano fino al punto da dissolversi tutte, va
anche spiegata la seducente personalità di Favorino di Arelate (80
circa-160 circa d. C.)3. Il suo ermafroditismo non solo sessuale ma
anche intellettuale, la sua sottilissima sensibilità e la varietà
dei suoi interessi culturali, avvolti da un brillante e ricercato
atticismo, riflettevano tutto ciò che lo Scetticismo poteva
suggerire ad uno spirito ricco e versatile e, nello stesso tempo,
povero e infecondo. Amico del grande Plutarco4, che con maggiore
vigore di lui meditò su questioni di alta filosofìa pure senza
essere un vero e proprio filosofo, Favorino rimase sostanzialmente
un «sofista» secondo il significato che la cultura del tempo
conferiva a questo antico termine, e la maggior parte delle sue
erudite e graziose disquisizioni in ogni campo dello scibile erano,
in definitiva, λóγοι φιλoσoύµενoι alla maniera di quelle del suo
maestro Dione di Prusa5.
Una buona decina di opere favoriniane6 toccava da vicino questioni
filosofiche molto dibattute dagli Scettici, suscitando consensi e
dissensi anche presso persone fornite di più autentica mentalità
filosofica e scientifica che, forse, lo prendevano fin troppo sul
serio anche quando miravano a stroncarlo7. Queste opere
«filosofiche» dovettero suscitare lo stesso effetto di quelle sue
brillanti conferenze che gli procurarono strepitosi successi e gravi
infortuni nella ϰοινή ellenistico-romana. Egli si sentiva seguace
della scuola di Platone, del quale, forse, da convinto atticista,
credeva persino di imitare la voce soave come «concento di gigli»8
con la propria voce stridula, e cercava di attenuare le differenze
che intercorrevano tra l’Accademia e quel Pirronismo che Enesidemo
aveva rinvigorito9. Ma, nel suo profondo, Favorino non era ne un
pirroniano ne un accademico, bensì un brillante erudito mosso da
continua curiosità. La meraviglia, che Aristotele aveva considerata
come lo stimolo di ogni ricerca filosofica, invece di diventare
impegno indagativo, si attenuava in omnigena historia10, secondo il
titolo della sua opera più celebre, e lo induceva ora ad esaltare il
profondo significato della preghiera11, ora, invece, a negare
persino l’esistenza del sole.
In definitiva, quello che Sesto Empirico avrebbe, dopo alcuni
decenni, chiamato «costume scettico»12 si manifestava in Favorino
come «moda scettica», o forse sarebbe più esatto dire che quella
maniera scetticheggiante, contrassegno di buona parte della
tramontante civiltà classica, trovò la sua più vivace espressione in
questo brillante «philosophe» celta tutto permeato di ellenismo in
una cornice romana che potremmo definire precorritrice del tardo
impero.
Delle numerose testimonianze favoriniane, esemplarmente raccolte dal
Barigazzi, riportiamo la conferenza Contro i Caldei, tramandataci da
Aulo Gellio13, che fu costante ammiratore del sofista di Arélate e
ne compose una preziosa messe di ricordi. Questo λóγος
φιλοσοφούµενος di Favorino si inserisce nella ricca trattatistica
scettica che va da Cameade al pamphlet di Sesto Empirico Contro gli
Astrologi14.
Contro i Caldei (AULO GELLIO, XIV, I = fr. 3 Barigazzi)
Contro quelli che si vanno chiamando «Caldei» e «Genetliaci» e che
professano di poter predire il futuro in base al movimento e alla
posizione delle stelle, ho ascoltato direttamente una volta, a Roma,
una conferenza del filosofo Favorino in lingua greca e in uno stile
ammirevole e brillante15. Non sarei in grado, però, di dire se egli
la pronunciò per tenere in esercizio il suo ingegno – e non certo
per esibizionismo – oppure perché egli la pensasse così per davvero
e in seguito a meditato giudizio. Appena uscito dall’audizione ho
preso subito nota, per quel che potevo ricordare, dei punti
principali dei temi e degli argomenti da lui addotti: essi avevano,
presso a poco, il seguente tenore.
Codesta «dottrina» dei Caldei non ha un passato tanto remoto quanto
essi pretendono di far apparire, e i loro fondatori e propugnatori
non sono affatto quelli che essi tramandano, ma questa sorta di
trucchi e di mariolerie fu ideata da scrocconi e da gente che
tentava di guadagnarsi da vivere con le proprie menzogne. E costoro,
vedendo che certi fenomeni terrestri e ben noti agli uomini si
producono per influsso e per spinta dei corpi celesti (come, ad
esempio, il fatto che l’oceano, come se fosse in società con la
luna, si rattrappisce e rinvigorisce insieme con essa), proprio di
qui, ovviamente, presero lo spunto per indurci a credere che tutte
le umane faccende – piccole o grandissime che siano –, quasi legate
agli astri e alle costellazioni, ne siano guidate e sorrette. Ma, a
dir poco, è sciocco ed assurdo credere che, siccome la marea
dell’oceano si svolge in corrispondenza col corso della luna, anche
la vertenza giudiziaria che uno ha, per caso, con i vicini per una
conduttura d’acqua o con i coinquilini per una parete in comune
abbia le sue redini nel cielo e venga governata da questo. E ciò,
secondo Favorino, quantunque possa pure accadere mercé una potenza e
una ragione divina, non potrebbe essere compreso e percepito da
un’umana intelligenza, per quanto grande questa sia, nella così
breve e angusta durata della nostra vita. Soltanto poche cose,
comunque, vengono congetturate, per usare la sua stessa espressione,
παχυμερέστερον (vale a dire grosso modo) senza alcun fondamento
scientifico, ma in maniera confusa, vaga e arbitraria, come vede da
lontano la pupilla dei nostri occhi offuscati dalla distanza che
intercorre tra loro e gli oggetti: verrebbe, infatti, eliminata la
principale differenza che sussiste tra gli dei e gli uomini, se
questi ultimi avessero la prescienza di tutte le cose future.
Del resto, la stessa osservazione degli astri e delle costellazioni,
che costoro vanno dicendo essere il fondamento della loro «scienza»,
secondo Favorino non poggia su alcuna certezza. Infatti – egli
soggiungeva – se i primi Caldei, che abitavano in aperta campagna,
guardando i movimenti e le orbite, le separazioni e le congiunzioni
delle stelle, si limitarono ad osservarne gli effetti, questa loro
«dottrina» potrebbe pure passare, ma esclusivamente sotto
quell’inclinazione del cielo sotto la quale allora i Caldei vennero
a trovarsi: difatti è impossibile – egli proseguiva – che il metodo
osservativo dei Caldei permanga valido, qualora lo si voglia usare
sotto regioni celesti diverse. Chi è che non vede infatti – egli
annotava -la grande varietà delle zone e dei cerchi celesti dovuta
all’inclinazione e alla convessità della terra? Pertanto le medesime
stelle, ad opera delle quali essi sostengono riscontrarsi tutti gli
accadimenti divini ed umani, come non causano dappertutto geli e
calure, ma mutano e variano e provocano nel medesimo tempo serenità
in un luogo e violente burrasche in un altro, così dovrebbero
produrre una sorta di avvenimenti e di affari tra i Caldei, un’altra
tra i Getuli, un’altra presso il Danubio e un’altra presso il
Nilo. È, infatti, un’incongruenza ritenere che, mentre persino la
massa e la condizione della vastissima atmosfera non rimangono
identiche a seconda che si trovino sotto una o sotto un’altra
inclinazione del cielo, negli umani affari, invece, codeste stelle
diano sempre la stessa indicazione da qualsivoglia punto della terra
esse vengano osservate.
Oltre a ciò, Favorino si mostrava stupito del fatto che qualcuno
ritenesse acclarato con certezza che quegli astri, i quali, secondo
la tradizione, furono osservati da Caldei e da Babilonesi o da
Egiziani e che molti chiamano «erranti» e Nigidio «vagabondi»16, non
siano in numero maggiore di quel che comunemente si dice: egli,
infatti, non escludeva la possibilità del’esistenza anche di altri
pianeti altrettanto influenti senza i quali non si potrebbe
completare un’osservazione esatta ed ognora valida: pianeti che,
comunque, gli uomini non riuscirebbero a distinguere a causa
dell’eccesso del loro splendore e della loro distanza. Del resto,
alcuni astri – egli soggiungeva -sono visibili da certe determinate
zone terrestri e sono noti agli abitanti di quelle zone, ma non
vengono visti da nessun’altra parte della terra e agli altri uomini
sono completamente sconosciuti.
Ma17 pur ammettendo – egli proseguiva – che si dovrebbero
esclusivamente osservare questi nostri astri e solamente da una
parte della terra, quale fu, in fin dei conti, il termine di questa
osservazione e quali periodi di tempo son sembrati sufficienti per
rendersi conto delle preindicazioni offerte dalle congiunzioni o
dalle orbite o dalle traslazioni degli astri? Infatti, se si è dato
inizio ad un’osservazione in modo tale da calcolare in quale stato e
in qual forma e in quale posizione delle stelle è avvenuta la morte
di qualcuno, e se, in un secondo momento, si fossero annotati la sua
fortuna fin dall’inizio della vita, il comportamento di costui, il
suo ingegno e le circostanze delle sue attività e dei suoi affari e,
alla fine, anche il termine della sua vita, e se tutte queste cose
venissero trascritte nel modo in cui sono realmente avvenute, e se
si ritenesse che, dopo un lungo lasso di tempo, quando i medesimi
astri venissero a trovarsi nello stesso luogo e nello stesso stato,
le medesime cose accadranno a quelli che saranno nati in quel
medesimo tempo, se insomma – egli soggiungeva – l’osservazione ha
avuto inizio in siffatto modo, e con siffatto metodo
osservativo si è formata una sorta di «scienza», tutto ciò non può
in nessun modo andare avanti. Ci dicano, infatti, entro quanti anni
o, piuttosto, entro quanti secoli, alla fine, codesto ciclo di
osservazioni potrebbe essere completato. Ché anzi – affermava
Favorino – gli astrologi sono d’accordo nel ritenere che quegli
astri che essi chiamano «erranti» e che sembrano determinare il
destino di tutte le cose, ritornano al loro punto di partenza tutti
quanti insieme e col medesimo corso solo dopo una serie infinita ed
innumerevole di anni, di guisa che, in un evo così lungo, non
potrebbero permettere alcuna continuità di osservazione e alcuna
traccia di memoria letteraria. Ed egli pensava18 che si deve
prendere in considerazione anche questo: che, cioè, altro sarà lo
schieramento delle stelle nel primo istante in cui l’uomo viene
concepito nel ventre materno e altro in appresso, allorché egli vien
dato alla luce dieci mesi dopo, e chiedeva come mai si potrebbe
coerentemente effettuare una dimostrazione diversa circa la medesima
persona, dal momento che, come gli stessi astrologi reputano, la
posizione e il corso sempre diversi delle medesime stelle assegnano
sorti che sono tra loro diverse. Ma anche dal tempo delle nozze,
cioè sin da quando comincia l’attesa della prole, e persino
durante l’unione del maschio con la femmina, secondo Favorino, si
dovrebbe indicare con chiarezza, in base ad uno stabile e necessario
ordine delle stelle, quale sorta di uomini e con quale fortuna viene
generata; anzi, ancor molto prima, alla nascita stessa del padre e
della madre, in base al loro oroscopo, si sarebbe dovuto fin da
allora prevedere quali sarebbero stati i figli che essi avrebbero
generato, e così via risalendo all’infinito. Di conseguenza, se
codesta dottrina poggia su un qualche fondamento di verità, cento
secoli fa o, meglio, al primo inizio del cielo e della terra e di lì
in poi, attraverso una serie ininterrotta di indicazioni di
generazione in generazione, codesti astri avrebbero dovuto mostrare
già prima quale carattere e quale sorte abbia avuto chiunque
nascesse ai nostri giorni.
Come mai, inoltre, si potrebbe credere – proseguiva Favorino – che
la sorte e la fortuna predette dalla forma e dalla posizione di
ciascuna stella siano destinate con certezza ad un solo individuo
particolare e che la medesima posizione astrale venga ricomposta
dopo una lunghissima serie di secoli, dal momento che gli indizi
della vita e dei beni di fortuna di un medesimo uomo, in così breve
scorcio di tempo, durante i singoli gradi dei suoi antenati e
l’infinita serie delle successioni, presentano così spesso e con
tanta frequenza la stessa identità senza che sia identica la
posizione delle stelle? Chè, se ciò è possibile e se si ammettono
questa contraddizione e questa variazione attraverso tutte le epoche
dell’antichità nell’indicare l’origine di quegli uomini che
nasceranno in appresso, questa incongruenza sconvolge
l’osservazione, e tutto il metodo della «scienza» viene a
confondersi.
Ma Favorino riteneva come la cosa più insopportabile di tutte la
credenza che siano mossi e influenzati dall’alto del cielo non solo
i casi e gli accadimenti di ordine esteriore, ma anche gli stessi
divisamenti degli uomini, le loro decisioni e le loro varie
volizioni, appetizioni e recusazioni, le casuali e repentine
attrazioni e repulsioni del loro animo persino nelle cose più
banali. Così, ad esempio, il fatto che, putacaso, tu vuoi andare
alle terme e poi non ci vuoi andare e poi, di nuovo, ci vuoi andare,
sarebbe dovuto non ad un’incerta e mutevole agitazione dell’anima,
bensì ad una necessaria congiuntura degli astri erranti: dal che
consegue ovviamente che gli uomini non risultano essere, come si
dice, λογιϰὰ ζῷα – ossia animali ragionevoli -, ma zimbelli e
ridicole marionette, dal momento che non fanno nulla di loro
volontà, di loro deliberazione, ma sotto la guida di stelle
cocchiere.
E se gli astrologi affermano – continuava Favorino – che si sarebbe
potuto predire se avrebbe vinto in battaglia il re Pirro oppure
Manio Curio, perché una buona volta, a proposito dei dadi o delle
pietruzze o del tavoliere, non osano dire quale dei giocatori
vincerà la partita?19 O forse essi conoscono le grandi cose e
ignorano le piccole, e queste ultime sono più difficili a capirsi
delle grandi? Ma, se essi si arrogano la conoscenza delle
grandi cose e affermano che queste sono più chiare e più
comprensibili, allora io vorrei – egli soggiungeva – che mi
rispondessero che cosa mai, in questa veduta d’assieme dell’intero
universo, dinanzi a così potenti opere della natura, essi stimino
grande negli affari e nelle fortune umane che pur sono tanto piccoli
ed effimeri. E vorrei che mi rispondessero anche su quest’altra
cosa – egli diceva –: se è così piccolo e rapido l’istante in cui
l’uomo, in sul nascere, riceve il suo destino, di guisa che in
quello stesso momento più persone non possono nascere insieme nel
medesimo cerchio del cielo sotto la stessa congiunzione, e se,
appunto per questo, anche due gemelli non hanno lo stesso destino
della vita, non essendo nati nel medesimo istante, io chiedo – egli
insisteva – che mi rispondano come mai e con quale accorgimento quel
corso del tempo trasvolante che a stento può essere afferrato dal
pensiero essi riescono a raggiungerlo di proposito e ad investigarlo
e a trattenerlo, mentre pur affermano che, in così vertiginoso
susseguirsi di giorni e di notti, i più brevi attimi producono i
massimi mutamenti.
Alla fine20, poi, Favorino chiedeva quale risposta si
potesse dare contro la seguente argomentazione: che, cioè,
individui di entrambi i sessi, di ogni età, venuti alla luce sotto
movimenti astrali differenti, pur essendo tra loro molto distanti le
regioni in cui nacquero, tuttavia tutti quanti sono periti insieme
con il medesimo genere di morte a causa o di un terremoto o del
crollo delle case o di espugnazioni di città oppure perché travolti
dai flutti sulla medesima nave. Il che ovviamente – egli
osservava – non accadrebbe mai, se gli istanti della nascita
assegnati ai singoli individui avessero ciascuno peculiari
regolamenti. Che, se essi rispondono – continuava Favorino –
che nella vita e nella morte di uomini nati in tempi differenti
possono pure accadere certi eventi che sono pari o almeno simili tra
loro a causa di certe future congiunzioni astrali, allora perché non
si potrebbero presentare, di tanto in tanto, alla nostra esperienza
anche cose uguali tra loro, di guisa che, mercé questi concorsi e
queste somiglianze astrali, verrebbero ad esistere insieme molti
Socrati e Antisteni e Platoni uguali tra loro per genere, per forma,
per ingegno, per comportamento, per tutto il corso della loro vita e
per la loro morte? Il che – egli concludeva – non può accadere
assolutamente. Epperò gli astrologi non possono sfruttare in modo
corretto quest’argomento contro le nascite diverse e le morti uguali
degli uomini.
Diceva, poi, di esimerli dal rispondere anche a questa seguente sua
istanza21: ossia, se il tempo e il modo e la causa della vita e
della morte degli uomini e di tutte le umane cose fossero riposti
nel cielo e presso le stelle, che cosa essi direbbero delle mosche e
dei vermiciattoli e dei ricci di mare e di molti altri animaletti
terrestri e marini? Nascerebbero, forse, anche questi sotto le
stesse leggi degli uomini e perirebbero parimenti sotto le stesse?
Ne conseguirebbe allora che o anche per i ranocchi e le zanzare i
destini della nascita dipendono dai movimenti dei corpi celesti
oppure, se i Caldei non la pensano così, non parrebbe esserci alcun
motivo per cui quel potere degli astri fosse valido in relazione a
tutte le altre cose.
Tutte queste argomentazioni di Favorino io ho riprodotte di scorcio
in uno stile asciutto e disadorno e quasi digiuno. Ma egli, in modo
conforme al suo talento e alla ricchezza ed eleganza dell’eloquenza
greca, le prospettava con maggiore ampiezza, piacevolezza, brio e
copiosità, e di tanto in tanto ci avvertiva di stare attenti che
codesti sicofanti non si insinuassero a riscuotere il nostro credito
in base al fatto che talvolta pare che essi buttino fuori a casaccio
e diffondano talune verità. Infatti – egli soggiunse – essi non
dicono nulla che sia afferrabile, determinato e percepibile, ma,
poggiando su labili e ambigue congetture, vanno brancolando passo
passo tra il vero e il falso come attraverso le tenebre22 e, allora,
o a furia di molti tentativi vanno ad imbattersi, all’improvviso,
senza saperlo, nella verità oppure si fanno guidare dalla grande
credulità di quelli stessi che li consultano, e con astuzia arrivano
a quelle cose che sono vere e per questo motivo sembra che essi si
accostino alla verità più facilmente in relazione ai fatti del
passato che a quelli del futuro. Comunque tutto ciò che essi o alla
cieca o con astuzia dicono in modo conforme al vero – diceva
Favorino – non è neppure la millesima parte di tutte le altre loro
menzogne …
Lo stesso Favorino, con l’intento di sviare e allontanare i
giovani da codesti «genetliaci» e da altra gente siffatta, che
promette di rivelare il futuro tutto per mezzo di arti prodigiose,
giungeva, con le seguenti argomentazioni, alla conclusione che in
nessun modo ci si deve recare da costoro a consultarli: «Essi
predicono eventi che saranno o avversi o prosperi. Se predicono
prosperità e sbagliano, tu sarai infelice per la tua vana speranza.
Se predicono avversità e mentono, tu sarai infelice per il vano
timore. Se, invece, essi danno responsi veraci e se questi non sono
prosperi, già da quel momento tu sarai infelice per il sentimento
del tuo animo prima di esserlo a cagione del fato. Se promettono
eventi felici e questi si verificheranno, allora gli svantaggi
saranno certamente raddoppiati: infatti l’attesa del futuro ti
stancherà col tenerti sospeso alla speranza, e la speranza stessa
avrà fatto sfiorire anzitempo il godimento della futura gioia.
Epperò in nessun caso si deve far ricorso a codesti individui che
vanno presagendo il futuro».
1. L’espressione usata dal riformatore tedesco nel De servo arbitrio
per colpire Erasmo, che al pari dello scettico Carneade difendeva il
libero arbitrio, è ricordata anche dal Long (Hellenistic Philosophy,
p. 244).
2. Il brillante dialogo di Luciano Vitarum audio, quantunque neppure
lo schiavo Pirria, rappresentante del Pirronismo, vi faccia una
bella figura, è quasi la descrizione satirica del tropo della
διαφωνία.
3. Entro questi termini è fissata l’esistenza di Favorino dal
Barigazzi (FAVORINO DI ARELATE, Opere, pp. 10-1).
4. Nei suoi più importanti scritti filosofici Plutarco si rifece di
frequente alla scepsi accademica. Parecchie argomentazioni
anti-stoiche di De Stoicorum repugnantiis, De communibus notitiis
adversus Stoicos, Stoicos absurdiora poetis dicere e anti-epicuree
di Adversus Coloten, Contra Epicuri beatitudinem e De latenter
vivendo ripropongono quei temi che Arcesilao e Cameade avevano
trattato contro Zenone, Crisippo, Antipatro, Epicuro e altri
pensatori del Portico e del Giardino. Plutarco, però, non si appagò
di leggere solo le fonti accademiche (soprattutto il prolifico
Clitômaco), ma conobbe direttamente gli autori che egli criticò
attenendosi alla metodologia accademica, come ha precisato lo
Ziegler (Plutarch, in «RE», XXI, 1 (1951) coll. 636-692, trad, it.,
Brescia, 1965, soprattutto pp. 145-61). E fu proprio il bicipite
corso dell’Accademia ad indicargli due vie da percorrere: quella del
dommatismo di fronte alle verità fondamentali di ordine
etico-religioso e quella dell’ἐπoχή di fronte alla massima parte di
altri grandi o piccoli problemi, come fu già rilevato dallo
Schroeder nel suo Plutarchs Stellung zur Skepsis e come èstato
riconfermato dallo ziegler (op. cit., p.362). Ma anche in questi
problemi di vario ordine egli si accostò agli Stoici più di quanto
sipossa credere, persino nella difesa dell’astrologia e del suicidio
ragionevole, mentre, come accadeva anche a Favorino, l’amore della
conoscenza lo induceva a nutrire il più vivo interesse per la scuola
peripatetica. In definitiva lo Scetticismo fu una delle tante
componenti culturali della «filosofia» di Plutarco, ma non l’unica
né la principale, e parecchi scritti filosofici del pensatore di
Cheronea hanno notevole importanza dossografica, ma non possono
avere un loro posto a parte in una raccolta scettica. Plutarco
dedicò all’amico Favorino la sua indagine fisica De primo frigido
(cfr. ZIEGLER, op. cit., p. 261-2) e, secondo il catalogo di Lampria
(n. 131), gli indirizzò un’epistolasull’amicizia (cfr. ZIEGLER, op.
cit., pp. 54-5).
5. Il Reardon (Courants littéraires grecs des IIe et IIIe siècles
après J. C., in particolare pp. 38-9, 205-6) sostiene che è già
troppo se Favorino, con tutta la ricca produzione filosofica che di
lui ci è stata tramandata, venga inserito tra gli Halbphilosophen;
lo Zeller (Die Philos, der Griech., III, 2, pp. 76-81) e il
Goedeckemeyer (Die Gesch. des griech. Skept., pp. 248-57) gli
assegnavano un posto molto secondario di mediatore nella storia
dell’Accademia e dello Scetticismo. Ma proprio questa sua mediazione
non dovette sembrare molto degna di rilievo, dal momento che Diogene
Laerzio non lo citava tra i successori di Timone (cfr. HIRZEL,
Untersuchungen zu Cie. phil. Schriften, III, pp. 132 segg.). Circa i
limiti di questa mediazione, sostenuta anche dal Burkhard (Die ang.
Heraklit-Nachfolge des skept. Aenes., pp. 19 segg.) e già rilevata
dallo Zeller, che propendeva per il Pirronismo di Favorino, dallo
Haas e dal Brochard (Les sceptiques grecs, pp. 327-30), che
propendevano per il suo Accademismo, rinviamo all’ottimo profilo di
Favorino filosofo tracciato dal Barigazzi (op. cit., pp. 21-6).
6. Tra gli scritti «filosofici» di Favorino ricordiamo De Socrate
eiusque arte amatoria, De Platone, De ideis (che forse si inserivano
nella rinascita delle indagini dirette sui dialoghi platonici, come
è provato, tra l’altro, dal De animae procreatione in Timeo di
Plutarco), Pyrrhoneorum iroporum libri decem, Plstarchus sive de
Academiae natura, De comprehensione directa (in tre libri, ove si
riprendeva l’antica polemica contro la dottrina stoica della
rappresentazione), Adversus Epictetum (in forma dialogica e dove,
come ci attesta Galeno in De opt. gen. doc, I, figurava come
personaggio Onesimo, un servo di Plutarco, e forse lo stesso autore,
come suggeriva lo Hirzel in Der Dialog, II, p. 123), Alcibiades (in
cui, tra l’altro, si sosteneva che neppure il sole è percepibile,
cosa che faceva scoppiare Galeno), Commentarii o Memorabilia (che
accanto alla Omnigena historia furono tra le fonti di Diogene
Laerzio per la ricca varietà delle notizie sui filosofi dei più
svariati indirizzi).
7. Ci riferiamo soprattutto al Galeno del De optimo genere docendi,
il cui testo è stato studiato, riprodotto e tradotto per intero dal
Barigazzi (op. cit., pp. 175-90 e Sul de opt. gen. doc., «Studi
italiani di filol. class.», XXVII-XXVIII, 1956, pp. 23-38) e dello
scritto perduto Pro Epicteto contra Favorinum (ricordato da Galeno
stesso in De libr. propr., II). Questi trattatelli furono quasi
certamente pamphlets giovanili del grande medico-filosofo.
8. Secondo l’espressione timoniana riportatain DIOG. LAERT. III, 7 =
fr. 7 Wach. = 30 Diels. Luciano (Eunuch. 7 e Demon. 12) insisteva
con cattiveria sulle anomalie fisiche del retore, che venivano
ricordate anche da Filostrato (Vitae soph. I, 8).
9. Aulo Gellio (XI, 5, 1-8), quasi certamente rifacendosi all’opera
favo-riniana sui dieci tropi pirroniani (cfr. L. MERCKLIN, Die
Citiermethode und Quellenbesetzung des A. Gellius in den N. A.,
«Fleck Jahrb.», Suppl. III, 1860, p. 676; L. RUSKE, De A. Gellii N.
A. fontibus quaestiones selectae, Diss. Vratislavae, 1883, p. 55;
BARIGAZZI, op. cit., pp. 173-4), ci dà questa testimonianza del
tentativo favoriniano di mediare i due indirizzi: «Quelli che noi
chiamiamo filosofi “pirroniani” sono appellati σϰεπτιϰοί con termine
greco; il che significa suppergiù “ricercatori” (quaesitores) ed
“osservatori” (considera-tores) [il termine greco sarebbe, qui,
παρατητιϰoί, cfr. METTE, Parateresis, passim]. Essi, infatti, non
prendono alcuna determinazione e nulla stabiliscono, ma sono sempre
nella fase della ricerca e dell’osservazione nel chiedersi che cosa
mai, tra tutte, sia possibile distinguere e stabilire. Ed essi sono
del parere che non vedono né ascoltano con chiarezza cosa alcuna, ma
che sono soggetti a passioni e ad affezioni nella stessa guisa di
“come se” vedessero ed udissero, ma dubitano anche sulla natura e
sui modi di quelle stesse cose che producono in loro codeste
affezioni, e rimangono sospesi in merito ad esse, e sostengono che
la certezza e la verità di tutte le cose, poiché i segni del vero e
del falso sono mescolati e confusi, sembrano così incomprensibili
che ogni uomo, il quale non sia frettoloso e prodigo del proprio
giudizio, dovrebbe fare uso delle seguenti parole di cui si tramanda
facesse uso Pirrone, fondatore di codesta filosofia: “questa
faccenda sta non più in questo modo che in quello o, meglio, essa
non sta in nessuno dei due Essi dicono che è impossibile conoscere e
percepire i segni (indicia) e le autentiche proprietà di ciascuna
cosa e si sforzano di insegnarlo e di mostrarlo in molti modi. Su
questo argomento anche Favorino ha composto, con molta sottigliezza
ed argutezza, dieci libri, da lui intitolati Tropi pirroniani. C’è
poi una questione vecchia e già trattata da molti scrittori greci,
se, cioè, intercorra una qualche differenza e quanto grande questa
sia tra i filosofi pirroniani e quelli dell’Accademia. Tanto gli uni
quanto gli altri, infatti, son chiamati “scettici”, “efettici”,
“interdizionisti” [ἀπoρρητιϰοί in Barigazzi ma in Marres e in Rolfe
ἀπoρητιϰοί (= suscitatori di dubbio) in conformità con SEXT. EMP.
Pyrrh. hyp. I, 7], poiché vuoi gli uni vuoi gli altri nulla
affermano e credono che nulla venga compreso. Essi dicono, però, che
da tutte le cose vengano prodotte, in un certo qual modo,
rappresentazioni (visa) che essi chiamano φαντασίας, non in
conformità con la natura stessa della cosa, ma secondo l’affezione
dell’anima o del corpo di coloro presso cui quelle rappresentazioni
pervengono. Pertanto essi dicono che, in generale, tutte le cose che
mettono in moto i sensi degli uomini fanno parte dei “relativi” [τῶν
πρóς τι]. Questo termine sta a significare che non esiste alcuna
cosa che abbia una sua propria consistenza o che abbia un proprio
potere o una propria natura, ma che tutte si riferiscono certamente
a qualche altra e sembrano tali quale è il loro aspetto esteriore
nel momento in cui appaiono e quali vengono prodotte presso i nostri
sensi, ove esse sono pervenute, non presso sé stesse, donde si sono
dipardte. Benché, però, queste cose le dicano in maniera simile
tanto i Pirroniani quanto gli Accademici, tuttavia si è reputato che
costoro differiscano tra di loro sia per certi altri motivi sia
soprattutto perché gli Accademici comprendono almeno quello stesso
non-poter-comprendere e quasi determinano quel
non-poter-determinare, mentre i Pirroniani dicono che non sembra
afratto in alcun modo vero neppure quello stesso
fatto-che-niente-sembra-essere-vero». Da rilevare che la
testimonianza di Gellio coincide grosso modo con la celebre
distinzione fatta da Sesto nell’ouverture degli Schizzi.
10. Non è da escludere che il titolo e i contenuti della più famosa
opera di Favorino abbiano una qualche affinità con quella ἱστορία
che costituiva, come presto vedremo, uno dei capisaldi della
metodologia medico-empirica, e forse anche per questo motivo Galeno,
che da poco si era staccato dai propri maestri empirici, aguzzava le
armi pretendendo dal povero Favorino una impossibile coerenza
filosofica specialmente dopo le accentuazioni scettico-radicali che
forse caratterizzarono l’ultima fase della superficiale Entwicklung
dell’Arelatese.
11. Nel De prece, che forse fu un λóγoς φιλοσοφούμενος di Favorino
analogo a quello dallo stesso titolo di Massimo di Tiro (fr. 5
Hobein), l’autore si rifaceva a Platone (Legg. 687e, Euthyphr. 14e,
Phaedr. 279 Alcib. II, 148a segg.) che aveva riservato al solo
filosofo la possibilità di pregare (cfr. BARIGAZZI, op. cit., pp.
152-3, anche per i riferimenti all’analogo pensiero di Plutarco).
12. Adv. log. I, 443; II, 159-161; Adv. phys. I, 219, 311, II, 6.
13. Mi sono attenuto al testo riportato dal nostro studioso come fr.
3 (pp. 142-8) ed ho anche tenuto conto del testo e della traduzione
inglese di J. C. Rolfe (The Attic Nights of A. G., London-Cambridge
Mass., 1961).
14. Le ragioni di questa secolare insistenza dei filosofi contro
l’astrologia sono brillantemente precisate da Franz Cumont (Le
religioni orientali nel paganesimo romano, Bari, 1967, pp. 191
segg.). Lo stizzoso Giovenale con molta efficacia colpiva così una
matrona: «Si prurit frictus ocelli angulas, inspecta genesi collyria
poscit»; ma per i filosofi, in realtà, non si trattava solo di
colpire un andazzo generale di imperatori, di pensatori e di vario
volgo, bensì di difendere l’uomo dal determinismo che era
patrocinato, fra l’altro, anche da questa «sorella bastarda della
scienza», come il Frazer ebbe a definire l’astrologia al pari della
magia.
15. Le argomentazioni di Favorino, che spesso ricordano quelle di
Cicerone (De divin. ii, passim), si ispirano anche ad altre fonti
che probabilmente furono in parte accademiche (Clitômaco), in parte
stoiche (Panezio). Per le numerose coincidenze con analoghe
argomentazioni di Filone di Alessandria, di Sesto Empirico e di
Plutarco cfr. BARIGAZZI, op. cit., p. 147.
16. L’inciso, che a parere del Barigazzi è di Gellio, si ispira con
molta probabilità a VARR. De imag. II, 10.
17. I §§ 14-18 presentano notevoli affinità con CIC. De divin. II,
XLVI, 97 e con SEXT. EMP. Adv. math. V, 105.
18. Per questo paragrafo cfr. SEXT. EMP. Adv. math. V, 55 segg.
19. La presente argomentazione e ancor più quelle dei §§ 27-29
sembrano essere di schietta provenienza Carneadea per l’accenno al
calcolo delle probabilità.
20. Per i §§ 27-30 cfr. CIC. De divin. II, XLVII, 97; XLV, 95; SEXT.
EMP. Adv. math. V, 88-93. Una reminiscenza è in Augustin. De civ.
Dei I, 6.
21. Per le argomentazioni di questo paragrafo cfr. CIC. De divin.
II, XLVII, 98; SEXT. EMP. Adv. math. V, 94. Una reminiscenza è in
Augustin. De civ. dei I,7.
22. L’argomentazione, per certe affinità che presenta con quella
contro la dottrina della rappresentazione comprensiva, sembra
esplicitamente smascherare le contraddizioni degli Stoici, i quali
da una parte negano credito all’opinione e dall’altra ammettono
l’astrologia.
SCETTICISMO E MEDICINA
Fra le varie scienze che ebbero in Grecia la loro terra d’origine o
di feconda adozione, la medicina, strettamente legata alla vita e
alla salute dell’uomo, spesso si sviluppò in modo parallelo e talora
persino all’unisono con la filosofia, specialmente quando
quest’ultima assumeva carattere più marcatamente antropocentrico ed
epochizzava certe problematiche che trascendevano l’essere umano
nelle sue più concrete manifestazioni1. Quando già la medicina
greco-romana aveva quasi esaurito il suo compito storico, Galeno,
che pur intendeva inserire la sua «arte» in un vasto e organico
sistema dell’intero scibile umano2, sottolineava che «fine della
medicina è la salute dell’uomo»3: egli desumeva questa sua semplice
teleologia da tutto un procedimento storico-culturale che, partendo
– come quasi tutti i lati della civiltà classica – da Omero, era
passato sempre più da una fase magico-mitica ad una fase meno
fantasiosa e più ricca di controllo scientifico e di conoscenze
sperimentali.
