MENESSENO
Sommario
 

Socrate incontra Menesseno reduce dal palazzo del Consiglio, dove è andato a prendere notizie su chi sarà eletto come oratore funebre per i morti in guerra (I 234a-b). Socrate elogia, con la consueta ironia, gli oratori di questo tipo (II 234c-235c). Facile è infatti parlare davanti a quelli che sono lodati: Socrate, richiamandosi al magistero di Aspasia, dichiara di essere capace di pronunciare un discorso di tal genere (III 235c-236a). Menesseno invita Socrate a recitare il discorso pronunciato da Aspasia il giorno prima su questo argomento (IV 236a-c). Caratteri e struttura generale di un discorso di tal genere (V 236c-237b). Elogio della nobiltà dei guerrieri morti (VI 237b-c). In primo, luogo, elogio della terra in cui nacquero: glorificazione dell'Attica (VII 237c-238b). Elogio dei loro progenitori e della costituzione democratica: è un'aristocrazia con l'approvazione del popolo (VIII 238b-239a). La primitiva storia di Atene e i primi successi, la potenza persiana (IX 239a-240a). Le guerre persiane: Maratona (X 240a-e). Artemisio e Salamina (XI 240e-241c). Platea e le altre vittorie che scongiurarono il pericolo persiano (XII 241c-c). Le lotte tra i Greci: la guerra del Peloponneso (XIII 241e-242e). La spedizione di Sicilia e le fasi ulteriori della guerra; le lotte civili e la pacificazione generale (XIV 242e-244b). Nuova situazione di Atene dopo la guerra del Peloponneso (XV 244b-c). Ulteriori rapporti tra Atene e il Gran Re di Persia nei tempi più recenti (XVI 244d-246a). Sulla base delle glorie passate è ora ai viventi che bisogna rivolgersi (XVIII 246a-c). Esortazione dei defunti ai loro discendenti (XIX 246d-247c). Consolazione indirizzata ai parenti, padri e madri (XX 247c-248d). Esortazione e consolazione finale dell'oratore agli ascoltatori (XXI 248d-249c). Socrate si fa promettere da Menesseno che non ripeterà a nessuno il discorso di Aspasia (XXII 249d-e).

TESTO

 [234a] I. SOCRATE. Dall’agorà, o da dove viene Menesseno? MENESSENO. Dall’agorà, Socrate, e dal buleuterio. SOCR. E tu che c’entri col buleuterio? Evidentemente credi d’avere già raggiunto il termine dell’educazione e della filosofia, e sentendotene oramai capace progetti di spiccare il volo a più alte imprese, e alla tua età, meraviglioso, ti dài all’impresa di governare noi più anziani, si che la tua casa senza soluzione dia sempre qualcuno che si occupi delle nostre [b] cose! MEN. Se tu, Socrate, permetti e consigli di tendere alle magistrature, lo farò ben volentieri: se no, no. Comunque oggi sono andato al buleuterio, perché mi era giunto all’orecchio che la bulè doveva scegliere colui che pronuncerà il discorso sui morti in guerra: sai che si preparano i loro funerali. SOCR. Certo! Ma chi hanno scelto? MEN. Nessuno: hanno rimandato a domani; ma credo che verrà scelto Archino, o Dione.

[c] II. SOCR. Sì, Menesseno, va a finire che per più rispetti bello è morire in guerra. Bella e magnifica sepoltura tocca anche a chi povero conclude la sua vita, e un elogio càpita anche se uno non vale proprio nulla, da dotti uomini pronunciato, che non lodano a braccia, ma con discorsi arati da lungo tempo; e lodano in modo tanto bello che, mentre dicono di ciascuno quali sono le sue doti, e [235a] quali no, e variamente colorano il proprio dire con le più belle parole, seducono le nostre anime, elogiando in tutti i modi la città, i morti in guerra, i progenitori tutti, che ci hanno preceduti, e lodano noi stessi che siamo ancora vivi, tanto che anch’io, Menesseno, grazie alle loro lodi, mi sento veramente nobile, e ogni volta, preso d’in-[b] canto ad ascoltarli, mi sembra d’essere immediatamente divenuto più grande, più nobile, più virtuoso. E poiché avviene che, come sempre, io sia accompagnato da stranieri, i quali ascoltano insieme a me, di fronte a loro immediatamente divengo più venerabile, ché, anch’essi, mi sembra. debbano provare le stesse impressioni verso di me e verso il resto della città, ritenendola oggetto di maggior meraviglia che non prima persuasi, appunto, dal dicitore. In me questo sentimento di venerabilità dura più di tre [c] giorni; e il flautato discorso e il tono di voce del dicitore penetrano nei miei orecchi tanto che a fatica nel quarto o quinto giorno riesco a ricordarmi di me stesso, ed a sentirmi ancora sulla terra, poiché fino allora poco ci mancava che m’immaginassi d’abitare nelle Isole dei beati, tanto bravi sono i nostri oratori!

