I
Inizio della discussione tra l'Ateniese, Clinia e Megillo: la rievocazione mitica delle leggi di Creta ad opera di Minosse e Radamanto fa nascere l'esigenza di discutere il problema della costituzione dello stato e delle leggi, man mano che essi percorrono la strada che, attraverso un paesaggio stupendo, conduce dalla città di Cnosso all'antro sul monte Ida, dove Zeus, ispiratore delle leggi di Creta, fu custodito (I 624a-625c). Tutta la legislazione di Creta, dice Clinia, è ispirata alle necessità della guerra, adattate alle particolari condizioni della regione: in questo senso si spiegano i pasti in comune, i ginnasi e le armi leggere (II 625c-626b). Ma questa legge della guerra avrà allora valore non solo fra gli stati, ma anche fra i villaggi, fra le famiglie, fra i singoli: tutti saranno in guerra con tutti. Anzi - ribadisce Clinia - la guerra è anche all'interno di ognuno e vincere se stessi è la più bella vittoria. Analogamente si potrà dire che uno stato che ha vinto se stesso (cioè che è diventato migliore) è quello in cui "i migliori dominano la cieca moltitudine" (III 626b-627c). Lo stato di guerra sia tra gli stati che all'interno di ciascuno stato - obbietta l'Ateniese - può essere una triste necessità, non la condizione normale: e la legislazione deve operare in modo da promuovere non la guerra e la sedizione, neppure il dominio e la supremazia, ma la pace e la concordia (IV 627c-628e). Ciò vuol dire che scopo della legislazione è realizzare la pienezza della virtù (giustizia, saggezza e intelligenza unite al coraggio) e non solo il coraggio: onde la superiorità di chi è valoroso nelle guerre civili su chi è valoroso nelle guerre esterne (V 628e-630d). A questa pienezza di virtù e non solo al coraggio e alla guerra pensarono quindi in realtà Minosse e Licurgo quando dettero le leggi a Creta; e queste leggi sono buone perché promuovono tanto i beni "umani" (salute, bellezza, forza, ricchezza) quanto i beni "divini" (intelligenza, saggezza, giustizia, coraggio): su questa base il legislatore disporrà ogni cosa, favorendo su tutto il dominio dell'intelligenza (VI 630d-632d). Si riprende quindi l'analisi delle leggi di Creta e di Sparta, cominciando da quelle che rispondono alle manifestazioni del coraggio (pasti comuni, ginnasi, esercizi di vario tipo, ecc.). Ma il coraggio e la fortezza non si esercitano solo verso i dolori e le fatiche, ma anche verso i piaceri: e per questo aspetto le legislazioni prese in esame sono carenti. Necessità che siano gli anziani, e nelle sedi opportune, a criticare le leggi (VII 632d-635b). Il problema di vincere i piaceri riguarda non solo il coraggio, ma anche la saggia temperanza. Gli stessi istituti creati a questo scopo non sempre sono universalmente validi (VIII 635b-636e). Particolare severità delle leggi spartane contro l'intemperanza, soprattutto nel bere. Ma anche per il problema del bere bisogna saper distinguere ciò che è buono e ciò che non lo è (IX 636c-638c). Ancora sul problema del bere: anche i simposi, come tutte le associazioni, hanno bisogno di un capo che risponda a precisi requisiti, per essere considerati buoni (X 638c-641a). Utilità dei buoni simposi ai fini dell'educazione in generale. Omaggio di Clinia ad Atene, dove i simposi sono molto diffusi, al contrario che a Sparta e a Creta (XI 641a-643b). Prima definizione dell'educazione: in generale essa è un allevamento appropriato al fine che si vuole raggiungere, ma più propriamente essa è esercizio di virtù che accende nel fanciullo il desiderio di riuscire perfetto, di comandare con giustizia e ubbidire alla giustizia (XII 643b-644c). L'uomo è come una macchina meravigliosa, che piacere e dolore, timore e fiducia sollecitano in sensi contrari: è necessario quindi che sia la ragione a guidare le sue scelte (XIII 644c-645c). Il vino, immesso in questa macchina, eccita il piacere e il dolore, l'ira e l'amore, e annulla i pensieri e la memoria, le opinioni e le sensazioni. Il vino fa tornare bambino l'uomo. Malgrado ciò è possibile che il bere sia giovevole. Esistono due tipi di paure: la paura vera e propria e il pudore o vergogna, e quest'ultima è un bene. E come la paura si vince provandola, così il pudore si acquista superando l'impudenza; il vino, in quanto rende temporaneamente impudenti, può essere perciò un utile strumento di educazione, al servizio della politica (XIV 645d-650b).
II
Ritorno sul concetto di educazione. Come nascono i cori e le danze: loro connessione con il sentimento di gioia (I 652a-654a). Importanza della "musica" (canto e danza nei cori) ai fini dell'educazione: non basta cantare e danzare bene, ma occorre anche cantare cose belle (la virtù) e danzare belle figure. Solo in questo contenuto morale sta la bellezza della "musica" (II 654a-655d). Non si devono lasciare i poeti arbitri dell'educazione, poiché le loro opere, in quanto frutto di mimesi, possono essere buone e cattive. Attuazione di questo principio nelle leggi degli Egiziani (III 655d-657c). Impossibilità di giudicare delle opere di poesia e della musica solo sulla base del piacere che esse procurano (IV 657c-658e). Criterio potrà essere solo, se mai, il piacere che suscita in chi è abbastanza vecchio per essere saggio. L'arte più bella è quella che piace ai migliori, secondo virtù, onde i giudici dell'arte non devono indulgere agli applausi e agli entusiasmi, ma badare solo al fine educativo. Scarsa rispondenza della realtà a questo ideale (V 658e-660d). Viene ribadito il principio di una censura dell'arte: quelli che il volgo ritiene beni, non sono tali, e quelli che sono beni per i giusti non lo sono per i malvagi (VI 660d-661d). Solo il buono è veramente felice e la sola vera felicità è quella che si identifica con la virtù. A questo principio anche la legislazione deve ispirarsi (VII 661d-663a). Non solo, ma ispirandosi a questo principio il legislatore ordinerà anche i cori, che dovranno esaltare la figura del giusto e l'identità di vita felice e vita onesta e che si distingueranno in tre tipi: quello dei fanciulli (alle Muse), poi quello dei giovani fino ai trent'anni (a Peana), poi quello degli uomini tra i trenta e i sessant'anni. I più anziani invece di cantare favoleggeranno (VIII 663a-664e). Ancora sul terzo tipo di coro, che sarà di Dioniso, perché solo con il vino gli uomini maturi riusciranno a vincere il riserbo e a cantare (IX 664e-666d). Quali sono i canti propri di questo terzo coro; per deciderlo non ci si deve affidare al criterio del piacere, ma ad una esatta conoscenza di che cosa è mimesi, per apprezzarla secondo il criterio della fedeltà all'imitazione del bello (X 666d-668d). Per poter valutare la mimesi, dunque, è necessario conoscere che cosa è la cosa rappresentata, come essa è nella sua perfezione naturale e, infine, se l'imitazione è buona. Se tutto ciò è vero il terzo tipo di coro dovrà fare arte in modo assai diverso da come la fanno ora i poeti e gli artisti e i suoi componenti dovranno avere requisiti di sensibilità e di conoscenza molto spiccati (XI 668d-670c). Conclusione sul terzo tipo di coro e sulla sua educazione. Se tutto quel che si è detto è vero, si può ora capire l'utilità del bere e dei simposi, da cui si era preso le mosse, ed il criterio che deve loro presiedere (XII 670c-672a). Necessità di completare l'arte dei cori esaminando anche la metà (ginnastica) finora trascurata per esaminare l'altra metà (la "musica") (XIII 672a-673c). Questo problema verrà ripreso solo nel libro VII. Prima di passare a quest'altro argomento si ricapitolano i risultati circa l'opportunità o meno del bere (XIV 673c-674c).
III
Il problema dell'origine dello stato: per risolverlo bisogna tornare indietro nel tempo e ripercorrere tutta la storia umana. Il mito del diluvio universale (I 676a-677e). Dopo ogni diluvio la storia dell'uomo e della sua civiltà ricomincia da capo, poiché di tutto è andata perduta perfino la memoria. Tra gli uomini sopravvissuti sulle montagne erano assenti le guerre, la violenza, l'ingiustizia, l'odio, la menzogna: tutti avevano a sufficienza ciò di cui bisognavano (II 677e-679d). Ma questi uomini che bisogno avevano di legislatori? Il fatto è che essi già vivevano in una specie di costituzione: il patriarcato. E piano piano le varie famiglie si radunano, scendono alla pianura, cingono le loro case di mura e di siepi. Si giunge così alle soglie della legislazione vera e propria (III 679d-681c). La terza fase di questa storia: la costituzione delle città. Fondazione e distruzione di Ilio (IV 681c-682e). La quarta fase di questa storia: la costituzione degli stati dorici di Argo, Messene e Sparta e del loro patto di mutua assistenza (V 682e-684d). Continua l'esame degli stati dorici: quali le ragioni della decadenza di almeno due di essi? Per rispondere è necessario esaminare con attenzione le leggi (VI 684d-686b). Troppo frettolosi si è stati nelle precedenti lodi: non si deve sperare che le cose seguano i nostri desideri, ma al contrario che i nostri desideri seguano ciò che suggerisce l'intelligenza (VII 686b-687e). E' sulla base di questo criterio che bisogna esaminare la decadenza degli stati dorici (VIII 688a-e). Tale decadenza è conseguente all'ignoranza, e la massima ignoranza è, per l'uomo, amare ciò che è male e odiare ciò che è bene e, per lo stato, che la plebe non obbedisca ai governanti e alle leggi (IX 688e-689e). Necessità che vi sia qualcuno che comanda: i sette principi del potere. La sfrenatezza e la smodata avidità sono le cause della decadenza di Argo e Messene. Necessità che il legislatore ne preveda i rimedi (X 689e-691b). Il concetto di giusta misura come criterio del legislatore. Analisi della costituzione di Sparta e suoi inconvenienti. Atteggiamento di Sparta durante le Guerre Persiane. La saggezza, l'intelligenza e la concordia sono gli scopi ultimi della legislazione (XI 691c-693d). Di due tipi sono le costituzioni "madri" di tutte le altre: quella monarchica (in Persia) e quella democratica (in Atene): entrambe sono unilaterali e la migliore costituzione deve prendere quanto di buono vi è in esse per trovare la giusta misura: libertà, concordia e intelligenza. Storia ed analisi della monarchia persiana da Ciro a Serse (XII 693d-696b). Criteri che consentono di fissare una connessione delle virtù e una gerarchia dei beni: prima quelli dell'anima, poi quelli del corpo, infine, le ricchezze. Carattere dispotico della monarchia persiana e sua conseguente degenerazione (XIII 696b-698a). Le campagne persiane contro la Grecia e la lotta di Atene (XIV 698a-699d). La concordia di Atene degenerò nel difetto eguale e contrario di quello persiano: la licenza. Analisi di questa degenerazione nel campo dell'educazione o "musicale" (XV 699d-701b). Di qui la degenerazione si è progressivamente estesa. Riassunto di tutta la discussione precedente: proposito di delineare "con il discorso" uno stato in cui siano messi in pratica tutti i risultati conseguiti (XVI 701b-702e).
IV
Situazione geografica del nuovo stato: capitale all'interno, abbondanza di porti, fertilità del suolo, lontananza di città estere, alternarsi di pianure e montagne, come a Creta. Necessità di evitare che siano possibili commerci e scambi troppo vasti. Mancanza di legnami per navi (I 704a-705d). Necessità che lo stato non sviluppi la marina, sia per ragioni economiche sia per ragioni militari. Più delle vittorie di Salamina e dell'Artemisio, salvarono i Greci quelle di Maratona e di Platea (II 705d-707d). Condizioni per la deduzione delle colonie (III 707c-708d). Condizioni per il successo dell'opera del legislatore. Non le leggi governano le azioni umane, ma in primo luogo gli dèi, poi la sorte e solo al terzo posto l'arte. La prima condizione perché uno stato possa avere una buona costituzione è che alla sua testa vi sia un principe giovane e fornito di tutte le virtù. Tirannia, monarchia (spartana), democrazia e oligarchia sono i regimi, da cui, in scala discendente, è sempre meno favorevole il passaggio alla costituzione buona. Carattere della tirannia (IV 708c-712b). Qual è lo stato migliore? Democrazia, oligarchia, aristocrazia, monarchia, tirannide sono strutture politiche, che si trovano più o meno mescolate in costituzioni reali come quelle di Sparta e di Creta. Necessità di pregare la divinità perché aiuti a delineare lo stato migliore (V 712b-713a). Il mito di Crono: equilibrio di giustizia ed autorità nello stato (VI 713a-715a). Ancora su giustizia e autorità: sono i magistrati che devono servire alle leggi e non viceversa. Discorso ai coloni: la giustizia cosmica della divinità (VII 715a-716b). Continua il discorso ai coloni: il dio è misura di tutte le cose e ama chi cerca di somigliargli. Necessità per l'uomo di venerare in primo luogo gli dèi, poi i dèmoni, gli eroi, gli avi e di rispettare i genitori. Ordine nei rapporti con i figli, i parenti, gli ospiti (VIII 716c-718d). Esortazioni di carattere generale al legislatore. Il legislatore e i poeti (IX 718d-719e). Minacce e persuasione nel fare le leggi. Esempio dei medici (X 719e-720e). Le leggi matrimoniali. Punizioni per i celibi. Doppio metodo nel redigere le leggi, in modo che esse possano non solo minacciare ma anche persuadere (XI 720e-722a). Utilità del metodo fin qui tracciato. Necessità che ogni legge sia preceduta da un proemio, e che, a questo punto, si passi, dopo tutto il proemio che è stato fatto, a indicare quali sono le leggi migliori. Si è già parlato della venerazione verso gli dèi e del rispetto verso i genitori: si tratta ora di proseguire rivolgendo l'attenzione all'anima, al corpo e alle sostanze di ciascuno (XII 722a-724b).
V
L'anima, sùbito dopo gli dèi, è la cosa che si deve maggiormente onorare, evitando tutto ciò che le reca offesa e danno: il male, il piacere, l'attaccamento a questo mondo, la trasgressione delle leggi e così via (I 726a-728c). Dopo l'anima è il corpo che bisogna onorare: più della forza, della salute e della ricchezza è l'onore e la dignità che hanno valore. Doveri verso i giovani, i parenti, gli amici, i cittadini e gli stranieri (II 728d-730a). L'ideale personale dell'uomo sincero, giusto, coraggioso e magnanimo: un abito intimo a cui, più che le leggi, concorre l'educazione (III 730b-731d). Necessità di combattere l'egoismo; e anche l'eccessiva gioia o l'eccessivo dolore (IV 731d-732d). Necessità di considerare più da vicino la natura umana. Identità di vita virtuosa e felice. In che consiste la felicità: noi preferiamo il piacere e cerchiamo di evitare il dolore (V 732d-733d). E su questo criterio dobbiamo costruire la nostra vita: temperanza, intelligenza, coraggio e salute sono le quattro condizioni che rendono possibili una vita felice (VI 733d-734e). Termina con ciò il proemio alle leggi; bisogna ora passare a tracciare uno schema delle leggi della nuova costituzione. Ma come in un tessuto l'ordito è più forte della trama, così bisogna prima distinguere quali uomini avranno maggior potere e quali meno, e fare le necessarie epurazioni (VII 734c-736c). La distinzione delle terre, delle case e degli altri beni: rispetto della giustizia e repressione della cupidigia, dell'invidia e della litigiosità sono le mete da raggiungere. Opportunità di fissare a 5040 il numero dei cittadini tra cui operare le divisioni (VIII 736c-738b). Necessità di riservare agli dèi quanto a loro dovuto. La costituzione divina e le altre due che più le si avvicinano (IX 738b-739b). La costituzione perfetta è quella in cui tutta la vita dello stato si può riassumere nel detto "le cose degli amici sono comuni". Non esiste più nulla di privato e tutto è, in comune, dello stato. La seconda costituzione è quella che più si avvicina a questa (della terza si parlerà in séguito): la spartizione della terra; necessità che, mediante opportuni controlli, il numero dei cittadini rimanga costante (X 739b-741a). Esortazione al rispetto delle norme stabilite (XI 741a-e). Non è lecito per nessuno possedere oro o argento: autarchia economica per lo stato; la ricchezza come frutto di ingiustizia e di disonestà (XII 741c-743e). Sulla base di questo criterio, bisogna dividere i cittadini in quattro classi censuarie, non troppo distanziate economicamente. Al di sopra di una certa misura, le ricchezze vanno allo stato (XIII 743c-745b). Posizione della capitale dello stato. Criteri di divisione (secondo il numero 12) delle parti dello stato e della popolazione (in tribù) e dei beni da assegnare ai 5040 cittadini (XIV 745b-e). Questo è l'ideale e perciò è diverso dalla realtà; ma è secondo l'ideale che il legislatore deve valutare la migliore costituzione (XV 745c-746d). Conclusione sui criteri di divisione dei beni. Importanza della matematica. Influenze del suolo e del clima (XVI 746d-747e).
VI
Necessità di provvedere lo stato di magistrature e di magistrati, e di dividere fra queste le competenze sulle varie leggi (I 751a-753a). Le modalità per l'elezione dei 37 magistrati e le loro varie fasi (II 753a-754a). Come devono essere organizzate le prime elezioni dei magistrati. Il loro compito fondamentale è quello di essere "guardiani delle leggi". Limiti ai loro beni personali. Limiti di età di accesso alle cariche (III 754a-755b). Dopo l'elezione dei custodi delle leggi si deve procedere a quella degli strateghi (tre), dei "tassiarchi" (dodici) e dei comandanti di cavalleria (due). L'assemblea elettrice sarà presieduta, finché non siano eletti i pritani e il senato, dai guardiani delle leggi (IV 755b-756b). Il senato sarà composto di 360 membri, 90 per ognuna delle 4 classi. Modalità delle elezioni. Due specie di eguaglianza, una aritmetica e una secondo giustizia: necessità di attenersi a quest'ultima pur contemperandola formalmente con l'altra per evitare turbamenti nella massa della popolazione (V 756b-758a). Necessità di una magistratura che eserciti con continuità il suo ufficio: i pritani (VI 758a-d). Necessità di altri funzionari per assolvere a tutti gli altri compiti: gli "astynòmoi", gli "agoranòmoi" e i sacerdoti. Particolari norme per la nomina di questi ultimi (uomini e donne) e per le loro varie funzioni (VII 758d-760a). I compiti di vigilanza su tutto il territorio: norme per renderlo sempre più prospero e accogliente (VIII 760a-761d). I criteri della giustizia rurale. Obblighi e responsabilità e genere di vita dei 60 "agronòmoi" (IX 761d-763c). Compiti e doveri degli "astynòmoi" e degli "agoranòmoi" (X 763c-764c). I magistrati dell'educazione: due per la "musica" e due per la ginnastica, che cureranno rispettivamente l'aspetto educativo e quello agonistico. Requisiti dei candidati e modalità delle elezioni (XI 764c-765d). Ancora sui magistrati dell'educazione: il "supremo magistrato nelle cose relative all'educazione"; modalità di sostituzione in caso di decesso (XII 765d-766d). I tribunali e i giudici. Tribunali privati e tribunali di stato. Requisiti dei giudici (XIII 766d-768c). Si è così esaurita quasi completamente l'analisi delle magistrature. Bisogna ora passare a considerare le leggi, tenendo presente che il disegno di una costituzione eccellente si perfeziona a poco a poco (XIV 768c-770b). Le leggi che disciplinano il culto religioso. Ancora sui vantaggi del numero 5040 già fissato per i cittadini, per le sue molteplici possibilità di divisione (XV 770b-772d). I matrimoni. Difficoltà di stabilire una legislazione rigorosa sulla materia. Possono piuttosto valere delle esortazioni sui criteri che consentono un matrimonio giusto e felice (XVI 772d-773e). Multe per i celibi oltre i 35 anni. Abolizione della dote. Criteri per l'impegno conseguente alla promessa di matrimonio (XVII 773e-775a). Le cerimonie nuziali, il banchetto e l'abitazione degli sposi (XVIII 775a-776b). Il patrimonio del cittadino e il problema degli schiavi: essi devono essere di diversa nazionalità e devono essere trattati con giustizia (XIX 776b-778b). La costruzione degli edifici: caratteri e dislocazione dei templi, vicino ai templi le sedi delle magistrature e dei tribunali e via via di tutti gli altri. Le mura. Compiti di sorveglianza degli "astynòmoi" e doveri di tutti i cittadini (XX 778b-779d). Il primo anno di matrimonio. Necessità dei "pasti in comune" non solo per gli uomini ma anche per le donne (XXI 779d-781d). I tre desideri fondamentali della natura umana: la fame, la sete e l'appetito sensuale. Necessità di orientare secondo giustizia questi tre desideri (XXII 781d-783d). Il problema della procreazione e la sua regolamentazione. I limiti di età per gli uomini e per le donne (XXIII 783d-785b).
VII
Educazione dei fanciulli: anche questa è materia delicata, cui si adattano più insegnamenti e consiglio che leggi. Il problema del migliore allevamento corporale dei fanciulli (I 788a-789d). I problemi della prima infanzia: l'allevamento fisico e l'educazione al movimento. La debolezza e le paure dell'animo infantile (II 789d-791d). Sul modo migliore per curare le angosce dell'animo infantile. Il piacere e il dolore, e la ricerca di un "giusto mezzo", di uno stato di tranquilla serenità (III 791d-793a). Tutti questi orientamenti costituiscono le "leggi non scritte" di una città: il cardine e il legame che tiene connesse le leggi scritte e le difende. L'educazione dei fanciulli dai tre ai sei anni: il loro gioco deve svolgersi in comune e deve essere regolato. Dodici donne, una per tribù, presiederanno ai giochi dei fanciulli. All'età di sei anni è opportuno separare i fanciulli secondo i sessi (IV 793a-794d). Necessità di abituarsi ad un eguale uso di entrambe le mani (V 794d-795d). Necessità di educare con la ginnastica il corpo e con la musica l'anima; le due parti della ginnastica: la danza e la lotta. Nella danza è compreso tanto il mimo quanto la danza vera e propria. Vari tipi di lotta. La danza "corale" e le varie cerimonie a cui devono partecipare i fanciulli (VI 795d-796d). Si dovrebbe ora passare ad esaminare la musica, ma di essa è stato già detto quasi tutto. Importanti per l'educazione sono i giuochi, ma ancora più importante è che essi non siano continuamente mutati. Pericoli conseguenti allo spirito di innovamento (VII 796d-798d). Ancora sui pericoli di innovazioni: i canti sono come le leggi e non deve essere lecito trasgredirli (VIII 798d-800b). Necessità che la musica rispetti il criterio della convenienza e del buon gusto e non tradisca ciò che nello stato è definito giusto, bello e onesto. Opportuni magistrati vigileranno perché queste norme siano rispettate (IX 800b-801d). Canti in onore degli dèi, degli eroi e dei defunti, inopportunità di celebrare con canti i viventi. Regolamentazione dei canti e delle danze: quali convengono agli uomini e quali alle donne. Opportunità di tutte queste norme e di una efficace didattica musicale. La vita è un giuoco che bisogna giuocare come si conviene (X 801e-804c). Obbligatorietà dell'istruzione tanto per i maschi che per le femmine: identità dell'istruzione maschile e femminile (XI 804c-805c). Ancora sull'educazione delle donne e sul loro modo di vivere (XII 805c-806d). Pericolo che l'ozio non corrompa la vita di cittadini che hanno ormai il necessario per vivere e che sono affrancati dai mestieri manuali e dai lavori dei campi: è necessario un programma che regoli tutta la loro giornata, riducendo al minimo le ore di sonno (XIII 806d-808c). La scuola dei ragazzi e i suoi programmi didattici: lo studio delle lettere (XIV 808c-810e). Lo studio dei poeti ed il modello a cui esso deve rigorosamente ispirarsi (XV 810e-812b). Il primo insegnamento musicale. La danza e la ginnastica (XVI 812b-813c). Ancora sugli esercizi ginnici e sulla lotta (XVII 813c-814d). Le due specie di danza: la prima è mimesi di corpi armoniosi in figurazioni nobili; la seconda mimesi di corpi deformi in figurazioni indecenti. La prima specie: le "pirriche" e le "emmelìe" (XVIII 814d-816d). La seconda specie: il comico. I poeti tragici e la loro censura (XIX 816d-817e). Matematica, geometria e astronomia sono le tre discipline che debbono essere ancora fatte studiare agli uomini liberi, anche se poi solo pochi potranno approfondirle. Difficoltà di stabilire norme precise e minute (XX 817e-819a). I cittadini liberi debbono imparare tutto quello che in Egitto si insegna ai bambini su questo argomento: le nozioni elementari di matematica e geometria. Commensurabilità e incommensurabilità (XXI 819a-820e). Lo studio degli astri. Necessità di rimuovere il pregiudizio circa una pretesa irregolarità del moto dei pianeti (XXII 820e-822d). La caccia. Necessità che la morale integri la legislazione. Solo la caccia diurna ad animali terrestri deve essere consentita, senza trappole ed altri inganni (XXIII 822d-824b).
VIII
La legislazione riguardo le feste ed i riti sacrificali. La loro data, il loro numero (non meno di 365: uno al giorno) e le altre modalità. Le esercitazioni militari in tempo di pace e i poeti (I 828a-829e). L'addestramento quotidiano alla lotta e al combattimento (II 829c-831b). Gli ostacoli all'introduzione di questi esercizi nello stato: l'amore del denaro e le false costituzioni (democrazia, oligarchia, tirannide) (III 831b-832d). Tra tutte le gare ginniche bisogna organizzare solo quelle che costituiscono esercizi di guerra. La corsa: i corridori dovranno essere armati; altre modalità per le corse per i bambini, gli adolescenti, gli uomini, le donne. La scherma (IV 832d-834d). Le competizioni "musicali". Necessità di evitare nello stato il pericolo che uomini e donne siano indotti nella tentazione di desideri e amori contro natura (V 834d-837a). Le tre specie di amore: quello tra simili, quello tra contrari e quello misto. Solo quest'ultimo merita di essere incoraggiato. Il modo più efficace per spegnere certi desideri: le convenzioni sociali (VI 837a-838d). La legge ideale per regolare i rapporti sessuali e promuovere la fecondità. L'esercizio dell'astinenza (VII 838d-840c). Importanza degli esercizi fisici per rendere meno forti i desideri sessuali. Rapporti legittimi e rapporti illegittimi (VIII 840c-842a). I pasti in comune; le leggi che regolano l'alimentazione e l'agricoltura: rispetto dei confini dei campi e della ricchezza idrica (IX 842b-844d). I frutti d'autunno: norme del loro consumo per i cittadini e per gli stranieri (X 844d-845d). L'acqua: divieto di inquinarla (XI 845d-846c). La legislazione relativa agli artigiani ed ai mestieri: divieto di svolgere più di un mestiere. I criteri di importazione e di esportazione dei beni (XII 846d-847e). Gli ammassi e la ripartizione dei prodotti agricoli. Parallela ripartizione delle abitazioni e dei gruppi di popolazione (XIII 947c-849a). I compiti degli "agronòmoi" e degli "astynòmoi"; le norme relative alla vendita dei prodotti e dei beni e per i cittadini e per gli stranieri (XIV 849a-850d).
IX
Necessità di predisporre un ordinamento giudiziario per tutti questi fatti; tuttavia è necessario prima considerarne altri: i crimini. E innanzi tutto la spoliazione dei templi: preambolo a queste leggi (I 853a-854c). La legge e la punizione relativa alla spoliazione dei templi. I casi previsti per la pena capitale, i magistrati e la procedura del processo (II 854c-856a). I delitti contro lo stato, il tradimento e il furto: i magistrati, le pene e la procedura per i processi di questi crimini (III 856b-857b). Il compito del legislatore non è soltanto repressivo, ma in primo luogo educativo (IV 857b-859b). Rapporto tra bellezza e giustizia e loro identità. Contraddizione con quanto detto finora: la pena di morte identifica il massimo di giustizia con il massimo di bruttezza. Necessità di risolvere questa contraddizione: il male non è mai commesso volontariamente (V 859b-861a). Ancora sulla volontarietà e involontarietà del male e la distinzione tra ingiustizia e danneggiamento; la legge deve curare i criminali recuperabili, uccidere quelli inguaribili (VI 861a-863a). Ancora sulla volontarietà e involontarietà del male: l'ira, il piacere e l'ignoranza (distinta in ignoranza semplice e doppia, cioè credere di sapere senza sapere realmente) sono le cause dei peggiori crimini, ed il loro predominio sull'anima è da identificare con l'ingiustizia. La legislazione che deve punire i crimini (sia palesi che occulti) prodotti da queste cause (VII 863a-864c). Procedura per i processi relativi ai crimini commessi per follia. Gli omicidi involontari e le pene che devono essere prevedute. I delitti per ira, sia non premeditati che premeditati (VIII 864c-867c). Le pene per i delitti commessi per ira, ivi compresi quelli tra parenti e familiari (IX 867c-869e). L'omicidio volontario e le sue cause: il desiderio di ricchezze, il desiderio di onore e la paura (X 869e-870e). La legge che punisce questi crimini e le varie pene previste (XI 870e-872c). La legge del taglione. Il suicidio. Quando la causa dell'omicidio è un animale o un oggetto o qualcosa di sconosciuto: casistica relativa. Gli omicidi legittimi (XII 872c-874d). Dopo gli omicidi, le violenze (ferite, mutilazioni) sia volontarie che involontarie: per quali motivi è da considerare necessaria una legislazione in materia. Non tutto può essere devoluto alla competenza dei tribunali (XIII 874d-876a). Ancora sulla distinzione tra ciò che va lasciato alla decisione dei tribunali e ciò che va legiferato sùbito. Le ferite volontarie, la loro varia casistica e le pene relative (XIV 876a-878b). Le ferite inferte per collera, loro casistica e pene relative (XV 878b-879b). Le violenze commesse contro le persone anziane: il proemio, la legge e le pene (XVI 879b-880d). Violenze commesse contro i familiari: il proemio, la legge e le pene. Applicazione della legge agli schiavi e alle donne (XVII 880d-882c).
X
La legge unica per tutti gli atti di violenza e distinzione di questi in cinque classi, oltre quelli già considerati. Il problema dell'ateismo e dell'incredulità. Chi commette azioni empie o pronuncia parole illecite lo fa o perché non crede negli dèi, o perché non crede che si interessino degli uomini o perché ritiene di poterli corrompere con sacrifici e con preghiere. Il problema di persuadere gli increduli (I 884a-886b). Forme antiche e forme nuove di ateismo. Il preambolo alla legge (II 886b-887c). In primo luogo è necessario esortare con pazienza e senza ira chi non crede; esempio di questo discorso esortativo (III 887c-888e). Esposizione di dottrine contemporanee: distinzione tra ciò che dipende dalla natura e dagli elementi, ciò che dipende dall'opera dell'uomo e ciò che dipende dal caso: la religione come creazione umana e la genesi dell'ateismo. Necessità di fare ogni tentativo possibile per persuadere costoro (IV 888e-891b). La fonte dell'errore di tutti i filosofi della natura: il misconoscimento della originarietà e priorità dell'anima. Metodo di discussione di questo problema: l'Ateniese discuterà con se stesso (V 891b-893a). Il movimento e le sue dieci specie (VI 893b-894e). Ciò che muove se stesso e le altre cose è principio di movimento. Gli elementi delle cose: la sostanza, la definizione e il nome. La definizione dell'anima come "movimento che muove se stesso" (VII 894e-896c). La priorità dell'anima rispetto al corpo e la sua causalità universale. L'anima superiore che opera il bene e l'anima deteriore che opera il male. Il moto circolare come proprio dell'anima intelligente e virtuosa (VIII 896c-898d). L'anima dei corpi celesti. L'eccellenza e divinità dell'anima dimostra inequivocabilmente l'esistenza degli dèi (IX 898d-899d). Confutazione di coloro che ritengono che gli dèi, pur esistendo, non si occupano degli uomini e del mondo. La provvidenza divina (X 899d-901c). Ancora sulla provvidenza e la virtù degli dèi, non solo rispetto alle grandi ma anche rispetto alle piccole cose (XI 901c-903b). Ancora sulla provvidenza divina: tutto è ordinato per il meglio, in vista della vittoria del bene. Premi e castighi distribuiti dagli dèi a chi è virtuoso o vizioso (XII 903b-905d). Confutazione di coloro che ritengono che gli dèi siano corrompibili dai doni e dai sacrifici degli uomini (XIII 905d-906d). Fine della confutazione e conclusione del lungo proemio alle leggi sull'ateismo e l'empietà (XIV 906d-907d). Prima legge contro l'ateismo e l'empietà nelle varie forme in cui questi, come si è visto, si presentano. Le pene, e le tre specie di carcere: carcere vero e proprio, sophronistérion e casa di pena (XV 907d-909d). Seconda legge contro l'ateismo e l'empietà: interdizione dei sacrifici privati; cerimonie e luoghi sacri devono essere pubblici (XVI 909d-910e).
XI
La regolamentazione dei contratti reciproci e il rispetto dei beni altrui. I tesori e i depositi: "Non sollevare quello che non hai deposto". Le pene previste per i reati di trasgressione a questa norma (I 913a-914e), Gli schiavi e gli affrancati. Limiti di permanenza nello stato e di ricchezze per gli affrancati; altri doveri cui questi sono tenuti. Il possesso degli animali. Regolamentazione delle vendite, delle restituzioni e delle rescissioni dei contratti (II 914c-916d) La frode: il proemio alla legge, la legge e le varie pene previste a seconda dei casi (III 916d-918a). Regolamentazione del commercio al dettaglio al fine del vantaggio generale; il proemio alle leggi, le tre leggi che regolano il commercio e le varie pene previste (IV 918a-920c). Il problema degli artigiani e della giusta regolamentazione delle loro prestazioni. Gli artigiani della salvezza della patria: strateghi ecc. (V 920d-922a). La regolamentazione della tutela e dei testamenti. Pericoli derivanti dal lasciare assoluta libertà nel fare testamento (VI 922a-923c). La legge sui testamenti: i figli maschi, le figlie femmine, gli istituti della tutela e della adozione. Il caso del testatore senza figli. Leggi e norme relative a tutti questi casi. I casi in cui si rende necessario un arbitro (VII 923c-926d). L'educazione degli orfani e garanzie per una loro adeguata protezione. Responsabilità e doveri dei tutori (VIII 926d-928d). Le contese tra padre e figli. Necessità che sia affidato allo stato l'istituto del ripudio dei figli per non lasciare all'arbitrio individuale il mantenimento del numero fisso della popolazione. Norme per l'interdizione dei genitori (IX 928d-929e). I litigi tra coniugi, il divorzio e il nuovo matrimonio (X 929e-930e). Il rispetto e l'assistenza che i figli devono ai genitori; il proemio alla legge, la legge e le pene previste (XI 930e-932d). I venefici e i malefìci non mortali: il proemio alla legge che deve punirli. Le punizioni previste. I danneggiamenti conseguenti a furto o violenza (XII 932d-934c). Legislazione concernente i folli, i collerici e coloro che facilmente si abbandonano alle ingiurie. Interdizione degli attacchi satirici e scherzosi dei poeti comici (XIII 934c-936b). I mendicanti e i danni provocati dagli schiavi. La legislazione relativa all'istituto della testimonianza (XIV 936b-937d). Gli avvocati e la regolamentazione della loro professione (XV 937d-938c).
XII
La legge contro i furti dei beni pubblici (I 941a-942a). La legislazione relativa alla disciplina militare e la necessità di un capo: l'esercizio al comando e all'ubbidienza. Le norme relative alle diserzioni e alle ricompense al valore. I diversi casi che son da distinguere a proposito dell'abbandono delle armi (II 942a-945b). Il collegio dei censori dei magistrati, criteri e procedura di scelta e sua competenza. Onori dovuti ai censori, sia quando sono in vita sia in occasione della loro morte e del loro funerale. Le eventuali punizioni dei censori (III 945b-948b). Mutate condizioni rispetto ai tempi di Radamanto: sono mutate in conseguenza anche le possibilità di ricorrere con fiducia ai giuramenti. La legge relativa ai giuramenti (IV 948b-949e). Le relazioni dello stato con l'estero: cittadini che vanno e stranieri che vengono. Impossibilità di impedire del tutto questi scambi, malgrado i pericoli che ne possono derivare: loro regolamentazione (V 949e-951c). L' "osservatore" presso gli stati esteri: suoi requisiti e suoi compiti. Le varie categorie di stranieri che possono aver occasione di visitare lo stato (VI 951c-953e). Mallevadorie, perquisizioni e rivendicazioni di beni. Impedimenti attuati con la violenza contro un testimone o un concorrente. Ricettazione. Pace e guerra. Le ricompense; le tasse e le offerte agli dèi (VII 953e-956b). L'amministrazione della giustizia: processi e tribunali, sia per le questioni private che dello stato. Il linguaggio da tenere nei processi. La procedura di esecuzione della sentenza (VIII 956b-958c). La legislazione funebre e la procedura da adottare in tutti i momenti del funerale e della sepoltura (IX 958c-960c). Le condizioni per il perpetuarsi delle leggi nella loro inviolabilità: il "consiglio supremo", formato dai dieci custodi delle leggi più anziani (X 960c-962b). Il "consiglio supremo", o "consiglio notturno", come organo centrale di sintesi e di sorveglianza di tutto lo stato. La virtù dell'uomo politico: il problema della molteplicità e dell'unità delle virtù (XI 962b-964d). I custodi perfetti della loro virtù: la loro educazione deve essere sintetica, cioè capace di unificare i vari fini particolari in vista dell'unico fine universale (XII 964d-966a). Le conoscenze più importanti per i custodi: la vera realtà dell'anima e la teologia astrale (XIII 966a-967d). Ancora sulla istituzione e i compiti del "consiglio notturno" (XIV 967d-969d).
I
[624a] I. ATENIESE. Un dio, ospiti, o un uomo da voi ha fama d’esser stato autore dell’istituzione delle vostre leggi? CLINIA. Un dio, ospite, un dio è stato. Questo è ciò che è più giusto dire, assolutamente. Fu Zeus da noi, e dagli Spartani - donde lui è venuto - io credo dicano Apollo gli Spartani stessi. Non è così? MEGILLO. Certo così. [b] ATEN. Tu allora dici seguendo Omero che Minosse ogni nove anni sempre, senza mancare, tornava dal padre, a parlare con lui, e diede le leggi ai vostri stati come il padre insegnava? CLIN. Si dice così da noi; e si dice ancora che suo fratello Radamanto - lo conoscete questo nome [625a] è stato uomo di somma giustizia; e almeno noi Cretesi potremmo dire che per merito effettivo egli ha conseguito questa lode quando allora amministrò la giustizia. ATEN. E questa lode è bella; è proprio degna del figlio di Zeus. Così poiché voi due siete cresciuti nella consuetudine di tali leggi, tu e questo dico, io prevedo che noi potremmo ora parlare senza annoiarci della costituzione dello stato [b] e delle leggi, dicendo e insieme ascoltando lungo il cammino In ogni caso sufficiente a ciò è la strada che va da Cnosso all’antro e al tempio di Zeus, così ci hanno informati, e luoghi per riposare lungo la via ci sono all’ombra dei grandi alberi, come si addice a quest’ora ardente, e alla nostra età sarebbe bene soffermarvisi spesso a sostare e confortandoci l’un l’altro con i nostri discorsi condurre tutto il viaggio così senza fatica, al suo termine. CLIN. [c] E più avanti, ospite, si trovano, nei boschi sacri, piante di cipresso di altezza e bellezza meravigliose, e troveremo prati. Fermandoci lì potremmo passare il tempo a riposare. ATEN. Tu dici cose belle. CLIN. Sono belle e quando le avremo viste le diremo più belle ancora. Ma andiamo ora e ci accompagni la buona fortuna.
II. ATEN. Così sia. E ora dimmi tu. perché la legge ha istituito da voi i "pasti in comune" e i "ginnasi" e le armi così come le portate voi? CLIN. Credo, ospite, che a nessuno sia difficile capire le nostre cose. La natura di tutta la regione cretese, voi vedete, non è come quella [d] tessalica, non è pianeggiante. Là così usano di preferenza i cavalli, noi preferiamo correre a piedi. Da noi il suolo è tutto irregolare, si presta di più all’esercizio della corsa. E’ necessario perciò, in siffatto paese, possedere armi di poco peso e correre senza portare cose pesanti. Mi pare. che la levità degli archi e delle frecce risponda perfettamente a questa esigenza. Tutte queste cose da noi ci [e] preparano alla guerra e mi pare che anche tutte le altre le abbia disposte il legislatore guardando a questo scopo. Perché anche i "pasti in comune" li ha forse introdotti vedendo che tutti, quando sono a combattere, da questo stesso fatto sono costretti a mangiare insieme, tutto il periodo della campagna, per ragioni di sicurezza. E così egli intese, mi pare, condannare la stoltezza dei più, i quali non comprendono che sempre c’è la guerra per tutti gli stati contro tutti gli stati, continuamente, finché duri il genere umano. Se dunque durante la guerra, egli pensava, bisogna che i combattenti mangino insieme per la sicurezza comune e devono esserci ufficiali e soldati predisposti alla [626a] loro vigilanza, ciò deve essere fatto anche in pace e quella che la maggior parte degli uomini chiamano "pace" non è altro che un nome, ma nella realtà delle cose, per forza di natura, c’è sempre una guerra, se pur non dichiarata, di tutti gli stati contro tutti. Analizzando così l’opera del legislatore di Creta, tu forse potrai trovare che egli ordinò tutto il costume per noi in funzione di guerra, la vita pubblica e quella privata, e che su questo fondamento [b] le leggi che egli affidò alla nostra custodia furono tali, come se nessuna delle altre cose abbia alcun valore per chi in guerra non riesca a prevalere, né ricchezze né occupazioni, e tutto ciò che è dei vinti diventi dei vincitori.
III. ATEN. Mi pare, ospite, che tu sia bene esercitato nell’analizzare le istituzioni di Creta. Ma rispondimi su questo e cerca di essere ancora più esplicito; mi pare che [c] tu abbia definito lo stato di buona costituzione dicendo che deve esser amministrato e organizzato in modo da vincere in guerra tutti gli altri, non è vero che è così? CLIN. E’ vero, e credo che anche lui pensi così. MEG. E come divino amico, potrebbe rispondere altrimenti uno qualsiasi degli Spartani? ATEN. Allora io chiedo: questo rapporto di guerra vale ed è vero solo per gli stati verso gli stati ed è diverso invece il rapporto fra villaggio e villaggio? CLIN. No, per nulla diverso. ATEN. Lo stesso rapporto allora? CLIN. Lo stesso rapporto. ATEN. E per una famiglia nei confronti di un’altra, di quelle che sono in uno stesso villaggio, e per un singolo uomo rispetto ad un altro [d] uomo, è lo stesso ancora? CLIN. Lo stesso. ATEN. E bisogna pensare che sia anche per ciascuno rispetto a sé, come per un nemico di fronte ad un nemico. O come dobbiamo ora dire, invece? CLIN. Ospite ateniese, non mi piace infatti dirti "attico", perché mi pare che tu sia degno piuttosto di prender nome dalla tua dea Atena; e infatti tu hai ricondotto al suo vero principio questo discorso e l’hai reso più chiaro e così più facile ti sarà ora capire che con ragione è stato detto da noi poco fa essere nemici tutti a tutti pubblicamente e privatamente ancora ognuno a se [e] stesso. ATEN. Che cosa hai detto, straordinario uomo? CLIN. Ed anche in tal caso, ospite, vincere se stesso è la prima e la più bella di tutte le vittorie, cedere a se stesso è la cosa peggiore e la più vergognosa. Questo che ho detto significa affermare che c’è guerra in ciascuno di noi contro se stesso. ATEN. E allora proviamo ancora a rifare il ragionamento rivedendolo all’indietro. Poiché ciascuno di, noi o vince se stesso o cede a se stesso, possiamo [627a] dire che questo stesso accada anche alle famiglie ed ai villaggi ed agli stati, o non lo possiamo dire? CLIN. Che uno vinca se stesso, un altro ceda invece a se stesso? ATEN. Sì. CLIN. Ma anche questa è una domanda giusta; ciò si ritrova integralmente, anzi più che mai soprattutto negli stati. E quegli stati dove i migliori dominano la cieca moltitudine e i peggiori, si potrà dire senza timore di sbagliare che hanno vinto se stessi e nel modo più giusto sarebbero lodati di una tale vittoria: il contrario dove avviene [b] il contrario. ATEN. E allora se in qualche luogo possa mai darsi che ciò che è peggiore risulti più forte di ciò che è migliore, questo lasciamo andare - richiederebbe un discorso troppo lungo - io ora ho capito quello che tu hai voluto dire. So che secondo te può accadere che cittadini disonesti, nati di uno stesso sangue e appartenenti allo stesso stato, siano insieme e molti, e i pochi giusti allora opprimeranno e costringeranno a servir loro da schiavi, e quando tali uomini prevalgano, questo stato giustamente si direbbe inferiore a sé e cattivo; se invece quelli fossero [c] sottomessi, vittorioso di se stesso e buono. CLIN. Quello che hai detto ora può certo, ospite, sembrar strano; comunque è impossibile non convenire che sia così.
IV. ATEN. Stammi attento. Vediamo ancora anche questo. Supponiamo che da un uomo e da una donna nascano molti fratelli. Non è strano affatto che i più di questi siano disonesti e gli altri invece giusti. CLIN. Non è strano. ATEN. Ora non sarebbe di nessuna convenienza, né a me né a voi, giungere al risultato di sapere che, prevalendo i disonesti, bisognerebbe dire la famiglia e l’intera parentela in-[d] feriore a sé e invece vittorioso di sé se questi fossero sconfitti. Noi non stiamo esaminando adesso l’uso delle parole per amor di stabilirne la proprietà e la precisione distinguendole dalla improprietà che quelle deforma, e ciò in relazione al discorso comune; noi cerchiamo ora nella formulazione delle leggi ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, secondo la vera natura loro. CLIN. E’ vero, assolutamente, quello che dici, ospite. MEG. Anche a me pare che vada bene quello che hai detto fino ad ora. ATEN. Vediamo anche questo. Possiamo ammettere che capiti un giudice a giudicare quei fratelli di cui parlavamo? CLIN. Certamente. ATEN. E diremo allora migliore quel giudice [e] che sopprimerà quanti di loro sono disonesti e ordinerà che i migliori si reggano da soli o quel giudice che darà il potere ai più valenti e, lasciati in vita i peggiori, li farà loro malgrado obbedire? Diciamo piuttosto che vi è un terzo giudice, quanto a virtù, se ci sarà uno capace di raccogliere una famiglia rotta dalla discordia e non ucciderà [628a] nessuno, metterà pace per il tempo futuro, darà leggi ad essi e potrà vegliare su di loro in modo che siano amici fra loro. CLIN. Molto migliore sarebbe questo giudice legislatore. ATEN. Eppure le leggi che egli darebbe loro avrebbero un fine contrario alla guerra. CLIN. E’ vero. ATEN. E allora che farà chi dovrà ordinare uno stato? Dovrà conformare la vita di questo guardando piuttosto alle [b] necessità della guerra esterna o a quella guerra che ogni volta sorge dentro di esso e si chiama ‘guerra civile’, e ognuno vorrebbe che questa proprio mai sorgesse nella sua patria e una volta sorta fosse cacciata al più presto? CLIN. E’ chiaro, a questa. ATEN. E potrebbe forse qualcuno preferire una quiete nata dalla rivolta mediante la distruzione di una parte e la vittoria dell’altra, piuttosto che la pace amica sorta dalla riconciliazione in modo che deb-[c]bano allora i cittadini rivolgere la mente ai nemici di fuori? CLIN. Questo è ciò che ognuno preferirebbe per il suo stato piuttosto che quello. ATEN. Quindi anche un legislatore così? CLIN. Anche il legislatore. ATEN. Non ordinerebbe dunque ogni uomo tutte le istituzioni al fine migliore? CLIN. E come no? ATEN. La cosa migliore non è la guerra né la sedizione. Avere bisogno di queste cose è deprecabile. Ottima è la pace che c’è fra gli uni e gli altri, la benevola concordia è ottima. E perciò, come è evidente, quel vincere se stesso, per lo stato, non era una delle cose migliori, ma una necessità dettata da [d] determinate condizioni. Come se un corpo ammalato e poi sottoposto alla cura purificatrice del medico fosse allora stimato da qualcuno in perfetto stato di salute e questo tale escludesse dalla sua considerazione il corpo che non ha bisogno di nessuna cura, così se un altro ragionasse analogamente per la felicità di uno stato o di un privato cittadino, non sarebbe affatto un buon politico, intento come sarebbe principalmente e solamente alla guerra esterna. Né sarà mai un acuto legislatore se non ordinerà le opere della guerra in funzione della pace, piuttosto che quelle [e] della pace in funzione della guerra.
V. CLIN. Mi pare, ospite, che in qualche modo questo tuo discorso sia stato detto bene, e sono meravigliato che [629a] nelle nostre istituzioni e in quelle spartane queste cose non siano state curate attentamente. ATEN. Può anche essere. Ma noi non dobbiamo affatto ora polemizzare duramente contro di loro, Cretesi e Spartani, noi dobbiamo proporre serenamente le domande, riconoscendo pienamente, sia a loro che a noi, il più caldo impegno in queste cose. Ora state attenti a quello ch’io vi dico: facciamo come se fosse qui davanti a noi Tirteo, quel Tirteo che è ateniese di sangue, ma è divenuto concittadino dei compatrioti di Megillo; egli più di tutti gli altri uomini forse ha avuto in cuore queste cose e diceva: "Non vorrei ri-[b] cordare, non potrei tener conto di un uomo", nemmeno se di tutti gli uomini fosse il più ricco, è Tirteo che parla, nemmeno se possedesse molti beni, e Tirteo li enumera quasi tutti qui, "ma in guerra non fosse sempre il migliore". Questi versi in qualche luogo anche tu, Clinia, li avrai sentiti; perché questo qui credo sia già sazio di loro. MEG. Ma sì. CLIN. E anche da noi sono arrivati e li portarono da Sparta. ATEN. Bene, ora possiamo interrogarlo questo poeta, in qualche modo così, tutti insieme: "Tirteo, divino [c] poeta; tu sei per noi sapiente e bravo, tu che hai voluto lodare, in modo distinto fra tutti, coloro che si distinguono in guerra - vedi che ormai io e questo e Clinia di Cnosso che è qui, tutti noi siamo in ciò tutti con te, almeno secondo le nostre intenzioni. Ma vogliamo con chiarezza sapere se stiamo o no parlando, tu e noi, delle stesse persone. Dicci allora: credi anche tu, come noi crediamo, con certezza, che ci siano due specie di guerra? O come credi?" [d] Io penso che anche qualcuno molto inferiore a Tirteo risponderebbe con verità a questa domanda, e cioè che sono due le specie della guerra: una che tutti chiamiamo ‘guerra civile’, la più dura di tutte le guerre, e lo abbiamo detto poco fa; l’altra diversa specie tutti credo la riconosceremo in quella lotta che noi facciamo contro i nemici esterni e stranieri, ed è molto meno dura della prima. CLIN. Chi non direbbe così? ATEN. "E allora tu dicci quale dei due ruppi sono questi uomini e per quale delle due specie di guerra lodandoli tu li hai tanto esaltati, mentre gli altri hai umiliato col tuo biasimo. Pare che tu parli di coloro che hanno combattuto i nemici esterni; infatti hai detto nei tuoi versi che non ti sentivi assolutamente di sop-[e] portare coloro che non osano guardare con occhi fermi "la strage insanguinata, e non amano incalzare da vicino i nemici". Così noi dopo di ciò potremmo dire: "Pare che tu dia la tua lode, Tirteo, proprio a quelli che meritano gloria nella guerra esterna contro lo straniero". [630a] Converrebbe nel dir ciò anche lui? CLIN. E perché no? ATEN. Ma noi diciamo allora che, anche se questi sono uomini di valore, migliori e di molto migliori sono quelli che nella guerra più difficile si manifestano luminosamente come i più valorosi. E non ci manca testimone un poeta, Teognide, cittadino di Megara Sicula, che dice: "Un uomo fedele vale ricchezze d’oro e d’argento, Cirno, nel giorno grave della rivolta". Questo; diciamo noi, è di molto migliore di quell’altro, in una guerra più difficile, e di tanto direi che lo [b] è, di quanto la giustizia, la saggia temperanza e l’intelligenza, tutte insieme queste virtù riunite in uno con il coraggio, sono migliori del solo coraggio preso per sé. Quando si accende la rivolta egli non potrebbe mai conservare la sua fedeltà e rimanere immune dal male senza essere partecipe della pienezza della virtù; ma fra i mercenari sono moltissimi quelli che, in quell’altra guerra di cui parla Tirteo, valorosamente resistendo e combattendo sanno voler morire, e di questi i più divengono insolenti ed ingiusti e prepotenti e quasi i più insensati di tutti gli uomini, pochissimi esclusi. Quale è la conclusione ora di questo [c] nostro discorso e che cosa esso si è proposto di dimostrare nel dire quello che ha detto? E’ ormai chiaro che è questo: ogni legislatore, chiunque esso sia, anche se sia poco il suo valore, ma più di ogni altro questo di qui che a noi procede da Zeus, dovrà sempre dare le sue leggi a nient’altro mai guardando se non alla più alta virtù, che è (dice Teognide) proprio l’unione fedele nei momenti più difficili e che si potrebbe chiamare anche la perfezione del giusto. E quella che tanto celebrò Tirteo, è virtù, bella e di opportuna lode onorata dal poeta, eppure non può es-[d] sere esattamente classificata che al quarto posto nel numero e nel valore.
VI. CLIN. Così, ospite, noi respingiamo il nostro legislatore cretese fra quelli che sono più lontani dal giusto. ATEN. No, non noi lui, mio caro, ma noi noi stessi se crediamo che Licurgo e Minosse abbiano create tutte le istituzioni di Sparta e quelle qui di Creta a nient’altro mirando più che alla guerra. CLIN. E che dovevamo dirne allora? ATEN. Dovevate dire, credo, quello che è vero e giusto dire [e] quando si parla di uno stato fatto da un dio, che cioè il dio tracciò le sue leggi e non guardò ad un solo aspetto della virtù e proprio al meno nobile; della virtù aveva come sua meta il dio l’attuazione piena ed unitaria e dovevate analizzare le leggi di quelli secondo ciascuno degli aspetti della legge e non quegli aspetti che prepongono alle loro ricerche di legge i legislatori degli uomini d’ora. Ora ciascuno prepone e ricerca quella disposizione di legge di cui gli accade d’aver bisogno, questa soltanto, e così uno si interessa dell’eredità e degli eredi, un altro delle offese ricevute e gli altri analogamente per altre innumerevoli simili cose. Noi diciamo invece che la ricerca delle leggi proprie [631a] di coloro che la sanno fare è come quella che noi ora abbiamo iniziato. E sono pienamente soddisfatto di come tu ne hai cominciato a trattare interpretandole: è giusto cominciare dalla virtù e dire che in sua funzione il legislatore ha legiferato, ma quando tu hai detto ch’egli ha operato ordinando tutte le cose ad uno solo degli aspetti di quella, e proprio al meno importante; allora tu non mi hai più dato prova di ragionare bene e il successivo mio discorso ora l’ho fatto per questo. Vuoi ora che io ti dica come desideravo che tu facessi la tua analisi? Come [b] desideravo sentirti parlare? CLIN. Non aspetto che questo. ATEN. "Ospite", dovevi dire tu, "le leggi dei Cretesi non sono senza ragione ritenute fra le migliori di tutti i Greci. Esse sono giuste e rendono felici quelli che vivono in loro. Esse sanno dare ogni bene, e i beni sono di due specie: quelli umani e quelli divini. Dai divini dipendono gli umani, [c] e se uno stato possiede quelli, che sono maggiori, anche questi, i minori, possiede, e se no, né quelli né questi. Fra i beni umani vien prima la salute e poi la bellezza e terza la forza di correre e di fare tutti gli altri movimenti del corpo, e quarto l’essere ricchi d’una ricchezza non cieca, ma di vista acuta, quando cioè si accompagni all’intelligenza. Dei beni divini invece il primo, e la guida, è l’intelligenza, e poi, secondo, la saggia e temperante condizione dell’anima, che si accompagni all’intelletto; procedente da questi fusi insieme con il coraggio, terza è la giustizia, [d] quarto il coraggio. Tutte queste cose divine sono state già ordinate e preposte ai beni mortali nella natura delle cose. Il legislatore deve far osservare quest’ordine nella stessa misura. E dopo di ciò ogni altra norma ch’egli impartirà ai suoi cittadini dovrà annunciarla in funzione di questi valori, e dire che, ovunque, i valori umani si ordinano ai divini e questi all’intelletto, che tutti li governa: su questa base egli dovrà aver cura nella sua legislazione delle nozze in cui fra loro si uniscono quei cittadini e quindi della ge-[e] nerazione e dell’educazione dei figli, dei maschi e delle femmine, quando sono giovani via via verso l’età sempre più matura fino alla vecchiaia, premiandoli mediante onori e ricompense e punendoli con giustizia. E per ognuna delle altre loro relazioni egli dovrà sorvegliarli e studiarli, nel dolore e nel piacere e nel desiderio, nelle cure di tutti i [632a] loro amori, e rimproverarli con giustizia e dar loro lode ed incitamento con lo stesso mezzo della legge. Nell’ira così come nella paura, per quanti sono i turbamenti che sconvolgono l’anima nella sfortuna, e per quante volte se ne può sfuggire nella buona ventura, per quante sono le passioni che investono gli uomini nelle malattie e nelle guerre, nella miseria ed anche nella salute, nella pace e nella ricchezza, in tutte queste circostanze bisogna insegnare e definire nell’atteggiamento di ognuno ciò che è [b] buono e ciò che non lo è. Ancora è necessario che il legislatore sorvegli i modi del comprare e dello spendere da parte dei cittadini e osservi le società e le rescissioni che tutti essi faranno fra loro volontariamente o no, e il modo secondo cui agiscono in ciascuno di questi rapporti, e dove con giustizia e dove no, e attribuirà onorevoli ricompense per chi è docile alle leggi e stabilirà punizioni ben definite per chi è indocile a loro, finché, giunto al [c] componimento di tutta la costituzione, veda anche per i morti quale debba essere la sepoltura conveniente a ciascuno e quali onori gli si debbano rendere. Visto ciò dovrà il legislatore porre custodi a tutte queste disposizioni, alcuni agenti per forza d’intelletto, altri per opinione vera, affinché sia l’intelletto a coordinare tutto ciò e a mostrarlo dipendente dalla saggia temperanza e dalla giustizia, non dalla ricchezza e dall’amor degli onori". Così, ospiti, io [d] avrei desiderato, e ancora desidero, che voi, una per una enumerandole, diceste come proprio tutte queste cose ineriscano alla legislazione che si racconta mandata da Zeus e a quella di Apollo Pitico, legislazioni che Minosse e Licurgo hanno stabilite, e come in quella struttura che hanno ottenuto, tali cose si rivelano a chi delle leggi è perito per arte approfondita o per costume acquisito e a noi altri non si fanno vedere.
VII. CLIN. E come, ospite, dobbiamo ora continuare? ATEN. Occorre, mi pare, che noi riprendiamo da principio ad esporre come abbiamo cominciato, dapprima le pratiche del coraggio, e poi se non vi spiacerà vedremo via via un [e] altro aspetto della virtù e poi ancora un altro; e il modo in cui avremo trattato la prima parte dell’indagine sul coraggio proviamo a tenerlo come un modello e gli altri aspetti della virtù torniamo a trattarli su questo schema e rendiamo questa conversazione un piacevole aiuto alla strada che dobbiamo percorrere ancora. Io vi dico che così, dopo aver visto tutti gli aspetti della virtù, giungeremo a dimostrare, se piacerà al dio, che ciò che ora abbiamo studiato, le leggi, hanno il loro proprio fine nell’attuazione, [633a] integrale della virtù. MEG. Dici bene, e prova prima di tutto ad esaminare questo lodatore di Zeus che abbiamo qui con noi. ATEN. Mi proverò, e lo farò insieme per te e per me stesso; è uno solo e comune il nostro discorso. Dunque dite: dobbiamo affermare che i "pasti in comune" e i "ginnasi" sono stati trovati dal legislatore in vista della guerra? MEG. Sì. ATEN. E dopo queste due istituzioni quale aggiunse come terza e poi quale come quarta? Così infatti bisognerà forse enumerare anche quando parleremo delle altre parti della virtù, parti o come si devono comunque chiamare, purché si indichi chiaramente ciò di cui si [b] parla. MEG. Terza fu inventata la caccia; io e qualsiasi Spartano lo potremmo dire. ATEN. E poi quarto e quinto? Se è possibile proviamo a dire anche questo. MEG. Proverò a dire anche ciò che sta al quarto posto. E’ un importante esercizio questo che avviene da noi e riguarda il sopportare il dolore dei corpi nei combattimenti dei lottatori fra loro, con le mani, e così pure quando si fanno certe scorrerie sempre a prezzo di molte ferite. E c’è ancora la ‘kryptèia’, così si chiama, che è straordinaria-[c] mente ricca di prove pesanti al fine di farci duri al dolore ed alla fatica; e ancora andare scalzi d’inverno e dormire sulla terra e provvedere a se stessi senza bisogno di schiavi, vagando di giorno e di notte per tutta la nostra campagna. E ancora abbiamo terribili esercizi di forza du-[d] rante le "gimnopedie", in cui facciamo ginnastica nudi lottando contro la sferza del sole ed altri moltissimi ancora, quanti, direi, uno non potrebbe mai finire di enumerarli ogni volta che li passi in rassegna. ATEN. Bene, ospite di Sparta, dici bene. E allora come definiremo il coraggio? Diremo che è semplice lotta soltanto alla paura e al dolore oppure anche resistenza ai desideri e ai piaceri e a quelle terribili carezze degli adulatori che rendono come cera morbida il cuore di quelli anche che amano credersi santi? MEG. Credo che sia così, che sia appunto saper combattere tutto questo. ATEN. E se ben ricordiamo tutti i discorsi di prima, lui diceva che qualche stato o individuo può cedere a se stesso: è così, vero, ospite di Cnosso? CLIN. [e] E’ così. ATEN. E allora pensate voi che noi si debba dir vile solo chi cade sotto il dolore, o anche colui che cede ai piaceri? MEG. Ma di più mi pare chi cede ai piaceri, e tutti comunque diciamo che chi è dominato dai piaceri cede a se stesso più vergognosamente di quanto non faccia [634a] chi è sconfitto dall’angoscia che è nel suo cuore. ATEN. Ora il legislatore di Zeus e quello di Apollo non hanno nelle loro leggi lasciato il coraggio come un essere monco, capace solo di rivolgersi contro la sinistra violenza, ma impotente sotto la destra carezza dei piaceri e delle adulazioni; non è vero? Non l’hanno concepito integro in relazione ad ambedue questi aspetti? CLIN. Ad ambedue, io ritengo. ATEN. Diciamo di nuovo allora quali sono nei vostri due stati le consuetudini che, facendovi sperimentare i piaceri, non sfuggendoli, così come le altre non fuggivano i dolori ma invece vi conducevano in mezzo ad essi, vi costringono e vi persuadono con onorevoli ricompense a dominarli? [b] Nelle vostre leggi dove è stato disposto nello stesso modo e allo stesso fine anche per quanto riguarda i piaceri? Dite che cosa c’è da voi che può rendere ugualmente forti nella pena e nel godimento gli stessi uomini, e vincitori di ciò che è giusto si sia vincitori e mai inferiori ai nemici che vi stanno più vicini e sono i più temibili. MEG. Ebbene, ospite, come avevo da dirvi molte nostre leggi che combattono i dolori, nello stesso modo non potrei fare facilmente altrettanto per il piacere, non avrei grandi e chiare [c] distinzioni da fare; forse mi sarebbe facile farlo per piccole cose. CLIN. Nemmeno io potrei similmente indicarvi con chiarezza qualcosa di siffatto, nella legislazione cretese. ATEN. Ospiti miei, non c’è niente di strano. Ora però, se qualcuno di noi farà qualche critica alle leggi patrie di ciascuno degli altri per amore di vedere la verità e ciò che è il meglio, tolleriamolo serenamente l’uno dagli altri e senza ostilità. CLIN. Hai parlato giustamente, ospite ateniese, e bisogna obbedire. ATEN. Credi, Clinia, a uo-[d] mini della nostra età non conviene polemizzare. CLIN. No, di certo. ATEN. Se dunque la costituzione spartana o quella cretese vengono biasimate giustamente o no, questo sarebbe proprio di un altro discorso; su ciò che dice il volgo io potrei parlare forse più di voi due. E pur se da voi le leggi sono ben fatte, una delle leggi più belle è non permettere a nessuno dei giovani di cercare quali cose in queste leggi sono buone e quali no, anzi essi devono affermare tutti [e] insieme con una sola voce e una sola bocca che tutte sono buone perché le hanno date gli dèi e, se qualcuno dice diversamente, non è loro permesso di ascoltarlo per nulla. Se invece chi è già anziano fra voi ha qualcosa da ,proporre e da dire sulle vostre leggi, deve fare questi discorsi davanti ai magistrati e ai suoi coetanei e nessuno dei giovani sia presente. CLIN. Tu dici perfettamente, [635a] ospite, e come un indovino, ormai così lontano dal nostro legislatore e all’oscuro dei suoi pensieri di allora, ora, mi pare, tu hai ben congetturato ed hai parlato in modo del tutto aderente al vero. ATEN. E allora se è così, ora godiamo dell’assenza dei giovani e anzi per la nostra vecchiaia non ci è concesso dal legislatore di parlare da soli a soli su questi argomenti, senza che nessun limite sia violato? CLIN. E’ così, e dunque tu non tralasciare nulla che sia da biasimare nelle nostre costituzioni; non è disonore riconoscere che qualche cosa è stata fatta poco bene, anzi accade che ciò sia salutare a chi accoglie i consigli con benevolenza [b] e non se ne adira.
VIII. ATEN. Bene. non farò in nessun modo critiche alle leggi prima di averle esaminate per quanto potrò attentamente: io piuttosto proporrò dei problemi. A voi soli dei Greci e dei barbari, quelli almeno di cui ci è giunta notizia, a voi soli il legislatore ha prescritto di astenervi dai piaceri più’ intensi e dalle feste, di non trarne mai godimento, ma ritenne, l’abbiamo detto poco fa, che, se qualcuno [c] fin da bambino fugge del tutto il timore e il dolore, quando lo prende poi la necessità del male e del terrore e dell’angoscia, questi non può allora che cedere di fronte a quelli esercitati a reagire, e ne è fatto schiavo. Bisognava, credo, che nello stesso modo quel legislatore pensasse anche per il piacere, confessando egli a se stesso che nella sua patria, se fin da giovani i cittadini siano rimasti inesperti dei più intensi piaceri e non esercitati a resistere loro e così a non lasciarsi costringere a nulla di turpe, essi dovranno subire [d] per la dolce seduzione del piacere la stessa sorte di chi soggiace alla paura; e che poi in altro modo e più vergognosamente essi saranno schiavi di quelli che sanno sopportare quei piaceri e li hanno fatti cosa propria, uomini qualche volta assolutamente disonesti, e così avranno la loro anima da una parte libera, ma da un’altra serva e non saranno mai degni d’essere chiamati, senza riserva, liberi cittadini e coraggiosi. Guardate adesso se in quello che ho detto vi pare che ci sia qualche cosa detta bene. CLIN. [e] Quando parlavi, non so ancora come, mi pare di sì. Ma su tali argomenti stiamo attenti che il sùbito e facile credere non sia piuttosto dei giovani e degli sciocchi. ATEN. Ebbene, se ora proseguendo prenderemo in esame quello che ci propone l’ordine già esposto, o Clinia e tu ospite spartano - voi sapete che tocca di parlare della saggia temperanza dopo il coraggio - credete che troveremo qualche cosa di notevole nelle vostre due costituzioni rispetto a quelle altre dei popoli che a caso siano ordinati, così come [636a] abbiamo notato or ora riguardo alla guerra? MEG. Non è certo facile, direi, ma mi pare che i "pasti in comune" e i "ginnasi" siano stati bene escogitati in funzione di ambedue i primi aspetti della virtù. ATEN. Par difficile, ospiti, che tutto ciò che riguarda le costituzioni, ancora quand’è discorso così come sul piano dei fatti, riesca in qualche modo ad avere una validità indiscussa. C’è il pericolo, come per i corpi, di non poter prescrivere a uno di questi una pratica senza che questa stessa risulti da una parte dannosa, dall’altra utile ai nostri corpi. Perché anche [b] questi "ginnasi" e i "pasti in comune" sono ora di giovamento in moltissimi casi allo stato ma nelle sedizioni sono una difficoltà, lo mostrano i figli dei Milesi e dei Beoti e dei Turii. E ancora pare che quest’uso abbia corrotta una antica legge di natura che dovrebbe governare sempre i piaceri sessuali non solo degli uomini ma anche delle bestie. E di questi mali si potrebbero accusare primi [c] i vostri stati e tutti gli altri poi che fanno uso larghissimo dei "ginnasi "; e sia che di questo argomento si pensi per gioco o seriamente, bisogna riconoscere che tale piacere sembra esser stato attribuito dalla natura al genere femminile e a quello dei maschi in quanto fra loro si uniscono per la generazione, ma l’unione dei maschi coi maschi, o delle femmine con le femmine è contro natura, atto temerario creato fin da principio da disordinato piacere. [d] Tutti accusiamo nei Cretesi gli inventori del mito di Ganimede; essi, poiché si riteneva che le leggi venissero loro da Zeus, crearono in più, si dice, questo mito su Zeus, per cogliere anche questo piacere tenendo dietro a quel dio. E lasciamo andare la favola; l’analisi di chi studia le leggi verte quasi totalmente sul piacere e sul dolore, negli stati e nel costume d’ognuno; questi come due fonti [e] scorrono liberamente per natura, e chi attinge a loro nel luogo nel tempo e nella misura giusta è felice, lo stato, l’individuo e ogni essere vivente, chi invece lo fa senza discernimento e fuori di ogni opportunità, vivrà infelice.
IX. MEG. Hai detto bene, ospite, queste cose, d’altra parte ci par d’essere rimasti senza parola su ciò che ora bisogna rispondere; ma anche mi pare che il legislatore spartano abbia prescritto giustamente dì fuggire il piacere. Le leggi di Cnosso, se gli farà piacere, potrà difenderle lui. [637a] Ma quanto alle norme spartane sui piaceri io ti dico che mi sembrano le migliori fra quelle di tutti gli uomini. Perché ciò che è principale occasione per cui gli uomini cadono nei piaceri più rovinosi e si fanno protervi e perdono la ragione, tutto ciò la legge ha del tutto cacciato fuori dalla nostra terra, e per i campi e dentro le città che stanno sotto la protezione degli Spartiati tu non vedrai mai simposi né tutte le altre cose che conseguono a questi e sollevano tutti i piaceri quanto più possibile violenti. Non c’è nessuno da noi che incontri un passante tripudiante e ubria-[b] co e non gli imponga tosto il castigo più duro, e nemmeno se avesse il pretesto delle feste Dionisie vorrebbe liberarlo, come invece ebbi una volta a vedere da voi, nei carri in processione; e a Taranto, nella nostra colonia, ho potuto assistere allo spettacolo di tutta la città ubriaca per le feste di Dioniso. Nulla di simile da noi accade. ATEN. Eppure, ospite spartano, tutte queste cose, quando vi siano certi poteri di tollerarle sono lodevoli, dove quelli si ab-[c] bandonano sono rovinosa mollezza. Uno dei nostri che volesse difenderci potrebbe riprenderti rapidamente e mostrarvi la licenza delle vostre donne Ma mi pare che, in tutte queste cose, una sola risposta sciolga tutte quelle accuse e in Taranto e da noi e da voi, e che non sono cattive mostrerà, ma buone; chiunque risponde a uno straniero che si meravigli notando una insolita diversità di costumi gli dirà: "Non meravigliarti, ospite, noi per queste cose abbiamo questa legge, e forse voi per le stesse ne avete [d] un’altra e diversa". E noi ora, amici miei, non dobbiamo parlare degli altri uomini, ma delle deficienze e del valore dei soli legislatori. Diciamo ancora qualche cosa sul bere in generale; non è un uso poco importante, e decidere su di esso non è di un legislatore da poco. Non parlo del bere il vino per sé, o del non bere, parlo proprio della ubriachezza, se se ne deve usare come sono soliti gli Sciti e i Persiani e ancora i Cartaginesi e i Celti e gli Iberi e i Traci, tutte genti guerriere, o al contrario se si debba [e] fare come fate voi; voi infatti, l’hai detto ora, ve ne astenete del tutto, gli Sciti e i Traci bevono vino del tutto puro, uomini e donne, e se lo versano sui vestiti e credono così di usare di una pratica bella e felice. I Persiani poi si immergono anche in tutte le altre raffinatezze che voi rifiutate, ma sanno più di quelli conservare una disciplina. MEG. O mio carissimo, ma noi, appena prendiamo [638a] in mano le armi, tutti questi noi li mettiamo in fuga. ATEN. O mio carissimo, non dire così; molte fughe e inseguimenti non preveduti ci sono stati e ci saranno ancora e, dicendo come te, non porremo mai un limite preciso, ma contestabile, per decidere la bontà o meno di un costume, se proponiamo la vittoria o la sconfitta in battaglia. Accade infatti che gli stati più grandi travolgono in guerra [b] i più piccoli e li fanno schiavi, come i Siracusani fecero dei Locresi, proprio questi che paiono essere i meglio governati fra quelli di quel paese; e così gli Ateniesi coi Cei, e ancora potremmo trovare infiniti simili esempi. Ma cerchiamo piuttosto di parlare di ciascun uso preso per sé e di persuaderci su di esso per forza d’argomenti, lasciamo le sconfitte e le vittorie fuori del nostro discorso e diciamo invece che questo è buono e quello non lo è. Ma prima ascoltatemi un po’: vi voglio dire come bisogna cercarlo questo che è buono e quello che non lo è in queste stesse [c] cose. MEG. Come dici?
X. ATEN. Tutti quelli che assumono nel discorso una pratica e sùbito, appena enunciata, si propongono di biasimarla o approvarla, mi pare che siano del tutto fuori di strada; e anzi fanno lo stesso che farebbe qualcuno che sente apprezzare il frumento come un buon alimento e subito improvvisamente si mette a disprezzare e non si informa né sui suoi effetti né sul suo rendimento, né come, per chi, con chi vien prodotto e utilizzato, né ancora in quali condizioni è e sono quelli che se ne cibano. E proprio così mi pare che ora noi stiamo facendo nei nostri discorsi: [d] abbiamo solo sentito sull’ubriachezza questo enunciarla così, e subito chi si è precipitato a lodarla, chi a condannarla e tutti con argomenti del tutto inadatti. Noi, gli uni e gli altri, lodiamo con le testimonianze di altri lodatori che non siamo noi, e, di più, mentre gli uni, fra noi, ritengono d’aver ragione se ne portano di più, dall’altra parte gli altri pensano lo stesso di sé per il solo fatto che si vedono ora vincere in battaglia quelli che si astengono dal bere. Ma per noi anche questa non è una prova indiscuti-[e] bile. Quindi se procederemo in tal modo anche per ciascuno degli altri aspetti della legislazione, non mi pare che faremo cosa accettabile, a me almeno. Voglio perciò parlare di questa stessa cosa, dell’ubriachezza, con un altro metodo, che a me pare il giusto, provando, se lo potrò, a far vedere quale è la via giusta che in tutto questo genere di ricerche si deve tenere; perché innumerevoli popoli disputando sull’uso di simili cose troverebbero ragioni di contesa con i vostri due stati. MEG. Se ci è dato d’aver un metodo di indagine corretto su queste cose, non c’è [639a] da esitare ad ascoltarti. ATEN. Mettiamoci ad osservare da questo punto che io vi mostro ora. Guardate se qualcuno tessesse le lodi dell’allevamento della capra e della capra stessa come di un buon possesso, e un altro, avendo visto le capre al pascolo senza pastore recar danno nei campi coltivati, le volesse prive di ogni valore e disprezzasse così ogni animale solo a vederlo senza pastore o con un pastore cattivo, dobbiamo noi ritenere che questo biasimo suo sia in qualche modo giustificato? MEG. Dicci tu come. ATEN. E dobbiamo pensare così di aver un buon pilota nelle nostre navi solamente se sia un uomo provetto nell’arte di navigare, sia che soffra il mal di mare, sia che non lo soffra? O come dovremmo dire? MEG. [b] Ma in nessun modo lo è, se ha oltre all’arte anche quell’affezione che tu dici. ATEN. E un capitano di soldati? Il fatto che conosca l’arte militare è sufficiente perché sappia stare al comando, anche se vile e nei pericoli boccheggi ubriaco di paura? MEG. Come potrebbe comandare così? ATEN. E se peggio, non conosca l’arte militare e sia vile? MEG. Ma tu mi parli di una persona che non ha assolutamente nessun valore e non condottiero di uomini, ma potrebbe esserlo appena di donne vili. ATEN. E che diremo [c] di chi loda o disprezza una comunità qualsiasi a cui la natura ha destinato d’essere guidata da un capo, ed è, con osso cosa vantaggiosa, e non l’abbia mai vista bene organizzata e coordinata con un capo, ma sempre messa insieme senza guida o affidata a dirigenti cattivi? Crediamo che la lode e il rimprovero di questi osservatori di siffatte comunità abbiano qualche valore? MEG. E come potremmo crederlo se non hanno mai visto né mai sperimentato nes-[d] suna di tali comunità bene organizzata? ATEN. Attenti: fra le molte possibili comunità possiamo contare, proprio come una di tali riunioni, anche quella dei convitati e dei simposii? MEG. Possiamo, certamente. ATEN. C’è ora qualcuno che abbia mai visto prima d’ora un simposio ben ordinato? A voi due è facile rispondere di no, mai assolutamente - perché queste cose non sono in uso da voi, anzi sono proibite - io invece ci sono capitato in mezzo, a molti e in molti luoghi, e poi li ho interrogati tutti, se così si può dire, e devo confessarvi che nessuno ne vidi [e] e di nessuno sentii parlare come fosse quasi del tutto ben riuscito, ma se mai solo per qualche aspetto limitato in qualche luogo; i più erano, per così dire, tutti viziati. CLIN. Che vuoi dire, ospite? Chiarisci un po’ di più; noi, e ne parlasti, per l’inesperienza di ciò, nemmeno capitan-[640a] doci in mezzo sapremmo rapidamente forse riconoscere il buono e il cattivo che in tali cose avviene. ATEN. E’ verosimile. Prova a intendere dalle mie parole. Tu comprendi che in ogni compagnia, in ogni comunità, per qualsiasi specie di attività sorga, è giusto che sempre ci sia un capo di ciascuna. CLIN. Come no? ATEN. E abbiamo appena detto che il capo dei combattenti deve essere coraggioso. CLIN. Come no? ATEN. Perché chi è coraggioso si lascerà turbare dalla paura meno dei vili. CLIN. [b] E’ così anche questo. ATEN. E allora se ci fosse possibile trovare il mezzo di mettere a capo di un esercito uno stratego che non ha timore affatto di nulla e che da nulla si lascia turbare, non faremmo questo in ogni modo? CLIN. Assolutamente. ATEN. Ora noi non parliamo d’un capo d’eserciti che dovrà dirigere gruppi d’uomini negli scontri ch’essi sosterranno in guerra fra loro, nemici contro nemici, ma di un benevolo capo d’amici che in pace si uniscono ad amici. CLIN. E’ vero. ATEN. Non [c] si dà che una simile adunanza possa realizzarsi senza confusione se anche sia molto il vino bevuto. Non è vero? CLIN. E come potrebbe? lo credo tutto il contrario. ATEN. Dunque anche questi hanno bisogno, prima di tutto, di un capo? CLIN. Certo, come nessun’altra cosa. ATEN. Non dovrebbe un capo di questo genere essere ricercato estraneo alle intemperanze, se mai è possibile trovarlo? CLIN. E come no? ATEN. E poi, sembra, deve rendersi conto di quello che deve fare nella riunione; infatti egli sarà sempre fra quelli il custode dell’amicizia che li unisce [d] insieme e dovrà curare che proprio in quella riunione ne cresca ancora l’intensità. CLIN. Verissimo. ATEN. Dunque bisogna preporre a quei bevitori un uomo sobrio e saggio e non il contrario? Infatti un ubriacone capo dei bevitori o un giovane senza saggezza se non farà qualche cosa di grave avrà molta fortuna. CLIN. Moltissima. ATEN. E allora se qualcuno trovasse da ridire una volta che negli stati si svolgono così i convegni di amici, quanto più [e] è possibile correttamente, e incolpasse il fatto in sé, forse li biasimerebbe ancora con ragione, ma chi vedesse un costume mal praticato, al massimo grado possibile, e ne desse la massima condanna, è evidente anzitutto che non conosce che quel fatto riesce così perché c’è errore, e poi ancora che ogni cosa apparirà così cattiva se si attua priva di un padrone, di un capo che non sia stolto. Non pensi anche tu che il pilota e ogni responsabile di qualsiasi [641a] opera d’uomo, se è ubriaco manda tutto in rovina, nave, carro, esercito e ogni altra cosa che sia affidata al suo governo?