Tuttavia la medicina, come a fatica si era svincolata dalla magia e
dal mito, così a fatica si andò svincolando da certe ipoteche
filosofiche che le impedivano un’autentica autonomia d’indagine e la
costringevano a gravitare nell’orbita di qualche sistema oppure a
ricorrere ad argomentazioni pur sempre filosofiche per
divincolarsene4, e, nel far ciò, l’arte medica da una parte riceveva
stimoli culturali e dall’altra veniva anche distratta dal suo lavoro
e dalle sue peculiari ricerche. Come il fisico antico non sapeva
newtonianamente guardarsi dalla metafisica o dalla polemica contro
la metafisica e generalmente rimaneva un «filosofo della natura»,
così anche lo studioso di questioni mediche e spesso lo stesso
medico militante poggiavano le loro conoscenze teoriche e anche i
loro interventi praticio su di una ἐπιστήµη che aveva come
presupposto un orientamento metafisico oppure su una negazione
dialettica di siffatta ἐπιστήµη e, quindi, su un necessario
armamento di ordine logico-speculativo. Il medico, perciò, si
sentiva spinto ad andare oltre la medicina, come il proverbiale
calzolaio di Apelle andava «ultra crepidam», ed una prova di ciò è
data dalla costituzione del composito Corpus hippocraticum, così
ricco di indagini scientifiche ancora oggi attuali ed anche così
contaminato dalla presenza di elementi estranei sia al genio di
Ippocrate sia alla stessa scienza medica5.
D’altra parte, però, poiché la salute – fine della medicina – è la
salute di questo o di quell’uomo e non di un uomo generico, anche
l’indirizzo medico più disposto all’astrazione deve sempre ritornare
all’hic et nunc dell’empiria, e ciò spiega la presenza di
interessanti indagini mediche anche in quegli ambienti che
sembravano più remoti dall’empiria e in cui, quasi paradossalmente,
si ebbero le prime manifestazioni della Medicina Empirica6.
Questo doppio binario, così ricco di contraddizioni e di vitalità
culturale, veniva seguito anche nell’esegesi dei grandi trattati
scientifici: tanto i Medici Razionalisti (o Logici o Dommatici)7
quanto quelli Empirici8 (che progressivamente furono anche Scettici)
amavano citare come fonte comune il genio di Ippocrate, cercando ora
di inserirlo in un determinato sistema di pensiero ora di liberarlo
da ogni sistema, ma, nell’un caso e nell’altro, impegnandosi a
comprenderne e ad approfondirne la metodologia. Non mancò qualche
anti-ippocrateo in campo empirico, ma costui non ebbe mai successo
e, quando i Medici Metodici9 espressero apertamente il loro fastidio
per il «mostro sacro» di Cos, tanto i Razionalisti quanto gli
Empirici li redarguirono.
Il contrasto tra razionalismo ed empirismo nel settore della
medicina si estese per parecchi secoli, dall’età presocratica a
quella imperiale romana. In tutto questo periodo, mentre i
Razionalisti spesso apertamente si rifacevano a determinati
pensatori ed a questa o a quella scuola filosofica, gli Empirici
erano piuttosto schivi di ricorrere ad una qualsiasi «filosofia» e,
anche se più di una volta certe loro posizioni coincidevano con
quelle degli Scettici, sembra da escludere che ci sia stata una vera
e propria alleanza prima del-Feta di Menodoto o, per abbondare, di
Enesidemo10.
La prima fase della Medicina Empirica, che si estende dal quasi
sconosciuto Acrone (V sec. a. C.) all’enesidemeo Apelle (I sec. d.
C.) è caratterizzata da interessi paralleli a quelli degli Scettici
o da reciproci richiami sporadici; ma c’era già una naturale
affinità tra Empirici e Scettici, e questa di tanto in tanto si
mostrava anche elettiva e dava segni sempre più chiari di
accostamenti. Il matrimonio, però, fu celebrato ufficialmente solo
con Menodoto di Nicomedia (80/90-150/160 d. C)11. E fu un matrimonio
fecondo e dalla famiglia scettico-empirica nacquero spiccate
personalità, quali Teoda12, Teodosio13, Erodoto di Tarso14 e,
infine, Sesto Empirico. Non mancarono screzi in famiglia sia
nell’accettazione in blocco di certi orientamenti metodologici sia
nel modo di fissare i rapporti con quella Medicina Metodica che
sembrava alleata dell’Empirica e talora – come pensò Sesto per un
certo periodo – anche più vicina allo Scetticismo, mentre in realtà
nascondeva non poche insidie dommatiche15.
I contrasti tra i vari indirizzi medico-dommatici, che rimontavano
fino ai tempi di Prassagora, di Erofilo e di Erasistrato e che erano
continuati nel I sec. a. C. intorno alla discussa personalità di
Asclepiade di Bitinia, avevano messo in crisi ogni orientamento
dommatico e avevano causato una certa simbiosi con la Stoa, da cui
era scaturita la Medicina Pneumatica, un indirizzo abbastanza
confuso, anche se non privo di suggestioni per noi moderni. Di
questa crisi profittarono gli Scettico-empirici per dare impulso e
diffusione al loro credo. Con una sola fava si coprivano due
piccioni: i dommaticissimi Stoici, secolari nemici della scepsi fin
dai tempi di Timone e di Arcesilao, e i fantasiosi Pneumatici, che
avevano una stoffa meno consistente di quella di un Erofilo o di un
Erasistrato.
L’Empirikerschule ebbe, quasi certamente, una vasta affermazione in
tutto l’impero dei Cesari, e le stesse classi dirigenti romane, che
erano state conquistate dai brillanti e spesso superficiali
Metodici, probabilmente si affidarono sempre più agli accurati
Empirici, che seminavano in ogni dove le loro ἀγωγαί. Finanche il
grande Galeno, che uscì dalla scuola di vari educatori, ebbe
particolare preferenza per il suo maestro empirico Aiscrione di
Pergamo e, quando volle fare i conti, come un novello Aristotele,
con tutta la medicina del suo tempo e del passato e in particolare
con gli Scettico-empirici, pur respingendone le premesse teoriche,
ebbe sempre per costoro parole riguardose e ne sottolineò lo
scrupolo metodologico sia nella diagnosi sia nella prognosi sia
nella terapia. Memore di quella «empiria totale» che Aristotele,
espertissimo di scienze biologiche e di medicina, aveva introdotta
nelle sue sistematiche ricerche, Galeno, anche nel pieno della
polemica, cercò di inserire l’apporto dato dall’empiria in un
sistema razionale della scienza medica che, a sua volta, veniva
organicamente inserito in una epistemologia enciclopedica, con tutti
i bagliori e i pericoli che siffatte costruzioni recano con sé16. E
la scuola di Menodoto può essere da noi conosciuta soprattutto
attraverso la testimonianza ostile ed anche obiettiva (nei limiti
del possibile) di Galeno, come gli antichi Sofisti possono essere da
noi conosciuti soprattutto attraverso la testimonianza ostile e
generosa di Platone. Lo stesso Sesto Empirico che, come ricco
dossografo, ci lascia sovente solo l’imbarazzo della scelta, è
purtroppo – almeno per quello che ci è rimasto dei suoi scritti –
abbastanza avaro di notizie in merito all’indirizzo medico da lui
seguito e patrocinato17.
La metodologia scettico-empirica, fondata ufficialmente da Menodoto
ma che già si era andata profilando in maniera più o meno latente
nei numerosi medici pre-menodotei, attrasse la viva attenzione anche
degli avversari per la sua sorprendente originalità e per la
costruttività del suo procedimento ormai tanto diverso dalle
negazioni dialettiche degli Accademici e dello stesso Enesidemo.
Questa metodologia, ristudiata e quasi riscoperta con la più viva
simpatia nella seconda metà del secolo scorso durante i trionfi
dello sperimentalismo positivistico e della revisione empiristica
del criticismo kantiano, ha entusiasmato non pochi interpreti, i
quali – come il Favier – vedevano in essa prefigurarsi e già quasi
realizzarsi ante litteram tutto il moderno metodo sperimentale. Ma
al nostro tempo, anche se ancora ci sorprendono non poche affinità
tra gli Scettico-empirici antichi e pensatori moderni come Francesco
Bacone, il nostro giudizio è più cauto e ponderato. E la nostra
prudenza non intende, certo, ridurre entro limiti angusti il
prezioso contributo che quegli «sperimentatori» diedero non solo
alla loro scienza, ma anche alle altre scienze e alla stessa
filosofia, bensì solo premunirci contro eccessive illusioni ed
errori di prospettiva storica. Un breve esame dei princìpi
fondamentali della metodologia scettico-empirica ci induce, infatti,
ad un controllato e critico entusiasmo ed a valorizzare
problematicamente un così serio contributo scientifico-filosofico
piuttosto che a vedere nelle cose quello che non c’è.
Il primo principio degli Scettico-empirici è l’ispezione diretta
(αὐτοψία)18. Il medico deve essere «uno che vede con i propri occhi»
(αύτóπτηζ) tutta la situazione deirinfermo, deve fare un bagno nella
«verde vitalità» sbarazzandosi di apriorismi pericolosi che hanno
per fondamento cose che non si vedono, ma sono soltanto il risultato
di elucubrazioni logiche. Questa fresca libertà del medico non è
affatto un modo per rendere facile il suo compito: con l’ispezione
diretta, infatti, il medico si accolla una vera e propria fatica di
Ercole (come diceva Cicerone19 a proposito di Carneade) per spazzar
via dalla sua mente gli errori della ignava ratio. Ma la semplice
«visione diretta» può rimanere uno sterile fascio di sensazioni se
non si determina come «ricerca» (τήρησις), come laboriosità
indagativa, giacché il medico non può intervenire senza aver visto
di persona, ma resta perfettamente inutile se si limita solo a
vedere. Il rapporto tra la semplice αύτoψία e la più proficua
τήρησιζ, forse, non apparve subito con chiarezza; e le variazioni
terminologiche che si riscontrano nelle testimonianze non sono prive
di significato ma ci permettono di tastare il polso alia vita
interna dell’indirizzo in-dicato da Menodoto20. Oltre a ciò non
dovette sfuggire agli Empirici filosoficamente meno sprovveduti
l’impossibilità di una αύτoψια generale a causa della infinità
stessa delle cose da vedere e della finitudine del soggetto che
dovrebbe vedere. Stando così le cose, o bisognava ridurre
l’ispezione diretta ai minimi termini, come purtroppo erano propensi
a fare i Metodici21, oppure bisognava ricorrere a qualche altro
principio che le facesse da supporte.
L’impossibilità di una esauriente αύτoψια rendeva, perciò,
indispensabile il secondo principio metodologico, quello
dell’στoρια22, un principio che potremmo chiamare «ionico», se
pensiamo alle origini della ricerca filosofico-naturalistica della
medicina ippocratica, ma potremmo chiamare anche «aristotelico» o
«teofrasteo» se pensiamo all’immenso contributo dato dai
Peripatetici in questo settore. Lo Scettico-empirico, che spesso
vede nel pensiero del passato una contraddittoria filastrocca di
opinioni, non può sottrarsi al contributo che le ricerche già fatte
con serietà metodologica prima di lui hanno dato alla scienza: egli,
perciò, le accetta, purché non siano in contrasto con ciò che si può
direttamente osservare. Le cose che sono «di per sé non evidenti»
non possono costituire mai un patrimonio dell’ιιτoρια: da questa noi
possiamo raccogliere solo quelle che sono «contingentemente
non-evidenti»23. Come l’xύτoψια non poteva andare oltre il fenomeno,
così anche l’ιστoρια non può essere che «storia del fenomeno».
L’istoria di un ricercatore, insomma, presuppone l’autopsia di un
altro: ragion per cui è possibile creare una storia
«fenomenologico-scettica della scienza e della filosofia: cosa che
ha genialmente fatto Sesto Empirico in certi suoi excursus
storico-filosofici24. Aveva affermato in un momento di entusiasmo il
vecchio Timone: «Si, l’apparenza ha vigore in tutti quei luoghi ove
giunga!»25. Ma l’apparenza - o addirittura la parvenza - con i suoi
limiti invalicabili lascia la bocca amara al Dommatico, e non
lascia, d’altra parte, seddisfatto neppure il problematico Sesto
Empirico, che forse riflette un imbarazzo non solo personale, bensi
anche dell’indirizzo da lui seguito.
L’ίστoρια è un contributo di conoscenze «fenomeniche» che ci vien
dato dai passato, ma, come l’αύτoψία, essa rimane sterile se non si
trasforma in impulso all’intervento medico; e all’intervento vero e
proprio già; ci accostiamo col terzo principio metodologico degli
scettico-empirici: quello del passaggio dal simile al simile
µετάβασιζ τoὖ ὀµoίoν26. Questo principio, almeno nel campo della
logica, ha un carattere più accentuatamente rivoluzionario di tutti
gli altri. Aristotele aveva recisamente vietato e condannato come
errore di logica e come pericoloso abbaglio nelle indagini
metafisiche la µετἄλλo γννoζ, giacché due cose simili fra loro,
anche se la loro somiglianza è molto accentuata, rimangono tra loro
irriducibilmente estranee27. Ben diverso è, invece, il caso
dell’analogia che, con la sua quatermo terminorum, riduce le
differenze qualitative a mere differenze graduali nell’ambito di una
stessa sostanza e, quindi, può trovare una certa applicabilità in
sede logica. I Medici Razionalisti ricorrevano al metodo analogico,
giacché esso si inseriva in un sistema rigoroso di corrispondenze, e
maggiormente si sentivano autorizzati ad applicarlo quelli che si
rifacevano ad un sottofondo di carattere
meccanicistico-materialistico. Gli Scettico-empirici, invece,
sostenendo il passaggio dal simile al simile, non intendevano
sopprimere le differenze qualitative inerenti all’apparenza
fenomenica, anzi in ciò erano intimamente d’accordo col
qualitativista Aristotele pur senza condividerne affatto le
implicazioni metafisiche28. Essi, però, per l’attuazione della loro
µετβασιζ presupponevano l’annullamento della definizione, giacché il
rapporto genere-specie, senza il quale è impossibile definire, è
ἄδηλoν, come quasi certamente aveva scritto Enesidemo e come avrebbe
precisato con ricchezza di argomentazioni Sesto Empirico29. La
distruzione del definizionismo – o, per meglio dire, la riduzione
della definizione (ὔρoζδιoρισµóζ) a «distinzione fenomenica»
(διαστoλή)30 – rende meno rigido il rapporto tra i similia e
facilita proficuamente il passaggio dall’uno all’altro di loro in
sede di operatività pratica. Siamo, però, ancora molto lontani da
vere e proprie dottrine evoluzionistiche – che indubbiamente Sesto
avrebbe accusato di dommatismo – e tanto meno storicistiche31 (per
giungere a Vico dovrà passare un millennio e mezzo), ma si va
profilando uno sganciamento da quel formalismo logico che gli Stoici
avevano, pur mirabilmente, contribuito ad accentuare dopo
Aristotele.
La µετβασζ scettico-empirica resta coerentemente fenomenologica e la
sua articolazione è resa possibile dall’epilogismo, che noi potremmo
chiamare «analogia fenomenica», se il sostantivo non gravasse troppo
sull’aggettivo32. E con l’epilogismo siamo quasi al polo opposto
dell’astratta acribia della matematica, contro cui soprattutto
Sesto, uccello di Minerva dello Scetticismo greco e anche della
Medicina Empirica, non cessa mai di polemizzare non solo perché
essa, fondandosi su un’ipotesi, è per lui un summum ius summa
iniuria in sede di aperta ricerca scientifica33, ma anche perché i
suoi catastrofici effetti si erano riscontrati, in campo medico, a
cagione di quella «iatromatematica» che imbastardiva la più «esatta»
di tutte le scienze in un cumulo di fantasiose credenze capace di
adescare persino autentici scienziati, come Claudio Tolomeo34.
L’analogismo della Medicina Dommatica non poteva articolarsi senza
il presupposto di una causalità che non solo Aristotele, ma tutti i
filosofi «dommatici» non avevano mai attaccata, bensì solo
variamente posta35. Dopo la battaglia di Enesidemo contro
l’aitiologia, la Medicina eimpirica aveva ottenuto ancne il supporto
dialettico per continuare la sua battaglia anti-causalistica. Ma lo
scire per causas esercita le sue stregonerie quando meno ce lo
aspettiamo anche ai nostri giorni. Così gli Scettico-empirici quasi
a bassa voce, ammettevano le cause procatartiche, che sono, cioè,
evidenti al pari dei fenomeni stessi e che anche gli aborriti Stoici
avevano contemplate nella loro dommatica aitiologia36.
Da questo nostro breve quadro della metodologia scettico-empirica
risulta, comunque, con evidenza il contributo dato da
quell’indirizzo medico-filosofico ad una emendatio intellectus per
ogni ricercatore. Del resto lo stesso Galeno non ne sottovalutava
affatto gli aspetti costruttivi, anche se mirava ad inserirli in
un’organicità logica, a suo parere più avveduta ed esauriente. Ma
tanto più era efficace questa ricca metodologia quanto più i Medici
Scettico-empirici – in questo molto simili ad Aristotele –
scendevano a dettagliati studi terapeutici, patologici, fisiologici,
dietetici e farmaceutici che non avevano molto da invidiare ai
grandi Medici Razionalisti del passato.
A questo punto ci domandiamo: con la Medicina Empirica, dunque, lo
Scetticismo impara pure a costruire qualcosa e non si limita più ad
epochizzare tutto? Molti studiosi moderni hanno risposto
affermativamente ed hanno avuto le loro buone ragioni, anche se
queste non sono state sempre filosoficamente pure, ma viziate di
insidioso ideologismo. Tuttavia, un’accurata indagine di quanto ci è
rimasto del più grande «empirico» di nostra conoscenza – ossia di
Sesto medico e filosofo – ci vieta di rispondere con superficialità
che, proprio in punto di morte, lo Scetticismo greco si era stancato
di dire sempre di no e di mettere ogni cosa tra parentesi. A meno
che non si voglia alludere al proverbiale «miglioramento della
morte»!37.
Gli stretti legami che lo Scetticismo ebbe con la Medicina Empirica
risultano filosoficamente ben rilevati nel celebre e discusso passo
sestiano con cui apriamo quest’ultima sezione della presente
raccolta, quantunque l’autore dichiari la propria adesione alla
Medicina Metodica che, almeno nel tempo in cui furono composti gli
Schizzi, gli sembrava, forse a torto, immune da elementi dommatici
più della Medicina Empirica. Di notevole importanza è il Proemio di
Celso a quella sezione della sua enciclopedia scientifica che è
riservata alla medicina38: benché Celso non sia un filosofo, il suo
quadro generale della medicina antica fino all’età di Tiberio ci fa
vedere come già prima di Menodoto le relazioni tra Scetticismo e
Medicina Empirica non fossero affatto trascurabili. L’opuscolo di
Galeno De sectis39, scritto quando già dalla riforma menodotea era
fiorita una grande scuola medico-filosofica, coincide più di una
volta, ad oltre un secolo di distanza, con la testimonianza celsiana
non solo in molti dettagli, ma anche nella struttura espositiva,
tanto da suscitare l’impressione che l’autore intenda continuare
l’opera di qualche suo predecessore tenendola al passo con i tempi.
Infine il trattato De subfiguratione empirica40, giunto a noi mercé
un’orrida traduzione latino-medievale, è la più completa disamina
della metodologia empirico-medica in nostro possesso. Scritta con
intento polemico, l’operetta sa sollevarsi dalla schermaglia alla
critica e contiene tutti i pregi e tutti i difetti di un grande
autore che avrebbe dettato per lunghi secoli ogni legge nel campo
della medicina e poi sarebbe divenuto, con pari esagerazione, il
bersaglio preferito di medici, filosofi e storici moderni.
In una raccolta scettica non ci è parso opportuno inserire le
numerose testimonianze tecnico-medicali concernenti l’indirizzo
empirico. Per tali testimonianze rinviamo alla ancor valida raccolta
di Karl Deichgräber.
Scetticismo, Medicina Empirica e Medicina Metodica (SESTO EMPIRICO,
Pyrrh. hyp. I, 236-241)
Alcuni identificano la filosofia scettica anche con la setta dei
Medici Empirici; ma bisogna precisare che, se questa setta dà
precise indicazioni circa l’incomprensibilità delle cose
non-evidenti, non s’identifica con lo Scetticismo e che uno Scettico
sarebbe incoerente, se abbracciasse quella dottrina41. Egli, però,
potrebbe piuttosto seguire, a mio avviso, l’indirizzo che vien
chiamato «Metodico»42. Difatti, tra gli indirizzi medici,
quest’ultimo è l’unico che sembra non pronunciarsi in maniera
temeraria43 in merito alle cose non-evidenti, con arbitrarie
affermazioni sulla loro comprensibilità o incomprensibilità, ma,
attenendosi ai fenomeni, sembra assumere da questi ultimi, in
conformità col modo di procedere degli Scettici, ciò che «sembra»
essere conveniente.
Noi dicevamo, nelle pagine precedenti44, che la vita ordinaria – che
è quella vissuta anche dallo Scettico – ha quattro aspetti
particolari, in quanto essa trova una sua certa consistenza in parte
nella guida della natura, in parte nella necessità delle affezioni,
in parte nella trasmissione di leggi e di costumanze, in parte
nell’insegnamento delle arti. Adunque, come a seconda della
necessità delle affezioni – lo Scettico è guidato dalla sete a bere,
dalla fame a mangiare, e così via per le altre cose, allo stesso
modo anche il medico metodico è guidato dalle affezioni del paziente
verso i rimedi corrispondenti, ad esempio dalla contrazione alla
dilatazione – come quando una persona, dalla condensazione dovuta ad
un freddo intenso, si rifugia nel caldo – o, viceversa, dalla
flussione a ciò che la fa cessare come quando quelli che in un bagno
caldo versano gran copia di sudore e si sentono venir meno, si
preoccupano di far cessare la trasudazione e, perciò, si precipitano
all’aria fredda –. Ed è di per sé evidente che anche le condizioni
naturali avverse ci costringono a tentare la loro eliminazione, dal
momento che anche il cane, quando gli si conficca una spina al
piede, si preoccupa di cavarsela45.
Insomma – per non trasgredire al carattere succinto di questa
mia trattazione col diffondermi su ogni particolare – io penso che
tutti i fatti che vengono in questo modo descritti dai Metodici
possono essere inquadrati nella necessità delle affezioni – sia di
quelle che sono secondo natura (sia di quelle che sono contro
natura)46: e ciò oltre al fatto che è comune ai due indirizzi una
terminologia che esclude la formulazione di opinioni e che
presuppone, invece, l’indifferenza nell’uso dei nomi. Come, infatti,
lo Scettico usa le espressioni «nulla definisco» e «nulla comprendo»
in maniera, come abbiamo detto47, non opinativa, così anche il
Metodico usa i termini «comunanza» e «pervadere» e simili in maniera
non ricercata48. Allo stesso modo egli assume, senza fare
congetture, anche il termine «indicazione»49 invece di «guida»,
derivante dalle affezioni che appaiono – sia di quelle secondo
natura sia di quelle contro natura – verso quei rimedi che sembrano
corrispondere al caso, come abbiamo menzionato50 a proposito della
sete, della fame e delle altre cose.
Ecco perché, assumendo indizi51 da questi fattori e da
altri simili a questi, possiamo bene affermare che l’indirizzo
dei Medici Metodici ha con lo Scetticismo una maggiore affinità
degli altri indirizzi della medicina – sempre, però, in confronto
con questi ultimi, ma non in senso assoluto –.
Le tre principali sette mediche (CELSO, De medic. Proem. 1-75)
Come l’agricoltura promette gli alimenti ai corpi sani, così la
medicina promette la sanità a quelli malati. Quest’arte è,
indubbiamente, presente in ogni luogo, se è vero che anche le
popolazioni più incolte conoscono erbe ed altri rimedi che sono a
portata di mano per soccorrere ferite e malattie. Tuttavia essa,
molto più che dalle altre popolazioni, è stata coltivata dai Greci,
e neppure da loro fin dai primordi, bensì da pochi secoli a questa
parte. Perciò Esculapio viene celebrato come la più antica autorità
in materia, egli che, siccome coltivò con raffinatezza un po’
maggiore questa scienza ancora rudimentale e popolare, fu
accolto nel novero degli dei. Di poi i suoi due figli, Podalirio e
Macaone, si misero al seguito del condottiero Agamennone nella
guerra di Troia ed arrecarono notevole aiuto ai loro compagni
d’arme52. Tuttavia Omero ci ha tramandato che costoro non
procurarono alcun sollievo durante la pestilenza53 o in malattie di
vario genere, ma che di solito sanavano soltanto le ferite col
ferro o con medicazioni. Dal che si evince che essi tentarono
esclusivamente questi settori della medicina e che appunto questi
settori sono i più antichi. E ancora dalla medesima fonte si può
apprendere che a quei tempi le malattie si facevano risalire all’ira
degli dei e che a questi ultimi si soleva chiedere soccorso, ed è
verosimile † che moltissimi allora perissero54 † perché mancava un
vero e proprio rimedio contro le malattie e che, ciò nonostante, la
salute si mantenesse buona a causa dei buoni costumi che non erano
corrotti né dall’indolenza né dalla lussuria; ed è certo che questi
due vizi hanno afflitto i corpi umani prima in Grecia e poi presso
di noi, e che, perciò, questa complicata arte della medicina – di
cui non c’era bisogno nelle epoche antiche e non c’è ancora bisogno
presso altre popolazioni – riesce a condurre sulla soglia della
vecchiezza a malapena soltanto alcuni di noi.
Ecco perché, anche dopo quelli di cui ho fatto cenno, non ci furono
uomini illustri che praticarono la medicina prima che cominciassero
ad essere perseguiti con zelo maggiore gli studi letterari, i quali
sono più di ogni altra cosa indispensabili all’anima, ma sono ostili
al corpo.
All’inizio la scienza della medicina era ritenuta una parte della
filosofia, talché la terapeutica nacque insieme con la
contemplazione della natura ad opera dei medesimi autori, ovviamente
perché ne sentivano il bisogno quelli che avevano logorato le forze
del loro corpo con l’irrequietezza del pensiero e le veglie
notturne. E perciò, come ci viene tramandato, molti che professavano
filosofia furono esperti di medicina, e tra loro i più illustri
furono Pitagora, Empedocle e Democrito. Discepolo di quest’ultimo,
come alcuni hanno creduto, Ippocrate di Cos, degno di essere
celebrato più di tutti gli altri e uomo che si distinse sia
nell’arte medica sia nell’eloquenza, separò quest’attività dalla
filosofia. Dopo di lui Diocle di Caristo, indi Prassagora e
Crisippo, e poi ancora Erofilo ed Erasistrato praticarono quell’arte
fino a tal segno da proporre anche metodi di cura tra loro
differenti.
Proprio all’epoca di costoro la medicina fu divisa in tre parti,
talché si sono avute una parte che cura con l’alimentazione,
un’altra con i farmachi e una terza con la mano. I Greci hanno
chiamato la prima «dietetica», la seconda «farmaceutica» e la terza
«chirurgia». Ma i più autorevoli professionisti di quella parte che
cura con la dieta, sforzandosi di penetrare più profondamente nella
realtà, hanno rivendicato a sé anche la conoscenza della natura,
perché hanno ritenuto che la medicina sarebbe rimasta monca e fiacca
senza di quella. Dopo di loro Serapione è stato il primo a
dichiarare che questa sorta di metodo razionale non ha niente a che
vedere con la medicina ed ha riposto quest’ultima esclusivamente
nella pratica e nell’esperienza. E, attenendosi a lui, Apollonio e
Glaucia e, parecchio dopo, Eraclide di Taranto ed alcuni uomini di
gran merito si chiamarono «Empirici» in base al loro modo di
concepire l’arte medica. Così, anche quel settore della medicina che
cura con la dieta si è suddiviso in due indirizzi, giacché alcuni
rivendicano a sé un metodo razionale, altri solamente la pratica.
Tuttavia, dopo quelli che sono stati poc’anzi menzionati, nessuno
provocò sconvolgimenti a quanto si era ricevuto per tradizione,
finché Asclepiade mutò in gran parte il metodo delle cure. E, tra i
suoi successori, Temisone, non molto tempo fa, durante la sua
vecchiaia, si allontanò anche lui, per qualche lato, da Asclepiade.
Ed è stato soprattutto merito di questi uomini il progresso compiuto
da questa nostra salutare attività.
Tenendo presente che, tra le parti della medicina, la più difficile
e, nello stesso tempo, la più famosa è quella che risana le
malattie, dobbiamo trattare anzitutto di essa. E siccome sussiste un
disaccordo pregiudiziale di pareri – in quanto alcuni sostengono che
a loro è indispensabile soltanto una conoscenza che derivi
dall’esperienza ed altri, invece, affermano che la pratica non è
sufficientemente efficace senza l’acquisizione di una conoscenza
razionale del corpo umano e della natura –, è mio dovere quello di
indicare le tesi più importanti che vengono sostenute da entrambe le
parti per potere più facilmente prospettare anche la mia personale
opinione.
Orbene, quelli che propugnano la medicina razionale ritengono
indispensabili i seguenti requisiti: in primo luogo la conoscenza
delle cause che sono nascoste e che già contengono le malattie, in
secondo luogo quella delle cause evidenti, in terzo luogo anche
quella delle azioni naturali e, infine, quella delle parti interne
del corpo.
Chiamano «cause nascoste»55 quelle nel cui ambito si ricerca, tra i
princìpi costitutivi dei nostri corpi, quale produca la salute e
quale la malattia. Essi, infatti, reputano che non può sapere il
modo appropriato per curare le infermità chi ne ignori la prima
origine; ed aggiungono che è ben certo che c’è bisogno di una
determinata cura nel caso che – come alcuni esperti di filosofia
hanno asserito – qualcuno dei quattro princìpi56 produca l’infermità
a causa del proprio eccesso o del proprio difetto; di un’altra
determinata cura se ogni infermità viene riposta negli umori57, come
è parso ad Erofilo; di un’altra determinata cura se ogni infermità
venga attribuita all’aria, come è parere di Ippocrate58; di un’altra
ancora nel caso che il sangue si infiltri in quei vasi che
dovrebbero, invece, accogliere pneuma59 oppure provochi
infiammazione (che i Greci chiamano φλεγονήν) e quest’ultima produca
una perturbazione identica a quella che si riscontra nella febbre,
come è parere di Erasistrato; c’è bisogno, infine, di un’altra cura
nel caso che certi «corpuscoli», nel passare attraverso «pori
invisibili», si fermino e blocchino il condotto, come sostiene
Asclepiade. Insomma – essi affermano – darà la cura esatta solo chi
non si lascia sfuggire la prima scaturigine della causa.
Per la verità, costoro non negano che anche l’esperienza sia
necessaria, ma sostengono l’impossibilità di accedere persino a
questa senza che si formuli un qualche ragionamento: infatti, a
parere loro, gli uomini più antichi non inculcavano nei pazienti un
intruglio qualsiasi, ma consideravano quale fosse la cosa più
conveniente e poi passavano all’uso pratico di ciò cui erano
pervenuti precedentemente in base ad una qualche congettura60. Ed
aggiungono che non importa se ormai la maggior parte dei rimedi è
stata concretamente sperimentata <… ….>61, dal momento che
questi rimedi presero, comunque, l’abbrivo da un calcolo
razionale62. E che la faccenda stia così si riscontra, del resto, in
molte evenienze. Spesso, a dire il vero, vengono a manifestarsi
nuovi tipi di malattie su cui finora l’esperienza non ha dato alcuna
indicazione, ed è, perciò, indispensabile meditare da dove queste si
siano originate: senza di ciò nessuno dei mortali potrebbe scoprire
perché debba ricorrere a questo determinato rimedio piuttosto che a
quest’altro. Ecco perché essi vanno alla ricerca di cause «riposte
neiroscurità»63.
Chiamano, invece, «evidenti» quelle cause tra cui ricercano, ad
esempio, se l’inizio di una malattia si debba attribuire al caldo o
al freddo, alla fame o alla sazietà o ad altri simili fattori:
affermano, infatti, che interverrà contro una malattia solo chi non
ne ignori l’origine.
Chiamano, poi, «azioni naturali del corpo» quelle per mezzo delle
quali immettiamo o emettiamo il respiro, ingeriamo o digeriamo i
cibi e le bevande, e così pure quelle azioni per mezzo delle quali
queste cose vengono distribuite in tutte le parti dell’organismo.
Oltre a ciò, essi ricercano anche perché le nostre vene ora si
abbassano e ora si rialzano, quale sia il motivo del sonno e quale
quello della veglia; e senza la conoscenza di questi fatti, a loro
avviso, nessuno può opporsi o recare rimedio alle malattie che hanno
inizio, appunto, in connessione con essi. E poiché, tra tutte queste
azioni naturali, la digestione sembra avere la massima importanza,
si soffermano specialmente su di essa: e alcuni, sulla scorta di
Erasistrato, sostengono che il cibo viene triturato nel ventre;
altri, sulla scorta di Plistonico, discepolo di Prassagora,
sostengono che esso imputridisce; altri, prestando fede ad
Ippocrate, affermano che i cibi vengono digeriti per mezzo del
calore; e, come se non bastasse, ci sono anche gli allievi di
Asclepiade, i quali asseverano che tutte queste teorie sono vane e
superflue, giacché, a loro avviso, non avviene concozione alcuna, ma
la materia viene dislocata in tutto il corpo cruda come è stata
ingerita. Su questi argomenti, a dire il vero, regna tra loro
scarso accordo; ma la conseguenza di ciò è questa: che, se uno di
questi punti di vista è quello vero, agli ammalati si deve
somministrare un determinato cibo; se, invece, ne è vero un altro,
se ne deve loro somministrare un altro: difatti, se il cibo viene
triturato all’interno, bisogna trovar quello che può essere
triturato nel modo più agevole; se imputridisce, si deve trovar
quello in cui questo mutamento si attua con la massima rapidità; se
è il calore ad attuare la concozione, si deve trovar quello che
provoca massimamente calore; non bisogna, infine, cercare
alcuna di queste cose, se non avviene concozione alcuna, ma
vanno ingeriti quegli alimenti che massimamente permangono tali
quali sono stati ingeriti. E con lo stesso ragionamento, quando il
respiro è appesantito e quando il sonno o la veglia sono fastidiosi,
essi pensano che vi possa procurare rimedio colui che per primo si
sia reso conto della maniera in cui queste «azioni naturali del
corpo» si riscontrano.