III. MEN. Tu, Socrate, prendi sempre per il bavero gli oratori. Comunque io credo che questa volta l’eletto non saprà bene come cavarsela, poiché la scelta è stata decisa all’improvviso, sì che l’oratore sarà forse costretto a parlare senza alcuna preparazione. SOCR. E perché mai, mio [d] caro? Ogni oratore ha belli e pronti i discorsi, e, d’altra parte, neppure è difficile improvvisare su simile argomento. Oh sì, se si dovesse parlare bene di Ateniesi in mezzo a Peloponnesii, o di Peloponnesii in mezzo ad Ateniesi, per persuadere l’uditorio e fare una bella figura ci sarebbe bisogno di un buon oratore, ma quando si scende in campo tra quelli stessi di cui si tessono le lodi, non ci vuole un gran che a sembrare di parlar bene. MEN. Non credi, Socrate? SOCR. No certo, per Zeus! MEN. E tu, ti [e] sentiresti in grado di parlare, se ce ne fosse bisogno e se la bulè ti scegliesse? SOCR. Anch’io Menesseno, certo! non ci sarebbe nulla di sorprendente se ne fossi capace, poiché ho avuto la fortuna d’avere per maestra una donna tutt’altro che di poco conto in retorica, la quale, anzi, formò molti altri e buoni oratori e soprattutto uno, che si distingue tra tutti i Greci, Pericle figlio di Xantippo. MEN. E chi è? Evidentemente parli di Aspasia! SOCR. Di lei, e anche di Conno figlio di Metrobio; questi sono infatti i miei due maestri, l’uno di musica, l’altra di reto-[236a] rica. Nessuna sorpresa, dunque, che un uomo così allevato sia abile a parlare; ma anche chi sia stato educato peggio di me, educato cioè da Lampro nella musica, da Antifonte di Ramnunte nella retorica, anche costui sarebbe ugualmente capace, lodando in Atene gli Ateniesi, di farsi onore.

IV. MEN. E cosa avresti da dire, se tu dovessi parlare? [b] SOCR. Di mio, proprio di mio, forse nulla; solo che, appena ieri, ho ascoltato Aspasia recitare un intiero discorso epitafico su questi morti. Aspasia, come tu stesso mi riferisci, aveva sentito dire che gli Ateniesi avevano l’intenzione di scegliere un oratore. Mi espose, allora, quel che converrebbe dire, parte improvvisando, parte mettendo insieme alcuni passi a cui già prima aveva pensato, quando, mi sembra, aveva composto l’epitafio che Pericle aveva pronunciato. MEN. Ti ricorderesti quel che disse Aspasia? SOCR. Sarei colpevole a non ricordarmene; l’ho appreso da lei stessa, e poco c’è mancato che non prendessi [c] delle botte quando me ne scordavo. MEN. Perché non me lo esponi? SOCR. Non vorrei che la mia maestra se la prendesse con me, se divulgo il suo discorso. MEN. Non aver paura, Socrate, ma parla! E mi farai gran piacere, se mi vorrai recitare codesto discorso, di Aspasia o di chi sia: solo che tu parli! SOCR. Ma, forse, poi, tu riderai di me, se ti sembrerà che, vecchio come sono, mi dia ancora a bamboleggiare. MEN. Ma no, Socrate! Parla in tutti i modi.

V. SOCR. Bisogna proprio che ti faccia questo piacere! e va a finire che se tu mi ordinassi di togliermi il mantello [d] per danzare, sarei forse disposto a farti anche questo favore, dal momento che siamo soli. E allora ascolta! Aspasia, come credo, prese le mosse dai caduti in guerra così: - Già di fatto i caduti in battaglia hanno ricevuto gli onori ad essi dovuti, ed ora compiono il viaggio fatale, accompagnati pubblicamente dalla Città, privatamente dai loro familiari; la legge prescrive, e, con la legge il dovere, che a questi valorosi l’onoranza che ancora resta da tributare loro sia data con un discorso. In virtù di un di-[e] scorso ben detto sorge, in chi ascolta, memoria delle belle azioni e onore per coloro che le hanno compiute. Occorre, dunque, un discorso tale che adeguatamente intessa le lodi dei morti e)paine/setai [epainésetai], che benevolmente ammonisca i vivi paraine/setai [parainésetai] esortando  parakeleuo/menoj [parakeleuòmenos] figli e fratelli a imitare la virtù di questi uomini, consolando  paramuqou/menoj [paramuthoùmenos] padri, madri, i più vecchi dei [237a] familiari, se ancora sono in vita. Ma quale il discorso che sembri avere un simile carattere? Donde rettamente cominceremo a tessere le lodi di uomini buoni, che, in vita, con la propria virtù furono la gioia dei loro cari e che con la morte hanno acquistato la salvezza dei vivi? A me sembra doversi seguire natura: come la natura li ha fatti divenire buoni, così, seguendo lo stesso ordine, conviene tessere le loro lodi. Essi sono divenuti buoni perché frutto dì uomini buoni. Innanzi tutto, dunque, dobbiamo celebrare di loro la buona nascita  eu)ge/neian [eugéneian], in secondo luogo l’allevamento [b] e la paideia; dimostreremo infine come la loro condotta sia apparsa bella e degna della loro origine e della loro formazione.

VI. In primo luogo la bontà della nascita trova il suo fondamento nell’origine dei loro antenati che non è straniera, onde chiaramente risulta che gli stessi discendenti non sono metèci in questo paese, venendovi dal di fuori, ma autoctoni, che dimorano e vivono nella loro patria, nutriti non come gli altri da una matrigna, ma da una terra [c] madre, dove abitano e dove ora, morti, giacciono in quei familiari luoghi in cui essa li generò, li nutrì, li ospitò. Nulla di più giusto, dunque, che innalzare una lode, come prima cosa, a tale madre, poiché così avviene di celebrare insieme la loro buona nascita.