XI. CLIN. Quello che hai detto, ospite, è tutto vero. Ma spiegaci ancora questo: qual bene mai, se potesse venir ad esser corretta questa consuetudine dei simposi, a noi ne verrebbe? Per esempio, come dicevamo or ora, se un esercito ha un buon comando ne consegue per i soldati che lo seguono la vittoria in guerra, che non è un piccolo bene, e delle altre cose si potrebbe dire analogamente; ma da un convito [b] ben diretto che cosa dì interessante potrebbe derivare sia ai singoli cittadini, sia a tutto lo stato? ATEN. Ma non vedi? Dal fatto che uno solo dei fanciulli o uno dei loro cori sia diretto ed ammaestrato a modo, quale gran e vantaggio potremmo dire che segua per lo stato? O non è vero che interrogati così su ciò dovremmo rispondere che per un fanciullo o un coro di fanciulli sì, allo stato ne verrebbe una piccolissima utilità, ma se chiedi invece complessivamente quale bene ne venga allo stato dall’educazione di tutti coloro che siano stati educati, non è difficile rispondere [c] che rettamente educati diventeranno uomini giusti e divenuti tali agiranno in tutte le altre cose bene e vinceranno anche i loro nemici in battaglia. L’educazione porta con sé anche la vittoria, ma la vittoria qualche volta l’ineducazione e l’inciviltà, e molti infatti dalle guerre vittoriose resi più superbi e violenti per questa stessa loro tracotanza furono colmati di innumerevoli altri mali. Mai l’educazione è stata una vittoria di Cadmo, ma vittorie di questo tipo molte ne hanno avute e ne avranno gli uomini. CLIN. Ci pare, amico, che tu dia a questo genere di conversazioni di bevitori, purché fatte bene, ben dirette, ci pare che tu dia [d] loro una grande parte nell’educazione. ATEN. Certo. CLIN. Ci potresti dimostrare dopo di ciò la verità di quanto ora affermi? ATEN. Sostenere, ospite, che invero la cosa sia così, quando molti su ciò hanno da contestare, è degno di un dio; ma, se bisogna parlare come pare ora a me, non facciamo nessuna difficoltà poiché abbiamo intrapreso a tenere ora questi discorsi sulle leggi e sulla costituzione. CLIN. Ma è proprio questo che noi dobbiamo [e] cercar di sapere, la tua opinione sui problemi di cui ora discutiamo. ATEN. Bisogna allora che tutti facciamo così, ci protendiamo, voi a capire, ed io a provar di chiarire in qualche modo questi argomenti. Prima sentite da me questo: tutti i Greci giudicano il nostro stato come amante anche dei bei discorsi e loquace; Sparta e Creta, invece, l’una come sobria nel linguaggio, e l’altra, Creta, esercitata [642a] più che alle molte parole, alla molta riflessione. Bisogna quindi che io stia attento a non generare in voi l’opinione di parlar molto di una cosa troppo piccola, come l’ubriachezza, piccola cosa, e su di essa non vi distenda un troppo lungo discorso. Gli è che la vera e retta attuazione di questo fatto, secondo la sua natura, non potrebbe ricever mai trattazione chiara e sufficiente senza aver definito quella della "musica" e da parte sua la "musica" staccata dal complesso dell’educazione. Tutto ciò ha bisogno di non poche parole. Vedete voi che cosa dobbiamo fare, se per ora dovessimo lasciare questo Argomento e invece passare a parlare di un altro aspetto delle leggi. MEG. Ospite [b] d’Atene, tu non sai forse che la mia famiglia è ospite pubblica del vostro stato? E forse accade così anche che a tutti quelli che sono fanciulli, appena abbiano sentito d’essere pubblici ospiti di un qualche stato, subito per questo fin da giovani penetra in ciascuno di noi, ospiti pubblici, una certa benevolenza per lo stato ospite, tale che pensiamo questo come una seconda patria dopo la nostra; ed anche a me ora si è ingenerato lo stesso sentimento. Perché quando appena sentivo i miei coetanei spar-[c] tani biasimare o lodare in qualcosa gli Ateniesi e dicevano per esempio a me del vostro stato: "O Megillo ci ha fatto qualche cosa di, bene o di male", udendo questo io sempre mi battevo per voi e per queste cose contro i detrattori del vostro stato, e per voi provavo dentro di me un incondizionato affetto e a me ora è quanto mai cara la vostra voce nel vostro parlare. Quello poi che dicono molti, che, quanti degli Ateniesi sono giusti, lo sono in modo eminentissimo, mi pare più che mai vero; solo essi infatti, senza costrizione quasi per nobiltà di natura e per grazia divino, [d] vivono da giusti, realmente, senza finzione. Quindi, per me almeno, puoi dire quanto a te piace dire con piena confidenza. CLIN. E anche per me, ospite, tu puoi parlare liberamente per quanto vuoi, ma prima senti ed accogli quello che ti voglio dire. Forse tu hai sentito qui parlare di Epimenide e che era uomo di ingegno divino (era nostro parente), e venne da voi dieci anni prima della guerra persiana secondo quanto gli aveva prescritto l’oracolo del dio [e] e fece certi sacrifici che gli aveva ordinato il dio; allora gli Ateniesi erano in timore della turba persiana ed egli disse che per dieci anni non sarebbero venuti e poi, quando lo fossero, sarebbero stati cacciati senza aver compiuto nessuna delle loro speranze, più male avendo ricevuto che dato. Allora i nostri avi si legarono a voi come ospiti e da allora [643a] vi è affetto per voi in me e nella mia famiglia. ATEN. Voi dunque, sembra, siete pronti ad ascoltare ed io vorrei essere pronto a dire ma poter esserlo non è facile. Comunque bisogna provare. Prima di tutto, in relazione al nostro discorso, definiamo che cos’è ‘educazione’ e quale è la sua potenza. E di qui, diciamo, deve continuare il discorso cominciato ora da noi, finché arriverà a compiersi presso il dio. CLIN. Facciamo così, se ti piace. ATEN. Quando [b] io vi dirò che cosa bisogna dire che sia l’educazione, vedete se vi parrà giusta la definizione. CLIN. Puoi parlare ora.
XII. ATEN. E allora parlo e dico che chi si propone di diventare capace di qualsiasi cosa, fin da bambino deve mettersene in esercizio, nei suoi giochi, nel suo studio, sempre attento in ogni cosa che si riferisce al suo proposito. Per esempio, se un piccolo dovrà diventare un bravo contadino o muratore, il futuro muratore bisogna che giochi a costruire qualcuna delle piccole case che fanno i bam-[c] bini, e in modo analogo il contadino, e bisogna che chi si interessa all’educazione di ciascuno dei due fornisca loro piccoli strumenti da lavoro, fatti ad imitazione di quelli veri, e che fin da allora i fanciulli imparino tutte quelle nozioni che è necessario apprendere dall’infanzia, per esempio il carpentiere a misurare e a reggere il filo a piombo e il soldato a cavalcare giocando o a fare qualche altra cosa così: bisogna che l’educatore si sforzi di volgere coi giochi i desideri e i piaceri dei fanciulli là ove, giunti, troveranno il compimento della loro perfezione di adulti. La testa dell’educazione è, noi diciamo, un allevamento appropriato che [d] il più possibile indirizzi l’anima del fanciullo che gioca all’amore di ciò in base a cui dovrà, diventato uomo, essere perfettamente in possesso di quella che è la virtù connessa alla sua professione. Vedete allora, come vi ho già proposto, se fin qui non vi spiace quello che ho detto. CLIN. Ci piace. ATEN. Ma stiamo attenti che neppure quello che diciamo essere l’educazione diventi equivoco. E infatti ora, quando noi biasimiamo o lodiamo le maniere di allevare ciascuno degli uomini, diciamo che questo di noi è educato, quello no, e parliamo, qualche volta, di uomini trop-[e] po bene addestrati al commercio, allo scambio e a tutte le altre simili attività. Mi par bene di non dover riferirmi nel mio discorso di ora a coloro che pensano, come sembra, l’educazione inerente a queste ultime cose; intendo invece l’educazione dei fanciulli alla virtù, che accende nel fanciullo il desiderio e l’amore di riuscire perfetto cittadino e di saper comandare con giustizia e obbedire alla giustizia. E una volta che questa è stata separata, questo nostro discorso, come a me sembra, vorrebbe ora dire [644a] ‘educazione’ questa sola educazione, e l’altra, quella che mira al denaro o alla forza fisica o a qualche altra abilità senza intelletto e giustizia, è cosa volgare e servile e indegna assolutamente di chiamarsi ‘educazione’. Ma noi non dobbiamo disputare per nulla con quelli sul nome; piuttosto dovremo porre come base quanto abbiamo fra noi convenuto adesso: coloro che sono educati rettamente, quasi certamente diventeranno anche uomini retti e così [b] non bisogna in nulla trascurare come cosa vile l’educazione, perché è la prima delle doti che hanno i migliori, e se qualche volta si perde e devia ed è possibile raddrizzarla ancora, bisogna ognuno ciò faccia sempre con ogni sforzo, in tutta la vita. CLIN. Sta bene, e siamo d’accordo con ciò che dici. ATEN. Prima ancora abbiamo convenuto nel dire giusti e retti gli uomini capaci di comandare a se stessi, disonesti gli altri. CLIN. Sì, esattamente. ATEN. Pertanto [c] ridiciamo più chiaramente quello che intendevamo dire. E accettate quello che dirò, se mi riesce di chiarirvelo in qualche modo con una immagine.
XIII. CLIN. Parlaci, noi ti ascoltiamo. ATEN. Ciascuno di noi è uno; possiamo affermarlo? CLIN. Sì. ATEN. Ed ha in sé due consiglieri contrari e istintivi che noi chiamiamo ‘piacere’ e ‘dolore’. CLIN. E’ vero anche questo. ATEN. Oltre a questi due, dopo di loro, ci sono le opinioni delle cose future che hanno in comune il nome d’‘attesa’, e secondo il nome proprio aspettare di soffrire è ‘paura’, aspettare di godere è ‘confidenza’: su tutte queste si [d] esercita il ragionamento e decide che cosa di esse è migliore o peggiore; quest’atto divenuto poi comune decisione di uno stato è stato denominato ‘legge’. CLIN. Se pure a stento, ti seguo; continua ora come se io ti seguissi ancora. MEG. Così è anche per me. ATEN. Di queste cose allora pensiamo così. Pensiamo che ciascuno di noi viventi sia una macchina meravigliosa fatta dalle mani di un dio, o per un [e] suo svago o per una sua cura precisa; questo non lo sappiamo. Sappiamo invece che tutte le affezioni enumerate qui sopra stanno dentro di noi come fossero nervi od una specie di fili e ci trascinano e, poiché sono contrarie fra loro, ci inducono ad azioni contrarie; e qui sta la differenza fra la virtù e il vizio. Il discorso suggerisce a ciascuno di seguire necessariamente un solo genere di questi stimoli, seguirlo sempre senza mai abbandonarlo, e di resistere invece a tutti [645a] gli altri richiami: questa è la sacra guida d’oro del ragionamento e si chiama ‘legge comune dello stato’, mentre le altre sono dure e di ferro, ma la prima è dolce e delicata perché è d’oro; le altre sono simili ad ogni altra sorta di cose. Bisogna collaborare sempre con la guida preziosa della legge. E poiché il ragionamento, pur essendo cosa bella, è mite e non violento, il suo insegnamento ha bisogno di essere servito da collaboratori perché dentro di noi gli stimoli d’oro vincano gli altri. E così per noi macchine meravi-[b] gliose vale ancora il mito della virtù, e in qualche modo capiremo di più così quello che vuol dire veramente essere superiore o inferiore a se stesso. E quanto allo stato e al cittadino, questo, se su questi stimoli ha conosciuto il discorso vero, deve vivere coerentemente ad esso, e anche lo stato, cui sia stato rivelato da qualche essere divino o l’abbia ricevuto da chi l’ha conosciuto, una volta concretato nella legislazione, dovrà così stabilire le relazioni con se stesso e con gli altri stati. Così anche la virtù ed il vizio saranno più chiaramente distinti ed articolati per noi e, [c] fattosi ciò più evidente, anche l’educazione e gli altri aspetti del costume risulteranno forse più chiari e pure il valore dei simposi. E su ciò potrebbe esser ritenuto che è stato fatto un discorso troppo lungo ed esagerato per una cosa di poca importanza, ma forse apparirà poi che ciò non era proprio indegno di tante parole. CLIN. Dici bene. Ed allora cerchiamo di arrivare a trattare fino in fondo ciò che è degno senza discussione della nostra conversazione.
[d] XIV. ATEN. Parla allora. Io chiedo che cosa faremo di questa macchina che è l’uomo se gli inietteremo l’ebbrezza del vino. CLIN. A che miri con questa domanda? ATEN. A nulla di particolare, ma solo sapere in generale quale esso risulterà partecipando del vino. Proverò a dir più chiaramente quello che voglio. Io chiedo questo: il piacere ed il dolore, l’ira e l’amore li rende più violenti, li rende più intensi il bere vino? CLIN. Ma certo, di molto. [e] ATEN. E le sensazioni, e le memorie e le opinioni e i pensieri? Anche questi più forti? O invece tutto questo è perduto per chi è ubriaco di vino? CLIN. Sì, del tutto lo abbandonano queste cose. ATEN. Allora lo stato dell’anima sua diventa identico a quello di quando era un piccolo bambino? CLIN. E’ così. ATEN. E non sarà per [646a] nulla allora padrone di sé? CLIN. Ma è certo, per nulla. ATEN. Un disgraziato quindi, diciamo, siffatto uomo, e al massimo grado. CLIN. E di molto. ATEN. Non solo il vecchio, come sembra, ridiventa bambino, ma anche l’ubriaco. CLIN. Hai detto benissimo, ospite. ATEN. E credi che ci sia un argomento che cercherà di persuaderci che questa pratica dev’essere sperimentata, invece di sfuggire il più possibile da ciò sempre con ogni sforzo? CLIN. Sembra di sì, perché tu lo dici. Poco fa tu lo stavi per dire. ATEN. [b] Ricordi bene, anche ora io sono pronto: e infatti avete detto di volermi ascoltare volentieri. CLIN. E come non ti ascolteremo volentieri? Se non altro perché udremo cose meravigliose e stranissime, se avrai coraggio di dire che un uomo deve buttarsi di sua buona voglia nella più completa bassezza. ATEN. Dici dell’anima, è vero? CLIN. Sì. ATEN. Ebbene? Ci meraviglieremo, amico mio, se [c] uno volontariamente si procurasse male e magrezza e bruttezza e impotenza nel corpo? CLIN. E come no? ATEN. Ebbene? Crediamo forse che quelli che se ne vanno dove sono i medici a prendere le medicine non sappiano che subito dopo e per molti giorni avranno un fisico che dovendo restar a loro sempre così, non tollererebbero affatto di vivere? O non è noto che chi va e si allena alla fatica nei ginnasi in un primo tempo diventa debole? CLIN. Tutto questo lo sappiamo. ATEN. E anche che ci vanno volentieri per l’utile che ne avranno dopo? CLIN. Anche [d] questo, perfettamente. ATEN. Non si deve allora pensare anche degli altri usi così? CLIN. Niente da opporre. ATEN. Anche sulle conversazioni dei bevitori allora bisogna pensare così, se è possibile pensare così correttamente a tale proposito. CLIN. Come no? ATEN. Se dunque ci apparirà che il vino è capace di darci un beneficio non minore della cura fisica, già in principio l’azione del vino supererà il valore dell’esercizio fisico, perché questo è doloroso [e] e quella no. CLIN. Va bene, ma io sarei veramente stupito se potessimo trovare qualche cosa d’uguale nel vino. ATEN. E’ proprio questo che ora, come sembra, dobbiamo provare ad enunciare ormai. E dimmi tu: possiamo riconoscere che ci sono due specie di paura e che sembrano opposte e contrarie fra loro? CLIN. Quali? ATEN. Queste: temiamo le cose cattive se ne prevediamo la venuta. CLIN. Sì. ATEN. Ma temiamo spesso anche le opinioni, ritenendo d’essere stimati cattivi se facciamo o [647a] diciamo qualche cosa che non è bene; questa specie di paura noi, e tutti credo, chiamiamo ‘vergogna’. CLIN. Hai ragione. ATEN. Sono queste appunto le due specie di paura cui accennavo; e una di queste agisce in reazione ai dolori e alle altre cause di spavento, ed anche ai piaceri, ai più numerosi e più intensi piaceri. CLIN. Giustissimo. ATEN. Non deve dunque anche il legislatore e chiunque abbia un qualche valore tenere in massima considerazione questa paura, e chiamarla ‘pudore’, e invece ‘impudenza’ la teme-[b] rità che le è contraria, che avrà giudicata un funestissimo male per tutti, pubblicamente e privatamente? CLIN. E’ giusto. ATEN. Questo timore dunque per noi è custode anche degli altri molti e grandi beni e non v’è nulla che in confronto ad esso con tanta forza per noi realizzi la vittoria in guerra e la salvezza. Sono due i fattori della vittoria. Coraggio di fronte ai nemici e paura di fronte agli amici, paura della brutta vergogna. CLIN. E’ proprio così. ATEN. Ciascuno di noi dunque deve farsi intrepido e in-[c] sieme pauroso. Abbiamo detto, distinguendo, perché nell’un caso e nell’altro. CLIN. Detto perfettamente. ATEN. Ora quando noi vogliamo rendere ciascun uomo intrepido da molte paure, lo facciamo conducendolo all’esperienza delle paure secondo una norma stabilita. CLIN. E’ chiaro. ATEN. E quando invece vorremo rendere uno timoroso, secondo giustizia? Non dovremo forse renderlo capace di vincere la lotta contro i suoi piaceri facendogli affrontare l’esercizio dell’impudenza? O non è vero forse che deve egli misurarsi con la sua viltà e vincerla e diven-[d] tare così perfetto nel coraggio e chi non ha conosciuto e provato ad esercitarsi in queste battaglie non è virtuoso, chiunque esso sia, nemmeno la metà di quello che è? Sarà forse compiutamente saggio chi non avrà combattuto e vinto col pensiero e coll’opera e coll’arte, e giocando e lavorando, i molti piaceri e desideri che eccitano all’impudenza e all’ingiustizia, ma sarà rimasto intatto da tutte queste esperienze? CLIN. Non credo che questo sarebbe verosimile.
[e] XV. ATEN. Ebbene, che ne diresti se un dio avesse dato agli uomini il filtro della paura e quanto più uno ne bevesse tanto più si sentisse immiserito, sorso per sorso, e tremasse di tutto ciò che è presente e di tutto quello che [648a] gli deve avvenire, e anche l’uomo più coraggioso finisse per temere ogni cosa, ma subito dopo aver dormito, dopo essersene liberato, ritornasse sempre quello di prima? CLIN. Qual è la bevanda che potremmo dire esser così e trovarsi fra gli uomini? ATEN. Nessuna. Ma se da qualche parte fosse venuta non sarebbe stata utile al legislatore per insegnare il coraggio? Gli potremmo proprio dire, a tal proposito, per esempio questo: "Ascolta, legislatore, sia che tu legiferi per i Cretesi o per un altro popolo, qualsiasi popolo, come prima cosa accetteresti tu d’essere in grado [b] d’effettuare una prova dei cittadini, per vedere quali siano forti e quali vili?". CLIN. Ognuno, è chiaro, direbbe di Sì. ATEN. "E operando con sicurezza e senza prove grandi e pericolose. Non credi? O faresti invece il contrario?". CLIN. Su questo ognuno sarebbe d’accordo, con la sicurezza. ATEN. Allora potresti usare questa bevanda per indurli a quelle paure e confutarli mentre ne sono così affetti, in modo da costringere a divenire intre-[c] pido l’oggetto della tua educazione, con l’incitarlo e l’ammonirlo e onorandolo, coprendo d’infamia invece chi non ti obbedirà nell’essere quale tu, in ogni cosa, stabilirai? In tal modo potrai dimettere incensurato l’uomo bene esercitato al coraggio, e applicherai una pena a chi lo fa male. O non vorrai affatto servirtene senza aver nulla da criticare nella bevanda?" CLIN. E come, ospite, non ne farebbe uso? ATEN. Questo, amico mio, sarebbe un esercizio di straordinaria facilità in confronto a quelli di adesso, [d] e varrebbe per i singoli e per i pochi e per più uomini, quanti si voglia. Se poi uno si esercitasse così alla paura da solo, lontano da tutti, adducendo come motivo la vergogna degli altri, ritenendo di non dover esser visto prima d’aver imparato a ben comportarsi, e a se stesso procurasse quella sola bevanda invece che mille altre difficoltà, farebbe bene, ma ugualmente farebbe bene chi, avendo fede in se stesso per la preparazione fornita dalla natura sua e dall’esercizio, non si vergognasse di alienarsi fra molti convitati e di dimostrarsi capace di superare e di dominare la potenza della inevitabile trasformazione che gli viene dalla forza della [e] bevanda e di non cedere, per la sua virtù, all’indecenza., vacillando in nessuna delle cose importanti, e di non alterarsi, e si fermasse astenendosene poi prima dell’ultimo sorso, temendo di perdersi come tutti si perderebbero sconfitti dalla bevanda. CLIN. Sì, sarebbe saggio, ospite, anche un uomo siffatto agendo così. ATEN. Diciamo ancora così, [649a] al nostro legislatore: "Suvvia legislatore, tu sai, direi, che questo farmaco della paura nessun dio l’ha dato mai a noi uomini, nessun uomo se l’è mai fabbricato; io non parlo di ciò che fanno i maghi. Possiamo invece dire che ci sia un filtro della temerità, di un coraggio eccessivo e sconveniente, in relazione a cose per le quali non dovrebbe darsi, o non è vero?" CLIN. Quel legislatore direbbe di sì, che c’è, ed è il vino. ATEN. Forse non ha il vino anche proprietà contrarie a quelle enunciate poco fa? Per esempio in principio non rende l’uomo che beve subitamente più alle-[b] gro di prima e, più ne prende, di un più grande numero di speranze si colma e di un senso di potenza? E finalmente egli non spazia in una totale libertà di parola e di volontà, come fosse un saggio, libertà da ogni paura, e dice senza timore tutto ciò che ha da dire, fa tutto ciò che ha da fare? Ognuno, credo io, sarebbe su ciò d’accordo con noi. CLIN. Senza dubbio.
XVI. ATEN. Allora ricordiamo questo. Prima abbiamo detto che nella nostra anima dobbiamo coltivare due cose, [c] da una parte di avere il più grande coraggio, dall’altra, all’opposto, la più grande paura. CLIN. E questo dicevi appartenere al pudore, ci pare. ATEN. Vi ricordate bene. Ma poiché il coraggio e l’intrepidezza si debbono acquistare con l’esercizio della paura, vediamo se si debba coltivare il contrario nel contrario. CLIN. E’ verosimile. ATEN. Ci sono affezioni che rendono naturalmente gli uomini eccezionalmente temerari e violenti; bisognerebbe esercitarsi in queste situazioni a liberarsi dalla impudenza e [d] dalla violenza e ad essere paurosi sempre di osare di dire, subire o fare qualsiasi cosa non bella. CLIN. Sembra, giusto. ATEN. Queste affezioni, tutte quelle in cui ci troviamo nella condizione di cui si è detto, sono l’ira, il desiderio amoroso, l’arroganza, l’ignoranza, l’amor del guadagno, la viltà e ancora la ricchezza, la bellezza, la forza e tutto ciò che ci ubriaca di godimento facendoci cieca la mente. Ebbene, possiamo noi anzitutto per provare a poco prezzo e in modo innocuo l’indole di ciascuno in queste situazioni, ed esercitarla poi, possiamo noi proporre una esperienza di piacere che sia più adatta della prova del [e] vino fatta per gioco, se comunque avvenga con precauzione? Vediamo: vuoi dirmi se è più pericoloso trattare un’anima colma di cattiveria e selvaggia, capace di generare infinite malvagità, e sperimentarla facendo gli af-[650a] fari con chi ce l’ha, arrischiando il pericolo di perderli, o avvicinare invece quest’uomo nella processione di Dioniso? Oppure per sondare l’anima di uno che cede al desiderio sessuale vorremmo studiarne l’indole mandando a lui le figlie o i figli o la moglie, e mettere in pericolo così le cose più care? E portando mille altri di questi esempi non si finirebbe mai di dire quanto sia migliore cosa in altro modo analizzare le persone quando si divertono senza [b] pagare con troppo duro prezzo. Ed è anche certo che proprio per questo aspetto delle cose che trattiamo noi pensiamo che nessuno, né i Cretesi né altri, nessuno contesterà che questa come prova reciproca sia conveniente e che sia di minor prezzo più sicura e più rapida delle altre. CLIN. E’ vero. ATEN. E’ dunque fra le cose più utili il conoscere la natura e le condizioni delle anime a quell’arte che si deve curare di questi problemi. Ciò appartiene, diciamo, come credo, alla politica, non è vero? CLIN. Alla politica.
II
[652a] I. ATEN. Dopo quanto si è detto bisogna vedere, sembra, a proposito di queste cose, se questo solo bene hanno i simposii, e cioè il fare esperienza della natura di ciascuno di noi, o se c’è invece un altro grande vantaggio, molto importante e degno di molta attenzione nell’uso corretto delle riunioni di bevitori. Che diciamo dunque? Diciamo che c’è. Le mie stesse parole paiono volerlo lire. Ma per qual via e come si ottiene, ascoltiamo facendo attenzione perché [b] non siano commessi errori da noi a causa del discorso stesso. CLIN. Di’ allora. ATEN. Io Voglio che noi an-[653a] cora ci ricordiamo che cosa diciamo esser per noi la retta educazione. Credo di poter congetturare ora, infatti, che la sua salvezza è proprio nella pratica di cui stiamo parlando, purché essa avvenga correttamente. CLIN. E’ grave quello che dici. ATEN. Non dico altro che questo: i bambini hanno come forme prime della sensibilità infantile piacere e dolore e questi sono ciò nel cui ambito sorgono nell’animo loro la virtù ed il vizio. L’intelligenza e le opinioni vere e stabili è fortunato chi le possiede sulla soglia della vecchiaia. L’uomo poi è maturo in quanto è possessore di tutti questi beni e di quelli che sono contenuti in loro. Io chiamo ‘educazione’ quel primo sorgere [b] di virtù nei fanciulli. Il piacere e l’amore e il dolore e l’avversione quando ineriscono rettamente all’anima di chi ancora non sa coglierli col discorso, così che armonizzeranno poi al discorso di chi a ragionare avrà imparato, in relazione all’essere stati correttamente assuefatti, derivanti dai convenienti costumi, e tutta insieme questa piena armonia è virtù. Ora, qualora tu distingua col discorso in questo fatto complessivo, quello che è il primo giusto orientamento del piacere e del dolore, tale che si abbia avversione per ciò che bisogna odiare, subito dal primo al-[c] l’ultimo giorno di vita, ed amore per ciò che bisogna amare e chiamando ciò ‘educazione’, tu diresti bene, come intendo io. CLIN. E infatti a noi, ospite, pare che tu abbia detto bene sull’educazione tanto prima quanto ora. ATEN. E allora anche questo va bene. Ma poiché queste sono forme di educazione al retto orientamento del piacere e del dolore, vengono meno in gran parte agli uomini e si corrompono troppe volte nella vita, e gli dèi pietosi del genere [d] umano nato a soffrire concessero una tregua e la fissarono nella successione di feste dovute alla divinità, e compagni di festa diedero le Muse e Apollo Musegeta e Dioniso perché gli uomini ne fossero di nuovo guidati alla rettitudine e la loro educazione durante il divertimento fosse corretta per virtù divina. Bisogna dunque vedere se è un discorso vero, secondo la natura delle cose, quello che ora cantiamo su questo argomento o se non lo è. Esso dice che ogni giovane animale, per così dire, non può star fermo col corpo e in riposo con la voce, ma sempre tende a [e] muoversi ed a gridare, e alcuni saltano e rimbalzano come se prendessero piacere nella danza e nel gioco, altri urlano in tutti i toni. Gli altri animali diversi dall’uomo non sono sensibili all’ordine ed al disordine di questi moti, cioè al ritmo e all’armonia, così si chiamano, ma a noi, quegli dèi che dicemmo esserci stati donati compagni di danza, [654a] ci furono anche donatori della piacevole sensibilità del ritmico e dell’armonico: e così essi sollecitano i nostri movimenti e guidano i nostri cori legandoci l’un l’altro con la danza e coi canti, e li hanno detti "cori" per il nome "gioia" che vi è interiormente connesso.
II. ATEN. Cominciamo con l’accettare tutto questo? Poniamo anche noi che l’educazione nasca dalle Muse e da Apollo, o no? CLIN. Sì. ATEN. E allora l’ineducato, dovrà essere per noi quello che non conosce l’arte della [b] danza corale, l’uomo educato in modo sufficiente quello che la conosce e la pratica. CLIN. Certamente. ATEN. La danza corale è l’unione di danza e di canto. CLIN. Necessariamente ATEN. Così chi è bene educato sarà capace di cantare bene e anche di danzare bene. CLIN. Pare di Sì. ATEN. Vediamo che cosa vuol dire quello che ora è stato detto. CLIN. Che cosa? ATEN. Noi diciamo ‘canta bene’ e ‘danza bene’. Dobbiamo aggiungere ‘se inoltre [c] canta cose belle e danza belle figure’, o no CLIN. Aggiungiamolo pure. ATEN. E allora che diremo di uno che ritiene belle le cose belle e brutte le brutte e nell’usarle le distingue così? Sarà secondo noi meglio educato alla danza corale ed alla musica questo o chi potendo sempre e bene eseguire il comando di quello che ha conosciuto per bello negli atteggiamenti del corpo e nelle modulazioni della voce, non si compiace del bello, non rigetta il non bello? O chi non sia capace per nulla di dirigere il corpo con arte e modulare la voce e nemmeno di figurarselo nel pensiero ma [d] diriga almeno i suoi sentimenti di piacere e di dispiacere prediligendo quanto è bello e sfuggendo infastidito da quanto non lo è? CLIN. Molto grande è la diversità che dici, ospite, esserci nell’educazione di tutti costoro. ATEN. Se dunque noi tre avremo la nozione del bello nel canto e nella danza conosceremo anche esattamente chi è educato e chi è ineducato, se invece ne saremo privi non potremmo nemmeno riconoscere se e dove sia una salvaguardia dell’edu-[e] cazione. Non è vero? CLIN. Sta bene così. ATEN. Quindi ora tocca a noi quasi fossimo cagne sulle tracce della preda, tocca investigare queste cose e scoprire quali delle figure sono belle e quali melodie e così quali canzoni e quali danze, ma se tutto questo ci sfuggisse e ci venisse meno, allora tutto vano sarebbe il nostro prossimo discorso sulla retta educazione, barbara o greca. CLIN. Sì, vano. ATEN. Benissimo. Quale bisogna dire che sia la bella figura del corpo o la melodia bella? Per esempio, la figura e le parole di un uomo forte sottoposto alla fatica saranno forse [655a] simili a quelle di un vile nelle stesse fatiche e per uguale misura di esse? CLIN. Come potrebbe essere se neanche nel colore del viso si assomiglierebbero? ATEN. Hai ragione, amico; però nella "musica" ci sono figure e melodie perché la "musica" è fatta di ritmo e di armonia, per cui dire di una "musica" che è ben cadenzata o armoniosa è parlare con proprietà; dire, con una immagine, ben colorita una melodia o una figura non è possibile come vorrebbero invece i maestri dei "cori". La figura e la melodia relative al coraggio e alla viltà dell’uomo ci sono invece, [b] e quelle che esprimono coraggio sono belle, quelle che esprimono viltà sono brutte; è giusto definirle così. Ora, per non dilungarci troppo su ciò, sia stabilito semplicemente che tutte le figure e le melodie che esprimono virtù del corpo e dell’anima, sia quella direttamente presente, sia indirettamente nelle riproduzioni, sono tutte belle; quelle che esprimono il vizio sono brutte. CLIN. Tu ci fai una valida proposta e noi dobbiamo rispondere ora che queste cose sono così anche per noi. ATEN. E devo dirvi questo ancora. Sapete se tutti ci divertiamo ugualmente di tutti [c] gli spettacoli corali o se invece c’è grande diversità nei nostri gusti? CLIN. Ce n’è grandissima. ATEN. Quale diciamo essere dunque la natura di questo nostro errore? Forse, per tutti noi, non sono belle le stesse cose, oppure lo sono, ma a noi non sembrano essere le stesse cose? Perché uno di noi non dirà mai che le rappresentazioni corali del vizio sono più belle di quelle della virtù, né che si compiace degli atteggiamenti della depravazione, mentre gli [d] altri preferiscono le espressioni opposte. Benché poi i più dicano che la correttezza della "musica" sta nella sua forza che ci fa godere nell’anima; ma ciò è intollerabile a dirsi e del tutto empio. Questa piuttosto pare sia la causa del nostro errore.
III. CLIN. Quale? ATEN. Questa: poiché le rappresentazioni corali sono imitazioni di modi dell’esistenza che si fanno per ogni genere di azioni e di accadimenti e di costumi e ciascuna avviene per via di imitazione, coloro ai quali le cose dette o cantate, rappresentate comunque, [e] riescono convenienti per natura o per abitudine o per l’una e l’altra cosa insieme, necessariamente si compiacciono di tutto ciò e lo lodano e lo chiamano bello, ma non possono lodarlo né goderne e debbono dire che è brutto quelli cui lo spettacolo è contro natura, sconveniente, insolito. Quelli poi che hanno buona la natura della loro indole, ma non le abitudini acquisite, o buone le abitudini e non la natura riposta, danno lodi contrarie al loro piacere: [656a] dicono infatti ciascuna di queste cose piacevole ma cattiva, e di fronte agli altri che ritengano saggi si vergognano di danzare queste figure, si vergognano di cantare questi argomenti, come se facendo così dichiarassero seriamente di Apprezzarli, ma poi se ne compiacciono segretamente. CLIN. E’ proprio così. ATEN. Ma non reca forse danno, a chi gode delle figure e delle melodie del male, il suo godimento, e invece vantaggio agli altri che ottengono i loro piaceri in direzione opposta? CLIN. E’ verosimile. ATEN. [b] E’ verosimile o è anche necessario che accada la stessa cosa di quando uno si unisce ai perversi costumi dei malvagi e non abbia odio per quelli, abbia piacere di accoglierli in sé, e solo per scherzo li rimproveri accorgendosi come in sogno della sua depravazione? E’ fatale che chi gode si assimili, allora, a quel genere di cose, fra i due, di cui gode, anche se poi ha pudore di lodarle. Quale bene o quale male più grande di questi possiamo dire che tocchi a noi, e irresistibile e necessario? CLIN. Non credo nessun altro. [c] ATEN. Così dove le leggi sono ben formulate per il presente o dove lo saranno anche in futuro, sull’educazione nelle arti delle Muse e sul gioco e il divertimento, pensiamo che sarà lasciata libertà ai poeti d’insegnare ogni cosa che piaccia allo stesso poeta nella poesia per il ritmo e la melodia o il verso, nei "cori", ai giovani ed ai figli di quei cittadini dalle buone leggi, indifferenti alla virtù o alla depra-[d] vazione nel loro operare? CLIN. Ma sarebbe irragionevole, non vi pare? ATEN. Eppure io vi dico che ciò ora può essere fatto, per così dire, in ogni stato all’infuori dell’Egitto. CLIN. Come dici allora che ciò è regolato in Egitto? ATEN. E’ meraviglioso anche ad udirsi. Risulta che fin da tempi antichissimi fu conosciuto da loro il discorso che noi ora stiamo dicendo, che cioè i giovani nello stato debbono familiarizzarsi con le belle figure e le belle melodie. Essi le definirono, mostrarono nei templi quali sono e come sono. Oltre a queste non era lecito né a pittori né ad altri che [e] rappresentassero figure e facessero altre simili opere d’arte, compierne di diverse e nemmeno pensarne altre da quelle della patria tradizione, e nemmeno ora è permesso, per le arti figurative e per tutto il complesso dell’arte musicale. Là tu potrai scoprire, osservando, pitture e sculture antiche di diecimila anni, non per modo di dire, ma real-[657a] mente diecimila anni, e sono né migliori né peggiori di quelle che ora sono state elaborate, prodotte con la stessa arte. CLIN. E’ un fatto meraviglioso quello che dici. ATEN. E di un incomparabile valore per ciò che riguarda le leggi e lo stato, sebbene potresti scoprire colà altre cose fatte poco bene. Comunque per la "musica" è vero questo ed è degno di riflessione, che cioè è stato possibile dare con stabilità e sicurezza, in relazione a queste cose, delle leggi, avendo fiducia, in relazione a melodie che per natura offrono verità e rettitudine. Questo è compito che potrebbe assolvere un dio o un uomo divino; così ivi si dice che le melodie che sono state conservate per tutto questo tempo [b] sono derivate da Iside. E così, come dicevo, se si potesse cogliere in qualsiasi modo la giusta norma di queste cose, è necessario introdurle nella legge coraggiosamente e nell’ordinamento; infatti la ricerca di godere e di commuoversi propria di chi cerca di usare forme "musicali" sempre nuove non ha, direi, grande potenza di distruggere la forma consacrata della danza corale rimproverandone la vecchiaia. In Egitto in nessun modo pare che divenisse capace di corromperla: fu il contrario invece. CLIN. [c] Dalle parole dette ora da te risulta evidente che questo è possibile.
IV. ATEN. Noi diciamo allora con coraggio che il giusto impiego della musica e della festa corale è questo che io espongo? Noi quando pensiamo di essere in felice condizione godiamo, e d’altra parte quando godiamo pensiamo di essere in felice condizione. Non è così? CLIN. E’ così. ATEN. Inoltre in questa situazione di godimento per noi [d] non è possibile stare in riposo. CLIN. E’ vero. ATEN. Quanti di noi sono giovani non sono sempre pronti a danzare in coro? E per noi anziani, riteniamo più conveniente star a vedere i giovani, lieti del loro gioco e della loro festa poiché la nostra agilità si perde ormai. E desiderandola e quasi cercandola, non amiamo noi proporre premi e gare a chi ha forza di risvegliarci il più possibile al ricordo della nostra giovinezza? CLIN. E’ vero, al massimo grado. ATEN. Ora non dobbiamo anche pensare che sia proprio [e] irreparabilmente stolto il discorso che nel nostro tempo dicono i molti, riguardo ai concorrenti alle gare della festa, secondo il quale bisogna ritenere più sapiente e giudicare vincitore chi ci offre il divertimento maggiore o il maggior godimento? Bisogna proprio, poiché in tali circostanze ci siamo concessi di divertirci, più degli altri apprezzare colui che di più fa godere la più grande parte di pubblico [658a] e, come dicevo ora, lasciargli portar via la corona del vincitore? Vedete dunque se ciò che si è detto è giusto e se si farebbe bene se avvenisse così. CLIN. Forse. ATEN. Aspettiamo, amico mio, un momento prima di giudicare questa materia e dividendola nelle sue parti esaminiamola in questo modo: che cosa accadrebbe se un tale così semplicemente bandisse una gara e non definisse nulla di lei, né se si tratta di ginnastica o di "musica" o di equitazione, ma invece, radunata tutta la gente dello stato, stabilisse i premi e proponesse a chiunque lo voglia di venire a concorrere ponendo, come tema soltanto di recare il maggior [b] piacere al pubblico: chi di più sappia far divertire gli spettatori, senza che gli sia stata prefissata alcuna condizione, per saper fare questo solo al massimo grado sia vincitore e sia giudicato il più gradito dei concorrenti; che cosa pensiamo accadrebbe dopo questa proposta? CLIN. Che vuoi dire? ATEN. Accadrebbe, è verosimile, che uno declamerebbe una rapsodia, come Omero, un altro un carme accompagnandosi con la cetra, uno la tragedia ed un altro la commedia, e non sarebbe strano che qual-[c] cuno pretendesse di vincere mostrando le marionette. E noi sapremmo dire chi riuscirebbe giustamente vincitore di questi siffatti concorrenti e di altri certo convenuti in numero enorme? CLIN. Chiedi l’impossibile. Chi di noi potrebbe risponderti, quasi li conoscessimo prima di averli ascoltati e prima che di ognuno degli atleti noi stessi abbiamo avuto diretta esperienza? ATEN. Ebbene? Volete che risponda io per voi questa risposta impossibile? CLIN. Rispondi tu allora. ATEN. Se fossero giudici i bambini più piccoli giudicherebbero primo senza dubbio quello [d] che mostra le marionette. Non sarebbe così? CLIN. E come no? ATEN. Ma se lo fossero i fanciulli più grandi vincerebbe quello delle commedie; la tragedia sarebbe scelta dalle donne istruite, dai giovani e anche forse da tutta la plebe. CLIN. Probabilmente. ATEN. Invece noi più vecchi forse diremmo di gran lunga vincitore quel rapsodo che ci declamasse con arte l’Iliade o l’Odissea o qualche passo di Esiodo, dopo averlo ascoltato con indicibile piacere. Quale sarà stato allora il vero vincitore? Questo dobbiamo dire ora. Non è vero? CLIN. Sì. ATEN. E’ chiaro che sia per me che per voi è necessario riconoscere giusta-[e] mente vincitori quelli che sono stati giudicati tali dai nostri coetanei. Perché il nostro costume sembra di gran lunga il migliore rispetto al costume di tutti quelli che ora vivono in ogni stato e dovunque. CLIN. Naturalmente.
V. ATEN. E senza dubbio anch’io sono d’accordo, entro certi limiti, con gli altri, con la gente, che bisogna giudicare la "musica" dal diletto che dona, ma non da quello che dona a chiunque. Io direi che l’arte più bella è quella che piace ai migliori, a quelli che sono ben educati, e che è superiore a tutte quella che piace a quell’uomo che è [659a] superiore per virtù e educazione. Per questo diciamo che i giudici d’arte hanno bisogno della virtù, perché essi devono essere partecipi anche dell’intelligenza di ogni altra cosa e del coraggio. Il vero giudice non deve giudicare apprendendo il giudizio dal teatro, commosso dal tumulto del popolo, ingannato dalla sua ignoranza, non deve, se consapevole di queste cose di cui giudica, per debolezza o viltà mentire con quella stessa bocca con cui invocò gli [b] dèi prima di iniziare l’opera sua e manifestare il verdetto con leggerezza. Non come scolaro, ma piuttosto come maestro degli spettatori siede il giudice; così è giusto che sia. Egli siede per opporsi a coloro che offrono al pubblico un divertimento non conveniente né onesto. Così era lecito fare per le leggi antiche dei Greci. Non come è ora in vigore in Sicilia e in Italia, dove la legge si piega alla massa del pubblico e lascia alle mani alzate di decidere il vincitore; e ha rovinato gli stessi poeti - essi compongono ora per [c] il basso piacere di tali giudici e gli spettatori così fanno loro da educatori - e ha corrotto il piacere dello spettatore. Bisogna invece che gli spettatori affinino il gusto assistendo allo spettacolo di costumi sempre migliori dei loro: ora invece accade ad essi, nell’agir così come si è detto, tutto il contrario. Che cosa vuol significare per noi tutto ciò che ora è stato detto? Vedete se è questo. CLIN. Che cosa? ATEN. Mi pare che la nostra conversazione torni per la terza o quarta volta allo stesso punto, quasi girando su se stessa. [d] L’educazione è l’attrazione che avvia i fanciulli al discorso vero espresso nella legge e garantito ai cittadini nella sua vera verità da coloro che sono più saggi e più vecchi nell’esperienza. Affinché dunque l’anima del giovane si abitui a non godere e a non soffrire per cose di cui godere e soffrire è contrario alla legge, e a coloro che obbediscono alla legge, ma sia lieta e triste seguendo ciò di cui il vecchio è lieto o triste, per questo sono venute ad esserci ora quelle che noi chiamiamo "odi" (e realmente esse, diciamo, sono [e] parole incantatrici per le anime) e sono state con cura adottate a guidare queste anime all’armonia di cui parliamo; e, poiché i giovani non sanno reggere un impegno, sono condotte come giochi e canti e chiamate così, per la stessa ragione per cui agli ammalati ed ai deboli nel corpo quelli che hanno cura di loro cercano di dare il nutrimento utile con cibi e bevande dolci, ma in cose di sgradevole [660a] sapore l’alimento dannoso, affinché essi desiderino il primo e per abitudine avversino l’altro, come è giusto. A queste ragioni il buon legislatore persuaderà anche l’artista, ma non persuaso lo costringerà, affinché, quando voglia creare, esprima correttamente con un linguaggio nobile e lodevole nel ritmo della danza le figure, nell’armonia del canto le melodie che sono proprie dei saggi, dei coraggiosi degli uomini di virtù integrale. CLIN. E allora, per Zeus, [b] ospite, ti pare che adesso negli altri stati si faccia così? Per quanto ne so io, le cose di cui dici all’infuori che da noi e dagli Spartani non so che si facciano; altrove sempre s’incalzano innovazioni nella danza e nel resto dell’arte "musicale", e non le muove una legge ma certi disordinati piaceri e sono lontanissime dal mantenersi uguali e dal seguire gli stessi princìpi, almeno come tu riferisci e spieghi [c] dell’Egitto, anzi mai nulla conservano immutato. ATEN. Benissimo, Clinia. Qualora io ti sia parso dire che accadono ora le cose di cui parli non mi meraviglierei di aver provocato e di aver ricevuto la tua obiezione, se appunto mi sono espresso oscuramente su ciò che penso. Io dissi invece quello che voglio avvenga per l’arte "musicale", cose di questo genere dissi, forse in modo che a te parve che io parlassi di cose presenti. Biasimare i mali quasi disperati di salvezza e le cose avanzate di molto nell’errore non è mai gradito, qualche volta è necessario. Ma dato che tu condividi [d] questi miei pensieri, dimmi allora: affermi che presso di voi e presso questi qui ciò si realizza di più che presso gli altri Greci? CLIN. Senza dubbio. ATEN. E se anche presso tutti gli altri fosse così, diremmo queste cose essere situazione migliore di quella che si dà nel modo in cui presentemente è la condizione generale? CLIN. Molto migliore, mi pare, se fosse dovunque come è da questi e da noi, e anche come tu hai detto ora che deve essere.
VI. ATEN. Ed ora cerchiamo di venire ad una conclusione comune. E’ proprio questo nella vostra patria ciò che [e] si dice di tutto il complesso dell’educazione e così anche della "musica"? Voi costringete i poeti a dire che il cittadino onesto è felice perché saggio e giusto, ed è beato come un dio, sia egli grande e forte o piccolo e debole, sia egli ricco o povero; ma chi invece ha più ricchezza di Ciniro e Mida ed è disonesto, rimane un miserabile e la sua vita è dolorosa. E inoltre "non vorrei ricordare, non potrei tener conto di quell’uomo" (dice a voi il poeta, se lo dice a buon diritto) che non faccia, che non acquisti secondo [661a] giustizia tutto ciò che si dice bello fare e acquisire, e se egli è tale "ama incalzare da vicino i nemici", ma se è disonesto invece non oserà "guardare con occhio fermo la strage insanguinata", né in corsa supererà "Borea vento di Tracia" e nient’altro egli possiederà delle cose che sono ritenute beni. Quello che il volgo dice bene, non è correttamente detto bene. Si dice che la cosa migliore sia la salute e poi la bellezza e poi la ricchezza, e mille altre cose [b] si dicono beni; vista acuta, udito buono e ogni altra facoltà dei sensi ben sviluppata, e poi far come un tiranno tutto quello che piace e termine ultimo d’ogni beatitudine aver tutto questo e divenir così, con questo, immortale immediatamente. Ma voi ed io diciamo invece che tutti questi sono acquisti meravigliosi per gli uomini giusti e santi, sono tutti al massimo grado cattivi per i cattivi, cominciando dalla salute, e poi vedere e udire e aver sensazioni ed anche la [c] vita stessa è il peggiore dei mali a chi per tutto il tempo, immortale, possiede tutti i cosiddetti beni ma è privo della giustizia e delle altre virtù; è tutto un male questo che diminuisce nella sua gravità se quanto più breve possibile è l’esistenza di un tale uomo. Penso che voi persuaderete e costringerete i vostri poeti a dir come dico io e poi ad educare i vostri figli conformando ritmi e armonie a questi principi. Non è così? Riflettete. Io vi dico chiaramente [d] che quelli che sono detti mali sono beni agli ingiusti, ma per i giusti sono mali; i beni per i giusti invece sono beni realmente, per gli altri sono cose cattive. Quanto a ciò che vi chiedevo, siete d’accordo con me o no?
VII. CLIN. In qualche cosa sì mi pare, in qualche altra, no in nessun modo. ATEN. Ma dunque uno che sia sano e ricco e potente come un tiranno senza limite di tempo [e] e inoltre concedendolo a voi aggiungo anche una forza straordinaria e coraggio e immortalità, e non sia affetto da nessun altro dei cosiddetti mali - e solo abbia in sé ingiustizia e violenza, credete che non riuscirò a persuadervi che uno che vive così non risulti affatto felice, ma invece chiaramente un miserabile? CLIN. E’ verissimo quello che dici, non ci persuadi. ATEN. Bene, che devo dirvi di più? Ma proprio non vi pare che chi è coraggioso e forte, bello [662a] e ricco, e riesce a far quello che vuole, tutta la vita, se è ingiusto e violento non potrà non condurre una vita vergognosa? O forse mi concedereste che vivrà in questa vergogna? CLIN. Senza riserve, ATEN. Ebbene? Mi concedereste anche che viva come uno sventurato? CLIN. Questa volta non più come prima. ATEN. E amaro e nocivo a se stesso? CLIN. Come si può ammettere anche [b] questo? ATEN. Come? Solo se un dio, amici, un dio solo, come sembra, vorrà che noi ci mettiamo d’accordo poiché ora dissentiamo tanto fra di noi, pare. A me pare tanto necessario quello che ho detto, quanto nemmeno il fatto, Clinia, che Creta sia evidentemente un’isola; e se fossi legislatore mi sforzerei di costringere a parlare in questo modo i poeti e tutti gli abitanti del mio stato, e vorrei quasi porre la pena capitale per chi dicesse nella mia [c] patria che ci sono uomini malvagi sì, ma che vivono contenti, e distinguesse affermando che una cosa è guadagnare e fare il proprio interesse, altra è esser più giusto. E rispetto alle cose che sono ora in bocca dei Cretesi e degli Spartani, come sapete bene, e certo di tutti gli altri uomini, io persuaderei i miei cittadini a parlare diversamente su molti argomenti. Ascoltate, amici carissimi, in nome di Zeus e di Apollo. Se interrogassimo così quegli stessi dèi che vi [d] furono legislatori: "La vita più giusta è la vita più dolce, o ci sono due modi di vivere, piacevolissimo l’uno giustissimo l’altro?" e rispondessero due, domanderemmo loro forse ancora, supponendo di fare una domanda lecita: "Quali bisogna dire che sono i più felici, quelli della vita più giusta o quelli della vita più piacevole?". E se rispondessero che sono questi la loro risposta sarebbe sbagliata. Ma io non voglio che agli dèi si attribuisca questo, lo si [e] faccia piuttosto ai nostri padri o ai nostri legislatori, e il padre e il legislatore sia interrogato come prima interrogai io, e supponiamo che risponda ancora che è il più felice chi vive più piacevolmente. Allora, dopo di ciò, io direi: "Padre, tu non volevi che io fossi felice, al massimo grado nella mia vita? Tu non ti stancavi di esortarmi sempre a vivere nel modo più giusto possibile". E così il padre o legislatore supposto apparirebbe dire delle assurdità e incapace di non essere in aperta contraddizione con se stesso; se poi si dirà che la vita più giusta è la più felice, certamente ognuno che senta chiederà, io credo, quale mai è il bene e [663a] la bellezza più grande del suo piacere che la legge loda presente nella vita del giusto. Che cosa ci può essere infatti di buono per un giusto, separato dal piacere? Suvvia! Dovremo dire che la gloria e la lode che proviene dagli dèi e dagli uomini è cosa buona e bella, ma penosa, e il contrario la fama cattiva? Non lo diremo mai, caro legislatore. Ma è forse penoso non fare male a nessuno né subirne da alcuno anche se è cosa bella o buona, e fa contenti il contrario, anche se cosa vergognosa e cattiva? CLIN. E come potrebbe essere?
VIII. ATEN. Dunque il discorso che dimostra inseparabile [b] il piacere da ciò ch’è giusto e buono e bello, persuade se non altro a scegliere di. vivere la vita santa e giusta. Così per un legislatore il discorso che affermi che non stanno così queste cose è riprovevolissimo e contrario, al massimo grado, alla sua opera. Nessuno infatti di sua volontà vorrà mai piegarsi a fare ciò cui non consegue più piacere che dolore. Guardare da lontano fa venire le vertigini e confonde le opinioni, direi, a tutti, anche e soprattutto ai fanciulli, a meno che il legislatore non stabilisca l’opposto delle [c] suddette opinioni e tolga l’oscurità è persuada in qualche modo con abitudini, lodi e ragionamenti che il giusto e l’ingiusto sono come due figure disegnate in prospettiva e l’ingiusto, poiché messo di fronte ed opposto al giusto, appare piacevole a chi lo guarda se è egli stesso ingiusto e cattivo, mentre gli appare spiacevolissimo il giusto, ma a chi guarda ed è dalla parte della giustizia tutto appare a ciascuno diverso e contrario, in relazione all’una e all’altra cosa. CLIN. E’ vero. ATEN. Ma in relazione alla verità del giudizio quale diciamo che delle due sentenze ha più autorità? Quella del peggiore o quella del migliore? CLIN. E’ neces-[d] sario in qualche modo che l’abbia il giudizio del migliore. ATEN. E’ necessario di conseguenza che la vita ingiusta non solo sia più vergognosa e miserabile, ma anche più penosa veramente di quella dell’uomo onesto e santo. CLIN. Può darsi sia proprio vero, amici seguendo il discorso fatto adesso. ATEN. Il legislatore poi che abbia un minimo di capacità, se anche ciò non fosse così come ora ha provato essere il nostro discorso, e in qualche cosa quanto mai si arrischiasse a mentire ai giovani per il bene, credi possibile che potrebbe mentire una menzogna più utile di [e] questa e più valida a far compiere a tutti tutte le cose giuste, non con la forza ma spontaneamente? CLIN. Quanto a questo, ospite, la verità è una cosa bella e durevole, ma pare che non sia facile persuader gli uomini a crederla. ATEN. Sia; ma non è stato facile far credere il mito dell’uomo di Sidone, pur cosa incredibile, e mille altri? CLIN. Quali? ATEN. Ma quello degli opliti nati dai denti seminati. E’ un grande esempio di persuasione per un legislatore su tutto ciò di cui si tenti di convincere le anime dei [664a] giovani. E così nient’altro egli deve cercar di scoprire se non di che cosa persuadendolo potrebbe rendere un grandissimo servizio allo stato, e deve a questo proposito ritrovare con ogni mezzo come ottenere che tutta una siffatta società com’è lo stato stesso, sempre, su queste cose, per tutta la sua vita, esprima una stessa sola opinione, nei canti, nei racconti, nei discorsi, quanto più è possibile. Ma se vi pare che non sia proprio così, non abbiate alcun riguardo ad esprimere le vostre obiezioni su quello che ho detto. CLIN. Ma non credo che nessuno, di noi due [b] potrebbe mai sollevare contestazioni a queste cose. ATEN. A questo punto io dovrei dir così: affermo che tutti i tre ordini di cori debbono cantare alle anime ancora giovani e docili dei bambini parole incantatrici, e devono esprimere tutte ‘le altre cose belle di cui abbiamo detto enumerandole e che diremo ancora così, ma ne sia questo il principio: dicendo che gli dèi hanno posto identità fra la vita più piacevole e la vita più onesta, diremo una cosa [c] verissima e insieme avremo certamente maggior forza di persuasione, verso chi si deve persuadere, che se in qualche altro modo enunciassimo nel nostro discorso. CLIN. Bisogna convenire con te. ATEN. Anzitutto dunque sarebbe giustissimo che il coro delle Muse fatto di fanciulli entrasse primo nel centro della scena per cantare con tutta serietà a tutta la cittadinanza quello che si è detto; poi, secondo, il coro dove saranno i cittadini fino ai trent’anni, invocando Peana a testimone della verità di quelle cose che essi diranno e pregandolo di divenire propizio affinché i [d] giovani siano persuasi. E poi deve cantare anche un terzo coro fatto da coloro che sono fra i trenta e i sessant’anni. I cittadini più vecchi di questi - che non possono più cantare - siano lasciati come favoleggiatori e si attengano nel loro discorso ad un uguale costume di vita e parlino ispirandosi ad una voce divina. CLIN. Vuoi dirci, ospite, come sono questi cori del terzo ordine? Non comprendiamo bene ciò che intendi dire di loro. ATEN. Eppure, è certo, sono quelli, direi, per cui sono stati fatti quasi tutti i discorsi precedenti. CLIN. Non abbiamo an-[e] cora inteso, cerca di essere più chiaro.
IX. ATEN. Abbiamo detto, se ben ricordiamo, ancora in principio dei nostri discorsi, che la natura di tutti i giovani animali è ardente e perciò non sa stare in riposo, né nelle membra né nella voce, ma sempre disordinatamente essi si muovono saltando e gridando e il senso dell’ordine in questi due atti nessuno degli altri animali lo raggiunge, ma è posseduto. solo dalla natura dell’uomo; il nome del movimento [665a] ordinato del corpo è ‘ritmo’, e quello della voce, quando il tono acuto si equilibra al grave, si chiama ‘armonia’. L’una e l’altra cosa messe insieme ‘danza corale’. Dicevamo ancora che dèi pietosi di noi ci hanno donato compagni e guide nel coro Apollo e le Muse, e, se ricordiamo, terzo abbiamo detto anche Dioniso. CLIN. Come non dovremmo ricordare? ATEN. Del coro di Apollo e di quello delle [b] Muse abbiamo già parlato, è necessario trattare così del terzo ed ultimo coro, di quello di Dioniso. CLIN. Come? Parla! Riuscirebbe del tutto assurdo ad uno che ascoltasse, sentir parlare, così, improvvisamente, di un coro di vecchi votato a Dioniso, se infatti un terzo coro sarà composto in suo onore da quelli che hanno più di trenta e cinquant’anni, fino ai sessanta. ATEN. E’ verissimo. E c’è bisogno di parlare di queste cose, io penso, e di dire come ci sia una ragione che questo coro sia fatto così. CLIN. Senza dubbio. ATEN. Ma su quello che è stato detto prima siamo d’accordo, [c] vero? CLIN. E cioè? ATEN. Che ogni uomo e ogni fanciullo, libero o servo, maschio o femmina, e tutto cioè lo stato, a tutto lo stato, non deve lasciare mai il costume di cantare come per un incantesimo a se stesso quanto abbiamo esposto, sempre venendo queste cose mutate in qualche modo, offrendo esse anche una larga varietà di aspetti cosicché non venga mai meno ai cantori un insaziabile desiderio e il piacere del canto. CLIN. Come potremmo non essere d’accordo che tali cose debbono rea-[d] lizzarsi così? ATEN. Ebbene, questa che è per noi la parte migliore dello stato, la più capace di persuadere i cittadini per età e intelligenza, com’è che realizzerà i maggiori beni cantando le cose migliori di cui abbiamo parlato? O trascureremo sconsideratamente questa parte che dovrebbe essere la più importante per i canti più elevati e più utili? CLIN. Ma non è possibile trascurarla; tu stesso l’hai detto adesso. ATEN. Come dunque risulterebbe conveniente questo proposito? Vedete se così. CLIN. Come? ATEN. Ogni uomo che cresce in età è pieno [e] d’esitazione a cantare, ha sempre meno piacere nel farlo e se costretto se ne vergognerà piuttosto, e sempre di più quanto maggiore sarà la sua età e la sua saggezza. Non è così? CLIN. Proprio così. ATEN. Di conseguenza si vergognerebbe anche di più se dovesse star ritto e cantare in teatro davanti a ogni sorta di spettatori. E se gli uomini di tale età fossero costretti a cantare, stanchi per essersi esercitati nella voce e digiuni come i coreuti nella gara per la vittoria, non farebbero ciò del tutto penosamente e [666a] senz’anima canterebbero pieni di vergogna? CLIN. E’ inevitabile quello che dici. ATEN. Come dunque susciteremo in loro l’amore del canto? Non stabiliremo per legge, prima di tutto, che i giovani fino a diciott’anni non tocchino mai vino, insegnando che non bisogna versar nuovo fuoco sul fuoco del loro corpo e dell’anima loro, prima che essi siano iniziati alla fatica, guardandosi essi stessi dall’esuberanza dell’indole giovanile? E poi fino a trent’anni concedere [b] un uso moderato del vino, ma prescrivere ancora anche a questi giovani l’astensione totale dalla ubriachezza e dal bere eccessivo? Si potrebbe ordinare poi che quelli che hanno raggiunto i quarant’anni, raccolti sotto buona guida a banchetto per i "pasti in comune", chiamino tutti gli dèi e li invitino e invochino Dioniso presente alla cerimonia e alla festa di loro che sono i più anziani: la festa per la quale la medicina del vino egli diede in dono agli uomini, rimedio alla dura vecchiaia, e noi ringiovaniremo allora, e non sarà più duro il nostro cuore, ma si farà più morbido [c] avendo dimenticato l’angoscia, come diviene il ferro quando è messo nel fuoco, e si fa più docile all’opera di chi lo plasma. Quando ognuno sia in precedenza preparato così, non vorrà forse cantare più volentieri e con minore reticenza, non fra molte persone, ma di numero limitato, non fra estranei ma fra amici, ed intonare quel canto di cui tante volte abbiamo detto che è un incantamento? CLIN. Certo molto più volentieri. ATEN. Dunque questo non sarebbe un metodo proprio sbagliato per spingerli [d] a partecipare al nostro canto. CLIN. Per nulla sbagliato.
X. ATEN. Quale canto essi canteranno e quale sarà il tono del linguaggio usato? Non è chiaro che dovranno scegliere ciò che si addice di più a loro? CLIN. Evidente. ATEN Quale è dunque la poesia conveniente agli uomini che più assomigliano agli dèi? La lirica corale? CLIN. Ospite, noi e questi spartani non saremmo capaci di altro canto se non di quello conosciuto nei cori, quello che imparammo a cantare abitualmente. ATEN. Non poteva essere diversamente; voi in realtà non sapete ancora la [e] poesia più bella. Voi avete la costituzione di un accampamento di soldati, non di cittadini che abitano case civili, e come torme di puledri in gregge i vostri figli possedete ed allevate al pascolo, e nessuno di voi si prende il suo e lo strappa ancora selvaggio e recalcitrante ai suoi compagni di gregge e destina a lui solo un allevatore e lo educa da allora, strigliandolo ed addomesticandolo, gli fornisce a quest’opera di allevamento tutti i mezzi opportuni, [667a] perché non diventi solo un valido combattente, ma anche un uomo capace di dirigere il suo stato e le città; in principio abbiamo anche detto che questo è un soldato migliore di quelli di Tirteo, perché riterrà ed onorerà sempre ed ovunque quarta virtù il coraggio e non primo bene, per gli uomini singoli e per lo stato nel suo complesso. CLIN. Non so perché, ospite, tu ora disprezzi di nuovo i nostri legislatori. ATEN. No, mio caro, non lo faccio con intenzione, se anche lo faccio, ma dove il discorso ci conduce, noi seguiamolo se non vi dispiace. E se posse-[b] diamo una poesia più bella di quella che è nei cori e nei teatri di tutti, cerchiamo di attribuirla a quelli che diciamo vergognosi dì questa e che cercano di esser partecipi della migliore. CLIN. Sì, senza riserve. ATEN. Prima di tutto dunque osserviamo che in tutto ciò cui si accompagna un godimento deve esserci questo: o che il godimento da solo ne costituisca l’aspetto più importante o che la cosa abbia anche un qualche intimo valore o perfezione o che in terzo luogo sia anche utile a qualche cosa. Dico per esempio che mangiare, bere e comunque alimentarsi sono seguiti da un godimento che possiamo chiamare ‘piacere’. [c] Quanto alla perfezione e alla utilità, quella che sempre diciamo sanità dei cibi è il massimo loro valore e la loro perfezione. CLIN. Esatto. ATEN. E certamente il godimento si unisce allo studio, il piacere, ma la sua perfezione, l’utilità, la sua bontà e bellezza li dà compiutamente l’apprendimento del vero. CLIN. E’ Così. ATEN. E la produzione di cose somiglianti, quella che viene operata in [d] tutte le arti figurative? Se realizzeranno come loro conseguenza. il piacere, non sarebbe giusto chiamare ‘godimento’ anche questo, se appunto in esse viene ad esserci? CLIN. Sì. ATEN. Ma sarà piuttosto l’uguaglianza qualitativa e quantitativa, per dire tutto l’insieme, che realizzerà il grado di perfezione di queste cose siffatte, non il piacere. CLIN. E’ vero così. ATEN Dì conseguenza si potranno giudicare senza errore col criterio del piacere solo quei fatti che realizzandosi compiutamente non danno utilità né esprimono [e] verità o somiglianza, né danneggiano, ma sono solo in funzione del godimento che consegue ad altri fatti e che si può benissimo chiamare ‘piacere’ quando non sia accoppiato a nessuna delle cose elencate poco fa. CLIN. Tu parli però solo del piacere non nocivo. ATEN. Sì, ed affermo che questo stesso piacere è divertimento quando non reca nulla di male o di bene che sia degno di attenzione o di discorso. CLIN. E’ verissimo quello che dici. ATEN. Da quanto ora diciamo non si dovrebbe da parte nostra affermare che per nulla conveniente è giudicare un’imitazione in base al piacere o all’opinione non vera (e neppur [668a] ogni altra uguaglianza; infatti non se ad un uomo pare, o perché non gli piace qualcosa, l’uguale è uguale e il commensurabile commensurabile in generale), ma soprattutto si deve giudicare avendo come criterio il vero, e con nessun’altra cosa affatto? CLIN. Certo, assolutamente. ATEN. Possiamo dire che la "musica" nel suo complesso è un’arte imitativa e rappresentativa? CLIN. Certamente. ATEN. Allora quando qualcuno dirà che si giudica la "musica" col criterio del piacere, mai accetteremo questo discorso, per nessuna ragione, e mai affatto ricercheremo come opera notevole una tale "musica", se mai potrà [b] esserci, ricercheremo invece quella che raggiunge la somiglianza nella sua imitazione del bello. CLIN. Sì, è verissimo. ATEN. E quelli che ricercano la più bella canzone devono anche cercare, pare, la poesia che ha in sé la perfezione, non il piacere, e noi affermiamo che la perfetta imitazione avviene quando l’imitato viene realizzato esattamente com’era in quantità e qualità. CLIN. Come no? ATEN. E ognuno ammetterebbe a proposito della "musica" che tutte le sue creazioni sono imitazioni e rappresenta-[c] zione; non ammetterebbero che è così tutti i poeti e gli ascoltatori e gli attori? CLIN. Certamente. ATEN. Quindi, pare, chi non vuole sbagliare nel suo giudizio deve conoscere di ciascuna delle opere quello che essa è; infatti chi non conosce il suo essere, ciò che essa vuole, l’oggetto di cui essa è veramente un’immagine, a stento potrà conoscere e distinguere la perfezione della realizzazione di ciò cui essa tende o il suo fallimento. CLIN. A stento, come [d] non dirlo? ATEN. Chi non ha conoscenza della perfezione come può distinguere ciò che è fatto bene da ciò che è fatto male? Ma non sono del tutto chiaro; forse più chiaro sarà se detto così. CLIN. Come?
XI. ATEN. Ci sono, senza dubbio, infinite possibilità di rappresentazioni percepibili con la vista. CLIN. Sì. ATEN. E se uno ignora quale è ciascuno dei corpi imitati in queste? Potrà mai riconoscere ciò che nell’esecuzione di essi è ben fatto? Dico così: conoscerà per esempio se sono state conservate le proporzioni del corpo e la collaborazione [e] di ciascuna delle sue parti, e il loro numero, e quali parti in relazione a quali altre essendo situate hanno ricevuto i mutui rapporti secondo l’ordine naturale e conveniente - e poi i colori, e i contorni -, o se tutte queste cose invece sono state eseguite confusamente; vi pare che tutto ciò potrà discernere un uomo che ignora del tutto quale è l’animale imitato? CLIN. E come? ATEN. E se invece noi sapessimo che l’oggetto disegnato o mo-[669a] dellato è un uomo, e tutte le sue parti gli furono attribuite dall’arte, e così i colori e i contorni? Non è di per sé necessario che chi sa questo sia subito anche in grado di riconoscere se sia ben fatto o se la sua bellezza sia in qualche modo venuta meno? CLIN. In tal caso, ospite, per così dire, tutti noi avremmo potuto valutare senza incertezze la bellezza di quegli animali rappresentati. ATEN. Perfetto. Ma allora chi vorrà essere giudice intelligente di ogni rappresentazione imitativa, nel disegno, nella "musica", in ogni altra arte, dovrà avere questi tre requisiti: conoscere prima che cos’è la cosa rappresentata, e poi [b] com’è nella sua perfezione relativamente all’imitazione, e terzo infine in quale misura una qualsiasi immagine fatta con le parole, le melodie o i ritmi è ben fatta. CLIN. Pare giusto. ATEN. Ma non rifiutiamo di dire quale è la difficoltà che presenta la "musica" a questo riguardo. Dato infatti che la "musica" viene apprezzata molto di più che le altre arti di fare immagini, ha bisogno della maggior cautela fra tutte. E chi commettesse qui un errore, si [c] procurerebbe un danno gravissimo tendendo a cattivi costumi, cosa che è difficilissima ad intendersi perché i poeti sono troppo inferiori poeti alle Muse. Quelle mai sbaglierebbero tanto da attribuire, nel far opera di poesia, a parole d’uomo colorazione melodica e canto di donna, e al canto poi e alle figure di danza formate da loro per i liberi adattare ritmi di servi e di non liberi, né ancora, presupposti liberi ritmi o una libera figura, attribuirebbero loro una melodia o un discorso contrari ai ritmi; e poi voci di fiere e d’uomini e di strumenti e rumori d’ogni genere [d] mai fonderebbero in uno, come imitazione di una sola realtà. I poeti umani invece, arruffando queste cose e mescolandole sconsideratamente, potrebbero proprio far ridere gli uomini, quanti dice Orfeo "ebbero in dono dalla sorte il tempo della letizia". Queste cose essi infatti le vedono tutte confuse. Ma non paghi ancora i poeti strappano ritmo e figure dal canto cacciando nude parole, senza melodia, nei [e] metri, d’altro lato poi fanno suono e ritmo senza parole ed usano da sola la cetra e il flauto, e qui è difficilissimo riconoscere in un ritmo ed in una armonia senza parola l’intenzione dell’opera e a quale delle imitazioni degne di stima assomiglia. Bisogna rendersi conto che è totalmente piena di grave grossolanità tutta la loro predilezione per la velocità ed il virtuosismo e le voci animalesche [670a] sì da usare il flauto e la cetra al di fuori quanto è necessario per la danza ed il canto; mentre dall’uso di ognuno di questi due strumenti staccato dagli altri suoni non potrebbe venire che un virtuosismo non artistico del tutto privo d’arte. Queste cose sono così dunque. Ma noi non stiamo ora cercando ciò che a quelli di noi che hanno trent’anni o hanno già varcato la soglia dei cinquant’anni conviene non fare nell’arte, ma ciò che conviene di fare. E allora dalle premesse poste mi pare che il nostro discorso [b] già mostri che i cinquantenni devono essere istruiti nell’arte del coro meglio di ogni altro fra quanti sono quelli cui tocca cantare. E’ necessario infatti che abbiano una finissima sensibilità e conoscenza dei ritmi e delle armonie; come altrimenti potrebbero conoscere la perfezione della melodia, a quale conveniva o non conveniva il dorico, e la perfezione del ritmo che il poeta le congiunse correttamente o no? CLIN. In nessun modo, è chiaro. ATEN. Infatti è ridicolo il volgo numeroso che ritiene di saper sufficientemente distinguere l’armonico e il ritmico da ciò che non è tale, e sono tutti coloro che sono stati costretti a cantare coll’accompagnamento dello strumento e a pro-[c] cedere ritmicamente, ma non si rendono conto che fanno queste cose senza discernere ciascun loro elemento. Si dà infatti che sia sempre corretta una musica se possiede ciò che conviene possieda, sbagliata se ciò che non conviene. CLIN. Sì, è strettamente necessario. ATEN. E chi non sa nemmeno quali sono gli elementi posseduti da questa, discernerà mai, come dicemmo, in qualsiasi di essi, quale perfezione esso ha? CLIN. E con quale mezzo?
XII. ATEN. Ed ora, sembra, giungiamo a questa scoperta: questi nostri cantori che noi ora invitiamo al canto, e in [d] certo modo costringiamo perché cantino volentieri, devono aver ricevuto, direi, una educazione fino a tanto che ciascuno di loro possa seguire la cadenza dei ritmi e le note della musica, affinché esaminando le armonie e i ritmi sappiano scegliere quelli che sono convenienti e che si addice siano eseguiti alla loro età e nelle loro condizioni, e cantino così, e nell’atto del cantare siano anche subito lieti di innocenti piaceri e divengano guida ai più gio-[e] vani verso il giusto amore degli onesti costumi: se educati così avrebbero acquistato una educazione più accurata di quella che spetta alla massa, anche agli stessi poeti. Non c’è infatti nessun bisogno che il poeta conosca se l’imitazione è ben eseguita o no, questo che dicemmo essere il terzo requisito del giudice. Invece è, direi, necessario che l’artista conosca ciò che è proprio dell’armonia e del ritmo, ma gli altri devono possedere tutti e tre i requisiti a cagione della scelta che devono fare dell’opera migliore preferendola alla seconda in valore, altrimenti non divente-[671a] ranno mai una buona e seducente guida dei giovani sulla strada della virtù. Così ha fatto del suo meglio questo discorso per assolvere il proposito posto al principio, dimostrare giustificato il nostro contributo al coro di Dioniso. Vediamo ora se in realtà sono state compiute le intenzioni. Una tale adunanza di necessità diviene sempre più turbolenta col procedere del bere che vi si fa, e ciò noi abbiamo [b] dato come inevitabile fin dal principio del nostro discorso su questo argomento. CLIN. Necessario. ATEN. Ognuno così si sente più leggero, e si solleva e si fa lieto, pieno di libertà nel parlare; e allora chiude le orecchie ai vicini e si stima ormai valida guida di sé e degli altri. CLIN. Così. ATEN. E non abbiamo anche detto che in queste circostanze le anime dei bevitori, come un ferro messo al fuoco, si fanno più morbide e più giovani così che si offrono [c] di facile guida a chi può e sa educarle e forgiarle, come quando erano appunto giovani? E questo forgiatore non è lo stesso che allora dicemmo, il buon legislatore, il quale deve dare le sue leggi sui simposi, tali che possano rendere quell’uomo fiducioso e temerario, che diviene più imprudente del giusto e insofferente di adattarsi a un ordine e a tacere e a parlare a suo turno e a bere e a cantare così, renderlo desideroso di fare tutto il contrario; leggi capaci di opporre, col freno della giustizia, a quella non bella temerità che sopravviene, la più bella paura che ci sia per combatterla, [d] quel divino timore che abbiamo chiamato ‘pudore’ e ‘vergogna’? CLIN. E’ vero. ATEN. Custodi di queste leggi e loro collaboratori, dicevamo, saranno gli uomini alieni dai tumulti, i sobri saranno guida ai non sobri; senza di loro è più pericoloso combattere la ubriachezza che i nemici senza avere comandanti imperturbabili e coraggiosi. E chi non sa voler obbedire a questi uomini e alle guide di Dio-[e] niso, cittadini di oltre sessant’anni, avrà sopra di sé uguale e anche maggior onta di chi non obbedisce alle guide di Ares. CLIN. Giusto. ATEN. Se dunque fosse questo il bere, questo il divertimento, non ne avrebbero un utile [672a] i bevitori siffatti e non si separerebbero dopo il simposio più amici di prima, non come ora, nemici, una volta che abbiano partecipato insieme a tutto il convegno secondo le norme prescritte e abbiano seguito i sobri quando dirigevano i non sobri? CLIN. Perfettamente, se fosse almeno così, come tu ora dici, la riunione.
XIII. ATEN. Non biasimiamo dunque così semplicemente anche questo dono di Dioniso, come cosa cattiva e indegna di essere accolta in uno stato. E infatti molte altre cose di più si potrebbero dire enumerando poiché anche del più grande bene, che da lui ci vien dato, v’è esitazione a parlarne ai molti, per il fatto che tale bene [b] male giudicano gli uomini e male intendono le parole che vi si riferiscono. CLIN. Di che cosa parli? ATEN. C’è una leggenda e si diffonde in qualche modo la sua voce, che a questo dio Hera, la matrigna, dissolse la ragione, e lui per la vendetta ingenera le orge e tutta la folle danza del coro; anche il vino di qui, per questo suo scopo, ci è stato donato. Ma io queste cose le lascio dire a chi crede possibile parlare con sicurezza degli dèi, io [c] so che nessun vivente viene mai alla luce possedendo una mente tale e così matura quanto la dovrebbe avere per essere perfetto; in questo tempo allora in cui non ha ancora conseguito la perfezione propria della sua intelligenza ognuno impazza e grida senz’ordine, e appena può tenersi in piedi fa salti scomposti. Ricordiamoci che dicevamo essere questi i princìpi della "musica" e della ginnastica. CLIN. Come non ricordare? ATEN. Ricordiamo anche che ponevamo qui il principio dell’es-[d] sere stata donata a noi uomini la sensibilità del ritmo e dell’armonia, e cause dicemmo fra tutti gli dèi Apollo e le Muse e Dioniso? CLIN. Come non ricordarlo? ATEN. E come sembra, il vino, dice il discorso degli altri, è stato dato per vendetta degli uomini, per farci impazzire. Noi invece lo riconosciamo, secondo il nostro discorso, un farmaco concessoci al fine opposto, perché l’anima acquisti pudore e il corpo sanità e forza. CLIN. Ci hai ravvivato la memoria molto bene, ospite, su ciò che si disse. ATEN. [e] Ebbene, con questo consideriamoci giunti a completare la metà del nostro esame della danza corale; così come piacerà, percorreremo fino in fondo o lasceremo l’altra metà. CLIN. Di quali cose parli e come dividi le une e le altre? ATEN. Il complesso della danza corale fu detto da noi fatto educativo nella sua totalità; ne fanno parte relativamente alla voce le armonie e i ritmi. CLIN. Sì. ATEN. L’altra parte che si riferisce ai movimenti del corpo ebbe comune ai movimenti della voce il ritmo, propria la figura. Invece da parte sua il movimento della voce ebbe [673a] propria la melodia. CLIN. E’ verissimo. ATEN. A tutto ciò che è proprio della voce e, giungendo fino all’anima, serve ad educare alla virtù, non so come si è dato il nome di "musica". CLIN. Sta bene. ATEN. Ma ciò che riguarda il corpo, e dicemmo danza degli uomini che si divertono, se un siffatto movimento giunge fino ad educare il corpo alla sua virtù, l’arte di guidarlo a tale meta chia-[b] miamola "ginnastica". CLIN. Perfettamente. ATEN. Resti anche ora stabilito così per la musica quello che ora dicemmo esser stato esaminato e completato come quasi la metà della danza corale. Dobbiamo dire l’altra metà o in qual modo e come invece dobbiamo fare? CLIN. O caro, tu parli a Cretesi e Spartani, ed avendo esaminato tutti insieme la musica e mancando della ginnastica, che cosa credi che uno di noi due risponda a questa tua domanda? ATEN. Io direi che hai già risposto abbastanza chiaramente chiedendomi così; capisco che questa che è [c] una domanda è ora anche, come dissi, la risposta e insieme l’ordine a trattare fino in fondo della ginnastica. CLIN. Hai capito bene, fa così allora. ATEN. Bisogna farlo; non è difficile affatto parlare a voi due di cose che sapete ambedue. Di quest’arte dovete avere molta di più esperienza che dell’altra. CLIN. Direi che è vero quello che dici.
XIV. ATEN. Il principio dunque su cui si fonda que-[d] sto divertimento è l’abitudine di ogni animale a muoversi, per natura, saltando, ma l’uomo, e lo dicemmo, acquisita la sensibilità del ritmo generò e creò la danza, e poiché la melodia richiamava alla memoria e suscitava il ritmo, le due cose unita l’una all’altra generarono la danza corale e il divertimento. CLIN. Verissimo. ATEN. E, diciamo, una parte di questa già l’abbiamo trattata, l’altra proveremo a trattarla di seguito. CLIN. Proveremo. ATEN. Per prima cosa allora poniamo un termine alla nostra indagine [e] sull’uso del bere molto vino, se pare bene anche a voi due. CLIN. Che termine e di qual natura? ATEN. Se uno stato userà, come per un serio impegno, di questa pratica che ora abbiamo nominato, secondo le leggi ed un ordine, come di un esercizio di saggezza e di temperanza, e non si asterrà così dagli altri piaceri per la stessa ragione, cioè per trovare un mezzo di dominarli, in questo modo è necessario sia fatto uso di tutto questo, ma se è per divertimento e sarà facoltà allora di bere a chi vuole e quando [674a] e con chi vuole, seguendo ogni sorta d’altro costume, io non potrei dare il mio voto ed approvare che simile stato o cittadino debba far mai uso del bere molto vino; e più di quello che è l’uso che se ne fa a Creta e a Sparta, approverei la legge dei Cartaginesi, e vorrei ordinare che mai nessuno gusti questa bevanda in guerra, e tutto il tempo di guerra non si beva che acqua, e per la città né servo né [b] serva la gusti mai, e non la tocchino affatto i magistrati nell’anno in cui sono in carica, né i piloti, né i giudici nell’esercizio della loro funzione, non chi va ad esprimere la sua decisione a un consiglio importante, nessuno mai di giorno se non per esercizio o per malattia, nessuno di notte quando intenda, uomo o donna che sia, procreare dei figli. Altri moltissimi casi potrebbero essere enumerati, in cui non ha da bere vino chi ha sano intelletto e una [c] legge giusta; così anche, sulla base di questo discorso, non vi è alcuno stato, qualsiasi esso sia, che avrebbe bisogno di molti vigneti, e anche le altre colture saranno regolate a tutto il tenore di vita, e la coltivazione della vite direi che dovrebbe essere la più limitata e la più modesta di tutte. Al discorso che abbiamo fatto sul vino, ospiti, sia posta fine così, se pare anche a voi. CLIN. Va bene, e pare anche a noi.
III
[676a] I. ATEN. Queste cose sono così. Ma quale dobbiamo dire essere stata l’origine delle costituzioni dello stato? Non è forse di qui che potrebbe scorgersi nel modo più facile e certo? CLIN. Di dove? ATEN. Mettendoci ad osservare di là donde bisogna ogni volta guardare la evoluzione degli stati nel loro vario muoversi verso il bene o verso il male. CLIN. Vuoi dire di dove? ATEN. Io [b] credo dalla lunghezza dei tempi e dall’infinito e dalle trasformazioni in essi avvenute. CLIN. Come dici? ATEN. Ecco, da quando esistono stati e uomini che siano cittadini ritieni di poter tu pensare quanto tempo è passato? CLIN. Non è affatto facile. ATEN. Ma che sarebbe un tempo immenso, inconcepibile, questo si può pensarlo? CLIN. Questo sì, certamente. ATEN. Non sono stati mille sopra mille gli stati nati in tutto questo tempo e non affatto inferiori di numero, ma nella stessa propor-[c] zione invece, gli stati distrutti? Non ebbero più volte in ogni luogo tutte le specie di costituzioni e ora da piccoli grandi ora da grandi non sono divenuti piccoli, cattivi da buoni, buoni da cattivi che erano? CLIN. E’ necessario. ATEN. Se possiamo, cerchiamo di capire la causa di questo divenire: forse ci potrebbe mostrare la prima origine delle costituzioni e il loro cammino. CLIN. Sì, dici bene, e bisogna che ci protendiamo, tu a mostrarci ciò che pensi di loro, noi a seguirti. ATEN. Vi pare che [677a] le leggende antiche racchiudano una certa verità? CLIN. Quali? ATEN. Ci sono state molte stragi di uomini nelle inondazioni nelle malattie in molti altri avvenimenti, allora il genere umano rimane un gruppo esiguo di individui. CLIN. Di tutto questo nessuno affatto avrà da dubitare. ATEN. Pensiamo allora ad una di queste distruzioni, fra le molte, e che sia quella avvenuta per una inondazione. CLIN. E che cosa dobbiamo pensare su questa? ATEN. Pen-[b] siamo che gli uomini che sono scampati alla strage in tale occasione saranno stati quasi certamente pastori della montagna, salvi sulle cime, piccole scintille del genere umano. CLIN. E’ chiaro. ATEN. Di necessità tali uomini saranno inesperti di ogni altra arte così come di quei mezzi che gli uomini inventano nelle città gli uni contro gli altri per il guadagno e per l’ambizione e così pure inesperti di ogni altra meditata malefatta reciproca. CLIN. Può darsi. [c] ATEN. Dobbiamo affermare che le città costruite sul piano e sul mare vengono completamente distrutte in tale occasione? CLIN. Lo dobbiamo. ATEN. Non diremo anche che in tali circostanze vanno perduti tutti gli strumenti e tutto è vanificato, se qualcosa v’era di attinente all’arte, con cura diligente trovato, cioè attinente alla politica o a qualche altra forma di sapienza? Perché, amico, se queste cose così come ora sono disposte fossero rimaste intatte per tutti i tempi, come qualche cosa di nuovo si sarebbe [d] potuta mai ritrovare, qualsiasi essa sia? CLIN. Questo è come dire che innumerevoli volte in un numero enorme di anni passati sfuggirono agli uomini di allora, e sono mille o duemila anni che hanno avuto origine e sono apparse alcune a Dedalo, altre ad Orfeo. ed altre a Palamede, la musica a Marsia e ad Olimpo, ciò che riguarda la lira ad Anfione, e molte altre cose ad altri, cose che noi potremmo dire di ieri e d’altro ieri. ATEN. Bene, Clinia, è bene l’aver dimenticato l’amico che non è che di ieri. CLIN. Vuoi dire [e] Epimenide? ATEN. Sì, Epimenide; per voi infatti egli di molto superò tutti, amico, con la sua invenzione; ciò che Esiodo anticamente prediceva con la parola egli nell’opera realizzò, come voi dite. CLIN. Noi lo diciamo, è vero.