Oltre a ciò, poiché nelle parti interne nascono dolori e malattie di
vario genere, essi pensano che nessuno vi possa arrecare rimedio
qualora non abbia conoscenza di queste parti. Perciò, secondo loro,
è necessario squarciare i cadaveri ed esaminare attentamente viscere
e intestini, ed avrebbero ottimamente agito Erofilo ed Erasistrato,
i quali ricevevano in dono dai re i delinquenti fatti uscire dal
carcere in punto di morte e li vivisezionavano e, mentre ancora
quelli respiravano, esaminavano quelle parti dell’organismo che la
natura precedentemente aveva tenuto chiuse, e la loro posizione, il
loro colore, la forma, la grandezza, la disposizione, la durezza, la
mollezza, la levigatezza, le strette correlazioni, quindi la
sporgenza e la rientranza delle singole parti, e se un organo fosse
inserito nell’altro oppure ricevesse in sé una parte di un altro; a
parer loro, infatti, quando il dolore si presenta all’interno, non
si può sapere che cosa affligga il paziente, se non si conosca in
quale posizione si trovi ciascun organo o ciascun intestino, né si
può curare quella parte che è malsana, se si ignori che cosa essa
sia; e, quando le viscere di un uomo sono rese manifeste attraverso
una ferita, chi ignori ciascuna parte quando questa è sana, non può
sapere quale parte sia rimasta sana e quale sia stata danneggiata, e
pertanto non può nemmeno prestare soccorso a quest’ultima. E in modo
più idoneo si possono applicare i rimedi dall’esterno, una volta che
siano state scoperte le ubicazioni e le forme degli organi interni e
se ne sia acclarata la grandezza; e ragionamenti simili vanno
adeguatamente applicati in tutti i casi da noi prima menzionati. E
sostengono che non è una crudeltà – come vanno dicendo i più –
ricercare rimedi a favore di popolazioni innocenti di tutte le età
future mediante il supplizio di uomini che sono criminali e, per
giunta, di un piccolo numero di costoro.
Al contrario, quelli che dalla parola «esperienza»64 hanno preso il
nome di «Empirici» accettano, sì, le cause evidenti come necessarie,
ma ritengono che sia superflua l’indagine delle cause oscure e delle
azioni naturali, poiché, secondo loro, la natura non è affatto
comprensibile65. E che, in realtà, essa non possa essere compresa
risulta con evidenza dalla discordia che regna tra quanti discutono
di questi argomenti, dal momento che, su questo punto, non si è
pervenuto a soluzioni comuni né tra gli esperti di filosofìa né tra
i medici stessi66. Perché, infatti, si dovrebbe prestar credito ad
Ippocrate piuttosto che ad Erofilo? E perché a quest’ultimo
piuttosto che ad Asclepiade? Se uno volesse attenersi alle
argomentazioni che vengono addotte, allora quelle addotte da ognuno
potrebbero sembrare non prive di attendibilità; se ci si attiene,
invece, ai metodi di cura, non c’è metodo che non abbia riportato
gli infermi alla buona salute: pertanto non si sarebbe dovuto
togliere credito né alle argomentazioni né alle autorevoli
attestazioni di nessuno di loro. Anche i filosofi sarebbero i più
grandi medici, se il semplice ragionamento bastasse a renderli tali;
in realtà, però, essi hanno sovrabbondanza di parole, ma manca loro
la conoscenza scientifica dei rimedi.
Gli Empirici aggiungono anche che i metodi da usare in medicina
differiscono tra loro a seconda delle località geografiche67, e che
di un metodo si ha bisogno a Roma, di un altro in Egitto e di un
altro ancora in Gallia. Ché, se le malattie venissero provocate da
cause che sono dovunque identiche, anche i rimedi sarebbero dovuti
essere identici dovunque. Spesso le cause sono anche manifeste – ad
esempio quelle della cisposità o di una ferita –, ma da esse non
risulta altrettanto palese il trattamento da usare. Ché, se questa
scienza non è subordinata ad una causa evidente, molto meno potrebbe
essere subordinata ad una causa che è messa in dubbio. Allora, dal
momento che quest’ultima è incerta – anzi incomprensibile –, bisogna
piuttosto chiedere protezione a cause accertate ed attentamente
scrutate, vale a dire a quelle che l’esperienza ci insegna nell’atto
stesso della cura, come avviene in tutte quante le altre arti.
Difatti non si diventa contadini o piloti con le dispute, ma con la
pratica. E che siffatte speculazioni non siano per nulla pertinenti
alla medicina si può acclarare in base al fatto che quelli che la
pensano in modo diverso tra loro su questi stessi argomenti sono
tuttavia riusciti a riportare gli uomini al medesimo stato di
sanità: e ci sono riusciti perché trassero i metodi terapeutici non
da «cause oscure» né da «azioni naturali», su cui pur nutrivano
pareri diversi, bensì dalle esperienze, a seconda dei risultati che
ciascuno era riuscito a cavarne. Del resto, neppure ai suoi primordi
la medicina venne dedotta da siffatte discettazioni, bensì
dall’esperienza: difatti, tra gli ammalati che erano allora privi di
medici, alcuni, nei primi giorni della malattia, per ingordigia non
esitavano ad ingerire il cibo, mentre altri per nausea se ne
astenevano, e risultò più alleviata l’infermità di coloro che se ne
erano astenuti. Allo stesso modo alcuni mangiavano qualcosa nel
corso della febbre, altri mangiavano un po’ prima che la febbre
scoppiasse, altri dopo che essa fosse cessata; e si trovarono molto
bene quelli che fecero ciò dopo la cessazione della febbre; e allo
stesso modo alcuni all’inizio di una manifestazione morbosa,
seguivano immediatamente una dieta più consistente, altri una più
ridotta, e quelli che si erano rimpinzati si trovavano in condizioni
peggiori. E poiché queste ed altre simili cose capitavano ogni
giorno, uomini diligenti annotarono quali cose «per lo più» dessero
migliori risultati e, quindi, cominciarono a prescriverle agli
infermi. Così nacque la medicina, la quale, in base al frequente
risanamento di alcuni e al decesso di altri, distingueva le cose
nocive da quelle salutari68.
Di poi, quando ormai i rimedi erano stati trovati, gli uomini
cominciarono a discutere sulle «ragioni» di questi; ma non fu la
medicina ad essere inventata dopo che se ne fosse ricercata la
ragione, bensì fu solo dopo l’invenzione della medicina che ci si
mise a ricercarne la ragione.
Gli Empirici pongono anche la questione se la ragione dia gli stessi
insegnamenti dell’esperienza o ne dia altri: se dà i medesimi, è
superflua; se ne dà altri, è addirittura di ostacolo.
Comunque, dapprincipio si dovettero esplorare i rimedi con la
massima accortezza; ora, però, essi sono già stati esplorati; né si
scoprono nuovi generi di malattie né si sente il bisogno di una
nuova medicina. Ché, ove pur si presenti qualche tipo sconosciuto di
malattia, ciò non pertanto il medico non si dovrà mettere a
speculare su cose oscure, ma subito vedrà a quale malattia già nota
esso sia affine e tenterà rimedi simili a quelli che spesso sono
stati proficui nell’infermità affine e troverà ausilio efficace in
base alla somiglianza con quest’ultima69. Ciò non vuol dire che il
medico non abbia bisogno di razionale ponderazione e che un animale
irragionevole sia in grado di far mostra di quest’arte, ma vuol dire
soltanto che non hanno a che fare con la faccenda congetture di cose
nascoste, giacché non importa che cosa produca la malattia, bensì
che cosa la elimini; né riguarda la medicina sapere come il cibo
venga ingerito nel modo migliore, ma che cosa venga digerito, tanto
se la concozione sia dovuta a questa determinata causa quanto se sia
dovuta a quest’altra, e tanto se si tratti di concozione vera e
propria quanto se si tratti di semplice distribuzione del cibo70. Né
ci si deve domandare in che modo noi respiriamo, ma che cosa liberi
la respirazione quando questa è faticosa e lenta; né che cosa faccia
muovere le vene, ma che cosa ciascun genere di questo movimento stia
a significare. Cose, queste, che si conoscono per mezzo
dell’esperienza! Del resto in tutte le teorizzazioni siffatte si può
dissertare «in un senso e nell’altro»71; pertanto in esse prendono
il sopravvento la naturale intelligenza e l’abilità oratoria, mentre
le malattie non vengono curate con l’eloquenza, ma con le medicine.
E se c’è un uomo di poche parole che, in base alla pratica, riesce a
distinguere bene le cose, questi sarà un medico molto migliore di
uno che, privo di pratica, abbia ben coltivato la propria lingua72.
Ma, secondo gli Empirici, le indagini dei Medici Dommatici di cui
abbiamo prima parlato sono semplicemente superflue; le rimanenti,
invece, sono addirittura crudeli, ossia tagliare il ventre e i
precordi di uomini vivi e trasformare quell’arte che presiede
all’umana salute in un fatto non solo letale, ma addirittura molto
straziante per alcune persone; e ciò specialmente perché, tra queste
cose che si ricercano con tanta violenza, alcune non possono essere
conosciute affatto, altre possono essere conosciute senza che si
debba perpetrare alcun crimine. Difatti il calore, la levigatezza,
la mollezza, la durezza e tutte le altre cose simili, una volta che
il corpo sia stato aperto, non conservano le stesse caratteristiche
che avevano mentre esso era intatto, giacché, anche quando il corpo
non è stato ancora violato, questi fattori, tuttavia, sovente
cangiano per paura, per dolore, per inedia, per indigestione, per
stanchezza e per mille altre non rilevanti affezioni, ed è molto più
verosimile che gli organi interni, che sono più teneri e per i quali
la luce costituisce un fatto nuovo, subiscano mutamenti sotto ferite
molto gravi e nell’atto stesso in cui se ne fa scempio. Né c’è nulla
di più sciocco che ritenere che quale sia ciascun organo mentre
l’uomo è vivo, tale debba essere quando questi sta morendo, anzi è
già morto. L’utero, che è un organo di minore importanza, può essere
pure asportato senza che l’essere umano cessi di vivere; ma non
appena il ferro viene immerso nei precordi e viene squarciato il
setto trasversale – ossia quella membrana che separa le parti
superiori del corpo da quelle inferiori (i Greci la chiamano
διάφραγµα) –, l’uomo immediatamente perde la vita. Così, alla fine
del conto, solo quando l’uomo è morto, si offrono alla presenza del
medico assassino i precordi ed ogni viscere necessariamente tali
quali sono quelli di un morto, non quali furono quelli di una
persona viva. Perciò il solo risultato di questa operazione è che il
medico scanna crudelmente un uomo e non già che egli viene a sapere
quali viscere noi abbiamo da vivi.
Tuttavia, se c’è qualcosa che si presenta all’osservazione mentre
l’uomo è ancora in vita, questo qualcosa viene offerto ai medici dal
caso. Talvolta, infatti, un gladiatore nell’arena o un soldato in
campo di battaglia o un viandante assalito dai ladroni viene ferito
in maniera tale che un qualche suo organo interno è portato alla
luce, e per un poveretto si tratta di un organo, per un altro di un
altro: in questo modo il medico accorto viene a conoscere il sito,
la posizione, la disposizione, la forma e altre cose simili, mentre
egli sta tentando di porgere non la morte ma la salute, e viene a
conoscere con un atto di misericordia quello che altri avrebbero
appreso con spietata crudeltà73.
Per questo motivo, secondo gli Empirici, non è neppure necessaria la
dissezione dei cadaveri (che, quantunque non sia crudele, è tuttavia
ripugnante), dal momento che nei cadaveri la maggior parte degli
organi risulta alterata; quanto, invece, si possa conoscere in corpi
vivi, lo mostri il corso stesso della terapia.
Poiché questi argomenti sono stati sovente e sono ancora trattati
dai medici in molti volumi ed in lunghi e accaniti dibattiti,
bisogna aggiungere certe precisazioni che potrebbero sembrare non
discostarsi dal vero74. Esse non sono né pienamente ossequiose verso
uno dei due punti di vista né troppo discordi da entrambi, ma, in un
certo qual modo, sono intermedie tra due diversi modi di pensare:
cosa che chi indaga, senza partito preso, la verità, può
cogliere in tutte le controversie, come avviene appunto nel caso
presente. Difatti quali siano le cause produttrici di buona salute o
provocatrici di malattie e quali siano i modi in cui viene tratto il
respiro o digerito il cibo, neppure gli esperti di filosofia
comprendono scientificamente, ma cercano di perseguire soltanto in
via di congetture. Ma, se di una cosa manca una conoscenza certa,
l’opinione che se ne ha non può trovare un rimedio che sia certo. Ed
è vero che allo stesso metodo razionale della terapia
nessuna cosa può dare un contributo maggiore dell’esperienza.
Ma, quantunque ci siano molte cose che non sono pertinenti alle arti
in sé, tuttavia le aiutano, stimolando la mente dell’artefice:
pertanto, anche codesta contemplazione della natura universale,
sebbene non basti a creare il medico, tuttavia lo rende più capace e
completo nella medicina. Ed è verosimile che Ippocrate ed
Erasistrato e quanti altri non si appagarono di trattare febbri ed
ulceri ma scrutarono per qualche lato la natura, non furono, di
certo, medici per questo motivo, ma senza dubbio, proprio in virtù
di ciò, risultarono essere medici molto superiori agli altri.
Difatti la stessa medicina ha bisogno della ragione, sebbene ciò si
verifichi non quando va indagando le «cause oscure» o le «azioni
naturali», tuttavia spesso <… … …>75. La medicina, invero, è
un’arte fondata su congetture. Ma il più delle volte non solo essa
non trova corresponsione nella congettura, ma neanche
nell’esperienza, e talvolta non la febbre né il nutrimento76 né il
sonno hanno il loro corso consueto. Alquanto di rado, ma pur sempre
qualche volta, la stessa malattia costituisce una novità; e che un
morbo nuovo non possa presentarsi è palesemente falso, se teniamo
presente che, ai nostri tempi, <c’è stata una signora, moglie di
un cavaliere romano>77, la quale spirò nello spazio di poche ore,
perché la carne le cadde giù dagli organi genitali e si incancrenì,
ed i medici più famosi non riuscirono né a scoprire il tipo di
quella malattia né a trovarvi i rimedi. Ed io penso che costoro non
fecero nessun tentativo, perché nessuno volle rischiare una propria
congettura su una persona di alto rango, per non sembrare di averne
provocata la morte se non fosse riuscito a salvarla; tuttavia è
verosimile che si sarebbe pur potuto escogitare un qualche rimedio,
se ci si fosse liberati da tale timidezza, e forse avrebbe avuto
buon esito qualche tentativo che si fosse cercato di sperimentare.
A questo tipo di intervento medico non sempre la «somiglianza»78
offre qualche contributo, e, se pur l’offre, lo fonda pur sempre su
un procedimento razionale, ossia sulla riflessione che, tra tipi di
malattie e di rimedi che siano simili tra loro, ci debba pur essere
un medicamento da utilizzare a preferenza di tutti gli altri. Quando
si presenta una situazione siffatta, è opportuno che il medico usi
qualche ritrovato che non avrà, forse, esito positivo in tutti
quanti i casi, ma tuttavia l’avrà con una certa frequenza. Egli
chiederà, comunque, qualche nuovo suggerimento non da «cose
nascoste» (queste, infatti, sono dubbie ed incerte), ma da quelle
che si possono accuratamente osservare, vale a dire da «cause
evidenti». È importante, infatti, sapere se la malattia sia dovuta
ad un affaticamento o alla sete o al freddo o al caldo o alla veglia
o alla fame ovvero, al contrario, a sovraccarico di cibo e di vino e
ad abuso di libidine.
Né il medico dovrebbe ignorare quale sia la natura del paziente, se,
ad esempio, il corpo di costui sia più umido o più secco del
normale, se i nervi siano vigorosi o deboli, se lo stato morboso sia
frequente o raro, e se, quando questo si presenta, sia accentuato o
leggero, di breve o di lunga durata, e quale tenore di vita il
paziente abbia seguito, faticoso o tranquillo, smoderato o frugale:
da queste e da altre simili cose, infatti, si può cavare un nuovo
metodo di cura.
Non possiamo, d’altra parte, ritenere esaurito neppure il precedente
argomento, quasi che in esso non si annidasse alcuna controversia.
Difatti lo stesso Erasistrato ammette che le malattie non derivano
da siffatte cause, giacché altre persone, o anche la medesima in
altre occasioni, non hanno avuto la febbre dopo che quelle cause si
sono riscontrate, e alcuni medici del nostro tempo, attenendosi –
come essi stessi pretendono di far credere – all’autorità di
Temisone, sostengono che non ha nulla a che vedere con la terapia la
conoscenza di alcuna causa e che è sufficiente l’«osservazione» di
certe caratteristiche generali di alcune malattie79. Del resto,
queste ultime si suddividerebbero in tre tipi: uno deriverebbe da
restrizione, uno da flusso e il terzo sarebbe misto. Difatti gli
infermi talora hanno secrezioni molto rare, talora molto frequenti,
talora per un verso troppo rare e per un altro troppo frequenti;
inoltre le malattie di questo genere talora sono acute, talora
croniche, ed ora si aggravano, ora si conservano stazionarie, ora
vanno attenuandosi. Una volta acclarato questo – ossia di quale
di questi tipi di malattie si tratti –, se il corpo è soggetto
a restrizione, bisogna usare lassativi; se soffre di flussi, bisogna
usare restringenti; se presenta una deficienza mista, bisogna prima
porre riparo al male più grave. E si deve usare un trattamento per
le malattie acute, un altro per quelle croniche, e uno per le
malattie in fase crescente, un altro per quelle stazionarie e un
altro ancora per quelle che vanno ormai verso la guarigione.
L’osservazione di tutti questi fattori – essi dicono –
costituisce la medicina, e definiscono quest’ultima come una
sorta di «via», che chiamano µέϑοδος, e sostengono che essa ha il
compito di contemplare quelle caratteristiche che nelle varie
malattie si presentano comuni. E non vogliono essere annoverati né
tra i Razionalisti né tra quelli che si attengono esclusivamente
all’esperienza, giacché – stando a quel che significa l’appellativo
di «Metodici» da loro assunto – essi dissentono dai primi perché non
ammettono che la medicina risieda nella congettura di cose nascoste,
e dai secondi perché credono esservi poca arte nell’osservazione
meramente empirica.
Per quanto concerne Erasistrato, in primo luogo
l’evidenza stessa è in contrasto col suo modo di pensare,
giacché è ben raro che una malattia si presenti se non dopo qualcuna
di queste cause; in secondo luogo non consegue che ciò che non
colpisce un’altra persona o anche il paziente medesimo in una
determinata circostanza, non sia nocivo ad un’altra persona o al
paziente stesso in una circostanza diversa80. Infatti possono
subentrare nel corpo – in correlazione o con la sua infermità o con
qualche altra sorta di affezione – certe condizioni che non esistono
in un altro o non sono esistite in questo stesso corpo in un’altra
circostanza, ed esse di per sé non sono tanto rilevanti da poter
provocare una malattia, ma tuttavia rendono il corpo
maggiormente esposto ad altre affezioni nocive. Ché, se Erasistrato
si fosse dedicato sufficientemente allo studio della natura
universale – studio di cui codesti medici81 tanto temerariamente si
van fregiando – avrebbe saputo anche questo: che, cioè, nulla accade
in senso assoluto per una sola causa, ma viene assunto al ruolo di
causa ciò che sembra aver dato il massimo contributo ad un
determinato fenomeno. Ed è possibile che una data cosa, fino a
quando resti isolata, non provochi alcun mutamento, ma, congiunta
con altre, ne provochi uno grandissimo. A tutto questo si
aggiunge il fatto che neppure lo stesso Erasistrato – il quale
asserisce che la febbre è prodotta dalla trasfusione del sangue
nelle arterie e che questo fenomeno si riscontra quando il corpo è
troppo ripieno – è riuscito a scoprire per quale motivo, fra due
corpi egualmente ripieni, uno si ammala e l’altro rimane immune da
ogni pericolo: il che manifestamente accade ogni giorno. Di qui si
può acclarare che, ammessa pure come vera la suddetta trasfusione,
tuttavia questa non si va attuando quando il corpo è pieno, bensì
quando vi si sia aggiunto un qualche altro fattore.
I discepoli di Temisone82, d’altra parte, se ritengono costantemente
validi i loro precetti, sono razionalisti più di qualsiasi altro.
Difatti, se uno non si attiene a tutto quello che è approvato da un
altro razionalista, non ha – esclusivamente per questo motivo –
bisogno di dare alla sua arte un appellativo diverso, se è vero che
(ed è questa la cosa più importante) egli si fonda non solo sulla
«memoria»83, ma anche sulla ragione. Ma se – cosa che si
accosta di più alla verità – l’arte della medicina accoglie a
malapena un qualche precetto che sia costantemente valido, i
Razionalisti vengono ad essere un tutt’uno con quelli che si fondano
esclusivamente sull’esperienza, e ciò tanto più, in quanto anche il
più profano riesce a scorgere se la malattia abbia provocato
restringimento o rilassamento. Se il rimedio che rilassa un corpo
costipato o quello che restringe un corpo rilassato viene dedotto da
un ragionamento, allora il medico è un razionalista; se, invece,
viene tratto dall’esperienza – come è portato necessariamente ad
ammettere chi nega di essere razionalista –, allora il medico è un
empirico. Così, secondo Temisone, la conoscenza di una malattia
è estranea all’arte, e quest’ultima si riduce alla pratica; e non si
è aggiunto niente altro a quello che gli Empirici professano, ma
qualcosa si è tolta, giacché gli Empirici badano a tutta una
molteplicità di fattori, mentre i seguaci di Temisone. badano
esclusivamente a quelli più semplici e non vanno oltre i luoghi
comuni. Difatti anche quelli che curano pecore e cavalli, non
potendo conoscere da parte dei muti animali le proprietà singole di
ciascuno di questi, si basano esclusivamente sulle caratteristiche
comuni; e le popolazioni straniere, non conoscendo le raffinatezze
della medicina, vedono soltanto le caratteristiche generali delle
malattie; inoltre, quelli che hanno la gestione di vasti ospedali,
poiché non riescono a badare a ciascun infermo pur col massimo zelo,
si rifugiano in codeste «caratteristiche comuni». E, per Ercole, i
medici antichi sapevano bene tutto ciò, ma non se ne
appagavano. Perciò, anche il più autorevole medico dell’antichità,
Ippocrate, disse che bisogna trattare l’ammalato osservando vuoi le
caratteristiche comuni vuoi quelle proprie di ciascuno. E neppure
codesti Metodici – pur tra i limiti da loro stessi fissati – possono
affatto essere coerenti con se medesimi, dal momento che c’è tutta
una varietà di malattie costipanti o rilassanti. Questa varietà si
può più facilmente vagliare in quelle malattie che provocano
rilassamento: una cosa, infatti, è vomitare il sangue,
un’altra la bile e un’altra ancora il cibo; una cosa è soffrire
di diarrea e un’altra di dissenteria; una cosa è sciogliersi in
sudore e un’altra essere consumati dalla tisi; e l’umore può
defluire con violenza anche in singoli organi, come avviene negli
occhi e nelle orecchie, anzi da questo rischio non è immune alcun
membro umano. Ecco perché nessuno di questi casi ha lo stesso
trattamento medico di un altro.
Così la medicina conserva una sua continuità nel
discendere dalla considerazione generica di un flusso morboso a
quella particolare. Ed anche in quest’ultima è, ancora una volta,
spesso necessaria un’ulteriore conoscenza delle particolarità,
poiché i medesimi rimedi non giovano a tutti anche nei casi
simili84. Del resto, ci sono certe determinate medicine che il più
delle volte fanno vuoi da astringenti vuoi da lassativi; ma, d’altra
parte, si trovano certe persone in cui il medesimo medicinale
produce effetti diversi che in altre: in questi casi l’osservazione
delle caratteristiche comuni è controproducente, mentre è salutare
quella delle caratteristiche particolari di ciascun paziente.
Ma anche la corretta valutazione della causa spesso risolve una
malattia. Perciò anche Cassio, che è stato il medico più geniale del
nostro tempo e che è recentemente scomparso, fece ingoiare acqua
fredda ad un tale che era affetto da febbre e soffriva di grande
sete, perché aveva saputo che costui si era sentito imbarazzato a
seguito di un’intossicazione per vino, e il paziente, dopo aver
bevuto l’acqua e aver infranto la violenza del vino con siffatta
miscela, subito sfebbrò con una dormita e con una sudata. E Cassio,
da buon medico, trovò opportunamente questo rimedio non in base alla
semplice constatazione che il corpo fosse costipato o rilassato, ma
in base a quella causa che precedentemente aveva agito.
Inoltre, secondo questi autorevoli medici, c’è anche qualche fattore
che va assegnato al luogo e al tempo: essi, quando discutono come si
debbano comportare le persone sane, consigliano di evitare il
freddo, il caldo, la sazietà, la fatica, gli atti venerei
maggiormente in località e periodi di tempo che siano più soggetti
ad infezioni, ed a chi avverte una pesantezza fisica, appunto in
queste località e in questi periodi, consigliano di stare a riposo e
di evitare di sconvolgere lo stomaco col vomito o il ventre con un
purgante. Tutti questi consigli generici sono senz’altro conformi
alla verità; tuttavia i medici discendono da casi generali a casi
particolari, a meno che essi non intendano persuaderci che il clima
e la stagione debbono essere tenuti presenti dalle persone sane e
non già da quelle inferme, mentre proprio queste ultime hanno tanto
maggior bisogno di rispettare ogni precauzione quanto più esposta ai
malanni è la loro infermità. Ché anzi le malattie, nei medesimi
soggetti umani, hanno peculiarità ognora diverse, e chi talvolta è
stato inutilmente tenuto sotto cura con rimedi affini al male, viene
spesso guarito con rimedi contrari85. Moltissime distinzioni, poi,
vanno tenute presenti nella somministrazione del cibo, ma io mi
appagherò di sottolinearne una sola: la fame è più agevolmente
tollerata da un adulto che da un ragazzo, più agevolmente quando la
pressione atmosferica è bassa che quando è alta, più agevolmente da
chi fa un solo pasto che da chi fa anche colazione la mattina, più
facilmente da un sedentario che da chi fa vita movimentata, e
sovente è anche più indispensabile che si affretti a cibarsi
chi non riesce proprio a sopportare il digiuno. Per tutti questi
motivi io penso che chi ignori le caratteristiche del singolo, debba
guardare solamente quelle che sono comuni a tutti, ma chi, invece,
ha F agio di conoscere le caratteristiche del singolo, non deve,
ovviamente, trascurare quelle comuni, bensì fondarsi anche sulle
prime: di conseguenza, ammesso un pari livello di conoscenza
scientifica, ritengo più utile un medico che sia divenuto amico
anziché uno che sia rimasto estraneo.
Orbene, per ritornare al mio tema, io penso che la
medicina debba indubbiamente non escludere la ragione, ma
lasciarsi, altresì, istruire da cause «evidenti» e tener bene a
distanza tutte quelle «oscure», non però dalla meditazione
delFartefice, bensì dal concreto esercizio dell’arte. Sezionare,
poi, i corpi di persone vive è crudele e superfluo, mentre sezionar
cadaveri è necessario, magari, agli apprendisti: infatti costoro
devono sapere la posizione e F ordine degli organi, e un cadavere li
fa vedere meglio di un vivente o di un ferito. Ma anche tutte le
altre cose che si possono conoscere in soggetti vivi saranno
mostrate, nel corso stesso della cura dei feriti, dalla pratica un
po’ più lentamente, ma con molto maggior delicatezza86.
Scopo dell’arte medica è la salute87, ed il fine è l’acquisizione di
questa. I medici, perciò, devono necessariamente conoscere i mezzi
con cui si possa procurare la salute quando essa non c’è, e si possa
tutelarla quando essa c’è. I mezzi che procurano la salute quando
essa non c’è si chiamano rimedi ed ausili; quelli, invece, che la
tutelano quando c’è si chiamano diete salutari. Per questo motivo
l’antica tradizione definisce la stessa medicina «scienza delle cose
salutari e di quelle morbose»88, chiamando «salutari» sia quelle
cose che tutelano la salute quando c’è, sia quelle che la recuperano
quando si è perduta, e chiamando, invece, «morbose» le cose
contrarie alle precedenti. Il medico ha, infatti, il dovere di
conoscere questi due gruppi di cose, per scegliere l’uno e per
evitare l’altro. Quale, però, sia la fonte da cui ci si procuri la
scienza di queste cose, non ancora è stato concordato da tutti allo
stesso modo, ma alcuni asseriscono che la sola esperienza basti
all’arte, ad altri, invece, sembra che anche la ragione le dia un
non piccolo contributo. Quelli che si basano esclusivamente
sull’esperienza assumono l’appellativo da quest’ultima e si chiamano
«Empirici»89; similmente quelli che si basano sulla ragione sono
chiamati «Razionalisti»90. E questi sono i due principali indirizzi
dell’arte medica: l’uno è quello che, per mezzo delle esperienze,
mira alla scoperta dei rimedi; l’altro è quello che vi mira per
mezzo di «indicazione»91. Ovviamente diedero questi appellativi
anche alle sette, chiamando l’una empirica e l’altra razionalista.
Ma si è creata anche la consuetudine di chiamare la setta empirica
«osservativa»92 e «memorativa»93 e di chiamare quella razionalista
«dommatica» e «analogistica»94. Anzi hanno fatto anche per i medici
la stessa classificazione che per le sette, chiamando «empirici» e
«osservativi» e «commemorativi dei fenomeni» quelli che hanno optato
per l’esperienza, e chiamando, invece, «razionalisti» e «dommatici»
e «analogisti» quelli che si sono attenuti alla ragione.
Gli Empirici affermano che il modo in cui l’arte medica si è formata
è il seguente.
Essi andavano constatando che, tra le molte affezioni che colpiscono
gli uomini, alcune si producono spontaneamente per infermi e per
persone sane – ad esempio, flusso di sangue dalle narici, sudori,
diarree o qualsiasi altra cosa siffatta che arrechi danno o utilità,
ma che, tuttavia, non abbia una causa efficiente sensibile –, altre,
invece, hanno una causa manifesta, ma tuttavia non corrispondente ad
una nostra previsione, bensì dipendente da una qualche congiuntura
casuale – come, ad esempio, in uno che è caduto o è stato colpito o
si è altrimenti ferito si riscontra un flusso di sangue; oppure, se
un infermo cede al desiderio e beve durante la malattia acqua fredda
o vino o altre bevande simili, ciascuna di queste gli può riuscire
utile o dannosa –. Perciò hanno chiamato «naturale» la prima specie
delle cose vantaggiose o dannose e «fortuita» la seconda, e il primo
manifestarsi visibile di ciascuna di queste due specie essi l’hanno
chiamato «accadimento», assegnandogli questo appellativo in base al
fatto che «accade» nella realtà delle cose senza alcuna
predeterminazione volontaria. Tale è, dunque, l’aspetto accidentale
dell’esperienza. Si ha, invece, quello «improvvisato», quando essi,
di loro propria volontà, giungono all’esperienza o perché sono stati
avvertiti da un sogno o perché vi sono stati indotti da qualche
altra opinione. Ma c’è anche una terza specie di esperienza, quella
«imitativa»95, quando, cioè, in base a ciò che abbia arrecato un
qualunque giovamento o un danno qualunque, il medico è spinto o per
natura o per caso o per improvvisazione a tentare un’esperienza
nell’atto stesso in cui le affezioni si presentano con immediatezza.
Ed è appunto quest’ultima sorta di esperienza che ha conferito, in
modo precipuo, una costituzione alla loro «arte». Infatti essi,
imitando non solo due o tre volte ma sovente quello che
precedentemente ha arrecato giovamento, e, in seguito, trovando che
una memoria siffatta produce – per lo più – il medesimo effetto
nelle medesime affezioni, le danno i connotati di una norma e la
ritengono ormai degna di credito e parte integrante dell’arte. E una
volta che siano state collezionate da loro molte norme siffatte,
tutta quanta questa loro collezione viene senz’altro identificata
con la medicina, e colui che l’ha fatta viene identificato col
medico.
Appunto questa collezione di dati fu da loro chiamata «autopsia»96,
che è una sorta di memoria di quelle cose che sono state viste
accadere spesso e allo stesso modo. Proprio questo essi hanno
chiamato anche «esperienza», mentre l’annotazione di questo l’hanno
chiamata «istoria»97. Difatti questa medesima cosa per colui che
l’ha osservata è «autopsia» e per chi ha imparato quello che è stato
osservato è «istoria».
Poiché, però, s’imbattevano in certe malattie che precedentemente
non erano state viste oppure in certe altre che erano, sì, già note,
ma che scoppiavano in luoghi in cui non c’era abbondanza di quei
rimedi che erano stati già suggeriti dall’esperienza, crearono un
artifizio funzionale che fosse in grado di trovare i rimedi, vale a
dire il «passaggio al simile»98 e, utilizzandolo spesso, applicano
per inferenza un medesimo ausilio anche passando da un’affezione ad
un’altra affezione simile; e così pure, passando da un posto del
corpo ad un altro, da un ausilio precedentemente noto pervengono ad
un altro che gli somiglia: da un’affezione ad un’altra, nel caso che
passino, ad esempio, dall’erisipela all’erpete; da un posto del
corpo ad un altro, ad esempio da un braccio ad una coscia; da un
ausilio ad un altro, ad esempio, in caso di diarrea, dalla mela
cotogna alla nespola.
Tutta questa sorta di passaggi è una via verso la scoperta; non c’è,
però, scoperta prima dell’esperienza, ma, non appena quello che era
oggetto di speranza viene ricondotto ad esperienza, ciò che da
questa viene attestato è già meritevole di credito, non meno che se
si fosse osservato che il più delle volte il suo stato è il
medesimo.
Questa esperienza, che consegue dal «passaggio al simile», essi la
chiamano «esercitativa», perché chi si accinge a fare una scoperta
in questo senso, deve essere pienamente esercitato nell’arte.
Tutti quanti i precedenti espedienti che si riscontrano prima
dell’ormai concreta esperienza e di cui l’arte aveva pur bisogno per
trovare un suo punto d’appoggio, possono anche far buona riuscita a
chicchessia.
Siffatto è, dunque, l’indirizzo che mira a conseguire il fine
dell’arte per mezzo dell’esperimento.
