Menone chiede a Socrate se la virtù è insegnabile oppure se è frutto di esercizio. Dissimulazione ironica di Socrate: come può saperlo, se non sa neppure cosa è la virtù? (I 70a-71a). Non solo, ma Socrate dichiara anche di non aver mai incontrato qualcuno che lo sapesse. Provi perciò Menone stesso a dire cosa è la virtù (II 71b-d). Menone elenca varie specie di virtù. Osservazione metodica di Socrate, sull'esempio delle api (III 71e-72c). Che cosa è che consente di denominare "virtù" tutte le varie specie di virtù? Giustizia, sapienza e temperanza (IV 72c-73c). Prima definizione di Menone della virtù in generale: essa è la capacità di comandare gli uomini. Obbiezioni di Socrate: Sarà questa anche la virtù degli schiavi? E inoltre: bisogna aggiungere "con giustizia" e la giustizia è una virtù, non la virtù, come virtù sono la fortezza, la temperanza, ecc. Ci ritroviamo di fronte, così, alla molteplicità delle virtù (V 73c-74a). Analogia della ricerca di una definizione della virtù con quella della definizione della figura e del colore (VI 74a-e). Definizione della figura come esempio da seguire nella definizione della virtù (VII 74c-75c). Definizione della figura come "limite di solido" (VIII 75c-76a). Ancora sulla definizione del colore secondo la dottrina di Gorgia ed Empedocle: questo modo di definire è inferiore a quello adottato per la figura (X 76a-77a). Seconda definizione di Menone della virtù in generale: essa è il desiderio delle cose belle e la capacità di procurarsele. Critica di Socrate alla prima parte: le cose belle sono anche buone, ma nessuno volontariamente desidera le cose cattive (X 77a-78b). La virtù consisterà quindi, semmai, nella capacità di procurarsi le cose buone. Ma quali cose buone? E di procurarsele anche ingiustamente? (IX 78b-79a). Ci si ritrova di fronte alla molteplicità delle virtù, ma cosa sia la virtù non si è ancora definito (XII 79a-c). Socrate è paragonato da Menone ad una torpedine marina e Socrate accetta il paragone purché sia chiaro che lui è il primo ad essere intorpidito: egli non sa infatti cosa sia la virtù (XIII 79e-80d). Ma, chiede Menone, come si può cercare quel che si ignora completamente cosa sia? Carattere sofistico di questo problema e sua soluzione da parte di Socrate: la teoria della reminiscenza (XIV 80d-81c). Socrate si offre di provare la verità di questa teoria interrogando uno qualunque degli schiavi di Menone (XV 81c-82b). Socrate, mediante semplici domande, conduce lo schiavo a impostare esattamente il problema della costruzione di un quadrato doppio di un altro quadrato dato (XVI 82b-84a). Considerazioni di Socrate su questa prima parte della dimostrazione: lo schiavo non ha mai studiato geometria, ma Socrate gliela fa ricordare (XVIII 84a-d). Termina la dimostrazione geometrica che lo schiavo conduce con la guida di Socrate (XIX 84d-85b). Riprende la discussione con Menone: la teoria della reminiscenza e la presenza, nell'anima di chi ignora, di opinioni vere risultano così confermate (XX 85b-86c). Ritorno al problema della virtù. Socrate acconsente ad esaminare se essa è insegnabile, ancora prima di sapere che cosa essa propriamente è (XXII 86c-87a). Condizioni ipotetiche dell'insegnabilità della virtù: essa deve essere identica alla scienza. Bontà ed utilità della virtù (XXIII 87b-c). In che senso si può parlare di utilità delle singole virtù (XXIV 87e-88d). Nell'uomo tutto dipende dall'anima e tutte le facoltà dell'anima, per essere buone, devono dipendere dalla sapienza; necessità di congiungere virtù e sapienza e di escludere che la virtù sia un dono di natura (XXV 88d-89b). Ma se la virtù è insegnabile, non dovrebbe essere possibile indicare quali sono i maestri di questo insegnamento? Socrate si appella, per ciò, ad Anito (XXVI 89b-90b). Socrate precisa ad Anito il senso della sua domanda (XXVII 90b-e). All'ipotesi, ironica, di Socrate che maestri di virtù siano i sofisti, Anito reagisce violentemente (XXVIII 90e-91c). Socrate si mostra incredulo che i sofisti, e perfino un Protagora, siano non maestri ma costruttori della gioventù (XXIX 91c-92a). Benché Anito non abbia mai avuto contatti con i sofisti, gli si conceda pure che essi corrompono la gioventù. Ma allora chi sono i maestri? (XXX 92a-e). Qualunque Ateniese per bene, risponde Anito. Ma Socrate, prendendo spunto da un equivoco possibile nelle parole di Anito, torna ad insistere sul punto che non si tratta di sapere se ci sono stati e ci sono uomini buoni, ma se questi sono stati e sono capaci di insegnare la loro virtù (XXXI 92e-93b). Esempi di Temistocle, Aristide, Pericle, Tucidide: nessuno ha saputo insegnare la virtù ai figli (XXXII 93b-95a). Ripresa della discussione di Socrate con Menone: conosce questi chi possa essere definito maestro di virtù? (XXXV 95a-d). Anche Teognide come i solisti e tutti gli altri si contraddice: talvolta sostiene che la virtù è insegnabile, talvolta che non lo è. Questa è la prova che non esistono maestri di virtù (XXXVI 95d-96b). Ma allora non esistono neppure discepoli; quindi la virtù, non è insegnabile. Chi dunque può rendere migliori gli uomini? (XXXVII 96b-e). Anche l'opinione vera, non meno della scienza, può guidare gli uomini verso il bene (XXXVIII 96e-97c). Differenza tra la scienza e le opinioni vere, paragonate alle statue di Delo (XXXIX 97c-98b). Ricapitolazione di tutti i risultati raggiunti nella discussione (XL 98b-99e). Conclusione: dal momento che non è insegnabile, può darsi che la virtù sia un dono divino. Resta comunque da determinare cosa è la virtù (XLII 99e-100c).
[70a] I. MENONE. Sapresti dirmi, Socrate: è insegnabile la virtù? o non è insegnabile, ma frutto di esercizio? oppure non è né frutto di esercizio né di scienza, ma per natura si viene formando negli uomini o in altro modo? SOCRATE. Fino ad ora, Menone, i Tessali erano famosi tra i Greci, e ammirati, per come sapevano cavalcare e per le loro ricchezze; oggi, invece, mi sembra, anche per sapienza, ed in particolare i concittadini del tuo compagno [b] Aristippo, i Larissei. E ciò lo dovete a Gorgia, che, venuto a Larissa, ha innamorato per la sua sapienza i maggiori della casa Aleuada, di cui fa parte il tuo amante Aristippo, e i più in vista degli altri Tessali. Fu proprio lui a darvi l’abitudine di rispondere senza timore e generosamente a chiunque vi interroghi, com’è naturale a gente addottrinata, e come fa Gorgia stesso, sempre pronto a [c] lasciarsi interrogare da qualsiasi greco, che ne abbia voglia, su qualsiasi argomento, non rimanendo mai senza parola. Qui da noi, invece, amico Menone, avviene tutto il contrario: c’è stata come una specie d’isterilimento della sapienza, che temo abbia abbandonato questi nostri luoghi per accasarsi presso di voi. E così, se desideri porre [71a] una simile domanda a qualcuno di qui, non c’è nessuno che non ti riderà in faccia e dirà: "Forestiero, c’è proprio il rischio ch’io ti sembri un beato se mi ritieni capace di sapere se la virtù possa insegnarsi o si acquisisca in qualche altro modo; io! che sono tanto lontano dal sapere se sia o no insegnabile, che neppure ho la minima idea di cosa sia virtù".
[b] II. Tale è anche il mio caso, Menone! Anch’io, come i miei concittadini, soffro della stessa povertà e mi rimprovero di non sapere assolutamente nulla della virtù. E non sapendo cosa essa sia, come potrei saperne le qualità? Ti sembra, forse, che senza conoscere Menone si possa sapere, ad esempio, se sia bello, ricco, nobile, o il contrario? Ti sembra possibile? MEN. A me no! Ma è proprio vero, Socrate, che tu ignori in che consiste la [c] virtù, e, di te, questo dovremo riferire nel nostro paese? SOCR. Non solo, amico mio, ma, anche, che non mi sembra d’essermi incontrato mai in persona che lo sapesse! MEN. Ma come! non ti sei incontrato con Gorgia, quando era qui? SOCR. Sì. MEN. E ti è sembrato che non lo sapesse? SOCR. Non ho molta memoria, Menone, per cui non saprei dirti su due piedi che cosa me ne parve. Ma, forse, Gorgia lo sa e, forse, tu sai quello ch’egli diceva della virtù. Ricordami, dunque, [d] le sue parole, o, se preferisci, di’ cosa ne pensi tu stesso, ché, senza dubbio, hai la stessa opinione di Gorgia. MEN. Sì. SOCR. Lasciamo, dunque, Gorgia, dal momento che è assente; ma di’ tu, in nome degli dèi, Menone, cosa sia virtù! Parla, non dirmi di no; sarò felice del mio errore, se mi dimostri che voi, tu e Gorgia, sapete in che consiste la virtù, a me, che pur sostenevo di non avere mai incontrato persona, che lo sapesse.
[e] III. MEN. Non ci vuol niente, Socrate! Innanzitutto se vuoi la virtù dell’uomo, è facile dire che questa è la virtù dell’uomo: essere capace di svolgere attività politica, e svolgendola fare il bene degli amici, danno ai nemici, stando attenti a non ricevere danno noi stessi. Se, invece, vuoi la virtù della donna, non è difficile, dimostrare che il suo dovere consiste nell’amministrare bene la casa, conservandone i beni e restando fedele al marito. E così altra è la virtù del fanciullo, a seconda che sia femmina o maschio, altra quella di un vecchio, a seconda che sia libero o schiavo. [72a] E altre infinite virtù ci sono, onde non v’è imbarazzo a dire in che consista la virtù. Per ciascuna attività ed età e per ciascun atto vi è una propria virtù, sì come credo vi sia un vizio, Socrate. SOCR. Quale mai fortuna sembra mi sia toccata, Menone! Andavo cercando una sola virtù, ed ecco che grazie a te già ne trovo uno sciame. E, o Me-[b] none, se proprio prendendo questa immagine dello sciame io ti domando: l’essenza, qual è? mi risponderai che di api ce n’è molte e di molti tipi. Ma se ti domando ancora: "E perché le api sono molte e di molti tipi e diverse tra loro? perché sono api? O differiscono tra di loro solo per bellezza, grandezza e così via?" Dimmi, come risponderesti a simile domanda? MEN. Che in quanto api non differiscono l’una dall’altra. SOCR. E se [c] poi ti domando: "Dimmi, Menone, che cosa è ciò per cui le api non differiscono fra loro, onde sono tutte api? Cosa è questo?". Sai rispondermi? MEN. Sicuro!