II. ATEN. Dunque questa affermiamo essere allora la condizione degli uomini, dopo che avvenne la catastrofe: una sconfinata paurosa solitudine, la terra immensa e abbandonata, periti quasi tutti gli animali e poche mandrie di bovini e se mai qualche gruppo dì capre rimase non più che miseri resti erano anche questi ai pastori per vive-[678a] re in quell’età che è all’origine di questa. CLIN. Certamente. ATEN. Ma dello stato, della costituzione, della legislazione, di quello su cui noi ora stiamo tenendo il discorso, crediamo noi, per così dire, che rimanga del tutto il ricordo? CLIN. Nemmeno il ricordo, in nessun modo. ATEN. Allora da quelle sole cose rimaste così sono derivate a noi tutte queste cose come sono ora; gli stati, le costituzioni, le arti, le leggi, e molta cattiveria, e molta virtù? [b] CLIN. Come dici? ATEN. Crediamo forse, amico straordinario, che quelli di allora, inesperti dei molti vantaggi della vita cittadina e dei molti svantaggi, siano potuti venir ad essere perfetti nella virtù o cadere nel più profondo dei vizi? CLIN. Sì, dici bene, capiamo ciò che dici. ATEN. E così col passare del tempo, e mentre la nostra stirpe si moltiplicava, tutto di allora si è venuto evolvendo verso tutto ciò che è di ora? CLIN. Esattissimo. ATEN. Non d’improvviso, come è verosimile, ma a poco a poco, in un tempo [c] lunghissimo. CLIN. Conviene proprio che ciò sia accaduto così. ATEN. E io credo che dominasse in tutti una paura di recente origine a discendere dai luoghi alti al piano. CLIN. Ma certamente. ATEN. E non si vedevano allora l’un l’altro con piacere, tanto pochi erano in quel tempo quando i mezzi di trasporto, con cui potessero allora fra loro viaggiare per terra o per mare, si può dire che si fossero quasi tutti perduti insieme a tutte le arti? Io credo che non fosse proprio possibile che [d] essi si mescolassero fra loro: erano spariti il ferro, il rame e tutti i metalli sommersi confusamente dall’alluvione sì che doveva esserci una insormontabile difficoltà di estrarli e purificarli, e il taglio degli alberi doveva essere insufficiente. Anche se nelle montagne fosse rimasto qua o là qualche utensile, in breve tempo era venuto meno, consumato, ed altri non ne potevano nascere, prima che agli uomini fosse di nuovo tornata l’arte dei minatori. CLIN. E come infatti? ATEN. Dopo quante generazioni pensiamo che questa sia ritornata ad essere così presso gli uomini? [e] CLIN. Moltissime, è chiaro. ATEN. Così anche le arti che hanno bisogno del ferro e del rame e di tutte queste cose, per altrettanto tempo e anche di più furono assenti in tale circostanza? CLIN. Certamente. ATEN. E allora la rivolta e la guerra in molti luoghi erano scomparse a quel tempo. CLIN. Come? ATEN. Prima di tutto fra di loro si amavano, si volevano bene perché erano pochi e soli e poi non dovevano combattersi per mangiare. Non [679a] c’era scarsità di pascoli, se non per qualcuno forse in principio, e dai pascoli allora traevano la base del loro alimento. Non erano mai poveri infatti di latte e di carni e anche quando cacciavano avevano modo di procurarsi un cibo che non era vile né poco. Ed avevano abbondanza di vestiti e di coperte e di case e di vasi da mettere sul fuoco e da tenere per altro uso. Le arti fittili e tessili non hanno per nulla bisogno di ferro, e un dio le diede, le une e le [b] altre, perché procurassero agli uomini tutte le cose dette poco fa e il genere umano non fosse privo di un germe di sviluppo, quando avesse a cadere in questa difficoltà. Perciò proprio non erano poveri e non divenivano discordi sotto la spinta della povertà; e nemmeno ricchi divennero mai perché erano senza oro e senza argento; così vivevano allora. Nella società dove non sia presente ricchezza né povertà necessariamente i costumi, direi, saranno nobilis-[c] simi: infatti non sorge violenza né ingiustizia, rivalità ed invidie non possono nascere. Erano buoni in grazia di questa vita e di quella che si dice ‘semplicità’; ciò che sentivano definire bello o brutto ritenevano esser detto con verità, senza limitazione, e vi si conformavano, essendo appunto uomini semplici. E infatti sospettare la bugia nessuno sapeva per opera di attenta sapienza come ora, ma tenevano per vero ciò che si tramandava degli dèi e degli uomini e ne vivevano in conformità; è per ciò che erano in tutto così come noi adesso li abbiamo descritti. CLIN. Anche a me paiono [d] esser così queste cose ed anche a lui.
III. ATEN. Dobbiamo dire quindi che sono state molte le generazioni vissute in questo modo, e così che gli uomini erano meno progrediti di quelli venuti prima della inondazione e di quelli che vivono ora e più ignoranti di tutte le altre arti future, anche di quelle di guerra, quante sono le arti della guerra per terra e della guerra per mare che si praticano adesso e le arti delle lotte interne solo al proprio stato che si chiamano ‘processo’ e ‘rivolta’ e macchinano [e] con le parole e le opere tutti i mezzi perché i cittadini fra di loro si procurino male ed ingiustizia? Dobbiamo dire che c’erano uomini allora di costumi più semplici e più coraggiosi ed anche più saggi e in tutto più giusti? La causa di questo stato di cose l’abbiamo già esposta. CLIN. Hai ragione. ATEN. Tutto questo sia da noi enunciato e quanto seguirà si intenda da noi detto al fine di comprendere [680a] quale bisogno quegli uomini avevano delle leggi e quale era il loro legislatore. CLIN. Hai detto bene. ATEN. Perché non è forse vero che quelli non potevano avere bisogno di legislatori né in quei tempi la legislazione soleva essere realizzata? Infatti non hanno neppure in alcun modo la scrittura quelli nati in questa parte del periodo di tempo necessario all’evoluzione, vivono seguendo i costumi e le leggi che si dicono tramandate dagli avi. CLIN. E’ verosimile. ATEN. Ma questa è già una forma di costituzione politica. CLIN. Quale? ATEN. Mi pare che tutti chia-[b] mino la costituzione in vigore a quel tempo "patriarcato", e c’è anche ora in molti luoghi, sia presso, i Greci che i barbari. E Omero dice anche che in qualche modo c’era nel governo dei Ciclopi. Omero dice:
Essi non hanno assemblee che danno consiglio non hanno leggi,
essi abitano le cime dei monti più alti
nelle caverne scavate, ciascuno dà legge
[c] ai figli e alle donne, fra di loro si ignorano.
CLIN. E’ bello, sembra, per voi, questo vostro poeta e vi è gradito. Noi infatti abbiamo letto anche altri passi suoi molto belli, ma non numerosi. Noi Cretesi non ci dedichiamo molto alla poesia straniera. MEG. Noi invece lo leggiamo Omero e par superiore a tutti gli altri epici, benché egli sempre descriva piuttosto una vita ionica, non [d] quella della Laconia. Ed ora pare che per te sia una buona testimonianza al tuo discorso riportando col mito ai tempi selvaggi la vita primitiva di quelli. ATEN. Sì, Omero mi è testimone. Prendiamolo quindi come una fonte che ci indica che queste forme di costituzione sono in realtà esistenti, in qualche epoca. CLIN. Va bene. ATEN. E non si formano esse allora da questi uomini dispersi dalla difficile condizione conseguente alle distruzioni in famiglie e stirpi, nelle quali il comando è dei più vecchi [e] in quanto l’hanno ricevuto dal padre e dalla madre, seguendo i quali come uccelli formeranno essi uno sciame e vivranno sotto la legge degli avi, governati con il governo più giusto fra tutti i governi regali? CLIN. Certamente. ATEN. Poi si radunano in comunità più numerose e formano organismi politici più grandi; si rivolgono dapprima [681a] alle campagne poste ai piedi dei monti e stendono recinti a guisa di siepe come mura a difesa dalle fiere, e compiono allora una sola casa grande e comune. CLIN. E’ verosimile che ciò avvenga così. ATEN. E questo non lo credi verosimile? CLIN. Che cosa? ATEN. Che queste organizzazioni più grandi crescono per l’aggregarsi delle prime e più piccole, e ciascuna delle minori è presente, per ciascuna singola stirpe avendo come suo capo il più vecchio e certi suoi costumi particolari a lei sola per il fatto che [b] sono vissute separate l’una dalle altre; essendo stati diversi fra di loro i capostipiti e gli educatori, diversi devono essere stati anche i rapporti loro consueti con gli dèi e con gli uomini, più prudenti quelli degli ascendenti più prudenti, più virili quelli degli ascendenti più virili. A questo modo ciascuna forma secondo le sue concezioni i suoi figli e i figli dei figli e così come stiamo dicendo vengono nella comunità più grande avendo norme particolari. CLIN. [c] Come no? ATEN. E a ciascuno necessariamente vanno bene le proprie norme, e dopo quelle degli altri. CLIN. Certamente è Così. ATEN. E pare che mentre noi siamo, per così dire, risaliti all’origine della legislazione, non ce ne siamo accorti. CLIN. E’ vero.
IV. ATEN. Si rende quindi necessario che tutti questi uomini convenuti insieme scelgano alcuni di loro per tutti, i quali, esaminate le norme proprie d’ognuno, mostrino in comune e chiaramente ai capi ed ai condottieri di quei [d] popoli, come si farebbe coi re, quelle, che per loro sono le più adatte e le diano loro da vagliare. Essi verranno chiamati "legislatori". Saranno da loro poi stabiliti i magistrati e costituita una aristocrazia o anche una monarchia, traendola dai capi del patriarcato, e governeranno così in questa fase di sviluppo della costituzione. CLIN. E’ per una ordinata conseguenza che potrebbe avvenire proprio così. ATEN. Ora diciamo che viene ad essere poi terza forma di costituzione quella in cui tutti gli aspetti che contraddistinguono le costituzioni, ed insieme gli stati, e le loro affezioni, sono coesistenti. CLIN. Quale è questa? ATEN. [e] Quella che dopo la seconda anche Omero ha indicato dicendo appunto che la terza viene ad essere così:
Fondò Dardania - dice così -
poiché non ancora la sacra Ilio
era stata edificata sulla pianura, città d’uomini mortali,
essi ancora abitavano le falde dell’Ida ricco di sorgenti.
[682a] Dice queste parole e quelle che ha dette dei Ciclopi come le direbbe un dio, com’è la natura delle cose. E infatti anche i poeti essendo un genere di uomini divino e cantando i loro inni ispirati dal dio, essi ogni volta riescono a raggiungere ed afferrare coll’aiuto di qualcuna delle Grazie e delle Muse molte cose che avvengono in realtà. CLIN. Certamente. ATEN. Andiamo avanti ancora un po’ con questo racconto che ora ci si è fatto innanzi, forse ci potrebbe indicare qualche cosa di ciò che noi cerchiamo. Non dob-[b] biamo far così? CLIN. Ma certo. ATEN. Ilio fu appunto fondata, noi dicevamo, quando gli abitanti discesero dai monti in una grande e bella pianura, sopra un’altura non molto elevata cui scendevano dall’alto molti fiumi sorgenti dall’Ida. CLIN. Dicono Così. ATEN. Non dobbiamo credere che ciò sia avvenuto in un tempo molto lontano dalla inondazione? CLIN. E come non molto lontano? ATEN. E verosimilmente li prese allora una sciagurata dimenticanza della rovina di cui ora parliamo, [c] quando così costruirono la città e la posero sotto molti fiumi scorrenti dall’alto, fidandosi di colli non certo elevati. CLIN. E’ chiaro che dovevano veramente essere lontani di un tempo molto lungo da quell’avvenimento. ATEN. E io credo che allora già molti altri stati venivano fondati, perché gli uomini continuarono ad aumentare. CLIN. Certo. ATEN. E quelli poi fecero ad un certo momento la spedizione contro Ilio e probabilmente anche per mare, perché allora già si servivano tutti del mare senza paura. [d] CLIN. Chiaro. ATEN. Per dieci anni rimasti colà, io credo, gli Achei rovesciarono Troia. CLIN. Sì. ATEN. E per tutto questo tempo dell’assedio di Troia, dieci anni, in grande numero accadevano nella patria di ciascuno degli assedianti le sventure, per la rivolta dei giovani, i quali non fecero né bella né giusta accoglienza ai reduci tornati alle loro città e alle loro case, ma tale che molte furono le morti, [e] le uccisioni, i bandi d’esilio. Questi di nuovo fuggitivi ritornarono cambiato nome, e si chiamarono Dori invece di Achei perché Doro fu chi raccolse quelli che erano allora dispersi in esilio. E già voi, Spartani, tutte queste cose raccontate punto per punto da qui in avanti. MEG. Sì, certamente.
V. ATEN. Da un certo punto, noi, in principio della nostra conversazione sulle leggi, ci siamo volti ad una digressione che ci ha portati a incontrare il discorso sulla "musica" e sul bere. Ora, quasi ci conduca un dio, siamo ritornati di nuovo ‘allo stesso punto, ed è il discorso stesso che ci dà, direi, l’occasione di afferrarlo, come per una presa di lotta. Ritorna il discorso infatti proprio alla fonda-[683a] zione dello stato spartano che voi dicevate ben governato, e a Creta in quanto si fonda su leggi sorelle. Ed ora ci troviamo in un certo vantaggio per le nostre divagazioni, perché abbiamo già esaminato alcune costituzioni e fondazioni di stato. Abbiamo visto la prima e la seconda e la terza forma di stato che furono realizzate per quanto riguarda la loro fondazione, come crediamo, una dopo l’altra, in spazi di tempo grandissimi; ed ora noi abbiamo come quarto questo stato o se volete popolo che ci viene incontro, che si costituisce in una certa età e che ancora ci risulta così organizzato. Ora se da tutto questo noi possiamo comprendere ciò che [b] vi fu ben organizzato e ciò che non lo fu, e quali leggi con servano ciò che ne vien conservato, quali corrompono ciò che vien corrotto, e, al posto di quali, quali altre sostituendosi potrebbero rendere felice lo stato, riprendendo fin dal principio, per così dire, dobbiamo dirlo, o Megillo e tu Clinia, a meno che non abbiamo qualche cosa da obiettare a quanto si è detto. MEG. Ospite, se ci promettesse [c] un dio che, riprendendo per la seconda volta l’esame delle leggi, noi ascolteremmo discorsi non peggiori né meno estesi di quelli fatti fino ad ora, io vorrei percorrere una lunga strada e questo giorno, ora presente, mi sembrerebbe breve. Benché anche oggi sia quasi il giorno, direi, in cui il dio si volge dalle stelle dell’estate a quelle dell’inverno. ATEN. Quindi bisogna continuare questa ricerca, a quanto sembra. MEG. Certamente. ATEN. Torniamo col pensiero al tempo in cui Sparta ed Argo e Messene e le loro terre erano completamente diventate [d] tutte dei vostri antenati, Megillo; a loro parve opportuno dopo la conquista, così racconta il mito, di dividere in tre parti l’esercito e di costituire tre stati, Argo Messene e Sparta. MEG. Sì. ATEN. E fu Temeno re di Argo, e Cresfonte di Messene, Procle ed Euristene di Sparta. MEG. Come negarlo? ATEN. E tutti quelli di allora giu-[e] rarono di aiutarli, se il loro regno fosse distrutto da qualcuno. MEG. Certo. ATEN. Cade un regno, per Zeus, o cadde mai un governo per causa d’altri che non siano quelli stessi che li posseggono? O non è vero che or ora, un po’ più indietro, avendo, come per caso, incontrato questo discorso, noi affermavamo questo e ce ne siamo scordati ora? MEG. E come? ATEN. Allora noi ora daremo ad esso sicurezza maggiore. Infatti noi siamo ritornati sullo stesso argomento venendo per caso a trattare le cose accadute, come appare, in modo che noi non faremo la stessa ricerca su un oggetto irreale, ma su ciò che è veramente [684a] stato e sarà una ricerca su ciò cui appartiene la verità. E avvenuto questo: tre monarchie si legarono con giuramento ai tre stati sudditi, ognuna al suo, secondo le comuni leggi che essi stabilirono sul comandare e sull’obbedire, impegnandosi gli uni di non rendere più gravoso il potere col passare del tempo e il succedersi della stirpe al potere, gli altri, finché i signori mantenessero il patto, di non rovesciare mai quel potere né di permetterlo ad altri che lo [b] tentassero, e i re di aiutare gli altri re e i popoli se soffrissero ingiustizia, e i popoli di aiutare i popoli e i re nelle stesse condizioni. Non è così? MEG. Così. ATEN. C’era dunque il maggior vantaggio, che può esservi nella costituzione degli stati, nelle costituzioni vigenti in questi tre, sia le abbiano istituite i re sia qualche altro? MEG. Quale vantaggio? ATEN. Che due stati erano sempre d’aiuto a quel terzo che solo resta e che venisse meno alle [c] leggi stabilite. MEG. Chiaro. ATEN. I più comandano ai legislatori che le leggi ch’essi pongono siano tali da essere accolte volentieri dai popoli e dalla massa nello stesso modo che se si ordinasse ai ginnasti e ai medici di curare e di guarire recando piacere ai corpi in cura. MEG. Certamente. ATEN. Mentre spesso ci si può augurare che uno già sappia rendere vigorosi e sani i corpi senza troppo grande dolore. MEG. Ma sì. ATEN. E allora an-[d] che questo c’era di importante a favore degli uomini di allora perché fosse resa facile l’istituzione delle leggi. MEG. Che cosa?
VI. ATEN. Quei legislatori non incorrevano nella più grave impopolarità cercando di stabilire una certa uguaglianza dei beni; ciò avviene in molti degli altri stati che ricevono una costituzione, quando qualcuno cerca di riformare il possesso della terra e di annullare i debiti, vedendo che non potrebbe mai realizzarsi una giusta uguaglianza senza queste riforme. Tutti in tal caso si scagliano sul legislatore che cerca di mutare qualche condizione della [e] proprietà, dicendo di non muovere ciò che è inamovibile, e maledicono chi vuol introdurre una nuova ripartizione della terra e la rescissione dei debiti, tanto che ogni legislatore si trova di fronte ad un ostacolo insuperabile. Ma per i Dori anche ciò si presentava in modo facile e senza rancori; si divisero senza contrasti il territorio e grandi e vecchi debiti non ce n’erano. MEG. E’ vero. ATEN. E come fu allora, amici, che finirono così male la loro costituzione e [685a] le loro leggi? MEG. Che cos’è che rimproveri a loro e in qual modo? ATEN. Che prima c’erano tre stati e due di questi in breve disgregarono la loro costituzione e le loro leggi e uno solo rimase intatto, il vostro. MEG. Non domandi affatto cose facili. ATEN. Ebbene, conviene che ora noi studiando ed esaminando questo problema, divertendoci col gioco delle leggi, questo saggio gioco di vecchi, facciamo la strada senza affannarci, come dicevamo [b] quando cominciammo a camminare. MEG. Certo, e bisogna fare come dici. ATEN. E quale migliore studio delle leggi potremmo fare se non vedendo quelle che hanno ordinato questi stati? Oppure quali altri stati e quali ordinamenti più stimati e più grandi potremmo osservare? MEG. Non è facile trovarne altri che li possano sostituire. ATEN. Io direi allora cosa chiara che quegli uomini pensavano che una organizzazione di stati come la [c] loro non soltanto sarebbe stata garanzia sufficiente per il Peloponneso, ma anche per tutti i Greci, se qualcuno dei Popoli barbari li volesse danneggiare, come già quelli che vivevano ad Ilio confidando nella potenza assira, sorta con Nino, divennero tracotanti e suscitarono la guerra di Troia. Quanto infatti si era anche allora conservato dell’organizzazione di quella potenza non era cosa da poco. Come noi ora temiamo il Gran Re, anche allora si temeva quella coalizione coordinata di popoli; avevano infatti [d] come grande motivo d’accusa, contro i Greci, la seconda presa di Troia che allora era parte del loro impero. Contro tutte queste forze c’era il solo organismo militare allora diviso in tre parti come gli stati, al comando dei tre re fratelli, figli di Eracle, e pareva ben escogitato ed ordinato, migliore di quello che già era andato a Troia. Prima di tutto infatti si riteneva di aver gli Eraclidi condottieri superiori ai Pelopidi e poi tutto questo esercito si pensava eccellere [e] per valore su quello che andò a Troia. Essi infatti avevano vinto, quelli ne erano stati vinti, gli Achei dai Dori. Non è da credere che anche sulla base di questa valutazione essi allora si sono preparati? MEG. Certamente. ATEN. E’ quindi pure verosimile ch’essi ritenessero solida la [686a] loro potenza e tale da durare molto tempo, essi che tante fatiche e pericoli avevano affrontato insieme, governati dalla sola stirpe dei re fratelli, essi che inoltre molti indovini avevano interrogato e fra gli altri l’Apollo di Delfo? MEG. Perché non verosimile? ATEN. Queste cose sperate così grandi, voi sapete, in breve allora si sfaldarono all’infuori [b] della piccola parte, poco fa lo dicemmo, che è il vostro paese e che fino ad ora non ha mai cessato di combattere contro le altre due parti; perché la concordia perfetta di intenti, che fu allora, avrebbe avuto una potenza di guerra irresistibile. MEG. Come no?
VII. ATEN. Come e perché si dissolse? Non è importante vedere quale fu il caso che distrusse un organismo tanto antico e tanto grande? MEG. Guardando altrove, trascurando ciò, sicuramente difficile infatti sarebbe ana-[c] lizzare quali altre leggi o costituzioni sono valide a conservare belle e grandi istituzioni, o al contrario a corromperle del tutto. ATEN. Quindi noi abbiamo in qualche modo intrapreso fortunatamente un’indagine adatta, pare. MEG. Certamente. ATEN. Dobbiamo dire allora, straordinario amico, che tutti gli uomini e anche noi ora ci siamo ingannati ogni volta che abbiamo creduto di essere alla presenza di una cosa che risultasse buona e realizzata in modo da produrre meravigliosi effetti per il fatto che qual-[d] cuno di quella cosa sapesse usare bene in qualche modo e che noi ora forse proprio su di essa non avremmo pensato come dovevamo, né secondo la sua natura, e così tutti non pensano come devono di tutte le altre cose su cui riflettano così? MEG. Dicci che cosa intendi; a che cosa dobbiamo riconoscere che è riferibile principalmente questo discorso fatto da te? ATEN. Caro amico, io ho scherzato poco fa proprio su me stesso. Guardando infatti a questo esercito di cui parliamo, esso mi parve perfetto e ai Greci, se qualcuno lo avesse allora adoperato per bene, come [e] dissi, ne sarebbe capitato un acquisto straordinario. MEG. Dunque tu hai parlato bene e assennatamente di tutte queste cose e noi bene ed assennatamente ti abbiamo approvato? ATEN. Forse. Io penso che ognuno come vede qualche cosa di grande e di molto potente, di molto forte, subito subisce l’impressione che chi ha una cosa così grande e importante, se sa usarla, può realizzare molte imprese meravi-[687a] gliose ed essere quindi felice. MEG. E non va bene anche questo? O che cosa vuoi dire? ATEN. Guarda da quale punto di vista collocandosi ha ragione chi distribuisce ogni volta che lo fa una lode simile a questa. Prima di tutto, a proposito di ciò di cui stiamo parlando, se quelli che allora organizzavano l’esercito avessero saputo ordinarlo bene, come avrebbero ottenuto qualcosa di utile? Non avrebbero ottenuto ciò se lo avessero costituito solidamente e lo avessero mantenuto efficiente per tutto il tempo futuro, in modo da essere essi stessi liberi, padroni di tutti gli altri ch’essi [b] volessero, padroni di fare assolutamente fra tutti gli uomini, greci e barbari, ciò che desideravano, essi e i loro discendenti? Non dovrebbero essere lodati di ciò? MEG. Certamente. ATEN. E così uno che veda una grande ricchezza e gli onori straordinari di una famiglia o qualsiasi altra cosa di simile e dica le stesse cose, le dice pensando a questo e cioè che con quei mezzi la famiglia raggiungerà ogni cosa desiderata o le più fra esse, quanto vi è di più de-[c] gno di attenzione? MEG. Pare. ATEN. E allora esiste comune a tutti gli uomini, come il discorso stesso dice, un unico desiderio messo in luce ora dalle nostre parole? MEG. Quale? ATEN. Che le cose che avvengono avvengano secondo quanto suggerisce la propria anima, preferibilmente tutte, e se no almeno le umane. MEG. Ma sì. ATEN. Dunque se tutti vogliamo una cosa siffatta sempre, da giovani e da vecchi, necessariamente noi sempre pregheremmo che ciò si avveri, proprio ciò, fino alla fine della vita? [d] MEG. Come no? ATEN. Ed anche uniremmo in qualche modo le nostre preghiere a quelle dei nostri cari perché ottengano quello ch’essi si augurano di ottenere. MEG. Certo. ATEN. Ma il figlio è caro al padre, il figlio piccolo all’uomo che gli è padre. MEG. Come no? ATEN. Neppure, di quelle cose che il fanciullo prega gli si avverino, molte il padre scongiurerà gli dèi che in nessun modo avvengano secondo le preghiere del figlio. MEG. Tu dici del figlio quando è incapace di pensare e prega ancora troppo giovane? ATEN. E quando il padre o vecchio o ancora di età troppo giovanile, non conoscendo nulla del buono e [e] del giusto, prega di gran cuore con sentimenti fratelli a quelli che ebbe Teseo verso Ippolito dalla misera fine, e il figlio abbia discernimento di questi ultimi, allora credi che il figlio pregherà insieme al padre? MEG. Capisco quello che vuoi dire. Mi pare che per te non bisogna pregare e sollecitare che tutto consegua alle proprie intenzioni, ma che molto di più siano le intenzioni ad essere conseguenti alla propria intelligenza; lo stato e ciascuno di noi deve pregare e cercare con cura di avere acuta la mente.
[688a] VIII. ATEN. Sì, e poi dico che l’uomo politico che è legislatore deve sempre guardando a questi princìpi porre gli ordinamenti delle leggi, e io mi ricordo e lo ricordo a voi, se ci tornano in mente i nostri primi discorsi, come la vostra esortazione era che necessariamente il buon legislatore disponesse tutte le norme in funzione di guerra, mentre io dicevo che questo era un invito ad orientare le leggi in funzione di una sola delle virtù, che sono invece quattro, e [b] che bisognava ordinare quella a tutte le virtù complessivamente e specialmente a quella che è prima e che tutte le altre conduce e cioè l’intelligenza, la mente e l’opinione con gli amori e desideri che ad esse tengono dietro. Torna qui allo stesso punto il discorso, ed io che parlo ora dico ancora come allora, se volete per gioco, se no seriamente, che senza intelletto è pericoloso ricorrere alla preghiera, [c] e si ottiene il contrario di quello che si vuole. Ma se preferite tener per certo che io parli seriamente, fatelo: io prevedo sicuramente che ora voi scoprirete, seguendo quel ragionamento che noi poco fa abbiamo impostato, che la causa della rovina di quei re e di tutto il disegno non fu la. viltà, né il fatto che i comandanti e quelli cui toccava obbedire non conoscessero l’arte militare; quelle cose furono distrutte dalla rimanente totale incapacità e [d] specialmente dall’ignoranza dei principali fatti umani. Che ciò è avvenuto così allora ed ora avviene, se avviene, e non altrimenti avverrà nel tempo che rimane, io se volete proverò a scoprire, seguendo il discorso, e a mostrarlo a voi che siete amici, per quanto io sappia fare. CLIN. Lodarti, ospite, con le parole è troppo difficile a sopportare, noi ti loderemo assai coi fatti; noi seguiremo volentieri il tuo discorso; così è molto chiaro ciò che uomini liberi [e] approvano o non approvano. MEG. Benissimo, Clinia, facciamo come dici. CLIN. Sarà così, se il dio vuole. Parla allora.
IX. ATEN. Diciamo allora, mentre facciamo la strada che ancora ci resta per la nostra conversazione, come sia stata la più grande ignoranza allora a distruggere quella potenza, ignoranza che anche ora provoca questa stessa conseguenza, cosicché il legislatore, se quanto dico è vero, deve cercare di ingenerare negli stati quanto più può la vera intelligenza e di bandirne quanto più può la stolta [689a] ignoranza. CLIN. E’ chiaro. ATEN. Quale è allora l’ignoranza che noi potremmo chiamare giustamente la più grande? Vedete se quello che dico andrà bene anche a voi, io infatti dico che è del genere di questa. CLIN. Quale? ATEN. Quella per cui quando qualcuno ritiene che qualche cosa sia bella o buona non l’ama ma l’odia, e ciò che ritiene cattivo ed ingiusto ama e desidera. Questo disaccordo di piacere e, dolore con il giudizio della ragione io dico che è l’estrema ignoranza e la più grande perché è nella parte più grande dell’anima; infatti quella sua parte di cui è [b] proprio soffrire e godere è in essa ciò che il popolo e la folla sono nello stato. Quando dunque l’anima contraddice alle conoscenze, alle opinioni, al discorso della ragione, a ciò che per natura è a capo, questa condizione io dico ‘stolta ignoranza’, e così nello stato quando la plebe non obbedisce ai governanti e alle leggi è lo stesso e così in un uomo quando i bei discorsi che sono nella sua anima non fanno nulla di più che esserci e avviene tutto il contrario di quello ch’essi dicono, ed io affermo che sono proprio [c] tutte queste ignoranze le più gravi, nello stato e in ciascuno dei cittadini, e non quella degli umili artigiani; se è vero che mi intendete, ospiti, in ciò che dico. CLIN. Capiamo, caro, e ne conveniamo. ATEN. Questo dunque resti stabilito così come è stato detto e deciso: che ai cittadini ignoranti di questa ignoranza non si debba attribuire nessun potere, si debba biasimarli come ignoranti anche se siano bravi ragionatori e ben esercitati in ogni [d] cavillo e in tutti i mezzi che per loro natura danno agilità alla mente, e gli altri cittadini che sono l’opposto di questi si debba chiamarli ‘sapienti’, anche se non sappiano, come è il proverbio, né leggere e scrivere né nuotare; a loro si deve dare il potere perché sono intelligenti. Come potrebbe infatti esserci, amici, senza armonia anche il più tenue aspetto di intelligenza? Non è possibile; invece la più bella e la più grande di tali armonie giustissimamente si può dire la più grande sapienza, di cui è partecipe chi vive secondo ragione, e chi la perde diventa distruttore della famiglia e in nessun modo salvatore della [e] patria, ma, ignorante di tali cose, sempre si rivelerà un suo dissolutore. Questo, come dicemmo prima, resti stabilito così come è stato enunciato ora. CLIN. Sta bene.
X. ATEN. E’ necessario che negli stati ci sia in qualche modo chi comanda e chi obbedisce. CLIN. Natural-[690a] mente. ATEN. Va bene. Quali e quanti sono i princìpi del comandare e dell’obbedire nei grandi stati e in quelli piccoli e anche nelle famiglie? Non è vero che uno riguarda il padre e la madre? E non è in ogni luogo un principio giusto che i genitori comandino generalmente ai figli? CLIN. Certamente. ATEN. Consegue a questo che coloro che hanno una nobile famiglia comandino a quelli che ne sono privi, e in terzo luogo anche consegue che siano i più vecchi a comandare, i più giovani ad obbedire. CLIN. Sì. [b] ATEN. Quarto poi è che obbediscano i servi, comandino i padroni. CLIN. Come no? ATEN. E quinto, credo, che comandi chi è più forte e chi è da meno obbedisca. CLIN. Anche questo che hai detto è un potere assai necessario. ATEN. Ed è diffusissimo per natura presso tutti gli animali, come disse Pindaro Tebano. Ma il principio che pare il più importante è sesto, quello cioè che ordina che chi è sapiente ed intelligente comandi e governi e guidi e chi [c] è ignorante lo segua. E questo, o sapientissimo Pindaro, io non potrei dire che avvenga contro natura, ma per natura, cioè secondo il potere naturale della legge su chi volontariamente la accetta e non per violenza. CLIN. Giustissimo. ATEN. Aggiungendo ora un settimo potere, caro agli dèi e fortunato, noi ci spingiamo fino al trarre a sorte, e comandi chi è scelto da lei, si ritiri e obbedisca chi è respinto da lei, questo è giustissimo, noi affer-[d] miamo. CLIN. E’ verissimo quello che dici. ATEN. "Vedi", dovremmo dire noi, "legislatore", così scherzando, ad uno di quelli che con leggerezza si accingono a stabilire una legislazione, "quanti sono i princìpi relativi a chi ha il potere e come per loro natura sono fra loro in contrasto? Noi ora abbiamo scoperto una fonte delle sedizioni, per la quale tu dovevi molto darti da fare. Prima di tutto guarda con noi come e che cosa hanno sbagliato a questo riguardo i re d’Argo e di Messene ed hanno perduto [e] se stessi e insieme la potenza dei Greci che era straordinaria allora. Non erano forse ignari di Esiodo che diceva benissimo come la metà spesso è più del tutto?".- Quando prendere il tutto è dannoso, ed è giusto prendere la metà, allora Esiodo ritenne il giusto da più dell’eccessivo, essendo migliore di esso peggiore". CLIN. Esatto. ATEN. Pensiamo che tale corruzione avvenga, ogni volta che avviene, presso i re prima che nei popoli? CLIN. E’ vero-[691a] simile, e per lo più accade che questo male sia dei re che vivono altezzosamente nella dissolutezza e nel lusso. ATEN. Dunque è chiaro che prima di tutto quei re avevano questo male e cioè prevaricavano dalle leggi costituite e che in quello che con la parola e il giuramento avevano approvato non furono coerenti a se stessi, ma la disarmonia, come noi diciamo, che è la più grave ignoranza, e allora pareva sapienza, distruggeva tutte quelle cose per una discordanza e una amara assenza di sapienza? CLIN. [b] Pare di sì. ATEN. Bene, che cosa doveva allora predisporre il legislatore per guardarsi dal generarsi di questo male? Per gli dèi, ora non è affatto sapienza conoscere questo, né è difficile dirlo, ma se allora fosse stato possibile prevederlo, sarebbe stato più sapiente di noi chi l’avesse preveduto? MEG. Che dici? ATEN. Per quanto è avvenuto da voi, Megillo, è ora possibile, avendo visto, sapere, e avendo saputo, dire facilmente ciò che allora bisognava avvenisse. MEG. Parla ancora più chiaro. ATEN. Forse una cosa come questa è ciò che è più chiaro. MEG. Che cosa?
[c] XI. ATEN. Se uno a qualche cosa che è da meno dà di più violando la misura, vele alle navi, nutrimento ai corpi, potere agli uomini, tutto è sconvolto e i corpi si ammalano, per l’intemperanza, e gli uomini cadono nella ingiustizia che della intemperanza è figlia. E allora? Che dire? Forse così? Non c’è, amici miei, natura d’anima mortale che possa mai reggere il supremo potere fra gli uomini se giovane e non tenuta da responsabilità, senza [d] gravarsi la mente della peggior malattia, la stolta ignoranza, ed aver odio dagli amici più stretti, e quando ciò avviene in poco tempo il giovane distrugge il suo pensiero e annulla tutta la sua potenza. Guardarsi da questo sulla base della conoscenza della giusta misura è proprio di grande legislatore. Che ciò venne ad essere allora è possibile ora congetturarlo con buona approssimazione. Pare ci fosse questo. MEG. Che cosa? ATEN. C’era un dio che si interessava a voi e prevedendo le cose future generò per [e] voi doppia la stirpe dei re da una che era, riducendola così maggiormente alla giusta misura. E poi, dopo questo, una grande figura d’uomo partecipe, di natura divina, visto il vostro potere ancora troppo acceso e vigoroso, unì [692a] la saggia autorità dei vecchi alla forza superba ed esuberante della stirpe regia, e fece pari nel voto l’assemblea dei ventotto anziani alla potenza dei re per le cose di maggiore importanza. Il vostro terzo salvatore, constatando ancora tumido e tracotante il corpo governativo, come un freno pose in lui la forza degli efori, quest’ultima rendendo quasi simile al potere dato dalla sorte. E per questa ragione il potere regio presso di voi, divenuto integrato degli elementi necessari e temperato, salvando se stesso è stato causa [b] di salvezza agli altri. Poiché per Temeno e Cresfonte e per i legislatori di allora, quali si fossero quelli che proprio allora legiferavano, nemmeno la parte di Aristodemo la si sarebbe mai salvata; infatti non erano sufficientemente esperti di legislazione. Io credo che non avrebbero pensato che si poteva frenare con impegni giurati l’anima di un giovane che aveva preso un potere dal quale era possibile che venisse la tirannia, ed ora il dio ha mostrato quale doveva e deve venir ad essere il governo che è maggiormente [c] stabile. E che noi conosciamo questo, come vi dissi prima, che lo conosciamo ora a cose avvenute, non è per nulla sapienza, perché per nulla è difficile vedere da un modello già attuato; ma se allora ci fosse stato qualcuno a prevedere ciò, ed avesse saputo temperare i governi e farne uno da tre, allora avrebbe fatto salvo tutto quanto di bello si era inventato e la turba persiana non avrebbe mai assalito la Grecia né alcun altro esercito, disprezzando noi come uomini degni di poca considerazione. CLIN. Dici il vero. [d] ATEN. E si sono difesi in modo vergognoso, Clinia. Vergognoso, dico, non perché non abbiano vinto quelli di allora belle battaglie vincendo per terra e per mare. Ciò che dico vergognoso allora è questo, e cioè che, prima di tutto, di quegli stati che erano tre uno solo si è battuto in difesa della Grecia, e gli altri due erano così tristamente corrotti che uno impedì anche a Sparta di difenderla, combattendole con tutta la forza contro, l’altro poi, che quan-[e] do ci fu la suddivisione primeggiava, Argo, chiamato a respingere il barbaro, né ascoltò, né portò soccorso. E se uno volesse, raccontando i fatti accaduti allora in quella guerra, potrebbe di molte cose del tutto disonorevoli accusare la Grecia, né direbbe bene affermando che la Grecia si è difesa; ma, se allora la comune decisione degli Ate-[693a] niesi e degli Spartani non avesse respinto l’incombente schiavitù, sarebbero ora quasi tutte le stirpi dei Greci mescolate fra loro, e i barbari fra i Greci e i Greci fra i barbari, così come ora sono costituite le nazioni cui dominano i Persiani, disperse e commiste, confusamente disseminate. Queste cose, Clinia e Megillo, noi dobbiamo rimproverare a quegli antichi uomini politici e legislatori, come sono chiamati, e a quelli di ora affinché cercando le [b] cause dei vari fatti troviamo quello che bisognava fare di diverso, a tale proposito, da quello che si è fatto. Per esempio noi dicemmo anche al presente che non bisognava costituire grandi poteri e non moderati da altri elementi. pensando al fatto che lo stato deve essere libero ed intelligente e concorde e il legislatore deve dare le sue leggi in funzione di ciò. Non meravigliamoci se ormai spesse volte, fatte certe premesse, abbiamo detto che il legislatore deve dare le sue leggi in loro funzione e poi le nostre premesse [c] non risultano esser state sempre le stesse: si deve invece inferire, quando diciamo che bisogna guardare alla saggezza o all’intelligenza o alla concordia, che questo scopo non è volta per volta diverso, ma lo stesso, e non turbiamoci se molte altre parole simili a queste noi diremo. CLIN. Proveremo a far così ritornando al discorso; ed ora parla della concordia e dell’intelligenza e della libertà, e di’ a che cosa tu volevi, e stavi per dire che il legislatore [d] dovesse mirare come prima cosa.
XII. ATEN. Ascolta ora. Ci sono come due madri delle costituzioni politiche, dalle quali dicendo che le altre derivano sarebbe proprio esatto dire, ed è esatto chiamarne una ‘monarchia’, e l’altra ‘democrazia’. La prima tocca il suo vertice presso i Persiani, la seconda da noi. Quasi tutte le altre, come dissi, sono variazioni di queste. E’ quindi doveroso e necessario partecipare di ambedue se dovrà esserci la libertà e la concordia intelligente ed è così che il di-[e] scorso vuole prescrivere che noi facciamo quando dice che uno stato non potrebbe mai essere ben costituito se non sia partecipe di loro due. CLIN. Come lo sarebbe, infatti? ATEN. E l’una avendo prediletto il governo di uno solo, l’altra la libertà più di quanto limitandosi doveva, nessuna delle due costituzioni ha mai acquisito la giusta misura né dell’una né dell’altra; le vostre costituzioni, la laconica e la cretese, l’hanno di più, gli Ateniesi e i Persiani anticamente facevano in qualche modo così, ora meno. Vedia-[694a] mone le cause, vero? CLIN. Certamente se in qualche modo vogliamo arrivare a capo di quanto abbiamo proposto di fare. ATEN. Ascoltiamo insieme. I Persiani, quando di più stavano in mezzo fra schiavitù e libertà con Ciro, dapprima si resero liberi e poi padroni di molti altri popoli. Rendendo comune infatti essi, quando furono al comando, la libertà ai sudditi e guidandoli alla uguaglianza, maggior-[b] mente amati erano i generali dai soldati e questi generosamente si offrivano nei pericoli. E se poi ci fosse stato qualcuno intelligente fra loro e capace di dar consiglio, poiché non era invidioso il re, e concedeva libertà di parola e onori a coloro che sapevano darlo, poneva in comune e a disposizione di tutti la forza della mente e allora ogni bene progredì per i cittadini sempre per mezzo della libertà e della concordia e della collaborazione degli intelletti. CLIN. E’ verosimile che sia stato così come si è detto. [c] ATEN. Come mai allora ciò fu rovinato sotto Cambise, e di nuovo, direi, salvato con Dario? Volete che noi cerchiamo quasi di indovinarlo col pensiero? CLIN. Questo conduce la nostra ricerca dove tendeva quando si è mossa. ATEN. Io credo ora di divinare riflettendo su Ciro che, se era un buon generale amante della patria, proprio non aveva ricevuto una retta educazione e non s’era mai interessato di amministrazione domestica. CLIN. Come possiamo dir così? [d] ATEN. Sembra che fin da giovane egli combatté, e per tutta la vita, e diede da educare i figli alle donne. Queste li allevavano come fin da bambini essi già fossero felici e beati, immediatamente, come se non avessero avuto nessun bisogno di nessuna educazione. E come fossero sufficientemente tali impedivano a chiunque di contrariarli in qualsiasi cosa, anzi costringevano tutti a lodare tutto ciò che facevano o dicevano e perciò li allevarono esattamente quali furono. CLIN. Hai parlato proprio di una mera-[e] vigliosa educazione, come è evidente. ATEN. Educazione femminile, di donne di corte da poco arricchite, che allevavano i figli senza controllo di uomini, occupati questi nella guerra e in molte imprese pericolose. CLIN. Così questo si spiega. ATEN. E il padre poi conquistava per loro greggi e mandrie e molte schiere di uomini e molte altre cose e non sapeva che quelli cui doveva lasciare tutta [695a] questa roba non erano educati all’arte dei padri, all’arte persiana - i Persiani erano pastori, venivano da una terra aspra - arte dura, buona a fare pastori forti, capaci di dormire sotto il cielo, capaci di vegliare la notte, di combattere se bisognava combattere; egli stette fermo a guardare le donne e gli eunuchi che insegnavano ai figli suoi l’educazione corrotta da quella cosiddetta beatitudine, l’educazione meda, donde furono, come era naturale fossero, [b] allevati senza essere corretti. Quando i figli presero il comando alla morte di Ciro, tuffati nel lusso, senza conoscere freno, prima l’uno uccise l’altro, non sopportando d’essergli uguale, e poi egli stesso impazzito dal vino e dall’ignoranza perdette il potere per mano dei Medi e di quello che allora si diceva l’Eunuco che seppe disprezzare [c] la stoltezza di Cambise. CLIN. Così si racconta e par verosimile che così sia presso a poco avvenuto. ATEN. E si dice poi che in qualche modo il potere tornò di nuovo ai Persiani per mezzo di Dario e dei Sette. CLIN. Sì. ATEN. Vediamo seguendo il racconto. Dario, che non era figlio di re e non fu educato con una educazione di lusso, venuto al potere e presolo come uno dei Sette, divise l’impero distinguendolo in sette parti, di cui anche ora sono rimaste lievi tracce. Egli riteneva opportuno di go-[d] vernare lo stato introducendo per legge una certa comune uguaglianza, e il tributo di Ciro, che questi promise ai Persiani, egli lo regolò con la legge, fornendo amicizia e unione a tutti i Persiani e legandosi il popolo di questi con doni e ricompense; così gli eserciti ben volentieri conquistarono per lui una non minore estensione di terre di quella che aveva lasciato Ciro. Dopo Dario, Serse, nuovamente educato con educazione regale e di lusso - "O Dario", si potrebbe dire forse e sarebbe giustissimo, "tu non hai ca-[e] pito Terrore di Ciro, hai allevato Serse negli stessi costumi in cui Ciro Cambise" - Serse, in quanto figlio della stessa forma di educazione, presso a poco ricadde in tutti i vizi di Cambise e da allora, direi, nessun re fra i Persiani mai più è stato grande veramente all’infuori che di nome. E la causa non è della fortuna, per seguire il mio discorso, [696a] ma è la vita dissoluta che i figli dei grandi ricchi e dei tiranni per lo più conducono. Non ci sarà mai infatti un giovane o un uomo o un vecchio che eccella in virtù dopo tale educazione. E a questo, noi lo diciamo, deve stare attento il legislatore, e anche noi ora. Ed è giusto, Spartani, riconoscere questo merito al vostro stato e cioè che voi non attribuite nessun onore o educazione speciale, di nessun genere, ai poveri oppure ai ricchi, ai cittadini privati o ai re, se non l’abbia stabilito quasi per vaticinio all’ori-[b] gine della nostra storia quell’essere divino che vi diede le leggi, in nome di un dio. Non devono infatti esserci in uno stato gli eccessivi onori accordati a qualcuno perché sia eccessivamente ricco, né perché sia veloce o bello o forte senza una certa virtù, né la virtù li deve avere che manchi della saggezza e della temperanza. MEG. Perché dici questo, ospite?
XIII. ATEN. Il coraggio non è in qualche modo una parte della virtù? MEG. Come no? ATEN. E tu allora, giudica tu che hai ascoltato il mio discorso e dimmi se accetteresti di avere uno che viva con te, o un vicino, molto [c] coraggioso e non saggio ma intemperante. MEG. Non dir così! Risparmiami queste parole. ATEN. E allora? Vorresti un artigiano sapiente nella sua arte e ingiusto? MEG. Mai. ATEN. Ma la giustizia non nasce separata dalla saggia temperanza. MEG. E come potrebbe? ATEN. E nemmeno ne vive separato allora quell’uomo e noi poco fa abbiamo definito sapiente, se è capace dì accogliere in sé i piaceri e le sue sofferenze in armonia conseguenti al giusto discorso della ragione. MEG. No infatti. ATEN. [d] E allora vediamo anche questo a proposito degli onori che vengono resi negli stati; quali risultano giusti e quali no, in ogni occasione. MEG. Che cosa? ATEN. La saggia temperanza senza tutta l’altra virtù in un’anima, da sola, risulterebbe giustamente degna o no di un riconoscimento che la onori? MEG. Non so che dire. ATEN. E hai detto bene; rispondendo in un senso o nell’altro a quanto ho domandato mi pare che tu avresti detto un errore. MEG. Allora direi che è andata bene. ATEN. Bene. Ma ciò che è appendice di quel tutto cui complessivamente si riferiscono [e] le valutazioni onorevoli o disonorevoli non è degno di parola, ma piuttosto di un certo discreto silenzio. ME . Mi pare che tu parli della saggia temperanza. ATEN. Sì. Quelle delle altre virtù che congiunte a questa ci sono maggiormente di utilità sarebbero giustamente onorate da chi le onorasse moltissimo e parimenti giusto sarebbe per ciò che vien subito dopo un apprezzamento di secondo grado. Così se ciascuna cosa secondo quest’ordine ricevesse onori seguenti l’uno all’altro avrebbe quello che le spetta con [697a] esattezza. MEG. E’ così. ATEN. E allora ? Non diremo che deve lo stesso legislatore distribuire anche tutto ciò? MEG. Ma certamente. ATEN. Vuoi che affidiamo a lui il compito di distribuire ogni cosa, per ciascuna nostra fino alle minuzie, e noi, poiché anche noi in certo siamo desiderosi di dare le leggi, vuoi che proviamo a dividere in tre parti la materia, a separare gli argomenti principali da quelli che vengono al secondo ed al terzo posto? MEG. Ma sì. ATEN. Noi diciamo allora, ed è evidente, che quello stato il quale vuole conservarsi e esser [b] felice, per quanto è possibile alle forze umane, deve di necessità distribuire correttamente gli onori e le riprovazioni disonorevoli. Si dice quindi correttamente ponendo come i più onorevoli e i più importanti i beni propri dell’anima, dell’anima saggia e temperante, e poi la bellezza e i beni del corpo e in terzo luogo i cosiddetti beni relativi al patrimonio e alle ricchezze; se un legislatore o uno stato esca da quest’ordine nell’assegnare i primi onori alla ric-[c] chezza e ponga con gli onori che attribuisce qualcuna delle cose che seguono per valore fra quelle che precedono, non farà un’opera né santa né politica. Sia detto così o come diversamente? MEG. Sia detto così certamente e con chiarezza. ATEN. Fu l’esame della costituzione persiana che ci fece parlare estesamente di queste cose. Noi troviamo anche che essi sono peggiorati ancora e affermiamo che la causa fu il fatto che tolsero troppo la libertà al popolo e instaurarono un dispotismo troppo duro e così di-[d] strussero la concordia e l’unità dello stato. Morte queste cose le deliberazioni dei governanti non si rivolgono più ai sudditi e al popolo, ma al loro potere, ogni volta che credono di poter possedere qualche piccola cosa di più, e col fuoco rovesciano le città dalle fondamenta, distruggono i popoli amici e con nemico odio spietato odiano e sono odiati. E quando giungono alla necessità di far combattere i popoli per i loro interessi nulla di comune trovano di aver con essi, nulla che si accompagni allo slancio ed alla [e] volontà di arrischiare e di battersi, ma pur possedendo infinito numero di uomini, e incalcolabile, nessuno è utilizzabile in guerra di quelli che posseggono e come fossero poveri d’uomini li comprano e credono di salvarsi con milizie mercenarie e straniere. Per di più li trascina la legge [698a] delle cose alla stoltezza, dicendo in pratica che è sempre cosa da nulla ciò che si dice buono e onorevole nello stato di fronte all’oro e all’argento. MEG. E’ proprio così.
XIV. ATEN. Così per quanto si riferisce ai Persiani e al fatto che ora da loro non è ben governato lo stato per la troppa servitù da una parte e l’esagerato potere dall’altra, possiamo fermarci. MEG. Va bene. ATEN. Dopo ciò, noi dobbiamo analizzare analogamente la costituzione attica e dimostrare come l’assoluta libertà da ogni potere è [b] molto peggiore di un potere che ha in altre forze un suo limite; in quel tempo infatti in cui la spedizione persiana piombò sui Greci e quasi tutti gli europei, noi avevamo una antica costituzione e i vari magistrati provenivano da quattro classi di cittadini, basate sul censo, e c’era dentro di noi la signoria di un certo pudore per cui eravamo noi che volevamo vivere servendo le leggi di allora. E poi quell’enorme turba sopravvenuta per terra e [c] mare seminando un invincibile terrore fece più stretta la nostra dipendenza dai governanti e dalle leggi e per tutto ciò si diede fra noi una più intensa concorde amicizia. Quasi dieci anni prima della battaglia navale di Salamina giunse Dati a capo di un grande esercito persiano e lo mandava Dario espressamente contro gli Ateniesi e gli Eretriesi perché glieli conducesse schiavi; gli promise la morte se non avesse condotto a termine l’impresa. Dati in un [d] lampo prese di forza gli Eretriesi con tutte le sue innumerevoli enormi schiere e fece correre verso di noi una notizia paurosa: nessuno degli abitanti di Eretria gli era sfuggito; i suoi soldati infatti tenendosi per mano avevano preso nella loro rete tutta la regione eretriese. La notizia o vera o no, comunque sia arrivata, prostrò gli altri Greci e gli Ateniesi e a questi, che in ogni parte mandarono [e] ambasciatore, nessuno voleva dar aiuto all’infuori degli Spartani; essi per la guerra che avevano allora contro Messene e non so dire se per qualche altro impedimento - non sappiamo infatti ciò che si diceva esser accaduto - arrivarono un giorno dopo che la battaglia di Maratona era già avvenuta. In seguito si sparse la voce di grandi preparativi e di infinite minacce da parte del Re. Dopo un certo tempo si venne a sapere che Dario era morto e il suo figlio giovane ed impetuoso aveva preso il potere in sua vece e non [699a] desisteva per nulla dall’intento aggressivo. Gli Ateniesi pensavano che tutto ciò si macchinava contro di loro a causa di quanto era avvenuto a Maratona e sentendo che il monte Athos era stato perforato e l’Ellesponto congiunto e saputa la moltitudine di navi non credettero più di salvarsi né in terra né in mare, nessuno infatti li avrebbe aiutati; si ricordavano che nemmeno la prima volta quando quelli vennero e distrussero Eretria nessuno li soccorse e volle arrischiare di allearsi a loro; prevedevano così [b] che anche allora si sarebbe ripetuto lo stesso sul campo, e in mare vedevano assoluta impossibilità di salvezza perché le navi che sopravvenivano erano mille e anche più. Una sola via d’uscita concepivano, angusta ed incerta, ma unica d’altra parte, guardando ciò che era accaduto la prima volta, e cioè che anche allora parve nascere da circostanze impossibili la vittoria alla loro guerra; portati da questa speranza [c] trovavano sola via di scampo in se stessi e negli dèi. Tutti questi fatti stabilivano fra di loro la concordia: la paura allora presente e quella nata dalle leggi di prima. Questa essi l’avevano acquistata obbedendo a quelle leggi e noi spesso nei discorsi precedenti l’abbiamo detta pudore e dicevamo anche che devono obbedire per essa tutti quelli che si studiano di diventare retti, e ne è libero e quindi temerario il disonesto; e se allora l’altro terrore non avesse stretto chi era tale, egli non si sarebbe mai raccolto con gli .altri a difesa, né avrebbe difeso i templi e le tombe, la patria e ciò d’altro che gli era familiare ed i suoi amici, [d] come li aiutò allora, ma ciascuno di noi in piccoli gruppi proprio in tale frangente si sarebbe staccato e chi da una parte, chi dall’altra disperso. MEG. Proprio bene, ospite, tu hai parlato, in modo degno di te e della tua patria.
XV. ATEN. Proprio così, Megillo; è giusto dire a te quanto avvenne nel tempo d’allora, a te che per nascita partecipi dei sentimenti che ebbero i tuoi antenati per noi. E guarda anche tu, anche Clinia, se diciamo cose che sono utili e convenienti alla legislazione; io non parlo per amor di [e] parlare, ma per la cosa di cui parlo. E lo vedete; perché da un certo punto di vista era accaduto da noi lo stesso male dei Persiani ed essi trascinarono il popolo nell’estrema schiavitù, noi al contrario spingemmo le moltitudini all’estrema libertà, e per definire come e che cosa dobbiamo dire d’ora in avanti è certo che i discorsi già fatti da noi prima sono stati in certo modo ben fatti. MEG. Va bene, [700a] ma prova a indicarci più chiaramente quello che hai voluto dire ora. ATEN. Farò così. Il nostro popolo, amici, nelle leggi antiche non era signore di nulla, ma invece ne era quasi il volontario servitore. MEG. A quali leggi ti riferisci? ATEN. Prima di tutto alle leggi sulla "musica" di allora, affinché così fin da principio possiamo seguire gli sviluppi della libertà eccessiva di vita. Da noi infatti allora la "musica" si distingueva in certi suoi aspetti [b] e figure e un certo aspetto del canto era costituito di preghiere agli dèi: si chiamavano col nome di ‘inni’; il suo opposto era un altro aspetto del canto (proprio questi si sarebbero dovuti chiamare thrènoi), e un altro erano i ‘peana’ e poi ce n’era un altro detto ‘ditirambo’, ed è la ‘nascita di Dioniso’, credo. Inoltre un’altra specie di canto chiamavano proprio con questo nome di ‘leggi’ come fosse diversa, e le dicevano ‘canti citaredici’. Fissati questi ed altri aspetti del canto, non era lecito ser-[c] virsi di uno al posto di un altro. Ma l’autorità di controllare queste cose e, conseguentemente alla ricognizione, di giudicare e poi di punire il ribelle non era di certo nei fischi né in certe urla scomposte della plebe, come ora è, e non erano i battimani che sancivano la lode: quelli che avevano una compiuta educazione era stabilito che ascoltassero in silenzio fino in fondo e gli altri, i bambini, i pedagoghi e la maggior parte della plebe, erano richiamati all’ordine da una verga che li teneva a posto. In queste cose, [d] secondo questa disciplina, la massa dei cittadini accettava d’esser diretta e non osava giudicare con lo strepito; ma poi coll’andar del tempo i poeti furono maestri di disordinate trasgressioni, poeti solo nel temperamento, ignoranti delle giuste norme di poesia, come baccanti più del dovuto trasportati dal piacere, e mescolavano i thrènoi agli inni e i peana ai ditirambi, imitavano la musica del flauto con quella della cetra e, confondendo tutto con [e] tutto, involontariamente esprimevano per stolta ignoranza menzogne sulla "musica", che cioè la "musica" non ha una sua correttezza di nessun tipo e si possa ben giudicare dal piacere di chiunque lo provi, sia esso uomo onesto o disonesto, indifferentemente. Facendo simili opere, dicendo su di esse siffatti discorsi, hanno infuso nel popolo l’uso di trascurare le leggi sulla "musica" e la pretesa temeraria d’esserne buoni giudici; dì conse-[701a] guenza i teatri da silenziosi furono pieni di grida come fosse il pubblico ad intendere il bello e il non bello poetico e al posto dell’aristocrazia è sorta una cattiva teatrocrazia per quanto riguarda quest’arte. Se infatti solo per essa fosse sorta una democrazia d’uomini liberi non sarebbe stato per nulla grave l’accaduto. Ma nel nostro stato ora si originò dalla "musica" l’opinione chè tutti sappiamo tutto, e l’illegalità e per conseguenza la 1icenza. Come fossero tutti stati sapienti diventavano impavidi e l’audacia ingenerò l’impudenza. Non rispettare per temera-[b] rietà l’opinione di chi è migliore, questo, non altro, direi, è la malvagia impudenza, nata da una libertà troppo spinta. MEG. E’ verissimo quello che dici.
XVI. ATEN. Di seguito a questa libertà può sopravvenire quella di negare la sottomissione ai magistrati e conseguentemente sfuggire alla sottomissione ed al richiamo del padre e della madre e degli anziani, e procedendo, quando si è presso all’estremo, cercar di affrancarsi dalle leggi, e final-[c] mente non curarsi dei giuramenti, delle promesse, nemmeno degli dèi, per nulla, mostrando e imitando la tramandata antica indole dei Titani, ritornando alla stessa situazione di quelli, vivere cioè una vita eterna penosa senza mai sollievo dai mali. Perché abbiamo detto anche questo? Mi pare che io devo riafferrare il discorso ogni volta come un cavallo, e non farmi, come fosse senza freno in bocca, trascinare dalla forza delle parole, sì da lasciarmi cadere [d] da un asino, così è il proverbio; io devo invece domandare a ciò che or ora fu detto perché è stato detto così da me. MEG. Bene. ATEN. E’ stato detto per quelle cose. MEG. Quali? ATEN. Abbiamo detto che il legislatore deve legiferare cercando tre obiettivi e cioè perché il suo stato che ottiene le leggi sia libero e concorde in se stesso e intelligente. Era così, non è vero? MEG. Sì. [e] ATEN. Allora a questo scopo scelte due costituzioni, la più dispotica e la più liberale, stiamo studiando ora quale di queste è ben costituita; avendo supposto in ciascuna di esse una certa limitazione, da una parte all’autorità del tipo proprio dell’una, dall’altra alla libertà, abbiamo rilevato che allora si realizza in esse un grandissimo benessere, ma se l’una e l’altra si trascinano agli estremi da una parte della servitù, dall’altra del contrario, ciò non giova né per [702a] l’una né per l’altra. MEG. Verissimo quello che dici. ATEN. A questo scopo abbiamo esaminato anche l’esercito dei Dori, nel suo stabilirsi, e le falde di Dardano e la città fondata vicino al mare e i primi uomini salvati dalla distruzione ed i nostri discorsi a questi precedenti sulla "musica" e il bere, e quelli prima ancora di questi. Si è parlato di tutto ciò per osservare come potrebbe essere costituito bene al massimo grado uno stato e, privatamente, [b] come un individuo potrebbe condurre bene la sua vita, nel modo migliore possibile. Che abbiamo fatto qualche cosa di utile così, quale prova, Megillo e Clinia, potremmo recare a noi stessi? CLIN. A me pare di averne una presente alla mente, ospite. Pare che per precisa volontà della sorte noi abbiamo fatto tutti questi discorsi che abbiamo percorso. Direi proprio che io ora sono arrivato al punto di aver bisogno di loro e tu insieme a Me-[c] gillo, qui, sei venuto al momento giusto. Non vi nasconderò di più quello che mi sta accadendo e lo terrò anche per buon augurio. La maggior parte della popolazione di Creta intraprende la deduzione di una colonia e affida ai Cnossii la cura della faccenda, i Cnossii l’hanno devoluta a me e ad altri nove. Ci hanno invitato anche a porvi leggi patrie, se alcune, almeno, ci paiono adatte, ed anche altre straniere, se ci sembrano migliori, senza tener conto del fatto che non siano nostre. Ora concedia-[d] mo come un favore questo a me ed a voi e, riprendendo da quanto abbiamo detto, costruiamo uno stato con la parola, e quasi gettiamone le basi, e così insieme noi continueremo l’indagine sul nostro oggetto di ricerca ed io forse potrò usare per il futuro stato questo piano di costituzione. ATEN. Non annunci una guerra, Clinia; e se Megillo non ha nulla in contrario, per conto mio ritieni che ogni cosa sarà secondo il tuo intendimento, per quanto si potrà. CLIN. Dici bene. MEG. Anche per conto mio. CLIN. [e] Avete detto benissimo. Proviamo in primo luogo allora a stabilire la costituzione del nostro stato con il discorso.
IV
[704a] I. ATEN. Avanti dunque. Io vorrei sapere ora come occorre che noi ci raffiguriamo il nuovo stato. Non vi chiedo il suo nome, quale esso sia ora, né con quale nome bisognerà chiamarlo in avvenire - sarà probabilmente la sua conformazione ad imporglielo oppure un luogo, o le denominazioni di un fiume, di una fonte, degli dèi indigeti potreb-[b] bero dare il loro nome allo stato nuovamente sorto. Ma quello che io credo piuttosto e desidero sapere di esso, è se sarà sul mare o all’interno, nel continente. CLIN. La capitale dello stato, di cui abbiamo ora parlato dista dal mare quasi ottanta stadi, ospite. ATEN. E dimmi, ha dei porti da quella sua parte che guarda il mare o ne è del tutto priva? CLIN. I porti sono il più possibile belli [c] da quella parte, ospite. ATEN. Ahimé, che cosa, dici! Ma dimmi della regione che la circonda. E’ fertile di ogni prodotto o manca di qualche cosa? CLIN. Non manca di nulla, direi. ATEN. E ci sarà qualche altra città vicina, molto vicina? CLIN. Affatto, è anche per questo che è stato scelto quel luogo per fondarla; una volta, molto anticamente, di lì si emigrò e non è possibile dire da quanto tempo quella regione ne è stata fatta deserta. ATEN. Parlami ancora delle pianure e dei monti e delle foreste. Dimmi in quale proporzione ci è toccata ciascuna di queste cose. CLIN. La regione assomiglia alla natura complessiva del resto [d] di Creta. ATEN. Così la diresti più accidentata che pianeggiante. CLIN. Così come dici. ATEN. E allora ti dico che in tale stato non ci sarebbero ostacoli insormontabili per realizzare uno stato in possesso della virtù. Se dovesse essere sul mare e anche ben fornito di porti dalla natura, ma non fertilissima la regione, priva invece di molti prodotti, io ti dico che esso avrebbe bisogno di un uomo non comune per guidarlo a salvezza e di legislatori divini se, per la sua stessa configurazione naturale, non volesse accogliere in sé dal mare una varietà disordinata di costumi cattivi. Ma questo ha gli ottanta stadi a suo conforto. Certo è più sul mare di quello che dovrebbe, quasi di quanto più tu lo dici ricco di buoni porti, ma anche questa condizione [705a] può essere accettata con favore. Il mare vicino alla regione abitata è cosa piacevole giorno per giorno, ma in sostanza è una molto salata e amara vicinanza. Perché ciò riempie lo stato allora di traffici e di piccoli affari commerciali, e facendo nascere in esso, nei suoi cittadini, costume di incostanza nelle promesse e di falsità, lo rende infido e nemico di sé nei suoi rapporti interni e parimenti nei riguardi degli altri uomini all’esterno. E’ vero che esso ottiene a sollievo da questo male anche l’essere fertile di ogni prodotto, ma se tu dici che la sua terra è acciden-[b] tata è chiaro che la fertilità del suo suolo non potrebbe essere illimitata come nella quantità anche nella qualità dei prodotti. Se fosse così la regione gli permetterebbe d’esportare, e in grande quantità, e si riempirebbe in cambio di moneta d’oro e di argento; e di questo, per così dire, non c’è più gran male e più grande ostacolo, confrontandoli uno per uno, perché uno stato consegua costumi nobili e giusti; questo lo dicevamo, se ci ricordiamo, nei discorsi fatti prima. CLIN. Ci ricordiamo sì, e conveniamo anche ora che allora si è detto bene. ATEN. Dim-[c] mi allora, come ne è provvisto quel luogo della nostra regione che ha il legname per le costruzioni navali? CLIN. Non ci sono in quantità degna di menzione né abeti né pini di mare, ed anche i cipressi non sono molti; rari si potrebbero trovare anche i pini comuni e i platani, e di questi i carpentieri è necessario sempre si servano per costruire le parti interne delle imbarcazioni. ATEN. E questa non è una deficienza per la natura della regione. CLIN. Perché? ATEN. E’ un bene per uno stato non poter [d] facilmente imitare i nemici con imitazioni nocive. CLIN. Dicci a quale delle cose già dette ti riferisci ora.
II. ATEN. O uomo divino, veglia su me e pensa a quello che abbiamo detto in principio, quando parlavamo delle leggi di Creta e abbiamo detto che esse miravano ad un unico scopo, e voi due dicevate che questo era la guerra, ma io ho ripreso il discorso dicendo che il fatto che tali leggi fossero state costituite in funzione della virtù mi pareva cosa ottima, ma, in quanto fatte per uno solo degli aspetti di questa, e non per tutta, direi, questo era per me [e] da disapprovare in modo assoluto. Ora state in guardia a vostra volta per la mia presente legislazione e seguitemi e giudicate se non legifererò sempre in funzione della virtù, oppure in grazia di un solo aspetto di essa. Io affermo che una legge è formulata in maniera perfetta solo se, come un [706a] arciere, ha ogni volta di mira solo ciò cui sempre e continuamente consegue qualcuna di queste cose buone e trascura tutto il resto, sia una qualche ricchezza, sia qualsiasi altra delle simili cose che si trovino ad esser prive della virtù. E dicevo che l’imitazione dannosa dei nemici si verifica quando vivendo gli uomini sul mare sono tormentati dai nemici stessi, per esempio - e se dirò così, sia certo, non è perché abbia io nelle mie intenzioni alcun risentimento contro di voi - per esempio Minosse, che aveva grande po-[b] tenza navale, una volta obbligò ad un grave tributo gli abitanti dell’Attica, e quelli ancora non avevano come ora flotte da guerra, né la terra loro era ricca di legni da imbarcazioni, sì da poter agevolmente allestire una forza navale per sé. Non furono dunque in grado di allontanare immediatamente i nemici imitando la loro arte navale e facendosi essi marinai. E, è certo, sarebbe stata cosa utile a loro perdere ancora molte volte sette fanciulli prima di avvezzarsi, [c] divenuti marinai da fanti e solidi opliti che erano, a sbarcar di frequente e poi lestamente a fuggir di nuovo correndo sulle navi, senza ritenere di commettere alcuna azione vile non osando di morire resistendo sul posto ai nemici accorrenti e l’aver invece sempre pronte scuse fittizie per giustificare l’abbandono delle armi da parte loro e le fughe fuggite, secondo loro, non vergognosamente. Questi sono i discorsi che sogliono fare gli opliti di marina e sono degni del contrario delle lodi che spesso loro: si sogliono dare senza [d] limite. Non bisogna mai infatti indulgere all’abitudine di costumi non buoni e specialmente non lo deve fare la parte migliore dei cittadini. Anche da Omero si poteva in qualche modo comprendere che siffatto costume era cosa non bella. In Omero Odìsseo rimbrotta Agamennone, quando, premuti gli Achei nella mischia dai Troiani, ordinava di trascinare le navi in mare, lo rimprovera e dice:
[e] Tu comandi, e c’è ancora guerra e battaglia,
che le navi dai forti ponti siano tratte in mare, perché meglio
si compia la preghiera ch’è in cuore ai Troiani,
e si rovesci su di noi tremenda la sventura. Gli Achei
non soffriranno più la lotta quando le navi vedranno tratte in mare,
[707a] ma cercheranno indietro con gli occhi la fuga, si spegnerà il loro ardimento.
Allora sarà rovinoso il tuo consiglio, che tu vai predicando
E questo sapeva anche lui, che cioè sono un male le triremi calate nel mare presso i fanti in battaglia: anche i leoni fuggirebbero per abitudine i cervi se educati a questi costumi. Inoltre la potenza dello stato ottenuta con la flotta da guerra, e insieme la sua stessa salvezza, porta onore non certo ai migliori dei soldati; risultando essa infatti dall’arte del timoniere, da quella di comandare le navi di cinquanta [b] remi, dall’arte di remare, da una risma di uomini non certo onorevoli, nessuno potrebbe rettamente attribuire gli onori e i premi a ciascuno. E allora come potrebbe una costituzione riuscire bene priva di questa possibilità? CLIN. Lo credo quasi impossibile. Ma, ospite, almeno noi Cretesi diciamo che la battaglia navale di Salamina dei Greci contro i barbari ha salvato la Grecia. ATEN. Così infatti [c] dicono i più, sia dei Greci che dei barbari. Ma noi, amico, io e questo, Megillo, noi diciamo che la battaglia di Maratona, battaglia campale, e quella di Platea sono state la prima il principio della salvezza greca, e l’altra il compimento, e delle battaglie, alcune hanno reso i Greci migliori, non certo le altre, così dobbiamo dire delle battaglie che allora ci hanno tutte insieme salvati, parlo anche della battaglia dell’Artemisio, vinta essa pure sul mare e te la voglio aggiungere a quella di Salamina. Infatti solo [d] per il fatto che noi guardiamo ora a quello che è il valore di virtù della costituzione, noi esaminiamo anche la natura della regione in cui deve attuarsi e anche l’ordine delle leggi, e non pensiamo che il sopravvivere o l’esistere soltanto sia la cosa più degna d’onore per uomini, come credono i più, ma il migliorare se stessi, quanto più è possibile il farlo, e l’esserlo poi per tutto il tempo di vita. Abbiamo detto anche questo prima, mi pare. CLIN. Sì, prima. ATEN. Vediamo allora unicamente se noi a proposito della fondazione di uno stato e della formulazione delle sue leggi procediamo su questa strada, che è la migliore per gli stati appunto. CLIN. La migliore, e di molto.
[e] III. ATEN. Ed ora continua tu con ciò che segue subito a quanto si è detto, dimmi: quale popolo fonderà la vostra colonia? Lascerete libero ogni Cretese, che lo desideri, di andarci come se in ciascuno dei vari stati una parte della popolazione sia divenuta eccedente in rapporto alla possibilità dell’alimentazione tratta dalla terra? Non credo che ci conduciate e riuniate ogni Greco pur che lo voglia. D’altra parte vedo che vivono nel vostro paese, avendovi fondato colonie, anche uomini d’Argo e di Egina [708a] e pure di altri luoghi ellenici. Comunque dicci ora tu donde verrà, secondo te, questa schiera di nuovi cittadini che ora si presenta a noi. CLIN. Verranno da tutta Creta, credo, e degli altri Greci saranno accolti a preferenza, mi pare, come nostri coabitatori quelli del Peloponneso. E dici il vero, affermando ora che da noi ci sono Argivi, e proprio la stirpe che ora è più stimata qui è quella di Gortina, e si trova ad essere emigrata qui da Gortina del [b] Peloponneso. ATEN. E allora non potrebbe riuscir ugualmente facile la fondazione per gli stati quando non si faccia sull’esempio degli sciami d’api e una sola stirpe si muova per colonizzare dalla stessa regione, e l’amico si stacchi dagli amici, stretti d’assedio da mancanza di terra o costretti da qualche altra di simili affezioni. Accade anche che un intero partito di un solo stato sia costretto altrove in esilio per la dura necessità della lotta civile, e già accadde talvolta che tutto il popolo di qualche stato emigrò in esilio per una guerra perduta disastrosamente, una guerra troppo dura per lui. In tutti questi casi dunque fondare uno stato e dargli le leggi riesce per [c] qualche aspetto cosa più facile, per qualche altro più difficile. L’esserci infatti una sola stirpe, una stessa lingua e le medesime leggi originarie è fonte di concordia, e così l’aver comune il culto e le altre cose analoghe; in tal caso però quel popolo non accoglie facilmente leggi nuove ed istituzioni diverse da quelle della sua antica patria. E’ poi cosa che darà del filo da torcere al fondatore e legislatore quando si tratterà di chi si è ribellato e disunito in qualche occasione per le leggi cattive e per forza d’abitudine va in cerca di poter vivere secondo le stesse norme e costumi che gli sono già stati precedentemente [d] causa di rovina e sarà poco agevole persuaderlo. E invece uomini d’ogni tipo in un solo gruppo convenuti sarebbero forse più docili a nuove leggi, ma l’esser essi armonizzati e come una pariglia di cavalli ove soffi ciascuno nello stesso accordo, come si dice, è cosa ardua che richiede molto tempo. Comunque è vero che la legislazione e la fondazione degli stati nuovi sono il mezzo più perfetto per conformare gli uomini alla virtù. CLIN. E’ verosimile, ma dicci più chiaramente dove miravi nel dire queste tue parole.
[e] IV. ATEN. Amico mio, penso che mi accadrà di dire, ritornando a parlare e a riflettere sui legislatori, anche qualche cosa di poco brillante; ma se ciò che diciamo è detto per una certa ed opportuna ragione, ciò non dovrebbe dare nessuna noia. Perché dovrei dunque darmene pena? Tutte le cose umane, direi, paiono fatte in questo modo. [709a] CLIN. Che dici? ATEN. Stavo per dire che mai nessuno degli uomini ordina qualche cosa con la legge, ma è sempre il caso e ogni sorta di circostanze che con il loro accadere dirigono la nostra vita in ogni aspetto e in ogni modo. E fu una guerra che sovvertì di forza le costituzioni e mutò le leggi oppure fu la difficoltà di una dura miseria; e molte altre volte sono anche malattie che costringono ad innovare, e pestilenze che sopravvengono, e il susseguirsi per molto tempo, per molti anni, di stagioni cattive. E prevedendo tutto questo è facile che uno sia tratto a dire, come io stesso or ora, che nessun uomo mortale mai a nulla può dar [b] ordine e legge e tutti, quasi, i fatti umani sono opera invece di sorte cieca. E può essere che paia dir bene chi dice ugualmente della navigazione, del pilotaggio, della medicina e dell’arte militare, ma parimenti si può anche argomentare giustamente dicendo così su queste stesse cose. CLIN. Come? ATEN. Che è dio che governa tutte le cose degli uomini e insieme a lui il caso e l’occasione favorevole. [c] Attenuando un po’ si può concedere che a questi fattori debba seguire al terzo posto l’arte. Nel caso infatti di una tempesta io ritengo che aver l’aiuto dell’arte di un pilota sarebbe cosa molto superiore e vantaggiosa a non averlo. Non è così? CLIN. Così. ATEN. E allora anche per le altre cose dovrebbe esser così per lo stesso discorso e lo stesso dobbiamo ammettere per la legislazione; presenti tutte le altre condizioni quante è necessario si verifichino insieme in un paese perché abbia un felice ordinamento politico, a un tale stato deve in ogni caso anche capitare come legislatore quello che sia il vero legislatore. CLIN. E verissimo [d] quello che dici. ATEN. E chi possiede l’arte nei confronti di ciascuno di quegli oggetti di cui prima abbiamo parlato, non è vero che saprebbe chiedere bene alla sorte quei favori che una volta ottenuti per sé da lei lo metterebbero in condizione di aver bisogno solo dell’arte sua? CLIN. Ma è sicuro. ATEN. E tutti gli altri, tutti quelli che or ora abbiamo ricordato, se fossero invitati a dire quale è la loro preghiera, lo direbbero, non è vero? CLIN. Lo farebbero. ATEN. Lo stesso saprebbe fare anche il legislatore, credo. CLIN. Io certo lo credo. ATEN. "Allora", diciamogli, "suvvia legislatore, che cosa è che vuoi [e] che abbia lo stato che ti diamo e come vuoi che l’abbia perché tu possa, una volta ottenutolo, da quanto resta organizzarlo bene?". CLIN. Che cosa si può dire correttamente dopo di ciò? ATEN. Questo lo diciamo come risposta del legislatore, non è vero? CLIN. Sì. ATEN. Questo: "Questo stato datemelo tenuto in mano da un principe" dirà, "e sia, questo, giovane, di memoria desta e di intelligenza pronta ad apprendere, coraggioso e, per sua natura, magnifico". E poi quello che noi dicevamo anche prima dover congiungersi a tutti gli altri. aspetta [710a] della virtù, anche ora egli dirà che deve seguire a quest’anima di principe, se vorrà gli siano di qualche utilità gli altri aspetti che gli sono presenti. CLIN. E’ la saggia temperanza, Megillo, mi pare, ciò che l’ospite dice che deve seguire. Non è vero? ATEN. Sì, come la si intende comunemente, Clinia, e non quella virtù che potrebbe dire chi esagera per nobilitarla, riducendo con la violenza l’esser saggio e temperante ad essere intelligenza. Io invece intendo ciò che sboccia subito nei fanciulli e negli animali come un istinto connaturato e li distingue perché alcuni si abbandonano senza limite ai piaceri, altri appunto [b] si sanno moderare; è anche quella qualità che da sola senza gli altri molti beni, così sono chiamati, é, dicevamo, senza importanza. Voi capite infatti di che parlo. CLIN. Pienamente. ATEN. Ebbene il nostro principe dovrà possedere questa naturale virtù oltre alle altre se deve lo stato avere, quanto più presto e bene è possibile, una costituzione tale che, una volta ottenutala, viva essa tutta la sua vita nel modo più felice. Una organizzazione infatti della costituzione più rapida e migliore di questa non c’è, né mai po-[c] trebbe venire ad esserci. CLIN. Come, ospite, e con quale discorso enunciando queste cose si potrebbe essere persuasi che si dice correttamente? ATEN. E’ facile capirlo, Clinia, che cioè così è secondo la natura delle cose. CLIN. Che dici? Che cioè se un principe fosse giovane, saggio e temperante, di intelligenza pronta ad apprendere e memoria buona, coraggioso, magnifico...? ATEN. E fortunato, aggiungi, non per altro che perché nasca nella sua età un legislatore valente e una sorte felice lo guidi a lui per questo [d] medesimo fine. Quando infatti ciò accade si può dire quasi che il dio ha fatto tutto ciò che opera quando vuole che uno stato sia fortunato al massimo grado. Se invece saranno due tali prìncipi è al secondo posto la situazione, e al terzo posto e più sfavorevole quindi in proporzione a quanti più sono. Al contrario saranno più facili le cose nella misura in cui saranno in meno a comandare. CLIN. Tu dici quindi, come appare, che uno stato potrebbe dalla tirannide passare alla perfezione acquistando un geniale legislatore e un principe onesto, tu dici così, e che potrebbe, il più possibile facilmente e in breve tempo, tramutarsi [e] dall’una all’altra, e in secondo luogo se deve muovere dall’oligarchia (o come dici?), in terzo poi se si tratta di uno stato retto a democrazia. ATEN. Ma no, in nessun modo; ho messo al primo posto muovere dalla tirannide, al secondo dalla monarchia e al terzo da una certa specie di democrazia. L’oligarchia è al quarto posto ed è la forma politica che con maggior difficoltà potrebbe esser capace dell’origine dell’ottimo stato: ci sono infatti potenti in numero maggiore che nelle altre costituzioni. E noi diciamo che queste trasformazioni potranno verificarsi quando nasca un vero legislatore, tale per natura, ed egli abbia in mano per qualche evento una forza in comune con gli uomini che di più sono potenti nello stato. Dove infatti il potere è suddiviso fra il più piccolo numero di uomini, [711a] ma è concentrato e fortissimo come nella tirannide, così e allora è solita accadere una svelta e facile trasformazione. CLIN. Come? Noi non comprendiamo. ATEN. Eppure non una, ma moltissime volte, credo, da noi è stato detto; ma voi forse non avete neppure visto una tirannide. CLIN. E neppure desidero vederlo questo spet-[b] tacolo. ATEN. Eppure tu ci vedresti quello che ho detto adesso. CLIN. Che cosa? ATEN. Un tiranno che voglia mutare i costumi di uno stato non ha per nulla bisogno di molte fatiche né di molto tempo, è necessario solo che si orienti subito egli stesso di là per dove vuole dirigere i cittadini, sia alle pratiche della virtù, sia al contrario, tracciando egli per primo col suo agire tutto il di [c] segno, e poi dia da una parte lodi ed onori, biasimi dall’altra, e dia punizioni disonorevoli a chi disobbedisce, punto per punto, per ciascuna delle sue azioni. CLIN. E come possiamo pensare che tutti gli altri cittadini seguiranno senza indugio chi ha il potere di usare con loro simili argomenti di persuasione e insieme di violenza? ATEN. Amici, nessuno ci faccia credere mai che uno stato possa mai mutare legislazione in modo più veloce e facile con un altro mezzo che la guida dei potenti, né che tuttora avvenga altrimenti, né che diversamente accadrà mai dopo di ora. Perché per noi non è questo che è impossibile o dif-[d] ficile che possa avverarsi. Difficile che accada è questo, che si è avverato poche volte in molto tempo e, quando avviene, innumerevoli beni, tutti i beni realizza nello stato in cui mai avvenga. CLIN. Che cosa intendi dire? ATEN. Quando si genera nell’anima di grandi potenze dello stato un divino amore delle consuetudini sagge e giuste, potenze che esercitano il loro potere nel governo monarchico [e] o si distinguono per abbondanza grande di ricchezza o per nobiltà di sangue o per avere, se mai in qualcuno è rinata, la natura di Nestore, il quale dicono abbia superato tutti gli uomini per forza oratoria e di più per saggezza. Ma ciò è stato ai tempi di Troia, come raccontano, in nessun modo ai nostri. Se dunque un uomo simile è stato, o ci sarà, o uno di noi lo è ora, beata è la sua vita, e beati quelli che ascoltano le parole che fluiscono dalla sua bocca piena di saggezza. Dobbiamo così dunque dire di ogni potere lo stesso discorso, e cioè che quando la massima forza politica si unisce nell’uomo all’intelligenza ed alla [712a] saggia temperanza, ivi allora nasce la generazione della costituzione ottima e delle leggi migliori e in altro modo mai può venire all’essere. E questo sia preso come il responso di un oracolo, questo che vi ho detto come se vi raccontassi un mito, e sia dimostrato che da una parte è difficile che uno stato sia governato bene, dall’altra, se si verificano le condizioni suddette, si può ottenere il buon governo nel modo più veloce e più facile di gran lunga [b] rispetto ad ogni altra via. CLIN. Come? ATEN. Proviamo a foggiare le leggi adattandole al tuo nuovo stato così con le parole, come dei vecchi ritornati bambini. CLIN. Proviamo senza aspettare di più.