L’indirizzo razionalista, invece, prescrive di conoscere la natura
del corpo che si cerca di guarire e il potere di tutte quante le
cause che di giorno in giorno agiscono sul corpo e lo fanno
diventare più sano o più malato. I Razionalisti asseriscono che,
dopo di ciò, il medico deve conoscere scientificamente la natura
delle arie, delle acque e delle regioni99, nonché quella delle
occupazioni, dei cibi e delle bevande e delle consuetudini del
paziente, affinché possa scoprire le «cause» di tutte quante le
malattie e l’efficacia dei rimedi e possa, altresì, essere in grado
di congetturare e di calcolare che un certo farmaco, fornito di un
determinato potere, se viene adibito per una determinata specie di
causa, può produrre suppergiù un determinato effetto. Essi
affermano, infatti, che un medico non può possedere abbondanza di
rimedi senza essersi prima esercitato in varie guise nell’esame di
tutti quanti questi fattori. Ammettiamo, ad esempio, – perché da un
piccolo esempio tu possa renderti conto di tutta quanta la faccenda
– che una qualche parte del corpo sia indolenzita e indurita e sia
diventata rigida e troppo gonfia: a questo punto il medico ne deve
scoprire la causa, ossia, in primo luogo, che un umore maggiore di
quello naturale, confluendo in quella parte del corpo, l’ha
sollevata e, facendola dilatare, le ha procotto dolore; poi, se
l’umore continua ancora a fluire, deve impedirgli di fluire, e se,
invece, non vi fluisce, deve subito svuotarne quella parte. Ma come
farà ad impedire l’ulteriore flusso e, nello stesso tempo, a
svuotare quello che si è accumulato nella parte? Tenendo fredda e
fortemente stretta la parte, egli impedirà F ulteriore flusso; nello
stesso tempo, inumidendola e allentandola, svuoterà il flusso già
accumulato. In questo modo, dunque, in base allo stesso stato
affettivo, viene ai medici l’indicazione del rimedio conveniente.
Tuttavia i Razionalisti dicono che non basta solo quest’indicazione,
ma che se ne ricava un’altra dalle forze del malato, e un’altra
dalla sua età, e un’altra ancora dalla natura personale dello stesso
paziente; e così pure dalla stagione dell’anno e dalla posizione
geografica e dalle occupazioni e dalle consuetudini dell’infermo,
insomma da ciascuno di questi fattori, viene a risultare
un’indicazione particolareggiata del rimedio che si addice al caso.
Così – per rendere anche questo più chiaro con un esempio –
ammettiamo che un tale abbia una febbre acuta e che esiti a muoversi
ed avverta pesantezza fisica; ammettiamo anche che adesso egli sia
più gonfio di prima ed appaia più arrossato e che anche le sue vene
siano troppo gonfie: ad ognuno risulta indubbiamente che costui ha
un’eccedenza di sangue troppo caldo. Qual è, allora, il rimedio? È
chiaro: lo svuotamento. Questo, infatti, è contrario della pienezza:
«I contrari sono rimedi dei contrari!»100. Ma come effettueremo
quest’evacuazione e fino a qual segno? Questo, ormai, non si può
fare più in base alla conoscenza di una sola causa. Bisogna, allora,
preliminarmente esaminare anche le forze del paziente, la sua età,
la stagione dell’anno e la regione e le altre cose poc’anzi
mentovate. Se, infatti, il paziente è di robusta costituzione e nel
fiore dell’età e se la stagione è primaverile e il paese è di clima
temperato, tu non sbaglierai ad incidere una vena ed a svuotarla di
tanto sangue di quanto la causa del morbo ne richiede. Se, invece,
le forze sono fiacche e l’età è quella di un fanciullo molto piccolo
o di una persona molto anziana, e la regione è troppo fredda, come
nei paesi della Scizia, oppure troppo calda, come in quelli
dell’Etiopia, e la stagione dell’anno è o troppo fredda oppure
troppo calda, allora nessuno si azzarderà a tagliare una vena. Allo
stesso modo i Razionalisti prescrivono di fare attenzione alle
occupazioni e alle naturali costituzioni dei corpi. Essi dicono,
infatti, che da tutti quanti questi fattori vien fuori per loro un
«indicazione» appropriata del rimedio che fa al caso.
Dai medesimi fattori da cui i Dommatici desumono l’«indicazione »
del rimedio conveniente, gli Empirici desumono l’«osservazione».
Infatti il suddetto insieme dei sintomi che si riscontra in un
febbricitante e che i medici sono abituati a chiamare anche
«sindrome», al Dommatico suggerisce l’evacuazione, all’Empirico,
invece, la memoria di un’osservazione precedente. L’Empirico,
infatti, avendo visto sovente che, in pazienti che si trovino in
siffatte condizioni, l’evacuazione è vantaggiosa, spera che sarà
vantaggiosa se l’applicherà anche nella presente circostanza. Anzi
egli, in base a quanto ha visto il più delle volte, sa bene che i
pazienti nel fiore dell’età tollerano, senza soffrirne,
l’evacuazione adatta. Così pure di primavera piuttosto che d’estate,
e in luogo dal clima temperato, ed inoltre nel caso che l’ammalato
abbia una certa consuetudine all’evacuazione – ad esempio per via di
emorroidi o di fuoriuscita nasale –, il Dommatico per questi motivi,
spinto dalla realtà naturale, caverà via una maggiore quantità di
sangue, mentre l’Empirico, da parte sua, farà altrettanto,
attenendosi alle sue precedenti osservazioni.
Insomma, tanto i Dommatici quanto gli Empirici vengono ad assumere
gli stessi rimedi per le stesse affezioni, pur essendo tra loro in
dissenso in merito al modo di scoprirli. Infatti, sulla base dei
medesimi sintomi che si manifestano nel corpo, i Dommatici traggono
l’«indicazione della causa», mentre gli Empirici traggono la
«memoria delle cose che essi hanno spesso osservate manifestarsi
allo stesso modo». Nei casi, invece, in cui non hanno alcun sintomo
apparente che indichi la causa, i Dommatici non esitano ad
interpellare la cosiddetta «causa procatartica»101, ad esempio se ci
sia stata la morsicatura di un cane rabbioso o di una vipera o altra
cosa di tal genere. Infatti la ferita stessa, in ogni caso, non
appare per nulla maggiormente diversa dalle altre ferite di quello
che essa si manifesti già pienamente all’inizio. Nel caso di un cane
rabbioso, ad esempio, essa appare sempre del tutto simile alla
ferita di quanti sono stati morsicati da qualche altro animale; nel
caso delle vipere, invece, nei primi giorni appare simile alle
ferite inferte da altre bestie, ma in appresso, quando già i
pazienti hanno peggiorato, scoppiano in costoro certi patimenti che
sono la rovina del corpo. E tutti quanti questi sintomi siffatti che
derivano dagli animali cosiddetti velenosi, se non vengono
adeguatamente curati subito fin dall’inizio, alla fine risultano
letali. Qual è, allora, la giusta terapia? Ovviamente l’evacuazione
del veleno che, insieme col morso, è penetrato nel corpo che ha
subito la morsicatura. Pertanto non bisogna né cicatrizzare siffatte
ferite né affrettarsi a chiuderle, ma, al contrario, si devono
praticare frequenti incisioni, se si tratta di ferite eccessivamente
piccole; e per lo stesso motivo si devono subito usare farmachi
caldi e pungenti e capaci di risucchiare e prosciugare il veleno. Ma
anche gli Empirici usano i medesimi farmachi, non perché siano stati
indotti a trovarli dalla «natura» della cosa stessa, ma perché
rammentano quei fenomeni che si sonc manifestati tramite
l’esperienza. Come, infatti, per quello che concerneva le età della
vita e le stagioni e le località, essi venivano a conoscenza della
terapia di ciascuna delle sopraddette affezioni per mezzo
dell’esperienza, così si comportano anche per quanto concerne le
cosiddette cause procatartiche.
Se, pertanto, Dommatici ed Empirici si facessero concessioni
reciproche col confessare che entrambe le «vie» della scoperta seno
vere, non ci sarebbe affatto bisogno per loro di più lunghi
discorsi!
Poiché i Dommatici mettono sotto accusa l’esperienza – alcuni
ritenendola incostante, altri imperfetta, altri priva di arte – e
poiché, a loro volta, gli Empirici mettono sotto accusa la ragione –
ritenendola, sì, probabile102, ma non vera –, appunto perciò sia il
discorso degli uni sia quello degli altri è duplice e va troppo per
le lunghe.
Così, ciò che è stato detto da un Asclepiade contro l’esperienza,
quando egli ha dimostrato che «nulla può essere osservato allo
stesso modo più di una volta»103, intende significare che
l’esperienza è del tutto incostante e che non è idonea a trovare il
pur minimo rimedio. Ciò che, invece, è stato detto da un Erasistrato
nella sua ammissione che «per mezzo dell’esperienza si trovano
almeno rimedi semplici nei casi semplici» – ad esempio, che la
fragola selvatica è un farmaco contro lo scorbuto – e nel suo
diniego che, altresì, «per mezzo dell’esperienza si trovino rimedi
complessi nei casi complessi», intende significare che essa non è
affatto incapace di trovare un rimedio in senso assoluto, ma che,
tuttavia, non è sufficiente a trovare tutti quanti i rimedi. Le
affermazioni, infine, di quanti da una parte ammettono che siffatti
rimedi vengono trovati per mezzo dell’esperienza e dall’altra
accusano quest’ultima di essere indefinibile e lunga e, come essi si
esprimono, «priva di metodo» e che, in seguito a ciò, pongono come
fondamento la ragione, intendono significare che l’esperienza non è
né incostante né inconsistente, ma, comunque, un qualcosa che è
privo di arte.
Orbene, difendendosi dagli assalti di queste argomentazioni, gli
Empirici tentano di dimostrare che l’esperienza ha consistenza,
autosufficienza e competenza dell’arte, mentre in molte guise
attaccano il procedimento razionalistico, costringendo così i
Dommatici a difendersi, a loro volta, contro i singoli capi
d’accusa. Infatti, mentre costoro professano di conoscere la natura
del corpo umano e l’origine di tutte quante le malattie e
l’efficacia dei rimedi, gli Empirici vengono ai ferri corti e con un
atto di accusa sostengono che tutte queste cose arrivano anche al
«probabile» e al «verosimile», ma non implicano alcuna salda
conoscenza scientifica. Ed anche se qualche volta essi concedono che
queste cose la implicano, tentano, però, di dimostrare che la
conoscenza scientifica è priva di utilità. E se pur talora fanno
quest’altra concessione, ancora una volta mettono in rilievo che una
siffatta conoscenza è superflua.
Su questi punti Empirici e Dommatici polemizzano tra loro sotto un
profilo generale. Nei particolari, poi, la polemica abbraccia molte
questioni secondo ciascuno di loro, come, ad esempio, quella
concernente la scoperta delle «cause nonapparenti», giacché i
Dommatici raccomandano la dissezione dei corpi, l’«indicazione» e la
«speculazione dialettica» – difatti queste cose sono per loro
strumenti adatti ad estendere l’indagine sulle cose non-evidenti –,
mentre gli Empirici, dal canto loro, negano che con la dissezione si
faccia alcuna scoperta104 e che, se pur se ne facesse qualcuna,
questa sia indispensabile all’arte, e sostengono che l’«indicazione»
non sussiste proprio per niente e che, infine, tra due cose l’una
non può essere conosciuta in base all’altra.
A parer loro, infatti, tutte le cose abbisognano di essere
conosciute di per sé e non esiste alcun «segno»105 di una cosa che
sia per-natura-non-evidente e, per giunta, nessun’arte ha affatto
bisogno della dialettica106. Oltre a ciò, essi dichiarano la propria
ostilità contro le definizioni107 e sostengono anche che il
principio non si possa identificare con una dimostrazione di alcuna
cosa che sia per-natura-non-evidente108. Anzi essi fanno anche certe
affermazioni circa i modi difettosi della dimostrazione109 dei quali
sono soliti servirsi i Dommatici e circa ogni sorta di ragionamento
analogistico110, sia perché, a parer loro, questo è incapace di
trovare ciò che promette sia perché nessun’altra arte trova
consistenza in base ad esso né la vita ordinaria dell’uomo si svolge
in modo ad esso conforme.
L’epilogismo111, invece, che essi ritengono essere apparente, è,
secondo loro, utile alla scoperta delle cause «temporaneamente
non-evidenti» (con questo nome essi chiamano tutte quelle cause che
appartengono al genere dei sensibili, ma che, tuttavia, non si sono
ancora manifestate); esso è utile anche per la confutazione di
quanti osano fare qualche affermazione contro il fenomeno; ed è
utile, altresì, per additare ciò che sia sfuggito alla visione dei
fenomeni e per opporsi ai sofismi, dal momento che esso non si
discosta mai dall’evidenza, ma ha ognora quest’ultima come suo
oggetto. Con esso, dicono gli Empirici, non s’identifica
l’analogismo, giacché quest’ultimo prende l’abbrivo dal fenomeno e
va a finire nelle cose «perpetuamente non-evidenti» e, per questo
motivo, acquista tutta una pluralità di forme. Infatti, pur movendo
dal medesimo fenomeno, perviene ora a certe cose non-evidenti ora a
certe altre. E da qui essi fanno derivare quella «discordanza» che
rimane senza soluzione e che è, secondo loro, un indizio
dell’incomprensione delle cose112. Così essi chiamano «comprensione»
la conoscenza vera e salda, e «incomprensione» il contrario di
questa, e affermano che l’incomprensione è causa della discordanza
che rimane priva di soluzione, e che, a sua volta, la discordanza è
un indizio dell’incomprensione. E sostengono che è privo di
soluzione il dissenso che verte sulle cose nonevidenti, non già
quello che verte sui fenomeni: difatti tutto quello che rientra
nell’ambito dei fenomeni è una testimonianza a favore di chi dice la
verità ed è una confutazione di chi mentisce.
Su una infinità di cose siffatte tenzonano tra loro Empirici e
Dommatici, ma attuano la medesima terapia per le medesime affezioni,
almeno quanti sono, in ciascuno dei due indirizzi, legittimamente
provetti.
I cosiddetti Metodici – questo nome se lo sono affibbiato loro
stessi, quasi che non anche i Dommatici, già prima di costoro,
fossero stati soliti asserire di por mano all’arte con metodo – mi
sembrano non solo polemizzare a parole con gli indirizzi precedenti,
ma dare anche un nuovo assestamento a molte operazioni dell’arte.
Sono proprio costoro, infatti, a sostenere che neppure il posto del
corpo umano colpito da un’affezione sia di alcuna utilità per
l’indicazione della terapia, e neanche la causa o l’età o la
stagione dell’anno o la regione, né l’accurato esame delle forze
fisiche del paziente o della costituzione naturale o dello stato di
costui. Essi non si curano né delle stagioni dell’anno né delle
posizioni geografiche né delle consuetudini, ma asseriscono che a
loro basta l’«indicazione» del rimedio opportuno soltanto in base
alle affezioni, e neanche in base a queste in modo dettagliato, ma
considerandole in modo comune e sotto un profilo generale, e
chiamano «comunanze» appunto quelle manifestazioni che percorrono
tutte quante le cose particolari. Così, nel trattare qualsivoglia
infermità dovuta all’alimentazione, alcuni di loro cercano di
indicare, in senso assoluto, due comunanze, altri anche una terza
che è mista di entrambe le precedenti. A questi stati morbosi hanno
dato il nome di «astrizione» e di «flussione», ed affermano che ogni
malattia è o astretta o fluida oppure l’una e l’altra cosa insieme.
Se, infatti, le evacuazioni naturali dei corpi vengono trattenute,
parlano di astrizione; parlano, invece, di flussione, quando le
evacuazioni si effettuano più del normale; quando, infine, le
evacuazioni vengono in parte trattenute e in parte effettuate,
dicono che in ciò consiste l’intreccio di entrambe le affezioni,
come avviene nel caso dell’occhio che soffre contemporaneamente di
infiammazione e di deflusso: infatti l’infiammazione, che è
un’affezione «astretta», quando non sia sola ma si sia prodotta
insieme con un deflusso in un solo e medesimo posto del corpo, rende
complessa tutta quanta l’affezione. Come rimedio conveniente essi
suggeriscono il rilassamento per le astrizioni e la compressione per
le flussioni. Se, infatti, putacaso, un ginocchio è infiammato,
sostengono che esso deve stare rilassato; se, invece, l’addome o
l’occhio emettono fluidi, devono essere compressi e tenuti fermi;
nei casi, infine, di affezioni complesse bisogna opporsi a quella
che incalza di più: secondo loro, infatti, bisogna contrastare ciò
che maggiormente affligge ed è pericoloso – vale a dire l’affezione
più forte – piuttosto che l’altra.
Ma perché mai essi non si sono definiti «dommatici», dal momento che
trovano gli ausili medici per mezzo di «indicazione»?113. «Perché –
essi rispondono – i Dommatici vanno scrutando ciò che è
non-evidente, mentre noi ci soffermiamo sui fenomeni».
In fin dei conti essi definiscono li’nterò loro indirizzo in questo
modo: «conoscenza delle comunanze fenomeniche». Per evitare, però,
che la definizione sembri essere comune a tutte quante le altre arti
– infatti essi reputano che anche queste ultime siano conoscenze di
comunanze fenomeniche –, essi fanno la seguente aggiunta: «comunanze
che perseguono il fine della medicina». Alcuni di loro, invece,
hanno aggiunto non «che perseguono il fine», ma «che si conformano
al fine». Ma la loro stragrande maggioranza mette insieme entrambe
le cose e afferma che «il metodo è conoscenza di comunanze
fenomeniche che si conformano al fine della medicina e lo
perseguono». Certuni, infine, come anche Tessalo, precisano: «di
comunanze appropriate e necessarie».
Ecco, dunque, i motivi per cui i Metodici non ritengono di doversi
chiamare né Dommatici – giacché non sentono, come quelli, il bisogno
di ricorrere alle cose non-evidenti – né Empirici – giacché si
distinguono da costoro a causa dell’«indicazione», quantunque si
soffermino massimamente sui fenomeni –. Anzi essi affermano di non
essere d’accordo con gli Empirici neppure per il modo con cui
trattano il fenomeno: gli Empirici, infatti, si tengono lontani
dalle cose non-evidenti perché le ritengono inconoscibili, essi,
invece, perché le ritengono inutili.
I Metodici dicono che gli Empirici posseggono l’«osservazione dei
fenomeni», mentre essi ne posseggono l’«indicazione». In ciò, a loro
avviso, consiste la differenza tra i due indirizzi, ma ancor più la
differenza sta nel fatto che i Metodici tolgono di mezzo stagioni
dell’anno ed età e posizioni geografiche e tutte quante le altre
cose di tal genere, che, a loro avviso, sono manifestamente inutili,
ma sono tenute in gran conto dai medici precedenti solo per fare
bella mostra di sé. Essi asseriscono che questo è il lato più
positivo del loro indirizzo medico e ritengono di trarne vanto ed
ammirazione.
Ovviamente, però, costoro rimproverano chi114 disse «breve è la vita
e lunga è Farte»: a loro avviso, invece, è vero tutto il contrario,
ossia che quest’ultima è breve, e la vita è lunga. Infatti, una
volta che siano state eliminate tutte quelle cose che falsamente si
sono reputate vantaggiose all’arte e una volta che noi prendiamo
esclusivamente in considerazione le comunanze, la medicina non è più
lunga, e neppure difficile, ma molto piana e perspicua e può essere
tutta quanta conosciuta molto celermente nello spazio di sei mesi.
Così, ad esempio, nelle malattie guaribili con la dieta, tutto è
bello e riportato entro limiti ristretti, e lo stesso si dica per le
malattie che richiedono intervento chirurgico o farmaceutico. Anche
nell’ambito di queste essi cercano, invero, di scoprire, in linea
generale, certe comunanze e suppongono che gli scopi dei rimedi
siano di numero molto limitato; sicché mi sembra che l’intera loro
arte si possa imparare alla perfezione non già nei loro millantati
sei mesi, ma anche molto più presto115. Dobbiamo, anzi, ringraziarli
di un magistero tanto succinto, purché essi, però, non ci vengano a
dire corbellerie. Se, poi, le dicono, li dobbiamo accusare per lo
meno di sciatteria!
Ma perché, a mio avviso, si possa dare un giusto giudizio sui
Metodici, dovrò ormai dichiarare che costoro o sono accecati dal
loro utilitarismo oppure sono gli unici ad evitare in misura
corretta il superfluo. E questa disamina non mi sembra affatto di
scarso conto, né mi sembra che si faccia soltanto questione di
parole – come accadeva, invece, nel caso degli Empirici e dei
Dommatici che polemizzano inizialmente sul modo di ritrovare gli
ausili medici, ma sono poi d’accordo sull’attuale utilizzazione di
quelli –, ma che necessariamente, da parte dell’indirizzo metodico,
le operazioni dell’arte abbiano a ricevere g gravi danni o forti
vantaggi.
Poichéè duplice il modo di dare un giudizio sulla realtà delle cose
– l’uno fondandosi esclusivamente sulla ragione, l’altro
sull’evidenza fenomenica –, il primo, ossia quello che si avvale
della sola ragione, è troppo impegnativo per essere presentato ai
principianti (e, pertanto, non è il caso di soffermarci ora su di
esso), l’altro, cioè quello che si avvale esclusivamente delle
manifestazioni fenomeniche, è comune a tutti gli uomini. Niente,
dunque, ci impedisce di servirci di quest’ultimo, che nello stesso
tempo risulta chiaro ai principianti ed è tenuto in gran conto anche
dai Metodici. Costoro, invero, non fanno altro che elevare
continuamente inni al fenomeno ed evocarlo in ogni evenienza, mentre
dicono, d’altro canto, che ogni cosa non-evidente è inutile116.
Orbene, mettiamoci ad esaminare in primo luogo le cosiddette «cause
procatartiche» e poniamo il fenomeno come canone del giudizio. Per
primo il Metodico si faccia avanti e parli così: «Perché mai voi
altri, o Dommatici ed Empirici, vi date tanto da fare per cercare
vari tipi di raffreddamento o riscaldamento, di ebbrezza e
indigestione, di sazietà ed inedia, di rilassatezza ed energia, e
tanto assortimento di cibi e tanti mutamenti di consuetudine? Forse
che vci, senza tener conto delle attuali disposizioni del corpo, vi
proponete di dare un rimedio a queste cose, che dapprincipio non
sono affatto presenti – neppure una sola di esse – e poi di per sé
si dileguano, mentre, in realtà, bisogna fare la terapia di quello
che da esse è generato e rimane nel corpo, vale a dire
dell’affezione? Appunto quest’ultima, allora, è quella che si deve
indagare nella sua reale consistenza. Se, infatti, il corpo è
astretto, bisogna renderlo fluido, e se è fluido, bisogna
astringerlo, qualunque sia la causa da cui ciascuna di queste due
affezioni sia stata prodotta. A che giova, ormai, la conoscenza
della causa, dal momento che un riflusso non ha mai bisogno di
rilassamento, e una costipazione non ha mai bisogno di astrizione?
Tale conoscenza non approda a nulla, come la realtà stessa delle
cose dimostra».
Allo stesso modo i Metodici parlano anche delle cause non-evidenti
che vengono chiamate «comprensive»117. Anche queste – essi affermano
– sono superflue, giacché basta l’affezione ad indicare la propria
terapia, anche se si prescinda dalla conoscenza delle cause da cui
l’affezione è stata prodotta.
Con lo stesso modo di argomentare essi passano a trattare delle
stagioni dell’anno e delle età e delle località, mostrando anche qui
di stupirsi del fatto che i medici all’antica non si rendono conto
di una cosa tanto evidente. Infatti l’infiammazione che, come essi
dicono, è una malattia «astretta» non ha bisogno di certi lassativi
se capita d’estate, e di certi altri se capita d’inverno, bensì dei
medesimi in entrambe le stagioni; né ha bisogno di lassativi nella
fanciullezza e di astringenti nella senilità, né richiede farmachi
dissolventi in Egitto e trattenenti ad Atene. Così pure l’affezione
fìussiva, che è l’opposto dell’infiammazione, non ha mai bisogno di
lassativi, ma sempre di astringenti, d’inverno e d’estate, di
primavera e d’autunno, sia quando il paziente è ragazzo, sia quando
è giovane o vecchio, tanto se l’ammalato abiti verso la Tracia
quanto se abiti verso la Scizia o l’Etiopia.
I Metodici affermano, dunque, che nessuno di questi fattori è utile
a nulla e che per ciascuno di essi ci si dà da fare invano.
Che cosa è, poi, l’accurata disamina delle parti del corpo? Non sono
forse superflue anche queste per l’indicazione di una terapia? A
meno che qualcheduno non osi dire che nella parte nervosa
l’infiammazione deve essere rilassata, mentre nella parte arteriosa
o in quella venosa o in quella carnosa deve essere compressa, o
addirittura qualche tizio sia tanto sballato da affermare che, se si
produce un’astrizione in una qualche parte del corpo, non bisogna
rilassarla, e che, se si produce una flussione, non bisogna
astringerla. Se, allora, la natura di una parte del corpo non fa
mutare per niente il modo della cura, ma il ritrovamento dei
soccorsi si effettua a seconda del genere delle affezioni, la
disamina della parte risulta manifestamente inutile.
A dirla in breve, ecco come la pensa il Metodico.
Ma, dopo di lui, si faccia avanti, in secondo luogo, l’Empirico,
parlando suppergiù nel modo seguente: «Io non so nulla oltre i
fenomeni e dichiaro che non c’è nulla di più saggio di quelle cose
che ho viste di frequente. Se, però, vuoi minimizzare la portata del
fenomeno, come mi sembra di aver udito che abbia fatto nel passato
qualche sofista, e se per noi è ormai tempo di passare alla parte di
quelli che al fenomeno conferiscono onore, non potrai neanche
conseguire una vittoria cadmea118. Ma se – come all’inizio ti ho
udito dire – tu continui ad affermare che tutto
ciò-che-è-non-evidente non ha utilità alcuna, e se ammetti di
attenerti all’evidenza, forse potrò rinfrescarti la memoria a
proposito del fenomeno segnalandoti un aneddoto che tu non tieni
presente.
Due uomini, morsicati da un cane rabbioso, si diressero ciascuno dal
proprio medico curante. Era piccola la ferita di ciascuno dei due,
tanto che neppure la pelle era stata interamente lacerata. Pertanto
uno dei due medici si mise a curare soltanto la ferita, senza
preoccuparsi affatto d’altro, e in pochi giorni riuscì a risanare la
parte. L’altro, invece, poiché era venuto a sapere che il cane aveva
la rabbia, si guardava così bene dall’affrettarsi a cicatrizzare la
ferita, che anzi faceva ognora esattamente il contrario e la rendeva
sempre più ampia, usando per parecchio tempo medicamenti forti e
pungenti, e costringeva il paziente, durante questo tempo, a bere un
farmaco che, come egli stesso diceva, era stato preparato contro la
rabbia. La vicenda si concluse per entrambi nel modo seguente:
l’uno, ossia quello che beveva il farmaco, uscì di pericolo e
recuperò la salute; l’altro, invece, che credeva di non avere alcun
male, divenne ben presto idrofobo e morì tra le convulsioni.
Ti sembra, dunque, che, in casi come questo, sia superflua
l’investigazione della causa procatartica? E per quale altro motivo
morì quel poveretto se non per la sciatteria del medico, che non
aveva chiesto nulla sulla causa della malattia e non aveva
somministrato contro di essa la terapia che era stata
precedentemente osservata? A mio avviso quel poverino morì non per
un altro motivo, ma soltanto per questo! E poiché mi attengo al
fenomeno, io non posso trascurare nessuna causa di tal genere.
Allo stesso modo non posso né soprassedere all’età né tenerla in
poco conto. Anche a questa, infatti, il fenomeno mi costringe a dar
credito, dal momento che affezioni sotto ogni profilo identiche non
richiedono in ogni caso la medesima terapia, ma talvolta
differiscono tra loro a seconda della diffedell’età, a tal punto che
variano non solo per la quantità e per le modalità, ma per Tintero
genere dei soccorsi richiesti. Difatti io ho visto sovente molti
malati di pleurite giovani e robusti subire una flebotomia anche ad
opera delle mie mani, ma non ho visto sottoporsi a questa operazione
né un vecchio di età estrema né un bimbo di età molto tenera. E
neanche voi avete osato procurare in questi casi un’evacuazione
attraverso il taglio delle vene, né lo ha fatto mai alcun altro. E
che intende significare Ippocrate quando afferma: «Sotto la canicola
o prima della canicola le purghe hanno un corso difficile» o quando,
in un’altra occasione, sostiene: «D’estate bisogna purificare le
parti superiori, d’inverno quelle inferiori»? Ti sembra che egli sia
nel vero o nel falso? Io penso che voi non abbiate la possibilità di
rispondere né in un senso né nell’altro. Infatti, se voi direte che
egli è nel falso, non rendete onore alle apparenze fenomeniche che
pur fate mostra di rispettare: appare chiaro, infatti, che la verità
sta proprio in ciò che Ippocrate afferma. Se, invece, direte che
egli è nel vero, allora voi venite a prendere in considerazione le
stagioni dell’anno e le località, che pur dichiaravate non essere
utili.
Ma io penso che non vi siate mai allontanati dalla vostra patria e
che non abbiate fatto mai esperienza della diversità delle regioni;
altrimenti voi sapreste, senz’altro, che quelli che vivono nel nord
non riescono a tollerare abbondanti deflussi di sangue, come non li
tollerano né gli Egiziani né quanti abitano nelle regioni del sud;
invece quelli che risiedono nei paesi intermedi ricevono spesso un
sollievo manifesto dal salasso.
Il fatto, poi, che voi non vi degnate di esaminare neanche le parti
del corpo mi sembra davvero strano e gravemente assurdo, essendo
esso in contrasto non solo con la verità delle cose, ma anche con le
vostre stesse pratiche. In nome degli dei! Se si riscontra
un’infiammazione, questa ha bisogno del medesimo trattamento tanto
se essa appare su una gamba quanto se in un orecchio o nella bocca o
in un occhio? Ma, allora, perché vi ho visto tante volte scindere
anche con un bisturi le infiammazioni alle gambe e spalmarle di
olio, e non vi ho mai visto comportarvi nella stessa maniera con gli
occhi? E perché gli occhi infiammati li curate con farmachi
astringenti e non ungete, invece, con i medesimi farmachi anche le
gambe? E perché mai anche le orecchie affette da infiammazione non
le trattate con gli stessi rimedi che usate per gli occhi? E perché
non gli occhi con quelli che usate per le orecchie? Ma uno è il
farmaco che ci vuole per l’infiammazione auricolare e un altro
quello che ci vuole per quella oculare. Infatti è buona medicina per
l’infiammazione auricolare l’aceto misto con olio di rosa, ma non
credo che qualcuno avrà l’ardire di versarlo in occhi infiammati! E
se pure l’osasse, io so bene che sperimenterà non piccola punizione
per il suo ardire! E per l’infiammazione all’ugola è buon medicinale
il frutto dell’acacia egiziana ed è buona anche una soluzione di
allume. Ma sono altrettanti buoni questi medicinali per le otiti e
per le oftalmiti, oppure, in questi casi, costituiscono un danno
gravissimo? E dico tutto questo anche a voler concedere la prima
vostra ipotesi, che, cioè, bisogna rilassare l’infiammazione alle
gambe o alle mani, e non già quella agli occhi o all’ugola o alle
orecchie. Se, invece, io richiamassi alla vostra memoria che anche
l’infiammazione alle gambe o alle mani non deve essere trattata con
un lassativo qualsiasi, subito vi rendereste conto, con un po’ di
circospezione, che sbagliate di grosso.
Ma anche l’attuale discorso sarà una «reminiscenza»119
dell’apparenza fenomenica. Infatti, tra quanti soffrono
d’infiammazione ad una parte del corpo non a motivo di un colpo
ricevuto ma per uno spontaneo insorgere del male – quando si tratti,
cioè, della cosiddetta «disposizione pletorica» –, nessuno richiede
un rilassamento della parte del corpo prima di avere svuotato
l’intero organismo. Infatti, se agirai alla prima maniera, non solo
non farai diminuire, ma anzi accrescerai l’attuale infiammazione.
Ragion per cui, in una circostanza come questa, noi applicheremo
alla parte astringenti e refrigeranti e, quando avremo svuotato
l’intero organismo, solo allora la parte affetta da infiammazione
tollererà lassativi.
Ma se, così parlando, non riesco a persuadervi, allora – come dicevo
all’inizio del mio discorso – sarà opportuno che io vi lasci per
dare retta a quelli che realmente rispettano il fenomeno».
Dopo che l’Empirico ha così parlato, si faccia avanti il Dommatico e
dica, presso a poco, così: «Se il tuo modo di pensare fosse quello
giusto, ti sarebbero sufficienti anche i precedenti rilievi per
stabilire che non è affatto inutile tener conto non solo dell’età o
della stagione dell’anno o della località, ma anche della causa
procatartica o di ogni parte del corpo umano. Se, però, l’Empirico
non è riuscito ancora a persuaderti col rievocare alla tua memoria i
fenomeni, ma hai ancora bisogno di una qualche argomentazione, ci
penso io a fare quest’aggiunta e verrò a dimostrare che il postulato
fondamentale del tuo indirizzo è traballante.
Io vi sento parlare di «conoscenza di comunanze fenomeniche» e vado
chiedendovi ogni volta in che cosa consista massimamente codesta
«comunanza» e in che modo noi riusciamo a conoscerla, ma mi sembra
di non avere ancora la possibilità di conoscerla. Voi siete tutti
quanti d’accordo tra voi in merito alla causa, almeno per quanto
concerne i nomi, ma non siete affatto d’accordo sulla realtà delle
cose. Infatti alcuni di voi, nelle escrezioni non naturali,
consigliano l’astringente e il rilassante, e chiamano l’affezione
«astrizione» quando le escrezioni sono trattenute, e la chiamano,
invece, «flussione» quando quelle vengono eccessivamente emesse;
altri tra voi, invece, sostengono che le affezioni risiedono nelle
rimanenti «disposizioni»120 dei corpi e biasimano aspramente quelli
che mirano allo svuotamento di questi ultimi. In che senso, a mio
avviso, gli uni e gli altri si sbagliano, forse ve lo potrei
immediatamente mostrare fin da questo momento.
In primo luogo, però, il nostro discorso si soffermi contro quelli
che aggiudicano le affezioni alle escrezioni non naturali. A dire il
vero, io resto meravigliato se essi non hanno visto mai, nel decorso
delle malattie, essere emessi a vantaggio del paziente né sudori né
urine né vomiti né defecazioni più del normale e, cosa più assurda
di tutte, se non hanno mai visto essere ritenuta come malattia
un’emorragia nasale. In realtà, però, non solo se quest’ultima si
produce in grande quantità, ma se soltanto si manifesta in maniera
generica,è contro natura; invece i sudori e le orine e tutte le
altre escrezioni che escono attraverso il ventre o il vomito non
sono, in quanto genere, contro natura, quantunque la loro quantità
sia tanto eccessiva che io ho visto taluni emanare tanto sudore da
inzuppare persino le coltrici, ed altri emettere dalla pancia più di
trenta cotili di escrementi, e sembrava che ciascuna di queste
emissioni avesse termine soltanto con l’evacuazione del materiale
che recava fastidio; quantunque chi usa come canone generale le
naturali escrezioni deve impedire che si produca un tal genere di
sintomi. Perciò, in un certo senso, sembrano essere più meritevoli
di credito quanti identificano le comunanze con le «disposizioni»
che sono presenti nei corpi stessi. Ma, anche a proposito di queste
disposizioni, io mi chiedo con meraviglia come mai i Metodici
abbiano osato dire che esse sono manifeste. Se, infatti, ciò che
defluisce dai corpi non è il flusso ma la disposizione dei corpi da
cui il flusso stesso deriva, e se questa non può manifestarsi ad
alcuno dei nostri sensi, come mai si potrà ancora asserire che le
«comunanze» sono manifeste? Infatti è possibile che la disposizione
naturale risieda nell’intestino crasso o in quelli più sottili, e
nell’intestino digiuno e nello stomaco e nel mesenterio e in molte
altre interiora, nessuna delle quali i nostri sensi possono
percepire, come non possono neanche percepire un’affezione della
disposizione stessa. Come si fa, allora, a dire che le comunanze
sono manifeste, se non c’è nessuno di voi che voglia chiamare
«apparente» neppure la conoscenza che si consegue per mezzo di
«segni»?