VII. Ebbene, questo nostro paese è degno d’essere lodato da tutti gli uomini e non da noi soltanto, per molte e varie ragioni, ma innanzi tutto e soprattutto perché gli è toccato in sorte d’essere amato dagli dèi. E testimonianza di ciò che diciamo è la contesa e il giudizio delle divinità che [d] per lui scesero in lite; e se gli dèi lodarono questo paese, non è forse giusto ch’esso sia lodato dall’intera umanità? Una seconda lode gli è dovuta di diritto, per il fatto che in quel lontano tempo, in cui tutta la terra produceva e faceva crescere animali di ogni tipo, feroci e da pascolo, allora il nostro paese apparve improduttivo e puro di bestie selvagge, mentre tra gli esseri viventi scelse e generò l’uomo, che per intelligenza s’eleva al di sopra di tutti: e solo riconosce giustizia e divinità. Vi è una prova suprema del nostro discorso, e cioè che questa terra abbia partorito i progenitori di costoro, che sono anche i nostri: [e] ogni madre ha in sé il nutrimento adatto alla sua prole, e la vera madre chiaramente si distingue da quella che tale non è, ma simula di esserlo, per il fatto di non avere in sé la fonte per nutrire la propria figliolanza. Ebbene, anche la nostra terra e madre offre una sufficiente prova di avere generato uomini: unica a quel tempo e per prima produsse nutrimento umano, l’orzo e il frumento, il più bello e [238a] il migliore alimento per la stirpe degli uomini, la qual cosa dimostra ch’essa ha davvero dato la luce a quest’essere vivente. Ora, più per la terra che per la donna hanno valore simili prove, ché non la terra imita la donna nel concepire e nel partorire, ma la donna la terra. Né di questo suo frutto fu gelosa, ma lo distribuì anche agli altri. Essa fece poi scaturire dal suo seno per i propri figlioli il frutto dell’u-[b] livo, che soccorre nelle fatiche, e, nutritili e allevatili fino alla giovinezza, condusse signori e maestri di loro alcune divinità, i cui nomi conviene qui tacere, divinità che hanno informato la nostra vita in funzione delle situazioni quotidiane, educandoci, per primi, nelle arti e insegnandoci, per la difesa del paese, il possesso e l’uso delle armi.

VIII. Nati e moralmente formati in tale modo, gli antenati di costoro presero a organizzarsi secondo una certa costituzione politica, della quale è giusto parlare breve-[c] mente. E’ difatti la costituzione politica che forma gli uomini, uomini buoni se buona, cattivi se cattiva. Ciò che ora importa è mostrare come i nostri progenitori siano stati allevati in una buona costituzione politica, grazie a cui essi furono virtuosi e per cui virtuosi sono i loro discendenti di oggi, tra i quali i morti qui presenti. La costituzione politica, allora ed ora, è difatti la stessa, un’aristocrazia, con la quale oggi ci reggiamo e con la quale sempre, o quasi, ci siamo retti da quel tempo lontano. C’è chi la chiama democrazia, c’è chi la chiama con il nome che più [d] gli piace; in realtà è un’aristocrazia con l’approvazione della massa. Sì, perché sempre abbiamo avuto dei re: ora di nascita, ora di elezione; ma, in gran parte, il potere della città risiede nella massa, che affida magistrature e potere a coloro che, volta per volta, ha l’opinione che siano i migliori, senza che debolezza di posizione sociale, povertà, oscurità di nascita, siano per qualcuno causa ai esclusione, o le opposte condizioni siano titoli di preferenza, come in altre città; non vi è che un solo limite: abbia in mano potere [e] e governo chi abbia fama d’essere sapiente o virtuoso. Causa di tale costituzione politica è la nostra eguaglianza di nascita. Mentre le altre città sono composte di uomini di tutte le provenienze e ineguali, sì che tale ineguaglianza si rispecchia nelle stesse costituzioni politiche, che sono tirannidi ed oligarchie, e gli abitanti si conside-[239a] rano, gli uni di fronte agli altri, o come schiavi o come padroni; noi e i nostri, tutti fratelli perché frutto di una sola madre, non ci consideriamo né schiavi né padroni gli uni degli altri, ma la nostra eguaglianza di origine, dovuta alla stessa natura, ci costringe a ricercare eguaglianza legale  i)sonomi/a [isonomìa], stabilita per legge, e a non arrenderci gli uni agli altri, se non di fronte a fama di virtù e di intelligenza.