IV. SOCR. Lo stesso si ripeta per le virtù: anche se molte e di molti tipi, in tutte ha da esservi una sola forma, per cui sono virtù, e su tale forma bisogna tener gli occhi fissi, attentamente, perché la risposta alla domanda sia corretta e faccia esattamente comprendere in che consiste [d] la virtù. Capisci, no, quello che voglio dire? MEN. Credo di capire; ma non afferro ancora, come vorrei, il senso della domanda. SOCR. Ma è solo relativamente alla virtù che tu ritieni di poter distinguere tante virtù diverse, cioè che una è la virtù dell’uomo, altra quella della donna, e via di seguito; oppure ugualmente distingui relativamente alla salute, alla grandezza, alla forza? Pensi che una sia la salute dell’uomo, altra quella della donna? oppure che la salute, ovunque essa sia, ha sempre la stessa forma, [e] sia nell’uomo sia in qualsiasi altro essere? MEN. A me sembra che una e sola sia la salute e nell’uomo e nella donna. SOCR. E anche la grandezza e la forza?, per cui se una donna è forte sarà forte per la stessa forma di forza? E dicendo ‘stessa’, intendo dire questo: che la forza in quanto forza è sempre la stessa, sia nell’uomo sia nella donna. O ti sembra che siano forze diverse? MEN. No! SOCR. E la virtù in quanto virtù differirà a seconda [73a] che sia nel fanciullo o nel vecchio, nella donna o nell’uomo? MEN. Non mi sembra, Socrate, che qui si tratti di un caso simile a quelli di prima. SOCR. Ma come! non hai detto or ora che la virtù dell’uomo consiste nel sapere amministrare lo stato, quella della donna nel sapere amministrare la casa? MEN. Sì. SOCR. Ma sapere amministrare uno stato, una casa, in una parola la capacità di amministrare, non consiste nel farlo con saggezza e [b] giustizia? MEN. Evidentemente! SOCR. E chi amministra saggiamente e giustamente, non amministra forse con giustizia e saggezza? MEN. Necessariamente. SOCR. Ma, dunque, tanto l’uomo quanto la donna, per essere virtuosi, hanno ambedue bisogno delle stesse cose, della giustizia e della saggezza. MEN. Evidente. SOCR. Già, ma allora il fanciullo e il vecchio se sono sregolati e ingiusti possono essere virtuosi? MEN. Evidentemente no! SOCR. E se sono saggi e giusti? MEN. Sì. SOCR. Gli [c] uomini tutti sono, dunque, virtuosi in uno stesso modo, ché tali divengono solo in quanto posseggono le medesime doti. MEN. Sembra. SOCR. Né sarebbero virtuosi nello stesso modo se non possedessero la stessa virtù. MEN. Senza dubbio no!
V. SOCR. Poiché, dunque, in tutti, una e identica è la virtù, cerca di ricordarti e di dire cosa mai Gorgia sostiene ch’essa sia e tu con lui. MEN. Cosa mai altro se non l’esser capace di governare gli uomini, se in tutte [d] le virtù vai cercando l’uno? SOCR. Sì, proprio questo vado cercando. Ma tale è anche la virtù del servitorello e dello schiavo, Menone, essere capace di governare il proprio padrone. E chi governa ti sembra, dunque, che sia anche schiavo? MEN. Non mi sembra affatto, Socrate. SOCR. Eh sì, sarebbe assurdo, ottimo amico mio! Ma considera anche questo: tu hai detto che la virtù consiste nella "capacità di governare"; non dobbiamo forse aggiungere ‘governare giustamente’ ingiustamente no? MEN. Sono d’accordo, tanto più, Socrate, che la giustizia è virtù. [e] SOCR. La virtù, Menone, o una virtù? MEN. Che vuoi dire? SOCR. Quel che direi di qualsiasi altra cosa. Ad esempio, se vuoi, a proposito di un circolo direi che è "una" figura, ma non semplicemente "figura", e così direi perché di figure ce ne sono tante altre. MEN. Il tuo ragionamento è corretto e, perciò, sostengo anche io che non v’è solo la giustizia, ma vi sono anche altre virtù. [74a] SOCR. E quali? Dimmele! se tu mi chiedessi i nomi delle altre figure, te li direi; così tu dimmi quelli delle altre virtù. MEN. Ebbene, una virtù mi sembra essere il coraggio, e poi la temperanza, la sapienza, la liberalità ed infinite altre. SOCR. Ed eccoci, Menone, ricaduti sulla stessa questione: cercavamo una virtù unica e ne abbiamo trovate molte, sia pur in modo diverso da prima; e quell’unica virtù, che è una in tutte, non riusciamo a trovarla.
VI. MEN. No, Socrate, non riesco ancora a cogliere [b] quell’unica virtù sottesa a tutte, che tu vai cercando, come invece riesco a cogliere l’unità delle altre cose. SOCR. Naturale! Ma io mi sforzerò, entro i limiti delle mie capacità, di fare qualche passo avanti, tu ed io. Senza dubbio ti rendi conto che quello che serve per uno serve per tutti i casi. Così, se uno ti chiedesse, come dicevo sopra: "Menone, che cosa è figura?", se tu gli rispondessi: "il circolo", e quel tale ti dicesse allora, come ho fatto io: "Ma il circolo è ‘la’ figura o ‘una’ figura?", evidentemente risponderesti che è "una" figura. MEN. Senza [c] dubbio. SOCR. E questo perché vi sono tante altre figure? MEN. Sì. SOCR. E se quel tale ti domandasse allora quali sono, gliele enumereresti? MEN. Certo! SOCR. E se poi ti ponesse la medesima domanda sul colore e ti chiedesse cosa è il colore, e tu rispondessi: "il bianco", e l’altro insistesse dicendo: "Il bianco è il colore o un colore?", risponderesti che è un colore, per il fatto che di colori ve ne sono anche altri? MEN. Certo! SOCR. E se ti pregasse di fargli il nome di altri colori, tu gli no-[d] mineresti altri colori che sono colori non meno del bianco? MEN. Sì. SOCR. E se ora quel tale andasse sino in fondo nel suo ragionamento, come ho fatto io, e dicesse: "Giungiamo sempre alla molteplicità, ma non è questo che cerco: poiché tu chiami queste molte figure con un sol nome, e sostieni che tutte sono ugualmente figure, pur essendo talvolta contrarie tra di loro, cosa è, dunque, tale quid che comprende la linea curva non meno [e] della retta, e a cui dài il nome di figura, affermando che la curva non è figura più di quel che sia la retta?" Non affermi questo? MEN. Sì. SOCR. Ebbene, dicendo questo, è come se tu affermassi che la curva non è più curva della retta e che la retta non è più retta della curva? MEN. Ma no, Socrate! SOCR. Eppure hai affermato che la curva è figura come figura è la retta e viceversa. MEN. E’ vero.
VII. SOCR. Cosa è mai, dunque, tale quid cui si dà il [75a] nome di figura? Provati a spiegarlo! Se tu rispondessi a chi ti interroga in questo modo sulla figura o sul colore: "Uomo, non comprendo affatto quello che vuoi, né so quello che intendi dire"; forse quel tale, stupito, direbbe: "Non capisci che io vado cercando quello che v’è d’identico in tutte queste cose, colori e figure?"; e neppure, Menone, sapresti rispondere a chi ti domandasse: "Cosa v’è di unico e identico nella curva, nella retta, e in tutte le altre cose che chiami figure?". Provati a dirmelo: ti servirà di esercizio per potermi poi rispondere sulla virtù. [b] MEN. No Socrate, parla tu! SOCR. Vuoi proprio ch’io ti faccia un piacere? MEN. Oh sì! SOCR. Ma in cambio te la sentirai di parlarmi tu della virtù? MEN. Sì. SOCR. E va bene, mi c’impegno, ché ne vale la pena. MEN. Senza dubbio. SOCR. Sù via, proviamo a dirti cosa sia figura. Vedi un po’ se ti soddisfa questa mia definizione: figura sia per noi quella sola cosa cui sempre si accompagna il colore. Ti sembra sufficiente, o cerchi altro? Se [c] tu mi rispondessi così sulla virtù, io ne sarei contento. MEN. Ma codesta è risposta da semplicione! SOCR. In che senso lo dici? MEN. Secondo le tue parole figura è ciò che sempre si accompagna a colore; e va bene, ma se uno dicesse di non sapere cosa sia il colore e di trovarsi rispetto al colore nello stesso dubbio in cui ci trovavamo rispetto alla figura, cosa penseresti di tale risposta?
VIII. SOCR. Direi che è vera. E se a darmi simile risposta fosse uno dei sapienti, degli eristici, uno di quelli che amano entrare in gara, gli direi: "La mia definizione è quella che è: se non ho parlato correttamente, è affar tuo [d] prendere la parola e confutare". Ma se fossero amici, come ora tu ed io, che volessero discutere tra di loro, bisognerebbe rispondere in modo meno aspro e più dialettico. E ciò che in realtà è più conforme alla dialettica, non è solo rispondere il vero, ma anche, e soprattutto, formulare la propria risposta entro i termini che l’interrogato dichiari di concordare. Anche io cercherò di parlare [e] con te in questo modo. Dimmi: c’è qualcosa che chiami ‘fine’? Intendo dire ‘limite’, ‘termine’ estremo. Con tutti questi vocaboli io dico la stessa cosa, ma forse Prodico non sarebbe d’accordo, comunque, tu indifferentemente dici di una cosa che è "limitata" o "finita"; questo intendo dire, nulla di complicato. MEN. Esattamente, e credo di comprendere ciò che vuoi dire. SOCR. Non solo, [76a] ma non usi in certi casi il termine ‘piano’, in altri il termine ‘solido’, come appunto si fa nelle geometrie? MEN. Certo! SOCR. Di qui, oramai, puoi comprendere ciò che io chiamo figura. Tenendo presente ogni figura, dico che figura è il limite con cui si determina un solido; in una parola direi che figura è "limite di solido".