V. ATEN. Invochiamo la divinità per questa preparazione dello stato: che ci ascolti e, ascoltatici, buona e benevola con noi venga a darci il suo aiuto nell’ordinamento dello stato e nella formulazione delle leggi. CLIN. Venga a darci il suo aiuto. ATEN. Ebbene, allora diciamo quale è [c] questa costituzione che abbiamo in mente per darla al nuovo stato. CLIN. Che cosa intendi dicendo così? Parla ancora più chiaramente. Vuoi sapere, per esempio, se si tratta di una costituzione democratica oppure oligarchica, o aristocratica o invece monarchica? Non ci parlerai affatto, direi, della tirannide per quanto noi, almeno, possiamo attenderci. ATEN. Suvvia, dunque, chi di voi vorrebbe rispondere per primo dicendo a quale di questi tipi appartiene la costituzione della sua patria? MEG. Io sono il più anziano. Non è più giusto che sia io il primo a parlare? [d] CLIN. Forse. MEG. Ebbene, ospite, se io penso a quello che è la costituzione spartana, non ti so dire così con qual nome bisognerebbe chiamarla. Assomiglia alla tirannide, mi pare, - infatti il potere degli èfori è straordinario come sia divenuto in essa tirannico - e qualche volta invece mi pare uno stato più di tutti gli altri stati somigliante [e] alla democrazia. D’altra parte dire che non è aristocrazia è del tutto assurdo ed inoltre c’è la monarchia a vita in essa e secondo quanto si dice da tutti i popoli e da noi stessi è la più antica di tutte. Ed io ora non so, in verità, come dissi, rispondere all’improvvisa tua domanda, così com’è, distinguendo a quale di queste forme appartiene la nostra costituzione. CLIN. Ed io, Megillo, mi trovo affetto evidentemente della stessa tua affezione, infatti sono del tutto in difficoltà a dire e sostenere con argomenti che a uno di questi tipi appartiene la costituzione di Cnosso. ATEN. Perché voi, miei cari, siete partecipi di costituzioni reali; quelle invece che noi abbiamo ora nominato non sono vere costituzioni, ma strutture politiche dove una parte [713a] comanda e l’altra serve e ciascuna prende nome dalla potenza di chi domina. Se era da una cosa siffatta che voi dovevate dar nome allo stato, bisognava dare il nome del dio che veramente guida quelli che non sono stolti. CLIN. Quale è il dio? ATEN. Ma allora dobbiamo ancora ricorrere al mito, per un poco almeno, se vogliamo chiarire proprio con esattezza quello di cui mi domandate? Non è così che bisogna fare? CLIN. Certamente.
VI. ATEN. Agli stati di cui noi abbiamo passato prima [b] in rassegna l’ordinamento si dice essere preceduto di molto, al tempo di Crono, un potere felice con un felice governo, ed anche il governo migliore fra quelli del tempo presente non ne è che imitazione. CLIN. Allora è evidente che bisogna ascoltarti attentamente su di esso. ATEN. Almeno a me pare. E per questo ho voluto introdurlo qui al centro del discorso. CLIN. Hai fatto benissimo ed ora faresti molto bene a continuare fino in fondo [c] e raccontare il mito, se è pertinente. ATEN. Bisogna fare come dite. Abbiamo raccolto la voce, la fama della vita beata di quelli di allora: senza limiti ogni bene che essi avevano si offriva da sé. Si dice che ne fosse questa la causa: conosceva Crono, e anche noi l’abbiamo esposto, che nessuna natura d’uomo è capace di governare tutte le cose, umane con potere assoluto senza riempirsi di violen-[d] ze e di ingiustizia, e riflettendo a ciò pose allora come re e magistrati nei nostri stati non uomini ma dèmoni di stirpe più divina e superiore; così come facciamo ora noi cogli armenti e tutte le greggi di animali addomesticati; noi non diamo buoi al governo dei buoi, alcuni di essi per gli altri, né capre alle capre, poniamo noi stessi a loro padroni, noi che di loro siamo per stirpe migliori. E il dio che ci amava fece lo stesso e prepose a noi quella stirpe che era migliore di noi, i dèmoni; essi di noi presero cura senza molta fatica per loro e senza peso per noi e ci por-[e] tarono la pace e ci portarono il pudore e il buon governo e una larga giustizia e le stirpi degli uomini rendevano tranquille e felici. Parla anche oggi questo mito, e dice il vero, dice che per tutti gli stati cui non conduce un dio ma un mortale non c’è scampo ai mali ed alla faticosa pena. Parla il mito e ritiene che noi dobbiamo con ogni mezzo imitare la vita che si racconta dei tempi di Crono e dobbiamo obbedire a quanto in noi vi è di immortale in pubblico e in pri-[714a] vato, nell’amministrare le famiglie e gli stati chiamando "legge" il precetto della mente. E se un uomo solo o un gruppo di oligarchi o anche una democrazia hanno un’anima che tende ai piaceri e ai desideri e ne cerca con avidità riempimento e nulla sa trattenere ed è posseduta da un male insanabile e senza fine, e gente così verrà a governare uno stato o anche un solo individuo calpestando le leggi, allora, come or ora si diceva, non c’è via di salvezza. Clinia, biso-[b] gna vedere se dobbiamo credere a questo mito o che cos’altro dobbiamo fare. CLIN. E’ necessario senza dubbio credergli. ATEN. E allora pensi tu che alcuni dicono che le specie delle leggi sono tante quante sono le specie di costituzione, e noi poco fa abbiamo visto le costituzioni, quante sono quelle di cui si parla in generale? E non credere che sia su cosa da poco questo problema, ma anzi gravissima. Perché a noi è tornata dinnanzi la questione di dove occorre guardare per distinguere il giusto dall’ingiusto. I più dicono infatti che le leggi non debbono guar-[c] dare alla guerra né alla pienezza della virtù, ma qualunque sia la costituzione attuata in pratica, esse guardino a ciò che ad essa è utile affinché duri sempre il suo potere senza dissolversi e si enuncia così nel modo migliore la naturale definizione del giusto. CLIN. Come? ATEN. Che giusto è l’utile del più forte. CLIN. Di’ più chiaramente. ATEN. Così: le leggi, dicono, le impone certamente per sé nello stato sempre la parte più forte. Non è così? CLIN. [d] E’ vero. ATEN. E credi tu, dicono, che mai democrazia vittoriosa, o altra forza politica, o anche un tiranno, credi che vorranno dare leggi per altro scopo principale se non per il vantaggio di conservare a se stessi il potere? CLIN. Come no, infatti? ATEN. E così chi violerà queste disposizioni, da quello che le ha stabilite sarà punito come se avesse commesso ingiustizia e questo chiamerà giuste tali disposizioni? CLIN. Sembra di Sì. ATEN. E sempre questo e in tal modo e così sarà il giusto? CLIN. Dice così questo discorso. ATEN. Questo infatti è uno di [e] quei princìpi del potere. CLIN. Quali? ATEN. Di quelli che osservavamo prima chiedendoci chi deve comandare e chi deve obbedire. E risultò che ai figli debbono comandare i genitori, e ai giovani i vecchi, e i nobili ai non nobili, e c’erano molte altre cose se ricordiamo, e alcune anche in contrasto fra di loro. E inoltre, era anche [715a] questo uno di tali princìpi: e cioè dicevamo, credo, che Pindaro giustifica, riconducendo a natura, la massima forza, come dice. CLIN. Sì, allora fu detto così. ATEN. E allora pensa a chi dobbiamo affidare il nostro stato, fra i due. Questo è accaduto ormai mille e mille volte in alcuni stati. CLIN. Che cosa?
VII. ATEN. Quando c’è lotta civile per il potere, i vincitori a tal segno si impadroniscono della vita dello stato, da non lasciare nemmeno la più piccola parte di responsabilità ai vinti, né a loro, né ai loro discendenti, e vivono in guardia l’uno dell’altro perché qualcuno, me-[b] more dei mali prima subiti, mai raggiunga il potere e si rivolti contro di loro. Ma queste, diciamo noi ora, non sono costituzioni, non sono leggi giuste le norme che non furono stabilite per tutta la comunità statale. E quanto alle leggi stabilite in favore di qualcuno, costui non è cittadino, è ribelle, diciamo noi, e quanto si dice il suo giusto invano si dice così. Vi parlo così perché nella tua colonia il potere non sia da noi attribuito a qualcuno solo perché è ricco, [c] né perché possegga qualche altro bene di questo genere, forza, grandezza, nobiltà. Ma invece prendiamo colui che è il più ligio di tutti alla legge costituita - ed è questa la vittoria, nello stato, che lo vede vittorioso ed a questo noi affermiamo che bisogna attribuire anche il servizio delle leggi, il più elevato a lui ch’è il primo e al secondo per tali meriti gli uffici di secondo grado; così secondo la stessa proporzione una per una si devono attribuire le responsabilità direttive che seguono a quelli che seguono. Non ho chiamato questi, che ora son detti ‘magistrati’, [d] ‘servi delle leggi’ per amor di novità nei nomi, penso invece che in ciò più che in ogni altra cosa riposi la salvezza di uno stato o la sua rovina. Per lo stato infatti dove la legge è suddita e senza autorità, io vedo pronta la distruzione. E dove invece è la legge padrona dei magistrati e i magistrati sono suoi servi io vedo salvezza e ogni bene che gli dèi donano agli stati. CLIN. Sì, per Zeus, ospite; tu hai infatti un’età per cui guardi con acutezza. ATEN. Quando ogni uomo è giovane, tali cose egli vede nel modo [e] più impreciso in cui lui stesso possa vedere, da vecchio nel modo più acuto. CLIN. E’ verissimo. ATEN. E dopo di ciò? Facciamo così, come se fossero arrivati i coloni e qui presenti a noi; dovremmo continuare il discorso fino alla fine con loro d’ora in poi? CLIN. Come non farlo? ATEN. "Cittadini", diciamo dunque loro, "il dio, che regge, secondo l’antica tradizione, il principio e la fine e [716a] ciò che sta in mezzo di tutte le cose che sono, secondo la sua natura compie perennemente senza spostarsi la via circolare dell’universo. E sempre gli tien dietro la giustizia punitrice di coloro che hanno abbandonato la legge divina. Chi vuol essere felice segue questa attenendovisi con umiltà e misura, ma chi è gonfio di orgoglio o va fiero di ricchezze o di onori e brucia nell’anima di superbia perché è bello e giovane e perché è stolto come chi non ha bisogno di nessuna guida, di nessun governo, ma pensa di essere sufficiente guida anche agli altri, il dio [b] lo abbandona, desolato, e abbandonato così egli raccoglie anche altri simili a lui e tutto sconvolge agitandosi; per un po’ di tempo pare a molti un grande uomo, ma poco dopo subisce un irreprensibile castigo dalla giustizia e allora distrugge completamente se stesso e la sua famiglia e la patria. E così, che dovrà e non dovrà fare e pensare di fronte a queste cose così disposte chi usa la mente? CLIN. Questo almeno è chiaro: ogni uomo deve cercare, con la sua mente, di essere uno di quelli che seguiranno il dio.
[c] VIII. ATEN. "E quale è l’agire amico e caro alla divinità e che ad essa tien dietro? Uno solo, fondato su di un solo antico principio, che il simile ama il suo simile se questo si attiene a una giusta misura, ma ciò che è fuori misura dispiace sia a ciò che è come lui senza certo confine sia a ciò che conserva il suo limite. Il dio è per noi la massima misura di tutte le cose, molto di più di quanto lo può essere un uomo, come invece dicono ora. Chi allora vorrà essergli amico deve esso pure assomigliarglisi al massimo grado possibile, e per questo discorso chi di noi quindi è [d] saggio e temperante è amico alla divinità perché le assomiglia, chi non lo è non le assomiglia, le è nemico ed è ingiusto. Questo stesso argomento vale anche per le altre cose analoghe. E pensiamo che a ciò segue necessariamente questo siffatto discorso, il più bello, credo, e il più vero di tutti, che cioè per l’uomo retto il fatto di sacrificare e aver relazione sempre agli dèi con le sue preghiere e offerte, ‘con tutto il culto loro rivolto, è ciò che vi è di più bello e migliore e più efficace per rendere felice una vita e più conveniente; per il malvagio tutto il contrario [e] si dà per natura. Il malvagio infatti ha impura l’anima, il buono invece è puro; e non è mai cosa corretta che un uo-[717a] mo giusto o un dio accolga doni da mani macchiate. E’ vana, dunque, la molta fatica di pregare gli dèi per chi è empio, è quanto mai opportuna solo a chi è santo. Questo è l’obiettivo cui dobbiamo mirare. Ma quali sono i dardi per questo obiettivo, quale, possiamo dire, il modo di scagliarli? Quali cose dette su questo argomento potrebbero esser portate nel discorso come le più giuste? Diciamo prima di tutto che sono gli onori che uno attribuirà, dopo gli dèi dell’Olimpo e quelli che presiedono allo stato, agli dèi sotterranea; attribuendo a questi le parti sinistre delle vittime immolate, di seconda qualità, in numero pari, si [b] raggiungerà l’obiettivo della pietà nel modo più retto, e le parti destre, di primo ordine, in numero dispari agli dèi celesti prima nominati. Dopo questi dèi l’uomo intelligente onorerà col culto i dèmoni, dopo di loro gli eroi. In seguito abbiano onore di culto, secondo la norma tradizionale, le statue proprie a ciascuna delle divinità familiari, e poi gli onori ai genitori ancora viventi; perché è giusto che il debitore paghi i debiti che primi ha contratto e i più grandi, di tutti i debiti i più antichi, e ritenga che tutte [c] le cose che ha acquisito e possiede sono tutte dei suoi genitori e dei suoi educatori e che le deve usare in servizio di questi con tutte le sue forze, cominciando dalle sostanze e poi il corpo e poi l’anima sua e paghi così come debiti le cure e le antiche pene di chi ha tanto faticato per lui, e fin dai tempi della giovinezza prestate, e renda ciò a chi ormai vecchio ne ha tanto bisogno nella sua vecchiaia. E per tutta la vita bisogna riservare e aver riservato sempre per i propri [d] genitori la parola più rispettosa, perché il castigo delle parole così leggere, delle parole che volano via, è pesantissimo; la Vendetta, araldo della Giustizia, fu infatti posta a vigilare su tutto ciò. Ai genitori quindi che si adirano bisogna cedere, anche quando danno soddisfazione alla loro collera, sia facciano così nelle parole che nelle azioni, riconoscendo che un padre se ritiene d’essere stato oggetto di ingiustizia da parte del figlio suo è naturale che si adiri fortemente. E per i genitori morti gli onori funebri più moderati saranno i più belli; e non, si superino in essi le dimensioni consuete né siano inferiori a quelli posti dagli [e] avi ai loro genitori; e poi analogamente ogni anno ai morti si paghi il tributo d’onore. Questo si otterrà col non trascurare di conservare perenne la loro memoria, onoran-[718a] doli sempre soprattutto così, attribuendo a loro che sono morti la parte delle ricchezze avute in sorte che spetta a loro. Agendo e vivendo così ognuno potrà sempre acquistarsi meritata ricompensa dagli dèi e da quanti sono esseri superiori a noi; potrà trascorrere la maggior parte della vita nelle migliori speranze". Per quanto riguarda i rapporti coi figli e coi parenti e gli amici e i cittadini, tutto il culto degli ospiti voluto dagli dèi, le relazioni con tutti [b] questi (e chi li assolve secondo la norma deve rendere piacevole ed onesta la sua vita) l’esposizione del e leggi stesse da una parte persuadendo, dall’altra punendo con la forza e la giustizia i ribelli alla persuasione nel costume, renderà la vita nello stato, con l’aiuto a noi e il consiglio degli dèi, felice e beata. Ci sono altre cose ancora che dovrebbe dire ed è necessario dica il legislatore, se pensa quello che penso io, e non conviene enunciarle in forma [c] di legge e di ciò mi pare giusto egli dia un saggio per lui e per quelli cui egli darà legge, percorrendo tutti questi argomenti che ancora restano per quanto possa, e poi cominciare senz’altro la formulazione delle leggi. Ma, direte, in quale formulazione generale si possono ritrovare enunciate anche siffatte cose? Il fatto è che non è assolutamente facile ridurle ad una unità e dirle come se appartenessero ad un solo modello, ma cerchiamo d’altra parte di comprenderle tutte in qualche modo così, se ci sarà possibile fissare un qualche punto sicuro su di esse. CLIN. Di’ come. ATEN. Vorrei che i cittadini fossero al massimo grado docili alla virtù, ed è chiaro che il legislatore si sforzerà di ottenere ciò in tutta la sua opera legislativa. [d] CLIN. Come no?
IX. ATEN. E mi parve che le parole dette valessero per ottenere che i consigli dal legislatore enunciati siano ascoltati più dolcemente e benevolmente se afferrati da chi non è del tutto selvaggio; cosicché anche se non di molto, anche se di poco, accresceranno la capacità d’apprendere di quell’uomo divenuto più favorevole, dell’ascoltatore di quello che dice, e sarà questo un risultato del tutto soddisfacente. Non è molto facile trovare gran numero di cittadini che abbiano la buona volontà di migliorarsi, il più possi-[e] bile e al più presto. I molti dichiarano sapiente Esiodo che diceva che "la via del vizio è facile" e può essere percorsa senza sudore perché è molto breve, ma della "virtù" egli dice che:
gli dèi immortali le hanno posto innanzi il sudore,
la sua strada è un sentiero lungo e ripido,
[719a] aspro in principio; ma giunto tu alla sommità
è facile allora e prima era difficile.
CLIN. E assomiglia a chi ha ragione. ATEN. Sì, Clinia, voglio però porre davanti a voi ciò che ha operato in me il precedente discorso. CLIN. Fa così. ATEN. Diciamo allora [b] al legislatore conversando con lui: "Dicci, legislatore, se tu conoscessi quanto dobbiamo fare e dire, non è chiaro che ce lo diresti?... CLIN. Necessariamente. ATEN. "Non ti abbiamo sentito dire poco fa che il legislatore non deve permettere ai poeti di fare quello che loro piace? Non saprebbero infatti in che cosa, esprimendosi eventualmente in modo contrario alle leggi, danneggerebbero lo stato". CLIN. E’ vero quello che dici. ATEN. E se parlando al posto dei poeti gli dicessimo queste cose sarebbe conveniente quello che direi? CLIN. Quali cose? [c] ATEN. Queste: "E’ una favola antica, legislatore, e proprio noi l’abbiamo sempre raccontata e tramandata e tutti gli altri sono d’accordo con noi; dice la favola che il poeta, quando siede sul tripode della Musa, non è più in sé, come una fonte egli sùbito lascia scorrere liberamente ciò che gli affluisce in cuore e poiché la sua arte è imitazione è costretto, nel rappresentare caratteri fra loro contraddittori, a dire cose che spesso contrasteranno con le sue opinioni, [d] e delle cose dette non sa se questa sia vera né se quell’altra ed opposta. Il legislatore non può formulare ciò nella legge, cioè due norme diverse per uno stesso fatto, ma per ciascuna cosa deve formulare sempre un solo discorso. Puoi vederlo dalle stesse cose che tu ora hai detto. Essendo dei modi di seppellire i morti uno eccessivamente lussuoso, l’altro troppo povero, e il terzo medio, tu ha i scelto uno di questi, il medio, e tu lo prescrivi senz’altro e lo approvi; ed io, dovendo rappresentare in una poesia una donna ricchissima, se questa ordinasse nell’opera la sua sepoltura, sceglierei la sepoltura eccessiva e la loderei, se si trattasse invece di un uomo economo e povero, la seconda, e se [e] invece il proprietario di una sostanza limitata ed egli stesso equilibrato, apprezzerebbe la terza, moderata come lui. Ma tu non devi dire così come hai detto ora quando dicevi del medio, ma devi definire la sua natura, il suo preciso limite, altrimenti non credere già che siffatte tue parole diventeranno mai legge. CLIN. E’ verissimo quello che dici.
X. ATEN. Vorrei sapere se chi ha avuto da noi l’incarico delle leggi non dovrà enunciare nulla di simile come introduzione alle leggi stesse, ma dirà subito ciò che si deve fare o no, e poi, minacciato il castigo, passerà ad altra legge, [720a] senza aggiungere nemmeno una parola per esortare e persuadere i cittadini? Sarebbe come un qualche medico, e questo medico in un modo, quello in un altro, sia solito curarci volta per volta; noi dobbiamo ricordarci l’uno e l’altro modo per pregare il legislatore, così come dei bambini pregherebbero il medico di curarli nel modo meno doloroso. Che voglio dire? Ci sono, diciamo, medici, ma anche certi aiutanti dei medici, e noi li chiamiamo senz’altro ‘me-[b] dici’ anche questi. CLIN. Sì. ATEN. E siano liberi o schiavi, acquistano la loro arte secondo gli ordini dei padroni, l’osservazione abituale e l’esperienza; non per via naturale, come gli uomini liberi hanno imparato un’arte essi stessi e l’insegnano ai loro discepoli. Ammetti che ci sono dunque queste due specie di quelli che sono chiamati ‘medici’? CLIN. E come non ammetterlo? ATEN. Al-[c] lora ti rendi anche conto che essendoci negli stati ammalati liberi e ammalati schiavi, gli schiavi per lo più, direi, curano gli schiavi andando in giro e attendendoli nei luoghi di cura e nessuna ragione di ciascuna delle malattie di ciascuno di quegli schiavi nessuno di tali medici dà od ascolta, e prescritto ciò che par meglio alla loro esperienza, come se ne avessero scienza perfetta, fanno come un tiranno superbo e tosto si scostano e si dirigono ad un altro schiavo ammalato e rendono così meno faticosa [d] al padrone la cura dei suoi ammalati; il libero invece cura quasi sempre le malattie dei liberi e le studia, le tiene fin da principio sotto osservazione, come vuole la natura, dando informazioni allo stesso ammalato agli amici, e insieme egli impara qualcosa dagli ammalati e, per quanto è possibile, ammaestra l’ammalato stesso. Non prescrive nulla prima di averne persuaso per qualche via il paziente, e allora si prova di condurlo alla perfetta guarigione, sempre [e] preparando docile all’opera sua con il convincimento il paziente. Quale medico è migliore nel curare, il primo o il secondo? E, nell’esercitare, quale maestro di ginnastica? E’ migliore chi usa i due metodi per realizzare la sua unica arte o chi ne usa uno solo nel far ciò e il peggiore dai due, il più rozzo? CLIN. E’ molto superiore, ospite, il metodo duplice. ATEN. Vuoi che vediamo come anche nella legislazione si danno questo metodo duplice e quello semplice, tali nel loro attuarsi? CLIN. Perché non volere?
XI. ATEN. Dimmi, per gli dèi, quale sarà dunque la legge che il legislatore dovrà formulare per prima? Non dovrà secondo natura disciplinare con i suoi ordini prima [721a] di tutto il primo principio da cui prendono origine gli stati? CLIN. Certamente. ATEN. E non è principio della generazione di tutti gli stati l’unione e la società coniugale? CLIN. Come negarlo? ATEN. E allora vedrete che le leggi coniugali se formulate prima delle altre è probabile siano collocate al loro giusto posto, in relazione alla perfezione di ogni stato. CLIN. Assolutamente. ATEN. Formuliamo prima la legge semplice; sarà forse presso a poco così: [b] Ognuno deve sposarsi dai trenta ai trentacinque anni, in caso contrario sia punito con la multa e la privazione dei diritti civili, multa di tanto e di tanto, privazione entro questo o quel limite. Questa sia, presso a poco, la legge semplice sulle nozze, la doppia è così: Ognuno deve sposarsi dai trenta ai trentacinque anni, pensando che in certo modo il genere umano per certa sua natura partecipa dell’immortalità, e questo è ciò che ognuno totalmente per [c] natura desidera. Si desidera infatti una cosa siffatta: ottenere qualche notorietà e non giacere senza nome nella morte. Il genere degli uomini è qualcosa di connaturato alla totalità del tempo, gli si accompagna fino alla fine e gli si accompagnerà sempre, e in tal modo è immortale perché lasciando nella vita i figli e i figli dei figli ed essendo sempre tal genere uno ed uguale a se stesso partecipa di vita immortale, mediante la generazione di quelli. Privarsi volontariamente di ciò non è mai cosa pia, e lo fa deliberatamente chi trascura d’aver moglie e figli. Chi dunque obbedisce a [d] questa legge vada libero da pena, chi non obbedisce, e non sia ancora sposato a trentacinque anni, sia multato ogni anno che passa di tanto e di tanto, perché non pensi che il celibato gli sia un vantaggio e una fonte di facile vita: non abbia inoltre gli onori che nello stato i più giovani sogliono volta per volta tributare ai più vecchi di loro. Ora, ascoltata questa legge e posta a confronto con l’altra, è possibile, per ciascuna, riflettere e decidere se conviene che le [e] leggi siano formulate così, col metodo doppio, se pure nel modo più breve possibile, e che si usi delle minacce e anche degli argomenti persuasivi, oppure se conviene valersi solo delle minacce e formulare le leggi in modo semplice, quanto appunto alla lunghezza delle enunciazioni. MEG. Da chi è di costume laconico, ospite, è preferita sempre la brevità. Ma se io fossi chiamato a giudicare di queste formulazioni e a scegliere quella che preferirei fosse formulata e stabilita nel mio stato, sceglierei la più estesa, ed anche [722a] per ogni legge io sceglierei la redazione più lunga, sull’esempio di questa, se ci fosse l’una e l’altra. Ma, d’altra parte, credo, anche al nostro Clinia non dovrà dispiacere quanto abbiamo ora disposto: lo stato infatti il quale pensa di usare siffatte leggi è il suo. CLIN. Sì, Megillo, hai detto bene.
XII. ATEN. E dunque dissertare sulla lunghezza o sulla brevità delle espressioni è troppo sciocco; bisogna, penso, [b] stimare ciò che è migliore, non ciò che è più breve o lungo; e dei metodi delle leggi ora esposte non solo uno è migliore due volte dell’altro per efficacia, ma, come si disse poco fa, il genere dei due tipi di medici fu molto a proposito portato come esempio. In relazione a ciò non sembra che nessuno mai dei legislatori riflettesse sulla possibilità di usare due metodi di legislazione, la persuasione e la forza, secondo quanto ciò si può fare nei confronti della moltitudine senza educazione, ma essi usano solo di uno e [c] infatti non danno leggi temperando con la persuasione la costrizione, ma adoperano solo la pura forza. Ed io, amici miei, vedo che per le leggi è necessaria anche una terza cosa, e ora non viene affatto attuata. CLIN. Quale cosa dici? ATEN. E’ una cosa che è derivata, per il favore di un dio, da quanto or ora abbiamo detto conversando. Infatti, direi, da quando noi abbiamo cominciato a parlare delle leggi è venuto mezzogiorno ed era passata da poco l’alba allora; siamo arrivati in questo bellissimo luogo di sosta e non abbiamo parlato che di leggi; mi pare però [d] che noi cominciamo solo ora veramente a dirle, e il resto che ha preceduto era tutto quasi il proemio delle nostre leggi. Perché ho detto queste cose? Io ho voluto dire che di tutti i discorsi e di tutte le altre attività cui prende parte la voce ci sono proemi e movimenti preliminari, direi quasi, che sono come prova iniziale, secondo le regole dell’arte, utile per ciò che si deve condurre a termine. E sono preposti alle cosiddette "leggi" del canto citaredico, e di ogni altra musica, proemi meravigliosamente curati, ma [e] per quelle leggi che sono veramente tali, quelle che noi chiamiamo ‘politiche’, nessuno mai disse un proemio, né alcun legislatore si è curato mai di formularli e di renderli pubblici, come se addirittura non ne esistesse in natura la possibilità. Ma i discorsi che noi abbiamo fatto mi pare che siano indicazione della esistenza dei proemi e che quelle leggi che or ora da me vennero enunciate e apparvero doppie non erano così semplicemente in qualche modo doppie, ma due cose erano, la legge e il proemio della legge. E che ciò che fu detto nel nostro discorso ‘l’ordine di un [723a] tiranno’ e fu assimilato alla prescrizione di quei medici che abbiamo detto non liberi, questo è la legge pura, ciò che fu detto in precedenza di questo e che fu chiamato persuasivo da costui é veramente persuasivo ed ha il valore di proemio del discorso. Tutto questo discorso detto per persuadere da colui che lo dice, viene fatto, mi pare chiaro, perché chi è oggetto della legge del legislatore accolga la norma applicatagli, la legge cioè, favorevolmente e quindi l’apprenda più facilmente. Perciò secondo il mio discorso [b] sarebbe esatto chiamare proprio questo ‘proemio della legge’, ma non esposizione del discorso della legge. Detto questo, che cosa, dopo di questo, che cosa vorrei ancora dire? Questo: che il legislatore non dovrà lasciare nessuna legge senza proemio ponendolo sempre davanti a tutte e dovrà dare ad ognuna il suo, per cui tutte le leggi differiscano di tanto fra loro di quanto differivano le due sopra enunciate. CLIN. Per me io credo che chi è competente di ciò non potrebbe essere da noi invitato a legiferare di-[c] versamente. ATEN. Mi pare, Clinia, che tu abbia ragione di dire così, e cioè se affermi che per ogni legge si dà il proemio, e che cominciando ogni legislazione si deve premettere a tutto il discorso il suo proemio naturalmente conveniente a ciascuna parte - non è cosa da poco la legislazione che verrà esposta d’ora in avanti, e non ha poca importanza ricordarsi le cose chiaramente o no - d’altra parte se noi ordinassimo di. collocare proemi parimenti alle leggi dette di grande importanza come alle minori, [d] sbaglieremmo. Non occorre infatti farlo per ogni canzone o per ogni discorso - sebbene per natura si dia per tutte queste cose; ma non è per tutte necessario usarlo e in ogni caso all’oratore stesso o al cantore o al legislatore bisogna demandare ogni volta questo tale compito. CLIN. Mi pare verissimo quello che dici. Ma non perdiamo ulteriormente tempo con i nostri indugi, ospite, ritorniamo subito al nostro discorso, e se non ti spiace, cominciamo da quelle cose che tu hai detto allora senza manifestare l’intenzione di proemiare. Ripetiamo dunque da capo, perché la seconda [e] prova è migliore, come dicono i giocatori, ma non per portare a termine un qualsiasi discorso che ci capiti innanzi, come abbiamo fatto fino ad ora, bensì il proemio. Cominciamo da capo, tutti d’accordo che facciamo il proemio. Quello che abbiamo appena detto del culto verso gli dèi e delle cure ai genitori è esso stesso sufficiente. Proviamo a dir ciò che segue, finché non ti paia che tutto il proemio non sia stato sufficientemente enunciato. Dopo di ciò procederai allora nell’esposizione ormai delle leggi [724a] propriamente intese. ATEN. E dunque per quanto riguarda gli dèi e ciò che li segue in importanza e i genitori in vita e in morte noi abbiamo allora proemiato sufficientemente, come affermiamo ora. Mi pare dunque che tu mi esorti adesso ad esporre e, quasi, a portare alla luce, ciò che ancora resta a dire su questo piano del proemio. CLIN. Senza dubbio. ATEN. Ma ora, dopo di tali cose, è conveniente a noi, è del massimo comune interesse, rivolgendo la nostra attenzione a come bisogna aver riguardo all’anima propria e al corpo e alle sostanze, e alla misura [b] entro cui dobbiamo curare o trascurare tali cose, che chi dice e chi ascolta ottenga il più possibile una vera educazione. Questo è dunque in verità ciò che ora ci tocca e dire ed ascoltare dopo quelle altre cose. CLIN. E’ giustissimo quello che dici.
V
[726a] I. ATEN. Mi ascolti ognuno che or ora mi ascoltava quando parlavo degli dèi e dei nostri cari progenitori; di tutte le cose infatti che un uomo possiede l’anima è dopo gli dèi il bene più divino e il più nostro. Per ognuno le cose ch’egli ha appartengono a due generi: e le une essendo superiori ed avendo più valore comandano le altre servono perché sono inferiori e peggiori in qualità. Ognuno deve perciò sempre preferire ciò che in lui è superiore e comanda a ciò che serve. Così quando io dico che dopo gli dèi, che [727a] sono i padroni, e gli esseri divini immediatamente dipendenti da loro, quando dico che seconda è l’anima propria che si deve onorare, io do una giusta esortazione. Ma nessuno c’è, per così dire, fra noi che onori di sé ciò che è giusto onorare, ma ognuno ritiene di farlo. L’onore è bene in certo modo divino e ne è indegno tutto ciò che appartiene al male, e chi crede di giovare all’anima sua con parole e doni o col cederle nei desideri, ma senza, per nulla, renderla migliore da peggiore che era, crede di renderle onore, ma invece non lo fa, affatto. Dapprincipio, appena divenuto fanciullo, ogni uomo crede di essere in [b] grado di conoscere tutto e pensa di onorare l’anima sua lodandola e generosamente si affretta a concederle di fare tutto ciò che essa chiede; ma quello che noi ora diciamo è che facendo così egli non le fa che male e non le rende onore, mentre la deve onorare subito seconda dopo gli dèi, così noi diciamo. E quando un uomo non tiene responsabile, di volta in volta, dei suoi errori, se stesso e così dei mali, di quelli più numerosi e grandissimi, ma accusa gli altri e sempre fa in modo d’uscirne [c] innocente, e crede così di rendere onore all’anima sua, dal far onore è molto lontano: le fa male. E anche quando si compiace dei piaceri oltre il limite e l’approvazione del legislatore, neanche allora l’onora affatto, ma la disonora perché la riempie di mali e di rimorsi. E neanche quando da opposta parte la fatica e la paura e il dolore e l’angoscia lodati come prove di forza non sappia affrontare e resistervi e ceda di fronte a queste cose, neanche così cedendo onora l’anima sua; quando si comporta così in tutte le simili cose, la copre di disonore. E neanche quando [d] questo uomo pensa che vivere qui, in questo mondo sia questo del tutto un bene, neanche allora l’onora, anche allora la copre di disonore; perché l’anima che ritiene il mondo dell’Ade assolutamente come tutto male, si abbandona così e non sa resistere e insegnare a se stessa e confutandosi convincersi che ancora non sa neppure se, al contrario, quelli che si trovano sotto il regno di quegli dèi sono i beni più grandi che tocchino all’uomo. E neanche quando alla virtù si anteporrà la bellezza, neanche questo è altro se non disonore vero e totale dell’anima. Perché questo discorso giudica più degno d’onore il corpo del-[e] l’anima ed è falso giudizio. Di ciò che è dal cielo nulla è più onorevole che sia nato da terra, e chi giudica in altro modo dell’anima ignora che trascura questo possesso meraviglioso. Neppure quando si brucerà di desiderio di [728a] acquisire disonesta ricchezza, e la si prenderà e non si avrà pena a sopportarlo, neanche allora si onora l’anima con doni - da ciò si è invece del tutto lontani - infatti si vende per poco oro l’onore e la bellezza insieme dell’anima propria. Perché non c’è oro né sopra la terra né sotto la terra che possa pagare la virtù. E finalmente, per dire riassuntivamente, ogni uomo che, non vuole astenersi da tutto ciò che il legislatore avrà definito ed enumerato come turpe e cattivo e il suo contrario bello e buono, non vuole astenersene con ogni mezzo e con tutta la sua forza far proprio costume di ciò che è bello e di ciò che è buono, non [b] sa che in tal modo egli, al massimo grado, disonora l’anima sua, il dono più divino che ha ricevuto, e la pone nella condizione più turpe. Io credo infatti che nessuno, per così dire, calcola quella che si dice la pena più grave che si dia a chi fa danno altrui; essa è assomigliarsi a quelli che son malvagi e come un malvagio dover fuggire i buoni e le loro parole e starne discosti sempre e correre dietro agli altri e così poter unirsi solo a loro nelle riunioni e negli incontri. Connaturato a simili uomini sarà necessità fare e patire [c] ciò che per natura questi l’un l’altro si fanno e si dicono. E questa pena subìta non è giustizia, il giusto e la giustizia infatti sono cose belle, è invece castigo, è male che segue l’ingiustizia, ed è infelice chi lo patisce ed è infelice chi non lo patisce, questo perché ammalato senza cure, quello perduto perché molti altri si salvino. E’ onore insomma per noi seguire le cose migliori e migliorare le peggiori, quando possono diventare migliori, e compierlo nel modo migliore possibile.
II. Non c’è dunque possesso, nell’uomo, nato a fuggire [d] il male più dell’anima e a cercare andandone in traccia e a preferire ciò che è migliore, assolutamente e, sceltolo, sempre accompagnarvici tutta la vita restante. Così ebbe il secondo posto nella scala dei valori e al terzo non sarebbe a nessuno difficile accorgersi che la natura ha messo l’onore che spetta al corpo; ora si devono esaminare gli onori, e questo è compito del legislatore, e vedere quali sono veri e quanti falsi. Io me lo figuro questo legislatore proprio così: che mostra gli onori e dice che sono questi e di tal natura ed afferma che il corpo non è onorabile per la sua bellezza né per la sua forza, né ancora per la sua velocità o la gran-[e] dezza che può possedere e neppure per la salute - benché a molti sembrerebbe per la salute - e neppure per le qualità a queste contrarie; ma ciò che raggiunge il medio fra tutte queste condizioni è insieme ciò che è più giusto e saggio e di molto più sicuro; le une infatti rendono le anime vanitose e arroganti, le altre, misere e schiave. Così pure l’acquisire ricchezze e beni merita onore e valore secondo la stessa misura; infatti di ciascuna di queste [729a] cose l’eccesso provoca inimicizia e rivolte negli stati ed ai singoli cittadini, il difetto quasi sempre è origine di servitù. E nessuno cerchi avidamente la ricchezza per i figli, perché almeno li lasci il più possibile ricchi; non è questo il bene maggiore né per loro né per la loro patria. Una sostanza posseduta da un giovane, che non sia tanto grande da accendere l’adulazione né tanto piccola da privarlo del necessario, questa è di tutte la più conveniente e la migliore. Infatti, appropriata ed insieme conveniente a tutti gli aspetti della nostra esistenza, permette di con-[b] durre la vita senza angustie. Ma ai figli è necessario lasciare molto rispetto e pudore piuttosto che oro. Noi crediamo di lasciarli in loro castigandoli quando mostrano di difettarne. Ma ciò non nasce dalle esortazioni che nel nostro tempo si rivolgono ai giovani, per le quali si esortano dicendo che i giovani devono avere rispetto e pudore di tutto. Il legislatore intelligente esorterà piuttosto i più anziani ad avere riguardo dei più giovani e, stando in guardia, darsi massima cura che nessuno mai dei giovani li veda [c] fare o li ascolti dire cosa turpe, perché quando i vecchi sono senza dignità è necessità che anche i giovani allora siano senza pudore al massimo grado. E la migliore educazione dei giovani e anche degli adulti non è nel rimproverarli, ma nel mostrare loro che si mette in pratica per tutta la vita ciò che si potrebbe dire rimproverando un altro. E chi darà onore e venerazione alla sua stirpe e a tutti coloro che hanno comuni a lui gli dèi della casa e la natura dello stesso sangue avrà ragione di attendersi benevole al seme dei suoi figli le divinità genitrici. E acquisterà anche [d] amici e compagni fedeli e affettuosi nelle relazioni della vita se stimerà più grandi e più importanti i loro servizi verso di lui di quello che essi li stimano e penserà i suoi favori verso gli amici più piccoli di quello che lo pensano quegli amici e quei compagni. Così sarà del tutto il più meritevole per la patria e i cittadini chi invece di andare cercando vittorie ad Olimpia e in tutte le gare di guerra e di pace preferirà eccellere per la fama di aver servito le leggi di casa sua e di essere ritenuto tale da aver servito loro tutta la sua [e] vita meglio di ogni altro. Bisogna pensare poi che le relazioni e i contratti con gli stranieri sono cose al massimo grado sacre, perché tutte le colpe di chi è straniero e quelle contro gli stranieri dipendono strettamente da un dio vendicatore più di quelle che riguardano i cittadini. Lo straniero infatti è solo di compagni e di familiari, perciò è più di ogni altro degno di misericordia agli uomini ed agli dèi. Chi ha potere di vendicarlo lo aiuta con maggior ardore; e più di ogni altro questo potere è posseduto dal dèmone [730a] degli stranieri ospiti, proprio di ciascun popolo, e da un’altra divinità, che, come l’altra, è al seguito di Zeus Ospitale. Con molta vigilanza, a chi abbia un po’ di previdenza anche, sarà possibile compiere il tempo di vita senza avervi peccato di nessun peccato contro l’ospitalità. E bisogna pensare ancora che di tutte le colpe contro gli stranieri e i compatrioti la più grande per ciascun uomo è quella che si commette contro i supplici. Perché il supplice supplicando ha chiamato un dio a testimoniare i suoi voti e diviene questo dio terribile difensore e custode del misero che subisce, cosicché non subirà mai invendicato il male sofferto chi l’ha sofferto.
[b] III. Noi abbiamo così esaminato quasi tutti i rapporti che gli uomini hanno e devono avere coi loro genitori e con se stessi e le cose di se stessi, e poi con lo stato e con gli amici e con la famiglia, e coi cittadini e con gli stranieri, ora in ordine ci tocca di esaminare quale è l’abito intimo che ognuno deve farsi ancora perché per tutta la sua vita sia al massimo grado felice; e quante sono le cose che non prescrive la legge, ma si insegnano educando con le lodi e il biasimo che preparano ciascuno degli uomini più docile e meglio disposto alla legge che sarà poi fissata, bisogna che noi ora di queste parliamo dopo quello che [c] abbiamo detto fin qui. La verità è a capo di tutti i beni per gli dèi e gli uomini; ne possa essere partecipe ancora dal primo tempo suo chi vuol essere beato di felicità, affinché possa vivere il più lungo tempo possibile con lei. Questo infatti è un uomo sincero. Falso è chi deliberatamente è amico alla menzogna, pazzo chi senza volere. E né l’una né l’altra cosa sono invidiabili. Perché senza amici è ognuno che è infido, ed è stolto, e il tempo corre avanti e viene noto il suo male, e prepara per sé una desolata solitudine alla fine della vita quando crudele è la vecchiaia sì che il suo vivere, presenti ancora i suoi compagni e i [d] suoi figli o già morti, è quasi come quello di un orfano. Onorabile è poi chi non commette ingiustizia, e chi poi impedisce agli ingiusti di commettere ingiustizia si merita un onore più che doppio del primo. Quello vale per un uomo solo, questo anche per molti altri, quando rivela ai magistrati l’ingiustizia degli altri. E quell’uomo che si associerà ai magistrati con tutte le sue forze perché la giustizia repressiva sia meglio applicata, egli grande fra i cittadini e perfetto, sia proclamato campione di virtù. Queste stesse [e] lodi fatte per la giustizia bisogna estenderle anche alla saggia temperanza e all’intelligenza e a tutti gli altri beni che uno può acquistare e sono tali non solo da tenere in sé, ma da parteciparli agli altri. E chi li partecipa è da porre al vertice della stima, chi non può ma lo vorrebbe lo si lasci secondo dopo di lui, e chi è invidioso e si rifiuta di comunicare in amicizia ad alcuno i suoi beni quello è da [731a] biasimare, ma non invece, per nulla di più, i beni stessi per sé a causa del loro padrone, i beni si debbono sempre acquistare con tutte le proprie possibilità. A chiunque sia lecito gareggiare da noi per primeggiare in virtù senza patire invidia. Questi che faranno così sono gli uomini che danno incremento agli stati, e sanno combattere bene senza frenare gli altri con la calunnia, ma chi è invidioso e crede di dover elevare se stesso col dir male degli altri attenua il suo sforzo verso la virtù vera, i suoi competitori persuade allo scoraggiamento biasimandoli ingiustamente e fa così [b] tutto il suo stato inesperto della lotta per la virtù e, per quella che è la sua parte, ne diminuisce la stima. E bisogna che ogni uomo sia coraggioso e magnanimo, che quanto più è possibile sia mite. Quando infatti gli errori degli altri sono gravi e difficili a sanare o anche del tutto insanabili, non è possibile sfuggirne in altro modo che col vincere combattendo contro di loro per difendersi e col non permettere, punendo, nessuna trasgressione; ciò nessuno può fare senza nobiltà e generosità d’animo. Quanto agli [c] errori di quanti fanno ingiustizia, errori che possono essere sanati, bisogna anzitutto riconoscere che tutti gli uomini che fanno ingiustizia sono ingiusti senza volere. Mai, in nessun modo, nessuno per sua scelta vorrà procurarsi alcuno dei più terribili mali, soprattutto nelle cose più onorabili che egli possiede. Abbiamo detto prima che l’anima è in verità la cosa più onorabile di tutte le cose per tutti. Perciò nessuno volontariamente accoglierà mai nella cosa più onorabile il male più grande e vivrà con questo possesso così per tutta la vita. L’ingiusto invece, assolutamente fa pietà come chi è affetto dal male, ed è lecito [d] aver pietà di chi ha la possibilità di guarire, e comprimere e mitigare la propria ira e non soffermarsi nella propria amarezza sempre sdegnato come una donna, ma verso chi completamente e ostinatamente resta nell’errore e nel male dobbiamo lasciar libera tutta la nostra collera. Per questo diciamo che è conveniente che l’uomo giusto sia sempre necessariamente coraggioso e mite.
IV. Il più grande di tutti i mali è innato all’animo di molti uomini, e concedendo a sé ognuno perdono di esso, non [e] cerca alcun mezzo di fuga da esso; questo è quello che dicono quando affermano che ogni uomo è per natura amico di sé e che è giusto debba esser così. In verità, la causa di tutte le colpe di ogni uomo in ogni occasione nasce dallo smodato amor di se stesso. Infatti chi ama è cieco verso l’oggetto del suo amore e così giudica male del giusto, del buono e del bello, sempre crede di dover [732a] preferire a ciò che è vero ciò che lo interessa individualmente. Non bisogna essere tenero verso di sé, né verso le proprie cose, non deve esserlo chi vuole diventare uomo eminente, e piuttosto rivolga i suoi affetti a ciò che è giustizia, sia questa opera propria o anche piuttosto di altri. Da questo stesso errore è nato l’altro errore in cui tutti cadono, credere cioè sapienza la propria ignoranza; e così senza saper nulla, quasi, crediamo di saper tutto, e non [b] affidiamo agli altri quelle cose che noi non sappiamo fare e ci costringiamo a sbagliare facendole da soli. Per tutto questo ognuno deve sfuggire a questo smisurato amore di sé e inseguire sempre ciò che gli è migliore e non porre innanzi alcuna vergogna in tale occasione. Ci sono cose minori di queste, e dette più volte, ma non meno utili; bisogna che queste cose siano dette e richiamate alla nostra memoria. Come infatti quando qualche cosa si perde e scorre via sempre di necessità l’opposta affluisce e prende il suo posto, così la reminiscenza è l’affluire dell’intelli-[c] genza perduta. Bisogna infatti sempre astenersi dal troppo riso e così dal pianto eccessivo, bisogna che ogni uomo lo comandi ad ognuno: e ogni gioia estrema nascondere e ogni estremo dolore e sforzarsi di preservare la dignità dell’atteggiamento sia quando il dèmone d’ognuno sia stabile nella buona fortuna sia quando nella sventura si oppongono a certe nostre opere, come fossero queste di fronte a ostacoli altissimi e ardui dèmoni di una diversa volontà, e confidare sempre che il dio, con quei doni che egli elargisce, le sventure che cadono su di noi [d] renderà a noi più lievi da maggiori che erano, confidare che egli trasformerà in meglio la condizione che è presente e che per ciò che riguarda i beni opposti a quelle sventure sempre, con la buona ventura, tutti toccheranno in sorte a uomini siffatti: in questa speranza deve vivere ciascuno e aver buona memoria di tutto ciò che è così, non risparmiando sforzo alcuno, ma sempre ne tenga vivo il ricordo nel gioco e nel lavoro, sempre agli altri ed a se stesso e con chiarezza.
V. E così ora abbiamo parlato delle pratiche quali bi- [e] sogna adottare, e di ciascun individuo quale deve essere, e a tal proposito è stata detta quasi solo la parte che riguarda i valori superiori e divini, delle cose solo umane non abbiamo ancora trattato e lo dobbiamo fare: infatti non parliamo a dèi, ma ad uomini. E’ per natura cosa umana soprattutto godere e soffrire e desiderare ed è necessità che tutto ciò che vive ed è mortale sia semplicemente, direi, da ciò condizionato e come sospeso a ciò, con le più grandi preoccupazioni. Quindi nel fare l’elogio della vita più bella non basta dire che per la sua stessa forma esteriore è la migliore per ottenere fama onorata ma bisogna anche [733a] dire che è superiore, per chi vuole goderne senza sottrarsi a lei ancora da giovane, anche relativamente a ciò che tutti andiamo cercando, essere, sempre, più nella gioia, soffrire, sempre, di meno per tutta la vita. E che questo sarà, sarà chiaro subito e pienamente a chi ne gusta correttamente. Che cosa è la correttezza qui? Questo bisogna osservare ed afferrarlo muovendo dal nostro discorso, ormai. Bisogna osservare confrontando vita con vita, quella che è più dolce con quella più dolorosa, per vedere se, tale per noi un modo di vita, è secondo natura e contro natura invece l’altro modo. Noi vogliamo per noi il piacere, il [b] dolore noi non lo scegliamo né lo vogliamo, noi non vogliamo l’assenza dell’uno e dell’altro piuttosto che il piacere; noi vogliamo che sia allontanato da noi il dolore. Un dolore minore noi l’accettiamo quando è maggiore il piacere che lo accompagna, un piacere minore lo rifiutiamo quando è maggiore la sofferenza che lo segue; una gioia e un dolore che si eguagliano non sapremmo dire con chiarezza che li vogliamo. Tutti questi casi poi differiscono fra di loro o non differiscono, in relazione alla scelta che di ciascuno facciamo, secondo il numero, l’estensione, l’intensità, l’equivalenza. E così tutti i casi che determinano la nostra volontà in modo contrario a questi sono diversi e per [c] nulla diversi in relazione alla scelta di ciascuno. Questi rapporti essendo così secondo l’ordine che deriva dalla necessità, noi preferiamo vivere quella vita in cui ciascuna di quelle due affezioni, piacere e dolore, sia in grande frequenza ed estensione e intensità, ma vi prevalga il piacere, rifiutiamo il contrario; e così quella vita in cui piacere e dolore siano in piccola frequenza ed estensione e modesti, noi non scegliamo, ove sul piacere sia eccedente il dolore, vogliamo quella in cui sia il contrario. Di una vita poi equilibrata dove il male si compensa col bene dobbiamo pensare quello che già dicemmo prima. Anche una vita equilibrata noi la vogliamo in quanto per noi in essa pre-[d] valga qualcosa che ci è caro, la rifiutiamo in quanto prevalga ciò che ci è ostile. Occorre considerare perciò tutte le nostre condizioni di vita come se fossero per natura legate a queste determinazioni, e quindi dobbiamo vedere verso quale ci sentiamo per natura attratti di più. Ma se noi affermiamo di desiderare qualche cosa contrariamente a quanto si è detto, noi parliamo per stolta ignoranza e per inesperienza dei veri modelli di vita.
VI. Quali e quanti sono i modi del vivere in relazione ai quali si deve con consapevolezza scegliere e distinguere quello per cui si sente volontario desiderio e quello per cui [e] si sente dispiacere e rifiuto, osservarlo e proporselo come propria legge eleggendo in tal modo ciò che è caro e piacevole insieme, ciò che è bene sommo e insieme la cosa più bella, e vivere quanto è possibile a uomo con la maggior beatitudine? Diciamo che un modo è essere saggi e temperanti e un altro agire con intelligenza e poi uno agire con coraggio e infine, come un altro modo di vita, collochiamo il mantenersi in salute. A questi, che sono quattro, quattro altri sono contrari; essere stupido, vile, intemperante, malato. Chi conosce che cos’è vivere secondo temperanza, affermerà ch’esso è mite in ogni co-[734a] sa, sarà sereno il dolore e sereno il piacere, e i desideri dolci e mai folli gli amori ch’esso procura, ma la vita intemperante in tutto è estrema e i dolori ci dà violenti e violenti i godimenti, i desideri morbosamente tesi e assillati e l’amore come illimitata follia. Nella vita della temperanza sono i piaceri che prevalgono sui dolori, nell’intemperante i tormenti sulla gioia e sono più intensi e più numerosi è più frequenti. Così è quella per noi la vita [b] più piacevole, questa ‘di necessità per natura accade che sia più dolorosa e non è più ammissibile allora che chi vuol vivere piacevolmente scelga di vivere da intemperante ma, se è giusto quanto ho detto fin qui, ormai è chiaro che ogni intemperante è di necessità tale senza volerlo; infatti è per ignoranza o per debolezza o per ambedue questi mali che vive senza dignitoso equilibrio tutta la turba degli uomini. Lo stesso è da pensare a proposito del vivere nella malattia e del vivere in salute; e cioè che ci sono piaceri e sofferenze, e i piaceri superano le sofferenze nella salute, [c] le sofferenze sopraffanno i piaceri nella malattia. E la nostra volontà nella scelta della vita non è di certo affinché prevalga il dolore, ma dove il dolore è vinto, quella è vita che giudichiamo più bella e piacevole. Ora potremmo dire che il modo di vita saggio e temperante conosce meno, per numero, i moti del piacere e del dolore che l’intemperante e li prova più meschini e meno frequenti, e così l’intelligente in confronto dello stolto, e il coraggioso in confronto del vile, ma pure poiché sempre il piacere di ciascuno dei primi è maggiore di quello di ciascuno degli altri [d] e maggiore la sofferenza dei secondi rispetto ai primi, il coraggioso vince il vile e l’intelligente lo stolto. Ci sono così condizioni di vita migliori, per il piacere, di altre condizioni, migliore quella del saggio e temperante e quella del coraggioso e dell’intelligente e del sano, di quella del vile, dello stupido, dell’intemperante e dell’ammalato, e unitariamente è più piacevole la vita che si mantiene unita alla virtù nel corpo e nell’anima di quella che nel corpo e nell’anima coltiva il vizio, vita quella che anche per ogni altro valore sovrabbonda su questa, per bellezza e rettitudine, virtù e gloria, cosicché in ogni cosa e per tutto rende più [e] felice nella sua vita chi la possiede di chi è all’opposta condizione.
VII. E qui finisca l’esposizione del proemio che delle leggi abbiamo enunciato. Dopo il proemio di necessità viene, direi, il nòmos, o piuttosto, in verità, tocca a noi ora di tracciare uno schema delle leggi nella nuova costituzione. E come per un tessuto o comunque qualsiasi altro oggetto intrecciato non è possibile che siano fatti con lo stesso filo la trama e l’ordito, ma è necessario che il genere di ciò che fa l’ordito sia migliore ad abbia più valore (infatti è [735a] forte e negli avvolgimenti in certo modo resistente mentre il filo della trama è più flessibile, dotato di una giusta pieghevolezza), così io credo, per questo, che occorra in certo modo analogamente distinguere in ogni occasione gli uomini che saranno chiamati a tenere il potere negli stati da quelli che sono stati messi alla prova ma di una educazione più limitata. Perché ci sono due aspetti propri della costituzione: l’istituzione e l’attribuzione a ciascun gruppo di uomini delle diverse magistrature e le leggi attribuite a queste. Ma prima di tutto questo bisogna [b] riflettere a quanto segue. Il pastore che ha avuto il suo gregge, ogni volta che lo ha raccolto tutto, e così il bovaio e l’allevatore di cavalli e anche chiunque prende in mano ogni altro gruppo di simili animali, in nessun altro modo mai inizierà a curarlo prima di averlo epurato con il modo di purificazione conveniente a ciascun gruppo e di aver separato i sani dai malati e i puri dai bastardi. E questi malati e bastardi li manderà a qualche altro raggruppamento, gli altri prenderà in sua cura, pensando bene che riuscirebbe vana ed inutile la sua fatica di curare quei corpi ed educare quelle anime le quali, corrotte per natura e [c] cattivo allevamento, rovinano in ciascun gruppo posseduto l’insieme di quelli che sono dotati di sanità e purezza nei costumi e nei corpi, se nessuno si preoccupa di fare la selezione degli animali posseduti. La cura di ciò per gli altri animali che non siano l’uomo non deve essere grande come per l’uomo e solo come modello è cosa degna di essere collocata nel discorso, ma trattandosi dei figli degli uomini è cosa degna della più grande attenzione per il legislatore sempre indagare e suggerire ciò che a ciascuno conviene perché sia perfetta l’epurazione e ogni altra operazione. [d] Così infatti, per venire al nostro argomento, dovrebbe essere per le purificazioni dello stato; esse sono molte, e ce ne sono di più blande e ce ne sono di più rigide e queste, quante sono quelle più rigide, e migliori però, le potrebbe usare uno che fosse insieme signore assoluto e legislatore; ma un legislatore che non sia tale, tiranno, e costituisca una costituzione nuova e le sue leggi, se riuscisse ad eseguire anche la più blanda delle epurazioni, potrà accontentarsi di fare così. li metodo migliore è doloroso, come tutte [e] le siffatte medicine, esso guida alla correzione con la giustizia punitiva e arriva, in ciò, fino alla pena di morte e all’esilio; e infatti i criminali maggiori, incurabili ormai, che sono la più terribile piaga dello stato, di solito toglie esso di mezzo. Ma il metodo più blando di purificare è così per noi: tutti quei poveri che per la penuria di cibo si mostrano pronti e decisi a seguire chi li conduca all’assalto dei beni di chi li ha, essi che non li hanno, come [736a] una malattia nata in seno allo stato, vengono il più benevolmente possibile mandati via dal legislatore con una operazione di allontanamento che egli chiama ‘deduzione di una colonia’, con un eufemismo usato per loro. Ciò bisogna che faccia in qualche modo ancora in principio ogni legislatore; ma noi ci troviamo a tal proposito ora in una situazione meno penosa di quelle esaminate. Non occorre infatti che noi ora ci diamo da fare né per dedurre una colonia né per una difficile scelta epuratrice, e poiché noi ci troviamo ad avere un’emigrazione che si può paragonare a corsi d’acqua confluenti in un unico lago e provenienti da molte fonti e da molti torrenti non dobbiamo [b] far altro che stare attenti e vigilare perché l’acqua che confluisce sia il più possibile pura, facendola defluire da una parte, deviandola e piegandola da un’altra. E c’è fatica, vedete, e c’è pericolo sempre nel fondare uno stato. Ma poiché noi tracciamo lo stato solo con le parole ora, e non lo mettiamo in atto, poniamo per ipotesi che sia compiuta la raccolta e avvenuta secondo i nostri desideri la sua purificazione; impediremo che vengano in esso tutti i cattivi, [c] tutti quelli che ci sono fra gli uomini che intraprendono a convenire cittadini nel nuovo stato, dopo averli messi alla prova del tutto persuasivamente e in tempo sufficiente, e portiamoci i buoni, e cerchiamo di essere con loro, quanto più possiamo, benevoli e cortesi.
VIII. Ma non ci sfugga della fortuna che tocca a noi, come toccò una volta agli Eraclidi quando emigrarono, e l’abbiamo detto, e cioè del fatto che sfuggirono alle discordie terribili e pericolose che sorgono con la distribuzione delle terre e la rescissione dei debiti e le altre ripartizioni. E quando uno stato già vecchio deve legiferare su tali questioni nulla può lasciare della situazione precedente [d] illimitato né per altro può modificarla in qualsiasi modo, e allora null’altro resta che, per così dire, la preghiera e solo una lieve riforma attuata con grandi precauzioni a poco a poco in un lungo tempo, questa: una riforma per cui gli innovatori ogni volta trovatisi a possedere enormi territori, creditori anche di un grande numero di debitori e volendo in qualche modo esser buoni e venire incontro alle difficoltà [e] di questi ultimi, in parte rimettono i debiti, in parte distribuiscono le ricchezze e in qualche modo riescono ad attenersi alla giusta misura e a ritenere povertà non la diminuzione dell’avere, ma l’accrescimento del desiderio insaziabile. Questa soluzione viene ad essere il massimo principio di salvezza per uno stato, e su questo come su incrollabile base è possibile edificare qualsiasi ordine politico che venga successivamente edificato in modo conveniente ad una simile fondazione dello stato. Ma se invece [737a] questa riforma sarà viziata, allora, poi, sarà difficile l’azione politica in qualsiasi stato, la qual cosa noi riusciamo a sfuggire, come affermiamo. D’altra parte è stato meglio aver detto dove mai avremmo potuto trovarne la via di uscita se anche non ne fossimo sfuggiti. E diciamo espressamente ora che via d’uscita è rispettare la giustizia senza ardere dalla cupidigia di possedere e non ce n’è altra fuori di questo mezzo, né larga né stretta. Ciò valga per noi ora come sostegno dello stato. Bisogna infatti che comunque [b] l’acquisto dei patrimoni non sia mai causa di liti reciproche, o che chiunque abbia anche un minimo di intelletto non proceda volontariamente in nuovi affari per procacciare quelli fino a che per i contraenti ci siano, ancora pendenti, reciproci vecchi motivi di accusa. Quanto agli uomini, come noi ora, cui la divinità diede la sorte di popolare un nuovo stato liberi ancora da ogni inimicizia reciproca, diventare l’un l’altro causa di odio per la distribuzione delle terre e l’assegnazione delle case sarebbe disumana igno-[c] ranza e completa malvagità. Quale sarà il modo per fare la giusta ripartizione? Prima di tutto bisogna stabilire il numero complessivo dei cittadini quanto deve essere grande, e poi bisogna determinare di comune accordo la loro distribuzione in classi, in quante parti, e quanto numerose, dobbiamo dividerli. Su questa base si distribuiranno la terra e le abitazioni con la maggiore equità possibile. La massa complessiva dei cittadini non si potrebbe delimitare adeguatamente e non in rapporto al territorio e agli stati [d] della zona circostante; il territorio sarà tanto quanto è in grado di alimentare un certo numero di cittadini che osservano un medio tenore di vita, non c’è affatto bisogno di averne di più; il numero dei cittadini d’altra parte deve essere tale da poter respingere le aggressioni dei vicini e da poter portare loro un certo aiuto, se a loro volta aggrediti, senza totale penuria di risorse. Noi quindi potremo determinare tutto ciò non solo di fatto ma anche col solo discorso soltanto dopo aver presa conoscenza della regione e dei vicini. Ed ora, nei limiti di una figura, e come per uno schema, diamo compimento al nostro discorso e parliamo [e] della legislazione. Al fine di scegliere un numero conveniente sia fissato in 5040 il numero dei cittadini, che avranno in consegna altrettante parti del territorio da coltivare e da difendere. Si dividano la terra e le case in altrettante parti, in modo che ne risulti una distribuzione a coppie, formate da un uomo e da un lotto. Si cominci col dividere subito in due parti il numero complessivo e poi lo stesso in tre. Possiamo infatti, per la sua natura, dividerlo esattamente anche in quattro, cinque e così di seguito [738a] fino al dieci. A proposito dei numeri è necessario che ogni legislatore abbia pensato così, e cioè quale numero e di qual tipo converrebbe di più agli stati in generale. Diciamo che questo numero è quello che ha un maggior numero di divisori che siano per quanto è possibile in progressione aritmetica fra di loro. Il numero in generale è divisibile a tutti i fini da tutti i numeri; il numero 5040 non può essere diviso per le necessità della guerra, e, in tutto ciò che è della pace, per tutti i patti e le società, e per le con-[b] tribuzioni e le distribuzioni, da più di 59 divisori di cui i numeri dall’uno al dieci sono in progressione aritmetica.
IX. Per quanto sopra bisogna che quelli cui la legge ordinerà di prendersene cura, anche nel riposo afferrino saldamente tali princìpi - quello che ho detto non può essere che così - ma bisogna ora che a chi fonda uno stato tali cose siano dette per queste ragioni che seguono. Sia che egli edifichi un nuovo stato dalla prima pietra, sia che, antico, lo ricostruisca sulle sue rovine, per ciò che riguarda gli dèi e i templi degli dèi, che a ciascuna divinità devono essere elevati e consacrati nello stato, e i nomi degli dèi o dei dèmoni, con i quali devono essere denominati, nessuno che non abbia accecata la mente, nes-[c] suno proverà a rimuovere tutto ciò di cui gli oracoli di Delfo o di Dodona o di Ammone o certe leggende antiche ci hanno convinto, persuadendo uomini comunque, essendo sorte manifestazioni prodigiose o la cosiddetta ispirazione divina; queste antiche voci che persuasero appunto ad istituire sacrifici insieme a cerimonie, la cui origine fu nella stessa regione o che furono importati dai Tirreni e dai Ciprioti o da qualsiasi altro luogo, con siffatti racconti consacrarono oracoli e statue e altari e templi e ognuno di questi [d] luoghi fu recinto di recinti sacri. Nessuna di queste cose, neppure la più piccola, deve toccare il legislatore, ma deve assegnare a ciascuna delle parti dello stato un dio o un dèmone o un eroe e dividendo la terra dare ad esse per prime scelti luoghi e separati e tutto ciò che è necessario al culto, affinché in giorni stabiliti vi avvengano riunioni degli abitanti delle singole parti dello stato che forniscano per ogni loro bisogno aiuti e facilitazioni e nelle cerimonie sacrificali si affratellino e si sentano membri di una stessa famiglia e tali si conoscano; e infatti non c’è [e] maggior fortuna per uno stato di quando i suoi cittadini si conoscono fra di loro. Dove non la luce, ma l’ombra regna fra gli uni e gli altri, fra la vita degli uni e la vita degli altri, non è possibile che il cittadino ottenga rettamente l’onore di cui è degno e le cariche e che gli sia resa la giusta giustizia; ogni uomo deve in ogni stato di fronte ad ogni uomo tendere a questo, affinché a nessuno si mostri mai sotto false sembianze, ma sia egli semplice sempre e sincero e [739a] nessun altro lo inganni essendo egli tale. A questo punto, dopo di ciò, noi facciamo una deviazione dalla costruzione delle leggi e, inconsueta, forse potrebbe far meravigliare dapprima l’uditore - facciamo come se spostassimo dalla sacra linea di sicurezza le pedine nel gioco della pettéia ma a chi rifletterà e valuterà bene in base all’esperienza apparirà che noi stiamo creando uno stato di secondo grado dal punto di vista della perfezione. Forse qualcuno non vorrà accettarlo perché sconveniente al costume un legislatore che non sia tiranno, ma la cosa più giusta è questa, esporre prima la costituzione migliore e la seconda subito dopo di questa, e poi la terza, ed esposte lasciarne la scelta [b] a ciascuno che abbia la responsabilità di una tale opera. Facciamo così secondo questo discorso anche noi ora, esponiamo quella che è la costituzione politica superiore per virtù alle altre, e poi la seconda e poi la terza e lasciamo scegliere a Clinia oggi, e a qualche altro poi sempre, se ci sarà qualche altro che fattosi innanzi a questa scelta voglia prendere per sé secondo il suo costume di vita ciò che nelle leggi della sua patria gli è caro.
X. Dico quindi che lo stato che tutti precede e la forma [c] di costituzione e l’ordinamento legislativo più perfetti si trovano là dove in tutta la vita dello stato si realizzi al massimo grado possibile quel detto antico; si dice cioè che in verità le cose degli amici sono comuni. Quanto ho detto vale sia nel caso che ciò già si realizzi in qualche luogo ora, sia per il futuro, - comuni cioè le donne, i figli comuni e comune ogni avere - in tale caso con ogni mezzo tutto ciò che si definisce privato viene strappato alla vita dell’uomo, d’ogni parte, per quanto è possibile ci si industria di collettivizzare in qualche modo anche ciò che la natura ha fatto particolare proprietà, e, per esempio, che gli occhi e le orecchie e le mani abbiano la sensazione di vedere insieme, udire insieme, agire insieme e concorde-[d] mente tutti insieme, quanto più possono, diano l’approvazione o il biasimo come un solo uomo in quanto delle stesse cose sappiano la gioia o soffrano il dolore; e per quelle leggi che danno così la massima unità allo stato quanto più possono, nessuno darà mai più giusta e migliore definizione della loro superiorità per virtù ove dia altra definizione oltre a questa. In siffatto stato, ove si sia stabilito, in qualche luogo di esso, un molteplice gruppo sia di dèi, sia di figli di dèi, abitano certo felici seguendo nella loro vita queste re-[e] gole. Non occorre perciò osservare altrove un modello di costituzione, ma attenersi a questo e cercare di realizzare più che sia possibile uno che ad esso somigli. Lo stato cui ora abbiamo messo mano sarà il più prossimo in qualche modo a questa vita immortale, ed è uno che appartiene al secondo grado. Il terzo verrà dopo da noi esposto compiutamente, se il dio vorrà; ma ora che parliamo del secondo, diciamo quale è e come potrebbe venir ad essere tale? Prima di tutto si dividano fra loro i cittadini le terre e le [740a] case, e non lavorino la terra in comune: questo è già stato detto superiore all’origine e all’allevamento dei nostri contemporanei e alla loro educazione; dividano dunque fra loro pensando però così in qualche modo, e cioè che ciascuno cui è toccata questa parte deve ritenere che quella è proprietà comune di tutto lo stato, e sua patria essendo la terra egli la deve venerare e curare più che i figli la madre, terra che è dea e per questo signora di chi è uomo mortale, e pensi allo stesso modo degli dèi e dei dèmoni [b] di quella regione. E perché per sempre duri quest’ordine così com’è, è inoltre necessario pensare che quanti sono focolari costituiti e distribuiti ora da noi, tanti essi devono essere sempre e non mai crescere di una unità né calare di una. Ed è così che ogni stato conserverà solidamente questa struttura: ogni cittadino che abbia avuto un lotto lasci sempre erede della sua porzione uno solo dei suoi figli, quello che gli è più caro; questo gli succederà anche [c] nella cura degli dèi, della stirpe, dello stato e dei vivi e di quanti in quel tempo abbiano già finito la loro vita; quanto agli altri figli, quelli che ne hanno in numero maggiore di uno, maritino secondo le leggi che stabiliremo le femmine, e distribuiscano i maschi come figli adottivi ai cittadini senza discendenza, specie sulla base di un ricambio di favore; quando poi manchino a qualcuno i favori da ricambiare oppure ci sia un numero di discendenti di ciascuno, maschi o femmine, che ecceda questa soluzione, o anche se al contrario siano i figli troppo pochi [d] per scarsità di nascite, allora l’autorità che massima per potere e stima avremo preposto a tutte queste cose, studiando il da farsi per il caso dei troppi figli o dei troppo pochi, fornisca il mezzo più adatto perché i 5040 patrimoni familiari rimangano sempre così esattamente. I mezzi sono molti; e infatti si può proibire di prolificare ulteriormente a chi è troppo fecondo, e per il caso opposto ci sono modi di curare e di promuovere un incremento dei nati mediante onori e biasimi, ed esortazioni date dai vecchi ai giovani con discorsi per incitarli; tutto ciò accadendo può [e] farci ottenere ciò che diciamo. E finalmente se la difficoltà di mantenere immutato il numero delle 5040 famiglie sarà gravissima, se sorgerà afflusso incontenibile di nostri cittadini per l’amore reciproco dei coabitatori, trovandoci in tale difficoltà insuperabile, resta sempre, direi, l’antico rimedio, di cui spesso si è parlato, la deduzione delle colonie; amici che si staccano da comuni amicizie, scelti secondo la ravvisata opportunità. Ma se avviene il contrario, se mai [741a] si abbatterà una larga ondata recante un diluvio di malattie, o la strage che reca la guerra, e i cittadini scendano molto al di sotto del numero stabilito per i vuoti avvenuti così, non bisogna volontariamente introdurre nello stato cittadini di dubbia educazione. Nemmeno dio, si dice, può piegare la necessità.
XI. Ed ora poniamo che il nostro stesso discorso ci esorti dicendo così: "Voi cittadini che siete i migliori degli uomini, non tralasciate mai di onorare secondo natura la somiglianza e l’uguaglianza, attenendovi a ciò che è identico, a ciò che è stabilito di comune accordo; valga ciò [b] per il numero e per ogni capacità di nobili opere. Ed ora come prima cosa fate che sia conservato immutato quel numero enunciato sopra, per tutto il tempo della vostra esistenza, e poi non vogliate far torto all’ammontare e alle dimensioni dei patrimoni quali avete ricevuto in parte all’inizio e che è giusta misura, fra di voi comperando e vendendo le vostre cose (infatti, così, la sorte che vi ha assegnato la terra non vi sarebbe più alleata, cioè il dio, e con lui il legislatore) - ed è qui che per la prima volta la legge comanda a chi disobbedisce, avendo prima su ciò già ordinato che chi vuole può o no partecipare alla di-[c] stribuzione per sorteggio della terra, ora comanda che, la terra essendo prima di tutto cosa sacra a tutti gli dèi e poi i sacerdoti e le sacerdotesse dovendo fare dei voti nei primi, nei secondi e nei terzi sacrifici, il compratore e il venditore delle case ricevute in sorte o della terra subisca pene adeguate a ciò. Questi sacerdoti riporranno nei templi tavolette di cipresso scritte da loro, memorie redatte per i giorni futuri, e inoltre anche affideranno la custodia di queste norme, affinché siano realizzate, a quella [d] magistratura che sembri avere la vista più acuta, perché le trasgressioni che ne avvengano, ogni volta che ciò accade, non sfuggano loro mai, ma punisca essa chi disubbidisce alla legge e al dio. Quanto grande bene valga questa disciplina a tutti gli stati che si sottomettono con convinzione, bene cui si sia aggiunto un ordinamento coerente a queste premesse, non lo potrà mai sapere nessuno che sia malvagio, dice così il proverbio antico, ma solo chi ne ha fatto espe-[e] rienza e ha costume di onestà. Non c’è affatto posto in tale ordinamento per gli affari e le speculazioni, anzi segue questo ordinamento che nessuno debba né possa mercanteggiare in nessuna speculazione degna di schiavi in quanto un mestiere così vergognoso, tale vien detto, travolge il costume dei liberi, né l’ordinamento ammette affatto l’usare di simile mezzo per raccoglierne denaro.
XII. Inoltre a tutte queste norme segue direttamente [742a] un’altra legge e cioè che neppure è lecito a nessun cittadino privato avere affatto oro e argento, ma solo la moneta utile allo scambio giornaliero, quello che è necessario, direi, per gli artigiani e per pagare a tutti i salariati, di cui v’ha bisogno, il salario per simili cose, cioè agli schiavi ed agli stranieri. Perciò diciamo che è necessario posseggano una moneta che abbia solo valore interno e sia nulla per tutti gli altri popoli. E se qualcuno vorrà pensare alla possibilità di una moneta comune a tutta la Grecia, per le spedizioni militari e per ogni sorta di viaggi presso popoli stranieri, come è per le ambascerie per esempio o per qualche altra [b] ambasciata necessaria allo stato, quando occorre inviare qualche cittadino fuori dai suoi confini, per questi soli bisogni è necessario che lo stato ogni volta abbia acquistato moneta a corso valido in tutta la Grecia. E se un privato avrà bisogno di espatriare faccia il suo viaggio solo col permesso dei magistrati, e se tornerà a casa da qualche luogo con un residuo di denaro straniero lo versi allo stato cambiandolo con un equivalente in moneta locale. A chi lo trattiene e viene scoperto sia confiscato il denaro, e chi è a conoscenza del fatto e non lo denuncia sia condannato alla maledizione e al disprezzo insieme al colpevole e [c] inoltre sia come lui multato di una somma non inferiore al denaro straniero importato. Chi prende moglie o dà in moglie la figlia non deve rispettivamente ricevere né dare nessun tipo di dote assolutamente; nessuno poi può depositare denaro presso chi non è di sua fiducia, né darlo in prestito per interesse; la legge non obbliga affatto chi ha ricevuto il prestito a pagare l’interesse o a restituire il capitale. Queste usanze sono quanto c’è di meglio per uno stato da osservare come costume, e uno le osserverà [d] tali e le giudicherà correttamente riportandole sempre ai princìpi ed alle intenzioni sopra esposte. L’intenzione del politico che ha intelletto, diciamo, non è ciò che direbbero i più quando affermino che il bravo legislatore deve voler quanto più è possibile vasto lo stato in funzione del quale dà le sue buone leggi, e ricco quanto più è possibile di oro e d’argento posseduti, signore per terre e per mari del maggior numero di uomini, e poi aggiungerebbero anche che per legiferare bene si deve volere lo stato virtuoso [e] e felice al massimo grado. Di tutto ciò se una parte è possibile che si realizzi, non lo è l’altra. E l’ordinatore dovrebbe voler realizzare ciò che può realizzare; ciò che non si può né dovrebbe volere, con atti vani di volontà, né intraprendere. Infatti è necessario, direi, che chi è felice sia anche uomo retto - dovrebbe volere questo il legislatore - ma è impossibile essere insieme molto ricco ed onesto, è impossibile che lo siano quelli almeno che i molti scelgono come ricchi. Si dicono in genere ricchi quei pochi uomini che hanno acquisito per sé proprietà di alto valore in denaro, ciò che potrebbe acquisire anche [743a] un disonesto. Se le cose stanno così, non potrei mai convenire coi più che il ricco diventi veramente felice anche se non sia retto; ed è impossibile che chi è tale in alto grado sia pure notevolmente ricco. "Perché?", si potrebbe forse domandare. "Perché, diremmo, la rendita dell’attività giusta e di quella ingiusta è più che doppia di quella solo giusta, e le spese di chi non ama spendere né per il bene né per il male sono minori della metà di quelle buone di chi ama distribuire la sua ricchezza in [b] opere buone; e così non potrà darsi mai che diventi più ricco chi agisce in via opposta a chi ha doppi possessi e metà spese. Di questi il primo è uomo retto, l’altro può non essere malvagio se è economo, ma talvolta è al massimo grado cattivo; comunque retto ed onesto mai, come ora si è detto. Chi infatti acquista la sua ricchezza sia con mezzi onesti che disonesti, e non spende né giustamente, né ingiustamente, quando sia anche economo, resterà anche ricco, ma chi è del tutto cattivo, essendo per lo più incapace di limitarsi, è povero del tutto. Chi invece spende [c] le sue sostanze per opere buone e le acquista solo onestamente di solito né potrebbe diventare facilmente molto ricco né mai del tutto povero. Così è vero quanto abbiamo detto col nostro discorso, che non sono uomini retti quelli ricchissimi; se poi non sono uomini retti non sono nemmeno felici".
XIII. Ora, la premessa di tutta la nostra legislazione guardava a questo: cercare che i cittadini raggiungano il massimo grado di felicità e di concordia reciproca. E i cittadini non potranno essere mai di certo concordi dove [d] sono molte le cause in tribunale dell’uno contro l’altro, e molte le ingiustizie commesse a carico di altri, lo saranno invece dove quelle e queste saranno pochissime e di minima importanza, il più possibile. Noi diciamo quindi che nello stato non ci deve essere oro né argento, né grosse speculazioni finanziarie realizzate per vile mestiere e con l’usura e nemmeno turpi guadagni nell’allevamento del bestiame, ma soltanto i doni che offre la coltivazione della terra e questi in misura da non costringere chi li raccoglie a trascurare il fine naturale di ogni ricchezza: parlo dell’anima e del corpo che senza la ginnastica e il resto dell’educa-[e] zione non possono diventare degni di nessuna stima. E’ per questa ragione che abbiamo ripetuto più volte che bisogna lasciare all’ultimo posto per l’onore meritato la cura della ricchezza; essendo tre sole le cose fra tutte per cui ogni uomo si dà cura, il pensiero della ricchezza se vuol esser al giusto posto dev’essere al terzo e ultimo, in mezzo la cura del corpo e avanti a tutto l’attenzione rivolta all’anima. E se gli onori saranno distribuiti così nella costituzione che veniamo disegnando, potremmo dire che sia stata ben organizzata con le leggi. Se invece una delle leggi prestabilite per essa mostrerà di preferire, [744a] onorando di più, nello stato la salute del corpo alla saggia temperanza o la ricchezza alla salute e alla saggia temperanza, evidentemente sarà mal posta. Bisogna dunque che il legislatore di frequente si chieda: "Che cosa mi sono proposto di fare?" e "Mi accade di far questo o dal mio obiettivo mi discosto?". Forse così potrà venire a capo della legislazione sgravando gli altri, in nessun altro modo mai. Così dunque alle condizioni qui sopra esposte, diciamo, possegga ognuno la parte di terra e le case che la sorte gli [b] ha assegnato. Sarebbe veramente bello che ciascuno venisse nella colonia avendo uguali anche tutte le altre cose che porta con sé; ma dato che ciò non è possibile e ci sarà chi giungerà possedendo più roba e chi con meno, per molte ragioni e per avere l’eguaglianza di molte opportunità nello stato, è necessario che ci siano classi censuarie diverse, affinché le cariche, le contribuzioni e le distribuzioni che sono regolate secondo il grado di onore proprio del valore di ciascuno non siano attribuite solo per la virtù degli avi o propria, oppure per la forza del corpo e la sua [c] perfezione di forme, ma anche secondo l’impiego della, ricchezza e la povertà, in modo tale però che ricevendo i cittadini gli onori e le cariche sulla base di una proporzione diversa siano però a questa misura il più possibile commisurati e non ne sorgano dissensi fra loro. Bisogna per questo suddividere i cittadini in quattro classi, sulla base dell’entità del patrimonio, chiamandoli ‘primi’, ‘secondi’, ‘terzi’ e ‘quarti’ o con qualche altra denominazione; questo non solo nel caso che rimangano nella stessa classe, ma anche se si fanno più ricchi da poveri o più poveri da ricchi e così passino ciascuno nella classe [d] adeguata alla nuova condizione di ciascuno. Su questa premessa io porrei come conseguenza questo schema di legge. Diciamo infatti che nello stato che si preserverà in qualche modo dalla più grave malattia, e bisognerebbe più correttamente chiamare questa ‘discordia’ piuttosto che ‘rivolta’, non deve inerire una troppo dura miseria di una parte dei suoi cittadini, né l’eccessiva ricchezza, poiché l’una e l’altra generano la condizione opposta. E ora il legislatore deve enunciare un limite sia all’una che al-[e] l’altra di queste. Sia il limite della povertà il censo che risulta dalla prima distribuzione sorteggiata, esso deve rimanere fisso e nessun membro del governo e parimenti nessuno degli altri che ambisca primeggiare per virtù permetterà stando inoperoso a guardare, che per qualcuno mai diminuisca. Fissata questa come unità di misura il legislatore permetterà che se ne possegga il doppio, il triplo; fino al quadruplo. E chi giungerà à possedere di più di questo limite per aver trovato beni di fortuna, o perché gli siano stati donati da chiunque, li abbia guadagnati o [745a] ne sia venuto comunque in possesso per qualche altro caso, beni che siano oltre la misura stabilita, avrà buona fama e non sarà soggetto a pena se rimetterà l’eccedenza allo stato e agli dèi che reggono lo stato; ma chi non obbedisce a questa legge, sia denunciato da chi vuole con la condizione di ricevere per sé la metà dell’eccedenza, e pagherà lo stesso colpevole, dal suo avere; un’altra parte uguale al totale dell’illecito acquisto; l’altra metà di questa va agli dèi. Ogni acquisto di patrimonio oltre la misura base della distribuzione sorteggiata per tutti sia trascritta in pubblici registri dati in custodia ai magistrati, quelli ai quali l’avrà prescritto la legge, perché tutte le questioni giudiziarie [b] relative alla proprietà delle ricchezze siano, così, facili e del tutto chiare.