IX. Questa la ragione per la quale i padri di questi morti, i nostri padri, e questi morti stessi, allevati in tutta libertà, e nati in sì bella maniera, hanno chiaramente rive-[b] lato a tutti gli uomini tante e belle azioni, sia in privato che in pubblico, ritenendo loro dovere combattere per la libertà anche contro Greci in difesa di Greci e contro barbari in difesa di tutti i Greci. Per degnamente narrare come essi si siano difesi da Eumolpo e dalle Amazzoni che invasero il loro territorio e come si siano difesi dai precedenti attacchi, e come abbiano difeso gli Argivi contro i Cadmei e gli Eraclidi contro gli Argivi, troppo breve sarebbe ora il tempo, tanto più che già i poeti hanno cantato in versi e rivelato a tutti la fama della loro virtù; se, [c] dunque, noi volessimo ora celebrare in semplice prosa le stesse glorie, non potremmo che dimostrarci secondi. Ecco perché ritengo di dovere accantonare tali imprese, poi che hanno già avuto la loro ricompensa; quelle, invece, da cui nessun poeta ha finora tratto fama degna d’un tanto degno argomento e che sono ancora vergini, queste io credo mio dovere ricordare, facendone l’elogio e facendomi paraninfo presso altri perché le celebrino nei canti e in altre forme poetiche in modo degno di coloro che le compirono. E, delle imprese di cui parlo, questa è la [d] prima. Quando i Persiani, che già avevano l’egemonia dell’Asia, si mossero per asservire l’Europa, furono i figli di questa terra, i nostri antenati, che li fermarono, e quindi è giusto e necessario ricordarli dapprima per lodare la loro virtù. Ma bisogna vederla questa virtù se la si vuol lodare degnamente, tornando con la parola a quel tempo in cui l’Asia tutta era già asservita al terzo Re. Di questi il primo, Ciro, liberati i Persiani, aveva, nel gran concetto in cui si teneva, assoggettato i propri concit-[e] tadini insieme ai despoti Media e preso in mano il potere della rimanente Asia fino all’Egitto; il figlio s’impadronì dell’Egitto e della Libia, di tutta quella parte fin dove era possibile penetrare; il terzo, Dario, estese i confini del potere terrestre fino agli Sciti, mentre con [240a] la flotta dominava il mare e le isole, sì che nessuno osava metterglisi contro; gli animi di tutti erano asserviti tante e così grandi e bellicose erano le genti che sopportavano il servaggio dell’impero persiano.

X. Ebbene, avendo Dario accusato noi e gli Eretriesi, col pretesto di nostri insidiosi disegni nei confronti della città di Sardi, inviò cinquecentomila uomini su navi da trasporto e da guerra, e trecento navi da battaglia sotto il comando di Dati, con l’ordine di ritornare conducendo [b] Eretriesi e Ateniesi, se voleva aver salva la testa. Dati navigò su Eretria, contro uomini che tra i Greci di allora erano tra i più famosi in guerra e non pochi di numero; li sottomise in tre giorni e, perché nessuno gliene sfuggisse, frugò tutto il loro paese in questo modo: raggiunti i confini d’Eretria, i suoi soldati si disposero a catena da mare a mare e, tenendosi per mano, percorsero l’intero paese, per poter dire al Re che nessuno era loro suddito. Con lo stesso disegno partirono da Eretria navigando su [c] Maratona, certi di far prigionieri anche gli Ateniesi, aggiogandoli alla stessa sorte toccata a quelli di Eretria. Mentre la prima di queste azioni era già un fatto e la seconda stava per compiersi, nessuno dei Greci venne in aiuto né degli Eretriesi né degli Ateniesi, tranne gli Spartani: anch’essi giunsero all’indomani della battaglia; tutti gli altri, bloccati dal terrore, lieti della loro momentanea sal-[d] vezza, si tennero in silenzio. Bisognerebbe tornare qui, a quel momento, per potersi rendere conto di tutto il valore di cui dettero prova coloro che furono a Maratona e che, sostenendo l’urto dei barbari, fiaccando il loro insolente orgoglio e, per primi, elevando un trofeo sui barbari, si fecero guida e maestri agli altri, insegnando che la potenza persiana non era invincibile e che non v’è supremazia di numero o di ricchezza capace di resistere al valore. [e] Personalmente sostengo che quei valorosi uomini non solo ci furono padri fisicamente, ma lo furono anche della nostra libertà e della libertà di tutti quelli che abitano questo continente; perché, tenendo dinanzi agli occhi quel fatto, i Greci, divenuti discepoli degli uomini di Maratona, osarono, nelle battaglie sostenute più tardi, rischiare tutto per la propria salvezza.

XI. Ai combattenti di Maratona il nostro discorso deve, [241a] dunque, assegnare il primo premio; il secondo, a coloro che combatterono per mare e vinsero a Salamina e all’Artemisio. Anche di questi valorosi si dovrebbero dire molte cose, e quali assalti sostennero per terra e per mare e come se ne difesero; ma io non ricorderò se non ciò che mi sembra la loro impresa più bella: aver portato a termine l’opera iniziata a Maratona. I combattenti di Maratona [b] avevano solo mostrato ai Greci come per terra fosse possibile in pochi respingere una gran moltitudine di barbari; ma ciò non era ancora dimostrato per mare: i Persiani, anzi, per mare godevano fama d’invincibili, per numero, ricchezza di mezzi, arte, forza; di questo sono, dunque, degni d’essere lodati gli uomini che combatterono allora sul mare, d’aver disciolto il terrore dei Greci e d’averne acquetato lo spavento per il gran numero delle navi e degli uomini. E’ avvenuto, dunque, grazie agli uni [c] e agli altri, ai combattenti per terra a Maratona e ai combattenti per mare nelle acque di Salamina, che il resto dei Greci venne educato, apprendendo e abituandosi a non temere i barbari, in virtù dei primi per terra, dei secondi per mare.