IX. MEN. E del colore, Socrate, cosa dici? SOCR. Come sei arrogante, Menone! Poni domande a un povero vecchio per confonderlo, mentre tu non vuoi farti tornare alla [b] memoria, e dire, come Gorgia definisce la virtù. MEN. Non appena tu, Socrate, avrai risposto a me, te lo dirò. SOCR. Pur avendo gli occhi bendati, Menone, sentendoti parlare, si riconoscerebbe che sei bello e che vi sono persone che ti amano ancora. MEN. Perché? SOCR. Perché quando parli non fai che comandare: così fanno i giovani viziati, i quali, finché dura il fiore di loro giovinezza, tiranneg-[c] giano. E forse ti sei già reso conto che di fronte ai belli io mi trovo in stato d’inferiorità. Ti farò dunque questo piacere e risponderò. MEN. Fammi davvero questo piacere! SOCR. Vuoi che ti risponda alla maniera di Gorgia, sì che tu possa seguirmi meglio? MEN. Lo voglio sì! SOCR. Seguendo le tesi di Empedocle, non dite che dalle cose scaturiscono certi effluvi? MEN. Senza dubbio! SOCR. E che vi sono dei pori che ricevono e lasciano passare gli effluvi? MEN. Sicuro! SOCR. E che tra gli effluvi alcuni sono perfettamente corrispondenti ai pori, altri, [d] invece, minori o maggiori? MEN. Proprio così! SOCR. E c’è qualcosa che chiami vista? MEN. Sì. SOCR. Di qui "comprendi quello ch’io dico", disse Pindaro: effluvio di figure è il colore che esattamente corrisponde alla vista ed è sensibile. MEN. Ottima, Socrate, mi sembra la tua risposta i SOCR. Forse perché si adegua alle tue abitudini, e perché, ad un tempo, credo, ti serve per capire in che consiste la voce, l’odorato, e molte altre [e] cose dello stesso genere. MEN. Certamente. SOCR. Battuta da tragedia è, o Menone, la mia risposta: ecco perché ti piace più di quella sulla figura. MEN. Sì. SOCR. Eppure, figlio di Alexidemo, non mi convince affatto: migliore è l’altra. E credo che anche tu saresti della stessa opinione, se non fossi costretto ad andar via di qui prima dei Misteri, come dicevi ieri, ma potessi restare e farti [77a] iniziare. MEN. Ma resterò, Socrate, se mi terrai molti ragionamenti come questo!
X. SOCR. Non lascerò nulla d’intentato per venire incontro a te e a me con le mie parole, ma non sarò forse capace di poter reggere a lungo simili ragionamenti. Ad ogni modo, ora, cerca anche tu di mantenere la tua promessa, definendo in generale cosa sia la virtù, e smetti di far dell’uno una molteplicità, come scherzando sì dice di chi manda in pezzi un oggetto; lascia intera ed intatta la [b] virtù, e dimmi in che consiste. Già ti ho dato esempio di come devi fare. MEN. Mi sembra, Socrate, che la virtù, come dice il poeta, consista nel "godere le cose belle e nell’aver potere". Ecco, dunque, la mia definizione della virtù: desiderio di cose belle e capacità di procurarsele. SOCR. Vuoi dire che il desiderio delle cose belle è tutt’uno con il desiderio delle cose buone? MEN. Senza dubbio. SOCR. Ma tu dici questo pensando che vi siano alcuni che [c] desiderano il male, altri il bene? Non ti sembra, invece, che tutti desiderino il bene? MEN. Secondo me, no! SOCR. Vi è, dunque, chi desidera il male? MEN. Sì. SOCR. Ma, secondo te, perché si ritiene che il male sia bene? o, pur sapendo che è male, lo si desidera ugualmente? MEN. Secondo me si dà l’uno e l’altro caso. SOCR. Ma allora, Menone, secondo il tuo parere si può desiderare il male pur conoscendo che è male? MEN. Certo! SOCR. Cosa intendi dire con ‘desiderare’? Che la cosa avvenga? [d] MEN. Che avvenga! Cosa mai potrebbe essere? SOCR. Ma si desidera il male credendo ch’esso sia di giovamento a chi tocca, o sapendo che il male è dannoso a chi l’ha? MEN. C’è chi crede che il male sia di giovamento, e chi sa che dannoso è il male. SOCR. Ma ti sembra conoscano che il male è male coloro che ritengono che il male sia di giovamento? MEN. Proprio no! SOCR. Evidentemente, dunque, costoro non desiderano i mali, dal momento che [e] non li conoscono affatto, ma quelli ch’essi ritengono beni, pur essendo mali. Chi, dunque, ignora i mali e li ritiene beni, evidentemente desidera i beni. No? MEN. Sotto questo aspetto sembra di sì. SOCR. Ma allora, chi desidera i mali, come tu dici, pur ritenendo che i mali arrechino danno a chi ne sia colpito, non sa bene che ne sarà danneggiato? MEN. Necessariamente. SOCR. Ma [78a] tali persone non credono che i danneggiati siano infelici proporzionalmente al danno ricevuto? MEN. Per forza anche questo! SOCR. E che uno sventurato è infelice? MEN. Lo credo bene! SOCR. Ma esiste uno che voglia essere infelice e sventurato? MEN. Non mi sembra, Socrate. SOCR. E allora, Menone, nessuno vuole il male, a meno che non voglia essere infelice e sventurato. Cos’altro mai, difatti, è essere infelice se non desiderare e acquisire [b] il male? MEN. Sì, Socrate, sembra che tu dica la verità: nessuno vuole il male.
XI. SOCR. Un momento fa dicevi, dunque, che la virtù consiste nel volere i beni e nel potere di procurarseli? MEN. Così ho detto. SOCR. Solo che impostata così la questione, il volere si trova in tutti, per cui, sotto questo aspetto nessuno è migliore di un altro. MEN. Sembra! SOCR. E’ chiaro, dunque, che se uno è migliore di un altro, lo è in virtù del potere. MEN. Senza dubbio. SOCR. Secondo il tuo ragionamento, dunque, la virtù, sembra, [c] consiste nel potere di procurarsi i beni. MEN. Sì, Socrate, in tutto e per tutto mi sembra che la cosa stia proprio come tu adesso l’hai còlta. SOCR. Vediamo, dunque, se anche questo è vero; forse hai detto una cosa giusta. Non sostieni che la virtù consiste nel sapersi procurare i beni? MEN. Sì. SOCR. Ma tra quelli che chiami beni poni, ad esempio, la salute e la ricchezza? MEN. Ma beni chiamo anche metter da parte oro e argento, acquistare onori e cariche nello stato! SOCR. Quando, dunque, parli di beni, non hai altro dinanzi agli occhi? MEN. No, ma, appunto, tutti questi chiamo beni. SOCR. [d] E va bene! Virtù è, dunque, procurarsi oro e argento, come dice Menone, ospite da parte di padre del Grande Re. Ma a quel ‘procurarsi’, vuoi, forse, aggiungere, Menone, ‘giustamente’ e ‘santamente’, o non te ne importa nulla, e se uno si procura tali cose ingiustamente, tu chiamerai la sua ugualmente virtù? MEN. No certo, Socrate. SOCR. Sì malvagità? MEN. Senz’altro! SOCR. Sembra, dunque, che a tale acquisizione si debba aggiungere giustizia, temperanza, santità, o una qualche altra parte della virtù; altrimenti non si tratta più di virtù, sia [e] pur procurando i beni. MEN. E come, senza queste, potrebbe essere virtù? SOCR. Ma rinunciare all’oro e all’argento, quando il procurarsene, per sé e per un altro, sarebbe ingiusto, questa stessa rinuncia non sarebbe virtù? MEN. Sembra! SOCR. Ma, allora, procurarsi simili beni non è virtù più di quanto lo sia il rinunciarvi, onde sembra che sia virtù ciò ch’è fatto con giustizia, vizio ciò che vien fatto senza questa e senza tutte le altre parti della virtù. [79a] MEN. Mi sembra che non si possa concludere se non come tu hai concluso!
XII. SOCR. Ma non abbiamo detto poco sopra che ciascuna di queste cose, la giustizia, la temperanza e così via, è una parte della virtù? MEN. Sì. SOCR. Ma allora, Menone, ti prendi giuoco di me! MEN. Perché, Socrate? SOCR. Perché mentre ti avevo pregato di non spezzettare e frantumare la virtù, pur dandoti esempi di come avresti dovuto rispondere, non ti sei curato affatto della mia richiesta e mi dici: virtù è capacità di procurarsi [b] i beni con giustizia, aggiungendo poi che questa è una particella della virtù. MEN. Sì. SOCR. Seguendo il tuo modo di ragionare, ne viene fuori che la virtù consiste nel porre nelle proprie azioni una parte di virtù, poiché, appunto, tu sostieni che la giustizia è una particella della virtù, come ciascuna delle altre qualità. Dove vado a parare con questo? Mentre ti pregavo di voler definire la virtù nella sua totalità, tu, invece, senza dirmi affatto cosa sia la virtù, sostieni che ogni azione è virtù allorché sia accompagnata da una particella della virtù, come se già tu mi [c] avessi definito la virtù nella sua totalità ed io potessi riconoscerla nelle particelle in cui l’hai frantumata. Ma allora, se virtù è ogni azione compiuta con una particella di virtù, ritengo, amico Menone, che si debba ricominciar da capo tornando alla prima domanda: cosa è virtù?, se è vero che ogni azione è virtuosa qualora sia accompagnata da una parte di virtù, poiché la conclusione cui si è giunti è che ogni azione compiuta con giustizia è virtù. Oppure pensi che non si debba tornare a quella prima domanda e ritieni che si possa riconoscere una parte della virtù senza conoscere la stessa virtù? MEN. Mi sembra di no. [d] SOCR. Bene, se te ne ricordi, quando ti rispondevo circa la figura, abbiamo respinto una risposta di questo tipo poiché si fondava su termini non ancora chiariti nella ricerca e sui quali non ci eravamo ancora messi d’accordo. MEN. Giustamente l’abbiamo respinta, Socrate. SOCR. Ottimo amico, mentre stiamo ancora cercando cosa sia la virtù nella sua totalità, non devi, dunque, credere di poterla spiegare a chiunque rispondendo che la virtù sono le parti della virtù, né, per altro, discutere qualsiasi altro argomento in questo modo; bisogna, anzi, porre di nuovo [e] la stessa domanda: cosa è mai questa virtù, della quale comunque tu parli? O ti sembra che le mie parole non abbiano senso? MEN. Mi pare che tu abbia ragione.
XIII. SOCR. Da capo, dunque, rispondimi ancora: cosa dite che sia la virtù, tu ed il tuo compagno? MEN. Socrate, anche prima d’incontrarmi con te, sapevo per [80a] sentito dire che tu non fai altro che mettere in dubbio te e gli altri; ora poi, come mi sembra, mi affascini, mi dài beveraggi, m’incanti, tanto da non avere più alcuna via di uscita. E, se mi è lecito scherzare, mi somigli davvero, nella figura e nel resto, alla piatta torpedine di mare: perché anche questa, se qualcuno le si avvicini e la tocchi, sùbito lo fa intorpidire. Ora mi sembra che tu abbia avuto su di me lo stesso effetto, poiché sono veramente intorpidito [b] nell’anima e nella bocca, e non so più cosa risponderti. E sì che ho fatto tante orazioni sulla virtù e dinanzi a un gran pubblico, e molto bene, come mi pareva. E ora, invece, non so neppure dire che cosa essa sia. Mi sembra, poi, che tu abbia fatto benissimo a non volerti mai mettere in mare, a non voler viaggiare fuori di qui, ché se da straniero, in straniera città, ti comportassi in questo modo sùbito ti arresterebbero come un ammaliatore. SOCR. Sei capace di tutto, Menone, e per poco non mi hai messo nel sacco! MEN. Ma che dici, Socrate? SOCR. So bene [c] perché mi hai paragonato a una torpedine. MEN. Per quale ragione, secondo te? SOCR. Perché a mia volta ti paragoni a qualcosa. So bene che tutte le persone belle godono ad esser paragonate: da simili immagini traggono vantaggio, poiché, credo, belle sono le immagini delle persone belle. Io, invece, non ti paragonerò a nulla. Quanto a me, se la torpedine fa intorpidire gli altri perché torpida essa stessa, io allora le somiglio; se no, no, perché non è che io sia certo e faccia dubitare gli altri, ma io più di chiunque altro dubbioso, fo sì che anche gli altri siano [d] dubbiosi. E così, tornando alla virtù, io non so che cosa essa sia; tu, forse, lo sapevi prima di toccare me: ora, invece, sei divenuto simile a uno che non sa. Comunque voglio cercare e indagare con te cosa essa sia.