Se, però, la faccenda sta così, io non so in che cosa consista la
differenza tra i Medici Metodici e quelli Antichi!121
Come fanno essi, poi, a promettere di insegnare l’arte con rapidità
e in soli sei mesi? A mio avviso, ci sarebbe bisogno di un metodo
non affatto breve per conoscere qualcosa che sfugge ai sensi, ma chi
voglia bene eseguirlo ha anche bisogno di anatomia – la quale gli
insegni la posizione naturale di ciascuna delle parti interne del
corpo – e di non poca contemplazione della natura, per indagare la
funzione e l’uso di ciascuna di queste parti. Se prima non si
scoprono tutte queste cose, non è possibile distinguere l’affezione
di nessuna delle parti che stanno nella profondità del corpo.
Va da sé che anche in questo settore si trae una grande utilità
dalla dialettica per sapere con chiarezza che cosa si ricavi da che
cosa e per non essere in nessun caso abbindolati dai sofismi né di
altri né di noi stessi, giacché si può con evidenza riscontrare che
anche noi, nostro malgrado, ci lasciamo ingannare dai sofismi122. E,
per altro, io volentieri chiederei a loro che cosa è il deflusso, se
essi avessero imparato a sostenere un dibattito. Non credo, a dire
il vero, che sia sufficiente soltanto quello che è stato detto da
alcuni di costoro – che, cioè, il deflusso è una «disposizione
contro natura» –. Infatti, se noi non abbiamo imparato che cosa sia
la disposizione, non riusciremo a sapere più nulla, cioè se essa sia
rilassamento o rammollimento o rarefazione; che neppure dalle loro
parole è possibile capire nulla di chiaro, ma udiamo soltanto quello
che passa loro per la testa, ora questo e ora quello e ora, anche,
questo e quello insieme, come se non vi fosse differenza alcuna. E
se uno tenta di insegnare in che senso queste cose differiscano tra
loro e che ciascuna di esse richiede una contemplazione tutta
particolare, non ce la fanno ad ascoltarlo, ma si mettono ad
incolpare gli Antichi, dicendo che quelli hanno invano formulato
queste definizioni. Tale è il loro stato di pigrizia nella ricerca
della verità!
Anzi essi non tollerano neanche di udire che a ciò-che-è-rilassato è
contrario ciò-che-è-condensato, al molle il duro, al raro il denso e
che, oltre tutto questo, una cosa è il contenimento delle naturali
escrezioni, un’altra è il loro deflusso, e che tutti questi termini
sono stati definiti alla perfezione da Ippocrate. Ma, per quanto
concerne proprio queste cose, essi si rivelano frettolosi e con
grossa improntitudine asseriscono che l’infiammazione (così essi
chiamano la massa dura, resistente, dolorosa e calda) è un’affezione
«astretta». In altre occasioni, invece, altre specie di
infiammazioni essi le chiamano «complicate», come quelle oftalmiche
che si presentano accompagnate da deflusso, e così pure quelle alle
tonsille, all’ugola, al palato e alle gengive. Di poi, essi
suppongono che esistano «pori»123 – alcuni diradati, altri
addirittura aperti – e che, perciò, abbiano avuto luogo entrambe
quelle affezioni. Alcuni, anzi, non esitano ad affermare che in un
solo e medesimo poro possono insieme coesistere flussione e
astrizione, cosa che non è facile neppure a pensarsi! Tanto pieni di
temerarietà essi sono in ogni faccenda! Pochi di loro, tuttavia,
hanno la capacità di sottoporsi un po’ di più all’ascolto e
all’esame di tutte queste cose e, finalmente, a stento si ritrattano
e si volgono alla verità. E appunto per costoro e per quanti
vogliano imparare con una certa esattezza alcuni rudimenti sulle
affezioni più importanti e generali, ho composto uno scritto a
parte.124 Ma nell’attuale circostanza vale la pena di dire poche
parole ai principianti contro i Metodici. E mi augurerei che anche
costoro ne ricevessero un qualche giovamento, e certamente lo
riceverebbero, se smettessero di fare polemica e si mettessero ad
esaminare tra loro stessi il mio ragionamento.
Il discorso mio è questo: l’infiammazione, come anch’essi la
chiamano, è una massa innaturale dolorosa, resistente, dura e calda,
la quale, per proprio conto, non rende affatto la parte colpita più
rara o più dura o più densa dì quanto fosse prima, ma la riempie di
un umore superfluo e, perciò, la rende più tesa. Ciò non vuol dire
che un qualcosa, se è completamente teso, sia diventato più denso o
più duro di quanto fosse prima. Il che si può imparare dalle pelli e
dai tessuti e dalle chiome, se ci si sforza a stenderli quanto più è
possibile. Allo stesso modo anche il rimedio per le parti troppo
cariche di umori è l’evacuazione, giacché questa è il contrario
della pienezza. Appena evacuati gli umori, si ha subito il
rilassamento delle parti. La tensione è indubbiamente una necessaria
conseguenza del riempimento delle parti del corpo, come la
distensione è una conseguenza del loro svuotamento. Ma la
condensazione e la rarefazione125 non sono affatto una conseguenza
necessaria né di una né di un’altra delle due cose, anzi non lo sono
nemmeno la flussione o la ritenzione. Infatti, se un qualcosa è di
già raro, non è affatto necessario che da esso, in ogni caso, si
produca un flusso, giacché quest’ultimo non si riscontra per niente
qualora ciò che in esso è contenuto sia grasso o in lieve quantità.
Ne, se un qualcosa è denso, viene necessariamente trattenuto,
giacché ciò che è abbondante e sottile fluisce attraverso i pori,
anche se questi sono densi.
Sarebbe, dunque, stato meglio che anche i Metodici si fossero messi
a leggere i libri degli Antichi e avessero imparato in quanti modi
ciò che prima è trattenuto in una parte del corpo, viene poi
nuovamente emesso per escrezione. Infatti, quando diventa raro il
contenente, anche il contenuto viene a rarefarsi e ad ampliarsi, e
si muove con maggiore velocità e viene attratto da qualcosa di
estraneo e, per così dire, è riassorbito da qualcosa che sta dentro
di esso.
Chi, però, trascura tutti questi dettagli e ritiene come unica causa
dell’evacuazione la rarità dei pori, mostrerà di non conoscere
neppure le apparenze fenomeniche. Difatti noi vediamo con evidenza
che la lana o la spugna o qualsiasi altro oggetto altrettanto raro,
se hanno un po’ d’umido nel loro interno, lo trattengono e non lo
emettono, ma, se ne hanno in quantità maggiore, lo fanno colare.
Perché mai, allora, anche a proposito delle orecchie e delle narici
e della bocca e di tutte le altre parti del corpo altrettanto rare,
non hanno fatto le medesime considerazioni, ossia che, anche nella
quantità dell’umore contenuto in esse, si può avere un qualche
deflusso non causato dalla rarità dei pori? Del resto, noi vediamo
sovente anche certi orciuoli fatti di materiale così diradato che ne
cola fuori l’acqua, ma, se si versa miele, questo non cola, giacché
la sostanza del miele è più grassa dei pori dell’orciuolo.
Certamente, pertanto, non sarebbe stato fuori luogo prendere in
considerazione anche questo: che, cioè, sovente un qualcosa
defluisce a motivo della sua sottigliezza, ancorché lo stesso corpo
contenente non presenti, per sua costituzione, alcun poro. Ma un
uomo che con diligenza e per molto tempo si sia dedicato
all’attività dell’arte, quale difficoltà avrebbe incontrato a
meditare che sovente la natura, la quale governa l’essere vivente,
utilizza un impulso più forte del solito per svuotare, per mezzo di
esso, tutto il materiale superfluo, quasi mettendolo alle strette e
respingendolo? Le crisi delle malattie, infatti, avvengono presso a
poco in questa maniera. E tralascio le altre cause delle
evacuazioni, e così pure quelle delle ritenzioni, che alle prime
sono pari e contrarie. Un simile discorso non si presterebbe ad
essere ascoltato dalle orecchie dei Metodici!126 Ma io ritorno su
ciò che mi sembra essi possano capire: che, cioè, talvolta l’occhio
può avere un deflusso, perché l’umore o è divenuto abbondante o si è
assottigliato oppure è stato espulso dalla natura attraverso questa
parte del corpo, senza che gli stessi corpi subiscano un’alterazione
che sia più che naturale. Bisogna, ovviamente, fare in modo che
l’umore sottile diventi grasso e fare uscire fuori quello che è
sovrabbondante. L’impulso della natura, ove si presenti con
opportunità, lo si deve accogliere senza intervenire sulla stessa
materia corporea che costituisce gli occhi, dal momento che questa
non è la causa del deflusso.
La credenza, però, che un certo tipo di infiammazione sia «affezione
astretta» e un altro tipo sia «affezione complicata» non so come
possa sbucar fuori dalla testa di gente che ragioni! In primo luogo,
infatti, i Metodici si sono dimenticati dei loro stessi discorsi:
che, cioè, non bisogna identificare il deflusso morboso con
l’evacuazione o l’astrizione morbosa con la semplice ritenzione, ma
che bisogna dedicare una particolare attenzione alle «disposizioni»
dei corpi. Orbene, dal momento che queste «disposizioni» si trovano
ad essere del tutto simili e l’infiammazione che si riscontra in
questo determinato momento non appare per nulla differente da quella
di prima se non in quanto dall’una si produce un deflusso e
dall’altra no, è senz’altro una grave assurdità ritenere che l’una
sia «complicata» e l’altra sia «astretta». In secondo luogo, come
mai a loro non è venuto in mente di fare il seguente ragionamento,
che pur era così ovvio: che, cioè, né in una mano né in un piede né
in un gomito né in un braccio né in una tibia né in una coscia né in
una qualche altra parte del corpo è stata mai osservata una sorta di
infiammazione che fosse tale da produrre un deflusso, mentre
quest’ultimo si riscontra solo nelle infiammazioni alla bocca, agli
occhi e alle narici? Forse che Zeus comandò a tutte le «comunanze
complicate» che mai alcuna di esse si insinuasse in nessuna altra
parte del corpo, ma che guerreggiasse solo negli occhi, nel naso e
nella bocca? In realtà, però, un’infiammazione può colpire tutte
quante le parti che, per natura, hanno la possibilità di accogliere
le cause del suo prodursi. Ma, poiché per natura alcune parti del
corpo sono diradate e altre sono dense, dalle une emana un qualche
deflusso, dalle altre, invece, quest’ultimo viene trattenuto.
Infatti, se si riempie di una sostanza umida un otre o un qualche
altro recipiente parimenti compatto, non defluisce niente; se,
invece, si riempie una spugna o qualche altra cosa parimenti rara,
tutto il superfluo cola giù. Ma, allora, se essi avessero riflettuto
che tutto il resto della nostra pelle è molto più astretto di quella
degli occhi o delle narici o della bocca, quale difficoltà avrebbero
avuto ad attribuire la causa alla natura delle parti, lasciando
perdere ogni «complicatezza» e tante chiacchiere prolisse? E che la
faccenda stia così, lo mostrano le infiammazioni ulcerose che si
producono nelle altre parti del corpo, giacché anche da esse
defluisce quel materiale che è più sottile, come avviene negli
occhi, nel naso e nella bocca. Ma finché la pelle rimane immune da
affezioni e completamente astretta, è da vedere appunto in ciò, e
non già nella specie dell’infiammazione, la causa dell’assenza di
ogni deflusso. Come, d’altra parte, se si asperge di miele o di pece
umida in quantità non tanto eccessiva una spugna o la lana, non ne
defluisce nulla a causa della grassezza di quei liquidi, né si
avrebbe alcun deflusso nel caso che si trattasse di aspersione di
acqua o di un’altra sostanza parimenti sottile purché fosse in
quantità minima, così nella medesima proporzione, a mio avviso, non
si riscontra in ogni caso un deflusso dagli occhi o perche l’umore è
grasso o perché gli occhi non ne sono eccessivamente pieni, come
avviene quando questi organi si trovano allo stato normale. Di
conseguenza si può dare il caso che la medesima specie di
infiammazione, pur differendo da un’altra esclusivamente per la
grassezza della materia che vi fluisce, produca un’oftalmia priva di
flussione, che i sapientissimi Metodici chiamano «astretta» e che
reputano differente da quella «complicata», immemori delle loro
stesse parole che essi spostano in su e in giù, dal momento che
stimano che le condizioni preparatorie delle affezioni siano
corporee, ma non risiedano negli umori. Ma allora, se nei corpi c’è
la medesima «disposizione» e se questa non presenta alcun’altra
differenziazione oltre al fatto che si attiene esclusivamente alla
natura degli umori – a seconda, cioè, che questi siano o sottili o
grassi – e in base a ciò si ha talora un deflusso e talora, invece,
una ritenzione, come fate a supporre che le «comunanze» siano
diverse? Così, dunque, anche la vostra «affezione complicata»
risulta inintellegibile!
In quanti errori particolari, poi, voi Metodici andiate a cascare
non solo nel campo della dietetica ma anche in quello della
chirurgia e della farmacologia, lo verrete ad acclarare un’altra
volta, se non siete ancora persuasi da queste mie parole. Ma, poiché
queste sono bastevoli per i principianti, metto qui il punto al
presente discorso».
La metodologia empirica (GALENO, De subfiguratione empirica)
Tutti i medici che professano l’empirismo, allo stesso modo, dei
cosiddetti filosofi scettici, ricusano di farsi chiamare con un
appellativo che risalga a qualche illustre personaggio, ma
pretendono di essere riconosciuti in base alla loro disposizione
spirituale. E appunto perciò – essi affermano – mentre gli altri
medici vengono chiamati Ippocratici o Erasistratei o Prassagorei o
Asclepiadei o con un altro nome siffatto, essi non si chiamano
Acronei (quantunque Acrone sia stato l’iniziatore della metodologia
empirica) né prendono il nome da Timone127 né da Filino né da
Serapione, i quali sono stati, sì, posteriori ad Acrone, ma hanno
preceduto gli altri empirici.
Ciò premesso, secondo tutti loro, in linea generale risulterà essere
indubbiamente maestro della setta empirica chi, in qualsivoglia sua
dichiarazione, si guarda bene dal porre alcuna invenzione che si
reputi conseguita «per via di indicazione». Essi, infatti,
sostengono che Tarte della medicina non è costituita dall’
«indicazione accompagnata dall’esperienza», come asseriscono tutti i
Dommatici, bensì esclusivamente dall’«esperienza di ciò che sia
stato osservato nella maggior parte dei casi e in modo simile».
Tu, dunque, ponendo mente a queste cose, giudica tutto quello che
vengo a dirti nei particolari, mentre io intendo mostrare con
esattezza, nella sua peculiarità, la dottrina della setta empirica.
Si supponga, comunque, che quanto è scritto in questo libro lo dica
un empirico.
Noi affermiamo che l’arte della medicina ha trovato la propria
consistenza in base all’esperienza e non all’indicazione. E
chiamiamo «esperienza» la cognizione di una cosa in base alla
diretta ispezione; indicazione, invece, chiamiamo la cognizione che
proviene da un procedimento razionale. Infatti il senso conduce noi
all’esperienza, mentre la ragione conduce i Dommatici
all’indicazione.
Però la cognizione fondata sulla diretta ispezione talvolta viene a
nascere spontaneamente in chi vede un qualcosa (e si chiama
«incontro casuale»), talora, invece, si ha quando uno si mette ad
improvvisare o ad imitare qualcuna delle cose che egli ha viste e
che abbiamo detto originarsi spontaneamente, vuoi per natura vuoi
fortuitamente: fortuitamente, nel caso che, ad esempio, ad uno cui
dolga la parte posteriore della testa capiti di cadere e di trar
giovamento dalla rottura della vena diritta sulla fronte e
dall’effusione di sangue128; per natura, o naturalmente, ad
esempio nel caso che quel tale abbia un’emorragia nasale e subito
dopo sfebbri.
Si ha un’esperienza «improvvisata», quando, ad esempio, si trae
giovamento dalla soddisfazione di un proprio desiderio o bevendo
acqua fredda o mangiando una mela cotogna o qualche altra cosa
siffatta oppure se un tale, che è stato morsicato da una bestia su
una montagna, fa subito l’applicazione di una data erba e ne trae
giovamento.
Facciamo, invece, esperienza «imitativa» a proposito dei fenomeni
suddetti e in quelli che si riscontrano due o tre o molte volte, ma
tuttavia non tante che si possa dire se, quando si applica una data
cosa ad un’altra, si abbiano sempre le stesse conseguenze oppure
queste ultime si manifestino o per lo più o in modo alterno o di
rado.
C’è, infine, l’esperienza «pratica», e questa si riscontra solo
negli esperti dell’arte mercé qualche «somiglianza» con le cose che
sono state inventate in base ad un’indagine empirica. E chiamiamo
«empiria» la cognizione di quei fenomeni che si sono riscontrati
tante volte da essere ormai normalmente osservabili, ossia da
potersi riconoscere se essi si sono avverati sempre o per lo più o
in maniera alterna o di rado. Queste, infatti, sono le quattro
differenze teoricamente possibili. Di conseguenza noi chiamiamo
«contemplazione di una cosa che si sia riscontrata un gran numero di
volte» una conoscenza che, nello stesso tempo, sappia distinguere un
evento secondo le sue due prospettive contrarie. C’è distinzione,
poi, tra ciò il cui contrario è sempre non manifesto, ciò il cui
contrario è per-lo-più-non-manifesto (nel senso che il contrario si
manifesta, ma solo di rado), ciò il cui contrario
si-manifesta-indifferentemente-in-un-modo-o-nell’altro, e, infine,
ciò il cui contrario si-manifesta-di-rado † rispetto a ciò che non
si presenta qualche volta, ma per lo più129 †. Le cose, invece, che
non rientrano in questa nostra distinzione, noi le consideriamo
prive di ordine e affermiamo che la loro conoscenza non fa
assolutamente parte dell’empiria. E Menodoto ha chiamato questo tipo
di conoscenza empirica «un’empiria che non risulta composta di parti
sulla base di altre empirie particolari» e perciò ha detto che essa
è l’empiria «primaria e assolutamente semplice».
Come l’arte, nella sua totalità, è composta da una molteplicità di
cognizioni empiriche, così, a sua volta, ciascuna di queste ultime è
composta da molte altre cognizioni pur esse empiriche. Ma quale
sia il loro numero non si può determinare, e si va a cadere in
quell’aporia che alcuni chiamano «del sorite». Ma di essa si è
parlato in un altro libro intitolato Sull’esperienza medica130.
Orbene, presso gli scritti degli antichi Greci io ho trovato in uso
il termine αὐóπτης (ispettore diretto), ma non ho trovato il termine
αὐóοψί (ispezione diretta). Noi, invece, come facciamo in altri
campi, così anche in questo assegniamo un appellativo
corrispondente, usando il termine «ispezione diretta». Chi, però, fa
un’ispezione diretta esegue un’operazione, ma non consegue una
cognizione. Invece gli Empirici che ci hanno preceduto hanno usato
di solito il termine «ispezione diretta» per significare non solo
un’operazione, ma anche una cognizione, anzi chiamano con quel
termine la stessa empiria. Ed anche noi useremo similmente questi
appellativi e chiameremo «ispezione diretta» non solo ogni
cognizione di un singolo fenomeno, ma anche quell’empiria che verrà
raccolta da un gran numero di cognizioni siffatte. Gli Empirici,
inoltre, si sono abituati ad usare, non so perché, il termine
τήρησις (osservazione) per indicare la cognizione e la memoria dei
ritrovati dell’arte. E, per questo motivo, anche Teoda disse che le
parti della medicina per mezzo delle quali il più delle volte noi
conseguiamo il nostro fine, vengono da noi acquisite tramite
l’ispezione diretta e l’«istoria» e «il passaggio per stretta
somiglianza»131. E, passando subito dopo a definire l’esperienza,
che in nulla differisce dall’ispezione diretta, egli dice: «Si
chiama, dunque, esperienza tutta quanta l’osservazione del
fenomeno», usando al posto di «memoria» e di «cognizione» il nome
«osservazione», che è l’atto dell’osservatore, quantunque
quell’appellativo non stia ad indicare la memoria propriamente detta
né la cognizione. Essi, pertanto, non hanno usato questi vocaboli
secondo la consuetudine greca; usano, invece, il nome di
pratica, proprio come l’usano i Greci. Infatti l’esercizio operativo
dell’esperienza viene da loro chiamato «pratica» e da questo
appellativo i Greci chiamano τριβιχóς (pratico) colui che ne
partecipa, allo stesso modo che chiamano «empirico» colui che
possiede l’empiria. A dire il vero, i Greci non usano di solito il
termine «empirico». Ma i nostri medici, fondandosi sul metodo
dell’empiria, hanno dato a se stessi il nome di «empirici» ed hanno
chiamato «empiria» non solo la cognizione di un unico principio
teorico, ma l’intera arte medica, che essi affermano constare di
un’empiria direttamente osservativa, da loro chiamata «ispezione
diretta» e, insieme con questa, di «istoria» e di «passaggio dal
simile», intendendo per «istoria» l’enunciazione dell’ispezione
diretta e per «passaggio dal simile» il procedimento verso
l’esperienza pratica attraverso la somiglianza delle cognizioni
acquisite tramite l’esperienza.
Si è cercato di sapere, poi, se anche Serapione ritenga che sia
terza parte costitutiva di tutta la medicina il e passaggio dal
simile», cosa che Menodoto non dichiara espressamente, ma si limita
a farne uso pratico. E non è, di certo, la medesima cosa farne un
semplice uso pratico e considerarla, invece, come parte vera e
propria. E neanche il pirroniano Cassio, che su quest’argomento pur
scrisse un intero libro, tenta chiaramente di dare una precisa
indicazione circa l’uso del «passaggio dal simile». Meglio, invece,
ha fatto Teoda con l’affermare che il «procedimento attraverso
somiglianza»è un’esperienza «epilogistica». Alcuni altri, poi, hanno
sostenuto che questo procedimento ha carattere strumentale. Ma,
forse, sarebbe meglio dire che anche l’istorìa ha carattere
strumentale e non è una «parte» della medicina; e similmente anche
l’osservazione, che, come dicevo, viene considerata come
un’operazione. Perciò, a mio avviso, anche Teoda ne ha scritto nel
modo seguente: «Le parti della medicina con le quali conseguiamo il
fine noi le acquistiamo tramite l’empiria, la quale si produce
mediante ispezione diretta, istoria e passaggio per analogia». Egli
intende dire, infatti, che per mezzo di queste tre cose si
acquisiscono le parti della medicina e che queste, evidentemente,
sono differenti tra loro, ma tutte quante insieme risultano essere
«memorazioni». E, appunto perciò, meglio si potrebbe descrivere
l’empiria come «memoria di fenomeni che sono stati riscontrati
spesso e nel medesimo modo». Se, poi, si userà il termine
«osservazione» al posto di «memoria», anche in questo caso l’empiria
verrà ad essere «osservazione di fenomeni che sono stati spesso
riscontrati». Se, infine, il termine «osservazione» viene inteso nel
senso di «operazione» – come, del resto, lo usano i Greci – e se il
termine «memoria» sta a significare il permanere nell’anima di
fenomeni che sono stati riscontrati, allora entrambi i termini
possono essere insieme sussunti col dire che l’empiria è
«osservazione e memoria di fenomeni che sono stati riscontrati
spesso e in modo simile» , oppure si può anche parlare
esclusivamente di «memoria», giacché in quest’ultima è di già
contenuta l’osservazione, non potendo noi ricordare i fenomeni che
sono stati riscontrati spesso e in modo simile, se non facciamo una
qualche «osservazione» dei fenomeni stessi.
Di queste cose ho creduto opportuno trattare in una descrizione
compendiosa.
Teoda, però, poneva come vere e proprie «parti di tutta la medicina»
la semeiotica, la terapeutica e la cosiddetta «igienistica». Egli
affermava, altresì, che di queste parti noi conseguiamo
l’acquisizione in base all’ispezione diretta, all’istoria e al
passaggio dal simile, e perciò quelli che ritengono queste ultime
come «parti» di tutta quanta la medicina non le chiamano «semplici»
senza aggiungervi alcun’altra precisazione, ma le chiamano «parti
costitutive», nel senso che tutta la medicina è da esse costituita,
mentre chiamano «parti finali» la semeiotica, la terapeutica e
l’igienistica, operando così una distinzione tra le parti finali e
quelle costitutive. Difatti, se ne vogliamo formulare una
definizione esatta, esse non sono «parti», bensì «operazioni» dei
medici. Invece la cognizione che è presente nell’anima e secondo la
quale il medico dà indicazioni ed esegue terapie e rende sani è
«parte» della medicina.
Molte volte, comunque, si fa uso esagerato di questi termini, e
anche noi ci esprimiamo in questa guisa, dicendo che sono «parti di
tutta la medicina» la semeiotica, la terapeutica e l’igienistica.
Sottoparti della semeiotica, poi, sono la «diagnosi» per i fenomeni
presenti e la «prognosi» per quelli futuri. Sottoparti della
terapeutica sono la chirurgia, la dietologia e la farmacologia,
purché teniamo presente anche questo, ossia che essi usano gli
stessi nomi per indicare le ooerazioni e le conoscenze per mezzo di
cui noi operiamo. L’igienistica, infine, secondo alcuni risulta
priva di divisioni, mentre altri la dividono in igienistica vera e
propria e in rafforzativa; altri, infine, vi hanno aggiunto anche la
preventiva, la ricostitutiva e la gerontocomica [vale a dire quella
che rieduca le persone anziane]132. Vi è, poi, anche chi sostiene
che queste sono sottoparti della medicina nella sua totalità, ma che
derivano dalla suddivisione di tre cose, ossia dei corpi, delle
cause e dei segni, senza che si tenga conto delle cose salutari e di
quelle che provocano le malattie.
Anche Erofilo133 classifica in questo modo tutta la medicina,
dicendo che essa è «scienza delle cose salutari, di quelle morbose e
di quelle neutre». E certamente anche nei segni e nelle cause si
riscontrano cose «neutre».
Tenendo presente questa suddivisione, ne consegue che anche noi, se
vogliamo preservare l’indirizzo empirico, dobbiamo operare
divisioni, per potere in modo più chiaro insegnarne l’oggetto.
Tuttavia non intendo impedire ad altri di dividere diversamente,
purché dalla loro divisione non venga trascurata alcuna parte, anche
piccola, dell’arte. Ecco perché anche Teoda, all’inizio della sua
Dottrina delle parti, si esprime così: «Bisogna affermare che sono
parti della medicina anche quelle che sono suscettibili di
un’ulteriore partizione, vale a dire la semeiotica , la terapeutica
e l’igienistica». Dunque non c’è nulla di strano se alcuni hanno
parlato di due procedimenti dell’empiria, altri di tre, altri di
quattro, altri, infine, di cinque. Gli Empirici, però, sostengono
che non si tratta qui di un dissenso, bensì di un diverso uso
terminologico [quasi che essi parlassero di una dottrina identica,
ma esposta con parole diverse]134. Quale sia, però, la divisione
secondo il procedimento razionale, si dirà in appresso135.
Diciamo, adesso, tutto quello che non ancora è stato detto, a
proposito delle parti «costitutive» della medicina. Esse sono, del
resto, le più utili di tutte.
Il medico «osservativo» si è assegnato lui stesso il nome di
«empirico» ed ha chiamato «empiria» l’intera arte. Almeno nei primi
tempi, come è verosimile, egli ha eseguito l’osservazione delle cose
che giovano e di quelle che sono nocive non solo esaminando cose
utili, ma anche cose inutili. Però nel lungo lasso di tempo che
arriva ai nostri giorni si è riscontrato che, sebbene molti abbiano
osservato tante e tante cose, molte osservazioni sono state condotte
invano, ragion per cui nella nostra epoca è molto utile l’istorìa,
come nel passato fu utile l’ispezione diretta. Ad esempio,
l’osservazione del colore degli indumenti è risultata inutile in
molte malattie e utile in poche. Infatti, per chi soffre di oftalmia
è giovevole il colore azzurro o verde o nero, mentre è molto
contrario quello bianco o luccicante; altri colori, infine, non sono
né utili né dannosi. Allo stesso modo è stato constatato che il
colore rosso irrita quelli che sputano sangue, mentre si è visto che
questo stesso colore è inutile o superfluo nel caso di altre
affezioni e di altri sintomi; allo stesso modo che è inutile che la
mensa sia d’avorio o di legno e il piatto sia d’oro o d’argento o di
cristallo: infatti nessuna di queste cose ha il potere di far
guarire o ammalare, ma è neutra e superflua. Invece ciò che emette
un odore sgradevole o nocivo non è affatto superfluo o neutro alla
salute. Infatti le cose puzzolenti abbattono la facoltà136
appetitiva e quella digestiva, e sono ad esse di nocumento quelle
che hanno proprietà piccanti, come il legno di cipresso , di pioppo,
di bosso o di noce, specialmente quando sia ancora fresco. Perciò da
tal genere di legno noi evitiamo di farci costruire letti e porte e
ogni sorta di recipienti, e similmente scansiamo ogni odore che
aggrava la testa o fa perdere l’appetito o provoca qualche altro
siffatto fenomeno. Come, invero, è utile scegliere ciò che giova,
così è utile evitare quello che nuoce, mentre non bisogna né
scegliere né evitare ciò che né giova né è nocivo. Ecco perché è
indispensabile che il medico sia conoscitore di queste cose, vale a
dire non solo delle cause salutari o malsane o neutre, ma anche dei
corpi e dei segni.
Inoltre non sussiste alcuna differenza tra l’espressione «avere
scienza» e «aver cognizione», come non c’è differenza tra l’essere
esperto di un’arte e l’esserne conoscitore o l’aver imparato un’arte
o una scienza. Né c’e differenza, nel caso che presenti
un’infiammazione, tra il chiamarla «malattia» oppure «affezione». II
sintomo, invece, può essere differente, nel senso che esso è o
semplice ed unico e non-composto oppure un insieme di molti
fenomeni. Difatti sono sintomi un dolore fianchi, un colpo di tosse,
uno sputo sanguigno o pallido o livido, ma non sono sintomi a minor
titolo di questi una dispnea o una temperatura innaturale del corpo.
Tutto Finsieme di questi fenomeni è chiamato dai Greci «malattia» o
«affezione» o anche «languore» o «infermità». E noi usiamo, nei
limiti del possibile, i nomi secondo la consuetudine dei Greci137;
invece, nel caso della nostra ignoranza di un appellativo consueto,
ci accordiamo tra noi su quello che andrebbe usato. Pertanto, al
fine di istituire tra noi un dialogo chiaro e di dare o ricevere un
insegnamento, bastera dare semplicemente il nome di «sintomo» a un
qualche fenomeno innaturale, come, ad esempio, ad un colore o a un
gonfiore o ad un’infiammazione o ad una dispnea o ad un
raffreddamento o un dolore o alia tosse, mentre si darà il nome di
«malattia» o di «affezione» alla «sindrome» di questi fenomeni.
Tutti quanti i nostri predecessori empirici, pero, hanno usato il
nome di «sindrome» non in riferimento a qualsivoglia accozzaglia di
sintomi, bensi quando questi ultimi si riscontrano simultaneante nel
corpo del paziente e subiscono, sempre simultaneamente,
accrescimento o stabilità o decrescita o dissolvimento. che, a
volerne dare un’illustrazione succinta, essi crearono un nome a
seconda di ciascuna sindrome particolare, desumendolo ora da uno ora
da un altro dei fattori della sindrome stessa. Cosi, ad esempio,
dalla parte malata del corpo hanno tratto i termini «pleurite» e
«peripleumonia», da un altro tomo i termini «infiammazione» e
«frenite»; talvolta hanno desunto i nomi anche in base ad una
somiglianza, come nel caso di «elefantiasi» e di «cancro»; talvolta,
infine, essi stessi coniano il nome di sana pianta, come nel caso di
«edema» li «scirro».
Orbene: le affezioni che simultaneamente si generano e si accrescono
e simultaneamente si stabilizzano e si attenuano e
simultaneamente cessano, gli Empirici le chiamano «coinvadenti»;
quelle, invece, che hanno siffatto comportamento per lo più, essi le
chiamano «considenti». E alcuni distinguono lo stato affettivo di
queste stesse sindromi, che essi chiamano «diagnostiche», altri ne
indicano il futuro decorso e le chiamano «prognostiche», altri,
infine, fanno un’anamnesi della terapia e le chiamano
«terapeutiche». E noi da una parte conosciamo tutte le sindromi in
base all’osservazione, dall’altra le affidiamo alia memoria e ce ne
serviamo nel presente in base a reminiscenza. Infatti il nostro uso
pratico dell’empiria consiste nell’osservare e nel ricordare quale
fenomeno abbiamo visto insieme con un altro, quale dopo un altro e
quale prima di un altro, e se li abbiamo visti sempre o per lo più o
in modo alternativo o di rado138: sempre, ad esempio la morte,
quando c’è lesione cardiaca: per lo più, ad esempio l’effetto
purgativo nell’uso della scamonea; in modo alternativo, ad esempio
il decesso in caso di meningite; di rado, ad esempio quando uno si
salva a seguito di lesione cerebrale.
In tutte queste cose ci è necessario – in base alla costituzione
dell’arte (che facciamo risultare dall’osservazione e dalla memoria)
e, inoltre, in base all’insegnamento della sua dottrina
– distinguere e determinare quello che è proprio e quello che è
comune. La massima parte degli Empirici, o quasi tutti, chiamano
questa operazione non già «determinazione», bensi «distinzione»,
perché non sanno obliterare il loro compiacimento per gli
appellativi139. Noi, però, non ci teniamo e diremo che non sussiste
alcuna differenza nell’uso di uno qualunque di questi due termini,
purché il proprio venga distinto dal comune per mezzo di cognizioni
evidenti140. Tenendo presente, infatti, che esistono due cose – vale
a dire la designazione dei significati e la distinzione dei fatti
reali –, possiamo parlare di «distinzione » a proposito dei
significati e di «determinazione» a proposito dei fatti reali.