XII. La terza azione, per numero e per virtù, che dette luogo alla salvezza della Grecia, proclamo essere stata quella che avvenne a Platea, questa volta comune agli Spartani ed agli Ateniesi. Spartani e Ateniesi insieme respinsero il pericolo più grave e più minaccioso, e per tale loro valore [d] sono oggi lodati da noi e lo saranno in futuro dai posteri. Dopo tali avvenimenti, tuttavia, molte città dei Greci erano ancora sotto il pericolo del barbaro, tanto che si annunziava che lo stesso Re avesse in animo di assalire nuovamente i Greci. E’ dunque giusto che si ricordino anche coloro che portarono a termine l’opera salvatrice dei loro predecessori purgando il mare e totalmente scacciandone il barbaro. Furono questi coloro che combatterono per mare nelle acque dell’Eurimedonte, che fecero la spedizione [e] contro Cipro, che navigarono verso l’Egitto e verso molti altri luoghi: di costoro bisogna mantenere il ricordo, a costoro dobbiamo essere grati, perché fecero sì che il Re, impaurito, pensasse alla propria salvezza, invece di macchinare la rovina dei Greci.

XIII. Fu così che venne sopportata sino alla fine, da tutta la città, nel proprio interesse ed in quello di tutti [242a] coloro che parlano la stessa lingua, la guerra contro i barbari. Ma, una volta fatta la pace e giunta la città a suprema gloria, ad essa toccò ciò che dagli uomini suole esser riservato a chi abbia avuto successo: dapprima la gelosia e, frutto della gelosia, l’invidia; ecco perché la città, pur non volendolo, fu gettata in guerra contro i Greci. Scoppiata la guerra, i nostri, a Tànagra, vennero [b] a conflitto con gli Spartani per la libertà dei Beoti". Incerta restò la conclusione della battaglia, ma ciò che avvenne poi risolse la questione: gli Spartani si ritirarono e andarono via, abbandonando quelli [i Beoti] ai quali erano venuti in aiuto; i nostri, invece, vincitori a Enofita, dopo tre giorni di lotta, giustamente ricondussero in patria coloro che ingiustamente erano stati esiliati. Essi furono i primi, dopo la guerra persiana, a venire in aiuto della libertà dei Greci contro i Greci, e divenuti uomini di valore, per aver liberato quelli cui erano venuti in soccorso, furono per primi deposti in questo monumento con pub-[c] blici onori. Più tardi, quando sempre più vasta divenne la guerra, e tutti i Greci si misero in marcia contro di noi e devastarono il nostro paese, indegnamente ripagando alla città il loro debito, i nostri li vinsero in una battaglia navale e fecero prigionieri, a Sfagia, chi aveva in mano il comando della spedizione, gli Spartani; li avrebbero potuti mettere a morte; invece li risparmiarono, li [d] restituirono e fecero la pace, ritenendo che contro gente dello stesso sangue si dovesse combattere fino alla vittoria e non sacrificare allo sdegno particolare di una città l’interesse della comunità ellenica, mentre era contro i barbari che si doveva proseguire fino alla loro totale distruzione. Degni di lode sono, dunque, questi uomini che, dopo aver combattuto quella guerra, ora giacciono qui, poiché dimostrarono che, se qualcuno avesse sostenuto che nella precedente guerra contro i barbari altri furono superiori agli Ateniesi, non avrebbe sostenuto il vero. Essi, difatti, [e] in questa occasione, mostrarono, trionfando in una guerra, nella quale la Grecia si era rivoltata contro di loro, prendendo nelle proprie mani quelli che avevano il comando sugli altri Greci, di saper vincere con le proprie forze coloro con i quali, un tempo, avevano, a forze unite, vinto i barbari.

XIV. Dopo questa pace ci fu una terza guerra, inattesa e terribile, in cui persero la vita un gran numero di valorosi uomini, che ora giacciono qui; ma molti di loro [243a] caddero in terra di Sicilia, dopo avere innalzato masse di trofei per difendere la libertà dei Leontini, in aiuto dei quali, secondo i patti giurati, erano andati per mare verso quelle terre lontane: non potendo la città, immobilizzata per la lunghezza della traversata, senza via d’uscita, inviare loro soccorsi, essi dovettero cedere alla sorte avversa. Eppure i nemici, pur dopo averli combattuti, riconoscono a loro, lodandoli, temperanza e valore, più che agli altri propri amici. Molti persero, poi, la vita nelle battaglie navali dell’Ellesponto, dopo avere in un sol [b] giorno catturato tutte le navi nemiche e averne vinte molte altre. Ma ciò che ho sostenuto essere in questa guerra imprevisto e terribile, è il fatto, dico, che gli altri Greci giunsero a tal punto di volontà di vittoria  filoniki/a [philonikìa] contro la città, che osarono allacciare negoziati con il peggior nemico, con il Re, che, in comune con noi, avevano scacciato, e che poi separatamente ricondussero contro di noi, un barbaro contro Greci, coalizzando tutti [c] contro la città, Greci e barbari. Ebbene, anche in questo caso, chiare rifulsero la potenza e la virtù della città. Quando, infatti, il nemico ritenne che la città fosse. in piena disfatta e la flotta oramai bloccata a Mitilene, i nostri, venuti in soccorso con sessanta navi, sulle quali s’erano imbarcati essi stessi, mostrandosi - tutti sono d’accordo su questo - uomini di supremo valore, vinsero i nemici e liberarono gli amici; purtroppo, vittime di un’immeritata sorte, non fu possibile raccoglierli in mare, perché giacessero qui. Sempre essi debbono essere ricor-[d] dati e lodati, perché fu per il loro valore che non solo vincemmo quella battaglia navale, ma tutta la guerra e fu per loro che la città venne ritenuta imbattibile, anche se contro di essa si fosse mosso il mondo intero; e fu fama meritata davvero, ché furono le nostre stesse divisioni interne, non gli altri, a vincerci. Sì, invitti noi siamo ancora oggi nei confronti di questi nemici: siamo noi, invece, che abbiamo vinto noi stessi, e da noi stessi siamo stati sopraf-[e] fatti. Dopo che a tutto questo seguì tranquillità e pace con gli altri, la nostra guerra civile fu condotta in modo tale che, se mai fato volesse che gli uomini dovessero vivere in mezzo a lotte intestine, nessuno potrebbe augurarsi che la propria città patisse un male simile a questo. Con quale gioia e senso di fraternità, sia al Pireo sia nel centro urbano, i cittadini fecero lega fra di loro e, contro ogni speranza, con gli altri Greci, e come misuratamente conclusero la guerra contro gli Eleusini! Di [244a] tutto questo non altro fu causa se non la reale affinità d’origine, che produce, non a parole ma a fatti, salda e fraterna amicizia. Ma è necessario, anche, ricordare coloro che in questa guerra persero la vita gli uni per colpa degli altri e riconciliarli come a noi è possibile, con preghiere e sacrifici, come avviene, appunto, in queste cerimonie di oggi, innalzando suppliche ai loro attuali signori, poi che anche noi ci siamo riconciliati. Poiché non per malvagità né per odio si scontrarono tra di loro, ma per sfortuna. [b] E di ciò siamo testimoni noi stessi, noi vivi! che, della stessa loro gente, ci perdoniamo a vicenda e ciò che abbiamo fatto e ciò che abbiamo patito.