XIV. Quanto a ciò che segue è da dire prima di tutto che la città deve essere edificata il più possibile al centro del suo territorio dopo che sia stato scelto un luogo situato in modo da avere fra tutte le sue condizioni quante sono utili a una città, cosa non affatto difficile da pensare e da formulare. Bisogna poi che il legislatore la divida in dodici settori dopo aver fissato il luogo sacro di Hestia prima di tutto, di Zeus e di Atena, che egli chiamerà ‘acropoli’ e circonderà di mura cui deve far capo la divisione delle [c] dodici parti della città stessa e di tutta la regione. Le dodici parti devono essere equivalenti, nel senso che devono essere più piccole quelle che hanno il suolo più fertile, più grandi quelle che lo hanno meno fertile. Deve fare quindi la divisione di 5040 porzioni del territorio, e ognuna suddividerla in due, e distribuire a sorteggio quindi queste ultime sezioni a due a due, in modo che ogni assegnazione sia composta di una sezione vicina alla città e di una lontana. La sezione più vicina alla città accoppiata a quella più prossima ai confini estremi for-[d] mi un lotto, la seconda dalla città con la seconda dai confini e così via tutte le altre. Anche nelle sezioni divise in due bisogna usare l’espediente ora esposto relativamente alla fertilità o meno del suolo pareggiandole con la maggiore o minore superficie assegnata. Deve dividere poi anche i cittadini maschi in dodici parti, ordinando anche il resto dei beni in dodici parti più eque possibili dopo aver fatto un inventario di tutti questi. Dedicati quindi i dodici lotti di territorio ai dodici dèi, si deve dare, traendola a sorte, a cia-[e] scuna parte, il nome di ciascun dio e consacrargliela; e chiamare ciascuna ‘tribù’. Allo stesso modo in cui si divideva il resto del territorio, si deve suddividere la città capitale nelle dodici parti e ciascuna avrà due case, una vicino al centro, una alla periferia estrema. Qui finirà la sistemazione delle fondamenta dello stato.
XV. Noi dobbiamo pensare però con ogni mezzo a una cosa come questa, e cioè che tutto quanto è stato ora detto non potrebbe mai trovare in pratica siffatte opportunità in [746a] modo che ogni cosa accada nelle stesse proporzioni: i cittadini che non siano ostili a siffatta convivenza, anzi rassegnati a sopportare di avere per tutta la vita limiti certi e modesti alla ricchezza e le generazioni dei figli secondo le norme formulate per ognuno, privi di oro e del resto che proibirà in aggiunta il legislatore come è evidente dai discorsi di prima e, inoltre, come ha detto, le proporzioni della regione e della città, e le abitazioni tutte in cerchio - mi pare che egli racconti quasi un sogno, oppure modelli uno stato e dei cittadini come nella cera. E questa [b] non è in certo modo una debole obiezione, ma bisogna che chi così obietta riprenda con se stesso la questione in questo modo. Parla ancora così a noi il legislatore: "Non dovete ritenere, amici, che neppure a me sfugga quello che viene detto ora in questo discorso, che cioè in qualche modo in esso vengono esposte cose vere; ma credo infatti che per ciascuna delle opere progettate per il futuro sia quanto mai giusto questo, e cioè che colui che mostra il modello secondo cui l’opera intrapresa deve compiersi non trascuri nulla di ciò che è giusto e vero al massimo grado; se poi gli sopravviene l’impossibilità che [c] se ne realizzi qualche cosa è giusto che la lasci da parte e non la faccia e che escogiti la via perché sia realizzata la cosa che fra le restanti è per natura la più vicina a quella e la più prossima per genere a quella che conviene di fare. Si permetterà così al legislatore di dar compimento al suo disegno, e quando ciò sia avvenuto, allora si dovrà ormai fare l’esame insieme a lui chiedendosi ciò che giova delle cose dette e ciò che è stato formulato di troppo arduo nella legislazione. Deve infatti, direi, da ogni punto di vista [d] compiere ciò che gli pare in accordo con il suo pensiero anche l’artigiano che sarà degno della menzione più modesta".
XVI. Ed ora, riconosciuta opportuna la divisione in dodici parti dello stato, bisogna mettere tutto il nostro zelo a vedere in qual modo, con chiarezza, le dodici parti che ammettono molte divisioni di ciò che contengono e quelle parti che conseguono a queste e quelle che da queste ultime si generano, fino alle 5040 porzioni - di qui le fratrie, i demi, i villaggi e inoltre l’ordinamento delle milizie in battaglia e in marcia e ancora il sistema monetario e quello [e] metrico per i solidi e i liquidi, e i pesi - in qual modo tutte queste cose la legge deve determinare con proporzione e armonia di rapporti reciproci. Non si deve inoltre neppure aver paura temendo di essere accusati di quella che potrebbe essere ritenuta pedanteria, se si dispone che, di tutti gli utensili posseduti dai cittadini, nessuno venga permesso diverso rispetto alle dimensioni fissate e ritenendo, con un discorso comune a tutti questi casi, che [747a] sono utili universalmente le divisioni e le variazioni dei numeri, per quante volte essi possono variare in se stessi e per quante sono le loro modificazioni nelle lunghezze e nelle profondità ed anche nei suoni, nei movimenti rettilinei all’insù ed all’ingiù e nei movimenti circolari. Guardando a tutto ciò il legislatore deve ordinare a tutti i cittadini di non scostarsi per quanto sia possibile da questo ordi-[b] namento. Infatti per l’economia domestica, per la costituzione, per ogni arte d’uomo nessuna disciplina che si apprenda dai fanciulli ha tanta potenza come lo studio delle matematiche, nemmeno una. E la cosa più grande è che esse svegliano chi è tardo per negligenza e ottuso per natura, lo fanno pronto ad apprendere e di buona memoria e acuto, lo fanno progredire per l’arte divina più che non possa la sua natura. Se poi con altre leggi e pratiche un uomo riesce a strappare dalle anime degli uomini, che si accin-[c] gono a studiare questa scienza in modo sufficiente e proficuo, illiberalità e cupidigia, allora tutte queste cose ch’essa insegna potrebbero diventare ottime come strumenti di educazione e appropriata. Altrimenti senza rendersene conto si realizzerà quella che si dice ‘birbanteria’ negli allievi invece della sapienza, quali ora possiamo vedere gli Egiziani e i Fenici e molti altri popoli in ciò formati dalla illiberalità delle altre loro usuali occupazioni e possessi, ridotti così o da un legislatore incapace sorto fra loro o da sventurate [d] circostanze cadute su loro o da altra siffatta condizione naturale. Perché, Megillo e Clinia, non ci sfugga neppure questo a proposito dei luoghi, sì da pensare cioè che non ci sono luoghi più efficaci di altri per la generazione di uomini migliori o peggiori, e a queste influenze le leggi non devono contraddire. E gli uni sono avversi o anche propizi per ogni sorta di venti e per l’azione del sole, altri per le acque, altri ancora per lo stesso alimento fornito dalla terra, [e] il quale non solo dà cose migliori o peggiori ai corpi, ma non è meno valido a portare tutte le simili affezioni nelle anime. Fra tutti questi luoghi primeggeranno di gran lunga quei luoghi del territorio in cui spira un certo soffio divino e sono dimora assegnata ai dèmoni, i quali possono accogliere favorevolmente, o anche in modo ostile, i loro sempre nuovi abitatori. Il legislatore di senno che avrà studiato queste condizioni, per quanto è dato farlo agli uomini per simili cose, cercherà di dare su questa base le leggi a quelli. Devi farlo anche tu, Clinia. Deve volgersi prima di tutto a ciò chi vuol colonizzare un territorio. CLIN. Ma tu, ospite d’Atene, dici del tutto bene ed io devo far così.
VI
[751a] I. ATEN. Dopo tutto questo che si è detto fin qui mi pare che ora noi dovremmo istituire per il tuo stato le magistrature. CLIN. E’ così. ATEN. Nell’ordinamento di uno stato ci sono questi due aspetti; primo, l’istituzione delle magistrature e la determinazione dei magistrati, quante cioè devono essere per numero e in qual modo istituite, poi l’attribuzione delle leggi alle singole magistrature, di [b] tutte quelle leggi che sono convenienti a ciascuna, quante e quali sono queste. Ma sostiamo un poco prima della scelta, dobbiamo dire un discorso che tornerà molto conveniente aver detto a questo proposito. CLIN. Quale è questo? ATEN. Ecco. E’ in qualche modo chiaro ad ognuno che, pur essendo di grande valore l’opera legislativa, se uno stato ben ordinato prepone alla esecuzione delle sue ottime leggi magistrati incapaci, non solo non si trae nessun vantaggio dall’alto livello delle leggi stesse, non solo ne [c] deriverebbe un enorme riso, ma danni e mali di gran lunga i più gravi dovrebbe, direi, soffrirne in conseguenza lo stato. CLIN. Come negarlo? ATEN. E allora dobbiamo pensare, amico nostro, che è proprio tutto ciò che sta per accadere nella nuova costituzione, nel tuo stato. Comprendi anche tu che anzitutto perché uno si avvii degnamente al pubblico potere occorre che lui stesso e la stirpe di ciascuno di quelli come lui, dall’infanzia e fino all’età dell’elezione, abbiano offerto una sufficiente prova, e bisogna pure che coloro che dovranno fare la scelta siano [d] stati allevati nella consuetudine delle leggi e siano ben educati perché possano accogliere e respingere secondo giustizia, quando essi accolgono o respingono, coloro che siano degni dell’uno o dell’altro giudizio. E così gli uomini da poco riuniti, sconosciuti fra loro e per di più ignari di educazione, come potrebbero eleggere i magistrati senza commettere riprovevoli errori? CLIN. Non è possibile, direi. ATEN. Si dice però che la gara non ammette scusa. E così ora noi dobbiamo far questo, tu ed io: tu [e] perché ti sei impegnato col popolo dei Cretesi di dedicarti a fondare il nuovo stato, insieme agli altri nove, come ora dici, io ad aiutarti seguendo il discorso imma-[752a] ginarlo che stiamo facendo ora. Non vorrei di certo lasciare senza testa il discorso favoloso che ora sto dicendo, infatti vagando esso in ogni luogo, e rimanendo tale, apparirebbe privo di forma. CLIN. Hai detto benissimo, ospite. ATEN. Non solo ho detto ma voglio anche fare così, nei limiti delle mie forze. CLIN. Benissimo. Facciamo allora come diciamo. ATEN. Lo faremo se vorrà così il dio e se di tanto riusciremo a dominare la nostra [b] stanchezza di vecchi. CLIN. E’ verosimile che il dio lo voglia. ATEN. E’ infatti verosimile e seguiamolo quindi e riflettiamo anche su ciò. CLIN. Su che cosa? ATEN. Sul fatto che noi avremo fondato in questo tempo lo stato proprio in modo coraggioso ed audace. CLIN. Ma a che cosa guardi e dove soprattutto sì che hai potuto dire questo, ora? ATEN. Al fatto che noi diamo leggi con facilità arrischiata a uomini che non ne hanno esperienza, senza temere che le leggi ora poste mai possano accogliere. Quanto ciò sia vero ad ognuno è chiaro, Clinia, anche a uno sciocco, [c] che cioè in principio non sarà con facilità che anche una sola di esse accetteranno, ma solo se sapremo resistere, direi, tanto tempo finché i bambini degustate le leggi e cresciutivi si siano sufficientemente assuefatti al loro spirito e partecipino alle elezioni comuni delle magistrature di tutto lo stato; avvenuto tutto questo che diciamo, se in qualche modo e con qualche mezzo riuscirà bene, io credo che anche dopo il tempo che era allora presente avrà grande sicurezza di non dissolversi uno stato così ben [d] avviato. CLIN. E’ verosimile. ATEN. Vediamo quindi se procedendo così possiamo trovare una via buona per arrivarci. Io dico, Clinia, che i Cnossii più di tutti gli altri Cretesi non devono badare alla terra che ora colonizzai, solo come per scaricarsi di un dovere sia pure verso gli dèi, ma impegnarsi seriamente con tutte le forze per istituire le magistrature supreme della colonia quanto è più possibile durevoli e buone. Per le altre l’opera è minore, [e] ma è assolutamente necessario scegliere con tutta la cura, per primi, i custodi delle leggi. CLIN. Quale è dunque la strada che troviamo per attingere questo fine e quali sono le ragioni di questa strada? ATEN. Questa. I Cnossii, o figli di Creta, poiché sono, io affermo, fra molti stati quelli che hanno una più antica tradizione politica, bisogna che insieme agli altri giunti nella nuova sede scelgano tra loro e fra quelli trentasette uomini in tutto, di cui diciannove da tutti gli altri coloni e il resto solo da quelli [753a] di Cnosso; saranno questi che i Cnossii daranno al tuo nuovo stato e persuaderanno te o con una certa forza ti costringeranno ad essere cittadino di questa colonia ed uno dei diciotto. CLIN. E perché anche tu e Megillo, ospite, non vorrete con noi partecipare della costituzione del nuovo stato?
II. ATEN. Atene ha superbi disegni, Clinia, superbi ne ha Sparta, e Atene e Sparta sono troppo lontane di qui; per te invece tutto è propizio e così gli altri che fonderanno [b] lo stato con te sono nelle stesse condizioni che ora diciamo esser tue. Sia dunque detta e stabilita così come si è detta la via secondo la quale la nostra opera potrebbe riuscire più equamente ora, sulla base della presente situazione, ma passato un po’ di tempo e avendo resistito nel tempo la costituzione, sarà questo il modo di eleggere i magistrati. Tutti partecipino all’elezione dei magistrati, quanti sono quelli che portano le armi del cavaliere o del fante, quanti sono quelli che hanno preso parte alla guerra secondo le forze della loro età. Le elezioni si faranno nel tempio che lo stato ritiene più degno di onore, e ciascun [c] elettore porterà all’altare del dio il suo voto per iscritto su di una tavoletta su cui avrà scritto il nome del padre del candidato e della tribù e dei demo cui appartiene, e accanto vi aggiunga il suo stesso nome con le stesse indicazioni. Sia concesso, a chiunque lo vuole, di prendere qualsiasi tavoletta che non appaia redatta secondo quanto egli ritiene e di collocarla nella piazza del mercato e ciò entro un minimo di trenta giorni. Le tavolette giudicate prime fino a trecento saranno mostrate pubblicamente dai ma-[d] gistrati e fatte vedere a tutta la popolazione dello stato che voterà di nuovo nelle stesse forme per scegliere tra tutti questi quello che ciascuno vorrà scegliere. I cento nomi prescelti fra i primi in questo secondo scrutinio saranno di nuovo resi di pubblica ragione. E poi si voti per la terza volta fra i cento, scegliendo chi vuole quel nome che vuole, e procederà facendo dei sacrifici. I trentasette che avranno ottenuto più voti siano esaminati e proclamati magistrati. Ma quali saranno gli uomini, Clinia e Megillo, che organizzeranno tutto ciò nel nostro stato, [e] sia riguardo alle magistrature che all’esame dei magistrati? Non ci rendiamo conto che negli stati così per la prima volta messi insieme c’è necessità di uomini i quali vengano prima di tutte le magistrature, ma non è possibile trovarveli? D’altra parte occorre in qualche modo trovarli e non da poco, anzi abilissimi in questo. Dice infatti il proverbio che il principio è già la metà di tutta l’opera e tutti noi lodiamo sempre il cominciare bene. E un buon principio mi pare proprio anche più della metà, [754a] e nessuno lo ha mai elogiato in modo sufficiente, quando si è ben realizzato. CLIN. E’ giustissimo quello che dici. ATEN. Consci di questo, non trascuriamo il problema senza parlarne, senza aver messo in chiaro a noi stessi il modo di risolverlo. Io non mi trovo in alcun modo nella condizione di uscirne, all’infuori del dire una cosa sola che mi pare strettamente necessaria ed utile nella situazione in cui siamo. CLIN. Quale?
III. ATEN. Io affermo che questo stato che ora noi stiamo per fondare, non ha altro quale padre e madre all’infuori dello stato che lo deduce da sé, pur sapendo [b] che alcuni non pochi stati che furono fondati spesso sono divenuti nemici degli stati fondatori e molti ancora lo diverranno. Nelle condizioni in cui è ora, il nostro stato, come un bambino, anche se più tardi potrà essere in discordia coi genitori, per le difficoltà presenti dell’infanzia ama ed è riamato dai genitori e cerca rifugio sempre presso i familiari e solo in loro trova i necessari alleati; tali sentimenti sono venuti ora ad essere presenti, dico io, e prontamente nei Cnossii pel loro interessamento verso la co-[c] lonia, e in questa verso i Cnossii. Ripeto, come ho appena detto, e non fa male ripetere due volte una cosa ben detta, che i Cnossii devono in comune interessarsi di tutti questi problemi, e lo devono fare scegliendosi non meno di cento cittadini fra i coloni, scelti il più possibile fra i più anziani e i migliori; siano poi aggiunti a loro altri cento presi fra i Cnossii direttamente. Giunti questi al nuovo stato io dico che è loro dovere curare tutti insieme che le magistrature siano istituite secondo la [d] norma stabilita e, istituite queste, che i magistrati siano ben esaminati; compiuta l’opera tornino pure ad abitare a Cnosso i Cnossii, il nuovo stato da solo si proverà a sopravvivere e prosperare. Coloro che fanno parte dei trentasette siano eletti, sia ora che per tutto il futuro, per queste funzioni: in primo luogo siano custodi delle leggi, poi delle scritture su cui ciascuno avrà scritto per i magistrati l’ammontare della sua sostanza, concessa ecce-[e] zione di quattro mine per chi appartiene alla prima classe, di tre per la seconda, di due per la terza, e di una per la quarta. Se un cittadino possiede altro di più di quanto ha dichiarato per iscritto e viene scoperto, gli sia confiscato per lo stato tutto il denaro eccedente; inoltre sia lecito, a chiunque voglia farlo, intentargli causa ignominiosa, non certo un processo che non tocchi l’onore e la fama, se appunto sia riconosciuto colpevole di disprezzo delle leggi per avidità di guadagno. Chiunque vuole dunque lo potrà accusare di avidità di denaro e trascinarlo in giudizio davanti agli stessi custodi delle leggi. Se l’ac-[755a] cusato viene condannato sia escluso dai beni comuni, non sia mai partecipe delle distribuzioni che eventualmente avvengano per la popolazione dello stato, non riceva nulla di più del suo lotto originario, sia trascritta la condanna, finché vive, in un luogo dove ognuno che lo voglia possa leggerla. Il custode delle leggi non tenga il potere più di venti anni, e non ne abbia meno di cinquanta prima di essere eletto a tale magistratura. Chi è eletto a sessant’anni tenga il potere solo dieci anni e poi così secondo questa proporzione affinché chi vive di più superando i settant’anni [b] non pensi di mantenere ancora una responsabilità di potere così importante fra magistrati di questo tipo.
IV. ATEN. Siano dunque dette e stabilite queste tre norme per quanto si riferisce ai custodi delle leggi; procedendo poi la legislazione, ognuna delle leggi determinerà a questi uomini ciò di cui debbono interessarsi accanto a ciò che è stato detto ora. Adesso dovremmo dire subito dell’elezione delle altre magistrature. Dopo i custodi delle leggi bisogna infatti eleggere gli strateghi e dar loro come [c] aiutanti di campo i comandanti generali della cavalleria, i comandanti degli squadroni per tribù e i comandanti delle schiere di fanti per tribù, cui sarebbe molto adatto quel nome che per loro è usato anche dai molti, ‘tassiarchi’. Di tutti questi, gli strateghi siano tratti dalla stessa popolazione dello stato e proposti dai custodi delle leggi; siano eletti, fra i proposti, da tutti i cittadini che hanno partecipato alla guerra quando ne avevano l’età e che tutt’ora vi partecipino quando ce n’è bisogno. Se qualcuno degli esclusi dalla proposta parrà a un cittadino migliore di uno dei [d] proposti questo dichiari il nome di chi propone e di chi vuol sostituito e ne faccia la controproposta accompagnandola con un giuramento. Chi, fra i due, sarà votato per alzata di mano, sia giudicato eleggibile. I tre che avranno ricevuto la maggiore votazione per alzata di mano saranno gli strateghi, amministreranno le cose militari, dopo esser stati esaminati come i custodi delle leggi. Gli stessi [e] strateghi eletti proporranno i loro dodici tassiarchi, uno per tribù; la controproposta, la votazione e l’esame avranno luogo per i tassiarchi nello stesso modo che per gli strateghi. Questa assemblea elettrice, al presente, e cioè finché non siano stati eletti i pritani e il Consiglio, sarà convocata dai custodi delle leggi nel luogo più sacro e più adatto per tenerla. Ivi avranno posti separati gli opliti, i cavalieri e poi in terzo luogo ogni altra specie di truppa, per quanta ve n’è. Tutti eleggeranno per alzata di mano gli strateghi e i comandanti generali della cavalleria; i tas-[756a] siarchi saranno eletti dai soldati portatori di scudo, i comandanti di squadrone per queste unità da tutti i cavalieri; gli strateghi stabiliranno, per ciascun corpo, sia i capi dei soldati armati alla leggera che degli arcieri e di qualche altra specialità militare. Ci resterebbe ancora da dire della istituzione dei comandanti generali della cavalleria. Siano proposti da chi abbiamo detto proporre gli strateghi, la procedura di elezione e di controproposta sia la stessa [b] che per gli strateghi; la cavalleria li voterà per alzata di mano alla presenza dei fanti. I due che avranno la maggiore votazione saranno comandanti di tutti i cavalieri. Non ci devono essere più di due alzate di mano incerte; se viene sollevato il dubbio sulla terza, decideranno quelli cui è stata affidata l’enumerazione dei voti, ciascuno per ciascun gruppo di votanti.
V. Il Consiglio dev’essere composto di trenta dozzine, cioè trecentosessanta consiglieri risulteranno in numero adatto alle suddivisioni, dividendoli in quattro parti di novanta [c] membri ciascuna, in modo che in ogni classe si votino novanta consiglieri. In primo luogo dovranno votare tutti obbligatoriamente per quelli della prima classe, chi si rifiuta di obbedire sia multato di quanto stabilito. Finito di votare siano sigillati i voti; il giorno dopo si voteranno, con la stessa procedura del precedente, quelli della seconda classe, nel terzo giorno quelli della terza, e voti chi vuole, però il voto è obbligatorio ai membri delle prime tre classi; [d] quanto ai cittadini della quarta, che è la meno importante per censo, chi di loro non vuole votare sia lasciato libero dalla pena pecuniaria. Nel quarto giorno tutti quelli voteranno per la quarta classe, la più bassa per censo; siano però liberi da pena quelli della quarta classe e della terza se non vogliano votare. Chi invece si astiene dal voto e appartiene alla seconda o alla prima classe sia multato; la multa per chi è della seconda classe sarà tripla della multa [e] secondo la sua misura base, quadrupla per la prima classe. Al quinto giorno i magistrati renderanno pubblici, sì che tutti i cittadini li vedano, i nomi già sigillati, e su tali nomi tutti di nuovo dovranno votare obbligatoriamente, pena la multa nella misura base. Scelti 180 di ogni classe, ne verranno tratti a sorte la metà ed esaminati questi saranno consiglieri per un anno. L’elezione che avviene così starà in mezzo fra la costituzione monarchica e quella democratica, e fra esse così sempre deve stare in mezzo [757a] la costituzione. Schiavi e padroni non potrebbero mai diventare amici, né lo diventano incapaci e valenti portati, con pubblico decreto, allo stesso livello di onore e considerazione; l’uguaglianza fra ineguali diverrebbe ineguaglianza se non ci fosse un criterio di giusto limite. Per questi due fattori gli stati pullulano di sedizioni. E’ vera infatti l’antica sentenza che l’uguaglianza genera la concordia, è un detto molto giusto e conveniente; ma quale sia mai l’uguaglianza che può far ciò non essendo molto chiaro, [b] ciò ci lascia molto perplessi. Ci sono due specie di uguaglianza, hanno lo stesso nome, ma nei fatti sono quasi l’una contraria all’altra per molte ragioni; l’una può introdurla ogni stato ed ogni legislatore, nella distribuzione degli onori e delle cariche; è uguaglianza per misura, peso, numero, e nelle suddette distribuzioni si può regolarla con un sorteggio. L’altra, la più vera e l’ottima uguaglianza, non a tutti è così facile vederla. Il discernerla appartiene a Zeus, agli uomini viene in soccorso sempre in misura minima, ma per quanto ciò si dà negli stati [c] e negli individui è sempre fonte di ogni vantaggio. Dà di più a ciò che vale di più, meno a ciò che vale meno, dà a ciascuno dei due ciò che ad esso spetta secondo il suo valore naturale, e così sempre attribuisce più grandi onori a chi è più grande per virtù, e a chi è nella condizione opposta per virtù ed educazione ciò che conviene a questi, così come lo dà agli altri, e nella giusta proporzione. E infatti per noi anche ciò che è politica è proprio questa giustizia; e dobbiamo, Clinia, anche ora tendervi e fondare lo stato che nasce, gli occhi fissi a questa uguaglianza. [d] Chi ne fonderà un altro deve dare le leggi con questo stesso obiettivo e non in funzione di pochi tiranni, o di uno solo, o di qualche forza popolare, ma sempre della giustizia; questo è ciò che or ora si disse quell’eguale dato ai disuguali che a ciascuno spetta per natura, nei vari casi. D’altra parte è necessario che tutta la popolazione dello stato usi qualche volta di queste denominazioni approssimative e derivate dalle prime, se non vuol partecipare a [e] se stessa le sedizioni che in qualche sua parte possono sorgere: l’equità infatti e l’indulgenza sono una infrazione a ciò che è compiuto e perfetto, contro la corretta giustizia, quando ciò accade; perciò è necessario usare a causa della turbolenza della massa di una certa uguaglianza ottenuta con sorteggio, e anche allora bisogna pregare la divinità e la buona fortuna di dirigere la decisione della sorte verso ciò che è più giusto. Bisogna usare necessariamente così di ambedue le uguaglianze, ma in modo che sia lasciato mi-[758a] nimo campo a quella delle due che ha bisogno della sorte.
VI. Lo stato che vuol sopravvivere a lungo, amici, deve osservare così questi princìpi nelle operazioni di cui si è detto, e poiché una nave che solca il mare deve avere sempre la vedetta di giorno e di notte, così uno stato che passa tra i flutti degli altri stati e vive nel pericolo di essere afferrato da mille insidie deve formare una catena [b] di magistrati che dal giorno alla notte e dalla notte al giorno si succedano continuamente a magistrati, custodi che si scambino a custodi sempre e con moto incessante ricevano e passino la consegna, in una serie appunto che non finisce mai. La massa non potrà mai assolvere a nessuno di questi doveri con precisione, è necessario quindi che, mentre la maggioranza dei consiglieri siano lasciati rimanere per la maggior parte del tempo in cui siano in carica a curare i loro interessi privati e a dirigere le loro famiglie, attribuendo a ciascuno dei dodici mesi la dodicesima parte di essi, questi appunto vengano forniti come custodi e sentinelle che possano a turno incontrare prontamente chi viene [c] dal di fuori, o dallo stato stesso, sia che voglia portare una notizia, sia che voglia apprendere qualcuna delle cose che conviene che uno stato risponda ad altri stati o, se lo stato stesso è l’interrogante di altri, come conviene accogliere le risposte degli altri. E poi a proposito dei torbidi d’ogni genere che sempre sogliono scoppiare nello stato, qualcuno ogni volta vorrà sapere come con ogni mezzo [d] evitarli o, una volta scoppiati, come si possa rimediare all’accaduto avendolo al più presto portato a conoscenza dello stato. Perciò questo corpo che protegge lo stato deve avere sempre pieni poteri di convocare e sciogliere le assemblee, sia quelle che avvengono secondo le leggi, sia nei casi di emergenza quelle che nello stato si fanno repentinamente. La responsabilità di coordinare tutto ciò spetterà alla dodicesima parte del Consiglio, che si riposerà le altre undici parti dell’anno. Tale parte del Consiglio deve sempre però esplicare queste sue funzioni di vigilanza sullo stato in comune accordo con gli altri magistrati.
VII. Tutto quanto riguarda lo stato sarà ben definito così, [e] ma per tutto il territorio, che fino ad ora non abbiamo considerato, quale sarà la cura e quale l’ordinamento? Non ci devono forse essere funzionari designati alla cura delle strade della città, delle case, degli edifici, dei porti, del mercato, delle fonti e dei luoghi sacri, dei templi, di tutto ciò che v’ha di simile insomma, dato che anche tutta la città capitale e tutta la regione sono ordinate e suddivise in dodici parti? [759a] CLIN. Come no? ATEN. Diciamo allora che guardiani e sacerdoti e sacerdotesse devono essere assegnati ai templi. In relazione poi alle strade, agli edifici e alla disciplina di siffatte cose e degli uomini, che non vi rechino danno, e degli altri animali, per mantenere l’ordine conveniente agli stati, sia all’interno della cerchia della città sia in periferia, occorre eleggere tre specie di magistrati; saranno chiamati astynòmoi se attenderanno ai servizi qui sopra esposti, e agoranòmoi invece per la disciplina del mer-[b] cato, e poi i sacerdoti per i templi. I sacerdoti e le sacerdotesse che sono di famiglia sacerdotale non bisogna rimuoverli dalla carica. Se però, cosa che succede verosimilmente, a tal proposito, a chi pone le prime basi di uno stato, non ci siano per tradizione familiare, o siano troppo pochi, bisognerà che quelli cui non siano già stabiliti, stabiliscano sacerdoti e sacerdotesse che abbiano insieme la responsabilità di custodire i templi degli dèi. Nella istituzione di tutte queste magistrature parte di tutti questi magistrati siano eleggibili, parte saranno sorteggiati, concedendo libera partecipazione alla scelta sia ai cittadini di un demo che agli altri, mescolandoli perché divengano amici fra loro, in ogni regione o città, appunto per ottenere la massima concordia. I sacerdoti, lasciando alla di-[c] vinità stessa la scelta del preferito e rimettendosi così, nell’estrazione, alla sorte divina, siano poi esaminati sempre, quelli designati dalla sorte, prima di tutto per accertarsi che non abbiano mutilazioni nel corpo e siano di famiglia onorata, é poi che le loro famiglie siano quanto mai pure agli dèi e che l’eletto, il padre, e la madre ugualmente siano vissuti senza macchia di omicidio o di tutte le altre colpe così gravi contro gli dèi. Le norme che riguardano la religione in tutti gli aspetti si traggano dall’oracolo di Delfo e si usino dopo aver disposto degli interpreti uffi-[d] ciali di queste. L’ufficio di ciascun sacerdote sia annuale e non più lungo e non deve avere meno di sessant’anni, secondo noi, chi vuole sufficientemente adempiere al culto divino secondo le sacre leggi. Le stesse regole valgano anche per le sacerdotesse. Gli interpreti saranno eletti in tre tempi in ciascuno dei quali quattro tribù eleggeranno quattro interpreti; ognuno di questi proverrà da una tribù. I tre che hanno ottenuto più voti siano senz’altro passati all’esame, gli altri nove siano mandati a Delfo, dove il dio ne sceglierà uno per triade. Per l’esame di questi e i limiti [e] d’età valgano le norme già usate per i sacerdoti, questi però avranno l’incarico di interpreti a vita. Se uno viene meno sarà sostituito con una elezione fatta dal gruppo di quattro tribù cui appartiene quello che è venuto meno. Per ciascuno dei templi siano eletti quali amministratori responsabili delle sacre sostanze, dei terreni sacri, dei pro-[760a] dotti di questi e degli affitti, tre per i templi maggiori, due per i meno grandi e uno per i più modesti, tutti della prima classe. L’elezione e l’esame degli amministratori avverranno in modo eguale agli strateghi. Queste sono dunque le norme che devono essere applicate alla vita religiosa dello stato.
VIII. Nulla, nei limiti delle possibilità, deve rimanere senza vigilanza. Per lo stato e la capitale le guardie vengano stabilite così: di reperirle e sorvegliarle siano incaricati gli strateghi, i tassiarchi, i comandanti della cavalleria, i coman-[b] danti di squadrone per tribù, i pritani, gli astynòmoi e gli agoranòmoi, una volta da noi eletti ed investiti, in numero sufficiente, della loro responsabilità. Per la regione restante invece si provveda così ad una sorveglianza totale. Noi abbiamo diviso tutta la regione in dodici parti il più possibile uguali. Ogni tribù corrispondente per sorteggio a ciascuna di queste parti fornirà ogni anno cinque uomini quali agronòmoi, capi della guardia; ciascuno di questi [c] cinque scelga nella sua tribù dodici giovani di non meno venticinque e non più di trent’anni di età. Fra questi siano distribuite per sorteggio le parti della regione, una parte per ciascuno, mese per mese e ciò affinché tutti vengano ad avere piena esperienza e conoscenza di tutto il territorio stesso. Rimarranno in carica due anni, per la magistratura suddetta, i capi, e per la vigilanza, le guardie. Comunque i giovani ricevano le loro prime parti per sorteggio, le zone della regione cioè, passeranno sempre mese per mese, senza far salti, nella zona adiacente [d] guidati dai capi guardia circolarmente verso destra: ciò avvenga procedendo verso oriente. Passato il primo anno, nel secondo, perché la conoscenza del territorio da parte della maggioranza dei vigilatori non sia limitata ad una sola stagione, ma invece in numero più largo possibile conoscano oltre a tutto il territorio anche ciò che è proprio in ciascuna stagione di ciascuna zona, essi sempre scambiando zona siano ricondotti indietro girando a sinistra dai loro [e] capi di allora fino a che passi per loro il secondo anno. Al terzo anno si eleggeranno nuovi agronòmoi capi della guardia in numero di cinque, i quali guideranno altri dodici giovani. Nel loro soggiorno in ciascuna zona si preoccuperanno di cose come queste: prima di tutto che tutto il paese sia il più possibile fortificato contro i nemici, scavando fosse quanto di bisogno, costruendo trinceramenti e tenendo lontano con fortificazioni il più possibile ogni tentativo di danneggiare la regione e le sue ricchezze. Potranno usare in questi lavori del bestiame da soma e degli [761a] schiavi di ciascun luogo, e lavoreranno per mezzo di questi, ad essi sovraintendendo; però cercheranno di scegliere il più possibile i giorni in cui non sono impiegati nei lavori domestici. Ai nemici il paese sia reso tutto inaccessibile, quanto più si può, aperto invece agli amici, uomini, bestie da soma ed armenti, curando di renderne facili le strade, il più possibile, e una per una. Si interessino che l’acqua del cielo non danneggi il paese, anzi gli [b] giovi scorrendo dall’alto nelle vallette dei monti, in quelle profonde; dirigano il suo fluire con argini e fosse, in modo che il terreno di quelle valli assorbendo le piogge e inaridendosi d’acqua dia origine a ruscelli e sorgenti per i campi e tutti i luoghi posti più in basso, e rendano così anche i luoghi più aridi per natura ricchi di molta e buona acqua. Rendano più confortevoli le acque sorgive, sia che si tratti di un fiume o di una fonte, migliorandole con [c] piante e costruzioni, e facendo confluire insieme il corso di molti ruscelli con escavazioni, donino fertilità a tutto il luogo; dove poi ci sia nelle vicinanze qualche bosco o luogo sacro, essi lo abbelliscano, indirizzando ai luoghi sacri agli dèi i corsi d’acqua per mezzo di irrigazioni in tutte le stagioni. Dovunque, in simili luoghi, è opportuno che i giovani costruiscano ginnasi per sé e per gli anziani, fornendoli di bagni caldi per i vecchi, e li provvedano largamente di legna da ardere ben secca; ciò servirà anche [d] agli ammalati e a coloro che sono prostrati nei corpi stanchi dalle fatiche del lavoro dei campi; essi accoglieranno bene questo servizio, e accogliere questo è molto superiore alle cure di un medico non del tutto abile.
IX. Tutte queste opere e quelle simili a queste saranno di bellezza e utilità al territorio e insieme un divertimento del tutto piacevole. Essi dovranno occuparsene seriamente così. I gruppi di sessanta dovranno custodire ciascuno la loro parte dello stato non solo dai nemici, ma anche da quelli che si protestano amici. Se uno dei vicini o un altro [e] cittadino commette ingiustizia l’uno contro l’altro schiavo o libero che sia, bisogna che rendano giustizia a chi denuncia di essere stato danneggiato; giudicheranno i cinque capi se si tratta di cose di poco conto, se invece la cosa è più grave fino a cause per un valore di tre mine giudicheranno i diciassette, cioè i cinque più i dodici giovani della tribù, e decideranno di ogni accusa sollevata reciprocamente dai contendenti. Nessun giudice o magistrato esplicherà la sua funzione senza esserne tenuto responsabile, fatta eccezione per chi giudica o comanda in suprema ed ultima istanza, come sarebbe dei re. Se dunque questi agronòmoi fanno qualche violenza ai loro amministrati, e non ripartiscono equamente gli obblighi, se cercano di [762a] requisire e di portar via contro la volontà dei coltivatori qualcosa che appartiene all’agricoltura, se accettano donazioni da quelli fatte per corromperli, o amministrano ingiustamente la giustizia, per essersi lasciati sedurre siano colpiti d’ignominia presso tutta la popolazione dello stato; per gli altri delitti commessi contro quelli della loro zona fino al valore di una mina si sottomettano spontaneamente alla pena decisa dai cittadini del luogo e dai vicini; per [b] quelli più gravi, quando ciò accade, o nel caso che degli altri minori non vogliano accettare il castigo, fidando di poterne sfuggire col mutar luogo ogni mese, chi è stato oggetto di ingiustizia si rivolga ai pubblici tribunali dove otterrà il suo turno di udienza e, se vinca la causa, esiga da questo che voleva sfuggire e non voleva subire la pena in prima istanza volontariamente un risarcimento doppio. Gli agronòmoi e gli altri magistrati della vigilanza nella regione, nei due anni del loro incarico, vivranno secondo norme siffatte: prima di tutto in ogni luogo dovranno essere [c] istituiti per tutti i "pasti in comune" nei quali ognuno di loro dovrà in comune con gli altri prendere il vitto. Chi trasgredisce questa regola anche un giorno solo, qualsiasi esso sia, o di notte abbandona il proprio letto senza ordine dei magistrati o senza una gravissima necessità sopravvenuta, se scoperto dai cinque e denunciato, il suo nome sia pubblicamente esposto, per ordine dei cinque, nella piazza del mercato come quello di uno che ha abbandonato il suo posto di guardia, e ne abbia ignominia come chi tradisce la costituzione di tanto di quanto ha la possibilità di farlo, e sia lecito punirlo, impunemente con bastonate a [d] chiunque l’incontra pur che abbia desiderio di farlo. Ma se commette tali colpe uno dei capi stessi, è tenuto necessariamente responsabile della repressione tutto il collegio dei sessanta e se uno se ne accorge o lo viene a sapere e non lo persegue, sia sottoposto al medesimo procedimento di legge e punito più severamente dei giovani. Sia dichiarato indegno anche di ricoprire tutte le cariche relative ai giovani. In questa materia i custodi delle leggi siano sempre attenti osservatori perché mai abbiano origine simili trasgressioni o accadute siano punite con la giusta punizione. [e] Bisogna che ognuno pensi, a proposito di tutti, che nessuno, se non abbia lodevolmente servito, potrebbe diventare un padrone degno di lode e che è necessario vantarsi di saper ben obbedire piuttosto che di saper ben comandare, obbedire prima alle leggi, ché questo servizio è reso agli dèi, e poi, i giovani sempre ai più anziani e a chi ha condotto una vita onorata. Inoltre chi ha avuto l’incarico di agronòmos deve aver assaporato, per questi due anni, la vita quotidiana modesta e priva di comodità propria dell’ufficio. Appena eletti i dodici infatti, riuniti coi cinque [763a] prendano la decisione, quasi essi stessi servi, di non possedere per sé altri servi o schiavi e di non servirsi per i servizi privati, ma solo per i servizi pubblici, dei servi degli altri agricoltori e degli altri abitanti del villaggio. Per il resto pensino a vivere, essi mediante se stessi, servendosi reciprocamente, esplorando inoltre tutta la regione, percorrendola d’estate e d’inverno armati per custodire e [b] conoscere sempre tutti i suoi luoghi. Infatti conoscere tutti la propria terra minutamente è probabilmente conoscenza inferiore a nessuna. E’ questa la ragione per cui il giovane deve dedicarsi alla caccia col cane e negli altri modi non meno che per ogni altro piacere che ne deriva e che per l’utilità che ne viene ad ognuno. E sia che si vogliano chiamare questi, e il loro ufficio, kryptòi o agronòmoi, [c] o comunque piace chiamarli, si dedichino tutti i cittadini col massimo zelo a queste attività, quanti sono i cittadini che vogliono contribuire alla conservazione del loro stato in modo adeguato.
X. Dopo di ciò seguiva per noi, in relazione alla elezione dei magistrati, quella degli agoranòmoi e astynòmoi. Dopo i sessanta agronòmoi seguiranno tre astynòmoi i quali suddivideranno fra loro per tre le dodici parti della città capitale e ad imitazione dei primi cureranno le vie interne all’abitato, le strade che dalla regione convergono tutte di-[d] rettamente, sulla città, e gli edifici, perché tutto sia in regola con le leggi, cureranno le acque, quante vengono a loro inviate e cedute in consegna, dopo esser state ben regolate, dalle guardie campestri, affinché giungendo copiose e pure alle fontane abbelliscano e insieme giovino la città. Occorre che essi siano capaci e potendo stare in riposo abbiano tempo di dedicarsi al loro ufficio pubblico. Perciò ognuno potrà proporre astynòmos chi vuole purché della prima classe; votati i proposti per alzata di mano e [e] giunti quelli che hanno ottenuto maggior suffragio al numero di sei siano sorteggiati i tre da quelli cui compete questo ufficio; una volta esaminati esercitino la loro magistratura secondo le leggi stabilite per essa. Subito dopo si eleggeranno cinque agoranòmoi della seconda e della prima classe; per il resto la loro elezione avvenga come quella degli astynòmoi fra i dieci che sugli altri hanno più suffragi per alzata di mano si sorteggeranno i cinque che una volta esaminati saranno proclamati magistrati. [764a] Tutti sono obbligati a votare per ognuno. Chi si rifiuta, se denunciato ai magistrati, sia multato di cinquanta dracme oltre ad essere censurato come cattivo cittadino. L’entrata all’assemblea e all’adunanza generale è libera a chi vuole, obbligatoria però ai membri della seconda e della prima classe, che saranno multati di dieci dracme se riconosciuti assenti dalle riunioni. La terza e la quarta classe non siano quindi obbligate a partecipare, siano lasciati andare esenti da pena i loro membri anche se assenti a meno che i magistrati non ordinino a tutti di intervenire per qualche ragione [b] di necessità. Gli agoranòmoi dovranno garantire l’ordinamento del mercato fissato dalle leggi, e sono responsabili della cura dei templi e delle fontane esistenti nello spazio del mercato stesso, perché nessuno ne violi nessuno; e puniscano chi lo fa, se si tratta di uno schiavo o di uno straniero con percosse o col carcere, se invece si tratta di un cittadino che violi l’ordine in cose siffatte gli agoranòmoi avranno potere di giudicarlo fino a infrazioni corrispondenti al valore di cento dracme, e oltre a ciò e fino alle duecento [c] dracme giudicheranno e applicheranno ammende al colpevole insieme agli astynòmoi. Nello stesso modo gli astynòmoi avranno potere di multare e di punire nell’ambito della loro giurisdizione, da soli fino a una mina, insieme agli agoranòmoi fino a due.
XI. Ora, dopo di ciò, sarebbe conveniente istituire i magistrati relativamente alla "musica" e alla ginnastica. La "musica" e la ginnastica ne avranno due ciascuna, uno per l’aspetto educativo, l’altro per quello agonistico. Per quanto riguarda l’educazione la legge intende parlare dei responsabili dei ginnasi e delle scuole, relativamente alla loro [d] disciplina e all’azione educativa, e della cura della frequenza in tali istituzioni e delle residenze dei giovani e delle ragazze; per quanto riguarda l’aspetto agonistico, la legge parla dei magistrati che organizzeranno e presiederanno ai concorrenti negli agoni ginnici e "musicali"; di due tipi distinti anche questi, gli uni per la musica, gli altri per la ginnastica agonistica. Gli stessi dirigeranno quanto attiene alle competizioni degli uomini come dei cavalli; ma invece sarebbe conveniente ci fossero organizzatori diversi delle gare "musicali", alcuni per il canto mo-[e] nodico e il canto imitativo, altri, per esempio, per i rapsodi, per i citaredi, per i flautisti e tutti i simili, altri per la "musica corale". Prima di tutto è necessario eleggere la magistratura che presiede alle feste "corali" dei fanciulli degli uomini e delle ragazze, che avvengono con la danza e secondo tutto l’ordinamento della "musica": qui è sufficiente un magistrato che abbia non meno di quarant’anni. [765a] Anche per il canto monodico ne basta uno, non inferiore ai trent’anni: egli ammetterà, alle gare i concorrenti e dovrà essere capace di emettere giusti verdetti per i partecipanti alle gare. Il magistrato preposto e organizzatore delle "danze corali" si eleggerà così: convengano in assemblea tutti quelli che si dilettano nella "danza corale", punibili se assenti - e di ciò siano giudici i custodi dalle leggi - per gli altri non ci sia alcun obbligo se non vo-[b] gliono partecipare. Faccia la proposta, ognuno che la fa, scegliendo fra gli esperti dell’arte. Nell’esame il solo argomento che valga come apprezzamento favorevole o rifiuto sia questo: gli uni diranno che il prescelto è inesperto nell’arte, gli altri che è esperto. Quell’unico che è sorteggiato fra i dieci che hanno raccolto più voti per alzata di mano, una volta sottoposto all’esame, sia il magistrato preposto alle "danze corali" per un anno e eserciti l’ufficio secondo le leggi relative. Nello stesso modo, per lo stesso motivo e con la stessa procedura, sui canti monodici e la musica strumentale eserciti la sua magistratura per quell’anno il cittadino che la sorte ha scelto fra quelli convenienti per essere giudicati idonei o no, rimet-[c] tendosi per l’esame ai giudici. Si devono eleggere poi i dirigenti delle competizioni generali relative agli esercizi dei cavalli e degli uomini nella terza e anche nella seconda classe; obbligate a partecipare alle elezioni sono le prime tre classi, l’ultima e di minor conto sia lasciata libera da pena in ogni caso. Siano tre i sorteggiati fra i venti votati con un maggior numero di voti per alzata di mano e, fra questi, sorteggiati i tre, siano magistrati quelli cui anche il [d] voto dei giudici dell’esame dia approvazione. Se uno cade all’esame in relazione all’estrazione a sorte e al giudizio dell’esame per qualsiasi carica, se ne elegga un altro con la stessa procedura e nello stesso modo si faccia l’esame per la sua approvazione.
XII. Dev’essere ancora nominato un magistrato a proposito di quanto s’è detto della "musica" e della ginnastica, quello che deve curare l’educazione in generale sia dei giovani che delle ragazze. Il potere su questa sarà affidato ancora a uno solo che governerà secondo le leggi e non dovrà avere meno di cinquant’anni, padre di figli legittimi, preferibilmente maschi e femmine, o, se no, almeno di ma-[e] schi o di femmine. Pensi chi lo presceglie e lui che è prescelto, come questa magistratura è di molto la più importante fra le più elevate nello stato. Se il primo germoglio di ogni pianta erompe rigoglioso, allora ha il massimo potere, in relazione alle sue qualità naturali, di portarle vantaggiosamente alla loro completezza; così ogni pianta, e gli ani-[766a] mali domestici e selvaggi, così l’uomo. L’uomo, diciamo noi, è domestico, tuttavia quando ha ricevuto una retta educazione e una natura fortunata suole divenire il più divino e il più dolce degli animali, ma se non compiutamente educato o cresciuto male è il più selvaggio fra tutti i viventi che la terra produce. Perciò il legislatore non deve lasciar scendere dal primo piano, al secondo grado, o addirittura fra le cose di minore importanza, l’educazione dei fanciulli. Prima di tutto anzi si deve cominciare con lo scegliere bene colui che si curerà dei fanciulli, si deve scegliere fra la cittadinanza l’uomo superiore in tutto e ponendolo alla direzione di questo ufficio, per quanto è [b] possibile, con ogni mezzo costituirlo curatore dei giovani. Così tutti i magistrati, all’infuori dei consiglieri e dei pritani, recatisi al tempio di Apollo, voteranno a scrutinio segreto, per eleggere fra i custodi delle leggi quello che ognuno riterrà poter meglio esplicare l’ufficio di supremo magistrato nelle cose relative all’educazione. Colui che avrà ricevuto più voti, esaminato dagli altri magistrati elettori, fatta esclusione dei custodi delle leggi, terrà il potere per cinque anni; il sesto anno un altro verrà eletto a questa [c] magistratura con la stessa procedura. Se un pubblico magistrato verrà a morire più di trenta giorni avanti che scada il suo mandato, sia sostituito con un altro, nella magistratura, da chi era responsabile della cosa, secondo la medesima procedura. Se poi muoia il tutore di qualche orfano, i parenti dimoranti nello stato, da parte di padre e di madre fino ai figli dei cugini germani, ne nominino un altro entro dieci giorni o siano multati di una dracma [d] al giorno per ciascuno, finché non abbiano provveduto a nominare il tutore ai ragazzi.
XIII. Uno stato nel quale non ci siano tribunali istituiti nel modo dovuto non sarebbe neppure uno stato. Un giudice che tace e che nei dibattiti pre-processuali non aggiunge la sua parola a quelle delle parti in causa, come negli arbitrati privati, non sarà mai un giudice capace di giudicare sulla giustizia. Ragion per cui non è agevole giudicare bene in molti, né d’altra parte in pochi e incapaci. [e] Bisogna sempre che l’oggetto della vertenza sia messo in chiaro da una parte in causa e dall’altra; utilissimo a ciò è il tempo, la lentezza nel procedere, il frequente investigare, appunto perché diventi chiara la contestazione. A tal fine bisogna che per prima cosa gli avversari si rechino dai vicini, dagli amici e da quelli che di più sono a conoscenza [767a] delle azioni in discussione; se poi qualcuno non vi ottenga un giudizio accettabile, ricorra ad un altro tribunale. Se, uno dopo l’altro, i due tribunali non riescono a realizzare la conciliazione, ponga termine alla lite un terzo tribunale. In un certo senso anche le costituzioni dei tribunali sono elezioni di magistrati. Infatti da una parte ogni magistrato dev’essere anche giudice di una certa materia e, dall’altra, il giudice pur non essendo magistrato di nome, in un certo senso lo diviene, e non con poca autorità, nel giorno in cui giudicando conclude la causa. [b] Considerando quindi anche i giudici come magistrati, definiamo chi dovranno essere quelli adatti, quali settori avranno su cui giudicare e quanti saranno per ciascun settore. Il tribunale superiore a tutti sarà quello che le parti, ciascuna, si saranno indicate, avendo scelto in comune accordo certi giudici. Oltre a questo ci saranno altre due sedi di giudizio, una quando un privato accusando un altro privato di averlo offeso lo porta in giudizio e chiede che sia giudicato, l’altra, quando un cittadino ritiene che lo stato sia stato offeso da un privato, e vuole così venir [c] in aiuto al bene comune. Ora definiamo chi deve essere giudice e quali requisiti deve avere. In primo luogo dobbiamo avere un tribunale comune per tutti i privati che sono ancora in lite fra loro in terza istanza; sarà organizzato cosi: tutti i magistrati, quelli che durano in carica un anno o più di un anno, il giorno prima dell’inizio del nuovo anno, nel mese seguente il solstizio d’estate, converranno [d] tutti in un tempio, e, dopo aver giurato in nome del dio, debbono offrire le primizie, in certo senso, di ogni magistratura nella persona di un giudice per ciascuna magistratura il quale sia in essa apparso il migliore e appaia saper amministrare nei processi la giustizia per i cittadini del suo stato nell’anno seguente con la massima rettitudine e santità. Una volta eletti siano esaminati alla presenza di coloro che li hanno eletti; nel caso che uno sia respinto gli sia sostituito un altro con la medesima procedura elettorale; gli approvati giudicheranno le cause di quelli che si saranno appellati dagli altri tribunali e decideranno con votazione non segreta. Assisteranno, come uditori e spetta-[e] tori, a questi giudizi obbligatoriamente i consiglieri e gli altri magistrati che hanno scelto questi giudici e poi chi altro vuole. Se un cittadino accusa qualcuno di aver giudicato la causa ingiustamente con deliberato proposito, porti l’accusa davanti ai custodi delle leggi; il giudice che risulti colpevole in siffatta causa sia condannato a pagare alla parte lesa una somma equivalente alla metà del danno recato; se poi sarà giudicato degno di maggior pena, i custodi delle leggi che hanno giudicato la causa valuteranno inoltre quale pena ulteriore deve subire personalmente o quale nuova multa corrispondere all’erario pubblico e alla parte che ha intentato la causa. Le accuse di delitti contro [768a] lo stato devono essere anzitutto giudicate con la partecipazione del popolo - infatti nel caso di un’offesa recata da qualcuno allo stato, gli offesi sono tutti e tutti giustamente sopporterebbero a malincuore di essere esclusi dalla partecipazione a queste sentenze; bisogna invece che questo tipo di cause sia affidato al popolo nel primo e nell’ultimo atto, il procedimento e il vaglio della responsabilità tocca a tre delle magistrature maggiori che accusatore e accusato sceglieranno in comune accordo. Se questo accordo non si può stabilire in comune da loro, il Consiglio [b] giudicherà la scelta per ciascuna delle due parti. Anche alle cause private deve partecipare tutta la cittadinanza, il più possibile. Chi infatti non partecipa al potere giudiziario non si ritiene affatto parte dello stato. E’ necessario quindi che ci siano anche tribunali delle tribù, e giudici tratti a sorte, senza preavviso, senza cedere alle richieste, inflessibili, giudichino; l’ultima decisione in tutto questo tipo di cause appartiene a quel tribunale che noi abbiamo detto di aver reso capace di rendere il più possibile imparziale giustizia, per quanto è dato agli uomini, verso coloro [c] che né nei tribunali dei vicini né in quelli delle tribù riescono a ritirarsi dalla lite.
XIV. Ora a proposito dei nostri tribunali diciamo di essi che non è facile stabilire parlando senza possibilità di contestazione se siano o no magistrature; su di essi un disegno a grandi linee, tracciato tutto intorno e dall’esterno, qualche cosa ha detto, altro però lascia indietro, direi. E infatti, soltanto alla fine della legislazione potrebbe divenire di gran lunga più esatta la definizione minuziosa e l’analisi distintiva delle leggi che riguardano la procedura giudiziaria. A questi argomenti dunque si dica che ci [d] attendano alla fine; l’istituzione delle altre magistrature possiamo dire che abbia già ottenuto la maggior parte della sistemazione legislativa. Ma l’esposizione completa e ben definita per ciascun particolare e per tutte le strutture dello stato e dell’arte politica in complesso non potrà essere chiara prima che la nostra esposizione, cominciando dalla prima parte, abbia ottenuto le sue parti che vengono al secondo posto e quelle intermedie e tutte le altre e sia [e] pervenuta al termine. Ed ora, al presente, sia questo il termine adatto di quanto si è trattato prima d’ora, cioè fino a quella che è stata l’elezione dei magistrati, e insieme il principio dell’istituzione delle leggi che non domanda più di subire dilazioni ed incertezze. CLIN. Ospite, per me quanto hai già detto va del tutto bene, ma ciò che ho gradito ancora di più di quelle cose nel tuo discorso è stato l’aver tu legato alla fine del già detto l’inizio di ciò [769a] che si deve ancora dire. ATEN. Dunque il nostro gioco saggio di vecchi fin qui è stato condotto bene. CLIN. Sembra tu voglia dire che è una occupazione molto seria, degna di uomini validi. ATEN. Sembrerebbe. Ma vediamo se sei d’accordo con me in questo. CLIN. In che cosa e a qual proposito? ATEN. Tu sai, per prendere un esempio, che l’opera dei pittori non sembra mai aver fine nel rendere perfette le singole figure, anzi non pare [b] cessi mai di perfezionarle caricando o attenuando la tinta, o comunque sia chiamata questa operazione dai discepoli appunto dei pittori, in modo che le figurazioni non debbano più progredire in bellezza e forza espressiva. CLIN. Capisco presso a poco anch’io che cosa vuoi dire, ma solo per averne sentito parlare, dato che io non ho mai avuto esperienza di tale arte. ATEN. Non hai perduto nulla. Utilizziamo invece così il discorso che ci si è presentato ora su quell’arte. Posto che uno pensi di aver di-[c] pinto una figura di vivente quanto mai bella, tale poi che progressivamente col tempo, invece di peggiorare mai, diventi sempre più bella, riconosci tu che se costui, essendo mortale, non lascerà dietro di sé un successore che rimedi nell’opera ciò che di lei il tempo può rovinare, capace anche poi di abbellire ciò che egli ha lasciato incompiuto per la sua stessa debolezza nell’arte, e di migliorarlo, riconosci tu che sopravverrà ben poco tempo la sua grande fatica? [d] CLIN. E’ vero. ATEN. E allora? Non pensi tu che deve voler così anche il legislatore? Prima tracciare il disegno delle leggi in modo sufficiente quanto più possibile perfette, ma poi col passare del tempo, mettendo alla prova dei fatti le sue decisioni, credi che mai venga ad esserci un legislatore così sciocco da non riconoscere di aver lasciato imperfette moltissime cose necessariamente, tali che un suo successore deve correggere, perché la costituzione [e] anziché mai peggiorare, sempre migliori, e così l’ordine, nello stato fondato da lui? CLIN. E’ verosimile - come non potrebbe essere? - è verosimile che ogni e qualsiasi legislatore abbia tale desiderio. ATEN. Se dunque qualcuno avesse un qualche mezzo per realizzare ciò, per insegnare con l’opera e la parola, comunque, ad un altro, migliore o peggiore di lui, ad avere la cognizione di come bisogna custodire e migliorare le leggi, non credi che non rifiuterebbe mai di dir così prima di morire? CLIN. Come [770a] dire di no? ATEN. Non dobbiamo far così anche voi ed io ora? CLIN. E cioè, che cosa vuoi dire? ATEN. Dato che noi stiamo per dare le leggi, dato che abbiamo già scelto i custodi di queste e che mentre noi siamo già al tramonto della vita essi sono giovani ancora rispetto a noi, dobbiamo come appunto stiamo dicendo insieme legiferare e provarci di rendere anche questi uomini legislatori essi stessi e quanto più possiamo custodi delle [b] leggi stesse. CLIN. Perché no? Purché però ne siamo abbastanza capaci. ATEN. Pure bisogna provare e lavorarci di buon animo. CLIN. Come dirti di no?
XV. ATEN. Diciamo loro: "Amici salvatori delle leggi, noi trascureremo molte cose relative ad ogni oggetto delle leggi che stiamo formulando - era inevitabile infatti -, d’altra parte ciò che è importante e il disegno generale noi non lo lasceremo, per quanto sta in noi, privo di spiegazione, ma ne daremo in certo modo i contorni. Bisogna quindi che voi lo completiate e ascoltiate ciò cui guardando [c] compirete ciò. Queste cose, infatti, Megillo ed io e anche Clinia ce le siamo ripetute fra noi non poche volte, e siamo anche d’accordo di non aver commesso errori. Noi vogliamo che voi abbiate il nostro stesso orientamento e che diveniate nostri discepoli, indirizzandovi agli stessi obiettivi ai quali noi abbiamo convenuto fra noi dover orientarsi ogni custode delle leggi e legislatore. Il nostro accordo aveva un punto fondamentale e cioè che, comunque il cittadino [d] possa divenire una persona retta col possedere la virtù dell’anima, quella virtù cioè che conviene all’uomo, sia ch’egli la tragga da una pratica o da un costume, la realizzi attraverso un acquisto di una qualche specie o per un desiderio, un’opinione, qualche conoscenza, siano i conviventi nello stato di maschile natura o femminile, giovani o vecchi, egli dovrà tendere ogni sua cura, tutta la vita, a questo stesso obiettivo di cui parliamo; e che nessuno, chiunque sia, deve mostrare mai di preferire nulla d’altro che a questo obiettivo è di ostacolo, e ciò vale finalmente [e] anche per quanto riguarda lo stato se apparirà cioè necessario ch’esso venga distrutto prima che esso accetti, chinando il capo a un giogo servile, di essere diretto dai malvagi, oppure se sarà necessario di abbandonarlo volontariamente con l’esilio. Tutto ciò bisogna saper duramente soffrire prima di accettare di passare ad una costituzione che, per natura, rende peggiori i cittadini. Fin qui noi prima abbiamo trovato l’accordo, e ora voi tenendo presenti questi due obiettivi nostri approvate o biasimate le leggi, [771a] biasimate quelle che non possono perseguirli, ma le altre, che lo possono, amatele, accoglietele con amicizia e conducete la vostra vita sulla loro linea; quanto alle altre pratiche, quelle che tendono ad altri di quelli che si dicono beni, bisogna dir loro addio". E sia questo per noi il principio della nostra legislazione che segue, principio che comincia dalle leggi che disciplinano il culto religioso. Dobbiamo anzitutto riprendere il numero di 5040, in tutte le sue utilissime suddivisioni che ha avuto e che può avere [b] preso nel suo totale, oppure già diviso per tribù; abbiamo posto la tribù come dodicesima parte dell’intero e nasce esattamente dal prodotto di 21 per 20. Come l’intero si divide esattamente per 12, così si può dividere esattamente per 12 anche il numero della tribù. Ognuna di queste parti dev’essere considerata sacra, dono della divinità, e in connessione coi mesi e le parti della rivoluzione annuale dell’universo. Perciò il principio divino innato ad ogni stato li guida tutti e li consacra. Altri possono aver fatto meglio di altri le suddivisioni e averle consacrate agli dèi [c] in modo più fortunato, noi però ora affermiamo di aver scelto il numero di 5040 nel modo migliore, perché tutti i numeri dall’uno al dodici sono suoi divisori all’infuori dell’undici e questa è una lacuna che ha bisogno di una cura minima, infatti se si lasciano da parte due famiglie si otterrà di risanarlo in ambedue i casi della divisione - che è vero quanto dico ve lo potrei provare senza spendere molte parole se ne avessimo il tempo. Fidandoci quindi noi di queste parole e delle loro ragioni, ora, insieme dividiamo [d] lo stato, e ad ogni parte attribuiamo un dio o un figlio di dèi, diamo ad essa gli altari e le altre cose convenienti al culto, e due volte al mese indiciamo riunioni per fare su di essi i sacrifici, di cui ogni anno dodici in ogni suddivisione della tribù, dodici in ogni suddivisione dello stato. Si conservi questa consuetudine prima di tutto per ottenere il favore degli dèi e di tutto ciò che agli dèi è attinente e poi in funzione della nostra stessa familiarità e della reciproca conoscenza, per così dire, e di ogni sorta di [e] relazioni. Per le relazioni e le unioni matrimoniali è necessario rimuovere l’ignoranza sulla famiglia da cui proviene la sposa o alla quale va e le condizioni del patto, considerando di massima importanza non commettere errori in nessun modo, in tali scambi, nella misura del possibile. E’ per tale cura così seria che bisogna organizzare le feste [772a] "corali" di giovani e di ragazze che danzino, che guardino e si lascino guardare nudi fin dove permette a ciascuno un giusto pudore, in limiti ragionevoli e fornendo l’età verosimili scuse. I magistrati dei "cori" si incaricheranno di curare e regolare tutto ciò e diverranno legislatori insieme ai custodi delle leggi per quanto noi omettiamo di disporre. E’ necessario, come dicemmo, che, a proposito di tale ma-[b] teria, su tutti i molti particolari sia incompleto il legislatore e siano essi ordinati da chi ne diventa esperto anno per anno apprendendo dall’uso, e siano da questo corretti e mutati anno per anno, finché paia che tali regolamenti ed usanze abbiano raggiunto un giusto limite di perfezionamento. Un tempo giusto e sufficiente per completarne l’esperienza potrebbero essere dieci anni di sacrifici e di "danze corali", tempo questo che sarà disposto per regolare ogni cosa nel complesso ed anche nei particolari di concerto col legislatore che ha ciò istituito, finché questo vive, e [c] alla sua morte ciascuna magistratura proporrà essa stessa ai custodi delle leggi ciò che resta da correggere nella propria giurisdizione finché sì ritenga aver raggiunto ogni cosa il limite della sua perfetta realizzazione; allora fissatane l’immutabilità se ne farà uso insieme alle altre leggi già definite fin da principio con precisione dal legislatore che le ha date allo stato. Queste ultime nessuno di questi mai in nulla deve volontariamente rinnovare, e se si manifesta una qualche necessità che inopinatamente accada, devono esprimere il loro parere tutti i magistrati, [d] devono essere consultati tutto il popolo e tutti gli oracoli degli dèi, e se tutti assolutamente esprimono parere concorde e favorevole, allora e così si proceda alla innovazione, ma altrimenti assolutamente mai, e chi porrà il veto, sempre, per legge, avrà ragione di tutti gli altri pareri.
XVI. Quando un giovane giunto a venticinque anni guarda intorno a sé ed è dagli altri guardato, se confida di aver trovato qualcosa che sia secondo le sue preferenze e conveniente alla procreazione comune dei figli, si sposi, [e] ognuno, entro trentacinque anni; ma ascolti prima di tutto come si deve cercare in questa materia il conveniente e ciò che è armonico. Come dice anche Clinia, infatti, davanti ad ogni legge bisogna premettere il suo proemio. CLIN. Sì, ospite, lo ricordi bene, ed hai trovato l’occasione giusta per parlarne, un’occasione che anche a me pare adeguatissima. ATEN. Dici benissimo. "Figlio", diciamo [773a] così ad un rampollo di buoni ascendenti, "devi contrarre nozze che siano apprezzate da chi è assennato, che ti esorterà a non fuggire le nozze dei poveri né a cercare affannosamente quelle dei ricchi e, se tutto il resto è eguale, sempre a preferire l’unione matrimoniale con chi ha minori ricchezze". Questi matrimoni saranno infatti di grande utilità sia a questo stato che alle famiglie i cui membri li contraggono; grandissima importanza ha per la virtù l’equilibrio, la misura, piuttosto che ciò che non è temperato [b] da nulla. Chi si conosce troppo ardito e trasportato più rapidamente del dovuto in ogni sua azione deve cercare con ogni sforzo di farsi genero di padri equilibrati; chi invece ha contraria natura, deve indirizzarsi verso una parentela contraria. Universalmente sia questa l’unica regola delle nozze: ognuno deve essere pretendente di un matrimonio che sia nell’interesse dello stato, non per il suo piacere più grande. Sempre, per natura, ognuno è portato in qualche modo ad unirsi al suo simile al massimo grado, donde lo [c] stato intero ne riesce diseguale per ricchezza e costumi; origine questa di quanto noi vogliamo tener lontano da noi e che invece quanto mai accade nella maggior parte degli altri stati. Ma il fatto che con la legge si ordini e si dica questo, e cioè che il ricco non sposi dal ricco e il potente e il capace di fare molte cose non sposi da un altro come lui, e costringere ad accostarsi nell’unione matrimoniale chi è di costumi più impetuoso ai più tardi e i più tardi ai più impetuosi, oltre ad essere ridicolo, potrebbe suscitare l’ira di molti. Non è infatti facile capire che la popolazione dello stato deve essere mescolata come in una coppa di vino, [d] dove il vino versato ferve e spumeggia, ma dona una bevanda utile e moderata quando è temperato, per essere stato così riunito, da un altro dio sobrio. Nessuno, per così dire, sa percepire che accade la stessa cosa nella unione dei due genitori per la procreazione dei figli. Per tutte queste ragioni, da una parte la legge deve rinunciare a disciplinare direttamente questo aspetto della materia matrimoniale, ma dall’altra noi dobbiamo cercare di persuadere, con la nostra esortazione incantatrice, ogni cittadino a preferire un matrimonio in cui trovino gli sposi fra di [e] loro l’equilibrio dei figli piuttosto che un equivalente patrimonio nei due, desiderio insaziabile di ricchezze, e a distogliere col disprezzo dalle sue intenzioni chi nel matrimonio cerca avidamente la ricchezza, senza però costringerlo con una legge scritta.
XVII. Queste siano esortazioni che valgono per i matrimoni, insieme a quanto è stato esposto in precedenza, che cioè bisogna attenersi al perpetuarsi della natura, lasciando dietro di sé i figli dei figli al fine di dare alla divinità dei servitori senza interruzione sempre che suc-[774a] cedano a noi. Tutte queste ed altre cose si potrebbero dire sulle nozze, sulla loro necessità, facendo come si deve il proemio. Se però un cittadino non accetta questi princìpi volontariamente e come uno straniero vuol vivere nello stato e senza legami sociali e arriva senza nozze ai trentacinque anni, per ogni anno eccedente la norma sia multato, se della prima classe di 100 dracme, di 70 se della seconda, di 60 se della terza e di 30 se della quarta. Questo denaro [b] sia sacro ad Hera. Colui che anno per anno non paga, sia tenuto a pagare il decuplo. Sia incaricato della riscossione l’amministratore del tempio di Hera, e se non riscuote sia condannato a pagare di suo, e ognuno di essi dovrà nel rendere i conti rispondere di questo denaro. Chi non vuole sposarsi dunque sarà punito pecuniariamente così, sarà inoltre privato di ogni onore da parte dei giovani, e nessuno di questi voglia mai obbedirlo per nessuna cosa. Se poi tenta di punire qualcuno, ognuno deve aiutare e difendere questo che riceve ingiustizia, e chi sopravviene e non lo [c] aiuta sia dichiarato per legge vile e cattivo cittadino. Della dote abbiamo già parlato anche prima; diciamo ancora che in un modo o nell’altro i poveri non hanno minore opportunità di invecchiare in relazione al fatto che la mancanza di ricchezze li abbia impediti di prender moglie o di sposare la figlia. Infatti in questo stato nessuno è privo delle cose necessarie, e così meno insolenti a causa del denaro saranno le donne e meno abbietta e servile schiavitù nei mariti potrà sorgere dalla dote della moglie. Chi obbedisce [d] a queste regole farà in ciò una delle buone azioni; ma chi si ribella e dà o riceve per il vestire della sposa un valore di più di 50 dracme se dell’ultima classe, di una mina se della terza, di una mina e mezza se della seconda e di due mine se appartiene alla prima classe, versi una somma pari alla suddetta all’erario pubblico, e ciò che è stato dato o preso sia sacro ad Hera e a Zeus e sia riscosso dagli amministratori rispettivi dei due dèi, come è stato [e] detto per i renitenti alle nozze e cioè che riscuotano ogni volta gli amministratori di Hera o paghi in proprio ciascuno degli amministratori stessi la multa. La garanzia della promessa di matrimonio che ha maggior peso sia prima quella del padre, poi quella del nonno, terza quella dei fratelli di padre uguale; se non ci sia neppur uno di tutti questi valgono, in seconda istanza, le garanzie da parte materna nello stesso ordine. Se poi si dia una sorte del tutto inconsueta, valgono sempre i congiunti più prossimi insieme con i tutori. Per tutti i preliminari delle nozze e ogni altro rito propiziatorio che conviene compiere in questi casi, compiti propri di chi si deve sposare, o è nel-[775a] l’atto di farlo, o si è già sposato, bisogna che ognuno ritenga che tutto ciò che lo riguarda è avvenuto secondo le regole se interrogherà gli interpreti e obbedirà loro.
XVIII. Per quanto riguarda i banchetti nuziali, non siano invitati più di cinque amici o amiche per parte, e altrettanti parenti e familiari per ciascuna delle parti. La spesa non sia sproporzionata per nessuno al patrimonio e cioè per la prima classe il massimo è di una mina, mezza mina per la seconda e per la terza, così di seguito nella stessa proporzione in cui diminuisce il censo di ciascuno. [b] Avrà un encomio da tutti chi obbedisce alla legge, chi invece non obbedisce sia punito dai custodi delle leggi in quanto privo di buon gusto e diseducato alle leggi delle Muse nuziali. Bere fino all’ubriachezza non conviene mai altrove che nelle feste del dio che ci diede il vino, non è neppure cosa fatta per la sicurezza, né lo è soprattutto per chi si accinge seriamente alle nozze, ove conviene invece [c] che lo sposo e la sposa siano quanto mai padroni di sé all’atto di un cambiamento di condizioni di vita tutt’altro che insignificante, e insieme affinché colui che vien generato lo sia sempre da genitori quanto mai lucidi e capaci delle loro facoltà mentali. Non si sa infatti quale sia la notte o il giorno che con l’aiuto degli dèi lo farà venire all’essere. Oltre a ciò la procreazione non deve avvenire da corpi dissolti nelle membra dal vino, anzi si deve produrre il proprio frutto ben connesso, stabile e sereno, come è giusto. Chi si è riempito di vino si trascina d’ogni parte e vi tra-[d] scina tutto, smania nel corpo e nell’anima. L’ebbro è malamente incerto nel gettare il seme, così non potrà generare che figli deformi e infidi, per nulla retti nel costume e ben costruiti sulle membra, come è verosimile. Perciò piuttosto in tutto il corso dell’anno, per tutta la vita, ma specialmente per tutto il tempo in cui si procrea, bisogna star in guardia e non agire volontariamente in modo da contrarre malattia, né con violenza ed ingiustizia; è infatti una necessità che tale disposizione il padre imprima e modelli nell’anima e nel corpo dei figli e li faccia nascere del tutto infelici. Specialmente quel giorno [e] o quella notte gli sposi devono astenersi da quanto è stato detto. Il principio vitale posto negli uomini è infatti una divinità ed ha la forza di salvare ogni cosa, purché riceva, da ciascuno che ne usa, il dovuto onore. L’uomo che si sposa deve considerare una delle due case del lotto [776a] ottenuto in sorte come luogo destinato alla generazione e all’accrescimento dei piccoli, deve quindi consumarvi il matrimonio lontano dal padre e dalla madre ed abitarvi e nutrire se stesso ed allevarvi i figli. Nelle amicizie, se vi sia desiderio della persona amica, esso unisce e lega tutti gli affetti, mentre una convivenza che annoia e che nel tempo non mantiene il desiderio, genera reciproco allontanamento per troppa sazietà. Ragione per cui bisogna lasciare al padre e alla madre e ai familiari della moglie le loro abi-[b] tazioni, ritirarsi come in una colonia, e abitare colà donde si andrà a far loro visita e dove si riceveranno in visita generando ed allevando i figli, quasi passando la fiaccola della vita da una mano all’altra, e sempre osservando il culto degli dèi che la legge prescrive.
XIX. Vogliamo dopo di ciò determinare, quanto a ciò che si possiede, quali cose un cittadino possedendo potrebbe possedere la sostanza più conveniente? Non è per la maggior parte di esse difficile né pensarle né acquisirle, ciò che è invece molto arduo da ogni punto di vista è il possesso degli schiavi. La causa è nel fatto che si dicono [c] su di essi da parte nostra cose insieme in certo modo valide e in certo modo sbagliate; siamo soliti infatti parlare degli schiavi sia in modo contrario all’uso che ne facciamo, sia in modo conforme a questo. MEG. Che stiamo dicendo? Non comprendiamo, ospite, che cosa tu intendi dire ora. ATEN. Eppure, Megillo, questo non sorprende. E infatti, direi, la condizione degli iloti di Sparta potrebbe dare, a chi la stima buona istituzione e a chi pensa il contrario, il maggior numero di difficoltà e ragioni di dissenso che non la schiavitù presso tutti gli altri Greci. Meno ragioni di contesa la schiavitù di Eraclea, [d] in relazione alla sottomissione dei Mariandyni, quali schiavi, e quella della nazione dei penesti, in Tessaglia. Che dobbiamo disporre dunque a proposito del possesso degli schiavi, guardando a queste e a tutte le condizioni simili? Ciò che io mi trovai a dire di passaggio nel mio discorso è questo, e tu mi hai opportunamente chiesto che cosa mai volessi dire: noi sappiamo che tutti in qualche modo diranno che occorre avere schiavi il più possibile ben disposti e bravi; molti schiavi infatti già furono migliori in ogni virtù che i fratelli e i figli per qualcuno, e hanno [e] salvato il padrone, le sue ricchezze e tutta la sua casa. Sappiamo, infatti, che sì parla così di certi schiavi. MEG. Come no? ATEN. E si dice anche il contrario, che l’anima degli schiavi non ha nulla di sano e che chi ha senno non deve fidarsi mai per nulla di questa razza. E il più sapiente dei nostri poeti, quando parla di Zeus, afferma:
[777a]
Zeus dall’occhio spaziante - dice - priva di metà della mentegli uomini cui sopravviene il giorno della schiavitù.
Separando ciascun gruppo di uomini questi due punti di vista, nei propri pensieri, gli uni non si fidano per nulla del genere degli schiavi e come si trattasse di belve col pungolo e la frusta rendono non tre volte soltanto, ma di più ancora, schiava la loro anima; gli altri si comportano in [b] modo tutto contrario. MEG. E vero. CLIN. Che cosa dobbiamo decidere dunque, ospite, sul possesso e la disciplina degli schiavi nella nostra nuova terra, quando ci sono questi così diversi pareri fra gli Uomini? ATEN. Che cosa faremo, Clinia? E’ evidente che, poiché l’animale uomo è di carattere difficile, e mostra di non voler in nessun modo adattarsi ad essere o diventar docile davanti alla necessaria distinzione per la quale noi nei fatti separiamo schiavo e libero e padrone, è una proprietà difficile quella degli schiavi. Ciò in pratica spesso è rivelato e nelle frequenti abituali [c] rivolte che dai Messeni accadono e negli altri stati in cui si posseggono molti schiavi di una sola lingua, da quante sventure accadono, e in più dai furti e i danni d’ogni specie di quelli che si dicono ‘vagabondi’ e ci sono in Italia. Guardando a tutto questo ci sarebbe da rimanere veramente incerti sul come comportarsi per tutte le cose siffatte. Ci restano due soli mezzi per risolvere il problema: chi vuol avere schiavi che gli siano soggetti più facilmente non deve tenerne di una sola nazione, anzi devono essere quanto [d] più è possibile di lingua diversa, in secondo luogo deve allevarli bene non solo per far piacere a loro, ma avendo in vista di più il proprio interesse; e così il modo di allevare simili uomini è non far mai violenze agli schiavi, meno ingiustizie anzi a loro, se è possibile che ai nostri eguali. Chi venera per natura la giustizia e non solo in apparenza, chi veramente odia l’ingiustizia, apparirà dai rapporti che ha con quegli uomini cui gli è facile recare ingiuria. Chi poi è uomo immune da empietà e ingiustizia nelle sue [e] abitudini e nelle sue azioni verso gli schiavi, sarà un ottimo seminatore di quei germi da cui nascerà virtù. Lo stesso si può dire, e giustamente, parlando di un padrone, di un tiranno, di ogni principe imperante con ogni tipo di principato su chi è più debole di lui. Lo schiavo si deve punire secondo la giustizia, ma non rammollirlo coi rimproveri dovuti agli uomini liberi; ogni volta che si rivolge la parola ad uno schiavo dev’essere come un ordine, non [778a] si deve in nessun modo e per nessuna ragione scherzare con loro, né femmine né maschi. Molti amano comportarsi così con gli schiavi, e stoltissimamente li guastano e rendono loro più dura la vita e l’obbedienza, a se stessi più difficile il comando. CLIN. Dici bene. ATEN. Quando dunque un nostro cittadino si sia provveduto di schiavi il meglio possibile sia per numero sia per la loro convenienza in relazione a ciascuno dei modi in cui essi lo aiuteranno, nelle sue opere, dopo di ciò dobbiamo col nostro discorso tracciare il piano delle abitazioni? CLIN. Certamente.
[b] XX. ATEN. Trattandosi di un nuovo stato disabitato in precedenza, sembra bene curare tutto l’aspetto, per così dire, dell’architettura, in generale, dire cioè come avrà ciascuna di queste cose e i templi e le mura. Dovevamo ordinare questa materia, Clinia, prima dei matrimoni, d’altra parte, poiché ora lo stato nasce solo a parole, possiamo proprio farlo così per ora; ma quando verrà ad essere nei fatti lo stato realmente, se lo vorrà la divinità anteporremo [c] ciò alla regolamentazione dei matrimoni e questi allora potremo realizzare come conclusione di queste cose siffatte. Ora tracciamone in breve solo un disegno generale. CLIN. Sta bene. ATEN. Bisogna costruire i templi tutto intorno alla piazza del mercato e tutta la città capitale, in cerchio verso le alture per ragioni di difesa e di pulizia. Vicino ai templi la sede delle Magistrature e i tribunali dove si riceveranno e si daranno le sentenze ai cittadini, come in luoghi più che mai sacri, sia per la loro funzione che è [d] attinente a cose sante, sia perché sedi degli dèi preposti a questa ultima, e fra questi soprattutto quei tribunali in cui si giudicheranno con i processi convenienti gli omicidii e tutti i delitti che si pagano con la morte. Quanto alle mura, Megillo, io sarei dello stesso parere di Sparta, lasciarle dormire giacenti a terra e non drizzarle mai. E per questi motivi. E’ molto bello anche che si lodi il discorso dei poeti, su questo argomento, che cioè le mura non di terra devono essere, ma piuttosto petti di uomo armati di bronzo e di ferro. Di più ci esporremmo giu-[e] stamente moltissimo al ridicolo, se mandando ogni anno i giovani nel territorio, qui a far fossati, là bastioni, a costruire fortificazioni per fermare i nemici e impedir loro di metter piede oltre il confine del territorio, ci circondassimo ancora di mura in città, cosa che prima di tutto non torna certo utile alla salute dei cittadini e di più suole ingenerare un abito di mollezza negli animi degli abitanti, invitandoli a rifugiarvici dentro senza respingere i nemici, [779a] invitandoli a non trovare salvezza nel vigilare sempre alcuni in città di notte e di giorno, ma, protetti da mura e da porte anche nel sonno, a ritenere di avere in realtà mezzi onde esser salvi come se fossero nati per non faticare; inconsapevoli che sono in realtà le fatiche che permettono la comodità, mentre, io penso, la vita facile e vergognosa e la negligenza generano a loro volta la fatica. Però se bisogna veramente che un qualche muro di difesa abbiano gli uomini, è necessario fin da principio si gettino le [b] fondamenta delle case dei privati, in modo che tutta la città stessa sia una fortezza, e tutte le case siano disposte sulle strade in modo regolare, fatte nella stessa forma, adatte alla difesa; non è spiacevole a vedersi una città che ha l’aspetto di una sola casa, e sarebbe anche cosa eccellente per la sicurezza dei singoli e dello stato, sulla base della facilità con cui si presta alla vigilanza. Del fatto che venga conservata la disposizione originaria degli edifici sarebbe opportuno si occupassero principalmente coloro che vi abitano, gli astynòmoi devono curare ciò, co-[c] stringendo e punendo i negligenti, devono darsi cura di ogni cosa in città e della pulizia e perché nessuno dei privati occupi con costruzioni o fossati nessun luogo pubblico. Devono anche sopraintendere al deflusso delle acque piovane e a tutto ciò che internamente o esternamente alla città capitale potrebbe essere conveniente dirigere. Saranno i custodi delle leggi che, venendo a conoscenza di tutto questo attraverso l’esperienza, emetteranno le altre norme relative [d] a questo e a tutto il resto che la legislazione trascuri a causa di difficoltà insuperabili in quel momento. Ora che questi edifici, quelli della piazza del mercato, i ginnasi e tutte le scuole sono stati costruiti e attendono i frequentatori, una volta che anche i teatri attendono solo gli spettatori, possiamo procedere alla legislazione che segue quella matrimoniale e attenerci alla legislazione successiva. CLIN. Sta bene.