XIV. MEN. Ma in quale modo, Socrate, andrai cercando quello che assolutamente ignori? E quale delle cose che ignori farai oggetto di ricerca? E se per un caso l’imbrocchi, come farai ad accorgerti che è proprio quella che cercavi, [e] se non la conoscevi? SOCR. Capisco quel che vuoi dire, Menone! Vedi un po’ che bell’argomento eristico proponi! l’argomento secondo cui non è possibile all’uomo cercare né quello che sa né quello che non sa: quel che sa perché conoscendolo non ha bisogno di cercarlo; quel che non sa perché neppure sa cosa cerca. MEN. E non ti [81a] sembra, Socrate, che sia questo un ragionamento assai ben condotto? SOCR. A me no! MEN. Dimmi perché! SOCR. Certo! Perché ho sentito dire da uomini e donne assai addottrinati nelle cose divine... MEN. Cosa dicevano? SOCR. Cose vere, mi sembra, e belle. MEN. Quali? e chi sono coloro che le dissero? SOCR. Sacerdoti e sacerdotesse, quelli a cui stava a cuore saper rendere ragione del proprio ministero. E quelle stesse cose dice [b] anche Pindaro e molti altri poeti, i poeti divini. E questo dicono - ma vedi se ti sembra che dicano il vero -; dicono, dunque, che l’anima umana è immortale, e che ora essa ha un suo compimento - il che si dice morire -, ora rinasce, ma che mai essa va distrutta; ecco perché, dicono, bisogna trascorrere la vita il più santamente possibile,
poiché Persefone, a quelli che hanno già pagato il debito
dei loro antichi peccati, giunto il nono anno, di nuovo
l’anima loro rimanda sù in alto verso il sole;
[c] da tali anime i re illustri rinascono
e gli uomini potenti per forza o grandi per sapienza,
che per tutto il tempo futuro sono, tra i mortali,
chiamati eroi senza macchia.
XV. L’anima, dunque, poiché immortale e più volte rinata, avendo veduto il mondo di qua e quello dell’Ade, in una parola tutte quante le cose, non c’è nulla che non abbia appreso. Non v’è, dunque, da stupirsi se può fare riemergere alla mente ciò che prima conosceva della virtù e di tutto il resto. Poiché, d’altra parte, la natura tutta [d] è imparentata con se stessa e l’anima ha tutto appreso, nulla impedisce che l’anima, ricordando (ricordo che gli uomini chiamano apprendimento) una sola cosa, trovi da sé tutte le altre, quando uno sia coraggioso e infaticabile nella ricerca. Sì, cercare ed apprendere sono, nel loro complesso, reminiscenza [anamnesi]! Non dobbiamo dunque affidarci al ragionamento eristico: ci renderebbe pigri ed esso suona dolce solo alle orecchie della gente senza vigore; [e] il nostro, invece, rende operosi e tutti dediti alla ricerca; convinto d’essere nel vero, desidero cercare con te cosa sia virtù. MEN. Sì, Socrate, ma in che senso dici che non apprendiamo e che quello che denominiamo apprendere è reminiscenza? Puoi insegnarmi che sia davvero così? SOCR. L’ho detto, Menone, poco fa che sei capace [82a] di tutto! Certo, mi chiedi ora s’io ti possa insegnare, proprio a me che sostengo non esistere insegnamento, ma reminiscenza, per vedermi cadere sùbito in contraddizione con me stesso. MEN. No, per Zeus, Socrate, non avevo affatto questa intenzione, ma l’ho fatto per abitudine. E allora, se puoi, comunque sia, dimostrami che davvero è così, dimostramelo! SOCR. Non è certo facile, ma, per amor tuo, ugualmente mi c’impegno. Chiama uno di questi molti servi del tuo séguito, quello che vuoi, sì che proprio [b] in lui possa darti la dimostrazione che desideri. MEN. Benissimo. [a un servo] Vieni qua! SOCR. E’ greco, e parla greco? MEN. Alla perfezione: è nato in casa mia. SOCR. Sta attento ora se ti sembra ch’egli si ricordi o se apprenda da me. MEN. Starò attento.
XVI. SOCR. [traccia un quadrato] Dimmi, ragazzo, riconosci in questo uno spazio quadrato? SERVO. Sì. SOCR. [c] E sai che uno spazio quadrato ha uguali tutte queste linee, che sono in numero di quattro? SERVO. Senza dubbio. SOCR. E che uguali sono anche queste linee che lo intersecano a mezzo? SERVO. Sì. SOCR. E non può essere simile spazio maggiore o minore? SERVO. Certo! SOCR. Ammesso che un lato sia di due piedi e di due anche il lato adiacente, quanti piedi sarebbe l’intero? Vedi un po’: se un lato fosse di due piedi e quest’altro di uno solo, non è vero che lo spazio sarebbe di una volta due piedi? SERVO. Sì. SOCR. Ma siccome è due piedi [d] anche da questa parte, non risulta di due volte due? SERVO. Risulta di due volte due. SOCR. Quanto fa due volte due piedi? Calcola e dimmi il risultato. SERVO. Quattro, Socrate. SOCR. E potrebbe esservi uno spazio doppio di questo, ma simile a questo, avente tutti e quattro i lati uguali? SERVO. Sì. SOCR. E di quanti piedi sarà? SERVO. Otto. SOCR. Sù via, allora, prova a dirmi quanto [e] sia lungo ciascun lato. Se in questo il lato è di due piedi, quanto sarà il lato di quello doppio? SERVO. Evidentemente il doppio, Socrate. SOCR. Vedi, Menone, che non gl’insegno nulla, ma su tutto pongo solo domande! Egli crede ora di sapere quale sia la lunghezza del lato di un quadrato di otto piedi. Non ti pare? MEN. Sì. SOCR. E lo sa davvero? MEN. Evidentemente no! SOCR. Crede, appunto, che questo lato sia il doppio del precedente? MEN. Sì.
XVII. SOCR. Sta a vedere com’egli via via rammenti esattamente come si deve [rivolto al servo] E tu, dimmi: affermi che un lato doppio dia luogo ad una superficie [83a] due volte più grande? E mi spiego: non parlo di una superficie che sia lunga da una parte, breve dall’altra, ma di una superficie come questa, uguale da tutte le parti, solo che doppia, e cioè di otto piedi. Vedi un po’ se ancora ti sembra che debba avere il lato doppio. SERVO. Secondo me sì. SOCR. Questo lato non diverrà doppio se, prolungandolo, ve ne aggiungiamo un altro di eguale grandezza? SERVO. Senza dubbio. SOCR. E dici che su questa nuova linea si costruirà una superficie di otto piedi, se tracciamo quattro linee uguali? SERVO. Sì. SOCR. Disegnamo, [b] quindi, quattro linee uguali a questa. E’ questa, no?, la superficie che sostieni essere di otto piedi [A I L M]. SERVO. Esattamente. SOCR. Ma in tale superficie non entrano quattro quadrati uguali al primo, che è di quattro piedi? SERVO. Sì. SOCR. E quanto è? Non è quattro volte tanto? SERVO. Come no? SOCR. Ma ciò che è quattro volte più grande di altro, è forse il doppio? MEN. No, per Zeus! SOCR. Quante volte, allora, è più grande? SERVO. Il quadruplo. SOCR. Raddoppiando, dunque, il [c] lato, non ottieni ragazzo mio, una superficie doppia, ma quadrupla. SERVO. E’ vero! SOCR. E quattro per quattro fa sedici. No? SERVO. Sì! SOCR. Con quale linea otterremo, dunque, una superficie di otto piedi? Non otteniamo da questa linea [A I] una superficie quadrupla rispetto alla prima? SERVO. Dico di sì. SOCR. E dalla metà di questa linea si ottiene una superficie di quattro piedi? SERVO. Sì. SOCR. E sia! La superficie di otto piedi non è, dunque, doppia rispetto a quella di quattro e la metà di quella di sedici? SERVO. Sì. SOCR. Non si verrà, dunque, costituendo tale spazio con una [d] linea minore di questa [A I], e maggiore di quella [A B]? O no? SERVO. A me par di sì. SOCR. E va bene, rispondi sempre come sembra a te! Dimmi: questa linea [A B] non era di due piedi e quest’altra [A I] di quattro? SERVO. Sì. SOCR. Ma allora il lato di una superficie di otto piedi deve essere maggiore di quello di una superficie di due piedi e minore di quello di una di quattro. SERVO. Necessariamente. SOCR. Cerca, dunque, di dirmi che [e] lunghezza deve avere. SERVO. Tre piedi. SOCR. Se dev’essere di tre piedi dobbiamo aggiungere a questa linea [A B] la metà di essa [B P] per cui sarà, appunto, di tre piedi [A P]; la prima linea [A B] è, infatti, di due piedi e quest’altra [B P] di uno. E così, da quest’altra parte, abbiamo una linea di due piedi [P Q] e una di un piede [Q R]. In tal modo si forma lo spazio quadrato di cui parli. SERVO. Sì. SOCR. Ma se questo lato è di tre piedi e di tre piedi è quest’altro lato, l’intero spazio [A P R S] non sarà tre volte tre piedi? SERVO. Sembra. SOCR. E tre volte tre piedi quanto fa? SERVO. Nove. SOCR. Ma perché la superficie fosse il doppio della prima, di quanti piedi doveva essere? SERVO. Di otto. SOCR. Da una di tre piedi non può dunque costruirsi un quadrato la cui superficie sia di otto piedi. SERVO. No, certo! SOCR. Da quale linea allora? Cerca di rispondermi con preci-[84a] sione: e se non vuoi fare il calcolo numerico, indicacelo! SERVO. Per Zeus, Socrate, non lo so davvero!