Comunque, in entrambi i casi ciò che è proprio viene separato da ciò
che è comune. Pero, come consigliava Platone141, è opportuno tenere
in poco conto i nomi e non trascurare, invece, Tesattezza delle
argomentazioni. Infatti, nell’esame delle affezioni, la necessità di
distinguere il proprio dal comune si presenta nel modo seguente: se
qualcuno ci chiederà, ad esempio, di quale malattia sia sindrome una
febbre acuta accompagnata da dispnea e tosse e saliva colorata, noi
gli risponderemo che la sindrome suddetta è comune alla pleurite e
alla peripleumonia, ma aggiungeremo che questa risposta non indica
in maniera esauriente una delle due malattie, ma è monca e
manchevole di qualcosa. Se, pero, ai sintomi anzidetti si aggiunge
un dolore acuto e pungente ai fianchi e un polso duro e teso, questa
malattia sarà la pleurite; nel caso, invece, che non ci sia dolore
ai fianchi e il polso non sia indurito, ma si riscontri l’asma e il
paziente provi un senso di angustia che gli dà Fimpressione di
essere soffocato, una sindrome siffatta si chiama peripleumonia.
Cosi, dunque, nella diagnosi delle malattie – che gli Empirici
chiamano anche «semeiotica» – si distingue ciò che è comune da ciò
che è proprio in riferimento ciascuna affezione particolare.
Nella prognosi, invece, <la necessità di distinguere il proprio
dal comune> si presenta così: se qualcuno, ad esempio, ci
chiederà quale segno per il futuro diano il naso aguzzo, gli occhi
incavati e le tempie cascanti, noi risponderemo che, se questi
sintomi si riscontrano in una malattia cronica, stanno a significare
un malanno modesto; se, invece, si riscontrano per la prima
volta, significano pericolo di morte imminente142.
Questa è la prima determinazione che possiamo fare in base al tempo
della malattia. Altre determinazioni si ricavano in base agli
avvenimenti precedenti, ad esempio se non ci sia stata una forte
evacuazione a causa di diarrea o di un purgante o in qualche altra
maniera, oppure se il paziente ha sofferto di insonnia o di fame.
Nella terapia, invece, la distinzione di ciò che è proprio da ciò
che è comune va fatta nel modo seguente: nel caso, adesempio, di un
malato di pleurite, si deve fare la flebotomia o no? Noi diremo che
deve essere flebotomizzato non ogni pleuritico, ma solo chi presenti
la sindrome cosiddetta pletorica o chi, pur non essendo pletorico,
sia vigoroso e giovane. Anzi neppure qualsivoglia di costoro.
Infatti noi ci guarderemo dal flebotomizzare chi presenta una
sindrome pleuritica, se si tratti di un vecchio o di un bambino; ma,
allo stesso modo, non ha bisogno di flebotomia anche chi si trovi in
una regione molto fredda, come la Scizia, o nell’ora più calda
dell’estate (in cui abbiamo visto molte persone subire una sincope).
Né basta tutto ciò: oltre le anzidette determinazioni ci sono anche
le seguenti: se il dolore giunge alla clavicola, avremo maggiori
motivi per flebotomizzare; se, invece, giunge all’ipocondrio, faremo
uso di un purgante.
Questa è, in linea di massima, la determinazione dei fatti reali, ed
essi la descrivono dicendo che è «un discorso che distingue ciò che
è propriamente particolare da ciò che è comune». E, come dicevo143,
essi non parlano di «determinazione», bensi di «distinzione». Per
noi, invece, non c’è alcuna differenza se quest’operazione venga
chiamata «determinazione » o «distinzione», purchè da parte nostra
venga rispettata la differenza che intercorre tra le sindromi degli
Empirici e quelle dei Dommatici. Infatti gli Empirici fondano la
diversità del loro giudizio sulla base di quelle cose evidenti di
cui ora ho trattato, mentre i Dommatici la fondano sulla base di
cose non-evidenti. Cosi anche il metodo empirico differisce da
quello dommatico, in quanto il primo si attiene alle cose evidenti,
il secondo, invece, a quelle non-manifeste. E gli Empirici chiamano
il loro metodo «epilogismo», mentre chiamano quello dei
Dommatici «analogismo», perchè non vogliono che tra i due indirizzi
ci sia alcuna comunanza persino nell’uso dei nomi. Allo stesso modo
essi chiamano i compendi delle loro dottrine non già «definizioni»
bensì «descrizioni», quantunque non ci fosse alcun divieto di dire
che la «definizione empirica» è un discorso peculiare su un fatto
reale e che risulta da quei fenomeni evidenti che in questo fatto
reale si presentano, mentre la «definizione dommatica» è pur essa un
discorso appropriato, non risultante da fenomeni evidenti144. In
questo sussiste il contrasto tra i due indirizzi a proposito dei
nomi, ed è possibile fare uso della terminologia in modo scontroso o
remissivo, come fanno anche, in molti casi, certi Empirici in
maniera esagerata.
Per quanto concerne la realtà delle cose, invece, gli Empirici e i
Dommatici differiscono tra loro, come è stato detto all’inizio, in
quanto i primi hanno fiducia esclusivamente nelle cose che risultano
evidenti ai sensi e in quelle che, tra esse, vengono memorizzate,
mentre i secondi hanno fiducia non solo queste, ma anche in quelle
che, in base alla naturale successione dei fatti reali, vengono
scoperte con procedimento razionale prescindendo dall’osservazione
diretta.
L’Empirico, pero, usa non solo le definizioni e le altre
determinazioni che risultano dall’evidenza, ma anche le spiegazioni
delle cause e quelle dimostrazioni che si basano su quanto stato
precedentemente conosciuto in modo evidente per mezzo della
sensazione. Si ponga, ad esempio, il caso che, a proposito di una
gamba disarticolata a cagione di un trauma, chieda a un medico
per quale motivo egli non rimetta a posto l’arto: il medico
risponderà che non lo fa perché è risultato, a seguito
dell’osservazione, che una simile ricollocazione degli arti provoca
spasimo. Ecco, allora, quello che noi dobbiamo rispettare: non fare,
cioè, alcuna enunciazione in base ad un procedimento meramente
logico, ma farne sempre in base ad una evidente osservazione e alla
memoria.
È questo, pertanto, il modo secondo cui lo stesso medico empirico dà
una costituzione all’arte e l’insegna agli altri. E in ciò egli si
distingue moltissimo da chi intraprende un’esercitazione
irrazionale, giacchè quest’ultimo compie molti interventi in maniera
indiscriminata. E differisce da costui ancor più in quanto egli si
avvale dell’istoria: cosa che ci è indispensabile, giacchè a causa
delFampiezza dell’arte noi non possiamo contentarci dell’intera
esistenza di un uomo solo per la scoperta di tutte le cose145. Noi,
invece, facciamo un cumolo di queste conoscenze e le collezioniamo
da ogni provenienza, accostandcci ai libri di quelli che ci hanno
preceduto. Tuttavia, se, prima di mettersi a scrivere, costoro
fossero riusciti a trovare ad una ad una tutte le opere di quelli
che scrissero prima di loro, e se, di conseguenza, l’Empirico
riuscisse a farne una distinzione, allora tutte le opere scritte da
lui risulterebbero veraci. Ma siccome alcuni hanno prestato fede ad
un’esperienza incontrollata e altri non hanno riscontrato
personalmente e piu volte le cose di cui hanno scritto, e altri si
sono attenuti a probabilità di ordine logico, risultano scritte
certe cose che non corrispondono alla verità: perciò non
dobbiamo dar credito in modo semplicistico a tutto quello che è
stato scritto da quanti ci hanno preceduto, ma dobbiamo servircene
con critica circospezione. Ed è appunto, questa, una delle
peculiarita dell’esperienza e non giá di chi intraprende
un’esercitazione irrazionale. Costoro Menodoto li chiama τρίβαχβς
(straccioni), coniando egli stesso questo vocabolo da τρίβων
(mantello logoro), termine che sovente si riscontra presso gli
antichi medici in riferimento a quanti si sono logorati in qualche
attività. Sicchè si potrà chiamare τρίβωνα (pratico) chi e
perfettamente esercitato ed ha imparato una dottrina studiandola in
tutti i minimi pezzi [τετριμμένην], mentre si chiamerà τριβωνιχóς
(sbrindellato) chi si accosta all’arte in maniera irrazionale, vale
a dire chi non ne sa operare alcuna cernita e non sa badare con
intelligenza all’istoria. E se egli non vi bada con intelligenza,
non tenterà neppure di formularne un giudizio.
Ma poiche, anche in questo settore, si fa qualche questione oziosa
in merito al nome di «istorìa», facciamone brevemente menzione.
Alcuni dicono che l’istoria è «enunciazione delle cose che sono
state viste»; altri, invece, aggiungendo l’espressione
«con evidenza», affermano che l’istorìa è «enunciazione delle
cose che appaiono con evidenza»; altri, infine, hanno sostenuto che
essa è «enunciazione delFispezione diretta». Ma tutti costoro,
sebbene usino espressioni verbalmente differenti tra loro, tuttavia
le conservano virtualmente uguali, e per questo motivo esse
risultano tutte quante equipollenti [giacchè in esse il medesimo
contenuto viene esposto da chi in una guisa e da chi in
un’altra]146.
Da queste espressioni, pero, ne differiscono altre, in cui ciascuna
delle cose già enunciate subisce una qualche aggiunta. A titolo di
esempio accenneremo ad una di esse, secondo la quale l’istoria è
«enunciazione delle cose che sono state viste o nel modo in cui sono
state viste». Secondo questa nozione di istoria, c’è un’istoria vera
e una falsa, mentre secondo le descrizioni precedenti nessuna
istoria risultava falsa. Perciò anche il giudizio dell’istoria
risultera appropriato in modo diverso secondo ciascuno dei due
significati: secondo l’uno, se si tratta «davvero» di istoria;
secondo l’altro, invece, se si tratta di istoria «vera». Noi, pero,
concedendo anche di usare questi nomi come ciascuno voglia, dobbiamo
in primo luogo ricondurre la stessa istoria alia sua pratica utilità
mediante nostro giudizio, vale a dire mediante la nostra capacità di
distinguere la verità e la falsità delle opere scritte e, oltre a
ciò, la loro importanza o il loro scarso valore. Difatti,
secondo Menodoto, anche una siffatta differenziazione non è
priva di utilità, ed io ti prego di far bene attenzione ad essa, pur
concedendoti di chiamare «istoria» tutto quello che si trova scritto
nei libri, per il solo fatto che la maggior parte dei medici ha la
consuetudine di chiamarla così. Comunque gli Empirici hanno
affermato che l’unico e fondamentale criterio dell’ «istoria vera» è
l’ispezione diretta di colui che giudica. Nel caso, infatti, che noi
ritroveremo che qualcuno ha scritto in un libro una qualche cosa di
cui possediamo ispezione diretta, diremo che l’istorìa è vera.
Questo criterio, però, è inutile ai fini dell’apprendimento
dell’arte, giacchè noi non abbiamo affatto bisogno di imparare da un
libro quelle cose che siamo riusciti a conoscere tramite la diretta
ispezione.
Criterio, invece, molto utile e veritiero dell’istoria è la
«concordanza»147: è possibile, ad esempio, che io non abbia mai
fatto personalmente uso del macis (si tratta di un farmaco che viene
importato dall’Arabia e che è la corteccia di una pianta); però
quelli che scrivono di questa materia dicono che esso restringe il
ventre. Crederemo a costoro o non crederemo? Io, in verità, sostengo
che bisogna credere a quelli che su questo punto sono d’accordo tra
loro. Ma limito questa mia affermazione ai casi in cui si parla di
oggetti sensibili. Infatti gli accordi che sussistono circa le cose
non-manifeste, per quanto grandi essi siano, non hanno consistenza
presso tutti quelli che li tramandano per iscritto. Ed anche se
qualcuno sosterrà la possibilità che talvolta una siffatta concordia
sussista, anche da quest’ultima l’Empirico si terrà ben lontano.
Invece tutti gli accordi che si riscontrano a proposito degli
oggetti sensibili presso tutti gli uomini, sono meritevoli di
fiducia nella vita pratica. Noi infatti, pur non avendo mai
circumnavigato Creta o la Sicilia o la Sardegna, abbiamo piena
credenza che queste sono isole, in base al fatto che tutti quelli
che le hanno direttamente ispezionate sono su questo d’accordo tra
loro. Così noi, avendo nella vita pratica l’esperienza dell’accordo
reciproco che regna tra quanti fanno l’istorìa delle cose sensibili,
abbiamo creduto che il ventre viene ristretto dal macis. Allo stesso
modo, sebbene noi non abbiamo mai avuto esperienza del rabarbaro
politico mediante una nostra diretta ispezione, tuttavia,
imbattendoci nei libri di coloro che hanno scritto su
quest’argomento, abbiamo creduto che esso è adatto in casi di
emissione di sangue.
A questo discorso che adesso abbiamo fatto se ne accosta, però, un
altro che non risulta essere epilogistico, bensi analogistico e,
quindi, dommatico, nel caso, cioè, che uno creda si debba prestar
fede alla «concordia» assumendo l’indicazione della credibilità
dall’oggetto medesimo. Ci sono, infatti, certuni – non solo tra i
Dommatici, ma anche tra quanti si professano Empirici – i quali
dicono che la concordia insospettabile e segno della verità di una
cosa. È, questo, un discorso che non va fatto in maniera
semplicistica da uno che si faccia sostenitore dell’epologismo – il
quale ultimo è un discorso che si attiene ai fenomeni –, ma deve
poggiare sul fatto che, in un’esperienza concreta, lo hanno
formulato quanti sono d’accordo tra loro a proposito di tutte le
cose che sono vere in maniera evidente. Se, pertanto, qualcuno dirà
che la concordia dell’isìtoria vera è un «segno» nel senso che essa
procede dall’osservazione», il principio da lui formulato avrà
carattere empirico; se, invece, egli ne parlerà nel senso che la
suddetta concordia procede dalla «natura dell’oggetto», il suo
giudizio sarà di carattere logico.
Questo è uno dei criteri di giudizio dell’istoria vera. Un altro
risiede nella preparazione scientifica e nell’etica professionale
dello scrittore. Di queste due ultime cose noi dobbiamo fare
esperienza attraverso le altre opere di uno scrittore. Così, ad
esempio, se esaminiamo gli scritti di Ippocrate e quelli di
Andrea148, il primo viene a risultare molto esperto e amicissimo
della verità, mentre il secondo un uomo borioso e che, in quanto ad
esperienza, lascia molto a desiderare rispetto alia conoscenza
scientifica di Ippocrate.
Un altro criterio dell’istorìa consiste nel riscontrare se ciò che
sta scritto sia simile a ciò che noi abbiamo conosciuto tramite
l’ispezione diretta, come nel caso del macis e del rabarbaro
pontico. Entrambi questi prodotti, infatti, sono restringenti, come,
del resto, lo sono tutti gli altri che fermano deflusso del ventre o
impediscono un’eccessiva emissione di sangue.
Menodoto afferma che il passaggio del simile è un «criterio» non del
vero, ma del possibile; se, però, vi si aggiunge pratica, esso
diventa criterio del vero. Ma su questo punto daremo
precisazioni tra poco. Comunque, il passaggio del simile, di
qualsiasi tipo esso sia, è, di per sè, un metodo che è relazione con
l’esperienza, e ciò che è criterio di quel possibile che si attenga
all’istorìa bisogna ritenerlo duplice allo stesso modo che bisogna
ritenere duplice il giudizio dell’istoria. Difatti, mentre il
passaggio razionale dalla natura dell’oggetto reale fa acquisire la
conoscenza in maniera «indicativa», il passaggio empirico, invece,
si attiene a ciò che è stato conosciuto per mezzo di
un’esperienza149, giacchè gli Empirici re-putano che si debba
attuare il passaggio non in base alla «probabilità»150 che il simile
sia capace di produrre un qualche effetto simile o abbia bisogno di
cose simili o patisca in modo simile, non in base a questa
probabilità – ripeto – o in base a qualche altra cosa siffatta, ma
solo perchè noi abbiamo sperimentato che le cose simili si trovano
in questo stato. Difatti, quando la medesima affezione si riscontra
su membra del corpo che sono simili tra loro, l’esperienza ci ha
insegnato che c’è il medesimo bisogno di rimedi, come, ad esempio,
se si tratta di una coscia o di un braccio, di una gamba o di un
avambraccio, di un piede o di una mano; e allo stesso modo, quando
un’affezione simile si riscontra nella medesima parte del corpo,
essa abbisogna dei medesimi rimedi, come nei casi di diarrea e di
dissenteria; e finchè l’affezione permane simile, occorrono rimedi
che siano presso a poco identici, come in caso di diarrea c’è
bisogno di nespole o di mele cotogne.
Queste cose, dunque, ci ha insegnato l’esperienza, e oltre a questo,
in base a tutto ciò che sia stato osservato nel corso di una
malattia, nel caso che i rimedi adibiti per lungo tempo non
producano miglioramento alcuno, essa ci ha insegnato di passare a
rimedi contrari. Pertanto gli Empirici giustamente aflermano che
anche il passaggio ai contrari si attua secondo la somiglianza delle
osservazioni che sono state fatte mercè l’esperienza. Invece il
passaggio eseguito in base a mera ragione non ci dà mai
un’indicazione sul modo di passare al contrario. Adunque il
passaggio del simile, sia quando si attui di per sè solo
prescindendo dal giudizio delFistoria sia quando tenga conto anche
di quest’ultimo, ci conduce verso l’esperienza pratica,
promettendoci non ciò che è saldamente vero, bensi il rinvenimento
del «possibile» per mezzo della concordia dell’istorìa delle cose
meritevoli di fiducia, ossia di quelFistoria che riscuote credito
anche prima dell’esperienza. Ma noi al passaggio alle cose simili
non prestiamo mai credito come a cosa vera prima di farne esperienza
pratica: un grado magiore o minore di speranza o di fiducia non è
affatto in raporto diretto con una qualsiasi delle singole
affermazioni, e così pure nell’rambito della somiglianza c’è cio che
e più e ciò: e meno simile. Difatti la peculiarità della somiglianza
che riscontra sulla base dell’esperienza non viene conosciuta in
modo semplicistico nè casuale. Quello che, ad esempio, è simile
relativamente alla figura o al colore, alla durezza o alla mollezza,
risulta, a seguito dell’osservazione, solo in minima misura capace
di effettuare operazioni simili; invece si è scoperto che quello che
è simile relativamente all’olfatto o al gusto perviene il più delle
volte al medesimo risultato, e tra queste due cose vi perviene
maggiormente ciò che è simile in relazione gusto, e, sempre
nell’ambito di questi due sensi, ancor più che è simile in relazione
a tutti e due insieme, ossia all’olfatto e al gusto. Se, poi, per
sovrappiù saranno compresenti figura e consistenza, le somiglianze
risulteranno massime e capaci di produrre le medesime affezioni. Ma
anche delle cose simili secondo il gusto bisogna giudicare la
somiglianza non in base ad una sola qualità – ad esempio
all’acredine o all’astringenza, all’amarezza o alla dolcezza,
all’asprezza o all’acerbezza o alla salsezza –, ma bisogna fare
attenzione in maniera scrupolosa a tutto l’insieme di proprietà che
quelle cose posseggono. Infatti anche l’aloe e la squama del bronzo
sono astringenti, ma il loro gusto è repellente e velenoso, ed esse
non somigliano affatto ad una mela cotogna e, quindi, non sono
neppure commestibili: perciò non bisogna passare dalla mela o dalla
nespola ad esse ne bisogna somministrarle a sofferenti di coliche
intestinali o di dissenteria. Invece per chi abbia bisogno di far
cicatrizzare una ferita sulla superficie del corpo è possibile
passare a tutti gli astringenti, ancorchè questi siano velenosi ,
giacchè noi abbiamo esperienza di molti tipi di farmachi siffatti
che riescono a causare un consolidamento. Nel caso, invece, dei
malati di dissenteria è preferibile passare da commestibili a
commestibili e poi, in un secondo momento, a quellesole cose che non
sono commestibili e che, oltre all’astringenza, non hanno
alcun’altra proprietà piccante, soprattutto nè acredine nè amarezza.
Difatti è stato osservato che queste proprietà, anche da sole,
esacerbano tutte le ulceri, anche quandovengano mescolate con
astringenti normali. Che, pero, l’asprezza e l’acerbezza siano, in
un certo qual modo, determinazioni differenziali dell’astringente è
cosa ben manifesta, giacchè la qualità astringente subisce una
tensione nelle cose acerbe e un rilassamento in quelle aspre: ragion
per cui, se tu esegui un passaggio attenendoti anche a queste
determinazioni drfferenziali, avrai maggiore speranza di conseguire
quel risultato che è possibile. Qualora, infatti, venga riscontrata
con esattezza la stessa affezione che l’osservazione ci ha fatto
vedere come effetto della mela cotogna o di qualche altra cosa
similmente astringente, tu passerai a ciò che è moderatamente
astringente, vale a dire a ciò che, come dicevo, i Greci chiamano
«aspro». Se, invece, avrai sperimentato che in quell’affezione
giovano di più le cose acerbe, passerai alle acerbe.
Rimane, dunque, chiaro che, per quanto concerne il conseguimento del
«possibile», non va nutrita uguale speranza in tutte le cose simili,
ma quanto differiscono tra loro, pur nella somiglianza, quelle cose
verso cui noi effettuiamo il passaggio, tanta differenza va riposta
nella speranza di conseguire quel successo che è possibile
†151. Verrà reso noto un rimedio stimato efficace per la diarrea da
una persona meritevole di credito, e questo ci sembra molto simile a
quante cose sono state conosciute per mezzo dell’esperienza; ed è
chiaro che ciò darà anche massima fiducia nel conseguimento del
«possibile», e forse qualcuno se ne fiderà, anche se non ne ha fatto
ancora esperienza pratica. Ma in ciò che non ha assunto ancora il
ruolo di istoria e che non presenta una somiglianza adeguata, si
deve nutrire poca speranza. Cosi anche, nel trasferire un solo
rimedio da un’affezione ad un’altra affezione simile,
convienenutrire maggiore o minore speranza secondo che la
somiglianza delle affezioni venga diminuita oppure accresciuta dal
contributo o meno dell’istoria. E allo stesso modo, anche secondo
che il passaggio da una parte del corpo ad un’altra implichi
maggiore o minore somiglianza, viene a differire il tenore della
nostra speranza del conseguimento del «possibile».
Che anche secondo il giudizio dell’istorìa intercorre una differenza
tra ciò che è più e ciò che è meno simile – nel senso che nel primo
bisogna riporre fiducia come in cosa ormai vera e nel secondo come
in cosa solamente possibile –, risulta chiaro da quanto segue.
Ciò che è stato scritto da più autori fededegni e che noi abbiamo
riscoperto (anche se non molte volte, ma ben poche), e che, in base
a questi motivi, somiglia alle conoscenze da noi acquisite per mezzo
dell’esperienza, di già non merita un credito minore rispetto ai
ritrovati dell’esperienza; invece in ciò in cui si riscontra
soltanto la concordia di autori fededegni, ma che non è stato mai
visto direttamente da noi e non somiglia alle nostre dirette
conoscenze, si deve riporre minore speranza; e si deve riporre una
speranza ancora minore, se ne hanno scritto non più autori, ma uno
solo, quantunque meritevole di credito, e se noi 1’abbiamo
direttamente visto una o due volte e non più.
A mo’ di esempio, avrei da raccontarti quello che capitò ad un
malato di elefantiasi che in un villaggio della nostra Asia visse
fino ad un certo tempo con i suoi compagni. Ma poichè, a causa della
convivenza con lui, alcune persone si stavano infettando della
medesima malattia ed egli era ormai divenuto fetido e repellente,
gli costruirono presso il villaggio una baracca su di un’altura
vicina ad una fonte e lì lo fecero rimanere e gli portavano ogni
giorno tanti cibi che gli bastassero per la sopravvivenza. Ma,
al tempo della canicola, ai braccianti che stavano lavorando alla
mietitura presso quelluogo, fu portato in un boccale del vino molto
profumato. Il portatore depose il boccale presso i mietitori e se ne
ando. Quando, poi, veniva l’ora di bere, i lavoratori avevano
l’abitudine di versare il vino nella coppa attenuandolo con una dose
d’acqua; ma quella volta, mentre un garzone prendeva il boccale e ne
versava il vino nella coppa, scivolò giù dal bocale una vipera
morta. Temendo di subire un malanno da quel vino, i mietitori se ne
astennero, bevendo soltanto l’acqua, e, quando se ne andarono,
diedero, quasi come un colpo di grazia e certamente per compassione
umana, tutto il vino al malato di elefantiasi, perchè pensavano che
per costui fosse meglio morire che vivere in quella condizione. Ma
egli bevve quel vino e guari in modo sorprendente. Infatti
tuito lo strato pietrificato della sua pelle cadde giù come il
guscio dei crostacei, e la pelle rimasta appariva molle come quella
dei granchi o dei gamberi scrostati.
Un altro episodio del genere capitò, per un caso simile, nella Misia
asiatica, non lontano dalla nostra città152. Un uomo che soffriva di
elefantiasi praticava le acque termali sgorgate spontaneamente dal
suolo, sperando di trarne sollievo. Gli era arnica una schiava
giovane e bella, che aveva un buon corteo di amanti. A costei
l’infermo affidava tutte le cose di casa sua, anche quelle che si
conservava nella dispensa. Una volta, mentre gli amanti della
ragazza venivano menati dove costei si lavava in una casa vicina
situata in un luogo arido e pieno di vipere, una di queste cadde in
un boccale di vino che era stato messo lì a terra per negligenza e
morì. Stimando di far tesoro da quel fortuito accidente, la ragazza
porto al suo padrone il vino di quel boccale. Quegli lo bevve e
guarì, proprio come era guarito l’altro malato che abitava nella
baracca.
Eccoti due insegnamenti scaturiti dall’esperienza fortuita; ma un
terzo, oltre questi due, è scaturito dalla nostra abilità imitativa.
Poiché un tale era affetto dalla stessa malattia ed era più colto
degli altri due e già da molti anni si tormentava grandemente e
diceva che era preferibile morire anzichè vivere in quello stato, io
gli resi noti i due casi suddetti. Egli era esperto di auspicina e
aveva un amico mirabilmente provetto in quest’attività. Mentre si
dava all’osservazione degli uccelli insieme col suo amico, si senti
indotto ad imitare ciò di cui aveva avuto nozione per mezzo
dell’esperienza. Ma, bevendo vino così inquinato di veleno, divenne
lebbroso. Dopo un certo tempo noi lo guarimmo dalla lebbra con la
somministrazione di farmachi normali.
Oltre questi tre, un quarto, che possedeva l’arte di catturare
vipere vive, era agli inizi di questa stessa malattia e ce lo
comunicò per guarirne al più presto. Noi, allora, gli incidemmo una
vena, gli demmo un purgante che faceva emettere bile nera e gli
prescrivemmo l’uso delle vipere di cui andava a caccia, preparandole
in una pentola a guisa ai anguille. Fu questa la terapia che gli
venne applicata e la malattia si allontanò da lui.
Un altro, che era un ricco signore, non delle nostre parti, della
zona centrale della Tracia, giunse a Pergamo spintovi da un sogno.
In appresso, poichè il dio gli comandava di bere quotidianamente un
farmaco di vipera e di ungersene le parti esterne del corpo, dopo
non molti giorni la malattia si mutò lebbra; ma anche
quest’affezione fu curata, a sua volta, per mezzo di farmachi
prescritti dal dio.
Mossi da tutte quest’esperienze, noi abbiamo usato con fiducia il
farmaco che si ricava in gran copia dalle vipere secondo il modo
suggeritoci dal dio (si tratta del cosiddetto «antidoto teriaco») ed
inoltre abbiamo usato i sali teriaci, che ormai molti medici
preparano bruciando vipere vive e mescolandole con certi farmachi in
un vaso di creta nuovo; e, oltre a ciò, facciamo usare le vipere
persino come cibo: tagliamo ad esse il capo e la coda, come si fa
nella preparazione di pastiglie teriache.
Noi non perveniamo, comunque, a ciascuno di questi rimedi in modo
semplicistico e frettoloso, ma prima purghiamo il paziente, come ho
detto, e talvolta gli pratichiamo anche la flebotomia, quando la sua
età glielo permette e non gli manca il vigore. E far cominciare
questa terapia nella stagione primaverile è cosa che si addice
comunemente a molte malattie croniche.
Ho parlato di questi argomenti con una certa ampiezza, perchè molti
rimedi vengono trovati per caso e per imitazione del caso. Difatti,
come la fortuna ci offre il destro di vedere tante cose dall’effetto
spontaneo di un unico rimedio, così, anche in virtù di qualche altro
caso, è stato rinvenuto qualche altro rimedio che, poi, produce il
suo effetto in virtù dell’arte.
Questo è il discorso che è proprio della medicina empirica e che non
ha bisogno di alcuna aggiunta per esercitare bene l’arte medica.
Tuttavia quelli che si conferirono da se stessi il titolo di
caposcuola hanno fatto pure una qualche aggiunta. E, per chiarire
quello che sto dicendo, non esiterò a trattare anche di ciò in via
esemplificativa .
Si tenga, pertanto, presente che si è ricercato – e si ricerca
ancora – quale sia il fine della medicina. Da parte mia affermo che
l’Empirico che con fermezza intende rispettare l’indirizzo da lui
scelto, a chi gli ponga questa domanda risponde nel modo seguente:
«Tutte le cose che in un corpo sono innaturali io mi sforzo di
curarle e cerco di rispettare, per mezzo della mia opera, questa
promessa. Pertanto non c’è alcuna differenza se tu voglia chiamare
questo fine “integrita” o “sanità”, “acquisizione dell’integrità” o
“acquisizione della sanita” “essere sano”, oppure “essere sanato”,
preservare” o “governare” ciò che nel corpo è conforme a natura:
ciascuna di queste definizioni va bene, purchè io riesca a
comprovare la mia promessa mercè la mia opera. Invece ascolto certi
sofisti153 che non solo vanno dicendo ciò che ora ho detto io, ma vi
aggiungono anche altre cose e sono in polemica tra loro e sprecano
inutilmente il loro tempo. Non m’importa di stare a sentire
chiacchiere varie, mentre mi dedico alle opere dell’arte e sono
intento ad esse».
Ecco la risposta che, credo io, l’Empirico darà. Egli, infatti, se
tentasse di esprimere un giudizio sul disaccordo che sussiste in
merito al fine della medicina, sarebbe costretto a venire a contatto
con dottrine dialettiche che egli stesso dichiara di evitare. Ed
anche ciò è stato da me dimostrato nel corso di un intero libro in
cui viene indicato quale sia il fine della medicina154.
Ma ancor più egli non pretenderà, in questo campo, certe spiegazioni
di ordine razionale, come fanno Serapione e Menodoto. Infatti
bisogna dar prova dell’arte con l’opera piu che con l’astratto
ragionamento, evitando la dialettica, la quale ci può offrire solo
discorsi sillogistici. Egli agirà appunto in questo modo, anche nel
caso che non sia possibile sapere se sussistano certe differenze tra
le cose che ho dette, nè ten terà di dissolvere quelle
argomentazioni che sembrano mostrare qualcosa di contrario
all’evidenza e che essi chiamano sofismi, ma non le terrà in nessun
conto e si asterrà da tutti gli altri discorsi concernenti cose
non-evidenti, considerando che ciascun sofisma possiede doti
persuasive tanto inconfutabili che neppure i dialettici ne hanno le
soluzioni a portata di mano. Del resto, l’Empirico non farà nè molti
nè lunghi discorsi, ma parlerà poco e di rado, come fece anche lo
scettico Pirrone, il quale, cercando la verità e non riuscendo a
trovarla, metteva in dubbio tutte le cose non-evidenti, attenendosi
nelle azioni della vita quotidiana alle cose evidenti e dubitando,
invece, di tutte le altre cose al di fuori di queste. Come si
comporta Scettico in tutta la condotta della vita, così si comporta
l’Empirico in rapporto alla medicina, senza perdere reputazione e
senza insuperbirsene, da uomo «privo di atteggiamenti e immune da
vanagloria» come Timone155 dice che fu Pirrone.
Gli uomini resteranno ammirati della sua arte – come i seguaci di
Ippocrate hanno ammirato quella del loro maestro –, se gli ne farà
vedere la grandezza attraverso le opere, sanando, ad esempio. Le
lussazioni meglio degli altri e alle membra che sono continuamente
soggette ad essere lussate impedendo di subire quest’affezione e
guarendo fratture e ferite e ulceri e stati morbosi che altri non
erano capaci di curare e predicendo i futuri decorsi e talvolta
dicendo egli stesso, prima di interrogare il paziente, certe
situazioni che rignardano costui e si milmente certe altre in cui
questi è già venuto a trovarsi nel passato.
Mostrando di possedere tutti questi requisiti, Ippocrate ottenne la
gloria di Asclepio presso tutti i suoi seguaci, senza consultare
affatto, per Zeus, il «discorso triplice»156, come faceva Serapione,
nè il «tripode»157 come faceva Glaucia, e senza scrivere libri di
innumerevoli righe158 e senza poi dividerli egli stesso in due
parti, di guisa che ciascuna di queste se ne stia per conto proprio,
come faceva Menodoto, il quale non smise mai di ingiuriare i medici
e di dire buffonate contro di loro o latrando sfacciatamente come un
cane o sbraitando come uno che si trovi al mercato o esprimendosi
con cialtroneschi vituperi col chiamarli «ingegni assottigliati»,
«pazzi penetranti» o «involucri dorati» ed affibbiando molti altri
epiteti siffatti ai medici ed ai filosofi dommatici del passato. E
che Menodoto non sia affatto irreprensibile nell’attenersi alla
(disciplina)159 empirica, ma che egli stesso sia uno dei dommatici
più spericolati nel fare le sue enunciazioni, tu puoi acclararlo dai
rilievi che abbiamo fatto a proposito delle sue affermazioni contro
Severo e ancor più dalle sue polemiche contro Asclepiade, quando
egli dice di sapere con esattezza che tutti i «dogmi» di quello sono
falsi, quantunque infinite volte in molti suoi scritti egli abbia
reputato di accostarsi alle cose non-evidenti «come se queste
avessero, forse, una vera esistenza o come se, forse, non l’avessero
»160. Ma nelle sue confutazioni contro Asclepiade a proposito della
verità, egli reputa con certezza di aver demolito le affermazioni di
quel medico in quanto prive di ogni fondamento. Però quel
Pirrone161, che da lui viene elogiato, non si comportava cosi, ma
era un uomo tranquillo e mite e certamente di poche parole nei
limiti della convenienza, a meno che non sopravvenisse una qualche
necessità. Così accadde una volta ad un medico autenticamente
empirico che si procurava reputazione con le opere piuttosto che con
un gran numero di chiacchiere. Questi, dopo aver promesso di curare
una grave malattia, stava per eseguire un intervento chirurgico e di
poi si accingeva a praticare una terapia di farmachi con la sua
concreta opera, come ebbe a provare in seguito. Ma, mentre stava per
eseguire l’intervento, si accosto a lui un medico ciarlatano, il
quale con le sue chiacchiere cialtronesche provocava un grave
scompiglio, dicendo che a quel paziente non si doveva praticare
alcun taglio. Ma il medico empirico rimosse tutti quei sofismi,
dicendo una sola frase all’ammalato e ai familiari di questo. E la
frase fu questa: «Per ora io me ne vado, affinchè voi, considerando
le chiacchiere di costui e la mia opera che sempre avete vista,
possiate accordare la fiducia a chi dei due vi pare e piace». Detto
ciò, uscì aa quena casa. Ma anche il ciarlatano fu costretto ad
andar via, perchè i familiari dell’inferma lo lasciarono alle sue
chiacchiere, mentre richiamarono quell’altro che con la concretezza
delle sue opere dava prova della propria arte, e gli affidarono la
cura. E, in verità, non solo quel sofista, ma anche lo stesso
Demostene, che fu il più abile oratore, non avrebbe mai potuto
indurre gli uomini a non affidarsi a quelli che realmente hanno dato
prova di quest’arte per mezzo delle opere.