XV. Quando, dopo questi avvenimenti, seguì presso di noi una pace generale, la città visse tranquilla, perdonando ai barbari se le avevano reso il male ch’essa aveva fatto loro, ma indignata contro i Greci al ricordo di come erano stati riconoscenti di tanti benefìci, essi che, fatta lega coi [c] barbari, avevano distrutto quelle navi che un tempo li avevano salvati e abbattuto quelle mura che noi sacrificammo perché non fossero diroccate le loro. Decisa a non difendere più i Greci dalla schiavitù, né contro loro stessi né contro i barbari, la città viveva in questa presa di posizione. Ma mentre noi avevamo assunto tale indirizzo, gli Spartani, ritenendo che noi, i sostenitori della libertà, fossimo a terra, e che, oramai, fosse giunto per loro [d] il momento di ridurre gli altri in schiavitù, agirono in tal senso.

XVI. Ma perché dobbiamo andar per le lunghe? Gli avvenimenti successivi, e di cui potrei parlare, non sono antichi né propri di una generazione che non sia la nostra. Noi stessi sappiamo come, presi da sgomento, ricorsero alla nostra città i maggiori dei Greci, Argivi, Beoti e Corinzii, e, ciò che di tutto è più divino, perfino il Re si trovò in una tal situazione senza via d’uscita, da non trovare la propria salvezza altrove se non in questa città, [e] che egli, con tanto ardore, aveva cercato di distruggere. Senza dubbio chi volesse giustamente accusare la città, potrebbe, a ragione, accusarla solo di essere stata sempre troppo compassionevole e pronta a soccorrere il più debole. E così, anche allora, non poté perseverare né mantenersi sino alla fine nel proprio assunto di non venire [245a] in soccorso ad alcuno di quelli che le avevano fatto torto qualora questi stessero per cadere in servaggio, ma si piegò e venne in loro aiuto, e i Greci per quel soccorso scongiurarono la servitù e furono liberi fino a quando essi asservirono di nuovo se medesimi; quanto al Re, Atene non osò direttamente aiutarlo per rispetto ai trofei di Maratona, Salamina e Platea, ma solo col permettere agli esuli e ai volontari di venirgli in aiuto lo salvò, come tutti riconoscono. Ricostruite le mura e le navi, non si sottrasse alla guerra, quando vi fu costretta, e combatté, [b] in difesa dei Parii, gli Spartani.

XVII. Ma il Re ebbe timore della città, quando vide che gli Spartani rinunziavano alla guerra sul mare, e perciò, volendosi distaccare da loro, chiese per sé i Greci del continente, che gli Spartani gli avevano dato in precedenza, quale condizione della sua alleanza con noi e con gli altri alleati, aspettandosi un rifiuto che gli sarebbe servito da pretesto alla sua defezione. Rispetto agli altri [c] alleati s’ingannò: Corinzii, Argivi, Beoti e gli altri alleati consentirono a questo abbandono, strinsero un patto e giurarono, s’egli avesse dato loro un compenso in denaro, di abbandonargli i Greci del continente; noi soli non osammo né abbandonare quei Greci né giurare. No! perché la generosità e la coscienza di libertà della città sono così solide, sane e, per natura, avverse al barbaro, [d] grazie al fatto che noi siamo Greci puri, senza alcuna barbarica mescolanza. Non Pelopi, non Cadmei, non Egizii o Danai, non tanti altri, per natura barbari, greci per leggi, hanno vita comune con noi; ma propriamente greci, senza mescolanza alcuna di sangue barbaro, perciò puro è l’odio che si è venuto installando nella nostra città per chi abbia allotria natura. E, così, rimanemmo di nuovo isolati per non aver voluto commettere un vergognoso ed [e] empio atto, abbandonando Greci a barbari. Ebbene, pur essendo tornati nella stessa situazione, che nel passato ci aveva condotto alla disfatta, con l’aiuto divino questa volta riuscimmo a concludere la guerra meglio di allora, ché al termine della guerra avevamo ancora navi, mura, le nostre colonie, tanto che gli stessi nemici furono lieti d’essere giunti alla fine. Certo, anche in questa guerra perdemmo uomini valorosi, a Corinto, per lo svantaggio del terreno, a Lecheo per tradimento. Valorosi furono [246a] anche coloro che liberarono il Re e scacciarono gli Spartani dal mare. A voi li ricordo: a voi spetta unire le vostre lodi alle mie e celebrare questi eroi.