XVIII. SOCR. Ti rendi conto, Menone, di quanto cammino egli abbia già fatto sulla via della reminiscenza? Dapprima non sapeva quale fosse il lato di un quadrato la cui superficie sia di otto piedi; neppure ora lo sa, ma prima credeva di saperlo e rispondeva con quella sicurezza propria di chi sa, né ombra di dubbio lo sfiorava; ora è [b] dubbioso, e, non sapendo, neppure crede di sapere. MEN. E’ vero! SOCR. Non si trova, dunque, adesso in una condizione migliore rispetto a ciò che ignorava? MEN. Sembra anche a me! SOCR. Facendolo dubitare, intorpidendolo, come fa la torpedine, lo abbiamo forse danneggiato? MEN. Non mi pare. SOCR. Anzi, l’abbiamo non poco aiutato, sembra, a trovare la via della verità. E ora, proprio perché non sa, ricercherà con piacere; prima, invece, [c] con tutta facilità avrebbe spesso, e di fronte a molti, sostenuto che per raddoppiare un quadrato si deve raddoppiare il lato. MEN. E’ probabile. SOCR. Credi allora che si sarebbe messo a cercare e ad apprendere quel che pensava di sapere, pur non sapendolo, se prima non cadeva in dubbio, e se, rendendosi conto di non sapere, non fosse stato punto dal desiderio di sapere? MEN. Non mi sembra, Socrate. SOCR. Gli ha, dunque, giovato il suo intorpidimento? MEN. Mi pare. SOCR. Osserva ora come egli, con l’aiuto di questo suo dubbio, cercando insie-[d] me a me, riuscirà a trovare, mentre io non faccio altro che interrogare senza insegnargli nulla. Sta comunque attento se per caso mi dovessi cogliere a insegnargli o a spiegargli qualcosa, invece di fargli esprimere mediante le mie domande il suo proprio pensiero!
XIX. [rivolto al servo] E ora dimmi: non è questo uno spazio di quattro piedi [A B C D]? Comprendi? SERVO. Sì. SOCR. Possiamo aggiungervene un altro uguale [B I N C] ? SERVO. Sì. SOCR. E ancora un terzo [C N L O], uguale a ciascuno degli altri due? SERVO. Sì. SOCR. E riempire quest’angolo che resta vuoto [D C O M]? SERVO. Certo! SOCR. Non avremo così quattro superfici quadrate uguali? SERVO. Sì. SOCR. [e] Ebbene, quante volte, presi tutti insieme [A I L M], i quattro quadrati sono più grandi di ciascuno d’essi? SERVO. Quattro volte. SOCR. A noi però serviva una superficie doppia: ricordi no? SERVO. Certamente. SOCR. E questa linea che tracciamo da un angolo all’altro di [85a] ciascun quadrato, non li taglia in due parti uguali? SERVO. Sì. SOCR. E non sono forse, queste, quattro linee uguali che circoscrivono questa superficie? SERVO. Lo sono. SOCR. Guarda un po’: qual è la dimensione di questa superficie? SERVO. Non capisco. SOCR. Ciascuna delle quattro linee non taglia in due parti uguali ciascuno dei quattro quadrati? O no? SERVO. Sì. SOCR. E quante di queste metà vi sono all’interno di questo quadrato [B D O N]? SERVO. Quattro. SOCR. E in quest’altro quadrato [A B C D]? SERVO. Due. SOCR. E cosa è il quattro in rapporto al due? SERVO. Il doppio. SOCR. Quanti [b] sono, dunque, i piedi di questo quadrato [B D O N]? SERVO. Otto. SOCR. E su quale linea è costruito? SERVO. Su questa [D B]. SOCR. Cioè su quella che va dall’uno all’altro angolo del quadrato di quattro piedi [A B C D]? SERVO. Sì. SOCR. Codesta linea i sofisti la chiamano diametro. E, se tale è il suo nome, diremo, o servitorello di Menone, che, come tu sostieni, è sulla diagonale che si costruisce la superficie doppia. SERVO. Esattamente, Socrate.
XX. SOCR. Che te ne sembra, Menone? Nelle sue risposte ha mai espresso una sola opinione che non fosse [c] sua propria? MEN. No, egli ha cavato tutto da sé. SOCR. Eppure, come dicevamo poco fa, non sapeva nulla. MEN. E’ vero. SOCR. E tali opinioni erano in lui, o no? MEN. Sì. SOCR. Ma allora, in chi non sa sono insite opinioni vere sulle stesse cose che ignora? MEN. Sembra. SOCR. Tali opinioni sono emerse ora, sollevate in lui come in un sogno, e se ripetutamente lo s’interrogasse sugli stessi argomenti e da punti di vista diversi, puoi star sicuro che alla fine ne avrebbe scienza non meno esatta di chiun-[d] que altro. MEN. Sembra. SOCR. Senza, dunque, che nessuno gl’insegni, ma solo in virtù di domande giungerà al sapere avendo ricavato lui, da sé, la scienza? MEN. Sì. SOCR. Ma ricavar da sé, in sé, la propria scienza, non è ricordare? MEN. Senza dubbio. SOCR. E la scienza che ora possiede: o l’ha acquisita in un certo tempo o la possiede da sempre. MEN. Sì. SOCR. Se la possiede da sempre, egli sa da sempre; se l’ha fatta propria in un qualche tempo, ciò non è sicuramente avvenuto nella presente vita. Vi è forse qualcuno che a questo ragazzo ha [e] insegnato i primi elementi della geometria? Nello stesso modo si comporterà relativamente a tutta la scienza geometrica e a tutte le altre discipline. Vi è forse qualcuno che gli abbia insegnato tutto? Lo saprai certo, tanto più ch’egli è nato e cresciuto in casa tua! MEN. So benissimo che non gli ha insegnato nessuno. SOCR. Ma ha o non ha tali sue opinioni? MEN. Incontestabilmente, Socrate, sembra che le abbia.
XXI. SOCR. E se non le ha acquisite nella presente vita, non è già di per sé evidente che le possedeva, e che le ap-[86a] prese in un altro tempo? MEN. Evidente! SOCR. E non è forse questo il tempo in cui non era ancora uomo? MEN. Sì. SOCR. Se, dunque, nel suo tempo umano e nel tempo in cui non era uomo, saranno in lui opinioni vere, che ridestate dalle interrogazioni divengono scienze, non dovrà l’anima sua averle apprese da sempre? poiché, evidentemente, egli "è" per tutto il tempo, sia quando è uomo sia quando non lo è. MEN. Evidente. SOCR. [b] Se, dunque sempre è nella nostra anima la verità degli enti tw=n o)/ntwn [tòn ònton], immortale deve essere l’anima, per cui, coraggiosamente, non si deve porre mano a ricercare e a ridestare nella memoria ciò che ora ti càpita di non sapere, e che, invece, è un dimenticare? MEN. Non so come, ma, Socrate, mi sembra che tu dica bene. SOCR. Anche a me, Menone! Forse su altri punti del discorso non mi sentirei d’esser tanto sicuro, ma per questo, che, cioè, pensando sia quasi un dovere cercare ciò che non si sa, diverremmo migliori, più forti, meno pigri, che se ritenessimo impossibile trovare e non dover cercare quello [c] che non sappiamo, per questo, se ne fossi capace, combatterei con forza, con la parola e con i fatti. MEN. Anche in questo, Socrate, mi sembra che tu dica bene.
XXII. SOCR. Poiché siamo, dunque, d’accordo che si debba cercare ciò che non si sa, vuoi che insieme poniamo mano a ricercare cosa sia virtù? MEN. Senz’altro! Solo che io, Socrate, sarei tutto contento di esaminare e ascoltare quel che ti ho chiesto in principio, se cioè la virtù [d] debba ritenersi insegnabile, oppure se venga formandosi negli uomini per natura, o in qualche altro modo. SOCR. Oh! Menone, se io avessi un qualche potere non solo su di me, ma su di te, non ci metteremmo ad esaminare sùbito se la virtù sia o no insegnabile, prima di aver cercato cosa essa sia. Ma poiché tu, per essere libero, non ti dài cura alcuna di dominar te stesso, e ti prepari anzi a comandare me e comandi, ti asseconderò: non c’è altro da fare! Dobbiamo dunque, sembra, esaminare la "qualità" poi=o/n ti [pòion tì] di una cosa di cui non sappiamo ancora quello "che" [e] o(/ti [òti] essa sia. Se non altro, addolcisci almeno un poco il tuo dominio su di me, e concedimi di esaminare per ipotesi se la virtù sia insegnabile, o cosa sia.. E quando dico ‘per ipotesi’, intendo ‘ipotesi’ nell’uso che spesso ne fanno gli studiosi di geometria, quando, ad esempio, interrogati a proposito di questa superficie, se essa, in forma di triangolo, possa essere iscritta in un dato cerchio, uno [87a] risponderebbe: "Non so ancora se sia possibile, ma penso che nel nostro caso sia utile procedere per ‘ipotesi’, come segue: se questa superficie triangolare è tale che costruendo [una corrispondente figura] lungo il lato di quella data se ne tagli via tanta quanta quella costruita, il risultato sarà questo, diverso sarà il risultato se ciò non è possibile. Per via ipotetica potrò così spiegarti ciò che può accadere relativamente all’iscrizione del triangolo [b] in un cerchio, se sia o no possibile".
XXIII. Lo stesso dobbiamo fare a proposito della virtù. Poiché non sappiamo ancora né cosa essa sia né le sue qualità, esaminiamo per via ipotetica se sia o no insegnabile, così ragionando: se la virtù ha una sua certa qualità tra quelle proprie dell’anima, sarà insegnabile o no? E in primo luogo, se ha qualità diversa dalla scienza sarà o no insegnabile, ossia, come or ora dicevamo, oggetto di [c] ricordo (per noi è indifferente usare l’uno o l’altro termine). Ma è insegnabile? E allora, non è a tutti chiaro che all’uomo non altro si può insegnare se non la scienza? MEN. Mi sembra. SOCR. Ma se la virtù è una scienza, evidentemente si può insegnare. MEN. Certo! SOCR. Bene, di questo punto ci siamo liberati presto: se è scienza è insegnabile; se non è scienza, no. MEN. Esattamente. SOCR. In secondo luogo, mi sembra, dobbiamo esaminare se la virtù sia davvero scienza o altro dalla scienza. MEN. [d] Sembra anche a me che si debba ora esaminare se la virtù sia davvero una scienza o altro. SOCR. Già! ma non affermiamo che la virtù è un bene? e l’ipotesi che sia, appunto, un bene non resta ben ferma? MEN. Senza dubbio. SOCR. Se allora vi è un bene che sia altro e separato dalla scienza, la stessa virtù potrebbe non essere una scienza; se, invece, non esiste alcun bene che non sia compreso nella scienza, supponendo che la virtù lo sia, la nostra ipotesi sarebbe corretta. MEN. Certo. SOCR. E’ grazie alla virtù che siamo buoni? MEN. Sì. SOCR. E se buoni, siamo anche utili? Ogni cosa buona è anche [e] utile, no? MEN. Sì. SOCR. Dunque, anche la virtù è utile? MEN. Necessariamente, entro i termini di ciò che abbiamo ammesso.