XXI. ATEN. Supponiamo che siano già state celebrate le nozze, Clinia; il modo di vita successivo al matrimonio, prima della generazione dei figli, non dovrebbe durare [e] meno di un anno, e dire come dev’essere vissuto dallo sposo e dalla sposa nel nostro stato, che deve primeggiare su molti altri, non è certo la cosa più semplice - mi lego con ciò a quanto ho detto poco fa. Anzi, non essendo poche le norme siffatte che or ora abbiamo esposto, questa che ora diremo è ancor più difficile da accettarsi di molte di quelle, da parte della massa. D’altra parte non bisogna mai omettere di dire ciò che si ritiene giusto e vero, Clinia. CLIN. Certamente. ATEN. Chi pensa di promulgare leggi [780a] agli stati sul modo in cui bisogna vivano i cittadini ed agiscano limitatamente agli affari pubblici e comuni e insieme ritiene di non dover fare altrettanto per quanto è di necessità nel campo della vita privata, chi pensa che ognuno deve avere la facoltà di vivere come vuole la sua giornata, senza che tutte le sue azioni debbano avvenire secondo una regolamentazione, e permettendo che gli affari privati siano senza disciplina di legge, e crede poi che i cittadini vorranno vivere mediante la legge nella vita pubblica della comunità, commette un errore. Perché è stato detto così? Per questo, e cioè perché diremo che gli sposi [b] devono prendere i loro alimenti nei "pasti in comune" né più né meno che nel tempo trascorso prima del matrimonio. Una cosa simile parve di certo strana quando fu applicata per la prima volta da voi, sia che una guerra, come è verosimile, abbia fatto in ciò da legislatore, sia che qualche altro fatto della medesima efficacia l’abbia suggerito, a chi sia stato in grande difficoltà per mancanza di uomini. Ma una volta assaggiati i "pasti in comune", costretti a ricorrere ad essi, a quegli uomini parve che la loro istituzione aveva [c] un grandissimo valore per la salvezza dello stato, e fu stabilita tale pratica, appunto dei "pasti in comune", per voi, in qualche simile modo. CLIN. E’ verosimile che sia stato così. ATEN. Ciò che dicevo dunque è che pur essendo per qualcuno cosa strana e paurosa da applicarsi obbligatoriamente, ora non sarebbe ugualmente cosa difficile il prescriverli a chi lo volesse fare. Invece una cosa che pure è in stretta relazione con la precedente, e se si facesse sarebbe per natura sua ottima cosa, ma al presente in nessun luogo si mette in pratica e mancando costringe quasi il legislatore, come si dice per gioco, a cardare il fuoco e a [d] fare infiniti altri simili e vani tentativi, non è una cosa facile né a dirsi né a farsi dopo averla detta. CLIN. Cos’è dunque, ospite, questa cosa che tenti di dire mentre sembri d’altra parte molto esitante a parlarne? ATEN. Potrete udirla affinché non facciamo una lunga discussione su ciò: non ne vale la pena. Tutto ciò che nello stato avviene partecipando dell’ordine e della legge produce ogni bene. Mentre ciò che avviene fuori del piano preordinato o secondo un piano sbagliato è causa di dissolvimento per lo più anche a altri aspetti della realtà statale già ben organizzati. Quanto ora diciamo è anche un esempio di ciò. Da voi infatti, [e] Clinia e Megillo, i "pasti in comune", limitatamente ai maschi, furono introdotti giustamente se pur insolitamente, come dicevo, sotto la spinta di una determinata necessità divina, ma su questo punto le donne in modo assolutamente [781a] erroneo sono state lasciate senza alcuna disciplina, non è venuta alla luce l’usanza dei "pasti in comune" per loro. Anzi quel genere che anche per altre guise rispetto al nostro maschile, per la sua stessa debolezza, è più incline per natura a nascondersi ed all’astuzia, il genere femminile, con uno sbaglio fu abbandonato a se stesso proprio perché difficile da inquadrare, avendo il legislatore rinunciato a dargli una norma di vita. Di qui, dall’abbandono di questo, molte cose vi sfuggivano di mano e sarebbero andate invece molto meglio di quanto vadano ora se ad esse fossero toccate delle leggi. Non è solo, come potrebbe sembrare, la-[b] sciare lo stato a metà imperfetto il fatto che le donne siano lasciate senza disciplina politica, ma, quanto la natura femminile è inferiore alla maschile per virtù, di tanto hanno importanza maggiore del doppio di quanto si è detto le donne. Quindi è meglio, in funzione della felicità dello stato, riprendere questa materia, correggerla e disciplinare insieme tutti i costumi delle donne e degli uomini. Ma la condizione cui è stato condotto del tutto sfortunatamente il genere umano al presente è tale che dove i "pasti in comu-[c] ne" di alcun tipo, non sono stati ancora ammessi nella vita dello stato, in questi altri luoghi, in questi stati che non sono il nostro, non è da uomo prudente farne nemmeno menzione. E allora muovendo da quali princìpi qualcuno vorrà tentare, senza cadere nel ridicolo, di costringere in realtà le donne a mostrarsi pubblicamente nell’atto di prendere cibo e bevanda? Non c’è niente che potrebbero sopportare le donne con un maggior dispetto. Abituate ad una vita celata, nascosta nell’ombra, vistesi trascinate di forza alla luce, resisteranno con tutte le loro energie e la vinceranno largamente sul legislatore. E al-[d] trove, come dissi, non sopporterebbero nemmeno di sentirne parlare, sia pure in modo giusto, senza sollevare grandi grida di protesta; qui forse ci ascolterebbero. Se dunque vi pare che questo nostro piano generale di costituzione, almeno delineato così a scopo di conversazione, non sia riuscito una cosa infelice, voglio dirvi come è buono e conveniente quel che propongo, ammesso comunque che anche a voi sembri opportuno ascoltarmi; altrimenti lasciamo andare. CLIN. Ma, ospite, noi due in modo straordinario riteniamo di doverti ascoltare, assolutamente, direi.
XXII. ATEN. Ascoltiamo allora. Non meravigliatevi se vi [e] sembrerò riattaccare da un po’ indietro. Noi godiamo di tempo libero e niente ci spinge e ci impedisce di esaminare le leggi da tutti i punti di vista e in tutti i loro aspetti. CLIN. Hai detto bene. ATEN. Torniamo indietro dunque a quanto abbiamo detto in principio. Ogni uomo deve ben rendersi conto dell’importanza di questo, e cioè che la generazione umana o non ha affatto avuto un [782a] principio e non avrà mai nemmeno una fine, ma era da sempre e sarà sempre, o dovrebbe essere passato un tempo di una lunghezza indeterminabile dal momento iniziale della sua origine. CLIN. E’ vero. ATEN. E allora? Non pensiamo che ci furono fondazioni e distruzioni di stati, ogni tipo di costume nell’ordine e nel disordine, mille modi di nutrirsi e infiniti desideri di bevande e cibi, assolutamente su tutta la terra, e ancora ogni specie di rivolgimenti delle stagioni, in cui è verosimile che anche gli animali viventi avranno subìto un enorme numero di tra-[b] sformazioni? CLIN. Come dir di no? ATEN. Ebbene? Possiamo credere che le viti siano comparse in qualche modo sulla terra solo a un certo momento e che non ci siano state prima? E così gli olivi e i frutti di Demetra e di Kore? E un Triptolemo ne divenne il ministro e distributore? E non possiamo supporre anche che quando tutto questo non c’era gli animali si volgessero a divorarsi tra loro, come fanno ora? CLIN. Sì. ATEN. Il [c] costume poi dei sacrifici umani, fatti dagli uomini su se stessi, è sopravvissuto ancora, come vediamo, presso molti popoli; mentre all’opposto sentiamo dire di altri dove in certi tempi non si osava nemmeno gustare la carne di bue, non si sacrificavano animali agli dèi, ma invece focacce e frutti melati e simili altre offerte sacrificali pure e si astenevano dalla carne perché ritenevano sacrilegio mangiarne e macchiare di sangue gli altari degli dèi; si attuavano per quelli di noi che vivevano allora i modi di vita che si dicono orfici, nutrendosi essi di esseri inanimati e invece astenen-[d] dosi da tutto ciò che ha vita animale. CLIN. Hai riferito cose largamente tramandate e affatto credibili. ATEN. Mi si potrebbe domandare perché ho parlato di tutte queste cose ora a voi. CLIN. Hai supposto bene, ospite. ATEN. Allora proverò a dire quello che segue, Clinia, se potrò. CLIN. Parla. ATEN. Io vedo che tutte le cose umane dipendono da tre bisogni, da tre desideri, e la virtù ne deriva agli uomini quando essi trovano la giusta linea su cui dirigerli, avviene il contrario se li dirigono male. I [e] primi due sono mangiare e bere, già per chi è appena nato; ogni animale ha connaturale per essi, nel loro complesso, un amore impetuoso, ed è pieno di tormento e incapace di ascoltare se uno invita al dover fare altra cosa dal soddisfare il piacere e il desiderio di tutto ciò e dal liberarsi sempre necessariamente di tutto il tormento. C’è poi un terzo e il più grande nostro bisogno, il più acuto [783a] e ultimo amore che sorge in noi, rendendo gli uomini brucianti di follia, completamente, ed è quello che con estrema violenza ci spinge ardenti a seminare la nostra specie. Queste tre affezioni volgendole al meglio, al di là di ciò che volgarmente è detto piacevole al maggior grado, si deve provare a contenerle coi tre più grandi rimedi, la paura, la legge, e il discorso vero, ricorrendo alle Muse e [b] agli dèi dell’agone ginnico, attenuando il crescere e l’irrompere di quelle tre forze. Poniamo, ora, dopo le nozze la procreazione dei figli, e dopo di questa il loro accrescimento ed educazione; e forse procedendo i discorsi così ciascuna legge giungerà per noi a compimento, in avanti, quando arriveremo ai "pasti in comune"; a questo punto forse osserveremo meglio siffatte riunioni, mescolandoci da vicino ai partecipanti a esse e vedremo se debbano essercene di donne, o debbano avvenire solo con uomini, e [c] ciò che a questo precede, e attende ancor la sua legge, ci porremo innanzi come una difesa, regolandolo, e come fu detto or ora, vedremo poi con maggior precisione anche questo e potremo meglio dare ad esso le leggi convenienti ed adatte. CLIN. E’ giustissimo quello che dici. ATEN. Affidiamo ora alla custodia della memoria quanto abbiamo detto avremo bisogno forse in seguito di tutto questo. CLIN. Che cosa ci inviti a tenere a memoria? ATEN. Quelle cose che poco fa distinguevamo con tre espressioni: mangiare, dicevamo, in qualche modo, e poi bere, in secondo luogo, [d] e, terzo, un violento desiderio sessuale. CLIN. Ospite, non mancheremo di ricordarci completamente di tutto ciò che tu ora ci comandi di ricordare. ATEN. Bene. Torniamo dunque alle cose nuziali, insegniamo agli sposi come e con quale metodo debbono fare i figli; in caso non vogliano obbedire, minacciamoli con certe leggi. CLIN. Come dunque?
XXIII. ATEN. La sposa e lo sposo pensino che devono presentare allo stato figli più belli e migliori possibile. Tutti [e] gli uomini quando agiscono insieme, in qualsiasi azione, se si controllano e controllano con la mente l’azione che fanno, tutto fanno bello e buono; se non vi rivolgono la mente, o non l’hanno, le loro opere riescono prive di ogni valore. Anche lo sposo dunque eserciti la sua mente nel curare la sposa e nel procreare i figli, lo stesso per la sposa, e ciò soprattutto nel periodo in cui non abbiano ancora avuto [784a] bambini. Siano addette a questa sorveglianza delle donne che avremo scelto, in numero più o meno grande, quante decideranno i magistrati, secondo quanto e quando loro parrà opportuno. Ogni giorno si raccoglieranno nel tempio di Ilithyia per almeno una terza parte d’ora, ivi raccolte si scambieranno segnalazioni, come, per esempio, se una abbia rilevato che un uomo od una donna in età di avere figli invece di orientarsi a quanto è stato prescritto durante i sacrifici e le cerimonie nuziali, ne deviano mirando a qualche altra cosa. La procreazione dei figli e il [b] periodo di vigilanza su quelli che li fanno duri dieci anni, non di più, nel caso in cui il matrimonio sia riuscito fecondo per abbondanza di generazioni. Se invece due sposi pervengano a questo limite di tempo senza figli, si separino, deliberando insieme ai familiari e alle donne preposte a questa materia sul meglio da farsi per ciascuno dei due. Se ci sarà contestazione sul da farsi per la convenienza e il van-[c] taggio di ciascuno degli sposi, scelti da questi dieci custodi delle leggi, ad essi devolveranno la questione ed essi dispongano, gli sposi si atterranno a quanto essi abbiano disposto. Le donne entreranno nelle case dei giovani sposi, per esortare o per minacciare, e li distoglieranno dagli errori e dall’ignoranza; se non riescono, denuncino i fatti recandosi dai custodi delle leggi, e questi impediscano l’errore di quelli. Se poi anche quelli in qualche modo non riescano, ne facciano pubblica denuncia, sia affisso da loro il nome e resa testimonianza giurata di non poter affatto rendere migliore il tale e il tale. Chi viene iscritto pubblicamente [d] così, a meno che non vinca contro i suoi accusatori in tribunale, sia privato dei seguenti diritti: non potrà assistere alle nozze né partecipare alle cerimonie per la nascita dei bambini; se colto in fallo ad andarci, chiunque voglia potrà punirlo con percosse, liberamente. Le stesse norme valgono anche se si tratta di una donna; non le sarà permesso di uscire in pubblico con le altre donne, sarà privata degli onori e non potrà partecipare alle riunioni di nozze e per le nascite, se una volta sia stato affisso il suo nome [e] per quei suoi errori, e non sia riuscita a vincere la causa. Quando procreino i figli secondo le leggi, se l’uomo si congiunga anche con una donna d’altri, o la donna con un altro uomo per simile scopo, e siano ancora nella età valida per legge alla procreazione, subiscano le stesse limitazioni che sono già state formulate per quelli che sono ancora in età da generare. Dopo tali limiti d’età chi invece è saggio e temperante, e saggia e temperante, in tutta tale materia sia ritenuto degno di buona reputazione, sia ritenuto il contrario, anzi sia pubblicamente disonorato chi agisce contrariamente alle norme. Ed ove la maggior parte dei cittadini si conducano correttamente riguardo a quanto abbiamo detto fin qui, senza emanare leggi apposite sia [785a] conservato il silenzio su ciò, da parte del legislatore, se la maggior parte invece devii, siano fissate le leggi, e si agisca in conformità alle leggi allora stabilite. Il primo anno è per ognuno il principio di tutta la vita; bisogna segnarlo nel tempietto familiare come inizio di una nuova vita. Accanto ad ogni bambino o bambina sia iscritto in ogni fratria su di una parete imbiancata il numero dei magistrati che determinano gli anni col loro numero. I viventi della fratria siano costantemente iscritti l’uno accanto [b] agli altri, siano cancellati quelli che lasciano la vita. I limiti di età per le nozze di una ragazza siano compresi fra i sedici e i vent’anni, il massimo tempo stabilito; per un giovane dai trenta ai trentacinque. Per le cariche pubbliche il minimo per le donne sono quaranta anni, trenta per gli uomini. Per la guerra all’uomo i limiti sono dai venti ai sessant’anni. Per la donna poi, in qualsiasi modo si ritenga di doverne usare in guerra, dopo che abbia già generato dei figli, siano date disposizioni secondo le possibilità e la convenienza di ciascuna, ma non oltre i cinquanta anni.
VII
[788a] I. ATEN. Ora è giusto che noi parliamo dell’accrescimento e della educazione dei bambini, maschi e femmine; poiché ormai sono nati non si può tacere affatto su questo punto; comunque quello che diremo potrebbe apparirci simile più a un insegnamento e ad un consiglio che a una legge. Privatamente infatti e nel segreto della casa, avvengono mille piccole cose sconosciute al pubblico, diverse e contrarie ai consigli del legislatore, deter-[b] minate dal dolore o dal piacere o dai desideri di ciascuno, con una certa facilità, cose che potrebbero rendere i costumi dei cittadini molto diversi fra loro, svariatissimi. Questo è un male per lo stato, non è infatti qui opportuno né elegante disporre delle leggi imponendo le relative punizioni, a causa della piccolezza e del grande numero di queste infrazioni; questo però fa scadere anche il valore delle altre leggi scritte, dato infatti che in queste moltissime e piccole cose gli uomini sono soliti trasgredire la [c] norma. Cosicché vi è difficoltà relativamente a queste cose nel legiferare, né d’altra parte si può tacere del tutto. Bisogna che io provi a dimostrarvi chiaramente, portando alla luce degli esempi, quello che voglio dire; infatti tali cose, ora, assomigliano a quelle che si dicono oscuramente. CLIN. E’ verissimo quello che dici. ATEN. Abbiamo detto giustamente che il corretto accrescimento dei corpi e la corretta educazione delle anime devono del tutto apparire tali da realizzare al massimo grado possibile bellezza e valore in questi. CLIN. Sì. ATEN. Per quanto riguarda [d] il fatto che i corpi siano belli il più possibile, credo, la cosa più semplice è che devono svilupparsi nel modo più regolare fin da quando sono più giovani i bambini. CLIN. Certamente. ATEN. E allora? Non ci rendiamo conto che il primo sviluppo di ogni animale è per natura il più grande e il più ampio sì che ha dato a molti occasione di disputa sul fatto che le dimensioni del corpo umano dopo i cinque anni, nei venti successivi, non acquistano in grandezza nemmeno tanto da arrivare al doppio di quello che erano? CLIN. E’ vero. ATEN. Ebbene? Non sappiamo che un [789a] grande aumento, quando affluisce senza molte e adatte fatiche, realizza infiniti mali nei corpi? CLIN. Lo sappiamo. ATEN. C’è quindi allora bisogno del maggior numero di fatiche, quando la maggior parte dell’accrescimento sopravviene ai corpi. CLIN. Ma che dici, ospite? Ai bambini appena nati, ai giovanissimi, vorremo noi prescrivere il maggior numero di esercizi faticosi? ATEN. In nessun modo, ma invece ancor prima a quelli che sono alimentati dentro la loro madre. CLIN. Che dici, amico mio preferito? O non parli forse di quelli che sono ancora nel seno della madre? ATEN. Sì. Non c’è affatto da [b] meravigliarsi che voi ignoriate la ginnastica per quelli che sono in tale età, e vorrei descrivervela anche se strana. CLIN. Descrivila. ATEN. E’ dunque più facile intendere una cosa siffatta presso di noi perché da noi c’è l’abitudine di giocare in certi giochi più di quello che si dovrebbe. Da noi infatti non solo i ragazzi ma anche certi anziani allevano i piccoli di certi uccelli per farli poi combattere fra di loro. Questi allevatori sono ben lontani dal credere, [c] nell’esercitare questi animali, che siano sufficienti gli sforzi che questi fanno l’uno contro l’altro, quegli sforzi cui essi li aizzano appunto nell’allenarli. E infatti, oltre a ciò, ciascuno se li prende in braccio, di nascosto, i più piccoli in mano, i più grandi dentro l’ascella, e vanno camminando per molti stadi; lo fanno non per accrescere il vigore del corpo loro ma per accrescere quello di questi animaletti e di ciò danno la prova, a chi può comprendere, [d] e cioè del fatto che tutti i corpi traggono giovamento dall’esser mossi da tutti gli scuotimenti e i movimenti che non li stanchino eccessivamente, tutti i movimenti originati da se stessi o ricevuti anche nelle vetture, per mare, sui cavalli o prodotti da ogni altro corpo, comunque, e, grazie a questi potendo i nostri corpi digerire ed assimilare le sostanze nutritive dei cibi e delle bevande, divengono capaci di procurarci salute e bellezza e vigore in ogni altro suo aspetto.
II. Se dunque stanno così queste cose, che cosa diremmo che ora, dopo di ciò, dobbiamo fare? Volete che [e] nonostante il ridicolo che potremo suscitare parliamo e stabiliamo per legge che le donne incinte devono passeggiare e plasmare quello che nasce come se fosse di cera finché non si è indurito, che infine fino a due anni lo tengano in fasce? E costringeremo le nutrici sotto pena di un castigo sancito dalla legge a portare i bambini, sia che vadano per i campi o nei templi o dai parenti, con frequenza comunque regolare, finché non siano capaci di stare in piedi da soli, ed anche quando lo siano continueremo ad obbligarle a vigilare e stare bene in guardia a che, essendo ancora giovani le loro membra, non si storcano in qualche modo per la violenza del loro stesso peso, e si affatichino a portarli in braccio fino a che il nuovo nato non abbia compiuto i tre anni? E diremo che bisogna che tali nutrici [790a] siano il più possibile forti e non una sola? E su tutte queste cose, nel caso non avvengano così, stabiliremo per iscritto una pena pecuniaria per chi non agisce secondo la legge? O invece siamo molto lontani dal far ciò? Infatti quanto abbiamo appena detto risulterebbe eccessivo e troppo abbondante. CLIN. Che cosa? ATEN. Il fatto che noi saremmo meritevoli di molto riso, e inoltre le nutrici non vorrebbero obbedire, per la loro indole propria di donne e di schiave. CLIN. Ma allora perché abbiamo detto di doverne parlare? ATEN. Per questo: [b] i padroni, gli uomini liberi nello stato, per l’indole ch’essi hanno, forse ascoltando tutto ciò potrebbero pervenire alla giusta comprensione del fatto che negli stati, al di fuori di una corretta organizzazione delle cose private, invano uno potrebbe credere che le cose pubbliche otterranno una qualche stabilità relativa alla legislazione, e pensando così, questo stesso uomo potrebbe allora usare delle norme enunciate ora, ed usandole, e in tal modo organizzando bene la sua famiglia e insieme lo stato, potrebbe vivere felice. CLIN. Hai parlato dicendo cose molto verosimili. ATEN. Perciò non abbandoniamo ancora que-[c] st’opera legislativa, prima di avere attribuito nel nostro discorso le pratiche relative alle anime dei bambini ancora giovanissimi, nello stesso modo in cui abbiamo cominciato a fare per i discorsi enunciati sui corpi, tracciandoli in modo completo. CLIN. Giustissimo. ATEN. Assumiamo dunque questo come elemento fondamentale per l’una e per l’altra cosa, per il corpo e l’anima dei bambini molto giovani, e cioè che è conveniente a tutti l’alimentazione e il movimento che avvengano il più possibile per tutto il giorno e per tutta la notte, ed è utile in special modo ai più giovani, e se fosse possibile questi dovrebbero vivere come in un battello sempre navigante sul mare; ed ora [d] anche noi dobbiamo realizzare ciò che è più vicino a queste condizioni in relazione a quei bambini che sono piccoli appena nati. Ciò d’altra parte si deve arguire anche dal fatto che le nutrici, per i piccoli, hanno appreso questo metodo dall’esperienza e l’hanno conosciuto come cosa utilissima, ed altrettanto le donne che curano il male dei Korybanti. Quando infatti le madri vogliono addormentare i bambini inquieti non li tengono fermi, anzi, al [e] contrario, li muovono dondolandoli continuamente fra le braccia, non tacciono ma cantano loro qualche canzoncina, e, direi, senz’altro, incantano i piccoli, così come all’incantamento ricorrono per curare quelli che sono come baccanti per la pazzia, usando, insieme al movimento, di quella danza e della musica che sono ben note. CLIN. Quale è dunque proprio la causa, per noi, di questi effetti, ospite? ATEN. Non è difficile conoscerla. CLIN. E come? ATEN. Ambedue queste affezioni sono come una specie di timore e sono timori che nascono da una debole condizione dell’anima. Quando dall’esterno dunque qual-[791a] cuno aggiunge a siffatte affezioni uno scuotimento, questo moto che viene aggiunto dall’esterno supera e domina quello interno, cioè il movimento della paura e della follia. E per questo dominio esso appare ingenerare nell’anima una tranquilla serenità sì da acquetare i battiti affrettati e molesti del cuore che si danno negli uni e negli altri, cosa quella del tutto desiderabile, e gli uni fa sì che ottengano il sonno, gli altri, svegli sotto l’azione della danza e del flauto, con l’aiuto degli dèi, dèi ai quali ciascuno fa sacrifizi propiziatori, li riduce in condizioni di sanità di [b] mente, in luogo di essere, come appaiono, in preda alla follia. E queste cose, per parlare in breve così, hanno la forza di un discorso persuasivo. CLIN. Senza dubbio. ATEN. Se allora tali cose hanno questa siffatta capacità, bisogna, relativamente ad esse, pensare anche questo, e cioè che ogni anima che fin da giovane viva nel timore meglio potrebbe abituarsi ad essere timorosa, e questo ognuno direbbe che risulta essere esercizio di viltà e non di coraggio. CLIN. Come no? ATEN. E al contrario noi potremmo dire che esercizio di coraggio sùbito fin da [c] giovani è il vincere le paure e i timori che ci vengono addosso. CLIN. Esatto. ATEN. Noi possiamo aggiungere che è di grande aiuto allo sviluppo di una parte della virtù nell’anima anche questa ginnastica che fanno i molto piccoli muovendosi. CLIN. Certamente. ATEN. Ora, nell’anima, l’assenza o la presenza del cattivo umore non dovrebbero avere, l’una e l’altra cosa, poca importanza per il benessere dell’anima stessa o il suo star male. CLIN. Come dir di no? ATEN. Come potremmo allora ingene-[d] rare nel neonato subito quello dei due stati che vorremmo? Bisogna che proviamo a dire come e in che misura abbiamo ì mezzi di fare l’una e l’altra cosa. CLIN. Come no, infatti?
III. ATEN. Io affermo allora questa nostra convinzione, che cioè la mollezza ingenera nelle indoli dei fanciulli umore cattivo, irritabilità e li rende facili a commuoversi per troppo piccole cose e che, al contrario, la soggezione eccessiva e rude li rende meschini, di bassi sentimenti, misantropi, li fa insomma individui niente affatto socievoli. [e] CLIN. Come dunque occorre che tutto lo stato educhi chi non può ancora comprendere la parola, né è ancora in grado di gustare del resto della educazione? ATEN. Così: ogni animale nato da poco ha l’abitudine di gridare. subito a piena voce, e soprattutto il genere degli uomini. E gli uomini oltre al gridare sono più degli altri inclini al piangere. CLIN. Senza dubbio. ATEN. Le nutrici allora attente a ciò che il bambino desidera, arguiscono ciò pro-[792a] prio dal suo gridare e dal piangere all’offerta di qualche cosa; ciò infatti che, se viene offerto, allora il bambino tace, ritengono di offrirlo correttamente, se piange e grida, non correttamente. Per i piccoli bambini il piangere e il gridare sono l’indicazione di ciò che amano od odiano, segni mai di buon augurio. Questo periodo dura non meno di tre anni. Non è una piccola parte della vita per essere vissuta bene o male. CLIN. E’ giusto quello che dici. ATEN. Non pare a voi due che chi è di carattere cattivo e non è affatto sereno, questi sia sempre portato a pian-[b] gere e, in generale, sia pieno di lamenti più di quanto è necessario perché sia uomo retto? CLIN. A me, almeno, pare. ATEN. Ebbene? Se qualcuno provasse ad adoperare ogni mezzo durante i tre anni perché il nostro oggetto di educazione il meno possibile abbia a far esperienza del dolore e delle paure e di ogni afflizione, non pensiamo così di poter rendere l’anima di colui che viene educato più lieta e più serena in questo periodo? CLIN. E’ evidente e ciò si avrebbe, specialmente, ospite, procurandogli molte pia-[c] cevoli gioie. ATEN. In questo io non potrei ancora seguire Clinia, straordinario uomo. Infatti un tal modo di agire è per noi la più grande rovina fra tutte e ciò perché viene a realizzarsi nel principio stesso dell’educazione, ogni volta che si realizza. Vediamo se diciamo qualcosa di sensato. CLIN. Dicci di che cosa parli. ATEN. Stiamo parlando, ora, noi due, di una cosa molto importante. Vedi anche tu, Megillo, e giudica, insieme a noi, di noi. Il mio discorso infatti dice che la vita retta non deve rincorrere [d] i piaceri, né rifuggire del tutto dai dolori, ma amare proprio il giusto mezzo, che io ho chiamato poco fa col nome di ‘serenità’, condizione che sulla base di una certa rivelazione della divinazione tutti noi sagacemente attribuiamo alla divinità. E anche chi di noi vuol essere simile alla divinità deve quindi, io affermo, cercare di raggiungere questo abito invece di precipitarsi del tutto nei piaceri, nella convinzione che in tal modo neppure riuscirà a fuggire il dolore, e non permettere che nessun altro di noi, giovane o vecchio, subisca questa stessa cosa, uomo o donna che sia, e meno di ogni altro per quanto è possibile, se si [e] tratta di un bambino, nato da poco. Infatti, a questa età, tutto il carattere si ingenera in tutti nel modo più profondo attraverso l’abitudine. Così io ancora, se non avessi paura di sembrar di scherzare, vorrei dire che occorre, fra tutte le donne, prendersi cura di quelle soprattutto che sono incinte, durante quell’anno in cui sono tali, affinché la donna gravida appunto non goda di molti e sregolati piaceri, non soffra di molti e sregolati dolori, viva invece tutto questo tempo tenendo in gran conto la serenità, la benevolenza e la mitezza. CLIN. Tu non devi, [793a] ospite, per nulla domandare a Megillo chi ha detto meglio di noi due. Io stesso infatti sono d’accordo con te che ogni uomo deve fuggire la vita di piacere e dolore senza mescolanza dell’uno con l’altro, che ogni uomo deve sempre tagliare a metà la vita. Tu hai dunque parlato bene e bene mi hai ascoltato. ATEN. Benissimo allora, Clinia, ora però noi tre dobbiamo riflettere, in relazione a queste cose, su questo. CLIN. Su che cosa?
IV. ATEN. Tutto ciò, questi ordinamenti, che noi ora abbiamo esposto, sono quelli chiamati dai molti ‘leggi non scritte’, e quelle ch’essi chiamano ‘leggi dei padri’ [b] non sono altro che tutte le norme siffatte. E inoltre quel discorso che poco fa da noi fu svolto in modo fluente è stato detto bene e cioè che non dobbiamo dirle leggi vere e proprie, né possiamo d’altra parte del tutto lasciare inespresse. Queste infatti sono legami strutturali di ogni costituzione, stanno in mezzo fra tutte le leggi codificate per iscritto e stabilite e quelle che ancora devono esserlo, esattamente come tradizionali e del tutto antiche norme di vita, le quali, stabilite bene ed entrate nel costume, con ogni garanzia e sicurezza avvolgono e difendono le [c] leggi già scritte. Se invece deviano disarmonicamente dalla linea retta avverrà come quando scivolano via dal loro posto mediano i sostegni nelle costruzioni dei carpentieri: essi fanno anche cadere insieme tutto il resto, una parte si rovescia sull’altra, quei sostegni ed anche quanto è stato ben costruito ma in un tempo successivo, appunto per la caduta delle parti più vecchie. Riflettendo a queste cose, Clinia, noi dobbiamo saldare insieme d’ogni parte il nuovo tuo stato, senza trascurare nulla, per quanto sta in noi, né di grande né di piccola importanza, nulla di [d] ciò che viene designato col nome di ‘legge’, di ‘costume’, e di ‘usanza’. Uno stato infatti è tenuto insieme da tutti i siffatti legami, senza del loro sostegno reciproco nessuno di loro è stabilmente fondato, né gli uni, né gli altri; cosicché non bisogna meravigliarsi se le molte e minute regole, così ci appaiono, e costumanze tradizionali che affluiscono ora in folla, fanno sì che le nostre leggi divengano più lunghe di quanto ci si attendeva. CLIN. Anzi, è giusto come dici tu; dobbiamo pensare anche noi lo stesso. ATEN. Se dunque a un bambino o ad una [e] bambina di tre anni vengono applicate tali regole, accuratamente, e non vengono usate le norme di cui si è detto in modo da non impegnarvici seriamente, esse non risulterebbero certamente di poca importanza in relazione all’utilità che ne trarrebbero quelli che da poco vengono allevati. L’indole dell’anima dei bambini di tre anni e di quelli di quattro, di cinque e di sei anni, ha bisogno di divertimenti, ma si deve già allora tenerli immuni dalla mollezza correggendoli, senza però che i castighi siano tali da lasciar loro una macchia, ma, come si diceva a proposito degli schiavi e cioè che non bisogna, punendoli oltre i limiti, suscitare nei puniti l’ira, né d’altra parte, lasciandoli [794a] impuniti, permettere la mollezza, questa stessa cosa deve farsi anche coi liberi. Per i bambini di questa età i giochi nascono spontaneamente, essi stessi li scoprono, direi, quando si raggruppano insieme. Tutti i bambini di questa età dunque, dai tre ai sei anni, bisogna che si riuniscano insieme nei luoghi sacri agli dèi in ogni villaggio, ciascun gruppo, villaggio per villaggio, in comune e nello stesso luogo. E inoltre le nutrici dei bambini di questa età sorveglieranno il buon ordine e i casi di indisciplina. Per quanto riguarda la sorveglianza sulle stesse nutrici e su tutto il loro gregge, sia posta, con compiti di direzione su questa materia, una fra dodici donne, appartenenti a [b] quelle qui sopra dette; la collocheranno nel loro ufficio i custodi delle leggi, una anno per anno, per ciascun gruppo. Le scelgano le donne che hanno la responsabilità della sorveglianza delle nozze, prendendone una per ciascuna tribù, negli stessi limiti di età che valgono per loro. Quella che sarà posta in carica eserciti il suo ufficio frequentando quotidianamente il luogo sacro dove è il convegno, punisca sempre chi sbaglia, servendosi di qualche schiavo pubblico se si tratta di uno schiavo, maschio o femmina, o di uno straniero o di una straniera; se si tratta invece di un [c] cittadino, che contesta la punizione, lo porti in giudizio davanti agli astynòmoi, e, se invece non c’è alcuna materia di contestazione, punisca lei stessa anche il cittadino. Dopo che il bambino o la bambina avranno raggiunto i sei anni, allora vengano ormai separati l’uno e l’altro genere. I fanciulli passeranno il loro tempo coi fanciulli e così le fanciulle fra loro. Occorre a questa età orientarli, gli uni e gli altri, verso l’apprendimento delle prime nozioni: i maschi andranno dai maestri di equitazione, e da chi insegnerà loro l’arte dell’arciere e a lanciare il giavellotto e a tirare con la fionda. E se in qualche modo [d] vi si prestino anche le femmine, giungano almeno fino all’apprendimento di queste nozioni, e specialmente per quanto si riferisce all’uso delle armi. Su queste cose al giorno d’oggi poi si è formato un pregiudizio di cui nessuno quasi si rende conto. CLIN. Quale?
V. ATEN. Che la parte destra e la parte sinistra per natura sono diverse in noi e hanno diverso valore nei Confronti dell’uso che ne facciamo in ciascuno dei vari atti, quando quelle riguardano le mani, mentre per ciò che riguarda i piedi e le altre membra inferiori non sembrano differire per nulla in rapporto alle fatiche che noi compiamo. Ma per quanto riguarda le mani, noi siamo diventati, ciascuno di noi, quasi zoppi per la stoltezza delle nutrici e [e] delle madri. Infatti essendo la natura di ciascuna delle due parti delle membra ugualmente equilibrata, direi, durante le nostre abituali operazioni siamo stati noi a differenziarle per un uso sbagliato. In tutte quelle operazioni infatti in cui non c’è grande diversità ad usare l’una o l’altra mano, tenendo per esempio la lira colla sinistra e il plettro con la destra, ivi la cosa è di ben poca importanza e così è per le azioni simili. Ma è quasi da stolto servirsi di queste cose come di modelli anche per altre, più in là di quanto è dovuto. Lo prova il costume degli [795a] Sciti che non si limitano ad allontanare l’arco con la sinistra ed a tirare a sé la freccia con la destra soltanto, ma usano scambievolmente tutte e due le mani; per l’una e per l’altra funzione. Molti altri simili esempi si possono trovare nell’arte di guidare i carri ed altrove, ove è possibile apprendere che agiscono contro natura coloro che contribuiscono a rendere il braccio sinistro più debole di quello destro. E queste cose, come dicemmo, non sono affatto di grande importanza finché si tratta dei plettri di [b] corno o di simili strumenti musicali. Ma quando si devono usare in guerra strumenti di ferro, allora la diversità delle braccia ha un grande peso, quando si devono usare gli archi, i giavellotti e ciascuna di queste armi, e, massimamente quando si deve usare di arma contro arma nel corpo a corpo. E molto differisce, se uno ne conosce l’arte, da chi ne è ignaro, e chi è ben esercitato da chi non ha esercizio. Come, infatti, chi è ben allenato al pancrazio, al pugilato, o alla lotta non è impossibilitato a combattere anche con la sinistra, non zoppica, non si trascina maldestro quando il suo avversario, attaccandolo dall’altra [c] parte, lo costringe a sostenere il peso della lotta cambiando mano, nello stesso modo penso quindi che anche nelle armi ed in ogni altra situazione bisogna correttamente prevedere che colui che possiede un duplice mezzo per difendersi e per attaccare gli altri non deve lasciare nessuno di questi inattivo e privo di allenamento, per quanto è possibile. E se anche uno nascerà avendo la natura di Gerione o quella di Briareo, dovrà esser in grado di scagliar cento dardi con tutte le cento braccia. Di tutto ciò devono [d] aver cura i magistrati, uomini e donne, preposte le une ai divertimenti e all’allevamento dei bambini, gli altri per le discipline studiate, perché tutti, maschi e femmine abbiano gambe e braccia ugualmente robuste e in nessuno si corrompa la natura, a causa del costume, per quanto è possibile.
VI. Per quanto riguarda gli oggetti di studio essi sono, per così dire, di due specie in relazione all’uso che accadrà di farne; da una parte quanto appartiene alla ginnastica per il corpo, dall’altra la musica per la serenità dell’anima. Ci sono poi due parti nella ginnastica e cioè la danza e [e] la lotta. Della danza una parte è quella di chi rappresenta con la ritmica le parole della poesia, cercando di salvaguardare ciò che è elevato e liberale, un’altra è usata per procurare benessere e agilità e bellezza alle membra e parti del corpo stesso, e secondo la giusta proporzione di estensibilità e di flessibilità, venendo attribuito a ciascuna di quelle il loro giusto movimento ritmico, arte questa disseminata in tutti gli aspetti della danza e tale che in modo perfetto si accompagna loro. Quanto alla lotta, i vari accorgimenti instaurati da Anteo e da Cer-[796a] cione, nelle arti che esercitavano, invenzioni fatte per ozioso desiderio di primeggiare, e quelli introdotti da Epeo e da Amyco nel pugilato, non avendo nessuna utilità per gli incontri di guerra, non sono cose degne di essere esposte in un discorso. La lotta eretta invece, con le sue flessioni per liberare il collo, le mani e i fianchi, combattuta faticosamente con amore della vittoria e fermezza ed eleganza di atteggiamenti per acquistare forza e sanità, non deve essere trascurata in grazia della sua utilità, per tutto quanto si è detto, deve anzi essere prescritta ai di-[b] scepoli e ai maestri (e lo si deve fare quando si giunga al punto giusto nella legislazione): ai maestri, che facciano dono di tutte le cose siffatte con benevolenza, ai discepoli, che le accolgano con gratitudine. Non si devono trascurare inoltre tutte le imitazioni che ci sono nella "danza corale" e che è conveniente realizzare, così la danza armata dei Cureti che è in uso qui e quella dei Dioscuri a Sparta. E anche da noi la vergine che ci è signora, rallegrandosi del divertimento della danza, non ritenne di dovervi partecipare a mani vuote, ma, tutta coperta ed adorna della sua [c] completa armatura, così volle compiere tutta la danza. Cosa questa che sarebbe conveniente imitassero in tutto i giovani e le ragazze, rendendo onore alla benignità della dea, per prepararsi alle necessità della guerra e per le feste. I bambini subito per tutto il tempo in cui non siano ancora giunti all’età di intervenire alla guerra, dovranno partecipare a determinate processioni e cortei a tutti gli dèi, sempre adornati con le armi e montati a cavallo, e [d] rivolgere agli dèi e ai figli degli dèi le loro suppliche danzando e marciando, ora più veloci ora più lente. Così le gare e gli esercizi che le precedono devono avere, se mai, non altro scopo che questo quando vengono appunto messi in pratica sotto forma di esercizio. Questa è infatti una preparazione utile in pace e in guerra, allo stato ed alla famiglia; gli altri esercizi dedicati al corpo, siano giochi, siano cose serie, non sono degni di uomini liberi e civili, cari Megillo e Clinia.
VII. Quella ginnastica di cui già nei primi discorsi ho detto che restava da trattare, è questa, direi, che ho trattato adesso, e a questo punto è ormai completa. Se voi però avete da dire di qualche altra forma di ginnastica migliore di questa, ditela subito; e mettete, il vostro discorso in co- [e] mune con noi. CLIN. Non è facile, ospite, lasciando da parte questo che hai detto, aver altro di meglio da dire sulla ginnastica e insieme sulla lotta. ATEN. Quanto a ciò che segue immediatamente a queste cose, attinente ai doni delle Muse e di Apollo, già allora, come se ne avessimo completamente trattato, noi pensavamo che ci rimanesse solo la ginnastica. Però ora noi possiamo vedere che cos’è ciò che avremmo dovuto aggiungere allora e che ognuno deve dire prima del resto. Diciamolo dunque immediatamente. CLIN. Devi farlo. ATEN. Ascoltatemi voi [797a] che mi avete prima ascoltato anche nei precedenti discorsi, perché, nondimeno, sia chi dice sia chi ascolta, deve star bene in guardia di fronte a cose molto strane ed insolite, come è il nostro caso ora. Dirò infatti un discorso che non è da dire senza timore; comunque, facendomi in qualche modo coraggio, non mi voglio ritirare. CLIN. Qual è questo discorso di cui dici, ospite? ATEN. Dico che, in generale, in tutti gli stati, si ignora, da parte di tutti, che il genere del divertirsi ha enorme influenza sulla legislazione, sull’essere stabili o caduche le leggi stabilite. Se questo genere del divertirsi, infatti, una volta [b] stabilito, partecipa anche del divertire sempre gli stessi, nello stesso modo, secondo gli stessi punti di vista e per la stessa via, e del dilettarsi degli stessi giochi, permette allora che anche le leggi fissate ad uno scopo serio abbiano una tranquilla stabilità, ma se gli stessi giochi mutano e si rinnovano continuamente con sempre nuove variazioni e i giovani non dicono mai piacevoli a loro le stesse cose, sì che né per quanto riguarda gli atteggiamenti del loro corpo, né, per il resto, nei loro ornamenti, ciò che è corretto o non corretto sia sempre per loro concordemente stabilito, ma invece venga da loro onorato, in modo a [c] tutti superiore, colui che sempre riesca ad innovare qualche cosa o a introdurre qualche cosa di diverso dal solito negli atteggiamenti, nei colori, in tutte le cose siffatte, di questo noi potremmo dire, senza sbagliare per nulla, non esserci peggior rovina per lo stato. Questo insensibilmente, infatti, muta i costumi dei giovani e li porta a disprezzare l’antico, a onorare il nuovo. E, ripeto, di questi discorsi, di queste opinioni non c’è peggior castigo per tutti gli stati; sentite quanto grave male per me è [d] questo. CLIN. Parli del fatto, che si disprezzi negli stati ciò che è antico? ATEN. Sì. CLIN. Tu non ci avrai, allora, ascoltatori disattenti proprio di questo discorso, anzi il più possibile ben disposti. ATEN. E’ verosimile. CLIN. Parla, non attendiamo altro. ATEN. Avanti, allora. Tendiamo di più la nostra attenzione ad ascoltare noi stessi ed a parlarci l’un l’altro. Noi troveremo infatti che il mutamento in ogni cosa è ciò che vi è di più pericoloso, sopra tutto (a parte quello di ciò che è per sé male), in tutte le stagioni, nei venti, nel regime dei corpi, nelle [e] abitudini delle anime, e non, per così dire, in alcune cose sì, in altre no, lasciando da parte, come dissi or ora, ciò che è male per sé. In tal modo se uno guardasse ai corpi, e cioè al fatto che i corpi si abituano a tutti i cibi, ad ogni tipo di bevanda, ad ogni fatica e dopo un primo periodo di turbamento derivatone, col passare del tempo, generano da quei cibi e dal resto carni connaturali a quelli e divenendo così amici, assuefatti e familiari a [798a] tale regime di vita nel suo complesso vivono benissimo nel piacere e nella salute, ma se mai, successivamente, un corpo sia costretto a mutare regime di vita, per assumerne un altro qualsiasi di quelli ritenuti buoni, turbato in principio da cima a fondo, dalle malattie a mala pena si rimette riacquistando l’assuefazione all’alimento, se uno guarda a tutto ciò, deve ritenere avvenga la stessa cosa anche per la mente degli uomini e per la natura della loro anima. Quelle leggi infatti nella cui consuetudine gli uomini furono allevati, leggi che per molti e grandi tempi rimasero [b] immobili per una qualche sorte fortunata e divina, sì che nessuno abbia memoria, né abbia udito racconto, dell’esser esse mai state altrimenti di come sono al presente, tali leggi ogni anima venera, e teme un minimo mutamento in ciò che da tanto tempo è stato stabilito. Il legislatore deve escogitare, da qualsiasi parte lo trovi, un mezzo di realizzare comunque analoghe condizioni nel suo stato. E il mezzo io lo trovo per questa via. Tutti pensano, come dicevamo prima che mutare il modo di giocare dei bambini è anch’esso in realtà un gioco; non pensano che possa essere, comunque, la fonte della massima [c] preoccupazione e del danno più grave, cosicché, invece di impedirlo ai piccoli, cedono e li assecondano, non argomentando che questi piccoli che cambiano giochi diventeranno necessariamente altri uomini, diversi, da quelli che diventarono i bambini del tempo che precedeva, e divenuti tali, cercheranno di vivere un’altra vita e nel cercare questa vita diversa vorranno altre leggi ed altri costumi; e che, dopo di ciò, seguirà, e così avverrà, quel male enorme per lo stato cui accennavo prima nessuno di loro mostra di temere. Gli altri mutamenti, quanti cioè [d] questa materia subisce solo nella forma esteriore, provocheranno minori mali, ma quelli che riguardano i costumi che si rinnovano frequentemente in ciò che è oggetto di apprezzamento e dì biasimo, io credo siano i più gravi di tutti e quelli ai quali si dovrebbe maggior riguardo. CLIN. Come negarlo?
VIII. ATEN. Ebbene? Dobbiamo fidarci ancora dei nostri vecchi discorsi nei quali dicevamo che i ritmi e il complesso dell’arte "musicale" sono imitazioni di atteggiamenti di uomini migliori o peggiori? O come dobbiamo dire? [e] CLIN. In nessun modo dovrebbe esser diversa almeno la nostra convinzione. ATEN. Diciamo allora che bisogna cercare ogni mezzo perché i nostri figli non abbiano desiderio di por mano a nuove imitazioni nella danza e nel canto, e perché nessuno li persuada a ciò con l’offerta di piaceri d’ogni sorta. CLIN. E’ giustissimo quello che dici. [799a] ATEN. Sapete voi se qualcuno di noi, allora, in Grecia possiede un’arte per far ciò migliore di quella in uso presso gli Egiziani? CLIN. Quali arti dici? ATEN. Consacrare ogni danza ed ogni melodia, stabilendo dapprima ed ordinando le feste, calcolando quali anno per anno e in quali giorni devono essere organizzate, a quali dèi e figli dì dèi e dèmoni dedicate, e, fatto ciò, fissare anche i cantici che devono essere intonati durante i sacrifici agli dèi, sacrificio per sacrificio, e così con quali danze onorare ciascun sacri-[b] ficio, quando avviene. Tutto ciò deve essere definito in precedenza, da qualcuno, e, come sia stato definito e stabilito, i cittadini, tutti insieme, sacrificheranno alle Moire ed a tutti gli altri dèi e con libazioni consacreranno ogni canto a ciascuno degli dèi e degli altri esseri superiori. Se qualcuno poi introdurrà in onore di qualche dio nuovi inni e nuove danze contro quanto è stabilito, sia escluso dalla festa dai sacerdoti e dalle sacerdotesse insieme ai custodi delle leggi, ne sia escluso in modo conforme alla pietà religiosa e secondo le leggi, e, se l’escluso non accetta l’esclusione volontariamente, sia passibile di pena per empietà, finché vive, da parte di chiunque voglia. CLIN. E’ [c] giusto. ATEN. Giunti ora a questo discorso, dobbiamo accettare e subire ciò che conviene a noi stessi. CLIN. Di che cosa parli? ATEN. Ognuno, anche se giovane, e a maggior ragione uno anziano, al vedere o sentire cose strane per lui, quali si siano, e in nessun modo comprese fra quelle consuete, non andrebbe mai di corsa precipitosamente incontro a ciò che in quelle gli è oggetto di dubbio per dargli il suo assenso così, ma restando fermo, come se fosse giunto a un trivio e non conoscesse affatto la strada, sia che cammini da solo, sia insieme ad altri, inter-[d] rogherà sul suo dubbio se stesso e gli altri, e non si rimetterà in movimento prima di aver concluso con sicurezza l’inchiesta su dove porta la strada. E anche noi ora dobbiamo far così; il discorso sulle leggi che è caduto fra noi, ora è strano, e noi dobbiamo approfondirne completamente l’analisi, non dobbiamo alla nostra età con faciloneria, su questo argomento così importante, asserire con argomentazioni ostinate di aver qualcosa di chiaro da dire al primo porre il problema. CLIN. Verissimo. [e] ATEN. Concediamo dunque un po’ di tempo alla difficoltà, decideremo con sicurezza su di essa quando l’avremo a sufficienza analizzata, e perché la nostra esposizione delle leggi che seguono quelle che ora ci stanno dinanzi non sia vanamente impedita, si che non giunga a completezza, continuiamo a procedere fino alla fine di queste. Può darsi infatti che, se ciò vorrà dio, e se questa trattazione nel suo complesso otterrà il suo completamento, può darsi che in modo sufficiente essa ci indicherà anche la soluzione del problema che ora mi mette in difficoltà. CLIN. Hai parlato bene, ospite, e facciamo dunque come tu hai detto. ATEN. Rimanga dunque, diciamo, stabilito questo fatto strano, che cioè per noi i canti sono leggi. E come gli antichi, al loro tempo, così sembra, denominarono in tal modo i canti citaredici, e in modo tale forse che neppur loro del tutto si allontanavano da ciò che ora [800a] si è detto, e ne ebbe nel sonno quasi la divinazione qualcuno, o anche come in sogno quando era perfettamente sveglio - così dunque su questa materia sia stabilito questo decreto. Nessuno canti mai, mai danzi, canti e danze estranei ai canti che sono sacri e determinati dallo stato e a tutte le "danze corali" dei giovani, nessuno trasgredisca questa piuttosto che qualsiasi altra legge. E chi si comporterà così sia lasciato andare esente da pena, ma chi disobbedirà puniscano i custodi delle leggi, le sacerdotesse e i [b] sacerdoti, come prima è stato metto. Siete d’accordo nell’introdurre ora nel nostro piano legislativo queste norme? CLIN. D’accordo.
IX. ATEN. Come si potrebbe sfuggire al più completo ridicolo emanando leggi come queste? Vediamo dunque ancora questo sull’oggetto in questione. La cosa più sicura è di cominciare col foggiare, per così dire, col discorso qualche modello che gli si possa applicare, e fra i modelli io dico che uno è questo: se dopo un sacrificio, bruciate le offerte secondo il rito, qualcuno, diciamo, figlio o fratello del [c] sacrificante, in piedi presso l’altare e le offerte, senza incarico ufficiale, proferisse ogni sorta di parole blasfeme, non diremmo che parlando così ingenererebbe nel padre e negli altri familiari sconforto e il senso di un cattivo augurio, di un cattivo presagio? CLIN. Certamente. ATEN. Ebbene, questo avviene quasi in tutti gli stati, per così dire, con l’eccezione di pochi, nelle nostre terre. Infatti quando un corpo di magistrati sacrifica pubblicamente non un solo coro si fa innanzi dopo il sacrificio, ma [d] molti, e chi vi partecipa non sta discosto dagli altri, ma, qualche volta vi sta vicinissimo. Succede allora che i coreuti effondono sulle cose sacre ogni sorta di bestemmie, sollecitano l’anima degli ascoltatori con parole, ritmi e lugubri armonie ed ottiene il premio della vittoria chi di più fa piangere di punto in bianco la popolazione della città che fa il sacrificio. Non aboliremo questo costume? E se mai bisogna che ascoltino i cittadini queste lamentazioni in giorni non puri, ma nefasti, non si dovrebbe piut-[e] tosto far venire dal di fuori dei cori stranieri pagati per cantare, come i cantori pagati per i funerali accompagnano il morto cantando una nenia di Carià? Mi pare che ciò sarebbe conveniente avvenisse anche per i canti siffatti ed inoltre converrebbero, quale abbigliamento, ai canti funebri non le corone, non gli ornamenti dorati, esattamente il contrario anzi, per dirla in breve ed abbandonare questo argomento. E di nuovo su questo interrogo noi stessi, e cioè se deve rimanere stabilito e ci sembra adatto per i nostri canti questo primo modello, preso come uno fra gli altri. CLIN. Quale? ATEN. Dire parole di buon augurio, ed anche che il genere del canto debba essere [801a] per noi assolutamente da ogni punto di vista di buon augurio. Dobbiamo chiedere così o non devo fare per nulla la domanda e affermarlo senz’altro? CLIN. Affermalo, certamente. Questa legge infatti vince con tutti i voti. ATEN. Quale sarà la seconda legge dell’arte "musicale" dopo quella del dir parole di buon augurio? Non è forse vero che i canti devono essere preghiere rivolte agli dèi cui si sacrifica volta per volta? CLIN. Come no? ATEN. La terza, credo, è che i poeti debbono sapere che le preghiere [b] sono petizioni agli dèi e che devono far attenzione, moltissimo, a non ingannarsi nel domandare male per bene. Sarebbe infatti una cosa ridicola questa che accadrebbe loro di subire. CLIN. Sì. ATEN. Poco fa noi dunque fummo convinti dal discorso che affermava che non deve trovar posto nello stato, non deve esservi installato il santuario della ricchezza d’oro né d’argento. CLIN. Certamente. ATEN. Come modello di che cosa mai dobbiamo ora dire esser stato enunciato questo discorso? Forse non è di questo che dirò? E cioè del fatto che il genere dei poeti non è per nulla in grado di conoscere a [c] fondo ciò che è bene e ciò che non lo è? Se così nelle parole o anche nella melodia un poeta commetterà tale errore, le preghiere che creerà non sono preghiere buone e farà sì che i nostri cittadini pregando domanderanno agli dèi il contrario di quello che occorre loro, nei loro più gravi bisogni. Ed è certo, come dicevamo, che non troveremo molti sbagli più grandi di questo. Mettiamo anche questa come una delle leggi relative alla poesia e come uno dei suoi caratteri. CLIN. Quale? Enunciala a noi in modo più chiaro. ATEN. Il poeta non deve, produrre nessuna altra opera al di là di ciò che secondo le leggi [d] dello stato è stato definito giusto, bello, buono; le composizioni non devono essere rese pubbliche a nessuno dei privati cittadini, una volta che siano state portate a termine, prima di essere mostrate ed approvate dai giudici e custodi delle leggi demandati a ciò. E, direi, per noi, demandati a ciò sono quelli che scegliemmo per dar leggi sulle cose relative alla "musica" e quello che fu scelto a curare l’educazione. Ebbene, ed è ciò che più volte io sto chiedendo, deve essere stabilita per noi questa legge, questo carattere, questo terzo modello? O che cosa pensate? CLIN. Sia stabilita, certamente.
[e] X. ATEN. Dopo aver stabilito questo, inni agli dèi e canti di lode alternati alle preghiere potranno essere cantati nel modo più corretto e così, dopo gli dèi, i dèmoni e gli eroi potranno essere oggetto di quelle preghiere, insieme ai canti di lode, che si addicono a ciascuno di loro. CLIN. Non può essere diversamente. ATEN. Dopo di ciò, ormai, potrà venire subito una legge che non susciterà sentimenti di invidia, questa: quanti fra i cittadini giungono alla fine della vita avendo operato, col corpo o con l’anima, belle e faticose opere, ed essendo sempre stati obbedienti alle leggi, sarebbe conveniente che essi ottenessero canti di lode. CLIN. Come negarlo? ATEN. [802a] Invece non è cosa sicura onorare i viventi con inni e canti di lode prima che ognuno abbia percorso fino in fondo tutta la sua vita e vi abbia collocato una fine degna di lode. Tutto questo sia per noi stabilito come valido e comune sia agli uomini sia alle donne che hanno ottenuto chiara reputazione di esser vissuti bene. Bisogna poi ordinare così i canti e le danze. Ci sono rimaste molte antiche e belle composizioni musicali ed anche, similmente, danze per i corpi; fra queste senza difficoltà noi possiamo scegliere quelle che convengono e si adattano alla costituzione [b] che stiamo realizzando. Ne faranno l’esame e la cernita uomini che non abbiano meno di cinquant’anni, scelti a questo ufficio; questi prenderanno fra le opere tramandate quelle che sembreranno loro adatte allo stato; quelle deficienti in qualche cosa o assolutamente inadeguate, respingeranno del tutto o, in qualche altro caso, riprenderanno e correggeranno prendendo con sé poeti e musici e si serviranno della loro capacità poetica senza nulla concedere ai loro gusti o desideri, salvo poche eccezioni, spie-[c] gando invece a loro le intenzioni del legislatore in modo che la danza, il canto, tutta l’arte "corale" sia informata ed organizzata secondo quanto vogliono appunto queste intenzioni. Ogni brano "musicale", già disordinato, una volta che abbia assunto tale ordinamento, anche ove non gli sia aggiunta quella che si dice la ‘dolcezza della poesia’, diventerà mille volte migliore di prima. Quanto al piacere esso è comune a tutte le opere. Chi infatti da bambino è vissuto fino all’età della maturità e della ragionevolezza facendo esperienza solo della musica disciplinata e tempe-[d] rata, all’udire la contraria di questa sempre la odia e la dice spregevole e illiberale; chi invece è cresciuto conoscendo solo "musica" volgare e comune, la "musica dolce", dice che la sua opposta è fredda e non piacevole cosicché, come fu detto or ora, non prevale l’una o l’altra delle due per il piacere o la mancanza di piacere, ma ciò che è diverso e prevalente è che l’una rende, ogni volta, chi in essa è allevato, migliore, l’altra peggiore. CLIN. Benissimo. ATEN. Bisogna anche distinguere i canti che convengono alle ragazze e quelli invece adatti ai maschi, fondandosi su [e] qualche criterio generale; è poi necessario adattarli a ritmi e armonie; sarebbe infatti terribile cantare in opposizione all’armonia presa nel suo insieme, o ritmare contro il ritmo stesso, qualora non si attribuisca affatto a ciascuna delle melodie ciò che delle due cose ora dette ad essa conviene. E’ così necessario stabilire per legge le linee generali anche in questa materia. Ed è possibile attribuire l’una e l’altra di queste due cose, ritmo ed armonia, a ciascuno dei due sessi, in modo che vi si adattino necessariamente, e bisogna anche distinguere chiaramente ciò che appartiene alle donne, sulla base di ciò che fa differire la natura di ciascuno dei due sessi. E di conseguenza si deve affermare che conviene ai maschi ciò che è elevato e che tende al coraggio, invece ciò che inclina piuttosto alla modestia ed alla saggezza e temperanza bisogna, sia nel nostro discorso sia nella legge, presentarlo come appartenente al genere femminile. Questo per quanto riguarda l’ordine e le distinzioni. Parliamo ora, dopo quanto si è detto, del-[803a] l’insegnamento di tutto ciò e della trasmissione, diciamo in qual modo e da chi e quando bisogna che ciascuna di tali cose sia fatta. Per esempio un costruttore di navi all’inizio della sua opera, nel deporre la carena, traccia il piano del vascello; così, mi pare, faccio anche io quando provo a tracciare il piano delle vite per le anime dei cittadini distinguendo quelle sulla base dei caratteri di queste, e veramente anche a me par di deporre la carena di quelle vite esaminando correttamente con qual mezzo, vivendo [b] con quali costumi, potremo portare la nostra nel modo migliore attraverso questa navigazione dell’esistenza. Le cose umane non sono degne per sé di grande preoccupazione, d’altra parte è necessario interessarsi anche di queste e questa è cosa non fortunata. Dato quindi che stiamo facendolo, se in qualche modo potessimo farlo con qualche mezzo conveniente, ciò forse sarebbe in armonia di misure con quello che noi siamo. Che cosa dunque voglio dire? Certamente qualcuno che mi riprendesse così lo farebbe correttamente. CLIN. Sì, certamente. ATEN. Io dico [c] che noi dobbiamo occuparci di ciò che ha valore, tralasciare il resto; la divinità è per natura degna di ogni interesse, che sia anche fonte di beatitudine, ma l’uomo, l’abbiamo detto prima, non è che un giocattolo uscito dalle mani degli dèi e ciò che di lui vale di più è proprio questo, in realtà. E in modo a ciò conseguente ogni uomo e ogni donna devono anche vivere la loro vita, giocando cioè i giochi migliori, il contrario di quanto si intende oggi da [d] parte loro. CLIN. Come? ATEN. Ora si pensa che le occupazioni serie debbono essere in funzione dei divertimenti; ritengono infatti che le cose della guerra, essendo cose serie, debbono essere ben disposte in funzione della pace. Ma invece, per natura e in realtà, nella guerra non c’è divertimento, non c’è nulla che abbia valore educativo e sia degno del nostro discorso, noi lo dicevamo, non c’è e non ci sarà mai, e questo è invece ciò che noi diciamo degno del massimo interesse: bisogna che ciascuno viva la sua vita in pace il più a lungo e il meglio possibile. E quale [e] sarà allora per una vita il modo di essere corretta, secondo quanto s’è detto? Bisogna passare la propria vita divertendosi con qualche divertimento, coi sacrifici, i canti, le .danze in modo da esser capaci di renderci così favorevoli gli dèi, respingere i nemici, e vincerli in battaglia. Quali composizioni cantando e danzando potremo operare l’una e l’altra di queste cose, in parte è stato detto, dal punto di vista dei caratteri generali, e in certo modo sono state tagliate ed aperte le strade per le quali bisogna procedere, attendendoci che il poeta, anche lui; abbia ragione quando, dice:
[804a]
Telemaco, tu stesso alcune cose penserai dentro di te,
altre te le suggerirà il tuo dèmone, io non penso che tu
sia nato, che tu sia cresciuto contro la volontà degli dèi.
Queste stesse cose riterranno nella loro mente anche i nostri allievi e penseranno che quanto si è detto è sufficiente e che quanto dovesse mancare riguardo ai sacrifici [b] e alla "danza corale" sarà loro suggerito dal dèmone o dagli dèi, e cioè a quali dèi e quando essi dedicheranno le feste, ciascuna a ciascuno di essi, e quali renderanno propizi e quando, sì che potranno vivere tutta la vita in modo conforme alla loro natura, che è quella di chi è quasi del tutto una marionetta e di poco partecipa alla verità. MEG. Tu svaluti del tutto il genere dell’uomo, ospite. ATEN. Non sorprenderti, Megillo, perdonami piuttosto. Ho, parlato così tenendo gli occhi rivolti alla divinità e subendo questo confronto ho detto ciò che ora ho appena detto. Sia dunque il genere nostro d’uomini cosa non vile, se ti è caro pensare così, e degno di un qualche [c] attento interesse.
XI. Per quanto ora segue immediatamente, abbiamo già parlato della costruzione dei ginnasi e delle scuole pubbliche, che staranno al centro della città in tre luoghi separati. Fuori della città ci devono essere all’intorno, in tre luoghi, tre maneggi e altri campi di gioco preparati per l’arte di tirare con l’arco e degli altri lanci, e serviranno all’istruzione e all’allenamento dei giovani. Se il nostro precedente ordinamento è stato lacunoso, ora diamogli compimento con le nostre parole e con le leggi. In tutti [d] questi edifici e luoghi ci saranno maestri di ciascuna disciplina che attratti dal compenso vi fisseranno la loro residenza, come ospiti stranieri, e insegneranno ogni nozione attinente alla guerra e alla musica agli allievi che li frequenteranno non in modo che sia frequentante quello il cui padre lo vorrà, mentre quello il cui padre non lo voglia trascuri l’educazione in queste materie, ma, come si dice, ogni uomo e bambino, nella misura del possibile, sarà tenuto obbligatoriamente ad istruirsi ed educarsi, appartenendo essi prima allo stato che ai loro genitori. La mia legge direbbe anche per le donne altrettante e le stesse [e] cose dette per i maschi; esse cioè devono apprendere gli stessi esercizi dei maschi, e ciò io direi senza alcun timore di quel discorso che afferma dell’equitazione e della ginnastica che sono cosa che si addice agli uomini ma non alle donne. Ascoltando il racconto di antichi miti, infatti, ne sono stato persuaso ed ora so, per così dire, che innumerevoli miriadi di donne ci sono, che vivono intorno al Ponto e sono chiamate Sauromatidi, cui è prescritta, nella stessa misura degli uomini, la familiarità non solo [805a] coi cavalli, ma anche con gli archi e le altre armi, e nella stessa misura vi si esercitano. Inoltre ho questo altro argomento allo stesso proposito: affermo che, se è possibile che queste cose avvengano così, ora nelle nostre regioni accade la cosa più stolta di tutte e cioè che tutti, uomini e donne, non praticano con tutte le loro forze concordemente gli stessi esercizi. E infatti, direi, in tal modo ogni stato è e viene ad essere, pur in base agli stessi fini perseguiti e alle stesse fatiche, quasi la metà del doppio [b] che potrebbe essere, e non v’è dubbio che questo sarebbe uno straordinario errore del legislatore. CLIN. Sembra di sì. Però molte delle norme enunciate ora da noi, ospite, non possono accordarsi con le costituzioni ora applicate. D’altra parte, infatti, tu hai detto di lasciare che il nostro discorso si sviluppi e, una volta che esso sia stato svolto, dover noi scegliere ciò che avremmo giudicato migliore; tu hai detto così, e giustamente, ed hai fatto sì che io ora mi rimproveri di essere intervenuto a sproposito dicendo queste cose. E così adesso continua a parlare di [c] ciò che preferisci.
XII. ATEN. Questo, Clinia, preferisco dire e l’ho detto anche prima, e cioè che se i fatti non provassero adeguatamente che quanto dico è realizzabile, allora forse sarebbe stato possibile contraddirmi col discorso, ma ora colui che non voglia affatto accettare questa mia proposta di legge deve cercare degli altri fatti, e la mia esortazione non si estinguerà in queste cose e non cesserà di affermare che le donne debbono essere partecipi il più possi-[d] bile, da noi, della educazione e degli altri esercizi maschili. E allora, su questo argomento si deve pensare così: dimmi, se non partecipano le donne a tutta la vita degli uomini, non è forse necessario dar loro leggi diverse? CLIN. Necessario. ATEN. Quale dunque delle norme attualmente vigenti noi porremmo davanti a tutte per questa comunanza di vita che ora prescriviamo ad esse? Forse quella di cui usano i Traci per le loro donne, e molte altre [e] stirpi, e cioè che esse lavorino la terra e siano pastore di buoi e di greggi e facciano i servizi in modo per nulla diverso dagli schiavi? O faremo come da noi e presso tutti i nostri vicini? Ora infatti a tal proposito da noi accade questo, noi raduniamo tutte le cose possedute, come si dice, in un solo edificio e ne affidiamo alle donne l’amministrazione, insieme alla direzione delle spole e di tutta la tessitura. Oppure, Megillo, prescriveremo l’uso inter-[806a] medio fra questi, quello laconico? Le ragazze partecipano obbligatoriamente, nel corso della loro esistenza, alla ginnastica, al canto e alle danze, le donne sono esenti dalla tessitura, tessono per sé invece una vita operosa, una vita né vile né volgare, giungendo fino a realizzare un accordo intermedio fra la cura della casa, l’amministrazione domestica e l’allevamento dei figli, e non prendono parte alla guerra. E così neppure se si producesse una qualche fortuita necessità di combattere per lo stato e per i figli esse sarebbero in grado dì praticare con arte l’arco, come [b] Amazzoni, né le altre armi da getto, né di seguire l’esempio di Atena prendendo lo scudo e la spada per resistere nobilmente alla rovina della patria, e, se non altro di più, di far almeno paura ai nemici che le vedono inquadrate e schierate; non oserebbero imitare, vivendo secondo questo costume, le donne della Sarmazia. Le donne di questo popolo sembrerebbero uomini vicino a donne quali esse sarebbero. Chi vuol approvare in ciò i vostri [c] legislatori, lo faccia pure, io, per me, non muterò quanto ho affermato. Il legislatore infatti, non deve lavorare a metà, ma con completezza; se abbandona le donne alla mollezza e le perde lasciandole in una vita senza leggi, curandosi solo dei maschi, egli lascia, in definitiva, allo stato in eredità una esistenza, direi, felice a metà, in luogo del doppio che potrebbe lasciare. MEG. Che faremo, Clinia? Permetteremo che il nostro ospite faccia queste incursioni nella nostra Sparta? CLIN. Sì; dobbiamo per-[d] metterlo, poiché gli abbiamo lasciato libertà di parola, finché non siamo giunti alla fine completa della esposizione delle leggi e in modo sufficiente. MEG. Sta bene quello che dici.
XIII. ATEN. E’ dunque mio compito ormai provare ad esporre, direi, ciò che vien dopo? CLIN. Perché no? ATEN. Quale sarà dunque il modo di vita di uomini che abbiano avuto le cose necessarie assicurate in giusta misura, e in favore dei quali siano state affidate ad altri le attività attinenti alle arti degli artigiani, e le opere del-[e] l’agricoltura demandate agli schiavi, che danno loro una parte dei prodotti della terra sufficiente a che gli uomini conducano una vita decorosa cittadini per i quali siano stati preparati i "pasti in comune", appartati quelli dei maschi, e tenuti a questi vicini quelli dei loro familiari, riservati ai bambini, alle donne, alle madri di queste, e a magistrati di ambedue i sessi sia affidato il compito di sciogliere tutti questi "pasti in comune", gruppo per gruppo, e giorno per giorno vedano e sorveglino la condotta dei commensali, e dopo aver compiuto questi doveri, essi, [807a] i magistrati e gli altri facciano libazioni agli dèi cui quella notte e il giorno sono consacrati, e a queste condizioni ritornino quindi a casa? Per uomini che hanno ricevuto tale ordinamento non rimane ancora da attuare alcuna opera necessaria e del tutto conveniente, e invece ciascuno di essi deve vivere ingrassandosi nello stesso modo di un gregge di animali? Non sarebbe, noi diciamo, né giusto né dignitoso, vivendo così non potrebbero sfuggire a ciò che meritano, e conviene a un animale ozioso e nell’ozio [b] ingrassato diventare preda, direi, di un altro animale, di quelli duramente provati e disseccati in una esistenza di coraggio e di fatiche. Ma se noi cercassimo di ottenere tutto ciò con sufficiente rigore, come ora diciamo, forse non l’otterremmo mai, fino a che almeno ciascuno di noi abbia privatamente donne e figli e abitazioni e tutte le cose siffatte, appunto appartenenti alla vita privata, stabilite e preparate per sé. Ma se ciò che or ora abbiamo detto venire al secondo posto dopo di quello, se noi potessimo averlo, l’avremmo in modo del tutto conveniente. Agli [c] uomini che vivono come abbiamo descritto resta un’opera, possiamo affermare, da compiere, non certo la più piccola né quella di minor importanza, ma il più grande compito che una giusta legge possa assegnare. E infatti rispetto a quella vita che non fornisce a chi la vive alcuna forma di tempo libero per ogni altra opera, la vita cioè di chi desidera la vittoria nei giochi pitici o nei giochi olimpici, quella vita che nel modo più corretto abbiamo detto occuparsi totalmente delle virtù del corpo e dell’anima, questa vita, è affetta da una misura doppia di privazione di ogni altro tempo libero, e ancora molto di più. Infatti [d] nessuna occupazione superflua in altre opere deve distogliere chi la pratica ed essergli di impedimento nel suo fornire al corpo gli utili e faticosi esercizi e l’efficace nutrimento, e alla sua anima gli insegnamenti e i costumi di virtù; direi quasi che la notte e il giorno interi non sono sufficienti perché chi agisce in questo modo acquisisca ciò che è compiuto e sufficiente in tali discipline. Tale essendo la natura di queste cose, bisogna che tutti gli uomini liberi, direi, abbiano un piano in cui sia distribuito l’impiego di [e] tutto il loro tempo, da un’aurora all’altra, fino al levar del sole, senza interruzione. Qualora un legislatore enunciasse molte piccole norme minuziose relative alla vita domestica non apparirebbe dignitoso, né sarebbe dignitoso che si soffermasse su quanto devono fare nelle veglie notturne coloro che si dedicheranno completamente ad una attenta vigilanza sul complesso dello stato. Tutti però devono ritenere cosa bassa e vergognosa che anche un cittadino qualsiasi trascorra addormentato tutta una notte, [808a] quale essa si sia, e non si mostri sveglio ed alzato prima di tutti agli schiavi della sua casa, comunque poi sia da denominare questo che ho detto, sia ‘legge’ sia ‘norma di costume’. E devono dire fra sé che è cosa vergognosa, devono dirlo gli schiavi, le schiave e i figli e, vorrei dire, se fosse possibile, l’intera e tutta la famiglia, che cioè la padrona in una casa si faccia svegliare da ancelle e non sia lei la prima a svegliare le altre. Di notte, svegli, tutti de-[b] vono lavorare e realizzare molti compiti per lo stato e per l’amministrazione domestica, i magistrati per lo stato, i padroni e le padrone nelle loro case. Il sonno troppo lungo non si addice infatti, per legge di natura, né ai corpi, né alle anime, né alle azioni del corpo e dell’anima. Nessuno, quando dorme, ha alcun valore, per nulla di più di quanto ne abbia chi non vive. Ma fra noi chi di più si preoccupa della sua vita e del suo pensiero sta sveglio [c] il più a lungo possibile, conservando al sonno solo quanto giova alla sua salute, e questo non è molto a chi ne ha preso la buona abitudine. I magistrati che vegliano di notte nelle città atterriscono chi macchina l’offesa, cittadini e nemici esterni, sono amati e venerati dai giusti e dai saggi, utili a se stessi e alla patria.
XIV. Una notte passata così dai magistrati oltre ai vantaggi suaccennati infonderà coraggio alle anime di tutti [d] i cittadini; al sorgere del nuovo giorno e del sole poi, i fanciulli siano inviati ai maestri; nessuno deve vivere senza pastore né armenti né nessun altro animale; non possono essere senza pedagoghi i ragazzi, senza padroni gli schiavi. I figli degli uomini fra i piccoli di tutti gli animali sono i più difficili da trattare; quanto più hanno infatti la fonte del pensiero ancora indomita, sono fra tutti gli animaletti i più insidiosi, i più astuti, i più ribelli. [e] Bisogna perciò tenerli a freno con molti legami, quali i morsi dei cavalli, e appena escono dalle mani della nutrice e della madre bisogna disciplinarli per mezzo dei pedagoghi perché appunto sono ancora bambini e inesperti, poi con i maestri dei diversi mestieri e con le diverse discipline che si convengono ad un uomo libero. Ma se l’educazione risulterà quella degna di uno schiavo, qualsiasi degli uomini liberi sopravvenga punisca il fanciullo stesso, il pedagogo, il maestro, qualora appunto commetta errore in qualcuna di queste cose. Se pur venendo ad imbattersi in tale fatto non punisce secondo giustizia, prima di tutto sia colpito dalla più grande vergogna e il custode delle [809a] leggi eletto per governare i fanciulli tenga sotto osservazione questo che si imbatte nelle persone di cui diciamo e non interviene punendo il colpevole com’era suo dovere o lo punisce in modo irregolare; lo stesso custode vigilando attentamente e particolarmente curando l’educazione dei piccoli ne corregga la natura e la orienti sempre al bene secondo le leggi. Ora domandiamoci quali sono gli indirizzi che la legge, secondo noi, in modo soddisfacente potrebbe dare a questo magistrato stesso. Infatti fino [b] ad ora non ha parlato in modo chiaro e sufficiente, ha detto qualche cosa, altro ha tralasciato. Su questa materia non deve invece trascurare niente, per quanto si possa, deve interpretare ogni discorso, perché questo magistrato a sua volta spieghi e istruisca ed educhi gli altri. Delle melodie e delle danze, relativamente alla "danza corale", abbiamo già parlato, abbiamo detto quali composizioni si debbono preferire, in base a qual carattere presente in [c] loro, e quali sono da correggere e da consacrare. Per la prosa invece, illustre custode della gioventù, non abbiamo detto niente ancora, non abbiamo definito quali componimenti in prosa, e in qual modo, debbono maneggiare i giovani educati da te. E mentre tu hai già nel nostro discorso avuto modo di conoscere quali cose devono imparare per la guerra e come devono esercitarsi, l’insegnamento invece delle lettere anzitutto, e poi della lira e dei calcoli matematici, di cui noi abbiamo affermato dover ognuno conoscere gli aspetti che si applicano alla guerra, all’amministrazione domestica, alla struttura dello stato e inoltre le nozioni utili, in relazione a queste stesse cose, sui tempi delle rivoluzioni degli esseri celesti, delle stelle cioè, del sole, della luna, tutto ciò che è necessario di-[d] sporre in ogni stato a tale proposito... Di che cosa stiamo parlando? Intendo parlare della disposizione dei giorni nei periodi mensili e dei mesi in ciascun anno, affinché le stagioni e i sacrifici e le feste, ricevendo ciò che a ciascuna di queste cose conviene, siano guidati secondo natura e facciano vivo e sveglio lo stato, rendano gli onori dovuti agli dèi e facciano gli uomini più perspicaci in tali cose; ebbene, tutto ciò, amico, da parte del legislatore [e] non è ancora stato sufficientemente distinto. Rivolgi la tua attenzione dunque a ciò che deve esser detto dopo quanto abbiamo visto. Dicemmo che prima di tutto non hai ascoltato da noi quanto bastasse per le lettere; che cosa avevamo dunque da rimproverare a quanto si disse? Intendevamo rimproverarci di non aver definito ancora per te se colui che vuol essere buon cittadino deve muovere verso una conoscenza approfondita nello studio delle lettere o se deve trascurarlo del tutto. Lo stesso problema poniamo per la lira. Noi diciamo ora che si deve applicarsi allo studio dell’una e dell’altra disciplina. Il tempo giusto per le lettere è di tre anni per un ragazzo di dieci [810a] anni, direi, e cominciare a prendere in mano la lira a tredici anni e continuare per altri tre anni. Questi limiti di tempo esposti non siano spostati né in più né in meno; non sia permesso al padre, né al ragazzo, abbia o non abbia voglia di studiare, di violare la legge facendo un tirocinio più lungo o più corto del previsto in queste materie. Chi si ribella sarà privato degli onori dell’educazione di cui parleremo più sotto. Apprendi ora anzitutto che cosa devono in questo tempo imparare i giovani e che cosa devono insegnare i maestri. I ragazzi debbono studiare le [b] lettere quanto occorre perché siano capaci di leggere e scrivere. Per quanto riguarda la perfezione da ottenere nella velocità e nella eleganza, in relazione a quegli allievi cui la natura non venne in aiuto negli anni stabiliti qui, è meglio lasciar correre. Gli oggetti di studio costituenti opere poetiche, scritte ma non musicate, le une in versi, le altre senza divisioni ritmiche, le quali tutte sono scritte secondo il discorso che si usa nella conversazione, prive [c] di ritmo e armonia, sono opere pericolose lasciate a noi da alcuni dei molti uomini pericolosi. Che ne farete, voi che siete fra tutti i migliori custodi delle leggi? Con quale criterio un legislatore potrebbe ordinarvene l’introduzione nella vita dello stato, per non sbagliare?" Io penso che non saprebbe proprio rispondere il legislatore. CLIN. Come mai, ospite, mostri di parlare con tanta vera incertezza ponendo a te stesso questa domanda? ATEN. Sei intervenuto bene, Clinia. E’ necessario dire a voi, che insieme a me fate la ricerca sulle leggi, ciò che appare facile [d] e ciò che non appare tale. CLIN. Ebbene? che cosa vuoi dire a questo proposito e quale è la natura di ciò che hai provato nella tua anima? ATEN. Te lo dirò: non è affatto senza difficoltà che si affermano cose contrarie a quanto vien ripetuto da un enorme numero di bocche. CLIN. Ebbene, pensi forse che delle cose dette prima da noi sulle leggi siano solo piccole e poche quelle che stanno in contraddizione ai più? ATEN. E’ proprio vero questo che dici; infatti tu mi inviti, mi pare, poiché la stessa strada è mal vista da molti, ed è però nella simpatia di non pochi altri, e se questi sono in minor numero, sono [e] anche però di non minor valore, insieme a questi dunque tu mi esorti a battere la strada aperta dai discorsi ora presenti a noi, la strada della nostra legislazione, mi inviti a non abbandonarla e ad affrontarla nel suoi pericoli con animo forte. CLIN. Evidentemente.