XVIII. Molte e belle sono le gesta delle quali ho parlato, le gesta di coloro che qui giacciono e degli altri che [b] caddero per la città; ma più numerose, più belle sono quelle che ho lasciato da parte; a volerle passare, tutte in rassegna non basterebbero molti giorni e molte notti. Perché vivo sia il ricordo di tali imprese, bisogna che ciascuno, come se si trovasse in guerra, esorti i discendenti di questi valorosi a non disertare il posto assegnato ai loro antenati e a non indietreggiare per viltà. Personalmente, o figli di valorosi uomini, oggi vi esorto e, nel tempo [c] avvenire, ovunque m’incontri in qualcuno di voi, vi richiamerò alla mente e vi esorterò perché poniate ogni vostro impegno ad essere quanto migliori è possibile. Attualmente è mio dovere riferirvi ciò che i padri ci affidarono di comunicare a chi volta a volta rimaneva, se fosse capitato loro qualcosa, allorché stavano per affrontare il pericolo. Vi esporrò quello che ho ascoltato da loro e che ora essi vi direbbero volentieri se lo potessero, basandomi su ciò che allora dicevano. Immaginatevi, dunque, di ascoltare da loro stessi ciò che ora io vi comunico. Dicevano:

[d] XIX. " Figli, che siate figli di padri valorosi, la stessa cerimonia di oggi lo dimostra. Avremmo potuto vivere vilmente, abbiamo scelto di morire nobilmente piuttosto che rovesciare su voi e sui vostri discendenti un’onta, piuttosto che disonorare i nostri padri e tutti i nostri antenati, persuasi che non c’è vita per chi disonora i suoi, e che simile individuo non è caro né a uomini né a dèi, né qua sulla terra né, morto, quando giace sotterra. Dovete, dunque, sempre tener presenti alla mente le nostre parole: qualun-[e] que cosa facciate, fatela con virtù, sapendo che, se manca virtù, ogni acquisto, ogni attività sono vergognosi e cattivi. Sì, perché né la ricchezza apporta onore a chi la possiede senza virtù - per gli altri tale uomo è ricco, e non per sé - né bellezza e vigore di corpo in uomo vile e malvagio appaiono conveniente ornamento, ma sconvenienza; mettono anzi in risalto chi possiede tali ornamenti e ne mostrano la viltà; la stessa scienza, infine, separata dalla [247a] giustizia e dalle altre virtù appare astuzia  panourgi/a [panourgìa], non sapienza  sofi/a [sophìa]. E dunque tendete sempre, continuamente, ogni, vostro sforzo, per quanto vi è possibile, a superare in gloria noi e i nostri antenati! Sappiate, se no, che se vi vinceremo in virtù, tale vittoria sarà per noi un disonore; se saremo sopraffatti, tale sconfitta sarà la nostra felicità. Certo, il modo migliore perché noi siamo vinti e voi vinciate è che cerchiate di non sciupare la fama [b] dei vostri progenitori, di non distruggerla, avendo coscienza che per un uomo il quale crede di valere qualcosa, nulla v’è di più vergognoso che mettere innanzi a titolo di onore non i propri meriti, ma la fama degli antenati. Gli onori dei genitori sono certo per i figli un bello e magnifico tesoro, ma usare un tesoro di ricchezze e di onori senza trasmetterlo agli eredi, per mancanza di beni e di gloria acquisiti personalmente, è cosa vergognosa e da vigliacchi. Se cercherete di fare quel che vi ho detto, ver-[c] rete amici da noi amici, quando sarete qui condotti dal destino proprio degli uomini; ma se non avrete cura di voi, se sarete malvagi, nessuno vi accoglierà benevolmente. Questo sia detto ai nostri figli!