XXIV. SOCR. Consideriamo ora ad una ad una quali cose ci siano utili: la salute, diciamo, la forza, la bellezza, la ricchezza. Queste e altre cose simili sosteniamo che ci sono utili. Non è vero? MEN. Sì. SOCR. Eppure, queste [88a] stesse cose affermiamo che talvolta sono nocive. Pensi diversamente, o così? MEN. No, ma in questo modo. SOCR. Ma vedi un po’, quando codeste cose sono utili, cosa è che le governa; e cosa le governa, quando sono nocive? Non è forse vero che sono utili quando siano correttamente usate, dannose quando siano usate scorrettamente? MEN. Senza dubbio. SOCR. Passiamo ora ad esaminare quel che è proprio dell’anima: c’è qualcosa che chiami temperanza, giustizia, coraggio, facilità d’apprendere, memoria, generosità e altro di simile? MEN. Sì. [b] SOCR. Ma vedi un po’, se di queste qualità quelle che non ti sembrano essere scienza, ma altro, a volte siano nocive altre volte utili: il coraggio, ad esempio, quando non sia coraggio intelligente, ma una specie di audacia; chi agisce arditamente ma senza intelletto, non è forse danneggiato, mentre chi è ardito con intelletto non ne ricava giovamento? MEN. Sì. SOCR. Lo stesso si dica della temperanza e della facilità di apprendere: ciò che si apprende e si prepara con intelligenza è utile, senza intel-[c] ligenza dannoso? MEN. Esattamente. SOCR. In linea di massima, dunque, tutto quello che l’anima intraprende e compie sotto la guida dell’intelligenza si conclude felicemente; nella maniera esattamente opposta tutto quello che fa senza intelligenza. MEN. Sembra di sì. SOCR. E allora, se la virtù è qualità propria dell’anima, e sua proprietà è d’essere utile, essa è intelligenza, poiché tutte le qualità dell’anima non sono in sé né utili né nocive, ma tali divengono se accompagnate dall’intelligenza e dalla stoltezza. Secondo il nostro attuale ragionamento, dunque, [d] poiché la virtù è utile deve in qualche modo essere intelligenza. MEN. Mi sembra.
XXV. SOCR. Lo stesso avviene per le altre doti di cui parlavamo un momento fa, la ricchezza e così via, che ora, dicevamo, sono beni, ora mali; come le altre qualità dell’anima, qualora siano guidate dall’intelligenza sono utili, nocive se guidate dalla stoltezza, così queste seconde doti non sono forse utili quando l’anima le usa e le dirige [e] correttamente, nocive quando avviene il contrario? MEN. Certo. SOCR. E non governa correttamente l’anima saggia, erratamente la stolta? MEN. Proprio così! SOCR. In generale si può dunque affermare che nell’uomo tutto dipende dall’anima e che le qualità della stessa anima [89a] dipendono dall’intelligenza, se debbono essere buone. Secondo tale ragionamento veramente utile è, dunque, l’intelligenza. Ma non diciamo noi che la virtù è utile? MEN. Senza dubbio. SOCR. Noi dunque sosteniamo che la virtù, in tutto o in parte, è intelligenza? MEN. Molto bene mi sembra condotto il tuo ragionamento, Socrate. SOCR. Ma se così stanno le cose, i buoni non sono tali per natura. MEN. Non mi sembra. SOCR. Ne seguirebbe [b] questo: se i buoni divenissero tali per natura, vi sarebbero tra di noi persone addette a riconoscere tra i giovani quelli naturalmente buoni, e noi, dietro loro indicazione, li raccoglieremmo per custodirli nell’Acropoli, sigillandoli con maggior cura dell’oro, sì che nessuno li corrompesse, ma, divenuti uomini, fossero utili allo stato. MEN. Sì, Socrate.
XXVI. SOCR. Se, invece, i buoni non divengono tali per [c] natura, lo diverranno per insegnamento? MEN. Mi sembra proprio che non vi sia altra via d’uscita. Secondo la nostra ipotesi, Socrate, è chiaro che se la virtù è scienza, è insegnabile. SOCR. Forse sì, per Zeus! Ma davvero abbiamo bene impostato le premesse di questa affermazione? MEN. Dianzi sembrava proprio che l’impostazione fosse giusta! SOCR. Ma non deve sembrare soltanto "dianzi", bensì anche ora e in futuro, se dev’essere un sano ragiona-[d] mento. MEN. Che vuoi dire? Perché non sei soddisfatto e dubiti che la virtù sia scienza? SOCR. Te lo dirò, Menone! Che la virtù, se è scienza, sia insegnabile, questo non lo metto in dubbio e l’ipotesi è bene impostata; vedi, invece, se non ho una qualche ragione a dubitare che sia scienza. Dimmi: quando una qualsivoglia cosa, e non solo la virtù, è oggetto d’insegnamento, non implica questo, che ci siano e chi insegna e chi impara? MEN. Mi sembra [e] di sì. SOCR. E di contro, quando di una certa cosa non vi sia né chi insegna né chi impara, è forse irragionevole supporre ch’essa non sia oggetto d’insegnamento? MEN. Certo! Ma non credi che ci siano maestri di virtù? SOCR. Ho più volte cercato se ci fossero tali maestri di virtù, ma nonostante tutti i miei sforzi non riesco a trovarli. Eppure li cerco insieme a molti, e particolarmente con chi penso abbia lunga esperienza di queste cose... Ma ecco, Menone, che a proposito ci càpita a sedere qui accanto Anito: dobbiamo farlo partecipare alla nostra ricerca, e non senza ragione! Sì, perché Anito è, innanzi tutto, figlio [90a] di un ricco e capace padre, Antemione, che fece quattrini non per caso o per lascito dì qualcuno, come è capitato di recente ad Ismenia di Tebe che ha preso le ricchezze di Policrate, ma con il suo sapere e il suo attento lavoro, ed ecco perché mai si è mostrato gonfio, vanitoso, inopportuno, ma uomo misurato e alla mano. Antemione, [b] infine, ha bene allevato e bene ha educato suo figlio, come almeno sembra alla maggioranza degli Ateniesi, che lo elegge alle più alte cariche. Con simili uomini è, dunque, opportuno cercare se vi siano o no maestri di virtù, e chi siano.
XXVII. Sù via, Anito, insieme a noi, a me e a Menone tuo ospite, cerchiamo, a proposito di questo problema della virtù, chi ne possano essere i maestri. A mo’ d’esempio esamina in questa maniera: se volessimo che il nostro Menone divenisse un buon medico, da quali maestri lo [c] manderemmo? Dai medici, direi, no? ANITO. Certo! SOCR. E se volessimo che divenisse un buon calzolaio, non lo manderemmo dai calzolai? ANIT. Sì. SOCR. E così dovremmo fare per tutti gli altri mestieri? ANIT. Certo! SOCR. Ma ancora, sulla stessa questione, dimmi. Noi sosteniamo che volendo farne un medico dovremmo mandarlo dai medici: così dicendo, intendiamo sostenere che farem-[d] mo una saggia cosa mandandolo da chi esercita quest’arte piuttosto che da chi non la esercita, da chi si fa pagare proprio per questo, dichiarandosi maestro di chiunque voglia imparare? Non è appunto avendo presente tutto ciò che faremmo bene a mandarlo da costoro? ANIT. Sì. SOCR. E lo stesso dobbiamo dire a proposito della flautistica e dì tutte le altre arti del genere? Se vogliamo che uno [e] divenga suonatore di flauto, stolto sarebbe non mandarlo da chi s’impegna d’insegnare tale arte per cui esige una paga, ma disturbare altri, andando alla ricerca di persone che non pretendono affatto d’essere maestri e che non hanno alcun discepolo nella disciplina che da quelle persone vorremmo imparasse chi mandiamo da loro; non ti sembra cosa assai illogica? ANIT. Sì, per Zeus, ed anche ignoranza mi sembra!
XXVIII. SOCR. Giuste parole! Ora sì che possiamo con-[91a] siglarci insieme a proposito del nostro ospite, Menone. Il nostro Menone, o Anito, da un pezzo mi sta dicendo che desidera acquistare quella capacità e quella virtù mediante cui l’uomo governa bene famiglia e stato, prende cura dei propri genitori, sa accogliere e congedare cittadini e stranieri, come deve una persona per bene. Vedi un po’ a chi dovremmo giustamente indirizzarlo perché [b] acquisti una simile capacità. Entro i termini del ragionamento di sopra, non è chiaro che dovremmo inviarlo a chi si professa maestro di virtù e che indifferentemente offre i propri insegnamenti a qualsivoglia Greco desideri apprendere, fissando ed esigendo una certa mercede? ANIT. A chi stai pensando, Socrate? SOCR. Come tu stesso certamente sai, mi riferisco a coloro che la gente chiama sofisti ANIT. Per Ercole, Socrate, sta attento a come [c] parli! Nessuno dei miei congiunti, dei miei familiari, dei miei amici, nessun cittadino, nessuno straniero sia colto da questa follia, dalla follia di andare a farsi corrompere da simili persone: corruzione e rovina esse sono per chi le frequenta!
XXIX. SOCR. Cosa dici, Anito? Solo questa gente, dunque, fra tanti che dichiarano di saper essere utili sarebbero talmente diversi dagli altri, che non solamente non sareb-[d] bero di alcuna utilità a ciò che viene loro affidato, ma ne sarebbero, anzi, la rovina? E per simile servizio apertamente pretenderebbero d’essere pagati? Personalmente no, non posso crederti! Io so che il solo Protagora per questo suo sapere ha guadagnato più denari di Fidia, autore di tanti capolavori, e dieci altri scultori messi insieme. Quale mai strana cosa vai dicendo! Chi raccomoda calzari e vecchi vestiti, se li restituisse in peggiore stato di quello che li ha ricevuti, non passerebbero trenta giorni che già la gente lo saprebbe, e, così facendo, ben presto [e] morrebbe di fame. Protagora, invece, avrebbe saputo nascondere a tutta la Grecia che rovinava coloro che lo frequentavano, che li restituiva peggiori di quel ch’essi fossero prima di andar da lui, e tutto questo per più di quaranta anni! poiché credo che egli sia morto sui settant’anni circa, dopo avere per quaranta esercitato la propria arte. E per tutto questo tempo, fino ad oggi, mai la sua fama è venuta meno. Né Protagora è il solo; moltissimi altri hanno fatto come lui, alcuni prima, altri [92a] dopo, ancora in vita. Dobbiamo forse dire, sulla traccia delle tue parole, che tali uomini consapevolmente ingannano e rovinano i giovani, o neppure essi se ne rendono conto? E dobbiamo credere davvero che tanto pazzi siano questi uomini, di cui v’è chi dice che siano tra i più sapienti?