XV. ATEN. Non l’abbandonerò dunque. E dico che noi abbiamo moltissimi poeti epici che hanno composto in esametri e altri in trimetri e in ogni altro genere di quelli che si dicono ‘metri’, alcuni tendendo alla serietà, gli altri al riso; e di queste composizioni innumerevoli sono quelle che dicono che bisogna nutrire i giovani che vengono educati correttamente e saziarli e far sì che molto debbano ascoltarle e apprendere mille cose attraverso la lettura fatta da [811a] altri, e conoscano a memoria i poeti interi. Alcuni poi scelgono fra tutti i componimenti i passi più importanti, radunano insieme certe frasi compiute in certe raccolte, ed affermano che chi vuol essere virtuoso e sapiente per grande esperienza e copiosa erudizione, deve impararli a memoria. Tu dunque mi comandi, concedendomi ora libertà di parola, di mostrare a questi maestri dove hanno ragione e dove torto? CLIN. Certamente. ATEN. Come [b] potrei con un solo discorso dire in modo adeguato di tutte queste cose? Io credo che potrebbe essere questo il discorso e su questo ognuno concorderebbe con me, nel riconoscere cioè che ciascuno dei poeti ha detto molte cose bene, e molte in modo opposto. Se è così, io affermo che una erudizione vasta è un pericolo per i giovani. CLIN. Che cosa consiglieresti allora al custode delle leggi? ATEN. Su che? CLIN. Sul modello cui dovrebbe guar-[c] dare e così permettere che certe cose tutti i giovani apprendano, certe cose invece vietare ad essi. Dillo e non esitare a parlare. ATEN. Caro Clinia, può darsi che in qualche modo io ci sia riuscito. CLIN. In che cosa? ATEN. Nel non avere affatto difficoltà per il modello. E infatti guardando ora ai discorsi esposti da noi fin qui dall’aurora di questo giorno - e mi pare che li abbiamo fatti non senza una qualche ispirazione divina - mi apparvero del tutto detti in modo simile a una qualche opera di poesia. E forse non è affatto straordinaria questa impres-[d] sione che venne a me, di aver cioè io sentito molto piacere, io che stavo considerando discorsi familiari quasi riunendoli tutti insieme; e infatti mi si rivelarono come di gran lunga i più adatti e i più convenienti da far ascoltar ai giovani, di gran lunga tali rispetto alla maggior parte dei discorsi che ho direttamente appreso o che ho sentito riferire, in versi o enunciati così, in prosa, più adatti di tutti questi. Non avrei altro modello da proporre, al custode delle leggi e all’educatore, migliore di questo, come, credo; nulla di meglio che invitare i maestri ad insegnare [e] ai discepoli questi discorsi e quelli che si avvicinano a questi e che a questi sono simili; e se quelli incontreranno scorrendo le opere dei poeti o scritti in prosa o detti così semplicemente e non scritti, se incontreranno discorsi che siano fratelli di questi, in nessun modo li lascino sfuggire, li scrivano. Costringa prima di tutto i maestri à impararli e a lodarli, rinunci a servirsi, come di collaboratori, dei maestri cui non piacciono, si serva invece degli altri, con [812a] lui concordi nella stessa lode, ed a questi affidi l’educazione e l’istruzione dei giovani. Qui e così finisca questo mio discorso sulle lettere e sui loro maestri. CLIN. Mi pare, ospite, che, secondo quanto abbiamo premesso, siamo rimasti sulla linea dei discorsi presupposti. Se poi tutto il complesso di quanto abbiamo detto è corretto o no, forse non è facile decidere. ATEN. E infatti, Clinia, solo allora, come è verosimile, questo diverrà più chiaro, come abbiamo ripetuto spesso, quando cioè arriveremo al termine [b] di tutta la nostra esposizione sulle leggi. CLIN. Sta bene.
XVI. ATEN. Dopo aver parlato del maestro di lettere, dovremo ora parlare del maestro di cetra? CLIN. Certamente. ATEN. Ricordandoci dei nostri discorsi precedenti mi pare che noi dovremo attribuire ai maestri di cetra ciò che è conveniente per il loro insegnamento e insieme per tutta l’educazione che si riferisce ad esso. CLIN. Di che parli? ATEN. Dicevamo, credo, che i sessantenni cantori di Dioniso devono possedere una fi-[c] nissima sensibilità dei ritmi e delle combinazioni delle armonie, perché ognuno possa distinguere e scegliere l’imitazione musicale ben fatta e quella mal fatta, quando l’anima ne è affetta, e quelle che assomigliano alla imitazione buona e alla non buona, e ripudiare le une, le altre invece portare alla conoscenza degli altri ed eseguirle e incantare così le anime dei giovani, invitando ciascuno a seguirlo nella conquista della virtù e accompagnandolo i giovani appunto grazie a queste imitazioni. [d] CLIN. Verissimo quello che dici. ATEN. Per tutto ciò che fu detto, il maestro di cetra e l’allievo devono usare dei suoni della lira in vista della purezza delle sue note, facendo in modo che i suoni dello strumento siano all’unisono con quelli della voce; suonare in modo diverso dalla voce, far variazioni sulla lira, quando le corde danno suoni diversi da quelli voluti dal poeta che ha composto il canto, com-[e] porre e la sinfonia e l’antifonia accostando suoni frequenti e suoni rari, rapidi e lenti, acuti e gravi, e similmente adattare ai suoni della lira ogni sorta di variazione di ritmo, l’insegnamento di tutto questo non bisogna impartire ai fanciulli che in tre anni devono apprendere velocemente di quest’arte quanto tornerà loro poi utile. Infatti cose contrarie che si danno reciproco turbamento producono difficoltà ad apprendere mentre i giovani devono esser il più possibile tali da imparare con facilità, e non sono né poche né piccole le cose necessarie a loro prescritte come oggetto di apprendimento; le indicherà il nostro discorso nel suo procedere insieme al tempo. In ogni modo il nostro educatore si prenda cura di queste cose, così come le abbiamo esposte, riguardo alla musica. Per quanto riguarda le melodie stesse e le parole del canto, quali e di qual natura sono quelle che i maestri dei cori devono [813a] insegnare, anche queste sono state esaminate completamente da noi nei discorsi che precedono; noi abbiamo anche detto che tali composizioni debbono essere consacrate, ciascuna adattata e collegata con la festa cui è propria, e daranno così ai cittadini il beneficio di un piacere cui si accompagna la buona fortuna. CLIN. Anche questi argomenti sono stati enunciati da te conformemente a verità. ATEN. Sono verissimi, direi allora. Il magistrato scelto per dirigere la musica li riceva dunque dalle nostre mani, e con fortuna benigna se ne prenda cura; noi aggiungeremo ancora qualche cosa al già detto sulla danza e il complesso [b] dell’educazione fisica. Come abbiamo aggiunto per la musica ciò che è relativo al suo insegnamento, ed è questo che restava da dire, ora facciamolo anche per la ginnastica. I ragazzi e le ragazze devono infatti imparare a danzare e a far ginnastica, non è vero? CLIN. Sì. ATEN. I ragazzi e le ragazze allora avranno rispettivamente maestri e maestre di danza; ciò non sarà inutile per questo esercizio. CLIN. Sia così. ATEN. Richiamiamo ancora l’uomo [c] che avrà il maggior numero di responsabilità, il magistrato che cura i giovani; egli fra le cure della musica e quelle della ginnastica non avrà molto tempo libero. CLIN. Come potrà occuparsi e sovraintendere a tante cose, così vecchio?
XVII. ATEN. Facilmente, amico. La legge gli ha dato e continuerà a dargli facoltà di assumere a questo stesso suo ufficio di direzione quei cittadini, uomini e donne, ch’egli vorrà; egli conoscerà le persone che deve scegliere e non vorrà certamente scegliere male, saggiamente temendo ed [d] anche conoscendo la grande responsabilità del potere, e nel suo animo argomenterà che da giovani che sono cresciuti bene, che crescono bene consegue per noi una buona navigazione, per tutto lo stato, ma invece... ma questo sarebbe un discorso poco bello e noi non lo faremo su di un nuovo stato per rispetto di quelli che amano fare profezie. Anche su questi argomenti molte cose dunque noi abbiamo già detto, sulle danze e su tutti i movimenti ginnastici. Stiamo infatti istituendo i ginnasi e tutti gli esercizi fisici che ci preparano alle fatiche della guerra, [e] ci insegnano a tirar l’arco, ogni sorta di lancio, a combattere con armi leggere e con ogni specie di armi pesanti, a far le evoluzioni tattiche e marciare e ad accamparsi e tutte le conoscenze che si riferiscono all’equitazione. I maestri di tutte queste arti saranno pubblici, forniti dallo stato, e dallo stato saranno retribuiti; saranno loro discepoli i giovani e gli uomini dello stato, ed anche le ragazze e le donne che impareranno ogni aspetto delle arti suddette. Le ragazze finché sono tali saranno esercitate in ogni tipo di danza armata e nel combattimento, le donne maritate impareranno poi per diretta esperienza, partecipandovi, le evoluzioni tattiche, l’ordine delle schiere, impareranno a [814a] deporre e a riprendere le armi, se non per altro per questo e cioè perché, nel caso in cui si debba uscire in massa a combattere con tutto l’esercito abbandonando la città, quelli che custodiscono i bambini e il resto della città siano almeno capaci di tanto, o, nel caso contrario (sono cose delle quali nessuna è da giurare impossibile a verificarsi) e dal di fuori nemici precipitino con grande impeto e potenti forze, barbari o Greci, e costringano alla battaglia per la salvezza dello stato stesso, perché sarebbe una grande debolezza della costituzione se le donne fossero [b] educate così vergognosamente e male da non saper scegliere di morire e di affrontare ogni pericolo, inferiori alle femmine degli uccelli che per i figli combattono contro qualunque delle fiere più forti, educate solo ad accorrere rapidamente ai templi, ad accalcarsi ovunque sugli altari e nei santuari e a effondere sopra il genere umano l’opinione che, per natura, esso sia più vile di ogni altro animale. CLIN. Per Zeus, ospite, questo non sarebbe in [c] alcun modo decente nello stato dove avvenisse, per non parlar del fatto che sarebbe cosa cattiva. ATEN. Stabiliamo allora questa legge, e cioè che fino al limite di cui si è detto le donne non debbono trascurare le cose di guerra, e, cittadini e cittadine, tutti devono invece occuparsene? CLIN. Io sono d’accordo. ATEN. Della lotta abbiamo parlato in parte ma non abbiamo detto la cosa più importante, a mio avviso. Non è facile d’altra parte spiegarla solo dicendo parole, senza mostrarne i movimenti del corpo. Ne giu-[d] dicheremo meglio quando la parola accompagnerà il gesto e potrà indicare con chiarezza, anche a proposito di quanto abbiamo già detto, e che tale lotta di cui parliamo è più di ogni altro movimento, molto di più, realmente vicina, per genere, al combattimento, e che deve essere quindi praticata in funzione della guerra, mentre non bisogna apprendere l’esercizio di guerra in funzione della lotta. CLIN. E’ giusto come dici.
XVIII. ATEN. Ed ora consideriamo detto e stabilito quanto abbiamo enunciato fin qui sul valore degli esercizi di lotta. [e] Per i rimanenti movimenti di tutto il corpo, si direbbe bene chiamando in qualche modo ‘danza’ la loro parte principale; bisogna ritenere che sono due i loro aspetti, uno che rappresenta mimicamente i corpi più belli e tende alla nobilità di atteggiamenti, l’altro i corpi più deformi e tende a ciò che è di qualità più bassa; e, ulteriormente, si danno due altri aspetti sia di ciò che è basso, sia di ciò che è nobile. Di ciò che è nobile nella danza un aspetto è la rappresentazione mimica dei corpi armoniosi in atteggiamenti di guerra e impegnati nell’esercizio di dure fatiche, e di anime forti, un altro la rappresentazione di anime sagge nel benessere e in moderati piaceri. Questa ultima danza si potrebbe chiamare, secondo la sua natura, ‘danza di pace’. L’altra parte di queste danze, la danza [815a] di guerra, diversa da quella di pace, si potrebbe correttamente chiamare ‘pirrica’ e rappresenta come si evitano tutti i colpi inferti e tutti quelli delle armi da getto, con torsioni, ogni genere di arretramenti, saltando in alto, chinandosi; rappresenta pure i movimenti contrari a questi, quelli che portano agli atteggiamenti di attacco, nel lancio delle frecce e dei giavellotti, e che tendono a compiere tutte le imitazioni di ogni sorta di colpo assestato. Per quanto riguarda ciò che è corretto e "ben teso" in questi [b] atteggiamenti, quando c’è imitazione dei corpi e delle anime nobili si realizza una perfezione di linee rette per lo più in tutte le membra del corpo; questo è appunto corretto. Quanto a ciò che è opposto non si deve accettarlo per corretto. Per quanto riguarda la danza di pace, bisogna esaminarla così in ciascuna delle sue esecuzioni, e cioè se nelle "danze corali", in modo conveniente a cittadini ben governati, ci si attiene completamente e correttamente secondo natura alla bellezza della danza o no. Prima di tutto bisogna dunque separare la danza di dubbio valore [c] da quella che non è oggetto di contestazione. Quale è questa e come si debbono distinguere e separare l’una e l’altra? Tutte le danze bacchiche e quelle che le seguono da vicino, quelle che gli uomini chiamano, come dicono, traendo il nome dalle Ninfe, da Pari, dai Sileni e dai Satiri, e ove essi uomini rappresentano mimicamente personaggi ebbri, durante il compimento di certi riti di purificazione e di iniziazione, tutto questo genere di danze non è di facile definizione, né come danze di pace, né come danze di guerra, né è facile dire quale è la sua intenzione. E non vi è dubbio che, direi, sembrerebbe a me quanto mai [d] giusto definirlo così, e cioè, ponendolo a parte sia dalla danza di guerra sia dalla danza di pace, affermare che questo genere di danza non ha relazione con lo stato, e qui, dove l’abbiamo messo a giacere, lasciarlo giacere, ed ora orientarci rivolgendoci alla danza di guerra e a quella di pace, come a cose senza contestazione che ci appartengono. Il genere della "musica" non di guerra, entro il quale si onorano nelle danze gli dèi e i figli degli dèi, risulterà un unico genere, nella sua totalità, che sorge dal sentimento di benessere; questo genere noi potremmo dividere [e] in due generi: di essi l’uno, quando da certe fatiche e pericoli si è sfuggiti e si perviene ai beni contrapposti, comporta maggiori piaceri, l’altro, quando si dà la conservazione e l’incremento dei beni già posseduti, possiede i piaceri meno intensi di quelli. In tutte queste danze ogni uomo si muove secondo movimenti del corpo che sono maggiori se sono più grandi i piaceri, minori se quelli sono più piccoli. E se l’uomo è più moderato e più eser-[816a] citato nel coraggio, i moti sono minori, il vile invece, e non educato al controllo di sé, dà mostra di cambiamenti di moto più grandi ed esagerati. In generale chi si esprime sia col canto che con le parole, senza musica, non può mantenere una assoluta tranquillità nelle sue membra e perciò io dico che tutta l’arte della danza è sorta dalla imitazione delle espressioni verbali fatte coi gesti. Ora, ci sono uomini in cui tutto il gestire è moderato ed armonico, altri che gesticolano, in tutte queste circostanze, senza misura. E se noi pensiamo a molti nomi antichi [b] dati alle cose non possiamo non apprezzarli in quanto sono bei nomi e dati con proprietà secondo natura. Uno di questi è anche quello che fu dato alle danze degli uomini che vivono nel benessere e che sono moderati nel piacere, nome che molto correttamente, e in modo adeguato alla musica, usò colui il quale, chiunque sia stato, le chiamò tutte ‘emmelìe’, imponendo così ad esse un nome basato sull’analogia, e distribuì in due specie le danze nobili, quelle di guerra dette ‘pirrìche’ e quelle della pace o [c] ‘emmelìe’, dando a ciascuna il suo nome conveniente ed adatto. E così quelle danze cui il legislatore per caratteri generali deve dare illustrazione, il custode delle leggi farà oggetto di ricerca nella realtà ove esse sono, e, analizzatele, collocherà la danza insieme alle altre parti dell’arte "musicale" e distribuirà, in tutte le feste, a ciascun sacrificio, ciò che conviene per quanto riguarda appunto la danza, e così consacrato il tutto una volta disposto in un preciso piano ordinatore, non muterà più nulla in avvenire di quanto è attinente sia al canto che alla danza e così lo stesso stato, e i cittadini, negli stessi piaceri e nello stesso modo trascorrendo la loro esistenza, sempre simili a se stessi [d] quanto più è possibile, vivranno una vita buona e felice.
XIX. Abbiamo così esaminato completamente l’argomento relativo alla "danza corale" dei corpi armoniosi e delle anime nobili, abbiamo detto come deve essere questa tipo di danza; ora è necessario considerare ed approfondire la conoscenza delle espressioni imitative dei corpi deformi, dei pensieri bassi, di ciò che è orientato alla canzonatura che suscita il riso, nella dizione, nel canto, nella danza, nelle imitazioni comiche operate in tutti questi campi. Non è possibile conoscere infatti ciò che è serio senza il [e] ridicolo, né tutti i contrari senza tutti i loro contrari, se si vuole essere tale da usare l’intelligenza; ma d’altra parte non è possibile fare l’una e l’altra cosa insieme se uno vuole poi partecipare della virtù anche in parte minima; si devono così apprendere anche le cose comiche per se stesse e ciò perché mai, a causa di ignoranza, si metta in pratica nelle azioni o si dica nei discorsi quanto è ridicolo, senza necessità. Si deve invece comandare che operino siffatte imitazioni schiavi e stranieri stipendiati, ma non ci si dedichi mai assolutamente a nessuna di simili occupazioni; nessun uomo libero abbia fama di apprendere tali cose, nessun uomo e nessuna donna, e invece nell’àmbito di queste imitazioni appaia sempre qualcosa di nuovo. Per quanto riguarda tutti i giochi che hanno [817a] come fine il riso e che noi tutti diciamo ‘commedie’, sia stabilito così dalla legge e dal nostro discorso; quanto ai nostri poeti "seri", come si dice, quelli delle tragedie, se alcuni di questi venuti da noi ci interrogassero press’a poco così: "Ospiti, possiamo frequentare la vostra città e la vostra regione o no? Possiamo portarvi ed introdurvi le nostre opere o come avete deciso di fare per questa materia?", se ci interrogassero così che cosa mai dunque potremmo correttamente rispondere a questi uomini divini, [b] a queste domande? A me infatti sembra che potremmo dir così: "Ospiti illustrissimi, noi stessi siamo poeti di una tragedia e, per quanto si possa, della migliore, della più bella; tutta la nostra costituzione è stata organizzata come imitazione della vita più nobile e più elevata e diciamo che questa è in realtà la tragedia più vicina alla natura della verità. Poeti siete voi, poeti siamo anche noi delle stesse cose, vostri, rivali nell’arte e nella rappresentazione del dramma più bello che solo la vera legge, per [c] natura, può realizzare, come è la nostra speranza ora. Non pensate che così facilmente vi permettiamo di piantare le vostre scene nelle nostre piazze e di introdurvi attori dalla bella voce, che grideranno più di noi, non pensate che vi permettiamo di arringare i giovani e le donne e tutta la turba del popolo, che vi lasciamo parlare sugli stessi costumi in modo diverso dal nostro, e che vi lasciamo dire in maggior numero, e per lo più, cose con-[d] trarie rispetto a quelle che diciamo noi. Saremmo diventati quasi completamente pazzi, noi e tutto lo stato, qualsiasi stato vi lasciasse fare le cose dette ora prima che i magistrati abbiano giudicato se quello che voi avete composto può essere detto ed è meritevole di essere divulgato fra i cittadini o non lo è affatto. Ora voi, figli delle dolci Muse, mostrate dunque ai magistrati i vostri carmi, prima di tutto, accanto ai nostri, e se risulterà che voi dite le stesse cose che noi diciamo, o anche se le direte migliori, noi vi apriremo i teatri, ma se non è così, amici, noi proprio [e] mai potremmo farlo". Queste siano norme abituali regolate dalle leggi per tutta la "danza corale" e per l’apprendimento di quanto si è detto e da una parte starà quanto riguarda gli schiavi, da un’altra quanto riguarda i padroni. Vi par giusto? CLIN. E come dire che ora non ci par giusto così?
XX. ATEN. Ci sono ancora tre discipline che devono apprendere gli uomini liberi; una di esse è costituita dai calcoli e dallo studio dei numeri, la seconda dall’arte di misurare le lunghezze, le superfici e i solidi, presa nella sua unità, e la terza finalmente studia le rivoluzioni degli astri e i loro rapporti reciproci che per natura si danno [818a] nel loro cammino. Su tutte queste cose, in quanto vengano congiunte con uno studio minuzioso, non devono affaticarsi i molti, ma solo certi pochi - chi siano diremo procedendo verso la fine, allora infatti sarà opportuno - quanto alla massa, invece, le nozioni che, nell’àmbito di queste discipline, nel modo comunque più giusto si dicono necessarie, è vergogna per i molti ignorarle, ma non è facile né assolutamente possibile che ognuno le faccia oggetto di accurata indagine. Non è possibile però nemmeno escludere quanto v’è in esse di necessario, anzi [b] pare pensasse a questo l’autore del primo proverbio sulla divinità quando disse che nemmeno la divinità apparirà mai combattere la Necessità, quelle necessità cioè, credo, che sono divine; intendere le necessità umane, cui pensano i più quando citano il proverbio, questo è il discorso di gran lunga più stolto che ci sia. CLIN. Quali sono dunque, ospite, riguardo alle nozioni, le necessità che non sono tali, umane, ma invece divine? ATEN. Io penso che siano quelle che, ove uno non le metta in pra-[c] tica e non le conosca del tutto, non risulterebbe mai per gli uomini né dio, né dèmone, né eroe capace di prendersi seriamente cura degli uomini stessi. Sarebbe molto lontano dal divenire divino un uomo se non è in grado di conoscere il valore dell’unità, del due e del tre, e complessivamente dei numeri pari e dispari, se non sa affatto contare, se non sa calcolare i giorni e le notti, se ignora le [d] rivoluzioni della luna e del sole e degli altri astri. Pensare che tutte queste non sono nozioni necessarie a chi vuol sapere, direi, qualsiasi cosa appartenga alle scienze superiori, sarebbe pensiero di grande stoltezza; ma quali, in particolare, di queste nozioni si debbono apprendere, quante, quando, quale con quale altra e quale separatamente dalle altre e il modo di combinarle tutte insieme, queste sono le cose che bisogna per prime cogliere correttamente e apprendere e poi passare alle altre sotto la guida delle prime. Questo ordine, infatti, per natura è stato stabilito da una necessità contro la quale, diciamo, nessun [e] dio né ora combatte né mai combatterà. CLIN. Sembra, ospite, che le cose dette così ora siano state dette correttamente, sembra che sia secondo natura quello che vieni dicendo. ATEN. E’ così infatti, Clinia, ma è difficile introdurre nelle leggi questa materia così ordinata in precedenza; in un altro tempo invece, se non vi spiace, potremo legiferare con maggior precisione. CLIN. Mi pare, ospite, che tu temi la nostra abituale inesperienza di queste cose. Hai torto però in questo tuo timore. Prova a parlarne senza nascondere nulla a causa di questo motivo. [819a] ATEN. Temo anche di quello che ora dici tu, ma di più temo coloro che si sono già accostati a questo stesso studio, ma male. Non è affatto terribile, né cosa gravissima, né il più grande male, l’ignoranza totale, ma invece viene ad essere una pena molto più grande di quanto si è detto la molteplice esperienza, la molteplice informazione unite a una guida cattiva. CLIN. E’ vero quello che dici.
XXI. ATEN. Bisogna dunque dire che i cittadini liberi [b] debbono imparare, di ciascuna di queste discipline, tanto quanto in Egitto anche la enorme massa dei bambini apprende insieme ai primi rudimenti della scrittura. Infatti innanzi tutto sono state ritrovate per i bambini, ancora proprio bambini, relativamente ai calcoli aritmetici, delle nozioni da apprendere unicamente al gioco e con diletto; suddivisioni di mele e di corone fra un numero più o meno grande di scolari, essendo a ciò adatti sempre gli stessi numeri, oppure distribuendo a turno e successivamente, secondo il loro ordine abituale, il ruolo di lottatore o di pugilatore accoppiato per il combattimento o di riserva. Altri dopo avere mescolato un certo numero di coppe [c] d’oro, d’argento, di bronzo e di altre simili materie, per gioco le distribuiscono tutte, come ho detto sopra, in un modo o nell’altro e adattano al gioco le applicazioni utili dei numeri necessari e così recano giovamento ai bambini che imparano preparandoli ad ordinare un accampamento, a guidare in marcia le schiere, a condurre una spedizione, all’economia domestica, e rendono gli uomini in ogni campo più utili a se stessi e più desti. E successivamente con le misurazioni, per quanto ha rela-[d] zione con le lunghezze, le larghezze e le profondità, li liberano da una certa ignoranza che è diffusa in tutti gli uomini e inerisce loro, ridicola e insieme vergognosa, per natura, proprio in relazione alle cose dette. CLIN. Quale ignoranza dici e di quale natura? ATEN. Caro Clinia, anch’io molto tardi ho sentito dire di questa deficienza nostra, a questo riguardo, e assolutamente me ne sono stupito e mi parve degna non di uomini, ma piuttosto di giovani maiali, e mi sono vergognate non solo per [e] me stesso, ma anche per tutti i Greci. CLIN. Di che? Diccelo e parla, ospite. ATEN. Lo dico, anzi, piuttosto, ti dimostrerò interrogandoti la presenza di tale ignoranza; rispondimi un po’: sai che cos’è la lunghezza? CLIN. Sì. ATEN. E la larghezza? CLIN. Certamente. ATEN. E anche che queste sono due e che terza in questa serie è la profondità? CLIN. Come no? ATEN. E non pensi dunque che tutte queste siano commensurabili fra di loro? CLIN. Sì. ATEN. Credo cioè che per natura sia possibile misurare una lunghezza con una lunghezza, una larghezza [820a] con una larghezza e nello stesso modo una profondità con una profondità. CLIN. Sì, più che mai. ATEN. E se invece né più che mai, né non più che mai, alcune di queste dimensioni sono commensurabili fra loro, ma, così, alcune lo sono, altre no, mentre tu le pensi tutte tali, quale ritieni sia il tuo stato d’animo a questo proposito? CLIN. E’ chiaro che non è buono. ATEN. E la lunghezza e la larghezza rispetto alla profondità, e la larghezza e la lunghezza fra di loro, non pensiamo di esse tutti noi Greci che sono commensurabili reciprocamente, in qualche modo? [b] CLIN. Senza dubbio. ATEN. E se invece ci sono dei casi in cui tale operazione è da ogni punto di vista assolutamente impossibile e, come dissi, tutti noi Greci pensiamo invece che sia possibile, non sarebbe giusto che vergognandomi per tutti loro, loro dicessi: "O voi che siete i migliori fra i Greci, non è forse questa una di quelle cose in relazione alle quali dicevamo risultare vergognoso il non sapere, mentre non è per nulla cosa meritevole il sapere quelle che sono necessarie?". CLIN. Come dir di no? ATEN. Ci sono poi altri fatti congiunti per genere [c] a questi, in cui noi cadiamo in errore per più ragioni, in errori fratelli a quelli sopra esposti. CLIN. Quali sono? ATEN. I reciproci rapporti delle grandezze commensurabili e incommensurabili e il fatto di sapere quale è la loro natura per cui essi sono tali. E infatti osservando e studiando è necessario distinguerli oppur rimanere del tutto privi di ogni valore, e proponendocene i problemi gli uni gli altri e occupandovi il tempo con molto maggior diletto che non si abbia nel gioco della pettéia da parte dei vecchi è necessario gareggiare in questi passatempi che [d] sono appunto degni di loro anziani. CLIN. Può essere; sembra, almeno, che il gioco della pettèia e queste conoscenze non siano fra di loro molto discosti. ATEN. Io dico dunque, Clinia, che i giovani devono apprendere queste cose, e infatti non sono dannose né difficili e, apprese insieme al gioco, saranno di giovamento e per nulla di danno al nostro stato. Se qualcuno dice diversamente, bisogna ascoltarlo. CLIN. Come no? ATEN. Ma allora se appaiono così queste conoscenze, è chiaro che noi le introdurremo nello stato, se invece non appariranno tali [e] saranno escluse. CLIN. Chiaro, certamente. ATEN. Dobbiamo dunque, ospiti, ora porle fra le conoscenze necessarie, affinché le nostre leggi non abbiano lacune? Poniamole allora, ma come un pegno che sì può riscattare e togliere dal resto della costituzione sia che non piacciano più a noi che le abbiamo poste, o a voi che le avete ricevute. CLIN. E’ un modo giusto di porle.
XXII. ATEN. Vedi tu, dopo di ciò, se a nostro avviso è opportuno che noi parliamo per i giovani dello studio degli astri o se è vero il contrario. CLIN. Parlane. ATEN. Riguardo agli astri accade uno straordinario e grande portento e in nessun modo assolutamente tollerabile. CLIN. [821a] Quale è? ATEN. Si dice da noi che non bisogna indagare sulla natura del dio maggiore e di tutto l’universo, che non bisogna darsi da fare a cercare le cause non sarebbe infatti neppure in accordo con la pietà ma pare, almeno, che tutto andrebbe bene se avvenisse proprio il contrario di questo. CLIN. Come dici? ATEN. Quello che dico è una cosa contraria all’opinione generale e si potrebbe pensare anche sconveniente ai vecchi, d’altra parte poiché uno ritiene una conoscenza bella, vera, utile [b] allo stato, e assolutamente gradita alla divinità, non può in nessun modo tacerne. CLIN. Mi par giusto, ma, quale conoscenza di tal fatta potremo trovare per gli astri? ATEN. Carissimi, ora noi Greci mentiamo tutti, per così dire, sui grandi dèi, il sole e la luna. CLIN. E la menzogna quale è? ATEN. Diciamo che non percorrono mai la stessa strada nel cielo, né loro né altri astri con loro, e [c] ciò quando li chiamiamo ‘pianeti’. CLIN. Per Zeus, ospite, questo che stai dicendo è vero; infatti molte volte nella mia vita ho visto io stesso Lucifero e Vespero ed altri non percorrere mai lo stesso cammino, vagare d’ogni parte nel cielo e ho visto il sole e la luna fare quello che sempre tutti sappiamo, ATEN. Queste sono le cose, Megillo e Clinia, che io dico i nostri cittadini e i giovani [d] devono imparare sugli dèi del cielo, e tanto, almeno, su tutti questi argomenti, dico, tanto da non bestemmiare su di essi e da poter dire parole di buon augurio, sempre, nei sacrifici e nelle preghiere, pregando in modo conforme alla pietà. CLIN. Questo é giusto, se però prima di tutto è possibile imparare quello di cui parli; ma inoltre io dico che, se è vero che ora non enunciamo nulla di corretto su di essi e quando avremo imparato lo faremo, anch’io sono d’accordo con te che bisogna apprendere una tal cosa nei limiti che hai tracciato. E dunque che queste cose stanno così come dici, prova tu a spiegare fino in fondo, noi proveremo a seguirti imparando. ATEN. Ma non è [e] facile imparare quello di cui dico e non è nemmeno assolutamente difficile e non ci vuol molto tempo. La prova è questa: io che né da giovane né anticamente ho avuto modo di ascoltare discorsi su tali argomenti ora potrei darvene una spiegazione in non molto tempo, ed è certo che se si trattasse di cose molto difficili non mi sarebbe possibile alla mia età chiarirle a voi, all’età che avete. CLIN. E’ vero. Ma quale dici essere questa conoscenza che affermi meravigliosa, e poi utile perché l’ap-[822a] prendano i giovani e che noi non conosciamo? Prova a dirci su di essa tutto questo nel modo più chiaro. ATEN. Bisogna provare. E infatti, miei cari, non è corretta questa dottrina e cioè che qualche volta la luna, il sole e gli altri astri sono erranti, è vero tutto il contrario di questo - ognuno di essi infatti percorre la stessa via, non molte, ma una sempre in cerchio e sembra muoversi per molte - e ancora non correttamente si ritiene che quello che di essi è il più veloce sia il più lento e l’opposto si pensa del più [b] lento. Se dunque queste cose son così per natura e noi invece non le pensiamo così, se nello stesso modo in Olimpia pensiamo dei cavalli che corrono e degli uomini che fanno la lunga corsa e diciamo più lento il più veloce e pia veloce il più lento e se nel comporre i canti di lode cantassimo il vinto come vincitore, io credo che né correttamente né in modo gradito ai corridori noi attribuiremmo quei canti di lode a quelli che non sono che uo-[c] mini; ma noi ora facciamo lo stesso errore nei confronti degli dèi e non pensiamo che ciò che colà risultava allora ridicolo e ingiusto ora, qui, in siffatti argomenti, non viene più in modo alcuno ad essere ridicolo, non solo, ma neppure gradito agli dèi, attribuendo appunto noi agli dèi, nei nostri inni, false dicerie? CLIN. Verissimo, se almeno le cose stanno così. ATEN. Se dimostreremo dunque che stanno così, tutte queste cose debbono essere apprese fino al limite di cui abbiamo detto, se invece non sarà dimostrato quello che dico, bisogna lasciar andare. [d] Siamo d’accordo su ciò? CLIN. Siamo d’accordo.
XXIII. ATEN. E qui dobbiamo dire che siamo giunti alla fine delle norme relative all’educazione alle conoscenze. Sulla caccia bisogna pensare in modo analogo e su tutte le cose simili. E infatti può darsi che ciò che viene ordinato al legislatore sia più impegnativo di quello che comporta lo stabilire semplicemente le leggi e l’allontanarsi subito dopo dalla sua opera e che, oltre alle leggi, ci sia qualche altra cosa che sta in mezzo, per quella che è la sua natura, fra l’esortazione e le leggi stesse, cosa che più volte è [e] venuta ad incontrare i nostri discorsi, per esempio quando abbiamo parlato dell’allevamento dei bambini piccolissimi. E infatti noi affermiamo che non si tratta di cose da passar sotto silenzio, ma, dicendole, sarebbe esser pieni di molta stoltezza il ritenere che siano quali leggi stabilite. E supponendo che leggi siano già state scritte come noi le abbiamo enunciate e così tutta la costituzione, non risulta completa la lode del cittadino eccellente per virtù, se qualcuno dirà che colui il quale si pose il più possibile egregiamente al servizio delle leggi, ed è docile a loro nel modo più perfetto, questo è il buon cittadino. V’è maggior completezza nel dire che è buon cittadino colui il quale abbia trascorso tutta la vita senza contamina-[823a] zioni obbedendo alle norme scritte del legislatore sia quando questi legiferava, sia quando lodava e biasimava. Questo è il più giusto discorso di lode al cittadino e chi è un vero legislatore non ha solo il dovere di scrivere le leggi, mi egli deve anche oltre alle leggi, scrivere, intrecciate alle leggi stesse, tutte le cose che a suo giudizio sono valide e non valide, e il cittadino perfetto non si sentirà vincolato da questi giudizi di meno che da quelli che hanno ottenuto conferma dalle leggi mediante le pene e che da quelle leggi sono stati abbracciati. E se noi introdurremo come un testimone l’argomento che ora ci sta davanti, [b] meglio potremo mostrare ciò che vogliamo. La caccia infatti è una cosa complessa che ora è compresa sotto uno stesso nome, direi. Molteplice è la caccia infatti degli animali che vivono nell’acqua, molteplice quella degli alati, moltissimi sono anche i procedimenti di caccia per gli animali terrestri, non solo per le belve, ma anche quella dove si cacciano gli uomini è giusto pensarla come caccia, quella cioè che avviene in guerra, ed è anche molteplice la caccia che avviene per amore, e l’una è oggetto di lode, l’altra di biasimo. I furti dei ladri e degli eserciti agli eserciti sono ancora caccia. Il legislatore che legifera sulla [c] caccia non può trascurar di chiarire queste cose, né stabilire per tutte ordinamenti e pene e dare così norme contenenti minacce. Per questa materia che deve fare allora? L’uno, il legislatore, deve dare lodi e biasimi alle cose della caccia in relazione ai faticosi esercizi ed alle pratiche cui sono sottoposti i giovani, l’altro, il giovane che l’ha ascoltato, deve obbedirgli e né il piacere né la fatica devono distoglierlo da ciò, e deve rendere onore a quanto è stato enunciato con la promessa della lode, e [d] dar compimento nelle sue azioni alle prescrizioni e di più di quanto onorerà e compirà ciò che è stato minacciato, in relazione a ciascun caso, con la promessa della pena e che è stato stabilito come legge. Dette queste cose come proemio, ora seguirebbe immediatamente, e sarebbe al suo giusto posto, l’enunciazione di lodi e biasimi in relazione alla caccia, lodando quella caccia che rende completamente migliori le anime dei giovani, e biasimando quella opposta. Diciamo dunque ciò che segue immediatamente rivolgendoci ai giovani sotto forma di preghiera: "Cari giovani, non vi prenda mai desiderio e amore della caccia per mare, né della pesca con l’amo, di nessuna [e] caccia di animali d’acqua, né di esercitarvi a quella caccia oziosa che si fa con la rete indifferentemente svegli e addormentati. Mai vi prenda il desiderio di cacciare gli uomini sul mare né della pirateria, desiderio che vi renderebbe cacciatori crudeli, fuori legge. Né giunga mai a toccarvi, mai, nemmeno nel più lontano dei vostri pensieri, il desiderio di darvi al mestiere dei ladri, in campagna e in città. Né raggiunga mai alcuno dei giovani l’amore sedu-[824a] cente ma vile della caccia agli uccelli alati". Rimane dunque ai nostri giovani atleti solo la caccia e la cattura degli animali terrestri e fra le sue varie specie l’una è quella detta ‘notturna’, quando a turno dormono i cacciatori, uomini inoperosi, ed è indegna di lode, e non meno indegna è quella che offre riposo frequente alle fatiche, per cui si vince la forza selvaggia delle fiere non con la vittoria di un’anima che ama il faticoso lavoro, ma coi lacci e le reti; rimane sola per tutti, e la migliore, la caccia ai quadrupedi coi cavalli, coi cani, con le proprie forze fisiche, cose tutte queste su cui dominano i cacciatori che cacciano di propria mano, correndo, colpendo, scagliando proiettili, quelli almeno che coltivano in sé il divino coraggio. Costituirà lode e biasimo, per tutte queste [b] cose, il discorso che abbiamo enunciato; la legge è questa: nessuno impedisca a questi che sono i cacciatori veramente sacri di spingere la loro muta di cani e di cacciare dove e come vogliono, ma nessuno permetta mai e in nessun luogo di cacciare al cacciatore notturno che confida nei suoi lacci e nelle sue reti; non sia impedito il cacciatore di uccelli sulle terre incolte e sui monti, ma nei campi coltivati, nei luoghi selvaggi ma sacri, lo impedisca chiunque vi si imbatte. Per quanto riguarda il cacciatore d’animali acquatici, salvo che nei porti e nei fiumi, negli stagni, nei laghi sacri, in tutti gli altri luoghi sia data ad esso facoltà di cacciare, ma soltanto senza servirsi di torbide misture di succhi vegetali. E così ormai bisogna dire che siamo giunti alla fine di tutte le norme sull’educazione. CLIN. Lo potresti dire benissimo.
VIII
[828a] I. ATEN. Attinente a quanto si è detto è dar ordine e legge alle feste, prendendo ispirazione dall’oracolo di Delfo; bisognerebbe dire quali riti sacrificali e in onore di quali dèi sarebbe meglio e sarebbe preferibile eseguire per lo stato che fa il sacrificio, e quando e quanti di numero; direi che forse almeno alcune di queste cose sarebbe nostro compito determinare per mezzo di leggi. CLIN. Forse il numero. ATEN. Cominciamo dal numero. Non dovranno infatti essere di meno di 365, in modo che [b] non ci sia nessun giorno in cui un corpo di magistrati non sacrifichi a qualche dio o dèmone, per lo stato, per i cittadini e i loro beni. Gli interpreti delle leggi, i sacerdoti e le sacerdotesse, gli indovini si riuniscano coi custodi delle leggi e diano definizione a quanto il legislatore di necessità deve tralasciare; essi stessi debbono farsi ispettori di queste stesse omissioni del legislatore in questa [c] materia. La legge infatti fisserà dodici feste per i dodici dèi dai quali trae il nome ciascuna tribù, facendo i cittadini sacrifici mensili a ciascuno di questi dèi, con "cori" ed agoni musicali ed altri ginnici, attribuendoli secondo quanto si addice agli dèi stessi ed insieme a ciascuna delle stagioni, e distribuendo le feste femminili col determinare a quante conviene essere celebrate separatamente dagli uomini e a quante no. Non bisogna confondere, anzi separare nettamente, le feste degli dèi inferi da quelle di tutti gli dèi che dobbiamo denominare ‘celesti’ e delle divinità subordinate a questi, riservando per [d] legge alle prime il dodicesimo mese, quello di Plutone. Bisogna vedere anzi che questo dio non sia avversato dai guerrieri, ma onorato sempre come massimo benefattore del genere umano. Infatti la vita unita dell’anima e del corpo non è in alcun modo una condizione migliore della loro separazione dopo la morte, come io direi parlando con tutta serietà. Inoltre coloro che vorranno assolvere bene il compito di distribuire le feste bisogna abbiano in mente questo pensiero e cioè che il nostro stato è tale quale non se ne troverebbe un altro uguale, nei nostri tempi, sia per abbondanza di tempo libero che per quella delle cose necessarie, e bene deve vivere questa sua vita, nello stesso [829a] modo di un singolo individuo. A coloro che vivono felici è anzitutto necessaria la presenza di queste condizioni, che cioè essi stessi non rechino ingiustizia agli altri e non ne ricevano dagli altri. Di queste due condizioni non è difficile affatto ottenere la prima, molto difficile la seconda, cioè acquisire una forza sufficiente ad impedire ogni aggressione; non si può conseguirla perfettamente altrimenti che divenendo perfettamente buon cittadino. Lo stesso è possibile si dica anche per lo stato, e per quello stato che è divenuto uno stato buono la vita sarà felice, ma avrà una vita di guerra, dal di fuori e dal di dentro, lo stato che sia cattivo stato. Se queste cose sono press’a [b] poco così, non deve ciascuno esercitarsi alla guerra in guerra, ma nella vita pacifica. E allora lo stato intelligente mese per mese deve fare manovre militari che durino non meno di un giorno, e di più se anche così parrà opportuno ai magistrati, senza riguardarsi troppo dal freddo dell’inverno e dal calore dell’estate; e vi partecipino tutti, uomini, donne e ragazzi quando i magistrati riterranno opportuno di far loro eseguire una sortita in massa, e qualche volta anche separatamente ed a turno. E anche insieme ai riti sacrificali si devono sempre escogitare bei divertimenti, affinché trovino posto in essi battaglie organizzate per [c] la festa, le quali imitino con la maggiore evidenza possibile quelle vere della guerra. In ciascuna di esse si dovranno Distribuire ai vincitori premi e ricompense, e i cittadini comporranno gli uni per gli altri canti di lode e rimproveri in relazione a quello che sarà stato il comportamento di ciascuno durante le gare e in tutta la vita anche, celebrando essi colui che sarà sembrato esser il migliore e biasimando nel caso opposto. Poeta di queste composizioni non sia chiunque, ma, prima di tutto, uno che non abbia meno di quarant’anni, e non appartenga a quelli - quanti sono - che posseggono entro se stessi in modo sufficiente la capacità poetica e "musicale" e non abbiano mai compiuto nessuna opera bella e gloriosa. Ma [d] invece quanti sono i cittadini retti e onorabili nello stato, artefici di opere belle, siano questi gli uomini di cui si canteranno le composizioni, anche se non siano per natura opere perfettamente musicali. Il potere di giudicare su di essi appartenga all’educatore ed agli altri custodi delle leggi, i quali attribuiranno a quelli questo come privilegio, e cioè di aver quelli soli la libertà di parola in poesia; gli altri non ne avranno nessuna possibilità e nessuno oserà cantare un carme che non sia stato esaminato ed approvato dai custodi delle leggi, neppure se più dolce [e] degli inni di Tamiri e di Orfeo. Saranno ammessi solo i componimenti giudicati santi e dedicati agli dèi e quanti, opere di uomini retti, nel dar biasimo o lode a qualcuno, furono giudicati compiere ciò giustamente.
II. Le stesse cose, e nello stesso modo, io affermo dover essere attuate, riguardo alle manovre militari e alle libertà poetiche, sia per gli uomini che per le donne. Bisogna poi che il legislatore, riprendendo un discorso precedente, proponga un modello a se stesso col discorso, così: "Suvvia, quali mai cittadini sto allevando una volta che abbia io organizzato così tutto lo stato? Non saranno [830a] forse atleti delle più grandi competizioni, atleti ai quali stanno di fronte avversari in numero incalcolabile?". "Ma certo", direbbe qualcuno rispondendo correttamente. Ebbene? Se avessimo allevato degli atleti per il pugilato o per il pancrazio o qualche altra gara simile a queste, scenderemmo in campo nella vera competizione senza aver combattuto nel tempo precedente giorno per giorno con qualcuno? O se noi stessi fossimo pugilatori, già molti giorni prima dell’incontro non cercheremmo di imparare [b] a combattere, non ci eserciteremmo imitando tutte quelle mosse quante sono quelle di cui dovremo usare allora combattendo per la vittoria, e, appressandoci il più possibile nella somiglianza, non è forse vero che al posto dei cesti ci legheremmo alle mani e alle braccia i guanti fatti a palla per ottenere l’attuarsi, nel modo più adatto, dell’esercizio di portare e di evitare i colpi? E se si verificasse per noi una insuperabile difficoltà di reperire dei compagni di esercizio, forse che temendo il riso degli stolti non oseremmo, appendendo un fantoccio inanimato, di esercitarci contro di esso? E, ancora, se sprovvisti di [c] tutto ciò che è animato ed inanimato, nella più completa solitudine di compagni d’esercizio, forse non oseremmo da soli combattere con noi stessi contro la nostra ombra, veramente questa volta? O che cosa d’altro si potrebbe dire che risulta essere l’esercizio che fa il pugilatore quando prova i suoi gesti? CLIN. Direi, ospite, che non è altro che proprio ciò di cui tu ora hai parlato. ATEN. Ebbene? Forse che la forza combattente del nostro stato oserà ogni volta affrontare la più grande battaglia meno preparata di quegli atleti, oserà in tali condizioni com-[d] battere per la sua vita, per i figli, per le ricchezze, per tutta la comunità? E il legislatore di tale stato, temendo che appaiano a qualcuno cosa ridicola i reciproci esercizi, non dovrà quindi legiferare su di essi prescrivendo di compiere manovre militari, e cioè da una parte soprattutto i piccoli esercizi senz’armi da farsi ogni giorno, orientandovi sia i "cori" sia tutta la ginnastica, e, d’altra parte, non ordinerà che si compiano certe esercitazioni più grandi, per così dire, e più piccole, non meno di una [e] volta al mese, che in tutta la regione allora i cittadini combattano fra di loro e lottino per la conquista dei luoghi e nella preparazione di imboscate, imitino la guerra in ogni suo aspetto, combattano veramente coi guanti fatti a palla e con colpi di armi da getto simili il più possibile a quelle vere, facendo uso di proiettili tali da comportare un qualche pericolo, affinché il gioco che avviene fra gli uni e gli altri non sia del tutto senza timore, anzi procuri qualche timore, e in qualche modo renda manifesto chi è coraggioso e chi non lo è? Egli farà così, affinché distri-[831a] buendo con giustizia agli uni ricompense onorevoli, agli altri segni di disonore, egli, il legislatore, possa così preparare tutto lo stato, durante tutta la vita di questo, ad essere valido per la vera competizione, ed anche se qualcuno muore in queste circostanze, in base al presupposto che l’omicidio è avvenuto involontariamente, stabilirà che l’uccisore, purificato secondo la legge, abbia pure le mani, nella convinzione che non essendo molti quelli che muoiono così, altri non peggiori ne sorgeranno, ma se, per così dire, se sia morto il timore, in tutte queste attività non potrebbe trovare una pietra di paragone per distinguere i migliori e i peggiori, e questo sarebbe per lo stato [b] un male più grande, non di poco, del primo. CLIN. Noi saremmo tutti concordi nel dire, ospite, che ogni stato deve stabilire leggi per tutte queste cose e metterle in pratica.
III. ATEN. E sappiamo tutti la causa per cui ora negli stati questo tipo di festa "corale" e di competizione non è adottato, direi, quasi in nessun luogo assolutamente, salvo che in limiti del tutto ristretti? O dobbiamo dire che la causa è nella ignoranza dei molti e di coloro che danno [c] ai primi le leggi? CLIN. Può darsi. ATEN. No, in nessun modo, caro Clinia; sono due le cause di questi fatti, bisogna dire, e sono del tutto sufficienti. CLIN. Quali sono? ATEN. La prima è determinata dall’amore della ricchezza che rende ogni tempo privo della libertà necessaria per occuparsi di ogni altra cosa che non siano i possessi privati, ai quali rimanendo attaccata e sospesa ogni anima di ogni cittadino, non avrà mai la possibilità di aver altra cura che non sia il guadagno quotidiano. E qualsiasi conoscenza o anche qualsiasi pratica porti a ciò, ognuno in privato è prontissimo ad apprendere e a praticare [d] e irride a tutto il resto. E bisogna affermare che tutto ciò è una cosa sola, che questa è unica causa del non voler uno stato attendere seriamente a quella pratica che si diceva, e a nessun’altra che sia bella e buona, e invece ogni cittadino mosso dall’ingordigia dell’oro e dell’argento è disposto a piegarsi ad ogni mestiere, ad ogni mezzo degno o indegno che sia, pur che lo arricchisca, a compiere un’azione pia o empia e anche del tutto infame, senza alcuno scrupolo, purché possa riceverne come un animale la pos-[e] sibilità di mangiare ogni sorta di cibo e di bere ogni bevanda e di saziare il desiderio del sesso del tutto e assolutamente. CLIN. E’ giusto quello che dici. ATEN. Questa causa dunque, della quale sto parlando, sia da noi posta come una delle cause che impediscono e non permettono che gli stati si preparino sufficientemente né ad alcunché di buono, né alla guerra, una causa che invece rende quegli uomini che per natura sono più moderati mercanti e trafficanti per mare, in una parola servi, e i coraggiosi fa bri-[832a] ganti, scassinatori, spogliatori di altari, attaccabrighe e tiranni, li trasforma in disgraziati anche se qualche volta la natura fu già larga di doni con loro. CLIN. Che vuoi dire? ATEN. Perché non li dovrei dire del tutto disgraziati, uomini ai quali è necessità trascorrere tutta la vita con una insaziata fame nella loro anima? CLIN. Questa dunque è una delle due cause; quale dici essere la seconda, ospite? ATEN. Hai fatto bene a ricordarmelo. CLIN. [b] Questa è una delle due cause, tu dici; la ricerca insaziabile di tutta la vita non lascia tregua a ciascun uomo ed è per ciascuno di ostacolo al buon esercizio relativo alla guerra. E sta bene, ma ora esponi la seconda. ATEN. Credete che io sia in difficoltà e invece di esporla stia perdendo tempo? CLIN. No, ma ci pare che ti sei lasciato trasportare dalla tua avversione criticando il carattere di siffatti uomini più a lungo del dovuto in relazione al discorso che ora è venuto a cadere davanti a noi. ATEN. Avete colpito giusto, ospiti; ed ora voi, sembra, ascoltereste ciò che segue. CLIN. Parla. ATEN. Io dico che sono cause quelle non-costituzioni di cui spesso ho parlato nei [c] discorsi che precedono: la democrazia, l’oligarchia e la tirannide. Nessuna di queste infatti è costituzione, ma tutte si direbbero esattamente ‘fazioni’. Nessuna infatti regge per propria volontà sudditi che volontariamente la accettano, ma per propria volontà, sempre, con una qualche violenza, sudditi che non l’accettano; chi è a capo teme i sudditi e non permetterà mai spontaneamente che diventino bravi, ricchi, forti, coraggiosi, né assolutamente addestrati alla guerra. Sono dunque queste le due cause, direi quasi a tutte le altre superiori, cause di tutti i mali, sono queste dunque quelle realmente superiori a tutte per i mali di cui parliamo. Ma la costituzione di cui ora stiamo fissando la legislazione col nostro discorso sfugge ad am-[d] bedue. Gode infatti del massimo tempo libero, i cittadini sono liberi uno rispetto all’altro, e, credo, non potrebbero essere per nulla amanti della ricchezza per l’azione di queste leggi, cosicché verosimilmente e conseguentemente una siffatta fondazione della costituzione è la sola fra quelle attuali che potrebbe accogliere l’educazione che ora abbiamo esposto completamente e insieme i giochi per esercitarsi alla guerra, giochi condotti a perfezione nei limiti stabiliti dal nostro discorso. CLIN. Benissimo.
IV. ATEN. E allora non segue immediatamente a questo [e] che si è detto, ricordare, a proposito di tutte le competizioni ginniche, che bisogna praticare quante di esse sono competizioni di preparazione alla guerra e per esse bisogna stabilire premi ai vincitori, e che le altre sono da trascurare? E’ meglio dire dal principio quali sono e stabilirle per legge. Non si devono stabilire per prima cosa le corse e le prove di velocità nel loro complesso? CLIN. Sì, bisogna farlo. ATEN. Ciò che v’è di più utile in guerra è l’agilità del corpo sia dei piedi che delle mani; quella [833a] dei piedi per sfuggire e per prendere chi fugge, mentre, d’altra parte, nella mischia la battaglia e lo scontro abbisognano di forza e di vigore. CLIN. Certamente. ATEN. Non hanno la massima utilità però l’una e l’altra per chi non è armato. CLIN. E come infatti potrebbero averla? ATEN. E così il nostro araldo chiamerà, nelle nostre gare, com’è d’uso ora, prima il corridore della corsa di uno stadio; questo entrerà in campo armato. Non stabiliremo nessun premio per il corridore disarmato. Primo dunque entrerà colui che correrà la corsa di uno stadio con le [b] armi, secondo quello del diàulos, terzo il corridore della corsa a cavallo e poi quarto il corridore della lunga corsa; quinto sarà il corridore che, primo degli atleti armati pesanti, faremo andare per una lunghezza di sessanta stadi, fino al tempio di Ares e ritorno, e lo chiameremo ‘oplita’, essendo appunto armato in modo più pesante, e correrà per una strada meno accidentata, e l’ultimo, l’arciere, indossato appunto tutto l’equipaggiamento dell’arciere, correrà cento stadi fino al tempio di Apollo e di Artemide, superando colli e ogni tipo di terreno; noi che proponiamo [c] la gara li attenderemo fino a che giungano alla meta e daremo il premio al vincitore di ciascuna gara. CLIN. Benissimo. ATEN. Pensiamo tutte queste corse come divise in tre classi di gare, una per i bambini, una per gli adolescenti, una per gli uomini fatti. Per le gare degli adolescenti stabiliremo due terzi della lunghezza di ciascuna corsa, per i bambini la metà di quelle corse, sia che corrano armati da arcieri sia da opliti; per le donne, stabiliremo che le fanciulle ancora impuberi percorrano nude [d] lo stadio, il diàulos, il percorso della corsa a cavallo e la lunga corsa gareggiando sulla medesima pista; per quelle che hanno raggiunto i tredici anni e rimangono in attesa fino all’età della unione nuziale, che avverrà non oltre i vent’anni e non a meno di diciotto, esse dovranno scendere a gareggiare in queste corse acconciate con una veste decente. Siano queste le norme per le corse maschili e femminili. Quanto alle prove di forza, in luogo della lotta e delle altre simili prove, di tutte quelle che ora si [e] dicono ‘pesanti’, si può introdurre la scherma dove si combatta uno contro uno, due contro due, fino a gruppi di competitori gareggianti fra loro in dieci contro dieci. Per definire quali colpi si devono dare o parare per vincere e fino a qual numero, nello stesso modo in cui attualmente nell’àmbito della lotta quelli che si occupano della lotta stessa hanno stabilito quale è l’opera del buon lottatore e quale del cattivo, nello stesso modo bisogna che, convocando noi i migliori schermitori, questi, tutti insieme, siano comandati di aiutarci a stabilire per legge chi è giusto sia vincitore di questi incontri, quali colpi avendo evitato [834a] od inferto, e analogamente per il perdente, quali regole lo giudicheranno tale. Le stesse leggi siano stabilite anche per le donne fino alla età del matrimonio. Al pancrazio sia sostituita tutta la scherma con le armi dei peltasti; si combatterà con archi, piccoli scudi, giavellotti, e pietre scagliate a mano o con la fionda, e avendo stabilito anche su ciò delle leggi, debbono essere attribuiti i premi e le [b] vittorie a chi le avrà meglio osservate. Dopo di ciò seguirebbero immediatamente le leggi sulle competizioni dei cavalli; noi non abbiamo bisogno di molti cavalli né affatto grande bisogno di questi animali, secondo quella che è la natura di Creta, cosicché ne segue di necessità che anche non sia molto grande l’interesse per il loro allevamento e per le loro competizioni. Qui non c’è assolutamente alcun allevatore di cavalli per le corse dei carri, né ad alcuno potrebbe sorgerne qualche ambizione, ragionevolmente, cosicché sarebbe esser senza intelletto ed apparir tale agli altri porre per legge l’esistenza di competitori in queste gare, cosa non propria del luogo. Stabilendo invece [c] premi per i cavalli montati direttamente, si tratti di puledri ancora con i primi denti o di mezzani o di cavalli già grandi, noi conformeremmo il gioco dei cavalli alla natura della regione. Si facciano dunque secondo la legge le gare e le competizioni di tutti questi atleti, e sia affidato in comune ai comandanti di squadrone per tribù e ai comandanti generali della cavalleria il giudizio di tutti questi tipi di corsa e di quelli che scendono in campo con le armi. Daremmo buone leggi non stabilendo gare per concorrenti disarmati, né per quanto riguarda la ginnastica [d] né qui. Gli arcieri montati e i lanciatori di giavellotto a cavallo non sono inutili a Creta; cosicché siano introdotte anche le loro contese e le loro gare a titolo di gioco. Non è cosa degna d’esser presa in considerazione costringere a parteciparvi le donne impartendo ordini ed estendendo anche a loro la coercizione della legge. Se però esse vi si sono venute abituando proprio a causa di precedenti fatti educativi, e la loro natura accetta queste prove e non prova repugnanza a che bambine ancora o comunque non maritate vi partecipino, si lasci correre senza dar rimproveri.
V. Ormai si può dire finito tutto ciò che riguarda l’agonistica e l’apprendimento della ginnastica, per quanto ne facciamo esercizio nelle gare e quotidianamente presso i [e] maestri. Anche la maggior parte della "musica" è stata così esaminata completamente. Per quanto riguarda i rapsodi e i loro simili e le competizioni "corali" che è necessario si compiano nelle feste, una volta stabiliti i mesi, i giorni, gli anni in relazione agli dèi ed alle altre divinità inferiori, noi potremo determinare più precisamente le norme delle feste stesse ed indirle sia ogni tre sia ogni cinque anni sia nel modo e nell’ordine in cui verranno [835a] distribuite per suggerimento degli dèi a questo riguardo. Bisogna prevedere che in queste occasioni si terranno anche le competizioni "musicali" secondo le diverse specialità, a turno, ordinate dai giudici delle gare, dall’educatore dei giovani e dai custodi delle leggi, radunatisi insieme per questo problema e divenutine legislatori per stabilire quando, quali uomini, con quali altri faranno le competizioni di tutte le forme di "coro" e di "danza corale". Quale dev’essere ciascuna di queste composizioni nei discorsi, [b] nei carmi, nelle armonie fuse coi ritmi e con le danze, è stato ripetuto più volte dal primo legislatore e in base a ciò debbono legiferare, seguendone le norme, i legislatori successivi i quali distribuiranno le competizioni convenientemente secondo ciascuno dei diversi riti sacrificali nei tempi dovuti e a queste condizioni affideranno ai cittadini dello stato le feste da celebrare. Non è difficile rendersi conto di come dev’essere ordinato tutto il complesso di queste cose e delle altre simili secondo la legge, e apportandovi qualche piccola innovazione, qua e là, non ne può venire né grande vantaggio né grande danno allo stato. [c] Ma c’è una cosa invece che ha molta importanza e cui è difficile persuadere, una cosa che potrebbe soprattutto essere un’opera della divinità, se mai fosse possibile che venissero da parte sua le dovute prescrizioni, mentre ora per questa cosa invece può darsi ci sia bisogno di un uomo audace il quale onorando soprattutto la libertà di parola dica ciò che gli appare miglior partito per lo stato e i cittadini, ordini e stabilisca ciò che è conveniente per le anime corrotte e conseguente a tutta la nostra costituzione, enunciando cose opposte alle più grandi passioni, senza aver l’aiuto di nessuno, da solo seguendo solo il suo discorso. [d] CLIN. Di quale discorso parliamo ora, ospite? Noi non comprendiamo ancora. ATEN. E’ verosimile, ma proverò a parlarvi più chiaramente. Quando il discorso mi portò sul tema della educazione, vidi i giovani e le giovani stringere amicizia fra loro; mi invase, com’era verosimile, il timore. Pensavo: che fare di uno stato siffatto dove sono giovani e ragazze ben cresciuti, alleviati da ogni fatica pesante e servile, fatiche che più di tutto smorzano ogni [e] eccessivo entusiasmo, giovani che, tutti, durante tutta la loro vita, non hanno altra preoccupazione che i riti sacrificali, le feste, i "cori"? Come potranno, in tale stato, star lontani dai desideri che molti molte volte trascinato a conseguenze estreme, desideri da cui il discorso, nel tentativo di diventar legge, comanderebbe di astenersi? E non v’è dubbio che non c’è da meravigliarsi se le norme stabilite fin qui terranno a freno la maggior parte dei [836a] desideri - il divieto infatti di appropriarsi di una ricchezza eccessiva è non piccolo aiuto alla saggia temperanza; così tutto il sistema educativo è stato regolato adeguatamente allo stesso scopo, e, oltre a ciò, lo sguardo dei magistrati, costretto a non guardare altrove, ma invece a guardare sempre da questa parte e in particolare i giovani, è sufficiente a controllare le altre passioni, per quanto ciò è possibile agli uomini - ma io domando come si potrebbe guardarsi dagli amori per i bambini, maschi e femmine, e per le donne che sostituiscono l’uomo, e per [b] gli uomini che fanno da femmina, cose dalle quali infinite conseguenze sono derivate agli uomini, per i singoli privatamente e per gli stati interi? E quale farmaco preparando in ciascuno di questi casi si troverà una via d’uscita per sfuggire a questo pericolo? Non è proprio facile, Clinia. E infatti mentre tutta Creta e Sparta ci danno un aiuto, io direi, non piccolo per molte altre questioni, lo danno a noi che stiamo stabilendo leggi diverse dai costumi comuni, tuttavia per gli amori - diciamolo pure perché siamo fra di noi - ci sono del tutto contrarie. Se [c] infatti qualcuno seguendo la natura stabilisse la legge in vigore prima di Laio affermando che era giusto non accoppiarsi con giovani di sesso maschile, per le relazioni sessuali, come se questi fossero donne, e portasse a testimonianza la natura degli animali mostrando che nessuno di loro maschio tocca a tale scopo un maschio perché è contro la natura, userebbe forse di un argomento persuasivo ma in assoluto disaccordo a quanto si usa fare nei vostri stati. Inoltre ciò che noi diciamo dover essere og-[d] getto della perenne vigilanza del legislatore non si accorda a queste abitudini. Noi infatti cerchiamo sempre quale delle leggi che vengono poste conduce alla virtù e quale no; e allora, rispondetemi, se noi anche concediamo nelle nostre leggi che queste vostre abitudini sono belle cose o almeno non affatto disoneste, per quale aspetto potrebbero aiutarci nei confronti della virtù? Forse che faranno nascere nell’anima di chi viene ad esse persuaso l’indole del coraggio o in quella di chi ad esse persuade il genere contraddistinto dalla nota caratteristica della saggezza e della temperanza? Oppure nessuno mai potrebbe credere a quanto diciamo, ma piuttosto tutto il contrario [e] e ognuno biasimerà la mollezza di chi cede ai piaceri e non sa resistervi? Forse che non condannerà ogni uomo, in colui che si avvia all’imitazione della natura femminile, la somiglianza dell’immagine nella sua imitazione? Quale Uomo vorrà introdurre come leggi queste abitudini quali abbiamo visto ora? Nessuno io penso purché abbia idea di che cosa è la vera legge. Come sosteniamo esser vero quello che dico? Se non si vogliono commettere errori nell’analisi di questa materia bisogna vedere distintamente la natura dell’amicizia, del desiderio e di quelli che si [837a] dicono ‘amori’. Sono infatti due gli aspetti di queste cose e da ambedue ne risulta un terzo e diverso, e poiché un nome solo li comprende tutti è questo nome che dà luogo ad ogni difficoltà ed all’oscurità. CLIN. Come?
VI. ATEN. Diciamo ‘amico’ il simile al simile, per una qualche virtù posseduta da questi, e l’uguale all’uguale; diciamo però anche che la povertà è ‘amica’ della ricchezza, pur essendo il suo contrario per genere. Quando ciascuna di queste due amicizie diventa, molto intensa, [b] le chiamiamo col nome di ‘amore’. CLIN. Giusto. ATEN. E l’amicizia che nasce dai contrari è violenta e selvaggia e spesso non trova in noi corrispondenza, quella che nasce dai simili è dolce e per sempre corrisposta; quella che nasce mista di ambedue non è prima di tutto facile capirla, non è facile capire che cosa vorrebbe avvenisse a lui chi ha in sé questo terzo amore e poi questi è incerto, trascinato dall’una e dall’altra di quelle amicizie in opposte direzioni, l’una invitandolo a stender la mano sul fiore di quella giovane stagione, l’altra dissuadendolo. Infatti [c] chi ama il corpo, chi brama la sua giovane bellezza come un frutto maturo, chiama se stesso a saziarsene e non attribuisce alcun onore al carattere dell’anima della persona amata. Chi invece tiene il desiderio del corpo come una cosa secondaria, lo vede più che lo ami, ma nella sua anima ha veramente desiderio di un’altra anima, ritiene cosa oltraggiosa la sazietà che un corpo ha di un altro corpo, rispetta e insieme venera la temperanza, il coraggio, la nobiltà, l’intelligenza, vorrebbe vivere sempre in castità [d] con un amato casto. Il terzo amore, composto dagli altri due, è questo che ora abbiamo esposto come terzo. E poiché essi sono così di natura e di numero, dovrà di legge vietarli tutti e tre, impedendo che si producano in noi o non è chiaro che preferiremmo nel nostro stato la presenza di quell’amore che è amore della virtù, che desidera che il giovane amato divenga quanto migliore è possibile, e impediremmo gli altri due, se possibile? O come dobbiamo dire, caro Megillo? MEG. Hai parlato bene, ospite, ora, da ogni punto di vista, proprio su questi amori. ATEN. [e] Sembra che io, caro, abbia ottenuto, come anche congetturavo, l’accordo da parte tua; e non vi ha alcuna necessità che io ora esamini ciò che la vostra legge pensa di queste cose, ma invece v’ha necessità di accettare il tuo accordo con il mio discorso. Dopo averne trattato, proverò invece più tardi a persuaderne Clinia, facendo qualche incantesimo. Ora io mi accontento della vostra concessione, e quindi riprendiamo la esposizione delle leggi, senza altra divagazione. MEG. E’ giustissimo quello che dici. ATEN. Io posseggo ora, per stabilire questa legge, una certa qual [838a] arte la quale in parte è cosa facile, in parte è cosa in certo modo del tutto difficile, al massimo grado. MEG. Di che parli? ATEN. Noi sappiamo che la maggior parte degli uomini, anche ora, per quanto vivano senza legge, si astengono perfettamente e con rigore dalle relazioni con le belle persone non involontariamente, ma anzi il più possibile volontariamente. MEG. Quando mai? ATEN. Quando uno ha un fratello o una sorella di belle forme. [b] Così per i figli o le figlie la medesima legge non scritta nel modo più efficace ci preserva dal coricarci con loro, palesemente o celatamente che sia, e dallo stendere la mano per amore su di loro in qualche altro modo; anzi nemmeno il desiderio di simili unioni assolutamente penetra nel cuore dei molti. MEG. E’ vero quello che dici. ATEN. Dobbiamo dunque dire che un piccolo discorso basta a spegnere tutte le siffatte passioni? MEG. Quale discorso? ATEN. Dire che sono azioni del tutto empie, [c] invise agli dèi, che sono il massimo della vergogna. Non credi che la causa sia nel fatto che tutti esprimono la stessa opinione su ciò, che appena nato ognuno di noi sente che si dicono sempre ed ovunque queste cose, e nella commedia buffa e spesse volte in quella completa serietà che si dice ‘tragica’, quando vengono rappresentati dei Tieste o certi Edipi o dei Macarei segreti amanti delle sorelle, i quali dopo esser stati scoperti prontamente impongono a se stessi la morte come pena del loro delitto? MEG. E’ giustissimo quello che dici e cioè che la voce della [d] tradizione abbia una forza sorprendente, se nessuno in nessun modo osa tentar di mandare mai un sospiro oltre il limite della legge.
VII. ATEN. E’ corretto dunque ciò che ora si è detto e cioè che il legislatore, che intende domare una delle passioni che dominano di più gli uomini, può scoprire facilmente il modo di realizzare la sua intenzione e cioè che infondendo un carattere sacro a questa tradizione e confermandola nel suo essere identica presso di tutti, schiavi, liberi, bambini, donne, in tutto lo stato, in tal modo avrà [e] realizzato a proposito di questa legge la sua più sicura stabilità. MEG. E’ del tutto vero; ma bisogna vedere come sarà possibile far sì che tutti vogliano accettare di dire una cosa siffatta. ATEN. Giusta osservazione; proprio questo infatti era ciò che dissi e cioè che io avevo un’arte per formulare questa legge relativa all’usare secondo natura delle unioni per la procreazione dei figli, astenendosi dall’unione fra maschi ed evitando la soppressione deliberata del genere umano e evitando che il seme sia gettato su pietre [839a] e macigni, dove esso non potrà trovare luogo adatto alle sue radici e mai potrà assumere la propria natura capace di generare, astenendosi da ogni campo femminile nel quale ciò che vien seminato non accetteresti mai dovesse germogliare. Se una tal legge acquisterà permanenza e potere, come ora ha potere sugli accoppiamenti fra genitori e figli, se vincerà, come è giusto, anche su ogni altro rapporto illecito, essa ha con sé infinito numero di beni. E infatti è stabilita in modo conforme alla natura, prima di tutto, e poi essa dal furore e dalla follia erotica e da tutti gli adulterii tien lontano gli uomini e da tutti gli eccessi [b] nel mangiare e nel bere e lega i mariti alle loro mogli e molti altri vantaggi potrebbero derivarne, se qualcuno potesse diventare signore di questa legge. Può darsi però che si ponga davanti a noi un uomo giovane e ardente, gonfio di molto seme, e sentendo la legge che da noi vien posta ci insulterà come se noi ponessimo regole sciocche ed impossibili e riempirà tutto delle sue grida; ed è guardando proprio a queste cose che io dissi quella frase, che [c] cioè ho un’arte, per un verso la più facile di tutte, per un altro la più difficile, un’arte in relazione alla stabilità di questa legge una volta enunciata. E’ infatti facilissimo capire che è cosa possibile e come lo è - diciamo infatti che una volta adeguatamente consacrata questa regola, ogni anima renderà sua suddita e la farà temere o obbedire senza eccezione alle leggi stabilite -, ma ora siamo giunti a un punto tale che non ci pare che ciò potrebbe avvenire nemmeno in tal caso, tanto quanto non si crede possibile che tutto uno stato possa vivere tutta [d] la sua esistenza praticando l’usanza dei "pasti in comune", e mentre ciò i fatti provano e da voi accade tuttavia neppure nei vostri stati sembra che sia secondo la natura che ciò si realizzi anche per il genere femminile. E’ questa un’altra ragione, la forza della incredulità, per cui ho detto che ambedue queste pratiche incontrano serie difficoltà ad essere stabilmente fissate con leggi. MEG. Ed hai parlato dicendo cose giuste. ATEN. Volete che io provi a dirvi un discorso che si accompagna ad una certa forza di persuasione, e afferma che quanto dico di fare non è superiore alla forza dell’uomo ed è invece possibile [e] si realizzi? CLIN. Come no? ATEN. E’ più facile che uno si astenga dagli amori smoderati e voglia attenersi fedelmente alla legge stabilita su questa materia se ha il corpo forte e sano e ben esercitato o debole e misero? CLIN. Molto di più il primo. ATEN. Non abbiamo sentito parlare di Icco tarantino per quello che fece prepa-[840a] randosi all’agone olimpico e alle altre competizioni? Per l’ambizione della vittoria in queste gare, possedendo l’arte e nella sua anima il coraggio insieme alla temperanza, così si racconta, mai non toccò donna né bambino in tutto il periodo culminante della preparazione alle gare, e così Crisone e Astilo e Diopompo e moltissimi altri, continua ancora a dire fino a noi lo stesso racconto. Ciò nonostante, Clinia, erano molto peggio educati dei nostri concittadini, dei miei e dei tuoi, quanto all’anima, e i loro [b] corpi erano molto più turgidi di vita. CLIN. E’ vero questo che dici, che cioè sono cose quelle quanto mai presenti nella tradizione degli antichi come realmente accadute a proposito di atleti siffatti. ATEN. E allora? Quelli per vincere la lotta, la corsa e simili prove hanno osato astenersi da quel fatto che dai molti è detto cosa felice, mentre non sapranno resistere i nostri figli per una molto più bella vittoria? Una vittoria di cui parleremo [c] loro già da bambini come della più bella, ne parleremo nelle favole, nei discorsi, ne canteremo nelle poesie e, come è verosimile, di essa li affascineremo. CLIN. Per quale vittoria? ATEN. Per la vittoria sui piaceri, e se vincitori, vivere felici, se vinti essere nella condizione totalmente opposta. E inoltre la paura che in nessun modo da nessun punto di vista quella cosa sia nei limiti della pietà, tale paura non avrà per noi forza tale da farli trionfare di nemici su cui hanno trionfato altri, inferiori per valore ai nostri figli? CLIN. E’ verosimile.
VIII. ATEN. Poiché dunque siamo giunti a questo punto [d] trattando di questa legge, e siamo caduti, per la corruzione dei molti, in una difficoltà, io affermo che la nostra legge deve assolutamente procedere e dire, su questo stesso argomento, che non bisogna che i nostri cittadini divengano inferiori agli uccelli ed a molti altri animali i quali riuniti, al momento della nascita, in grandi greggi fino all’età della procreazione, non ancora accoppiati, si conservano puri e casti da nozze illecite, e poi, raggiunta quella età, il maschio si accoppia, per simpatia, alla femmina, la femmina al maschio e vivono santamente e rettamente il tempo rima-[e] nente mantenendosi fedeli ai primi patti d’amore. I nostri cittadini debbono essere dunque migliori degli animali. E se i nostri cittadini si lasciano corrompere dagli altri Greci e dalla maggior parte dei barbari vedendo e sentendo dire che quell’Afrodite che viene chiamata ‘Colei che è senza legge’, presso di quelli ha grandissima potenza e così divengono incapaci di dominarla, bisogna che i custodi delle leggi in funzione di legislatori escogitino per loro [841a] una seconda legge. CLIN. Quale legge consigli loro di stabilire, se quella stabilita ora sfugge loro dì mano? ATEN. Evidentemente la legge che segue la prima da vicino ed è seconda dopo di quella. CLIN. Quale legge dici? ATEN. E’ possibile, l’abbiamo visto, rendere quanto più si può priva d’esercizio la forza dei piaceri, orientando verso un’altra parte del corpo per mezzo di esercizi faticosi l’afflusso e il nutrimento del piacere stesso. Si potrebbe raggiungere questo scopo se non ci fosse una generale impudicizia nell’uso dei rapporti sessuali. Infatti, se per [b] la vergogna, quelli usassero dei rapporti sessuali più di rado, con poca frequenza, avrebbero per sé in Afrodite una padrona più debole. Sia presso di loro ritenuta cosa bella il nascondersi nel fare questi atti, e questa norma sia praticata come norma di costume e per una legge non scritta, e sia turpe il non nascondersi, ma non in modo da non agire in questo senso assolutamente. Così ciò di cui si è parlato e che è venuto ad essere bello e turpe nella nostra legge in base a un criterio di secondo grado potrà essere in tal modo stabilito, ed avrà appunto una correttezza di secondo grado, e coloro che sono corrotti nella [c] loro natura, quelli che noi chiamiamo ‘inferiori a se stessi’ e formano un unico genere, li comprenderanno tra altri generi e li costringeranno a non violare la legge. CLIN. Quali sono? ATEN. Il rispetto degli dèi, l’amor dell’onore e l’aver desiderio non dei corpi ma delle anime belle nella loro indole. Queste cose dette ora come in una favola non sono che cose che ci auguriamo, ma se mai si realizzassero, sarebbero ciò che vi ha di migliore in tutti gli stati. E forse, se dio vorrà, noi potremmo imporre, [d] sull’amore, almeno una di queste due condizioni: o che nessuno osi toccare nessun altro cittadino legittimo, nessun’altra persona libera se non la propria moglie e che nessuno semini semi illegittimi e bastardi nelle concubine e semi infecondi negli uomini, contro natura, oppure, d’altra parte, bandita completamente l’omosessualità fra maschi, nei riguardi delle donne ci si comporti in modo che se qualcuno si unirà con un’altra oltre a quelle entrate in casa sua con l’auspicio degli dèi e nozze regolari e sacre, [e] le abbia comprate o se le sia procurate in qualsiasi altro modo, e tutti gli altri, uomini e donne, se ne accorgano, noi risulteremo dare una giusta legge probabilmente stabilendo per legge che sia privato di ogni onorificenza civile come se fosse realmente uno straniero. Questa (sia che bisogni dire che è una legge sola sia che sono due) valga come legge a disciplinare tutta la materia relativa ai piaceri sessuali e tutti gli amori, quanti sono i modi con cui [842a] gli uomini si congiungono insieme mossi da siffatti desideri e per cui agiscono qualche volta in modo onesto, qualche altra disonesto. MEG. E allora molto volentieri io accetterei questa tua legge, ospite, e Clinia dica lui stesso che cosa ne pensa. CLIN. Parlerò quando riterrò che ne sia giunto il tempo opportuno, Megillo, ora lasciamo che l’ospite proceda ancora nella sua esposizione delle leggi. MEG. E’ giusto.
[b] IX. ATEN. Ma ecco che venendo avanti siamo ormai arrivati direi, alla istituzione, già formulata, dei "pasti in comune", cosa che, diciamo, sarebbe altrove difficile, mentre a Creta nessuno ammetterebbe dover essere diversamente; d’altra parte per quanto riguarda il modo, se cioè dobbiamo istituirli come qui o come a Sparta o se oltre a queste c’è una terza specie di "pasti in comune", migliore di queste due, questa non mi par cosa difficile da trovare ma una volta trovata non potrebbe apportare nessun grande vantaggio, dato infatti che anche ora sono [c] ben organizzati, a quanto ci pare. Ai "pasti in comune" segue l’organizzazione della vita quotidiana e il dire in qual modo potrebbe accordarsi con essi. La vita in altri stati potrebbe derivare, in ogni forma, da moltissime fonti, le quali sarebbero almeno il doppio di quanto hanno i nostri cittadini. Infatti la maggior parte dei Greci traggono il loro sostentamento dalla terra e dal mare, i nostri nuovi cittadini invece dovranno trarlo solo dalla terra. E’ una condizione che facilita l’opera del legislatore; saranno suf-[d] ficienti infatti non tanto la metà delle leggi, ma ancora molte di meno, e inoltre leggi che si convengono di più ad uomini liberi. Il nostro legislatore è libero in gran parte da ciò che riguarda armatori, grossisti, dettaglianti, albergatori, imposte, miniere, prestiti ad interesse, interessi sugli interessi, ed altre infinite cose simili, e lascia andare tutto ciò; le sue leggi egli le farà per gli agricoltori, per i pastori, per gli apicultori, per i magazzinieri di tutti i loro prodotti, per gli artigiani dei loro strumenti di lavoro, [e] e le cose più importanti egli le ha già disciplinate, le nozze, la procreazione e l’allevamento dei figli, la loro educazione e l’istituzione delle magistrature nello stato. Ora dunque è necessario volgersi a dar leggi relative ai produttori del nutrimento e ai loro collaboratori. Al primo posto mettiamo le leggi che vengono dette ‘agricole’. Prima legge sia formulata quella di Zeus dio dei confini e dica cosi: Nessuno rimuova i confini della terra del suo vicino che sia suo concittadino, né del confinante, se la sua terra è ai confini dello stato ed egli confina da una parte con uno straniero, ritenendo che ciò sarebbe veramente muovere [843a] ciò che è immobile. Preferisca ognuno tentar di rimuovere il macigno più grande, purché non sia un confine, piuttosto che la piccola pietra di confine che segna il limite fra l’amicizia e l’inimicizia, consacrata con un nostro giuramento da parte degli dèi: per uno dei due confinanti é testimone Zeus che protegge chi è della stessa tribù, per l’altro Zeus che protegge lo straniero, e l’uno e l’altro Zeus si risvegliano con le guerre più feroci. Chi obbedirà alla legge non proverà i mali che da essa derivano, ma chi la disprezza sarà sottoposto a doppia punizione, una, e la [b] più grave, da parte degli dèi, l’altra della legge. Nessuno muova volontariamente i confini delle terre dei vicini; chi li muoverà lo denunci chi vuole agli agricoltori, essi lo trascinino in tribunale. Se riconosciuto colpevole in siffatto processo, come colpevole cioè di rinnovare la suddivisione della terra con la frode o con la violenza, giudichi il tribunale quale pena debba subire o pagare il condannato. Dopo di ciò, ci sono i molti e piccoli torti che avvengono fra confinanti, che a lungo andare per la loro frequenza generano un cumulo di odio e rendono la vici-[c] nanza difficile e molto penosa. Bisogna perciò stare assolutamente in guardia a che il vicino non faccia niente di spiacevole al vicino, in ogni cosa, e badando sempre specialmente a quanto riguarda qualsiasi tipo di sconfinamento durante il lavoro. Danneggiare non è per nulla difficile, ma è cosa di cui ogni uomo è capace, mentre non è affatto da tutti il venir in aiuto. Chi supera i confini e coltiva il campo del vicino, paghi il danno recato e per [d] guarire della sua impudenza e della sua avarizia rimetta al danneggiato un’altra somma equivalente al doppio del danno stesso. Per questi delitti e tutti quelli simili la ricognizione, il giudizio e la fissazione della pena spettano agli agronòmoi: per i fatti più importanti, come è già stato detto, tali mansioni spettano all’intero ordine che presiede alla dodicesima parte del territorio interessata, per quelli meno gravi solo ai capi della guardia del corpo suddetto. E se qualcuno fa pascolare il suo bestiame nel terreno altrui spetta ancora ad essi, constatando i danni, di giudicare e fissare la pena. Chi si appropria degli sciami d’api di un altro adeguandosi, nel suo metodo di furto, al piacere delle [e] api stesse, e le cattura per mezzo di rumori metallici, paghi il danno. Chi brucia il bosco senza aver riguardi per i beni del vicino paghi la multa che decideranno i magistrati. Lo stesso vale per chi fa piantagioni senza osservare lo spazio dovuto fra queste e la proprietà dei vicini, come già molti legislatori hanno determinato in modo soddisfacente, legislatori di cui si possono usare le disposizioni di legge senza esigere che il legislatore supremo dello stato si soffermi a legiferare su tutti i molti e piccoli particolari che appartengono alla competenza di un qualsiasi [844a] legislatore. Perché anche riguardo alle acque ci sono antiche e buone leggi interessanti gli agricoltori, che non vale la pena di riportare qui, derivandole nel canale dei nostri discorsi. Chi vuole portare dell’acqua nella sua proprietà la derivi subito dalle fonti pubbliche senza intercettare le fonti visibili di nessun altro privato; faccia passare l’acqua per dove vuole purché non attraverso case, luoghi sacri e monumenti funebri e senza far altri danni oltre lo scavo minimo necessario per lo scorrere dell’acqua [b] stessa. Se una aridità connaturale a certi luoghi per la qualità della terra trattiene l’acqua che scorre dal cielo, e si viene quindi a mancare della quantità d’acqua potabile necessaria, si operino degli scavi nel proprio terreno fino a trovare l’argilla; nel caso che a questa profondità in nessun modo si incontri l’acqua, la si attinga dai vicini fino alla quantità necessaria al bisogno di bere di ciascun membro della comunità della casa. E se, finalmente, anche i vicini ne hanno solo il giusto necessario, allora fatta stabilire per sé, presso gli agronòmoi, la quantità d’acqua che gli spetta attingere, quotidianamente l’interessato se la prenderà e sarà così che parteciperà dell’acqua coi vicini. [c] E se, per quanto riguarda le acque che scorrono dal cielo, un agricoltore, di quelli che stanno più in basso, reca danno a quello che sta più in alto di lui o sta attiguo sullo stesso piano, non permettendo il flusso dell’acqua piovana, oppure al contrario quello che sta in alto lascia correre a caso l’acqua fino a danneggiare chi sta sotto, e l’uno o l’altro non vuol trovare un accordo su queste questioni e per il danno, in città l’astynòmos, in campagna l’agronòmos, siano chiamati a volontà da chiunque e sia così stabilito, per l’una e per l’altra parte in causa, il da farsi. Chi si rifiuta di applicarne la decisione sia perseguito [d] come persona invidiosa, e odiosa e, giudicato colpevole del mancato accordo, sia condannato a pagare una somma pari al doppio del danno al danneggiato, come ribelle ai magistrati.