XX. "Quanto ai nostri padri, se sono ancora in vita, e alle nostre madri, bisogna sempre far loro coraggio perché sopportino nel modo migliore la sventura se per caso debba capitare, ma non unirci ai loro lamenti - non hanno certo bisogno di chi li rattristi, ché basterà la sorte -; ma, con-[d] solandoli e placandoli, dobbiamo ricordare loro che i loro voti più grandi sono stati esauditi dagli dèi. Non figli immortali essi si auguravano, ma virtuosi e gloriosi: e questo, in cui consiste il bene più alto, lo hanno ottenuto; che tutto avvenga secondo i propri desideri nella vita non è cosa facile per un mortale. Virilmente sopportando le sventure, sembreranno d’essere veramente padri di figli [e] valorosi, valorosi essi stessi; lasciandosi abbattere, saranno sospettati di non essere padri nostri, o si dirà che mentiscono coloro che tessono le nostre lodi. Né l’uno né l’altro caso deve assolutamente verificarsi; ma soprattutto a loro spetta tessere le nostre lodi coi fatti mostrandosi uomini che veramente han dato vita a uomini. Fin da tempi antichissimi è sembrato bello il detto: "Niente di troppo"; e bello è, infatti! L’uomo che solo in sé ripone [248a] fiducia, per tutto ciò che porta alla felicità, o nella sua vicinanza, e non dipende da altri, dalla cui buona o cattiva sorte sia costretto ad andare senza mèta, costui ha predisposto nel modo migliore la propria vita: tale è l’uomo saggio, tale l’uomo coraggioso e prudente; e tale uomo nell’acquisto e nella perdita delle ricchezze e dei figliuoli obbedirà soltanto al detto; non gioirà né si addolorerà mai in modo eccessivo, poiché si affida solo a se stesso. Tali speriamo, tali vogliamo che siano i nostri, tali affermiamo [b] che sono; tali noi stessi ci mostriamo oggi, senza eccessivo rimpianto, senza eccessivo timore, sia pur dovendo, forse, morire tra poco. Preghiamo, dunque, i nostri padri e le nostre madri di affrontare il resto della vita in questa stessa disposizione d’animo, sapendo che non con i pianti e con i lamenti ci faranno cosa oltremodo grata, ma che, [c] se ai morti è ancora qualche senso dei vivi, essi meglio non saprebbero fare a noi cosa sgradita, se non tormentandosi così e lasciandosi abbattere dalla sventura; mentre nulla ci farebbero di più gradito che sopportare la sventura con rassegnazione e misura. Oh sì, la morte, cui potremo andare incontro, sarà la più bella che possa capitare ad uomini, sì che conviene piuttosto elogiarla che lamentarsene; e se prenderanno cura delle nostre donne e dei nostri figliuoli, se li manterranno e a questo volgeranno ogni loro pensiero, tanto meglio potranno dimenticare la loro sfortuna, conducendo una vita più bella, più retta e a noi più [d] cara. Questo basti annunciare ai nostri da parte nostra. Alla città raccomanderemmo di prender cura dei nostri padri e dei nostri figliuoli, educando come si deve gli uni, degnamente provvedendo alla vecchiaia degli altri; ma già sappiamo che anche senza le nostre raccomandazioni, la città ne avrà adeguata cura".

XXI. Tale, o figli, tale, o genitori dei morti, il mes-[e] saggio di cui essi ci hanno incaricato, e che io vi annuncio con animo quanto più posso ardente. Personalmente poi, a nome loro, io chiedo: ai figli di imitare i padri, agli anziani di non temere per se stessi, ché, privatamente e pubblicamente, avremo tutti cura della vostra vecchiezza, quando ognuno di noi s’incontri con un familiare dei defunti. Quanto alla città voi stessi ne sapete la cura: emanate leggi per i figli e per i genitori dei caduti in guer-[249a] ra, essa ha cura di loro, e, più che agli altri cittadini, ha ordinato alla magistratura più alta di vegliare perché i padri e le madri dei morti in guerra non debbano patire soprusi; la stessa città, poi, alleva i figli in comune, e preoccupandosi che sentano il meno possibile la loro condizione di orfani, assume la funzione del padre finché sono fanciulli, e quando sono uomini compiuti li rimanda alle loro case adornandoli di un’intera armatura, mostrando e ricordando la condotta del padre, donando loro gli stru-[b] menti della virtù paterna, e, ad un tempo, permettendo loro, quale felice augurio, di andare a reggere con autorità e con forza il focolare paterno fin dal primo giorno, con le armi di cui sono rivestiti. La città, infine, non cessa di onorare i morti, celebrando ogni anno per tutti in pubblico quei funerali ch’è consuetudine celebrare individualmente per ciascuno; aggiungendo giuochi ginnici, ippici, ed ogni altro tipo di gare poetiche. Senz’altre parole, insomma, la città assume, verso questi morti, la parte di erede e di figlio; [c] verso i figli la parte di padre; verso i genitori la parte del tutore, senza cessare di prendersi di tutti, per tutta la durata del tempo, tutte le cure possibili. Tali le ragioni che debbono farvi sopportare con animo placato la vostra sorte; ed è in tale modo che soprattutto vi renderete graditi ai morti e ai vivi e più facilmente disposti a confortare e ad essere confortati. Ed ora voi e tutti gli altri, dopo avere pianto in comune i morti, ritiratevi.

[d] XXII. Eccoti, Menesseno, il discorso di Aspasia di Mileto. MEN. Per Zeus! Socrate, beata davvero è codesta tua Aspasia, se, donna com’è, può comporre simili discorsi. SOCR. Ma se non lo credi, séguimi, e ascolterai lei in persona. MEN. Più e più volte, Socrate, mi sono incontrato con Aspasia, e so chi ella sia! SOCR. E che? non l’ammiri? Non le sei grato oggi del suo discorso? MEN. Molto grato, Socrate, a colei o a colui, chiunque sia, [e] che te lo ha recitato, ma gratissimo, inoltre, a chi me lo ha riferito. SOCR. Bene! Ma sta attento a non denunciarmi, se vuoi che ti riferisca tanti altri bei discorsi politici da lei tenuti. MEN. Sta tranquillo, non ti denuncerò, basta che tu me li riferisca. SOCR. D’accordo!