XXX. ANIT. Altro che pazzi, Socrate! Piuttosto, ben più pazzi sono quei giovani che dànno loro quattrini! E ancor più folli quei parenti che li affidano a loro! ma più di tutti, folli sono quelle città che li accolgono e non li cac-[b] ciano via, mentre chiunque si metta a fare il sofista dovrebbero cacciare, cittadino o straniero che sia! SOCR. Ma, Anito, hai forse ricevuto un torto da qualche sofista, o quale altra mai ragione ti spinge ad essere così furibondo contro di loro? ANIT. No, per Zeus, mai e poi mai ho avuto rapporti con sofisti, e mai permetterei che qualcuno dei miei li avvicinasse. SOCR. Ma allora, non ne hai affatto esperienza? ANIT. E mai possa averne! [c] SOCR. Beato uomo, ma come puoi giudicare se vi è del buono o del marcio in una cosa di cui non hai esperienza alcuna? ANIT. Facile! Esperienza o no, so che razza di gente essa sia! SOCR. Forse sei un indovino, Anito! poiché da quel che hai detto resterei stupito per come tu possa altrimenti conoscerli. Ad ogni modo non stiamo ora ricercando quelle persone che, se andasse da loro, potreb-[d] bero rovinare Menone, siano pure, se vuoi, i sofisti. Dicci solo, facendo un favore a questo tuo amico di famiglia e indicandoglieli, chi siano, in questa grande città, i maestri cui deve rivolgersi per apprendere a divenir famoso in quella virtù di cui fino ad ora ho discusso. ANIT. E perché non glieli indichi tu? SOCR. Ma ho già detto chi ritengo maestri di virtù, solo che, tu sostieni, non ho colto nel segno e, forse, nelle tue parole c’è del vero. Digli [e] tu, allora, da quali Ateniesi deve, secondo te, andare: di’ pure il nome che vuoi!
XXXI. ANIT. E che bisogno c’è di udire il nome di un singolo uomo? Un qualsivoglia Ateniese per bene, con cui si incontri, lo renderà certo migliore di qualsiasi sofista, purché voglia aver fiducia in lui. SOCR. Ma questi bravi cittadini dabbene, se tali sono divenuti per caso, spontaneamente, senza che alcuno abbia loro insegnato, saranno [93a] capaci d’insegnare ad altri ciò che loro stessi non hanno mai imparato? ANIT. Eppure, io penso, hanno appreso dai loro predecessori, anch’essi uomini per bene. Non ti sembra che in questa città siano vissuti molti virtuosi e valorosi uomini? SOCR. Lo credo sì, Anito, e anche mi sembra che ci siano, e ci siano stati, bravissimi politici. Ma sono stati a un tempo bravi maestri nell’insegnare la propria virtù? Questo, in realtà, è il punto in discussione: non se in questa città vi siano o no uomini [b] virtuosi, o se ve ne siano stati in passato; ma se la virtù sia insegnabile andiamo da un pezzo esaminando. Ed è appunto esaminando ciò, che vogliamo vedere se i virtuosi, del nostro o di altri tempi, abbiano saputo trasmettere ad altri la propria virtù, o, invece, se la virtù sia cosa che l’uomo non può trasmettere ad altri né da altri ricevere; questo, Menone ed io, andiamo cercando da un pezzo.
XXXII. Ora, per non uscire fuori dai termini del tuo modo di pensare, vedi un po’ così: non dirai che Temisto-[c] cle non sia stato un virtuoso? ANIT. Come no, e in altissimo grado. SOCR. E, per ciò, anche buon maestro della propria virtù, se altro mai maestro della propria virtù sia esistito? ANIT. Credo di sì, purché lo avesse voluto. SOCR. Ma come, pensi, non avrebbe voluto che altri divenissero uomini per bene, e particolarmente il suo figliuolo? o pensi che fosse geloso di lui e che scientemente non abbia [d] voluto comunicargli quella virtù in cui tanto eccelleva? Non hai sentito dire che Temistocle fece di suo figlio Cleofanto un buon cavaliere? Cleofanto sapeva stare in piedi sul cavallo e, in quella posizione, lanciare giavellotti e fare un’infinità di altri mirabolanti esercizi, nei quali il padre lo aveva fatto educare e lo aveva reso abile in tutto quel che dipende da buoni maestri. O non hai ascoltato dai nostri vecchi tali racconti? ANIT. Sì che li ho ascoltati! SOCR. Nessuno, peraltro, potrebbe dire che cattiva fosse la natura del figlio di Temistocle. ANIT. Direi di no! SOCR. E [e] allora? Hai mai sentito dire da un giovane o da un vecchio, che Cleofanto, figlio di Temistocle, sia stato virtuoso e abile per quelle doti in cui eccelse suo padre? ANIT. No certo! SOCR. Ma, allora, ammesso che la virtù sia insegnabile, dovremmo davvero credere ch’egli stesso avrebbe voluto educare il proprio figliuolo in quei tali esercizi, mentre rispetto al sapere ch’egli possedeva sul serio non lo avrebbe reso superiore a coloro che gli stavano intorno? ANIT. Probabilmente no, per Zeus!
XXXIII. SOCR. Eppure questi fu, secondo te, un maestro di virtù, che tu stesso riconosci come il migliore tra i nostri [94a] antichi! Ma passiamo all’esame di un altro, di Aristide figlio di Lisimaco. Non riconosci che Aristide sia stato un virtuoso? ANIT. Senza alcun dubbio. SOCR. Ebbene, anche lui educò benissimo, e più di ogni altro Ateniese, suo figlio Lisimaco; in tutto quello che dipende da maestri, non ti sembra che sul piano della virtù l’abbia reso migliore? Con lui ti sei incontrato e vedi quale uomo [b] sia! E se vuoi, Pericle, quest’uomo di sì alto valore e capacità, sai che ha tirato sù due figli, Paralo e Santippo? ANIT. Sì. SOCR. Egli certo, come sai anche tu, li ammaestrò nell’arte del cavalcare sì da non essere inferiori a nessun altro Ateniese, e così li educò nella musica, nell’agonistica, e in tutto quel che dipende dalle tecniche: e non avrebbe poi voluto farne uomini virtuosi? Credo proprio che l’avrebbe voluto, solo che, forse, la virtù non è insegnabile. E perché tu non ritenga che solo pochi e i più infimi degli Ateniesi non abbiano la possibilità d’istruirsi in questo, ricordati che Tucidide allevò due figliuoli, [c] Melesia e Stefano e li educò bene in tutto, particolarmente nella lotta in cui eccelsero su tutti gli Ateniesi, poiché li aveva affidati, l’uno a Xantia, l’altro a Eudoro, ritenuti i migliori lottatori del tempo: non ti ricordi? ANIT. L’ho sentito dire, certo!
XXXIV. SOCR. Ebbene, non risulta evidente da questo, [d] che, se egli dette ai figli un insegnamento assai dispendioso, sicuramente non avrebbe omesso di renderli virtuosi senza bisogno di spendere un soldo, se la virtù fosse stata insegnabile? Ma era forse Tucidide di bassa condizione? Non aveva molti amici in Atene e tra gli alleati? Anzi, grande era il suo casato e gran potenza godeva in città ed in tutta la Grecia, per cui, se la virtù si potesse insegnare, nel caso non avesse avuto tempo lui stesso perché preso dalle cure politiche, avrebbe facilmente trovato fra i suoi concittadini o ira gli stranieri gente capace di rendere [e] virtuosi i suoi figliuoli. Ma forse, compagno Anito, la virtù non è insegnabile! ANIT. Mi sembra, Socrate, che sei facile a dir male della gente! Se vuoi darmi retta, ti consiglierei di andarci cauto. Se in altra città è facile fare del male o del bene alla gente, nella nostra è facilis-[95a] simo. Anche tu, credo, lo sai!
XXXV. SOCR. Menone mio, mi sembra che Anito sia montato su tutte le furie! né mi stupisce: innanzi tutto perché s’immagina ch’io dica male di questa gente, in secondo luogo perché ritiene d’essere del numero. Ma se un giorno saprà cosa significhi dir male della gente, si calmerà. Ora lo ignora. Ad ogni modo, dimmi, Menone: non vi sono anche da voi uomini per bene? MEN. Senza [b] dubbio. SOCR. Ebbene, costoro volontariamente si prestano a dare insegnamenti ai giovani e riconoscono d’essere maestri e che la virtù è insegnabile? MEN. No, per Zeus, Socrate! Ma talvolta li potresti sentir dire che la virtù è insegnabile, talaltra no. SOCR. E potremo affermare che costoro sono maestri di simile disciplina, se neppure in questo vanno d’accordo? MEN. Non mi pare, Socrate. SOCR. Ma questi sofisti, che soli si presentano [c] come maestri di virtù, ti sembra che lo siano? MEN. Questo, soprattutto, Socrate, amo di Gorgia, che mai da lui ti capiterà di sentirgli fare questa promessa, d’essere, cioè, maestro di virtù: egli, anzi, deride gli altri, quando sente fare simile promessa. Quel che Gorgia crede è che si debbano formare dei buoni parlatori. SOCR. A te, dunque, non sembra che i sofisti siano maestri di virtù? MEN. Non so che dirti, Socrate. Mi trovo anch’io nella stessa condizione degli altri: ora mi par di sì ed ora no! [d] SOCR. Ma sai che non a te solo e agli altri politici sembra che ora la virtù sia insegnabile e ora no; sai che anche il poeta Teognide dice le stesse cose? MEN. In quali versi?
XXXVI. SOCR. Nelle Elegie, là dove afferma:
Insieme bevi, insieme mangia, accanto siedi
e sii gradito a chi abbia grande potenza:
da chi valoroso sia, cose di valore apprenderai.
Se invece ai malvagi ti unisci,
[e] pur quel senno che è in te andrà perduto!
Ti rendi conto che in questi versi discorre della virtù come se fosse oggetto d’insegnamento? MEN. Evidente. SOCR. Passa ora, invece, a questi altri versi, appena sotto, in cui dice:
Se mai il pensiero si potesse costruire e porre dentro l’uomo
allora, prosegue,
numerose e grandi mercedi ne ricaverebbe
chi fosse capace di questo; e
[96a] mai da virtuoso padre verrebbe figlio vizioso,
se docile fosse ai saggi consigli di lui; solo che
con gl’insegnamenti mai di un malvagio farai un virtuoso.
Ti accorgi come sul medesimo argomento egli cade in contraddizione con se stesso? MEN. E’ chiaro. SOCR. E hai da parlare di un’altra materia, della quale, chi se ne dichiara maestro non solo sia ritenuto incapace d’insegnarla ad altri, ma sia egli stesso incompetente e nulla [b] valga proprio in ciò che dice d’insegnare, mentre chi è riconosciuto veramente onesto ora sostenga che sia insegnabile ed ora no? Gente tanto incerta e confusa, a proposito di qualsivoglia cosa, vorrai dire davvero che ne sia maestra? MEN. Eh no, per Zeus!