Cio nonostante, contro il celebre Ippocrate, che è
stato l’ornamento di quest’arte, Serapione – questo novello
Asclepio! – osò scagliarsi con tanta impudenza, tramandando, come se
fosse il primo dei medici non-dommatici162, meravigliose lodi di se
medesimo, senza fare neppure un piccolo cenno anche agli altri
medici dell’antichità che, ancora oggigiorno costituiscono il decoro
dell’arte.
Comunque, io sono così lontano dall’asserire che faccia parte
dell’empiria medica l’argomentazione «risolutiva»163 o quella
«contraddittoria»164 (così, infatti, essi le chiamano) che, anzi,
biasimo quanti le hanno messe per iscritto; soprattutto io detesto
l’argomentazione contraddittoria, che chiamano anche «contro le
varie sette». Essi, infatti, non sono in grado di giudicare quel
tanto di verità che risiede in quelle, ma credono che siano
bastevoli l’evidenza sensibile e la memoria per la costituzione di
tutte le arti. Invece è indispensabile presupporre in noi la
presenza di una qualche facoltà che sia capace di riflettere e di
giudicare ciò-che-è-contrastante e ciò-che-è-conseguenziale. Se,
pertanto, in noi stessi non sussiste tal genere di facoltà, noi non
tenteremo affatto né di porre argomentazioni né di confutare quelle
che sono state poste in modo erroneo. Se invece, sussiste nella
nostra anima un tal genere di facoltà, come credono Eraclide di
Taranto165 ed altri che pur si sono chiamati empirici, bisogna in
primo luogo addestrarsi in questa facoltà.
A dire il vero, io credo che una siffatta facoltà sussiste negli
uomini. Ed Eraclide sa che essa sussiste, e mostra di usarla in
molti casi; ma, poichè non vi si è personalmente esercitato, è un
medico tanto peggiore di Ippocrate quanto è migliore di Menodoto,
giacchè certe volte tira in ballo un terzo fattore oltre la memoria
e la sensazione, chiamandolo «epilogismo», mentre certe altre volte
non pone alcun altro fattore, oltre la memoria, se non la
sensazione, come ho notato nel mio giudizio a proposito dei suoi
scritti contro Severo. Ma scrivere sofismi per confutare – come egli
stesso dice – gli altri Empirici, non solo non è decoroso, ma è
anche grave segno di impreparazione. Non è, infatti, pertinenza
dell’arte empirica la soluzione dei sofismi, ma è pertinenza di un
Aristotele o di un Crisippo o degli altri che sono provetti nella
conoscenza della logica. Se, però, bisogna concedere che alle sue
argomentazioni di ordine logico si aggiunge l’esperienza, si deve,
altresì, affermare che questo è stato fatto in modo sufficiente da
Teoda non solo nella sua Introduzione, ma anche in maniera
sovrabbondante in altri suoi scritti. Ma io ho discusso abbastanza
anche su questo tema nelle annotazioni da me scritte a proposito
della sua Introduzione.
Dichiaro adesso, infine, che ho composto questo libro per mostrare
come sia possibile – per chi non si periti di trovare Fintera
«materia» delFarte – costituire una medicina con metodo empirico
senza la compresenza delFuso della «ragione». Ciò che Asclepiade ha
osato dire in maniera sofistica – ossia che «l’esperienza è priva di
consistenza» – e stato da me de-molito in un altro libro che ho
scritto qualche tempo fa166. 89 Quanto, poi, giovi in qualsivoglia
arte la vera ragione aggiunta alle conoscenze empiriche, io ho
scritto nei miei libri Sul metodo terapeutico167. Ed ho anche
dimostrato che è unica la ragione di cui noi, uomini tutti, per
natura siamo forniti, in un’altra trattazione in cui ho discusso
della «ragione comune», ove precisavo che, tra tutte le cose che noi
enunciamo, sono state conosciute alcune esclusivamente in base alia
sensazione, altre, invece, in base al sopraggiungere in esse di una
«nozione razionale» di ciò-che-è-conseguenziale e di
ciò-che-è-contrastante; e, a proposito delle cose conseguenziali, ho
dimostrato anche ce n’è una fondata sulla necessità e che viene
vista conevidenza dalle persone di natura sennata, e che ce n’è
un’altra contingente, che non trova un proprio fondamento nella
necessità; ed ho precisato, altresì, che la maggior parte degli
uomini cade in errore per la sua faciloneria, giacchè pone come
necessario ciò che, invece, è contingente; e appunto in questo modo
trae origini il disaccordo tra i Dommatici, dal quale se noi ci
terremo lontani, saremo, sì, soggetti a parecchie sconfitte, ma
faremo anche noi le nostre enunciazioni, su certe questioni , con
reciproca concordia, come fanno i geometri, i computisti e gli
aritmetici.
Ma si dà il caso che i Medici Empirici siano, a loro volta, in
disaccordo tra loro per il medesimo motivo, come ho detto nelle mie
annotazioni a proposito delle loro discrepanze!168
1. Si ricordi l’affinità tra la concezione socratica, della
filosofia come «cura dell’anima» (cfr. P lat. Apol. 2çd, 3od; Prot.
313a) e lo spirito profondamente scientifico che circola nel
capolavoro ippocratico L’antica medicina, composto probabilmente tra
il 430 e il 415 a. C, ossia in pieno umanesimo attico (W. J aeger,
Paideia, II, Firenze, 1954, pp. 49 segg.; IPPOCRATE, Opere, a cura
di M. Vegetti, Torino, 1965, pp. 121 segg.).
2. Cfr. Adhort. ad artes addisc, V, ove, in piena opposizione alla
demolizione scettica fatta da Sesto Empirico in Adv. math., Galeno
dispone in cerchio intorno a Dio geometri, aritmetici, filosofi,
medici, astronomi e grammatici.
3. GALEN. De sectis, I.
4. Cfr. A. CASTIGLIONI, Storia della medicina, pp. 113 segg.; H. E.
SIGERIST, Antike Heilhunde, München, 1929; J. SCHUHMACHER, Antike
Medizin. Erster Band. Die natur philo sophischen Grundlagen der
Medizin, Berlin, 1940; B. GORDON, Medicine throughout Antiquity,
Philadelphia, 1949; G. MONTALENTI, Storia della Biologia e della
Medicina in Storia delle Scienze, coordinatada N. Abbagnano, vol.
III, tomo I, Torino, 1962, pp. 8 segg.; D. GUTHRIE, Storia della
Medicina, Milano, 1967, pp. 50-89.
5. Si rinvia al capitolo La questione ippocratica del Vegetti in
IPPOCRATE, Opere, cit., pp. 65-77.
6. Tale è il caso di Acrone di Agrigento, che, secondo Suida (voce
“Aϰρων =I Wellmann), fu contemporaneo di Empedocle e formulò
un’ipotesi pneumatica e che, secondo Plinio (= 2 Wellmann), fece
sviluppare un indirizzo medico che si chiamava «empirico» a causa
degli esperimenti che faceva, meritando le lodi di Empedocle (cfr.
31 A 1, 3 Diels-Kranz).
7. Escludendo Ippocrate, che dobbiamo porre al di sopra delle parti,
l’indirizzo razionalistico, che aveva già avuto una delle sue prime
manifestazioni con Filolao di Crotone in ambiente pitagorico (cfr.
SEXT. EMP. Adv. log. I, 92, ove si parla della ragione matematica
come «criterio» dei Pitagorici e dell’analogia come «criterio»
medico di Filolao), trovò il suo primo esponente di rilievo in
Prassagora di Cos, vissuto nel IV sec. a. C. (cfr. 68 B 124
Dielskranz) e maestro di Erofilo di Calcedonia, che visse presso
Tolomeo I e fu il caposcuola del razionalismo medico in età
ellenistica. Erofilo si distinse nello studio dei nervi, delle
arterie, delle vene, del cuore, dell’ottica, dell’embriologia e
concedeva largo spazio all’osservazione ed all’esperienza, che egli
preferiva al δóγμα. Il suo metodo anatomico (e la sua opera
principale era intitolata ’Aνατομιϰή) non piaceva ovviamente agli
Empirici. Plinio (Nat. hist. XI,219) riferisce che egli veniva messo
in disparte per la sua eccessiva sottigliezza Galeno (XIV, 683 Kuhn)
lo chiama «dialettico» e Sesto (Pyrrh. hyp. II, 245) dice con
compiacimento che i suoi discepoli furono sofisti: fu, infatti,
molto famosa la sua polemica col più grande dei suoi allievi,
Erasistrato (cfr. H. S. SCHWARZ, Herophilos und Erasistratos, eine
historische Parallele, diss, inaug. Würzburg, 1820 e, per più ampie
notizie, la voce Herophilos del Gossen in «RE», VIII, I, coll.
1104-10). Gli studi anatomici furono perfezionati da Erasistrato,
che eseguì addirittura quella vivisezione dell’uomo contro cui
protestavano gli Empirici per motivi umanitari e che scrisse un
trattato di aitiologia contro Filino empirico e una Divisione
anatomica, suggeritagli dalle più dirette esperienze in merito (cfr.
Ps.-Diosc. II, p. 42 Sprengel). Fiorito nel mezzo del III sec. a. C,
Erasistrato non fu estraneo agli interessi filosofici: anche se non
sono certi i suoi rapporti con la Stoa e con Crisippo, anche se egli
teneva a distinguersi da quel Diocle di Caristo che ereditava molta
metafisica da Aristotele, ebbe sicuri rapporti con la fisica di
Stratone di Lampsaco (cfr. H. DIELS, Über das physikalische System
des Straton, «S. Ber. Akad. Berlin», 1893, pp. 105 segg.; M.
WELLMANN, «Hermes», XXXV, pp. 371 segg.; Erasistratos, in «RE», VI,
1, coli. 332-50). Con Erofilo e con Erasistrato, entrambi
sensibilissimi al metodo sperimentale, l’anatomia non fu mai
staccata dalla fisiologia e dalla patologia; discutibile, invece, è
l’apporto dato alla scienza da Asclepiade di Bitinia (I sec. a. C),
che Plinio considerava un ciarlatano e che il Neuburger ha invece
ritenuto un prode combattente contro un dommatismo ormai anchilosato
e il Wellmann (Asklepiades, in «RE», II, i, coli. 1632-3) riconduce
ad un atomismo di vecchia data per la sua singolare teoria
corpuscolare. Benché su Asclepiade sembri innegabile una certa
influenza di dottrine atomistico-epicuree, egli dovette essere
alquanto eclettico e non alieno dal ricorrere a certi accorgimenti
semplicistici; anzi forse proprio da lui Temisone, fondatore
dell’indirizzo metodico, dovette desumere non pochi spunti per la
sua riforma. Un posto a parte occupavano, nello schieramento
dommatico, i Medici Pneumatici, il cui più noto esponente fu Ateneo
di Attalia (fiorito nell’età di Claudio e di Nerone), il quale in
parte si rifaceva alla vecchia medicina italica di Acrone e di
Filistione, in parte — forse attraverso Diocle di Caristo — alla
teoria aristotelica dello sviluppo e delle quattro «qualità» (caldo,
freddo, umido, secco), ma soprattutto si ispirava alla concezione
stoico-crisippea del pneuma e dell’εὐϰρασία, ossia della felice
mistione degli elementi (cfr. WELLMANN, Die pneumatische Schule bis
auf Archigenes, «Philol. Untersuchungen», XIV, 1895; Athenaios, in
«RE», II, 1, coli. 2034-6).
8. Già spunti aurorali di medicina empirica erano in Acrone di
Agrigento, contemporaneo di Empedocle; ma con Filino di Cos, fiorito
nel 250 a. C. e allievo di Erofilo, l’indirizzo empirico trovava il
suo atto ufficiale di nascita. Sappiamo da Eroziano (fr. 311
Deichgråber) che Filino compose un’opera in sette libri contro il
Lessico ippocratico di Baccheio di Tanagra, suo contemporaneo, il
che si inserisce in quel dibattito su Ippocrate che ebbe sempre un
grande rilievo nella storia della medicina antica. Studiò la teoria
della pulsazione (fr. 77 Deichgråber) e accordò alla sensazione, da
buon empirico, un ruolo predominante (fr. 164 Deichgråber). Non ci
è, però, possibile una esauriente ricostruzione della sua
personalità, perché i suoi successori spesso gli attribuivano teorie
che si andarono formulando dopo di lui (cfr. Diller, Philinos, in
«RE», XIX, 2, coli. 2193-4). Serapione di Alessandria, fiorito verso
la metà del II sec. a. C, fu, secondo Galeno (XIV, 683 Kuhn) seguace
di Filino e compose due libri di Schizzi empirici contro le
classificazioni in uso presso i Medici Razionalisti (Galen. Scripta
minora II, 115 Müller), un’opera Contro le sette che fu poi discussa
da Galeno (De libris propr. in Scripta min. II, 115, 5 Müller) e
un’altra intitolata Per mezzo di tre cose (cfr. Deichgråber, p. 83,
21), in cui esponeva probabilmente i tre princìpi fondamentalidegli
Empirici. Anche se non possiamo giurare sulla notizia celsiana
secondo cui egli già avrebbe concepito la metodologia empirica in
tutte le sue ricche articolazioni, indubbiamente dovette darle un
serio impulso. Come si evince dalle testimonianze (Deichgråber, pp.
163-8), tra lui ed Erasistrato c’erano molti punti in comune sul
terreno pratico-terapeutico. Durante il secondo secolo a. C con
Apollonio d’Antiochia, detto l’Antico, e col figlio omonimo di
costui si accentuarono le polemiche anti-stoiche, soprattutto in
merito alla caratte-riologia patologica. Personalità interessante fu
Glaucia di Taranto, fiorito intorno al 170 a. C, autore del Tripode,
nel quale la metodologia empirica veniva fondata sulle tre
principali vie d’indagini che poi vennero sempre più approfondite
nel corso dei secoli, ossia l’ispezione diretta, l’istoria e il
passaggio dal simile al simile. Altra sua opera fu un Glossario di
Ippocrate (fr. 311a Deichgråber), ricco di precisazioni
terminologiche in chiave empirica, e un commentario del VI libro
delle Epidemie (fr. 350 Deichgråber). Parecchie notizie su di lui
sappiamo attraverso Plinio (Nat. hist. XXI, 174; XXII, 95; per la
raccolta delle testimonianze cfr. Deichgråber, pp. 168-70). Nella
prima metà del I sec. a. C fiorì Eraclide di Taranto, che forse non
va confuso con quel-l’Eraclide scettico, suo contemporaneo, il quale
fu allievo di Tolomeo di Cirene e maestro di Enesidemo. Fu autore di
un’opera Sull’indirizzo empirico, di cui Galeno, suo ammiratore
(frr. 199, 208 Deichgr.), fece una sinossi in otto libri e, secondo
il Wellmann («RE», VI, 1, coll. 1139), i suoi scritti furono
utilizzati da Varrone nelle Ebdomades. Spesso Galeno lo cita accanto
a Mantia, probabile maestro di Eraclide. Uno dei punti salienti
delle sue dottrine era l’inutilità dell’aitiologia (fr. 175
Deichgråber). Celio Aureliano (De acut. morb. I, 17, 166) lo
considera «nemine [Empiricorum] posterior atque omnium probabilior».
Nel primo secolo a. C. la Medicina Empirica ebbe numerosi esponenti
e i suoi princìpi metodologici erano ben noti a Cicerone (Lucuti.
122, 124, 127) che li citava a conforto delle sue tesi
neo-accademiche. Tra questi Empirici ricordiamo: Diodoro, autore,
fra l’altro, di Questioni empiriche (PLIN. Nat. hist. I, 20, 119);
Lieo di Napoli, che fu, tra l’altro, commentatore di Ippocrate (frr.
315-316 Deichgråber); Zopiro di Alessandria, da cui prese nome una
droga (zopyrium) per la terapia delle malattie acute o che forse da
questa droga da lui usata ricevette il nomignolo (cfr. F. KUDLIEN,
Poseidonius und die Arztschule der Pneumatiker, «Hermes», XC, 1962,
pp. 419 segg.; B. DRABKINS, Cael. Aurei., On acute Deseases,
Chicago, 1950, p. 328); Apollonio di Cizio, allievo di Zopiro ed
anche lui commentatore di Ippocrate, un cui frammento (276
Deichgråber) è ricchissimo di metodologia empirica per il rilievo
che si dà all’esperienza coscientemente pratica (τριβή) e
all’epilogismo ed ha qualche risultanza neo-accademica per la
presenza del πιϑανóν, cui gli Empirici – fino a Sesto incluso – si
rifugiavano nei momenti difficili; Zeusi, autore, fra l’altro, di
Discorsi doppi (DIOG. LAERT. IX, 106), che fanno pensare ad una
reviviscenza dell’antica sofistica accanto alle antilogie
accademico-scettiche nella Medicina Empirica; Archibio (K.
KALBFLEISCH und H. Schone, Berliner Klassikertexte, Heft III,
Berlin, 1905), che fu molto studioso di Ippocrate per testimonianza
di Galeno (frr. 283-284 Deichgråber). Nell’età di Tiberio visse il
grande Cassio, che Celso (IV, 21, 2; V, 25, 17) ricorda con viva
ammirazione e che seguiva Serapione nel metodo dell’analogia
empirica e nel respingere l’aitiologia (Deichgråber, p. in). Tutti
questi Medici che abbiamo fugacemente menzionati rientrano nella
prima fase storica della Medicina Empirica. Benché non ci sia ancora
in loro la consapevolezza di un’alleanza culturale con lo
Scetticismo, già si riscontrano parecchie affinità con quest’ultimo,
e in particolare: la rivendicazione dell’esperienza sensibile, un
certo appiglio probabilistico, una riduzione della semeiotica e
della diagnostica al minimo indispensabile, una tendenza accentuata
alla prognostica e alla praticitàterapeutica, un rispetto quasi
esclusivo per il fenomeno e una ripulsa per la ricerca della
Ursache, anche se non della Tatsache. Ci sono, insomma, già valide
basi per la cosciente teorizzazione di Menodoto.
9. L’indirizzo metodico sorse nel I sec. a. C ed ebbe come fondatore
Temisone di Laodicea, allievo di Asclepiade, ma suo principale
esponente fu Tessalo di Traile, che fiorì nell’età di Nerone ed ebbe
vasta popolarità non solo tra la bassa plebe, come dicevano con
compiacimento gli avversari, ma anche presse le classi elevate.
Tessalo fu antippocratioo già nel sostenere che la vita è lunga e
l’arte è breve e che bastavano soli sei mesi per diventare medici.
Egli prescindeva tanto dall’anatomia quanto dalla fisiologia; la sua
patologia era schematizzata in status strictus e status laxus, che
venivano curati ciascuno con rimedi opposti, mentre lo status
tmxtus, che pur si poteva verificare, già metteva un po’ a
repentaglio la sua sicumera. Gran parte del suo sistema si riduceva
a trovare rimedi astringenti per la rilassatezza e lassativi per la
strettezza: si trattava – come scrive il Castiglioni (St. della
Med., p. 212) – di «un sistema semplicistico che naturalmente doveva
corrispondere alle esigenze della pratica e prestarsi a facili
spiegazioni e quindi acquistare, come la storia della medicina ci
insegna di tutti i sistemi semplicistici, il favore del popolo».
Contro Tessalo Galeno mostra sovrano disprezzo sia nel De sectis sia
in molti luoghi del De methodo medendi, ove in I, 1 si dice che
Tessalo fu spinto dal desiderio del successo e della ricchezza e non
dalla dignità dell’arte ad adulare ì ricchi Romani; in I, 2 viene
ironicamente riprodotto un brano dell’Epistola a Nerone in cui
Tessalo sosteneva tronfiamente che tutti i medici che lo avevano
preceduto non avevano tramandato nulla di utile per la difesa della
salute: in III, 2 Tessalo e i suoi seguaci vengono accusati di
mancanza di metodo e di empirismo ridotto ai minimi termini e in
III, 7 vengono considerati molto inferiori agli Empirici, giacché
Tessalo. «questo novello Asclepio», considerava i teoremi della
medicina come cose che non richiedono affatto conoscenza
scientifica, ma come cose elementari che anche gli uomini dell’età
di Pirra e Deucalione avrebbero potuto capire. Ancora da varie opere
di Galeno sappiamo molti nomi di Metodici sia latini che greci:
Proculo, Regino, Eudemo, Mnasea, Filone, Dionisio, Menemaco, Olimpio
(che, secondo Galen. De meth. med. I, 9, confondeva l’affezione col
sintomo, il quale è solo l’accidente dell’affezione), Apollonide,
Sorano (che si distinse nell’ostetricia, nella ginecologia e nella
diagnosi differenziale e, benché metodico, studiò anatomia e fu
molto scrupoloso osservatore dei casi clinici: la sua opera fu nel
sec. V d. C. tradotta in latino da Celio Aureliano), Giuliano, che
fu contemporaneo di Galeno e che questi (De meth. med. I, 7)
considerava «grosso millantatore» (per più ampi ragguagli vedasi H.
DILLER, Thessaios, in «RE», VI A, 1, coll. 168-82; M. WELLMANN,
Caelius Aurelianus, in «RE», III, 1, coli. 1256-8).
10. Cfr. M. DAL PRA, Lo scetticismo greco, pp. 431-4.
11. La datazione biografica di Menodoto è strettamente legata a
quella di Teoda ed è stata discussa ampiamente già nel secolo scorso
dallo Sprengel (Versuch einer pragmatische Geschichte der
Arztheilkunde, Halle, 1800, p. 658), dal Daremberg (Histoire des
sciences médicales, Paris, 1870, p. 160), dallo Haas (De philos,
scept. successionibus, cit., p. 8) e dallo Zeller (Die Philos, der
Griech., IV, p. 483, n. 2) e la discussione è durata anche nel
nostro secolo conlTssel (Quaestiones Sextianae et Galenianae, diss.
Marburg, 1917, pp. 13 segg.), che lo fa nascere nel 130 d. C. e col
Deichgråber (Die griech. Empirikerschule, pp. 212-4), che lo fa
nascere intorno al 125 d. C. Menodoto era morto solo da qualche anno
quando Galeno, ancora giovane, scrisse nel 164 l’operetta De
subfiguratione empirica. Probabili sedi del suo magistero furono
Alessandria, Tarso e Laodicea. La sua principale opera constava di
undici libri ed era dedicata ad un certo Severo, di cui nulla
sappiamo, ma dovettero essere anche interessanti le sue polemiche
contro altri Medici Empirici, come ci informa Galeno (De subf. emp.,
pp. 65, 10; 88, 4 Deichgråber), mentre i suoi scritti contro
Asclepiade (cfr. DEICHGRåBER, pp. 285 segg.) dovettero, almeno in
parte, rifarsi ad analoghe opere di Empirici da Temisone in poi. Il
Robin (Pyrrhon et le scepticisme grec, p. 190) insiste sulle
somiglianze tra Menodoto e Pirrone e sul suo antimoralismo. Quasi
certamente i passi sestiani in cui si discute di Platone,
dell’Accademia e del probabilismo traggono origine da analoghi passi
menodotei e, secondo il Natorp (Forschungen zur Gesch. des Erkenn.,
p. 156), anche Galeno nel De subf. emp. si sarebbe rifatto
soprattutto a Menodoto come fonte per l’esposizione della
metodologia empirica. Quest’ultima riempì di ammirazione gli
studiosi moderni nello scorcio tra il sec. XIX e il XX per le
sorprendenti affinità col metodo sperimentale sviluppatesi da Bacone
a Stuart Mill e a Bernard (cfr. V. BROCHARD, Les sceptiques grecs,
pp. 371 segg.; La méthode expérimentale chez les anciens, «Revue
philosophique», I, 1887, pp. 37-49; L. FIGARD, Quatenus apud Graecos
experientiam in instituenda medi cinae methodo commendaverint
Empirici, Paris, 1903; A. FAVIER, Un médicin grec du deuxième siècle
après J. C., précurseur de la méthode expérimentale: Ménod. de Nie,
Paris, 1906; A. GOEDECKEMEYER, Die Gesch. des griech. Skept., pp.
281 segg.). Al nostro tempo parecchi entusiasmi si sono placati e,
nonostante qualche inevitabile ritornello anti-metafisico ormai
abbastanza conformistico (cfr. Dal Pra, Lo scetticismo greco, pp.
454 segg.), sono apparsi con chiarezza anche i limiti dell’empirismo
metodico che risulta ben lungi dall’essere una Théorie des Beweises
(cfr. W. CAPELLE, Menodotos, in «RE s, XV, I, coll.(901-16)
12. Teoda di Laodicea, allievo del suo compatriota Antioco, fu
collega di Menodoto e contribuì efficacemente alla chiarificazione
della metodologia empirica. Le sue due grandi opere Introduzione
alla medicina e Punti capitali furono ampiamente commentate da
Galeno in due opere apposite, ciascuna in tre libri, mentre la sua
opera Partizione della medicina studiava approfonditamente la
semeiotica, la terapeutica e l’igienistica esprimendo in molti punti
l’accordo con i Dommatici. Da lui, forse più che da Menodoto, furono
definitivamente rinsaldati i canoni dell’empiria: l’autopsia,
l’istoria e il passaggio del simile. Il suo empirismo non assumeva
quasi mai posizioni radicali e perciò riscuoteva stima e attenzione
dagli avversari (cfr. CAPELLE, Theodas, in «RE», VA, i, coll.
1713-4).
13. Teodosio visse verso la fine del II sec. d. C. Egli scrisse,
come attesta Diogene Laerzio (IX, 70), Capitoli scettici e commentò
i Punti capitali di Teoda. Forse fu ancora più moderato di
quest’ultimo, anzi pare che non nutrisse molta simpatia per Pirrone
(cfr. GOEDECKEMEYER, op. cit., p. 289; DEICHGRABER, op. cit., pp.
219-20; K. VON FRITZ, Theodosios, in «RE», VA, 2, coll. 1929-30).
14. Sappiamo solo che quest’Erodoto fu il maestro di Sesto Empirico,
che fece aperta professione di Pirronismo e che fu il quinto
«diadoco» di Enesidemo (DIOG. LAERT. IX,’ 116). Forse, mentre Teoda
e Teodosio costituivano l’ala destra dello schieramento empirico,
Erodoto ne costituiva la sinistra e non dovette essere immune da
simpatie per i Metodici che, forse a lui e certamente a Sesto,
apparivano più vaccinati contro ingerenze dommatiche. Anche il
principale maestro di Galeno, Aiscrione di Pergamo, studioso
soprattutto di flebotomia (cfr. fr. 297 Deichgraber), seguì
l’indirizzo empirico, e nel III sec. d. C. visse un Cassio
iatrosofista (da non confondere col grande medico dell’età
tiberiana, come talvolta è accaduto) che, forse riecheggiando anche
Sesto, continuò la polemica anti-stoica. Poco o nulla, infine,
sappiamo di Saturnino, allievo di Sesto e una delle probabili fonti
di Diogene Laerzio (cfr. BROCHARD, Les sceptiques grecs, p. 327; DAL
PRA, Lo scetticismo greco, p. 534).
15. Esaminando i rapporti tra Razionalisti ed Empirici nella
medicina greca si cava l’impressione che non poche volte le
polemiche interne a ciascuna delle due scuole venivano a facilitare
un accostamento delle due scuole tra loro. Ciò non solo derivava dal
fatto che spesso Medici Empirici uscivano dalla scuola di Medici
Razionalisti e viceversa, ma anche dal sincero amore per la ricerca
e per la «verità» che entrambi gli indirizzi professavano e
soprattutto per l’interesse dei pazienti che non venivano ridotti a
cavie di esperimento, come suole accadere in tempi di spericolato
riformismo o rivoluzionarismo. Sesto Empirico, applicando anche alla
storia della medicina il tropo della διαφωνία, Sioccpcovioc,
rilevava la grande differenza che intercorreva tra Erofilo,
Erasistrato e Asclepiade, i quali tutti praticavano il metodo
analogistico, e non si degnava neppure di menzionare quell’Ateneo di
Attalia e quella Medicina Pneumatica che contaminava cosmologia
stoica e indagine medica. Ma avrebbe anche potuto, a nostro
vantaggio, mettere in rilievo la διαφωνία che regnava in campo
scettico-empirico, che ricaviamo, invece, da molte testimonianze
galeniane. Tra i due grandi indirizzi, insomma, si riscontra spesso
lo scambio delle parti e il famoso «sperimentalismo» talvolta è
anche più marcato nei Dommatici che non negli Empirici. Qualcosa di
simile è avvenuto nella filosofia pre-kantiana tra Razionalisti ed
Empiristi, e forse Galeno, come un antico Kant medico, mirava a
concludere la secolare polemica piuttosto che ad accentuarla.
16. In De meth. med. I, 4 Galeno fa presente che non esistono solo
fenomeni sensibili, come vogliono gli Empirici, ma anche fenomeni
mentali (νοήσει), i quali pur vanno presi in considerazione. Egli
non nega (ibid. I, 9) che anche i Medici analogisti o dommatici o
logici cadano in grossi errori quando trascurano l’esperienza, ma è
anche grave errore quello di pretendere di spiegare
ciò-che-è-contro-natura, come i morbi, ignorando
ciò-che-è-per-natura (ibid. II, 4); perciò è necessario non
confondere ciò che si trova nell’empiria con ciò che si investiga
con la ragione, ma trovare una composizione di entrambe le cose dopo
averle approfondite separatamente (ibid. II, 6). Gli Empirici,
«ammaestrati dalla stessa esperienza» (ibid. V, 1), si sollevano di
gran lunga al di sopra dei Metodici, ma, poiché respingono — anche
se solo in teoria – la ragione, sono superati dai Logici, i quali
sono gli «autentici metodici» (ibid. III, 7)
17. Di questioni mediche Sesto trattava in due opere che sono andate
perdute: gli Scritti empirici (cfr. DEICHGRÄBER, fr. 56) ed 1
Commentari medici (di cui è menzione in Adv. log. I, 201 = fr. 298
Deichgråber). Una raccolta di passi «empirici» è costituita dai frr.
299-303 Deichgräber: si tratta di una raccolta molto ridotta e
stringata che presuppone tutta una vasta metodologia di cui, nel
Corpus sextianum, ci sono rimasti solo gli addtentellati filosofici.
18. L’autopsia è strutturalmente legata alla sensazione e può
costituire un principio metodologico solo se si libera da quegli
elementi fortuiti che la renderebbero instabile e contradditoria. Il
contrasto tra τυχη e τέχνη, che affondava le sue radici già nell’età
pre-platonica (cfr. M. POHLENZ, Der Geist der griech. Wissenschaft,
Berlin, 1923, pp. 8 segg.; B. SNELL, Die Begriff e des Wissens in
der vorplatonische Philosophie, Berlin, 1924, pp. 85 segg.; J.
STENZEL, Studien zur Entwicklung der platonischen Dialektik,
Breslau, 1917, pp. 71 segg.), venne rilevato anche da Aristotele, il
quale sostenne che l’empiria, madre dell’arte, già va oltre la τὐχη
(cfr. Metaph. I, 980b 28; An. post. II, 19, 100a 5 segg.), e ancor
più da Teofrasto (cfr. W. THEILER, Die Entstehung der Metaph. des
Arisi., «Mus. Helv.», XV, 1958, pp. 85-115; A. WEISCHE, Cicero und
die Neue Akademie, pp. 62-7) e da Diocle di Caristo, che molto si
rifaceva alla filosofia del Peripato (cfr. DEICHGRåBER, Die griech.
Empiriker schule, pp. 273-7, ove è delineato un progressivo
scientificizzarsi del concetto di esperienza in età ellenistica
anche ad opera delle indagini dello Stoicismo e dell’Epicureismo,
contro cui gli Scettici erano in lotta, ma da cui desumevano anche
temi e concetti; W. JAEGER, Diokles von Karystos: Die griechische
Medizin und die Schule des Aristoteles, Berlin, 1938). In realtà
anche i grandi Medici Razionalisti praticavano l’osservazione
diretta e, nel mondo moderno, il termine tecnico «autopsia» deriva
più direttamente dalla tecnica anatomica della sezione dei cadaveri
praticata da loro che non dal concetto empirico di ispezione. Ciò
che gli Empirici non potevano accettare era la presenza del λογισμóς
accanto alla τριβή (cfr. DEICHGRÄBER, op. cit., p. 277), e forse
proprio su questa conclusione anti-razionalistica si andava
preparando il terreno per una feconda collaborazione tra Scetticismo
e Medicina Empirica: il primo dava alla seconda le armi per
combattere contro il Dommatismo, e la seconda dava al primo le armi
per poter vivere praticamente. In realtà, come ha rilevato il
Deichgråber (op. cit., p. 291), empiria ed autopsia differiscono
solo di nome e la loro comunanza è data dall’insistenza sulla
sensazione. Anche se non mancano punti in comune tra Razionalisti ed
Empirici (ad es. nella partizione della medicina in semeiotica,
terapeutica ed igienistica e nella fondazione dell’esperimento
mediante il superamento dello spontaneismo e la costruzione quasi
aristotelica di una «mimesi tecnica» (μιμητιϰή πεῖρα), gli Empirici
non recedono mai dal presupposto sensistico e danno validità ai loro
«teoremi» non «sempre» ma «per lo più», arrivando a quest’ultimo
quasi attraverso una somma algebrica delle risultanze positive e
negative dell’autopsia (cfr. SEXT. EMP. Adv. log. II, 288). In tal
modo, mentre la Medicina Domma-tica, pur con le sue differenze
ideologiche, perviene ad una totalità sistematicamente ordinata, la
Medicina Empirica intende limitarsi, per cautela, ad una somma di
opposte osservazioni.
19. Lucull. XXXIV, 108.
20. È significativo il fatto che Sesto non usa mai, in tutti gli
scritti che ci sono pervenuti di lui, il termine αὐτοΨία, mentre usa
spesso τήρησις e πατήρησις (cfr. l’indice di Janácek, pp. 230-1,
174-5).
21. Costoro, infatti, si limitavano a riscontrare le «comunanze» su
cui Tessalo aveva scritto una delle sue opere principali (cfr.
GALEN. De meth. med. I, 2) e che gli facevano curare «tutti i
pazienti allo stesso modo» (GALEN. ibid. XIII, 18).
22. Tra le varie definizioni date a questo termine sono da ricordare
«annuncio delle cose viste», «annuncio delle cose che appaiono con
evidenza», «annuncio delle cose che si vedono o nel modo in cui si
vedono» (GALEN. De subf. emp. VIII), «esposizione delle cose che
sono state sperimentate spesso secondo le stesse caratteristiche»
(GALEN. De opt. secta I, 142, 18 = fr. 59 Deichgråber). Mentre il
Philippson (De Philodemi libro qui est περὶ σημείωνϰαὶ σημειώτεων,
p. 51), rifacendosi al Prantl (Gesch. der Logik, I, p. 129) vedeva
giustamente i fondamenti dell’istorìa in Aristotele, il Deichgråber
(op. cit., pp. 300-1) estende ancora più giustamente questa
provenienza alla medicina ippocratica e in particolare allo scritto
capitale Antica medicina. (Per altri addentellati pre-platonici
vedasi inoltre, dello Snell, oltre l’opera citata in n. 18 anche il
precedente studio Der Ausdruck für des Begriff des Wissens in der
vorpiat. Philos., Berlin, 1914, pp. 84 segg.). Strettamente legata
alla definizione di istoria è l’espressione sestiana (Pyrrh. hyp. I,
4) «noi enunciamo con metodo storico (ἱστοριϰῶςἀπαγγέλλομεν) intorno
a ciascuna cosa secondo il modo in cui essa attualmente ci appare»
(per i vari usi del termine Icrropia e dei suoi derivati in Sesto
vedasi l’indice di Janácek, p. 124).
23. Per la fenomenologia degli δηλα cfr. SEXT. EMP. Pyrrh. hyp. II,
97; Adv. log. II, 145-147 e le acute indagini terminologiche di K.
Janácek (Sextus Empiricus sceptical Methods, pp. 25, 30, 33, 72, 80,
104 e soprattutto 107-108, ove, esaminando Adv. log. ii, 27, lo
studioso moravo, in contrasto con lo Heintz, sostiene che «Sextus
was familiar with all sceptical finesses». Noi alle finesses
scettiche aggiungeremmo anche quelle medico-empiriche.
24. Rinvio al mio capìtolo Sesto storico della logica antica in
SESTO EMPIRICO, Contro i logici, pp. xviii-xxiv.
25. Fr. 64 Diels.
26. I Razionalisti applicavano il principio logico-matematico
dell’analogia in riferimentc alle parti del corpo umano, alle
malattie ed ai rimedi: anche gli Empirici applicavano la loro
metabasis a questi tre settori, ma differivano dai loro avversari in
quanto questi ultimi si fondavano sulla causalità, mentre essi sulla
verosimiglianza e sulla probabilità, in armonia progressivamente
sempre più consapevole con i princìpi scettici. Come ha osservato il
Deichgråber (op. cit., pp. 304-5) contro il Philippson, anche se non
si può negare qualche affinità con la tradizione aristotelica, gli
Empirici non perdono mai di vista il lato pratico delle questioni e
ciò li rende sostanzialmente diversi dal teoreticismo peripatetico.
27. Aristotele insiste su questo divieto particolarmente in An. pr.
I, 27; An. post. I, 7-9; II, 13; Metaph. X, 7, 1057a 26 segg.
28. Aristotele (Metaph. VIII, 2, 1043a 2 segg.), studiando le
differenze delle forme nelle sostanze sensibili, si era posto il
problema dell’applicabilità analogica in sede
definitorio-metafisica, ma aveva ben sottolineato l’inclusione di
ciascun oggetto (differente dall’altro) in una stessa sostanza
«essendo la sostanza causa di ciascuna cosa», come egli già aveva
precisato in Metaph. VII, 17. Per gli Empirici, invece, sostanza e
causa sono epochizzate e alla metodologia deduttiva, che è il
presupposto dell’analogia, si va sostituendo una metodologia
induttiva, le cui differenze con l’analogia non erano sfuggite già
allo stesso Aristotele (Top. I, 156b 10-17).
29. Cfr. Pyrrh. hyp. II, 219-227. È ovvio che tra due mali, quali
sono i generi e le specie, se gli Empirici dovranno pur scegliere,
sceglieranno le seconde (cfr. SEXT. EMP. Adv. log. I, 50).
30. Cfr. SEXT. EMP. Pyrrh. hyp. II, 205-212, ove la definizione è
considerata non solo impossibile, ma anche inutile ai fini
conoscitivi e didattici; GALEN. De subf. emp. VI, p. 59, 2 segg.;
VII, p. 62, 7 segg. Deichgråber; nonché fr. 116 Deichgråber.
Un’applicazione della διαστολή è eseguita da Sesto in sede logica a
proposito delle anfibolie (cfr. Pyrrh. hyp. II, 256-258). A questa
nozione, che il Deichgråber (op. cit., p. 305) definisce «die
Unter-scheidung des Übereinstimmenden vom Individuellen», è
strettamente congiunta la ὐπογραφή, ossia la descrizione o
«sottoscrizione», sostantivo che Sesto non usa mai direttamente, ma
di cui sfrutta il verbo più di una volta (cfr. Adv. math. III, 20,
96, 100; VI, 42; Adv. log. I, 23, 238; II, 9, 12, 244, 314, 454;
Adv. eth. 25, 42 = Pyrrh. hyp. Ill, 175), e che troviamo in GALEN.
De subf. emp. VII, p. 63, 1 Deichgråber e in Voli. Vili, 725, 17 e
XIV, 686, 4 Kuhn. L’applicazione della «descrizione» fu fatta in
modo molto dettagliato negli studi di Eraclide di Taranto sulla
pulsazione (cfr. DEICHGRåBER, op. cit., p. 306). Non è, comunque,
privo di attrattive l’accostamento del descrittivismo
medico-empirico a quello della moderna fenomenologia husserliana.
31. Vedasi, a tale riguardo, A. Fay, Vico, il filosofo della
metabasi,«Riv. crit. di st. della filos.», XXXI, 1976, pp. 251-78.
32. Il termine ἐπιλογισμóς non trova riscontro in Aristotele, se non
in rare applicazioni non tecniche (fr. 123 Rose; Polit. VI, 8, 1322b
35), ma fu presente nella dialettica stoica, come ci informa Galeno
(In Hippocr. progn. vol. XVIII B, p. 26 Kuhn = Stoic, vet. frag. II,
269 Arnim) che così lo differenzia dall’analogismo: «Analogismo è un
discorso che parte dal fenomeno e produce la comprensione del
non-evidente; epilogismo, invece, è il discorso comune e concorde
presso tutti». Questa definizione stoica fa pensare che gli Empirici
abbiano, almeno parzialmente, mutuato il loro cavallo di battaglia
dall’Epicureismo (cfr. DEICHGRåBER, op. cit., p. 306). Sesto usa il
termine epilogismo poche volte: in Pyrrh. hyp. II, 123, nel senso di
«ragionamento empirico» per demolire il concetto di «segno»; in Adv.
log. I, 352 nel senso di «argomentazione scettica», per demolire il
concetto di criterio; in Adv. math. III, 7, nel senso di
«procedimento aporetico-diairetico» per sottoporre la teoria
geometrica del postulato-ipotesi ad una serie di quesiti. Più
frequente, invece, è l’uso del verbo ἐπιλογίςεσϑαι(cfr. indice di
Janácek, p. 100).
33. Rinvio alle mie osservazioni in Sesto Empirico, Contro i
matematici, pp. xxiv-xxx.
34. In particolare si ricorda quell’interessante mistione di
autentico aristotelismo e di irragionevoli credenze che è il
Tetrabiblos del grande astronomo greco. Per le varie sette mediche e
per il rigurgito della medicina pneumatica e di quella
iatromatematica che suggerì qualche idea nel sec. XVII alla
iatro-chimica ed alla iatromeccanica cfr. G. Verbere, L’évolution de
la doctrine du Pneuma du Stoicisme à S. Augustin, Paris-Louvain,
1945; G. Sarton, Galen of Per gamos, Lawrence, Kansas, 1954,
soprattutto il cap. 5 intitolato The Medical Sects in Galen’s time,
pp. 30-8; B. P. REARDON, Courants Littéraires grecs, etc., pp.
43-63.
35. Il concetto dommatico di analogia, che Sesto (Adv. log. I, 106)
fa poggiare sul numero, estendendosi nei vari settori delle umane
conoscenze, dà l’impressione di manifestare una vera e propria
Weltanschauung e di reggerne le fila, se si pensa anche
all’analogismo grammaticale e all’importanza del linguaggio come
termometro epistemologico e storico. Di qui il profondo significato
delle polemiche scettiche contro i grammatici analogisti e
l’originalità, oltre che l’altissimo valore anche letterario, del
trattato di Sesto Empirico Contro i grammatici. Per il vasto
problema ci limitiamo a ricordare: H. STEINTHAL, Geschichte der
Sprachwissenschajt, I, pp. 340 segg.; J. H. Sandys, History of
Classical Scholarship, I, Cambridge, 1906, pp. 319 segg.; A.
Pagliaro, Sommario di linguistica ario-europea, I, Roma, 1930, pp.
28 segg.; H. Dehlmann, Varro und die hellenistische Sprachtheorien,
«Problemata», V, 1932, pp. 52 segg.; H. I. Mette, De Cratete
Malliota seu Pergameno, Berlin, 1931 e Parateresis, Halle, 1952, pp.
11 segg.; A. Dihle, Analogie und Attizismus, «Hermes», LXXXV, 1957,
pp. 7° segg-j Fcollart, Analogie et anomalie, «Entret, sur
l’Antiquité Class.», IX, 1962, pp. z 17-41. Per altri ragguagli
rinvio alle mie osservazioni in SESTO EMPIRICO, Contro i matematici,
pp. xiii-xxi.
36. Rifacendosi a Crisippo, Clemente Alessandrino (Strom. VIII, 9 =
Stoic, vet. frag. II, 346 Arnim) definisce le cause procatartiche
come «quelle che offrono l’impulso iniziale ad un qualche
avvenimento, come la bellezza all’amore per quelli che sono
incontinenti: infatti un oggetto visto da costoro mette in atto la
loro disposizione erotica, anche se, però, in modo non coercitivo».
Secondo Plutarco (De Stoic, rep. 47, 1056b) Crisippo non sarebbe
stato coerente con sé stesso nel limitare l’azione del fato non alla
causa perfetta, ma solo a quella procatartica (la questione si trova
già nel De fato ciceroniano). Sesto accenna fuggevolmente alle cause
procatartiche in Pyrrh. hyp. III, 16 riportando probabilmente il
pensiero di Medici Empirici: «Alcuni hanno anche detto che certe
cose presenti sono cause di certe cose future, come avviene per le
cause procatartiche; così, ad esempio, l’insolazione è causa di
febbre». I passi galeniani di De subf. emp. che trattano di questo
tipo di cause strettamente legate a
ciò-che-è-momentaneamente-non-evidente sono correttamente spiegati
dal Deichgråber (op. cit., p. 306).
37. La costruzione metodologica della Medicina Empirica, quando
viene presa in considerazione da quel possente dialettico che – dopo
tutto – è stato Sesto, non rimane, in definitiva, immunizzata dal
Loge wagneriano, e di ciò hanno avuto consapevolezza i grandi
scettici moderni nel battere una via spesso divergente da quella
tracciata da Pirrone di Elide e percorsa da tutti i suoi seguaci.
38. La traduzione è stata eseguita sul testo di F. Marx (Lipsia,
1915); di grande utilità sono state la traduzione inglese e le note
di W. G. Spencer (London-Cambridge Mass., 1960) e la traduzione
italiana di Angelo Del Lungo, pubblicata postuma dal noto figlio
Isidoro (Firenze, 1904). Circa le fonti di Celso, per le preziose
notizie riguardanti le scuole mediche dell’antichità di cui il
nobile rampollo della gens Cornelia è imparziale espositore ed
arbitro, è ancora sostanzialmente valido lo studio del Wellmann, A.
Cornelius Celsus, eine Quellenuntersuchung, Berlin, 1913.
39. La traduzione è stata eseguita da CLAUDI GALENI, Opera omnia,
Edi-tionem curavit T. G. Kuhn, Tomus I, pp. 64-105, Lipsiae, 1821,
ristampa anastatica Hildesheim. 1964.
40. L’originale greco di questa preziosa opera andò perduto, ma di
esso ci sono rimaste quattro traduzioni latine: quella di Nicola di
Reggio Calabria (compiuta nel maggio del 1341) e quelle di un
anonimo umanista, di Domenico Castella e di Gian Battista Rosario.
La traduzione di Nicola fu pubblicata da Max Bennet (De Galeni
Subfiguratione empirica, Dissertatio philologica, Bonnae, 1872).
Nell’ampia introduzione lo studioso tedesco sosteneva che soltanto
l’orrida e barbarica traduzione di Nicola era stata eseguita sul
testo greco, mentre le altre tre furono un emendamento elegante di
quella di Nicola e furono eseguite solo su quest’ultima e non
sull’originale, giacché questo già era andato distrutto. Sulla base
del testo latino e dei numerosi passi paralleli che si riscontrano
nell’immenso Corpus galenianum il Bonnet eseguì la retroversione
che, poi, venne ripubblicata accanto al testo latino di Nicola dal
Deichgråber nella sua raccolta delle testimonianze della
Empirikerschule. La nostra traduzione è stata condotta sul testo del
Bonnet e sulle opportune correzioni del Deichgråber (op. cit., pp.
42-90). Per le caratteristiche di Nicola quale traduttore di Galeno
vedansi H. SCHõNE, Galenus, de partihus artis medicativae, Progr.
Greiîswald, 1911; F. Lo PARCO, Nicola di Reggio, antesignano del
risorgimento dell’antichità ellenica nel sec. XIV , «Atti della
Regia Accad. di Arch. Lett, e Arti:>, Nuova serie, vol. II,
Napoli, 1910, 19132, pp. 243-307. Circa le altre questioni testuali,
le fonti dell’opera galeniana e la sua importanza come fonte per la
conoscenza della scuola empirica, vedansi BROCHARD, Les sceptiques
grecs, p, 365; GOEDECKEMEYER, Die Geschichte des griech. Skept., p.
262; D eichgråber, op. cit., pp. 7-19.
41. Giacché assumerebbe anche lui una posizione dommatica quantunque
negativa e sarebbe in contrasto con l’epoche. Un rilievo analogo
vien fatto da Sesto (Pyrrh. hyp. i, 4, 220 segg.) a proposito degli
Accademici.
42. La maggioranza degli studiosi moderni (cfr. BROCHARD, Les
sceptiques grecs, pp. 316-7; DAL PRA, Lo scetticismo greco, pp.
464-5) è del parere che Sesto abbia modificato il proprio
orientamento col passare del tempo, come si evince sia da Adv. log.
II, 191 (ove i medici empirici vengono accostati ai filosofi
scettici per la loro dottrina dell’incomprensibilità delle cose
non-evidenti) sia dal soprannome «Empirico» che, secondo Diogene
(IX, 116) e lo PseudoGaleno (Isag. 4), egli avrebbe avuto in
relazione all’indirizzo medico da lui seguito. Se, invece, dobbiamo
attenerci al Philippson (De Philodemi libro, etc., p. 61), il quale
era del parere che gli Schizzi fossero posteriori alle altre opere
di Sesto, dovremmo supporre che quest’ultimo passò dall’indirizzo
empirico, seguito in gioventù, a quello metodico, seguito nella
maturità. È probabile, comunque, che Sesto, al contrario del Galeno
di De sectis, non intendesse acutizzare le differenze tra le due
sette e che egli, rimanendo empirico, fosse spinto dalla sua serietà
filosofica a fare qualche riserva per il suo stesso indirizzo (cfr.
ZELLER, Die Phil. der Griech. V, 1, p. 40) e certe precisazioni su
ben determinati problemi (cfr. NATORP, Forschungen zur Gesch. des
Erkenntnissprobl., p. 156). In ogni caso, il fenomenismo e
l’utilitarismo dei Metodici (cfr. GALEN. De sectis 7) dovettero
attrarre le simpatie del filosofo.
43. Nel De sectis Galeno dice esattamente il contrario sul
comportamento generale dei Metodici.
44. In Pyrrh. hyp. I, 23.
45. La «saggezza» del cane è ampiamente e ironicamente rilevata in
Pyrrh. hyp. I, 70 segg.
46. L’integrazione è del Mutschmann.
47. In Pyrrh. hyp. I,197, 201.
48. Circa la simpatia di Sesto per la συνήϑεια anche in campo
linguistico (su cui si insiste soprattutto nel brillante trattato
Contro i grammatici) rinvio alle mie osservazioni in SESTO EMPIRICO,
Contro i matematici, pp. xvi-xviii.
49. Il concetto di indicazione e di segno indicativo, che tanto i
filosofi dommatici quanto i medici logici ritengono «capace di
porgere loro il più imprescindibile aiuto», viene attaccato da Sesto
in Adv. log. II, 156 segg.
50. In § 238.
51. Con abilità tipicamente scettica – diremmo quasi col salto del
gatto – Sesto evita di usare i termini «segno» o «indicazione» e
preferisce il termine giudiziario τεϰμαιρουμένουος che non sa troppo
di bruciato. Eppure in Adv. log. VII, 396, parlando della
dimostrazione, egli usa quasi come sinonimi i termini
σημεεῖον(segno) e τεϰμήριον (indizio) con cui «è stato chiamato ciò
che è in grado di rivelare il non-evidente»! E Galeno (De sectis, 6)
sa cogliere questo punto debole.
52. Cfr. HOM. Il. XI, S33.
53. Cfr. HOM. Il. I, 43 segg.
54. L’integrazione è suggerita dal Marx.
55. In quanto si sottraggono ad ogni esperienza fenomenica e vengono
scoperte soltanto per logica astrazione. Esse rientrano in quelle
«cose nonevidenti» (δηλα) alla cui conoscenza, secondo gli Scettici
ed i Medici Empirici, bisogna rinunziare.
56. Sono le quattro «radici» o «elementi» di Empedocle, ciascuno dei
quali con le sue associazioni produce i famosi quattro temperamenti
(colpropriolerico, flemmatico, melanconico, sanguigno) contemplati
dalla medicina ippocratica nel De humoribus (cfr. PLAT. Tim. 82a
segg.).
57. Dalle proporzioni dei quattro umori (sangue, flemma, bile e bile
nera) deriverebbero gli stati di salute o di malattia.
58. Ippocrate aveva trattato la questione nel suo trattato Le arie,
le acque, i luoghi, che, come ha osservato il Vegetti (IPPOCRATE,
Opere, cit., p. 163), «porta il segno e la luce della piena
maturità» del suo pensiero. Il grande medico aveva inteso prendere
in considerazione i vari fattori ambientali: questi ultimi furono
ridotti alla sola aria da una scolastica alquanto gretta.
59. Ossia una sostanza che fa pensare ad un misto di energia vitale
e di respiro, di materia gassosa e di puro spirito: di essa
parlavano i medici pneumatici, che costituivano una setta minore
fondata da Ateneo di Attalia, vissuto nell’età di Nerone.
60. Il loro dommatismo partiva da un’ipotesi, da una δćξα. e contro
questo loro punto di partenza scattava, tra l’altro, anche la
tropologia scettica.
61. L’ampia lacuna è audacemente colmata dal Marx nel modo seguente:
«se tuttavia di anno in anno si trovano nuovi rimedi; né bisogna
affermare che i medici antichi si servirono dell’esperienza».
62. Il termine celsiano «consilium» equivale al greco γóγος, onde
l’appellativo di γογιχοί che questi medici assumevano.
63. L’espressione celsiana, equivalente agli δηλα oppugnati dagli
Scettici, ci rimanda a quella democritea secondo cui la verità è
negli abissi (cfr. 68 B 117 Diels-Kranz). Del resto il filosofo di
Abdera aveva dichiarato (cfr. EUSEB. Praep. ev. XIV, 27, 4) che
avrebbe preferito trovare un solo schiarimento in merito alla causa
anziché diventare re dei Persiani.
64. Ossia dal termine greco ἐµπειρία. Cfr. GALEN. De sectis, 1.
65. Cosa che CDincide col principio fondamentale dello Scetticismo
fin dai tempi di Pirrone.
66. Viene qui utilizzato il tropo della διαφωνία il primo di Agrippa
(cfr. SEXT. EMP. Pyrrh. hyp. I, 165), già contemplato nel secondo
tropo di Enesidemo (ivi, 85-89).
67. Ciò era stato contemplato nel quinto tropo di Enesidemo (cfr.
SEXT. EMP. Pyrrh. hyp. I, 118-123).
68. Celso ha qui esposto il principio empirico dell’osservazione
diretta (αὐτοψία)
69. Celso espone qui il principio empirico del passaggio dal simile
al simile (μετβασις το μοίου).
70. Così, secondo gli empirici, vengono evitate quelle congetture
indinei §§ 20-22 che valgono solo a far cadere i medici nel tropo
della διαφωνία.
71. Ossia secondo quella maniera antilogistica che portava gli
Scettici alla isostheria e all’epoché.
72. Qui l’empirismo coincide con la concezione socratico-platonica
del sapere competente in contrasto con la retorica (cfr. PLAT. Gorg.
456b segg.).
73. Questa «mitezza» dei Medici Empirici coincide con una virtù che
gli Scettici si vantavano di possedere (cfr. SEXT. EMP. Adv. math.
I, 6; DIOG. LAERT. IX, 118). Essa rientra in quella φιλανϑρωπία
scettico-accademica che venne molto esaltata da Plutarco e da
Favorino.
74. Anche Celso, seguendo la falsariga ciceroniana, ammette come
criterio il verosimile, che porta a conclusioni eclettiche.
75. La lacuna è così integrata dal Marx: «quando si esegue la
terapia di quelle malattie che sono nate da cause evidenti».
76. Il Marx suggerisce «la suppurazione» in base a CELS. IV, 11, 3;
VIII, 10, 1.
77. L’integrazione è del Marx.
78. Ossia il passaggio dal simile al simile, su cui si fondavano gli
Empirici.
79. Ciò trovasi già sostenuto in HIPPOCR. Epid. 1, 23.
80. Qui sembra che Celso si attenga al quarto tropo di Enesidemo,
quello delle circostanze (cfr. SEXT. EMP. Pyrrh. hyp. I, 100-117).
81. I Razionalisti.
82. I Metodici.
83. Come fanno gli Empirici.
84. Come pretenderebbe una rigida applicazione della metodologia del
«passaggio del simile» sostenuta dagli Empirici.
85. Circa la validità dell’una o dell’altra terapia si erano divisi
i medici fin dai primordi della loro arte. Qualcosa di analogo era
accaduto in filosofia in merito alla conoscenza del simile col
simile o del dissimile col dissimile.
86. Celso conclude il suo proemio con quel tono filantropico che è
una costante dell’ humanitas latina da Cicerone in poi e che la
«mitezza» scettica continuava a ribadire.
87. Cfr. ARISTOT. Eth. me. I, 1, 1094a 8; Metaph. XII, 3, 1070a 30;
1075b 10.
88. SEXT. EMP. Adv. eth.186.
89. Cfr. CELS. De medic. Proem.27.
90. Cfr. ibid. 17.
91. Per l’opposizione scettico-empirica al segno indicativo cfr.
SEXT. EMP. Pyrrh. hyp. II, 99-103; Adv. log. II, 143, 201-202.
92. Cfr. pp. 54, 11; 88, 24, 26; 139, 21; 145, 12; 146, 15; 150, 32;
152, 13 Deichgräber.
93. Cfr. pp. 98, 24, 26; 124, 19; 145, 12; 245, 4 Deichgräber.
94. Cfr. p. 98, 25 Deichgräber. La metodologia analogistica fu
avversata dagli Scettici anche nel campo della grammatica (cfr.
SEXT. EMP. Adv. math. I, 198-202, 205-209, 217-220).
95. Cfr. GALEN. De subf. emp. II e test. 104 Deichgräber.
96. Per la definizione del termine cfr. GALEN. De subf. emp. 3.
97. Cfr. De subf. emp. 7.
98. Cfr. De subf. emp. 4.
99. Galeno, riportando per intero il titolo della celebre opera di
Ippocrate, viene a significare la provenienza dell’indirizzo
razionalistico dal grande medico di Cos che anche gli Empirici
annoveravano tra i loro fondatori.
100. ARISTOT. Eth. nic. II, 3, 1104b 17.
101. Le cause procatartiche erano così definite da Crisippo: «sono
quelle che offrono dapprima un impulso al generarsi di un qualcosa,
come la bellezza l’offre a quelli che sono intemperanti nell’amore»
(CLEM. ALEX. Strom. VIII, 9 = Stoic, vet. frag. II, 346 Arnim; cfr.
anche ALEX. APHR. De fato 22 = Stoic, vet. frag. II, 945 Arnim).
Ovviamente siffatte cause non venivano epochizzate dagli Scettici
(cfr. SEXT. EMP. Pyrrh. hyp. III, 16), né dai Medici Empirici
(GALEN. De sectis, 8), perché esse non erano in contrasto con i
fenomeni e con l’osservazione.
102. Tanto la Medicina Empirica quanto i Neo-pirroniani facevano
ricorso a questo termine neo-accademico che pur non risparmiavano
nelle loro critiche più pertinenti.
103. La riserva di Asclepiade partiva da un presupposto
qualitativistico che egli, attraverso Diocle di Caristo, ereditava
dalla fisica aristotelica.
104. Cfr. Cels. De medic. Proem. 40-43.
105. Per la coincidenza di questa concezione medico-empirica con lo
Scetticismo cfr. SEXT. EMP. Pyrrh. hyp. II, 97 segg.; Adv. log. II,
141 segg.
106. La conferma di questa notizia anche per gli Scettici è in SEXT.
EMP. Pyrrh. hyp. II, 229 segg.
107. Per l’analoga posizione degli Scettici cfr. SEXT. EMP. Pyrrh.
hyp. I, 197.
108. Per l’analoga posizione degli Scettici cfr. SEXT. EMP. Pyrrh.
hyp. II, 134 segg.
109. Per analoghe argomentazioni scettiche cfr. SEXT. EMP. Adv. log.
II, 337a-390.
110. Cfr. GALEN. De subf. emp. 8.
111. In De compos, med. (XIII, 366, 2 Kuhn = 106 Deichgräber) Galeno
definisce l’epilogismo come «ragionamento comune di tutti gli
uomini». Per l’opposizione dell’epilogismo all’analogismo cfr.
SORAN. Quaest. med. Rose p. 253 = 12 Deichgräber.
112. Cfr. SEXT. EMP. Pyrrh. hyp. I, 165.
113. In SEXT. EMP. Pyrrh. hyp. I, 237 non si accenna a questo
ricorso dei Metodici al termine «indicazione»; ma acutamente Galeno
identifica con esso il termine T£xpt/r) pìov (indizio, attestato),
usato anche da Sesto in Pyrrh. hyp. I, 241.
114. Ippocrate nell’apertura degli Aforismi.
115. Sesto (Pyrrh. hyp. I, 227), che considera questo indirizzo come
il meno «frettoloso» nel pronunciarsi in merito alle cose
non-evidenti, non accenna alla rapidità della perparazione
professionale dei Metodici.
116. È da presumere che proprio questo aspetto «timoniano» della
Medicina Metodica abbia spinto Sesto Empirico a darvi la sua
giovanile e spregiudicata adesione: l’altro lato dovette essere
l’utilitarismo.
117. Questo tipo di causa συνεχινχὴ ατία) riconduce a Dio (cfr.
PS.-ARISTOT. De mundo 6, 397b 9 segg.).
118. Ossia una vittoria che ha causato la morte di tutti i
contendenti, come accadde nel ciclo tebano.
119. Il termine è qui usato in senso tecnico e in conformità con la
metodologia empirica, che assegnava un ruolo molto importante alla
memoria.
120. La disposizione (διάϑεσις) è la manifestazione evidente di uno
stato oggettivo (ἔξις) secondo i Dommatici (cfr. ARISTOT. Cat. 8, 8b
17-35; Metaph. V, 20, 1022b 10); secondo gli Scettici e i Medici
Metodici o Empirici essa è un πάϑος al di là del quale c’è solo
incertezza.
121. Ossia i Dommatici che si professavano seguaci di Ippocrate.
122. Secondo i Metodici e gli Scettico-empirici, invece, la
dialettica è del tutto insufficiente a smontare i sofismi (cfr.
SEXT. EMP. Pyrrh. hyp II, 229 segg.).
123. Galeno tende a dimostrare che i Metodici, dovendo
necessariamente far ricorso a nozioni che trascendono l’apparenza
fenomenica, finiscono col rifarsi ad ipotesi del peggiore
dommatismo, ad esempio a quella teoria dei «pori insecabili» che era
stata sostenuta da Asclepiade di Bitinia e che gli Scettioo-empirici
consideravano arbitraria e assurda, come è provato da parecchi passi
di Sesto Empirico. Lo stesso dicasi per ia concezione delle
«comunanze» che sembra risalire ad Eraclito.
124. Non sappiamo a quale opera qui alluda Galeno.
125. Il processo di rarefazione e condensazione presuppone, secondo
Galeno, uno studio generale della natura, come avveniva in ARISTOT.
Phys. IV, 9, 217a 10 segg.; VIII, 7, 260b 12-15.
126. Giacché per costoro ogni aitiologia sa sempre di bruciato.
127. Fr. 53 Diels.
128. Cfr. fr.44 Deichgräber.
129. Il senso dell’anacoluto di Galeno è precisato dal Bonnet, p.
37, n. 21.
130. Cfr. GALEN. De libr. propr. 2; Ars. med. 37.
131. Al termine άναλογία usato dal Bonnet al posto di convenientia
della traduzione latina il Deichgräber propone sostituire είχóς
(verosimile). Questa sostituzione, infatti, eviterebbe la
possibilità di confondere questo principio della metodologia
empirica (ossia il passaggio dal simile al simile) con l’analogismo
dei Medici Razionalisti.
132. Evidente glossa del traduttore latino.
133. Galeno ama cogliere molte somiglianze tra la metodologia
empirica e quella razionalistica; perciò egli cita qui il dommatico
Erofilo.
134. Glossa probabile del traduttore latino.
135. In cap. VIII.
136. Galeno, pur parlando da Empirico, non può fare a meno di usare
un termine aristotelico a lui molto caro e da lui ampiamente
sviluppato nel De naturalibus facultatibus.
137. Gran parte del trattato di Sesto Empirico Contro i grammatatici
si ispira questo principio.
138. Cfr. SEXT. EMP. Adv. log. II, 288.
139. Galeno dimentica quasi di limitarsi ad una semplice esposizione
e si lascia guidare da un impulso critico: in realtà gli Empirici
non erano spinti da mero gusto terminologico, bensi dal bisogno di
evitare equivoci con concezioni dommatiche.
140. L’empirico galeniano ha qui una notevole somiglianza con Sesto.
141. Cfr. Charm. 163a; Soph. 218c.
142. Cfr. HIPPOCR. Prognost. 2.
143. Nel capitolo precedente.
144. Ancora una volta Galeno, quasi impercettibilmente, assume un
atteggiamento critico, mentre sembra limitarsi ad un’esposizione
fatta da un Empirico di larghe vedute.
145. In ciò gli Empirici erano pienamente d’accordo con i
Razionalisti: sia gli uni che gli altri accettavano il celebre
aforisma di Ippocrate. Solo i Metodici lo respingevano.
146. Secondo il Bonnet si tratta di un’interpolazione che già era
sul testo greco trovato da Nicola di Reggio.
147. Il tropo scettico-radicale della διαφωνία, secondo la Medicina
Empirica, non esercita alcun ruolo quando una notizia è fondata
sull’ispezione diretta di un fenomeno.
148. Questo giudizio negativo su Andrea è un Leitmotiv polemico di
Galeno cfr. fr. 202 Deichgräber).
149. La traduzione latina reca erroneamente natura al posto di
experientia.
150. II rilievo sembra avere qui carattere anti-accademico.
151. La lacuna del testo potrebbe essere colmata, secondo il Bonnet
(p. 56, n. 3) nel modo seguente: «Allo stesso modo anche in base
alll’istorìa la speranza del possibile può diventare maggiore o
minore, secondo che…».
152. Ossia da Pergamo, patria di Galeno… e del supposto Medico
Empirico che qui starebbe parlando.
153. Si tratta, ovviamente, di Medici Razionalisti o anche di
Empirici dalle vedute ristrette.
154. Quest’opera, che molto probabilmente era intitolata De fine
artis medicae, è menzionata anche in In Hippocr. de vict. acut.
comm. I, 2.
155. Fr. 53 Diels.
156. Allusione all’opera di Serapione intitolata Con tre mezzi.
157. Probabile allusione ad un’opera di Nausifane così intitolata
(cfr. DIOG. LAERT. X, 14; 71 B 1 Diels-Kranz).
158. Su questa profluenza di Menodoto ritornava Galeno nel Trasyb.
(Scripta min. III, 71, 20 Hehnreich = fr. 291 Deichgräber).
159. Cosi propone il Bonnet (p. 64, n. 2) al posto di fallacia della
traduzione latina.
160. Riaffiorava così in Menodoto, secondo Galeno, quella dottrina
del «come se» che era di origine retorico-accademica.
161. Per queste caratteristiche di Pirrone, qui elogiate anche da
Galeno, cfr. NATORP, Forschungen zur Gesch. des Erkennt., p. 158.
162. L’indirizzo empirico, invece, era sorto già in età antichissima
con Acrone di Agrigento.
163. Secondo cui verrebbero confutati tutti i sofismi (cfr. SEXT.
EMP. Pyrrh. hyp. II, 229, 232, 246).
164. Secondo cui verrebbe messa in evidenza la contraddizione di
ogni iicato.
165. L’accenno ad Eraclide come ad Empirico moderato può suggerire
l’idea che anche nell’ultima parte di questo scritto – ove si
eccettuino le conclusioni finali – Galeno continui a parlare non in
nome proprio bensì in nome di un medico empirico di ampie vedute e
ricco di capacità critiche.
166. Probabile allusione all’opera De Ascl. doctr. in otto libri
(cfr. GALEN., Scripta min. II, 115, 2).
167. Cfr. GALEN, vol. X, pp. 28 segg., 122 Kühn.
168. A quest’opera Galeno accenna in De libr. propr., Scripta min.
II, 115, 5 Müller (cfr. fr. 1 Deichgräber). Presumibilmente Galeno
intendeva dimostrare che il tropo era un boomerang per gli
Scettico-empirici, che lo lanciavano allo scopo di colpire i
Dommatici.