XXXVII. SOCR. E allora, se né i sofisti né chi sia per berle sono maestri di simile cosa, evidentemente non ve ne sono altri. MEN. Non mi sembra. SOCR. E se non [c] vi sono maestri, neppure vi sono scolari? MEN. Mi pare che tu abbia ragione. SOCR. Ma noi ci siamo trovati d’accordo nel sostenere che ciò di cui non vi sono né maestri né scolari, non è insegnabile? MEN. D’accordo. SOCR. Ma della virtù non abbiamo trovato maestri in nessun luogo! MEN. Proprio così. SOCR. E se non vi sono maestri neppure vi sono scolari? MEN. Sembra! SOCR. La virtù non è, dunque, insegnabile? MEN. Eviden-[d] temente no, se abbiamo esaminato come si deve. Non solo, ma con meraviglia, Socrate, mi chiedo anche se esistono persone virtuose, o, se vi sono, in quale modo si formino. SOCR. Va a finire, Menone, che tu ed io siamo uomini di nessun valore, e che mentre Gorgia non ti ha adeguatamente istruito, Prodico non ha adeguatamente istruito me. Bisogna, dunque, soprattutto aver cura di noi stessi e cercare chi, in un qualche modo, possa renderci [e] migliori. E dico questo tenendo sott’occhio la ricerca fatta fino ad ora, e come ridicolmente ci è sfuggito che non solo se fatte sotto il governo della scienza le umane azioni riescono bene, ma anche se compiute sotto altra direzione. Ecco perché non riusciamo a sapere in quale modo si formino i virtuosi. MEN. Cosa vuoi dire, Socrate?
XXXVIII. SOCR. Ecco: che gli uomini buoni debbano essere utili e che non potrebbe essere in altro modo, questo [97a] lo abbiamo correttamente definito, o no? MEN. Sì. SOCR. E che saranno utili se guideranno bene le nostre cose, anche questo lo avevamo definito bene? MEN. Sì. SOCR. Ma che non si possa rettamente guidare le nostre cose se non mediante l’intelletto, questo, forse, non è stato correttamente definito. MEN. Ma cosa vuoi dire con il termine ‘correttamente’? SOCR. Te lo dirò: se uno conoscendo la via di Larissa, o qualsivoglia altra via, vi andasse e facesse da guida ad altri, li guiderebbe rettamente? MEN. Senza dubbio. SOCR. E se un altro, senza [b] esserci mai stato e senza conoscere la via, ne avesse una retta opinione, non guiderebbe correttamente anche in questo modo? MEN. Senza dubbio. SOCR. E finché avrà una retta opinione di ciò di cui altri ha scienza, credendo d’esser nel vero, ma senza averne intelligenza, non sarà una guida peggiore dell’altro che ne ha intelligenza. MEN. Per nulla! SOCR. L’opinione vera, dunque, relativamente alla rettitudine dell’azione, non dirige meno bene dell’intelligenza. Questo avevamo tralasciato nella nostra precedente indagine sulla qualità della virtù, affermando che solo l’intelligenza guida il retto operare, mentre v’era [c] da tener presente anche l’opinione vera. MEN. Proprio così! SOCR. L’opinione vera non è, dunque, meno utile della scienza. MEN. Con questa differenza, Socrate, che la persona la quale possegga la scienza riesce sempre, mentre chi non abbia se non retta opinione ora riesce ed ora no.
XXXIX. SOCR. Che intendi dire? Chi abbia sempre retta opinione non riuscirà sempre, almeno finché conservi tale opinione? MEN. Mi sembra necessario. Ma se è così, [d] mi stupisco, Socrate, che la scienza sia posta in un più alto grado che non la retta opinione, e mi chiedo perché l’una sia distinta dall’altra. SOCR. Sai la ragione del tuo stupore? vuoi che te lo dica? MEN. Dimmi! SOCR. Perché non hai mai fatto attenzione alle statue di Dedalo; ma, forse, da voi non ce ne sono. MEN. Per quale ragione dici questo? SOCR. Perché anche le statue di Dedalo, se non vengono legate, fuggono e se ne vanno, mentre, se legate, restano fisse. MEN. E cioè? SOCR. Possedere una [e] statua di Dedalo, priva di legami, è avere un’opera che non costa niente, sì come possedere uno schiavo che’ scappi: in realtà non resta nulla in mano. Possederla, invece, legata è avere cosa di gran valore, ché molto belle sono tali opere. A che sto pensando? alle opinioni vere. Anche le opinioni vere, finché restano sono cose belle, capaci di [98a] realizzare tutto il bene possibile; solo che non acconsentono a rimanere per lungo tempo, e fuggono via dall’anima umana, per cui non hanno un gran significato, a meno che non s’incatenino con un ragionamento fondato sulla causalità. Ma proprio in questo, compagno Menone, consiste l’anamnesi, quella reminiscenza su cui sopra ci siamo accordati. Se collegate, esse dapprima divengono scienza e, quindi, cognizioni stabili. Ecco perché la scienza vale più della retta opinione: la differenza tra scienza e retta opinione sta, appunto, nel collegamento. [b] MEN. Per Zeus, Socrate, sembra proprio che tu abbia ragione!
XL. SOCR. In realtà, io stesso parlo non come uno che sa, ma come uno che procede per via di congetture. Ad ogni modo, che scienza e retta opinione siano diverse non mi sembra di saperlo solo congetturalmente; anzi, se pur vi è qualcosa ch’io credo di sapere (e credo proprio di saperne poche), questa porrei in primo piano tra le cose che so. MEN. Giustamente, Socrate. SOCR. Non solo, ma non è anche giusto sostenere che l’opinione vera non è da meno della scienza nel dirigere le nostre singole azioni? MEN. Mi sembra che anche in questo tu sia nel vero. SOCR. [c] La retta opinione, dunque, non ha meno valore e non è meno utile della scienza rispetto alle azioni; né chi abbia retta opinione è inferiore a chi abbia scienza. MEN. Proprio così! SOCR. Che il virtuoso sia utile è un fatto su cui siamo già d’accordo. MEN. Sì. SOCR. E allora, poiché gli uomini non sono buoni e conseguentemente utili agli stati solo a causa della scienza, ma anche in virtù della retta opinione, né scienza né vera opinione esistono [d] nell’uomo per natura; ti sembra, forse, invece, che l’una e l’altra ci siano per natura? MEN. No! SOCR. Poiché dunque non sono per natura, neppure i buoni sono tali per natura. MEN. Evidentemente no. SOCR. Ed è appunto perché non sono buoni per natura che abbiamo quindi esaminato se la virtù sia insegnabile. MEN. Sì. SOCR. E non ci è sembrato che fosse insegnabile se la virtù è intelligenza? MEN. Sì. SOCR. E se fosse insegnabile, sarebbe intelligenza? MEN. Senza dubbio. SOCR. E se [e] vi fossero maestri sarebbe insegnabile, se no, no? MEN. Proprio così. SOCR. Ma non siamo giunti alla conclusione che non esistono maestri di virtù? MEN. Esatto. SOCR. E non abbiamo perciò concluso che la virtù non è insegnabile né è intelligenza? MEN. Certo. SOCR. Eppure siamo rimasti d’accordo nel sostenere ch’essa è un bene. MEN. Sì. SOCR. E che utile e bene è ciò che rettamente ci dirige. MEN. Certo. SOCR. Abbiamo con-[99a] venuto infine che due sole cose hanno la capacità di indirizzarci bene, l’opinione vera e la scienza, possedendo le quali l’uomo si conduce rettamente. Ciò che è dovuto alla fortuna non è affatto frutto di umana direzione, mentre due sono i princìpi mediante cui l’uomo è padrone delle proprie azioni, l’opinione vera e la scienza. MEN. Penso anch’io così.
XLI. SOCR. Poiché la virtù non si può insegnare, essa non è, dunque, frutto di scienza? MEN. Non sembra. SOCR. E allora dei due princìpi, utili e buoni, uno viene [b] a cadere, per cui la scienza non può più essere considerata quale guida della vita politica. MEN. Non mi sembra. SOCR. Non dunque per un certo loro sapere, non dunque perché sapienti, quei tali uomini si sono fatti guida degli stati, i Temistocle e gli altri nominati da Anito. Per tale ragione, anzi, non sono riusciti a formare altri simili a sé, ché le proprie qualità non erano dovute alla scienza. MEN. Mi sembra, Socrate, che tu abbia ragione. SOCR. Se le loro azioni non erano, dunque, dovute alla scienza, non resta se non che le abbiano compiute per [c] opinione retta. Mediante essa i politici governano gli stati, in nulla diversi, per ciò che riguarda la scienza, dagli indovini e dai vati; anche indovini e vati pronunciano molte verità, solo che nulla sanno di quello che dicono. MEN. Rischia che sia proprio così. SOCR. E allora, Menone, non è forse giusto chiamare divini tali uomini, che, pur non avendo intelletto, con successo riescono in molte e grandi cose mediante l’azione e la parola? MEN. Certamente. SOCR. E con ragione chiameremo divini quei tali che or ora dicevamo indovini e vati, come tutti i poeti; [d] e non meno di questi dichiareremo divini anche i politici, poiché ispirati e posseduti, dalla divinità allorché riescono a dire e a fare grandi cose, senza nulla sapere di quello che affermano. MEN. Senza dubbio. SOCR. Anche le donne, Menone, chiamano divini gli uomini buoni. E i Laconi quando vogliono lodare qualcuno dicono: è un divino uomo! MEN. Mi sembra, Socrate, che abbiano [e] ragione. Sta attento però, ché Anito mi sembra inquieto per le tue parole.
XLII. SOCR. Non me ne importa nulla! Con lui, Menone, discuteremo un’altra volta. A noi, se nel suo insieme il nostro ragionamento si è svolto con un esame e con un discorso ben condotto, risulta che la virtù non è per natura né è oggetto d’insegnamento, ma che in coloro nei quali fiorisce virtù essa proviene per divina sorte; senza intelletto, a meno che non si trovi un politico capace di [100a] formare altri politici. Se un tale uomo esistesse si potrebbe dire di lui che sarebbe, tra i vivi, quello che Omero dice fu Tiresia tra i morti, quando afferma che egli solo nell’Ade ha intelligenza, mentre gli altri come vane ombre svolazzano. Tale uomo, rispetto alla virtù, sarebbe, appunto, come un essere reale tra ombre. MEN. Bel-[b] lissime parole, mi sembrano, le tue, Socrate. SOCR. L’esito di questo nostro ragionamento è, dunque, Menone, che la virtù, in chi fiorisce, è frutto di una divina sorte; solo che non potremo saperlo con certezza se, prima di sapere in che modo si formi la virtù nell’uomo, non ci studieremo di conoscere in che consista la virtù per sé. Ma io debbo ora andarmene altrove: fa tu, dunque, il tentativo di persuadere il tuo ospite Anito di quello di cui tu stesso sei rimasto persuaso, sì ch’egli si acquieti. Se [c] riuscirai a convincerlo, sarai, ad un tempo, un benefattore degli Ateniesi.