X. I frutti d’autunno debbono essere ripartiti fra tutti nei limiti che segnerò. La dea che presiede a questa stagione ci gratifica di un duplice dono, uno è il gioco di Dioniso che non si può conservare, l’altro è per natura tale perché sia riposto. La legge stabilita per loro sia questa: Chi degusti frutta "campestre", grappoli d’uva o fichi, [e] prima che sia venuta la stagione della raccolta che è contemporanea al sorgere della stella Arturo, sia nel suo campo, sia in quello altrui, consacri cinquanta dracme a Dioniso se ha raccolto sul suo, una mina se dai vicini, e due parti di mina se dagli altri. Chi vuole cogliere l’uva o i fichi cosiddetti "nobili" e non li va a prendere fuori della sua porzione di terra, li prenda come e quando vuole, ma se da altri e non ne ha ricevuto il permesso, sia punito [845a] sempre secondo la legge che dice di non rimuovere ciò che non si ha deposto. Uno schiavo che tocchi alcunché di questa frutta senza il permesso del padrone dei campi sia punito con tante vergate quanti sono gli acini d’uva o i fichi presi dall’albero. Lo straniero residente colga, se vuole, la frutta d’autunno "nobile" dietro pagamento, lo straniero di passaggio invece che ne voglia mangiare lungo la strada prenda pure quella "nobile" se vuole, gratuitamente per sé e per una persona del seguito e li [b] accetti come doni di ospitalità; quanto invece alla frutta detta "campestre" e simile, la legge da noi proibirà che ne abbiano parte gli stranieri. Se uno straniero libero o schiavo tocca per ignoranza quest’ultima frutta, lo schiavo sia punito con la sferza, il libero sia dimesso dopo averlo ammonito ed avvertito di cogliere l’altra frutta autunnale che non è adatta ad essere posseduta per la conservazione [c] né dell’uva passa, né del vino, né dei fichi secchi. Non sia ritenuto per nulla vergognoso prendere di nascosto pere, mele, melegrane e tutto ciò che v’ha di simile, ma chi vi è colto inferiore ai trent’anni sia percosso ed allontanato senza ferite e se uomo libero non avrà affatto possibilità di ricorrere alla giustizia per le percosse ricevute in tale occasione. Lo straniero abbia diritto di prendere la sua parte anche di questa frutta come di quella dell’autunno. Se si tratta poi di un cittadino più vecchio dei trent’anni e stende la mano su questa frutta, mangiandola sul posto e senza asportarne alcunché, in questo caso avrà tutti gli stessi privilegi dello straniero in cammino, [d] ma se in qualche caso non osserva queste leggi, corra il rischio di essere escluso da ogni competizione per la virtù, qualora, in tali occasioni, qualcuno voglia ricordare ai giudici dell’eventuale concorso tali fatti a suo carico.
XI. L’acqua è l’elemento più adatto a nutrire gli orti, ma è facilmente corrompibile; non è infatti cosa facile corrompere coi veleni la terra, il sole, i venti che concorrono unicamente alle acque al nutrimento dei vegetali, essi non sono soggetti a deviazioni e a furti, cose tutte invece di cui è passibile, per natura, l’acqua; vi è quindi bisogno [e] dell’aiuto della legge. La legge sull’acqua dunque sia questa: Chi corrompe con veleni l’acqua altrui, volontariamente, sia acqua di fonte sia acqua piovana raccolta, oppure con scavi o con furti la sottrae, sia citato in giudizio davanti agli astynòmoi dal danneggiato, il quale fornirà loro per iscritto la stima del danno, infertogli; se riconosciuto colpevole di danneggiamento con venefici, oltre alla multa, sia condannato a purificare le fonti, o il deposito dell’acqua, secondo il modo in cui le regole degli interpreti delle leggi diranno dover avvenire la purificazione, volta per volta, persona per persona. Per il trasporto della frutta stagionale e di tutti gli altri prodotti raccolti, sia libero ciascuno, [846a] che lo voglia, di trasportare i propri per ogni luogo e in modo tale che non danneggi nessuno in nessun modo oppure in modo che il profitto del danneggiante sia triplo del danno recato al vicino. La ricognizione di ciò spetta ai magistrati e così di tutti gli altri casi di danneggiamento volontari perpetrati, per violenza o per frode, alle persone o alle cose di chi non vuol subirli, mediante i propri beni; il danneggiato tutti i casi simili li esponga ai magistrati e intenti causa al fine di ottenere la punizione dell’altra parte fino a un danno di tre mine. Se si dà un’accusa, di uno contro un altro, che riguarda un valore superiore, il [b] primo porti la causa davanti ai pubblici tribunali per ottenere la punizione del colpevole che l’ha offeso. Se un magistrato appare giudicare dei danni con mente deliberatamente ingiusta sia esposto a pagare il doppio del danno stesso alla parte danneggiata. Sia libera ad ognuno che lo vuole la denuncia presso i tribunali pubblici delle ingiustizie dei magistrati in relazione a ciascuna delle accuse portate davanti a loro. Ed essendo innumerevoli e minute le regole secondo le quali debbono avvenire le punizioni, e che riguardano l’istituzione dei processi, i mandati di [c] comparizione, i testimoni della citazione avvenuta, sia che debbano essere due o un altro numero, e tutte le analoghe necessità, sono cose tutte queste che non possono rimanere indefinite e senza legge, ma che non tocca definire a un legislatore anziano. Lo facciano i giovani prendendo a modello le leggi dei legislatori che li hanno preceduti, disciplinino queste piccole cose sull’esempio delle grandi, e si attengano all’esperienza dettata, per tali regole, dalla necessità dell’uso, finché tutto non appaia aver avuto la sua migliore regolamentazione. Allora le renderanno inamovibili e durante tutta la loro esistenza faranno oramai uso di esse che hanno ottenuto la giusta misura.
[d] XII. Per quanto riguarda gli artigiani, di cui dobbiamo ancora parlare, bisogna fare così. Prima di tutto nessun indigeno o servo d’indigeno sia compreso fra quelli che lavorano alle arti degli artigiani. Infitti il cittadino, che in quanto tale conserva e acquisisce il comune ordinamento dello stato, possiede già un’arte sufficiente, arte che ha bisogno di esercizio e di molte conoscenze, e quel suo compito egli non può mettere in pratica come un di più. E nessuna natura umana, direi, è in grado di dedicarsi col voluto rigore alla pratica di due occupazioni o di due [e] arti, né può esercitare adeguatamente l’una e sorvegliare un altro che esercita la seconda. Nel nostro stato deve dunque essere presente anzitutto questa condizione: nessun fabbro sarà anche falegname, né, se falegname, si interesserà, piuttosto che di questa sua arte, di dirigere altri fabbri, adducendo come scusa che, curando molti schiavi [847a] che lavorano per lui come artigiani, verosimilmente per mezzo di questi la sua cura è maggiore per il fatto appunto che da tal fonte risulta per lui maggiore il profitto della sua propria arte; invece nello stato ciascun individuo deve possedere una sola arte e da questa ottenga anche di provvedere alla sua esistenza. Questo ordinamento sia con ogni sforzo garantito dagli astynòmoi: essi puniranno l’indigeno con pubbliche note di biasimo e privazioni di diritti se inclina più a qualche mestiere che alla cura della virtù; fino a farlo tornare sulla sua strada retta, e se uno straniero [b] pratica due arti, lo puniscano con carcere, multe, e finalmente anche con l’espulsione dallo stato e lo costringano ad essere un sol uomo e non molti. Per quanto riguarda il pagamento degli artigiani e l’assunzione da parte loro del lavoro da compiere, se qualcuno reca loro ingiustizia o essi a qualche altro, giudicheranno gli astynòmoi fino a cinquanta dracme, oltre a ciò giudichino secondo la legge i tribunali pubblici, fino alla sentenza definitiva. Nessuno pagherà nell’àmbito dello stato alcuna imposta [c] per i beni esportati o importati. Per nessuna necessità nessuno importi incenso e tutti gli altri simili profumi esotici da usarsi nei sacrifici agli dèi, né porpora, né altre tinture che non vengono prodotte dalla terra della regione, e neppure qualsiasi altra materia che sia necessaria a qualche altra arte abbisognante di qualcosa da importare dall’esterno. Sia d’altra parte vietato esportare quanto è necessario rimanga nello stato. La ricognizione e la vigilanza su tutto ciò tocca ai dodici custodi delle leggi che seguono immediatamente per età, una volta fatta eccezione per i [d] cinque più anziani. Se c’è bisogno, per le armi e per tutti gli strumenti bellici, di importare o qualche arte che viene dal di fuori, o pianta, o metallo, o materiale per legare, o qualche animale, appunto per i suddetti usi, decidano i comandanti generali della cavalleria e gli strateghi con decisione suprema sia dell’importazione che della esportazione in nome di tutto lo stato che dà o riceve, e i custodi delle leggi daranno a queste operazioni la regolamentazione adatta e sufficiente. Ma valga il principio che il commercio al minuto di queste e di ogni altra cosa fatto a scopo di [e] lucro deve essere bandito da tutto il territorio e dalla città capitale.
XIII. Per il sostentamento e la ripartizione dei prodotti della regione sembra che un ordinamento che segua da vicino la legge cretese sia quello che per noi risulterà giusto. Ciascuno deve dividere in dodici parti tutti i prodotti della regione e su questa base essi debbono essere consumati. Ogni dodicesima parte, per esempio di grano e di orzo, cui seguirà con la stessa suddivisione anche tutto il resto dei prodotti stagionali e, per ciascuna delle dodici parti, [848a] tutti gli animali pronti per essere venduti, sarà suddivisa in tre parti proporzionali: una per i liberi, una per i loro schiavi e una terza per gli artigiani e tutti gli stranieri, sia quelli che come residenti vivono nello stato ed hanno bisogno del vitto necessario, sia quelli che per qualche necessità dello stato o di un cittadino privato volta per volta vi giungono. Di tutti i generi necessari quest’ultima terza parte, una volta suddivisa, sarà la sola ad essere posta in vendita obbligatoriamente, mentre, obbligatoriamente, nessuna delle altre due parti potrà essere venduta. [b] Quale sarà la più giusta divisione di queste cose? E’ prima di tutto evidente che nella nostra divisione per certi aspetti ci sarà uguaglianza, non per altri. CLIN. Come dici? ATEN. E’ necessario che la terra dia e nutra ciascuno di quei prodotti facendolo qui migliore là peggiore. CLIN. E come no? ATEN. Da questo punto di vista, nessuna delle parti, che sono tre, abbia nulla in più, né quella attribuita nella divisione ai padroni o agli schiavi, né quella degli stranieri, ma invece la distribuzione attribuisca a tutti la stessa [c] uguaglianza nella somiglianza. Ciascuno dei cittadini, prese due parti, abbia completo potere di suddividerle fra schiavi e liberi, distribuendole nella quantità e qualità preferite. L’eventuale di più deve essere suddiviso così per quanto riguarda misure e numeri: preso il numero di tutti gli animali che devono ricevere il sostentamento dalla terra, si suddivida appunto così. Dopo di ciò bisogna parlare delle case disposte separatamente per le persone di cui ora si è detto; questo è l’ordinamento che conviene a questa materia. Devono esserci dodici villaggi ciascuno al centro di ciascuna delle dodici parti del territorio dello [d] stato. In ciascuno sia riservato prima di tutto il posto per la piazza del mercato e per i templi degli dèi e dei dèmoni che seguono gli dèi, sia che questi siano divinità locali dei Magneti sia che si tratti dei templi di altre antiche divinità conservateci dalla tradizione, alle quali dobbiamo attribuire gli onori già tributati loro dagli antenati, e per i templi di Hestia, di Zeus, e di Atena e del dio che, fra gli altri, presiede a ciascuna delle dodici parti del territorio; in ogni villaggio si costruiscano templi per [e] loro. La fabbricazione edilizia comincerà intorno a questi templi nei luoghi più elevati, in tal modo si costruirà un riparo per le guardie, fortificato quanto più è possibile. D’altra parte bisogna organizzare tutto il resto del territorio dividendo gli artigiani in tredici corpi; uno starà nella città, anche questo suddividendolo in dodici sezioni, che sono quelle della città nel suo complesso; essi saranno distribuiti verso l’esterno e circolarmente; in ogni villaggio poi abiteranno i generi degli artigiani utili agli agricoltori. Il controllo di tutti questi sarà curato dai capi degli agronòmoi; essi determineranno il numero e la specialità degli artigiani di cui abbisogna ciascun luogo e il posto delle loro abitazioni in modo che siano di massimo aiuto e di [849a] minima noia per gli agricoltori. Nello stesso modo per gli artigiani di città, la responsabilità resta agli astynòmoi, per i singoli casi e permanentemente.
XIV. Gli agoranòmoi sono responsabili di ciascuna cosa avviene nella piazza del mercato. La loro cura, dopo la vigilanza sui templi che sono nella piazza affinché nessuno commetta qualcosa d’ingiusto, sarà, in secondo luogo, quella degli scambi di servizi fra le persone, e, come ispettori della osservanza dei limiti e delle infrazioni, puniscano chi ha bisogno di castigo. Per quanto riguarda le cose venali, specialmente quelle che si è stabilito che i cittadini vendano [b] agli stranieri, vedano se tutto avviene regolarmente. Questa è la legge per ciascun caso: il primo giorno del mese la parte delle derrate che devono essere vendute agli stranieri portino sul mercato gli incaricati, quanti sono per i cittadini gli stranieri o gli schiavi che ne sono incaricati, e così, prima di tutto, la dodicesima parte del grano, e gli stranieri quel giorno facciano provvista di frumento e delle altre granaglie per tutto il mese, in questo primo mercato. Il decimo giorno del mese si effettuerà la vendita da parte degli uni, la compera da parte degli altri, dei liquidi, anche questi in quantità sufficiente per l’intero [c] mese. Il ventitreesimo giorno la vendita degli animali: tutti quelli da ciascuno destinati alla vendita, o quelli da acquistarsi da coloro che ne hanno bisogno, e inoltre la vendita agli agricoltori di tutti gli utensili e i beni, come pelli, vesti di ogni tipo, tessuti, feltri e simili che gli stranieri sono nella necessità di comperare acquistandoli da altri. Per quanto riguarda le altre forme di commerciare al minuto queste cose e il grano e l’orzo macinati, ogni altra derrata alimentare, nessuno venda ai cittadini né ai loro schiavi e nessuno comperi da nessuna di siffatte per-[d] sone, sia invece permesso agli stranieri nei mercati riservati a loro di vendere agli artigiani ed ai loro schiavi, facendo scambi di vino e frumento, sotto forma di vendita, ed è ciò che i più dicono ‘commercio al minuto’. I macellai potranno esporre e vendere la carne degli animali a pezzi solo a stranieri, artigiani ed ai loro servi. Lo straniero che lo voglia potrà ogni giorno comprare ogni tipo di legna da ardere, all’ingrosso, dagli addetti locali alla vendita di questa merce e venderne agli stranieri [e] quanta e quando vuole. Tutte le altre merci ed oggetti di cui v’è esigenza in ciascuno si vendano portandoli al mercato comune, ogni cosa nel luogo dove i custodi delle leggi e gli agoranòmoi, insieme agli astynòmoi, avranno indicato come la sede conveniente ad essi fisseranno i limiti di spazio fra le cose da comperare. Entro questi limiti soltanto possono avvenire gli scambi di denaro con merci e di merci con denaro, senza concedere l’uno all’altro lo scambio a credito dell’una o dell’altra cosa; chi concede lo scambio perché ha fiducia nel compratore, sia che riceva, sia che non riceva il denaro o la merce, stia contento perché sulle siffatte transazioni non ci sarà più nessun procedimento [850a] giudiziario. Per quanto riguarda la merce comprata o venduta in maggior quantità o a prezzo maggiore di quanto è stato stabilito per legge, e la legge avrà già detto per quanto in più o in meno non bisogna compiere nessuna delle due operazioni, il di più sia subito annotato in tal caso presso i custodi delle leggi e il di meno sia cancellato. Lo stesso vale per gli stranieri residenti nello stato relativamente all’iscrizione del patrimonio. Venga chi vuole a vivere nello stato a queste condizioni. La residenza è aperta a [b] tutti gli stranieri che vogliono e possono immigrare, purché abbiano un mestiere e rimangano non più di venti anni, contati da quando sono stati iscritti alla loro venuta, senza pagare neppure una piccola tassa di residenza all’infuori di una buona condotta, senza che sia loro imposto nessun altro contributo sugli affari di compravendita che effettueranno. Quando sia trascorso il loro periodo di tempo, prendano la loro roba e se ne vadano. Se però in questi vent’anni a qualcuno di loro accade di esser diventato noto per qualche servizio di un qualche valore reso allo stato, e confida di persuadere il Consiglio e l’assemblea dei [c] cittadini, ritenendo giusto ottenere a buon diritto o una dilazione della sua emigrazione, o anche in assoluto il diritto di rimanere nello stato per tutta la vita, si presenti e, una volta persuaso lo stato, ciò di cui lo avrà persuaso, divenga per questo del tutto valido. Ai figli di questi stranieri, se artigiani e giunti all’età di quindici anni, sarà computato il periodo della permanenza come stranieri residenti a cominciare da dopo compiuto il quindicesimo anno, e chi è rimasto venti anni, oltre ai suddetti, vada dove gli piace. Se preferisce rimanere, rimanga se abbia persuaso lo stato con la stessa procedura dei padri. Quello che se [d] ne va, vada dopo aver cancellato le iscrizioni, che precedentemente siano state fatte per lui presso i magistrati.
IX
[853a] I. ATEN. Sarebbe giusto trattare a questo punto, secondo l’ordine naturale del nostro sistema legislativo, dei procedimenti giudiziari che seguono a tutti gli atti di cui si è trattato fin qui. Gli oggetti e i fatti cui devono applicarsi questi processi in parte sono stati già definiti per l’agricoltura e le altre attività che ne seguono, i più importanti però non li abbiamo ancora trattati dicendo di ciascuno singolarmente, né abbiamo esposto quale pena deve rice-[b] vere ciascuno e quali giudizi ottenere; e così, dopo di quelle, proprio queste sono le cose di cui parleremo adesso necessariamente. CLIN. Benissimo. ATEN. E’ in certo senso umiliante legiferare anche su tutto ciò su cui ora stiamo per farlo, in uno stato come questo, che affermiamo dover essere ben fondato e dotato di ogni perfezione per l’esercizio della virtù. E anche il ritenere che in uno stato siffatto possa sorgere qualcuno che partecipa degli aspetti più gravi della malvagità degli altri, sì da dover legiferare [c] in modo da prevenire e minacciare anticipatamente chi si suppone diventerà tale, stabilir leggi per questi al fine di impedir i delitti e punirli una volta che siano stati commessi, ammettere insomma, come dissi, che ci sia la possibilità che alcuni saranno dei delinquenti, è in un certo senso veramente umiliante. Dato però che non ci troviamo nelle condizioni degli antichi legislatori che legiferavano per gli eroi figli degli dèi, come si racconta ora, essendo essi figli di dèi che legiferavano per altri discendenti della divinità, ma siamo uomini e le nostre leggi stabiliamo ora per il seme d’uomini, non ci sia rimproverato se temiamo che qualcuno dei nostri cittadini nasca come un pezzo di [d] corno e per natura sia così duro da non poter essere liquefatto; come le sementi che resistono al fuoco, questi individui resisterebbero, non fusi, alle leggi anche se avessero la stessa forza del fuoco. Perciò, pur con vero mio dispiacere, la prima legge stabilirò sulle spogliazioni dei templi, ammesso che ci sia chi ha tanta audacia di farlo. Mi rifiuto però di volere e assolutamente di prevedere che un cittadino, fra quelli correttamente allevati, possa mai ammalarsi di questa malattia; sono i loro servi, gli stranieri e gli schiavi degli stranieri che forse intraprenderanno ciò più di una volta. Per questi dunque prima di tutto, [854a] e tuttavia anche stando in guardia di fronte a tutta la debolezza della natura umana, formulerò la legge sui depredatori dei templi e gli altri delitti analoghi riguardo ai quali la cura è difficilissima e anche impossibile. Dobbiamo premettere, a ciascuna di queste leggi, un brevissimo proemio, come siamo già d’accordo di fare. Si potrebbe parlare a quell’uomo che un desiderio infame di giorno invita, di notte tien desto e guida, a qualche furto sacrilego, si potrebbe dire, conversando con lui ed esortandolo, così: [b] "Straordinario amico, quello che ti sospinge e ti incita ad andare verso il furto sacrilego non è un male umano, né sono gli dèi che te lo mandano, è un assillo che è piantato in te e che sorge da antichi delitti inespiati dagli uomini, funesto assillo che con te porti in giro, contro cui tu devi metterti in guardia con tutte le tue forze. Apprendi da me come devi metterti in guardia. Quando ti sopravvenga qualcuno di questi pensieri, va a farti esorcizzare, va supplicante ai templi degli dèi che liberano dal male, cerca la compagnia degli uomini che da voi si dicano [c] onesti, ascoltali, prova a dire tu stesso che ogni uomo deve onorare il bello e il giusto, la compagnia dei malvagi fuggi senza voltarti indietro. E se a te che fai queste cose si attenua un po’ il male, bene, altrimenti considera migliore la morte e abbandona la vita".
II. Sono questi i proemi che noi cantiamo a coloro che meditano tutte quelle che sono azioni sacrileghe e sovvertitrici dello stato; e per chi vi obbedirà si deve lasciare in [d] silenzio la legge, ma bisognerà a voce alta cantare per il ribelle, dopo il proemio, questo: chi è sorpreso a commettere un furto sacrilego, se schiavo o straniero, sarà bollato col segno della sua sventura sulla fronte e sulle mani, sferzato nella misura che riterranno opportuna i giudici, cacciato nudo oltre il confine dello stato; forse dopo esser stato punito così diverrà migliore e riacquisterà il senno. Infatti nessuna pena inflitta secondo la legge hai il fine di danneggiare, ma attua, direi, una di queste due [e] cose: rendere chi la subisce migliore di prima o almeno meno malvagio. Se invece è un cittadino che risulta commettere un delitto sacrilego, autore, contro gli dèi, contro i genitori, contro lo stato di uno di quei gravi crimini che uno non oserebbe nemmeno raccontare, il giudice deve ritenere questo uomo ormai incurabile, considerando quale educazione ed allevamento il colpevole ha ottenuto fin da bambino e che ciononostante non si è astenuto dai mali più gravi. La pena per lui è la morte, [855a] il minore dei mali, divenuto così egli stesso esempio utile a tutti gli altri che senza onore lo vedranno annientato fuori dei confini dello stato. I suoi figli, tutta la sua stirpe, qualora siano riusciti a sfuggire ai costumi del padre, abbiano onore e bella reputazione come chi coraggiosamente è fuggito da prode al male andando verso il bene. Non conviene con la nostra costituzione confiscare i beni di nessuno di questi, nel nostro stato infatti i lotti sorteggiati devono sempre rimanere gli stessi e uguali di numero. Per quanto riguarda le multe da pagare, quando qualcuno risulta commettere un’ingiustizia che può avere una contropartita valutabile in denaro, si paghino se ci sia un’eccedenza del valore in denaro della porzione di proprietà stabilita e ricevuta in sorte fin dalle origini dello [b] stato, e la multa resterà entro questo limite e non lo superi mai. Sarà dovere dei custodi delle leggi informare sempre i giudici dello stato preciso della proprietà di ciascuno esaminando la cosa con chiarezza sulla base dei loro rescritti, per evitare assolutamente che qualcuno dei lotti resti improduttivo mancando di altri beni onde pagare la multa. Nel caso che qualcuno risulti meritare una multa superiore a questi limiti e non prestandosi nessuno fra gli amici ad offrire una cauzione per il condannato e a pagare per proscioglierlo dalla giustizia, questo sia punito col lungo carcere in vista della popolazione e con altre pene [c] ignominiose. Ma assolutamente mai nessuno sia privato dei diritti di cittadino neppure per una colpa, nemmeno nel caso di fuga all’esterno. Sia pena la morte o il carcere o le vergate, certe posizioni ignominiose seduti o in piedi o l’esposizione presso i luoghi sacri alla frontiera, le multe, secondo quanto si disse prima dover essere regolata una pena siffatta. Giudici competenti della pena capitale siano i custodi delle leggi e il tribunale formato dai magistrati [d] dell’anno precedente scelti per merito; i legislatori più giovani devono occuparsi della presentazione delle istanze, delle citazioni e di tutte le altre cose simili e del modo secondo il quale devono avvenire, nostro compito è invece stabilire la legge sulla votazione. Il voto che vien dato sia palese; prima di esso i nostri giudici siederanno affiancati, in ordine decrescente di età, davanti all’accusatore e all’accusato, e tutti i cittadini che avranno tempo libero assisteranno attentamente a questi processi. Prima [e] l’accusatore, poi l’accusato parleranno non più di una volta per ciascuno. Poi incomincerà ad interrogarli, procedendo ad una analisi adeguata delle loro dichiarazioni, il giudice più anziano; dopo di questo tutti gli altri di seguito devono passare in rassegna ciò che da ciascuna delle due parti in causa ciascun giudice desidera in qualche modo venga detto o non detto. Chi non desidera rilevare niente passi ad un altro il turno per interrogare. Sotto suggello si prenda nota di quanto viene detto e ritenuto utile con-[856a] servare, sia sigillato lo scritto col sigillo di tutti i giudici e deposto quindi sull’altare di Hestia. Il giorno dopo continuerà l’interrogatorio nello stesso modo, dopo che i giudici si saranno riuniti ancora nello stesso luogo, ed essi passeranno in rassegna gli elementi del processo e alla fine sarà ripetuta l’operazione dell’apposizione dei sigilli al verbale. Fatto ciò per tre volte, raccolte sufficienti prove e testimonianze, ciascuno voti consacrando il voto agli dèi, e promettendo per Hestia di giudicare il più possibile secondo giustizia e verità. Così concludano il processo.
[b] III. Dopo i delitti contro gli dèi, i delitti operati per dissolvere la costituzione. Chiunque assoggetta le leggi e le mette sotto il potere degli uomini e subordina lo stato ad una fazione e agisce con la violenza in tutto ciò e suscita l’insurrezione e calpesta la costituzione, deve essere giudicato il più feroce nemico dell’intero stato. Subito dietro di questo per gravità di delitto contro lo stato è responsabile il cittadino che pure non prendendo parte a nulla di quanto si è detto, ma insignito di una delle più alte responsabilità politiche, conoscendo il pericolo e anche non [c] conoscendolo, per viltà non difende la patria punendo quello. Ogni uomo, per quanto poco valgano i suoi servizi, deve denunciare ai magistrati e trascinare in giudizio chi macchina il sovvertimento violento e illegale della costituzione. Giudici competenti di questi delitti siano gli stessi che per i sacrilegi, valga in tutto la stessa procedura che per i sacrilegi, sia votata la morte a maggioranza di voti. Ma, diciamolo in una parola, la pena e l’onta del padre [d] non devono seguire mai nessuno dei suoi figli, a meno che per qualcuno non siano stati condannati a morte successivamente il padre, il nonno e il bisnonno. Questi lo stato li espella, li rimandi alla loro vecchia patria, al loro stato originario, e permetta loro di portarsi dietro le loro cose fatta eccezione, completamente, della porzione dei beni avuti in sorte. E allora prendendo quei cittadini che avranno figli in numero maggiore di uno, di età non inferiore ai dieci anni, fra questi ultimi ne siano tratti a sorte dieci; sia il padre stesso o il nonno paterno o materno a [e] presentarli e si mandino a Delfo i nomi dei sorteggiati; quello che sarà scelto dal dio come erede sarà investito con migliori auspici della proprietà della casa che fu già degli espulsi. CLIN. Bene. ATEN. Una terza legge sia inoltre uguale e comune alle precedenti in relazione ai giudici, quali giudici cioè devono giudicare delle persone che vi incorrono, e comune sia anche la procedura delle cause; tutto ciò per coloro i quali qualcuno porterà in tribunale con l’accusa di tradimento. Nello stesso modo sulla permanenza e la espulsione dalla patria dei loro di-[857a] scendenti: anche qui vale come unica legge quella appena esposta e vale per i tre, cioè il traditore, il ladro sacrilego e colui che distrugge con la violenza le leggi dello stato. Per i ladri, sia grande o piccola l’entità del furto commesso da qualcuno, vale una sola legge per tutti e una sola pena. Bisogna infatti anzitutto pagare il doppio del valore della cosa rubata, ammesso che qualcuno sia riconosciuto colpevole di siffatto delitto e abbia un’eccedenza di patrimonio sul lotto originario sufficiente a pagare; in caso contrario il carcere fino a pagamento avvenuto o a condono ottenuto persuadendo il suo avversario in giu-[b] dizio. Se qualcuno sia riconosciuto colpevole di furto ai danni dello stato, egli eviterà il carcere o per averne persuaso lo stato o dietro versamento del doppio del valore rubato. CLIN. Come si può dire, ospite, che non c’è differenza fra chi commette un grande furto e chi sottrae una piccola cosa, da oggetti sacri o soltanto degni di rispetto? E vorrei aggiungere tutte le distinzioni che si possono fare in tutta questa materia del furto, seguendo le quali, nella loro varietà, il legislatore non deve per nulla stabilire pene simili.
IV. ATEN. Benissimo, Clinia; in certo senso mentre io [c] mi lasciavo come trasportare, urtandomi contro mi hai risvegliato, richiamandomi alla memoria un pensiero che avevo pensato già prima. Mi hai ricordato che la formulazione delle leggi in nessun modo mai prima d’ora è stata fino alla fine oggetto di corretta e laboriosa fatica, per dire almeno della situazione che davanti a noi ora è venuta a cadere. Che cosa vogliamo ancora dire con questo? Non ci siamo avvalsi di una cattiva rappresentazione quando rappresentavamo tutti i cittadini oggetto delle attuali attività legislative come schiavi curati da medici schiavi. Bisogna infatti saper bene questo e cioè che se uno di questi medici che esercitano la medicina per ripetute esperienze e senza [d] possedere il discorso della scienza sorprendesse un medico libero nell’atto di avere un colloquio col suo ammalato, cittadino libero, e nell’atto di usare discorsi vicini a quelli propri del filosofare e di metter mano alla malattia fin dalle sue radici e risalire ai princìpi generali della natura del corpo umano, subito esploderebbe in grandi risa e non farebbe altri discorsi diversi da quelli, su questi argomenti, che sono sempre pronti sulla bocca della maggior parte di questi cosiddetti medici; direbbe: "Sciocco, tu non curi il malato, ma quasi lo vuoi educare come se chiedesse [e] di diventare medico, non di diventar sano". CLIN. E, dicendo questo, non avrebbe ragione di dir così? ATEN. Forse; se pensasse, almeno, che chiunque parla così sulle leggi, come noi ora, educa i cittadini, ma non fa leggi. E dunque, non apparirebbe dir anche questo giustamente? CLIN. Forse. ATEN. E’ fortunata la nostra situazione presente. CLIN. Quale? ATEN. Il fatto che noi non abbiamo nessuna necessità che ci costringe a legiferare, ma, [858a] giunti all’esame di ogni forma di costituzione, proviamo ad osservare il meglio e il più necessario, in qual modo l’uno e l’altro potrebbero realizzarsi, quando si realizzassero. Ed è inoltre ora possibile a noi, come sembra, se lo vogliamo, esaminare il meglio e, se vogliamo, il più necessario per quanto riguarda le leggi. Scegliamo dunque quello dei due che sembra opportuno scegliere. CLIN. Questo è proporci una scelta ridicola, ospite; assomiglie-[b] remmo veramente a legislatori quasi costretti da una forte necessità a dar leggi precipitosamente, come se l’indomani fosse troppo tardi. Noi, grazie a dio, abbiamo la possibilità, come i raccoglitori di pietre o come uomini che danno inizio a qualche altra forma di costruzioni, di accumulare alla rinfusa molto materiale da cui dopo sceglieremo quanto converrà alla costruzione successiva, e di scegliere senza urgenti pressioni. Non affermiamo ora quindi di essere i costruttori spinti da necessità, ma quelli che tranquillamente in parte raccolgono materiale e in parte lo mettono insieme nella costruzione, cosicché è [c] giusto dire che una parte delle nostre leggi sono già deposte nella struttura della costituzione, altre formano come un deposito di materiale. ATEN. Comunque, Clinia, sarebbe più adatto alla natura delle leggi il dare noi uno sguardo generale alla legislazione. Riguardo ai legislatori vediamo questo, per gli dèi. CLIN. Che cosa? ATEN. Negli stati ci sono opere scritte e discorsi scritti che sono opera di molti altri autori, ma sono anche opere scritte e discorsi scritti quelli del legislatore. CLIN. Come no? ATEN. Forse che dobbiamo rivolgere la nostra attenzione [d] alle opere scritte degli altri, dei poeti e di quanti sono quelli che, senza metro o col metro, redigendo delle opere scritte hanno deposto nella memoria della tradizione il loro consiglio sulla vita e dobbiamo trascurare gli scritti dei legislatori? O dobbiamo invece interessarci, prima di tutto, di questi? CLIN. Di questi, molto di più. ATEN. Ma non è compito riservato solo al legislatore, fra tutti gli scrittori, quello di dar consigli sulla bellezza, sul bene, sulla giustizia, di insegnare quale è la natura loro e come devono essere praticati da chi si propone il fine di una [e] esistenza felice. CLIN. Come dir di no? ATEN. Ma sarebbe più vergognoso per Omero, Tirteo e gli altri poeti aver nei loro scritti deposto cattivi consigli sulla vita e le consuetudini, e meno per Licurgo e Solone e quanti altri hanno lasciato le loro leggi scritte, dopo esser divenuti legislatori? Oppure non è questo il giusto e cioè che di tutti i volumi che ci sono negli stati, necessariamente si aprano agli occhi dei cittadini come i più belli di gran lunga e i migliori, quelli che contengono le leggi e gli altri [859a] o seguono questi o devono essere oggetto di risa se non sono in armonia con questi? Dobbiamo pensare allora che debba avvenire così negli stati la redazione scritta delle leggi e queste, scritte, debbano apparire come un padre e una madre amorosi ed assennati, oppure come un tiranno, come un padrone che si allontani dopo aver affisso, per iscritto, ordini e minacce sui muri? Vediamo dunque anche noi ora se dobbiamo provar a parlare sulle leggi pensando in quel primo modo, sia che possiamo [b] farlo, sia nel caso contrario, ma in ogni caso fornendo all’opera tutta la nostra buona volontà. E proseguendo per questa via, se anche qualcosa dovremo subire, accettiamo di subirlo; ci riesca l’impresa, e, se anche il dio lo vorrà, sarà così. CLIN. Hai parlato bene, facciamo come dici tu.
V. ATEN. Per prima cosa bisogna dunque analizzare con cura, come abbiamo già cominciato a fare, le leggi sui delitti di furto sacrilego, di furto in generale e su tutti gli altri delitti, senza rammaricarci di aver stabilito in modo definitivo nel corso della elaborazione precedente delle leggi [c] alcuni argomenti pur essendo ancora impegnati nell’esame di altri. Noi stiamo diventando legislatori, ma non lo siamo ancora e forse potremmo diventarlo; se ti sembra opportuno di esaminare le cose di cui ho parlato nel modo da me proposto, esaminiamole. CLIN. Assolutamente. ATEN. Cerchiamo di vedere in che senso noi ora concordiamo con noi stessi sulla definizione della bellezza e della giustizia in generale, e in che senso discordiamo, noi che potremmo dire che ci ripromettiamo, se non altro, di eccellere sulla maggior parte degli altri, e cerchiamo anche di [d] vedere dove i molti concordano e dissentono fra di loro. CLIN. A quali differenze nostre pensi dicendo quello che dici? ATEN. Proverò a esporle. Tutti concordiamo nel ritenere che la giustizia in generale, e gli uomini giusti, le cose giuste, le azioni giuste sono tutte cose belle, cosicché neppure se uno affermasse con forza polemica che gli uomini giusti, anche se si trovino ad essere brutti nel corpo, proprio per la loro indole di perfetta giustizia sono [e] appunto bellissimi, direi che nessuno dicendo così apparirebbe dir qualcosa di stonato. CLIN. E non è giusto? ATEN. Può darsi. Noi dobbiamo constatare che se tutto ciò che è giusto è anche bello, a questa totalità appartengono anche le nostre affezioni, uguali, direi, di numero alle azioni. CLIN. Ebbene? ATEN. Allora un’azione, che sia giusta, di quanto partecipa del giusto di tanto anche partecipa del bello. CLIN. Sì. ATEN. E così dunque anche per un’affezione, che partecipi del giusto, ammettere che [860a] è bella nella stessa misura in cui è giusta sarebbe enunciare un discorso non discordante con se stesso. CLIN. E’ vero. ATEN. Ammettendo noi invece che un’affezione sia giusta, ma brutta, ci sarebbe una contraddizione fra la giustizia e la bellezza appunto perché si direbbero bruttissime le cose giuste. CLIN. Come mai dici questo? ATEN. Non è difficile capirlo; le leggi formulate da noi poco fa paiono affermare quanto v’è di più opposto a quanto [b] abbiamo detto ora. CLIN. A che cosa? ATEN. Abbiamo detto e stabilito che il ladro sacrilego e il nemico delle leggi ben costituite hanno nella pena capitale la loro giusta punizione, e dovendo continuare a porre molte altre leggi così, ci siamo fermati vedendo che queste pene sono affezioni infinite per numero ed entità e sono insieme le più giuste di tutte le affezioni e le più brutte. Non ci appariranno così le cose giuste e le cose belle ora esser tutte le stesse ora il più possibile opposte? CLIN. Può darsi. [c] ATEN. Così dunque i molti parlano di queste cose in modo discorde, dicendo le cose belle e le cose giuste distaccate le une dalle altre. CLIN. Sembra, ospite. ATEN. Vediamo di nuovo allora, Clinia, per quanto riguarda noi, come è il nostro accordo su queste stesse cose. CLIN. Quale accordo e su che cosa? ATEN. Nei discorsi precedenti io credo di aver detto chiaro, e se non allora, almeno ora pensate che io affermo... CLIN. Che cosa? ATEN. [d] Che tutti i malvagi sono in ogni caso malvagi involontariamente; essendo questa cosa così, è necessario ne segua il discorso che ora farò subito. CLIN. Quale? ATEN. Che l’ingiusto è disonesto e il disonesto è tale involontariamente. E’ assurdo pensare che chi agisce involontariamente lo fa volontariamente; e a chi pensa che l’ingiustizia è involontaria risulterà che l’ingiusto commette ingiustizia involontariamente; e ciò io pure debbo ammettere ora, e infatti insieme con chi pensa così io affermo che tutti coloro che commettono ingiustizia agiscono involontariamente. E se anche qualcuno, per amor di disputare [e] o per desiderio di riceverne onore, afferma che ci sono ingiusti involontari, ma che ci sono anche molti ingiusti volontari, il mio discorso è quello e non questo. Come potrò io dunque trovarmi d’accordo con i miei discorsi? Se voi, Clinia e Megillo, mi domandaste: "Se è come tu dici, ospite, che cosa ci consigli sulla legislazione dello stato dei Magneti? E’ proprio necessario dare loro le leggi, o non ne vale la pena invece?", "Come no?" dirò, e voi: "Distinguerai per loro i delitti volontari da quelli involontari, e stabiliremo per gli errori e i delitti volontari [861a] maggiori le pene e minori per gli altri? O uguali per tutti come se non ci fossero assolutamente delitti volontari?" CLIN. Dici bene, ospite, e qual uso faremo delle cose dette ora? ATEN. Domanda giusta. Ecco, prima di tutto ne dobbiamo usare per questo. CLIN. Che cosa?
VI. ATEN. Ricordiamoci che poco fa noi ben dicevamo che c’è in noi un grave turbamento e disaccordo sul tema della giustizia. Riprendendo ora questa questione, inter-[b] roghiamo ancora noi stessi: "Non è vero che in relazione a questa difficoltà, né trattici d’impaccio né avendo definito che cosa sono queste cose fra loro diverse (cose che, considerate in tutti gli stati, da tutti i legislatori che mai siano venuti ad esserci, come costituenti due specie di delitti, gli uni volontari gli altri involontari, in questi termini sono anche oggetto di legislazione), non è vero che in queste condizioni il discorso detto da noi poco fa, detto come lo dicesse un dio, se ne andrà dopo aver enunciato [c] solo questo, e senza aver dato alcuna ragione di aver detto bene in certo modo porterà una legge contro l’altro discorso?" Non è possibile certamente che avvenga così, ma prima di legiferare noi in qualche modo dobbiamo mostrare che queste sono due specie di delitti, e dobbiamo mostrare anche ogni altra loro diversità, in modo che nell’applicare la pena all’una e all’altra possa ognuno seguire ciò che abbiamo detto e sia in grado, in qualche modo, di distinguere la pena imposta convenientemente o no. CLIN. Ci par che tu abbia ragione, ospite; delle due infatti noi dobbiamo scegliere l’una e o non dire che i delitti sono tutti in-[d] volontari o, distinguendo prima, chiarire che quest’ultima proposizione è stata detta correttamente. ATEN. Di questi due termini dell’alternativa, uno io non posso assolutamente accettare dunque che si realizzi, cioè non posso accettare di tacere ritenendo che la verità sia questa che credo; sarebbe infatti cosa illecita e sacrilega. E allora, in qual modo sono due le specie dei delitti, se non differiscono l’una e l’altra per l’involontario e il volontario? Pur bisogna provar a mostrare in qualsiasi modo che differiscono per qualche altra cosa. CLIN. Senza dubbio, ospite; questo, almeno, noi non possiamo pensarlo diver-[e] samente. ATEN. Sarà così. Avanti dunque. Come è evidente, i danneggiamenti reciproci dei cittadini che avvengono attraverso le loro associazioni e i loro mutui rapporti sono moltissimi, e non è in piccola quantità in essi ciò che è volontario e ciò che è involontario. CLIN. Come negarlo? ATEN. Non si ritenga dunque, affermando che tutti questi danneggiamenti sono ingiustizie, che anche le ingiustizie vi avvengano per questo di due specie, alcune volontarie e alcune involontarie, dato che i danneggiamenti involontari in generale non sono inferiori né [862a] per numero né per entità a quelli volontari; osservate, sia che abbia senso quello che dico, dicendo quello che sto per dire, sia anche che non ne abbia assolutamente nessuno. Io non dico infatti, Clinia e Megillo, che se un uomo danneggia un altro senza volere, involontariamente, commette ingiustizia sì, ma involontariamente, e non mi regolerò così formulando la legge attinentegli come se dovessi legiferare riconoscendo in questa una involontaria ingiustizia, anzi assolutamente stabilirò non essere neppure ingiustizia un simile danno recato, indipendentemente dal fatto che, nell’accadere a qualcuno, sia maggiore o minore. Spesso noi invece diremo piuttosto, se dimostrerò di aver ragione, che commette ingiustizia chi è causa del vantaggio per un altro, ove il vantaggio non risulti cosa cor-[b] retta. Infatti, amici, io direi che non bisogna dire senz’altro giusto o ingiusto il fatto che uno dia o, al contrario, tolga qualche cosa ad un altro: il legislatore deve appurare se con inclinazione e comportamento giusti uno aiuta o danneggia un altro in qualche cosa e deve guardare a questi punti di riferimento che sono due, ingiustizia e danneggiamento. Il danno poi egli deve cercare di ripararlo, il più possibile, con le leggi, salvando ciò che va in rovina, raddrizzando ciò che è stato fatto cadere da qualcuno, [c] venendo incontro alle difficoltà causate dalla morte e guarendo le ferite, e dopo aver riconciliato con le riparazioni volute dalle leggi chi ha fatto e subìto ciascun danno, deve sempre cercare di riportarli, con le leggi, all’amicizia dalla discordia in cui erano. CLIN. E’ giusto che faccia questo. ATEN. I danni e i profitti ingiusti, allora, i profitti che si hanno se qualcuno ingiustamente fa guadagnare qualche altro, quanto di tutto ciò è curabile, considerandole malattie delle anime, devono essere guarite. La guarigione dell’ingiustizia per noi bisogna dire che deve orien-[d] tarsi per questa via. CLIN. Quale? ATEN. Qualsiasi ingiustizia un uomo commetta grande o piccola che sia, la legge lo istruirà, lo costringerà per l’avvenire assolutamente o a non osar più di commettere, volontariamente, tale atto, o a limitare moltissimo il numero dei suoi errori, oltre al risarcimento del danno recato. E sia che si usino a tale fine le opere o le parole, il piacere o il dolore, l’onore o il disonore, le multe o le donazioni, o anche in qualsiasi altro modo, assolutamente, si faccia sì che l’ingiustizia sia odiata, e amata o non odiata, almeno, la natura del giusto, [e] proprio tutta questa è l’opera delle leggi più belle. E per colui che, da questo punto di vista, il legislatore riconosce inguaribile, quale legge, quale pena riserva per lui e quelli come lui? Riconoscendo che per tutti costoro è meglio non continuare a vivere e doppiamente gioverebbero agli altri se abbandonassero la vita, agli altri cui diventeranno d’esempio a non essere ingiusti, rendendo così essi lo stato vuoto di uomini malvagi, per tutto questo è necessario che il legislatore, in relazione a tali uomini, [863a] attribuisca loro la morte con la funzione di punire i loro delitti, e nessun’altra pena. CLIN. Quello che tu dici sembra anche molto giusto, ma noi ascolteremmo con piacere maggiore una ancor più chiara illustrazione di queste cose, e cioè sulla varietà assunta in queste situazioni dalla differenza fra ingiustizia e danneggiamento e fra colpa volontaria e colpa involontaria.
VII. ATEN. Bisogna dunque provare a far come mi co-[b] mandate e a dire. E’ infatti chiaro che sull’anima voi e fra di voi dite e dagli altri sentite dire che in essa una delle affezioni o parti della sua natura è l’ira, possesso connaturale, litigioso e difficile da dominare, e, con la violenza più irragionevole, causa molti sconvolgimento. CLIN. Come negarlo? ATEN. Il piacere invece non lo diciamo essere la stessa cosa dell’ira, e diciamo che con l’imperio di una forza contraria alla collera, mediante la persuasione associata ad una ingannevole violenza, fa tutto ciò che il suo volere preferisce. CLIN. E’ vero. ATEN. Di-[c] cendo che terza causa dei delitti è l’ignoranza non si direbbe il falso. Il legislatore farebbe meglio a distinguerne due, il suo aspetto semplice che riterrà esser causa degli errori leggeri e quello doppio che si verifica quando si ignora non solo perché si è tenuti dall’ignoranza ma anche dall’opinione di sapienza e si crede di essere sapienti, di saper completamente ciò su cui non si conosce nulla, cose queste che egli affermerà, se accompagnate da vigore e da [d] forza, esser cause degli errori più gravi e più orribili, e, se congiunte a debolezza, esser l’origine degli errori dei bambini e dei vecchi, e anche questi egli stabilirà esser errori e istituirà leggi come per chi commette errori contro i loro autori, ma leggi che siano le più miti di tutte, e attenentisi alla più grande indulgenza. CLIN. E’ verosimile quello che dici. ATEN. Tutti dunque, quasi, diciamo che il piacere e l’ira o ci dominano o sono dominati da noi, ed è proprio così. CLIN. Esattamente. ATEN. Ma non si è mai sentito dire che l’ignoranza ci domini o sia da [e] noi superata. CLIN. Anche questo è verissimo. ATEN. Si dice però che tutte queste forze, tirandoci ciascuna al proprio volere, spesso contemporaneamente ci volgono a cose opposte e in contraddizione. CLIN. Molto spesso, è vero. ATEN. A questo punto io posso definire chiaramente per te ciò che intendo per giustizia e per ingiustizia, senza trascorrere in altre considerazioni complesse ed ambigue. Io dico in generale ‘ingiustizia’ la tirannia esercitata nell’anima dall’ira, dalla paura, dal piacere, dal dolore, dall’invidia, dai desideri, operino o non operino [864a] danni. D’altra parte per quanto riguarda l’opinione che si ha di ciò che è l’ottimo, dovunque ritengano uno stato o dei privati che possa essere nell’àmbito delle cose siffatte, qualora dominando nelle anime quell’opinione serva a disciplinare ogni uomo, anche se essa danneggia in qualcosa, tutto ciò che è fatto su questa base deve essere detto ‘giusto’ e così ciò che in ciascuno viene ad obbedire a tale potere, e bisogna dire che è l’ottimo per tutta l’esistenza degli uomini, anche se quel danno è considerato ingiustizia involontaria da molti. Ma ora noi non stiamo facendo un [b] discorso litigioso sui nomi; d’altra parte, poiché degli errori ci si è reso manifesto risultare tre le specie, bisogna prima di tutto richiamare ancora di più queste alla memoria. Una specie è, per noi, quella del dolore, che noi denominiamo ‘ira’ e ‘paura’. CLIN. Sì. ATEN. La seconda è quella del piacere e dei desideri, l’altra che è la terza è quella dell’appetito delle speranze e dell’opinione vera su ciò che è l’ottimo. Quest’ultima essendo divisa in tre per una doppia sezione, le specie risultano cinque, come [c] ora stiamo dicendo. Per queste cinque specie dobbiamo stabilire leggi fra loro diverse e raccolte in due generi. CLIN. Quali sono questi? ATEN. Uno è quello che comprende ciò che ogni volta vien compiuto con azioni violente e scopertamente, l’altro è quello che avviene nascostamente nell’ombra e con la frode. Si dà qualche volta anche che si agisca nell’uno e nell’altro modo ed è per questi casi che anche le leggi, se avessero il carattere che loro conviene, dovrebbero essere durissime. CLIN. E’ verosimile.
VIII. ATEN. Ritorniamo dopo di ciò all’argomento da cui, facendo una digressione, siamo mossi per venir qui, e continuiamo fino in fondo la formulazione delle leggi. [d] Le abbiamo già formulate, mi pare, riguardo ai ladri sacrileghi, ai traditori e anche per quelli che corrompono le leggi per dissolvere la costituzione vigente. Qualcuno di questi delitti si potrebbe commettere forse per una subitanea follia o per il dominio di una malattia della mente oppure di una vecchiaia disastrosa, anche per temerità giovanile, cosa che non differisce dalle condizioni mentali già dette, per nulla. E se qualcuna di queste condizioni risulta manifesta ai giudici scelti per essere investiti della cosa, volta per volta, o direttamente attraverso le ‘deposizioni del colpevole o del suo difensore, e l’au-[e] tore del fatto è giudicato aver compiuto l’infrazione alle leggi durante l’azione di una delle suddette cause di inferiorità, il giudicato sia tenuto a pagare in ogni caso il semplice danno recato a qualcuno eventualmente, ma sia dimesso libero da ogni altra pena; fa eccezione il caso di omicidio che lascia le mani impure. In questo caso l’omicida recatosi in un’altra regione e in un altro luogo, viva in esilio per un anno fuori dello stato, e se ritorna a casa prima dello scadere del tempo fissato dalla legge, o se anche mette il piede in qualsiasi punto della terra patria, sia condannato dai custodi delle leggi a rimanere rinchiuso nel pubblico carcere per due anni; dopo i due anni sia [865a] rimesso in libertà dalla prigione. Dato che abbiamo incominciato a parlare dell’omicidio, proviamoci a formulare completamente le leggi per tutte le specie di omicidio. Cominciamo dagli omicidi operati con violenza diretta e involontariamente. Se uno abbia ucciso un amico involontariamente in qualche competizione o nelle gare delle pubbliche feste sia che la morte avvenga immediatamente, sia più tardi a causa delle ferite riportate in tale circostanza dal colpito, oppure, alle stesse condizioni, in guerra o nelle manovre militari, negli esercizi a corpo libero o con le [b] armi quando avviene l’imitazione delle azioni di guerra, l’uccisore, dopo esser stato purificato secondo il rito già portato da Delfo in relazione a questi fatti, sia ritenuto puro e immune da colpa. Per quanto riguarda tutti i medici, se colui che ne viene curato muore contro la loro volontà, il medico secondo la legge sia ritenuto immune da colpa. Se un uomo ne uccide un altro di propria mano e involontariamente, con le membra del suo corpo disarmate o con un attrezzo o con un’arma da getto o con la somministrazione di bevanda o di cibo, o con l’applicazione di fuoco o di gelo, o per soffocamento, usando come [c] dicevo il suo corpo, o servendosi di quello di altri, in tutto ciò sia sempre considerato come omicida di propria mano e il colpevole sia condannato a pagare le pene che dirò. Se ha ucciso di propria mano uno schiavo, allora pensando egli al caso che si darebbe ove fosse stato ucciso il proprio, risarcisca il danno e la perdita al padrone dello schiavo morto, ma, nel caso si rifiuti di assoggettarsi a ciò sia condannato a versargli una somma corrispondente al doppio del valore dello schiavo morto, e l’estimo del valore sia fatto dai giudici; si useranno purificazioni più solenni e più numerose di quelle usate per gli omicidi durante i [d] giochi e ne saranno arbitri supremi gli interpreti che il dio sceglierà, con pieni poteri. Chi uccide invece il proprio schiavo, una volta purificato sia dimesso libero dalla colpa di omicidio, secondo la legge. L’uccisore involontario di un uomo libero sia tenuto alle stesse purificazioni valide per l’uccisore di uno schiavo, e non abbia a disprezzare l’antico racconto di una delle antiche favole. Si dice che l’uomo ucciso di morte violenta se abbia vissuto con la fiera coscienza di essere libero, appena morto monta in [e] collera contro il suo uccisore e poiché egli stesso è pieno di paura e di terrore per la violenza subita, nel vedere il suo omicida aggirarsi nei luoghi già a lui un tempo familiari, si spaventa e sconvolto sconvolge l’uccisore, lui e tutte le sue azioni, quanto più può, e trova come alleata la memoria. Per questa ragione l’uccisore deve ritirarsi dinanzi alla sua vittima per tutte le stagioni di un anno ed evitare per un anno intero tutti i luoghi familiari al morto, dovunque siano nella patria. E se l’ucciso è uno straniero, [866a] per altrettanto tempo l’uccisore stia lontano dalla patria di quello. Se l’uccisore si sottopone spontaneamente a questa legge, il parente più prossimo del morto, che ha il dovere di controllare che tutte queste cose avvengano, offra a lui il perdono e facendo la pace con lui potrà essere nel giusto, ma se rifiuta e macchiato del delitto osa entrare nei templi e fare sacrifici, come prima cosa, e poi se non vuole attendere che si compiano i tempi stabiliti fuori dalla patria, il parente più prossimo del morto lo perseguisca [b] legalmente per omicidio, e sia condannato al doppio di tutte le pene se riconosciuto colpevole. Se il parente più prossimo non lo persegue in giudizio per il male subìto, allora avverrà come se l’impurità sia ricaduta su di lui, volgendo la vittima su di lui la sventura subita, e chi vuole potrà perseguirlo in giudizio e, secondo la legge, lo costringa a subire cinque anni di esilio dalla patria. Se uno straniero uccide involontariamente un altro straniero, di quelli che si trovano residenti nel territorio dello stato, [c] sia libero chi vuole di perseguirlo in giudizio sulla base delle stesse leggi; se il colpevole è straniero residente sia esiliato per un anno, se straniero del tutto, sia espulso dal paese che ha la sovranità su queste leggi per tutta la vita oltre alla purificazione d’obbligo. Questo vale sia nel caso che un tale straniero abbia ucciso un altro straniero come lui, o uno straniero residente o un cittadino. Qualora faccia ritorno nello stato infrangendo le leggi, i custodi delle leggi lo puniranno con la morte e i suoi beni eventuali essi faranno passare in proprietà del parente più prossimo del morto. Se uno straniero bandito dallo stato ci ritorna involontariamente, qualora andando per mare sia sbattuto [d] sulle spiagge dello stato, ivi rizzi una tenda e tenga i piedi a bagno nell’acqua del mare e stia attento a reimbarcarsi al più presto; se è trascinato da qualcuno a viva forza entro terra, il primo magistrato dello stato che lo incontrerà lo rimetta in libertà e lo rimandi indenne oltre i confini. Se qualcuno di propria mano uccide un uomo libero e il fatto è compiuto per ira, bisogna prima di tutto dividere in due quest’ultima. Per ira agiscono tutti quelli che uccidono qualcuno di punto in bianco, per mezzo di [e] bastonate e simili e senza la premeditazione di uccidere, con un impeto repentino, e sopravviene subito il pentimento per ciò che è stato compiuto; e per ira agiscono anche quelli che vilipesi con parole ed opere oltraggiose perseguono la vendetta e poi uccidono qualcuno col proposito di uccidere, senza che loro sopravvenga poi nessun pentimento del fatto che hanno compiuto. Bisogna quindi affermare che sono di due specie questi omicidi, come [867a] appare, e ambedue avvenuti per ira, direi, e con la massima correttezza si potrebbe dire che stanno in mezzo fra il volontario e l’involontario, intesi questi come generi delle cose. E se non si può dir così, tuttavia ciascuna delle due specie è immagine dell’uno e dell’altro genere. Chi coltiva la sua collera e non uccide al momento, di punto in bianco, ma si vendica, elaborando un piano, nel tempo successivo, assomiglia al volontario, mentre chi uccide senza conservare la sua collera, improvvisamente e subito fuori di senno per l’ira e senza premeditazione, assomiglia all’involontario, benché neppure questo è assolutamente omicida involontario, ma piuttosto l’immagine dell’invo-[b] lontario. E’ per tutto ciò difficile definire gli omicidii da ira, dire se le leggi li debbono tutti considerare come volontari o porne qualcuno fra gli involontari. Meglio di tutto, ed ha maggior aderenza alla realtà, è intenderli ambedue come immagini e distinguerli in due specie separandoli l’uno dall’altro per la premeditazione e la mancanza di premeditazione, e riservare nella legge a quelli che uccidono con un disegno delittuoso e con furore le pene più gravi, a quelli senza premeditazione e improvvisamente pene più blande. Bisogna infatti punire più duramente [c] ciò che è a immagine del maggior male, meno duramente ciò che è a immagine del minore. Debbono far così anche le nostre leggi. CLIN. Così, assolutamente.
IX. ATEN. E allora riprendendo il nostro discorso affermiamo che se un uomo uccide di propria mano un uomo libero, e l’omicidio vien compiuto senza premeditazione, per uno scoppio d’ira, il colpevole sarà per il resto tenuto a subire la stessa pena che dicevamo conviene subisca chi uccide senza essere preda all’ira, ma sia costretto ad andare in esilio per due anni e così impari a dominare il suo senti-[d] mento d’ira. Chi uccide per ira e con premeditato disegno sarà tenuto a scontare la stessa pena del precedente, per il resto, ma il suo esilio sarà di tre anni, secondo lo stesso principio per cui al precedente era portato a due, e con una durata maggiore della pena in relazione alla grandezza dell’ira. Per il ritorno in patria dall’esilio di costoro valgano queste condizioni. Premetto che è difficile legiferare su ciò con precisione. Accade qualche volta che di questi due omicidi, quello che la legge classifica come più pericoloso lo sarà di meno in realtà, e quello che la legge classifica come più mite sarà più pericoloso e compirà l’omicidio in modo più selvaggio, e l’altro in modo [e] meno selvaggio, ma si dà che avvenga per lo più come noi abbiamo detto. La ricognizione di tutto ciò spetta ai custodi delle leggi ed essi appunto allo scadere del tempo d’esilio, per gli uni e gli altri omicidi, invieranno alla frontiera dodici dei loro come giudici i quali dopo aver esaminato, in questo tempo, con ancor maggior chiarezza, la condotta degli esiliati giudicheranno della pietà da accordar loro e sulla loro riaccettazione nello stato; gli esi-[868a] liati dovranno rimettersi alle decisioni di questi magistrati. Se uno qualsiasi di questi due omicidi tornato in patria e ancora una volta vinto dall’ira rinnoverà il delitto, sia bandito e non ritorni più, e, se ritorna, sia punito con la stessa pena che avrebbe uno straniero omicida se tornasse nello stato. L’uccisore di uno schiavo proprio, per ira, sia tenuto alla sola purificazione, di uno schiavo altrui ancora per ira al doppio risarcimento del danno al possessore dello schiavo. Per ogni omicida che si ribella alla legge e sottraendosi alla purificazione va contaminando la [b] piazza, i giochi, gli altri luoghi sacri, chiunque vorrà trascini in giudizio il parente del morto che lo permette e l’uccisore, e li costringa l’uno a pagare una doppia multa in denaro, l’altro a subire in doppia misura le altre pene; la multa prenderà per sé lo stesso accusatore, secondo la legge. Se uno schiavo per ira uccide il suo padrone, i parenti del morto potranno fare dell’uccisore ciò che vo-[c] gliono, salvo che in nessun modo, per nessuna ragione lo lascino in vita, e per questa azione siano ritenuti immuni da colpa e puri. Uno schiavo che per ira uccide un uomo libero di cui non sia lo schiavo, sia consegnato dai suoi padroni ai parenti del morto i quali sono tenuti ad ucciderlo e sono liberi di farlo come preferiscono. Se un padre o una madre per ira uccidono, cosa rara ma possibile, un figlio o una figlia, con percosse o altre forme di violenza, siano tenuti alle forme di purificazione uguali agli altri omicidi e condannati ad un esilio di tre anni; [d] al loro ritorno siano separati rispettivamente la donna dal marito e l’uomo dalla moglie; essi non si congiungeranno più per procreare e saranno esclusi dai rapporti familiari con coloro che essi hanno privato del figlio o del fratello e neppure avranno in comune le cose sacre. Chi commette empietà a questo riguardo e disobbedisce sia perseguibile [e] in giudizio per empietà da chi vuole. Il marito che per ira uccide la moglie o la moglie che analogamente fa la stessa cosa al marito siano tenuti alle stesse purificazioni e condannati a tre anni completi d’esilio. Chi avrà compiuto un simile delitto al ritorno sia escluso per sempre dalle cose sacre e dalla tavola dei suoi figli; il genitore o il figlio che disobbedisca sia perseguibile in giudizio per empietà da chi vuole. E se un fratello uccide un fratello o una sorella, se una sorella uccide un fratello o una sorella per ira, sia detto dover avvenire anche per questi, per quanto riguarda le purificazioni e gli anni di esilio, nello stesso modo che è stato detto per i genitori e i figli, e siano esclusi dalla comunità familiare e religiosa dei fratelli che essi abbiano privato dei fratelli, e dei genitori che essi abbiano privato dei figli. Se qualcuno non obbedisce sarebbe perseguibile correttamente e secondo giustizia sulla base [869a] della legge già enunciata e relativa all’empietà in questi casi. E se il figlio arriverà a tanto d’ira sfrenata, contro chi l’ha generato, da osare di uccidere, in preda a folle furore, uno dei suoi genitori, nel caso che spontaneamente il morto, prima di morire, abbia prosciolto dall’omicidio colui che ha commesso il delitto, una volta purificato con gli stessi riti valevoli per coloro che hanno commesso l’omicidio involontario e compiute le altre operazioni nello stesso numero di quelli, sia ritenuto puro e immune da [b] colpa, ma se non ottiene la remissione, sia sottoposto alle leggi che sono molte per chi compie simile delitto. E infatti dovrebbe esser condannato alle pene più gravi riservate ai delitti di oltraggio e analogamente di empietà e furto sacrilego; egli infatti ha sacrilegamente rubato la vita al genitore, tanto che se fosse possibile che la stessa persona, il parricida o il matricida per ira, morisse più volte, sarebbe cosa giustissima morisse di molte morti. E infatti per quell’uomo cui unico fra tutti, neppure se si difende dalla morte nel momento in cui sta per morire [c] per mano dei genitori, nessuna legge permetterà di uccidere il padre o la madre, coloro cioè che hanno portato alla luce la sua natura, ma al quale anzi la legge ingiungerà di sopportare e di subire ogni cosa prima di far qualcosa di simile, per tale uomo come potrebbe risultar giusto subire una pena, secondo la legge, diversa da quanto si è detto? La pena per colui che per ira uccide il padre o la madre sia la morte. Il fratello che uccide il fratello essendo sorto un conflitto durante una insurrezione o in simili circo-[d] stanze, difendendosi da chi attacca per primo, sia ritenuto immune da colpa come se avesse ucciso un nemico; lo stesso vale se si tratta di un cittadino che uccide un cittadino o di uno straniero che uccide uno straniero. Se un cittadino uccide uno straniero o uno straniero uccide un cittadino per difendersi, sia ritenuto, allo stesso titolo, puro e immune da colpa, così se uno schiavo uccide uno schiavo. Se però uno schiavo uccide un uomo libero, sia pure per difendersi, sia sottoposto alle stesse leggi come il parricida. Quanto è stato detto del perdono concesso dal padre per omicidio, lo stesso sia esteso a tutti gli altri casi di remis-[e] sione per fatti simili, nel caso di chiunque rimetta tal colpa a chiunque volontariamente, e si consideri involontario l’omicidio, e si facciano le purificazioni dell’omicida e sia uno l’anno di esilio secondo la legge. E per quanto riguarda le azioni violente, involontarie e perpetrate per ira, in relazione agli omicidi, quello che è stato detto sia considerato aver ampiezza conveniente. Dopo di questi dobbiamo trattare ora degli atti volontari di omicidio che avvengono con ogni forma di violazione della giustizia e per mezzo di un disegno premeditato e sono originati dal dominio ottenuto dal piacere, dal desiderio e dall’invidia, su chi li compie. CLIN. Sta bene.
X. ATEN. Cominciamo di nuovo col dire, per quanto è [870a] possibile, quanti sono i moventi di cui si è detto. Il più grave è il desiderio che si impadronisce dell’anima resa selvaggia dalla passione. Questo accade specialmente là dove più frequente e più forte è nei molti il desiderio che ha la capacità di suscitare infinito numero di amori dell’acquisizione insaziabile e infinita delle ricchezze, sia per una natura vile che per una perniciosa diseducazione. La causa della diseducazione è una voce diffusa da parte dei Greci e da parte dei barbari ed è relativa al fatto che in modo sbagliato si loda la ricchezza. Essi infatti la giudi-[b] cano primo dei beni mentre è il terzo, e così essi degradano i loro discendenti e se stessi. Ma la cosa più bella e la migliore di tutte è che sia detta la verità sulla ricchezza in tutti gli stati e cioè che la ricchezza è in funzione del corpo e il corpo in funzione dell’anima; ed essendoci dei beni cui la ricchezza, per natura, tende come al suo fine, essa sarà terza dopo la virtù del corpo e dell’anima. Questo argomento dovrebbe diventare maestro e insegnare che chi vuol esser felice non deve cercare la ricchezza, ma deve [c] invece cercare di arricchire con giustizia e moderatamente. Non ci sarebbero allora negli stati uccisioni che devono essere purificate con uccisioni. E come dunque abbiamo detto all’inizio di questo discorso, ora per noi questa è una delle cause e la più grave dei più gravi processi per omicidio volontario. Al secondo posto vien poi quell’abito dell’anima che è il desiderio di onori, seminatore d’invidie, ospiti sgraditi a quello stesso che accoglie in sé l’invidia prima di tutto e poi a tutti gli uomini migliori dello stato. Al terzo posto le paure che vili e ingiuste [d] sono autrici di tanti omicidi, quando qualcuno compie o ha compiuto azioni che egli non vuole che alcun altro conosca, con lui, che accadono o sono accadute; allora, se tali uomini non possono in alcun altro modo, con la morte tolgono di mezzo chi li può denunciare. Siano dunque enunciati così i proemi su tutte queste cose, e aggiungiamo ad essi anche quel discorso che molti ascoltando nei misteri da coloro che si dedicano a cose siffatte fortemente vi credono, e cioè che nell’Hade questi crimini hanno un [e] castigo e che poi, ritornati qui, i colpevoli ne devono pagare la pena che è secondo la legge di natura e chi ha fatto subirà ciò che ha fatto e a sua volta, per lo stesso destino di morte, l’uccisore per mano di un altro morirà alla vita di allora.
XI. Per chi obbedisce e teme senza eccezioni una pena siffatta in base alle stesse parole di questo proemio non [871a] v’è bisogno di cantare il canto della legge che riguarda questa materia, ma per chi si rifiuta sia questa la legge scritta. Chi di sua mano con premeditata ingiustizia uccide un qualunque cittadino della stessa comunità prima di tutto sia messo fuori di ogni regola e costume tradizionale, e non vada contaminando nessuno dei templi, dei mercati, dei porti, nessun altro luogo riservato a pubblica riunione sia che uno glielo vieti sia nel caso contrario, perché è la legge che lo vieta e sempre risulta e risulterà vietarlo in [b] nome di tutto lo stato. E colui che, dovendolo fare, ed è uno dei parenti dell’ucciso sia di parte paterna che di parte materna fino ai cugini compresi, non lo trascinerà davanti alla giustizia o non gli intimerà il divieto dei luoghi pubblici, riceverà su di sé, prima di tutto, la macchia della colpa e l’ira degli dèi, poiché la maledizione della legge volge su di lui l’indignazione pubblica, e sarà inoltre possibile di esser perseguito in giudizio da chiunque vuoi farlo per vendicare su di lui l’ucciso. Colui che vorrà vendicare il morto compia tutto ciò che è attinente alla rigorosa sorveglianza delle lustrazioni che si fanno in [c] questi casi e di ogni altra regola tramandata a noi dalla divinità per queste circostanze e preventivamente, esegua l’intimazione e vada a costringere l’autore dell’omicidio a subire il procedimento giudiziario secondo la legge. Il legislatore facilmente spiegherà che tutto ciò deve avvenire con certe preghiere e sacrifici agli dèi che si occupano di queste cose e cioè che negli stati non avvengano omicidi. Quali siano gli dèi e quale procedura per introdurre tutti questi processi risulterebbe la più corretta nei riguardi della divinità, stabiliranno i custodi delle leggi con l’aiuto [d] degli interpreti e degli indovini e della divinità, ed essi introdurranno questi processi. Siano giudici in essi gli stessi che dicemmo dover giudicare con poteri sovrani fino alla sentenza definitiva i ladri sacrileghi. Il colpevole riconosciuto tale sia condannato a morte; non sia sepolto nel territorio della vittima, a cagione, oltre che della sua empietà, anche della sua temerità. Se fugge e rifiuta di sottostare al giudizio sia bandito per sempre. Se rimetterà piede in qualsiasi luogo del territorio della vittima, il primo che lo incontra, sia un parente del morto, sia un qualsiasi [e] cittadino, può ucciderlo impunemente oppure dopo averlo legato lo consegni ai magistrati che appartengano a quelli che hanno giudicato il processo perché lo uccidano. L’accusatore esiga subito anche dei mallevadori da chi è da lui accusato; questi è tenuto a fornirli e debbono essere quelli che giudica sufficienti e la magistratura dei giudici competenti, mallevadori sufficienti in numero di tre che si impegnano a farlo comparire al processo. Nel caso che un accusato non voglia o non possa stabilire per sé questi mallevadori, i magistrati stessi lo prenderanno in consegna, lo terranno e custodiranno in carcere o lo faranno comparire al giudizio della causa. Se non si tratta di un [872a] uccisore di propria mano, ma di uno che, decisa la morte di un altro, è responsabile di averlo ucciso per questa decisione e con l’insidia, e vive nello stato senza aver purificato l’anima dall’omicidio, si diano anche per lui nello stesso modo gli stessi giudizi riguardanti siffatti delitti, fatta eccezione per la mallevadoria, e se riconosciuto colpevole gli sia lecito ottenere la sepoltura in patria, ma per il resto avvenga per lui lo stesso come per il precedente. Lo stesso vale per gli stranieri che uccidono stranieri, per i cittadini e gli stranieri che si uccidano fra loro [b] e per gli schiavi che uccidono schiavi, sia riguardo all’omicidio di propria mano che a quello con insidia, sempre fatta esclusione per la mallevadoria. Questa, nello stesso modo in cui si è detto esser fornita dagli omicidi di propria mano, così la esiga colui che denuncia l’omicidio anche da questi accusati. Se uno schiavo uccide volontariamente un uomo libero sia di propria mano sia con l’insidia e vien riconosciuto colpevole, lo conduca il carnefice pubblico dello stato al monumento funebre del morto in un luogo donde possa vedere il tumulo e lo frusti [c] con tante vergate quante ordini l’accusatore e se l’uccisore sopravvive alle percosse, lo uccida. Se qualcuno uccide uno schiavo che non ha fatto nulla di male, e lo uccide per paura che possa denunciare sue azioni vergognose e malvage o per qualche altra ragione simile a questa, così come sarebbe stato perseguito per omicidio se avesse ucciso un libero cittadino, nello stesso modo anche per questo schiavo morto sia perseguito nelle stesse forme.
XII. Se vengono commessi delitti sui quali è duro e sempre spiacevole legiferare, sui quali però è impossibile [d] non legiferare, omicidi di propria mano o con l’insidia di membri della propria stirpe, omicidi perpetrati volontariamente e assolutamente ingiusti, i quali avvengono di frequente negli stati mal costituiti e mal cresciuti, e che però possono anche avvenire in stati dove non sarebbe lecito prevederlo, allora, a questo proposito, bisogna rifare il discorso già fatto poco fa, nella speranza che qualcuno udendoci acquisti meglio la capacità di astenersi, per queste nostre parole, con la sua volontà da questi delitti che sono fra tutti i più abbominevoli ed empi da ogni punto di [e] vista. Il mito o discorso, o come bisogna chiamarlo, è raccontato molto chiaramente dai vecchi sacerdoti. Esso dice che la giustizia vendicatrice del sangue versato dei consanguinei è vigilante ed usa nella vendetta la stessa legge da noi citata poco fa, cioè impone a chi ha compiuto qualcuno di questi delitti di subire senza scampo lo stesso che ha fatto. E così se uno ha ucciso il padre, deve sopportare di subire la stessa sorte, entro un certo periodo di tempo, da parte dei figli, e con la violenza, e se la madre, vuole la necessità che esso rinasca partecipe della natura femminile e venuto all’essere così, in un tempo successivo, perda la vita per mano dei figli nati da lei; non c’è altro modo di lavare la macchia che ha contaminato il sangue [873a] comune, né vorrà mai lasciarsi lavare quella macchia prima che l’anima dell’uccisore abbia pagato morte per morte, morte uguale per morte uguale e l’ira di tutti i consanguinei abbia, placandola, fatto assopire. In questo modo, temendo queste punizioni che vengono dagli dèi, si deve tenersi lontani da quei delitti. Ma se qualcuno colga così tremenda sventura che osi volontariamente privare del corpo l’anima del padre o della madre, o dei fratelli o dei figli, con premeditata decisione, così la legge del legi-[b] slatore mortale stabilisce per questi uomini. Le intimazioni di esclusione dalle consuetudini patrie e le mallevadorie siano le stesse come fu detto per i casi precedenti; se uno è riconosciuto colpevole di siffatto omicidio, avendo ucciso qualcuna delle suddette persone, i servi dei giudici e i magistrati lo uccideranno e lo getteranno nudo in un trivio prestabilito, fuori della città; tutti i magistrati portino in nome di tutto lo stato una pietra ciascuno e purifichino tutto lo stato scagliandola sul capo del cadavere, poi lo [c] portino ai confini dello stato e lo gettino al di là insepolto; questa è la legge. Ma chi uccide la persona più familiare di tutte e, come si dice, la più cara, quale pena deve subire? Intendo il suicida, colui che con la violenza si priva della sorte stabilita per lui dal suo destino, che si uccide senza che la giustizia dello stato glielo abbia imposto, senza esservi costretto da una sventura sopraggiunta assai dolorosa ed inevitabile, né per aver avuto in sorte una vergogna incancellabile e insopportabile, colui che solo per ignavia e per la viltà del codardo si impone [d] una pena ingiusta. E’ la divinità in questo caso che conosce quali norme debbono essere osservate, in relazione alle purificazioni e alle sepolture, e i più prossimi parenti interroghino gli interpreti di tali norme e le leggi stesse relative alle circostanze e in conformità debbono fare ciò che ne vien ordinato; questo per il resto, ma le sepolture per coloro che sono morti così siano anzitutto isolate e senza alcun compagno di tomba, ed essi siano inumati senza onori ai confini delle dodici parti del territorio dello stato, scegliendo fra quelle zone di confine che sono incolte e senza nome, e non ci siano né stele [e] né nomi con cui indicare la sepoltura dei suicidi. Se una bestia da tiro o un altro animale uccide un uomo, fatta eccezione per quegli animali che gareggiando in una delle competizioni stabilite dallo stato compiono qualcosa di simile, i parenti del morto perseguiscano la bestia che ha ucciso per omicidio e giudicheranno fino alla sentenza definitivi gli agronòmoi, quelli cui l’abbia ordinato il parente e nel numero da lui indicato, e l’animale riconosciuto colpevole, da quelli sia ucciso e gettato fuori dei confini del territorio. Se è un essere inanimato che priva della vita animata un uomo, fatta eccezione per quanto è fulmine o simile dardo venuto dagli dèi, e cioè qualunque altra cosa sia che uccide qualcuno o perché questi vi cade addosso [874a] o perché quella cade sopra di lui, il parente del morto insedii come giudice il più prossimo vicino e così purifichi se stesso e tutta la parentela e l’oggetto riconosciuto colpevole sia gettato oltre i confini dello stato come già fu detto per il genere degli animali. Se viene scoperto un morto ed è sconosciuto l’uccisore, introvabile anche a chi fa le più accurate ricerche, verranno eseguite le stesse intimazioni giuridiche che per gli omicidi noti e indirizzato all’uccisore si dia l’annuncio dell’omicidio, e colui che lo persegue e lo richiede in giudizio faccia annunciare nella [b] piazza del mercato con un araldo all’uccisore del tale e del tale di non mettere piede nei templi e in tutto il territorio della sua vittima in quanto, se scoperto e riconosciuto, sarà ucciso e gettato insepolto oltre i confini del territorio della vittima. Questa sia dunque una legge per noi stabilita come sovrana sugli omicidi. E così sia per ciò che riguarda questa materia fino a questo punto. Invece per quanto riguarda l’uccisore di quelle persone e in quelle circostanze - in relazione alle quali giustamente dovrebbe dirsi puro e immune da colpa, sia questa la legge: Se qualcuno sorprende e uccide il ladro notturno che penetra in [c] casa per rubare denaro, sia ritenuto puro e immune da colpa. E se uno nel difendersi uccide un brigante, sia ritenuto puro ed immune da colpa. Se un uomo violenta una donna libera o un bambino, muoia impunemente per mano sia di chi ha subito l’offesa e la violenza, sia del padre o dei fratelli o dei figli della vittima. E se un uomo sorprende la sua legittima moglie che subisce violenza, uccidendo l’autore della violenza sia ritenuto puro e immune da colpa per legge. E se uno uccide qualcuno nel difendere dalla morte il padre, la madre, i figli, i fratelli e la madre dei suoi [d] figli, qualora non facciano nulla di empio, sia ritenuto assolutamente puro e immune da colpa.
XIII. Siano queste le norme che si devono applicare all’accrescimento ed alla educazione dell’anima quando è in questa vita, norme per le quali, se essa ne partecipa, la sua vita è degna d’essere vissuta, il contrario se non ne partecipa, e così le norme sulle morti violente e le punizioni che debbono seguirle; si è già detto per quanto riguarda l’accrescimento e l’educazione dei corpi. Per quanto poi è connesso con questa materia, i reciproci atti di violenza, involontari e volontari, bisogna definire, nella misura delle nostre possibilità, quali e quanti sono, e quali [e] punizioni ottenendo essi avrebbero ciascuno ciò che ad essi conviene; stabilendo delle leggi per queste cose, dopo di quelle, sarebbe procedere correttamente nella legislazione, come è evidente. Collocherebbe al secondo posto, dopo le morti, anche il meno valente fra coloro che si occupano di leggi, le ferite e le mutilazioni da ferite. I ferimenti si debbono distinguere come erano stati suddivisi gli omicidi, e cioè gli involontari, quelli causati da ira, da paura e quelli, quanti sono, che si dà che avvengano volontariamente con premeditazioni; anche per tutte queste azioni si deve premettere questo discorso e cioè che bisogna che gli uomini stabiliscano leggi per sé e vivano osser-[875a] vandole oppure di necessità in nulla saranno diversi dalle fiere per ogni aspetto le più selvagge. La causa di ciò è questa, e cioè che la natura in nessun uomo nasce capace di riconoscere ciò che giova agli uomini per la costituzione dello stato; anche se lo riconoscesse non potrebbe sempre agire nel modo migliore, né lo vorrebbe. E’ infatti prima di tutto difficile comprendere che un’arte politica che sia veramente tale, non agli interessi privati deve badare ma di tutta la comunità. L’interesse comune infatti è ciò che lega internamente gli stati, quello privato invece li lacera; difficile comprendere è che torna a vantaggio dell’interesse comune e dell’interesse privato, di ambedue questi, se si trova in buone condizioni ciò che è di interesse comune [b] piuttosto che ciò che è di interesse privato. La seconda cosa difficile a comprendersi è che se anche qualcuno riesca ad afferrare in modo adeguato e a immettere nella sua arte la conoscenza del fatto che queste cose di cui si è parlato sono così per natura, e dopo di ciò godesse di un potere assoluto nello stato e senza essere tenuto a rendere conto a nessuno, non potrebbe mai continuare a rimanere sempre in perfetta coerenza a quel principio e trascorrere tutta la sua esistenza coltivando nello stato al primo posto l’interesse comune e al suo seguito quello privato, ma la natura mortale lo spingerà sempre all’avidità e a badare soprattutto al proprio interesse, e fuggendo essa irragionevolmente il dolore, correndo dietro al piacere anteporrà [c] a ciò che è più giusto e migliore la fuga dal dolore e la ricerca del piacere, e facendo oscurità in se stessa riempirà, alla fine, di ogni male se stessa e lo stato intero. Perché se mai qualcuno degli uomini, nato con adeguata natura per destino divino, riuscisse a comprendere tutto ciò, non avrebbe per nulla bisogno di leggi che lo reggano. Non c’è infatti legge o ordinamento superiore alla scienza né è lecito che l’intelletto obbedisco a qualcosa, di qualcosa [d] sia schiavo, ma invece è legge che sia signore di tutto, se realmente e secondo natura sia un intelletto vero e libero. Ora però un tale intelletto non c’è in nessun luogo, in nessun modo, ma solo in minima parte. Noi perciò dobbiamo scegliere ciò che tiene il secondo posto dopo l’intelletto, l’ordinamento politico e la legge, che vedono e scrutano ciò che è per lo più, ma non possono vedere e osservare ciò che è in tutto. Questo è stato detto per quello che diremo. Ora dobbiamo stabilire che cosa deve subire o pagare chi ferisce o danneggia un altro in qualche cosa. E’ alla portata di ognuno, a proposito di tutto ciò, interromperci correttamente così: "Quale ferita dici che ha [e] fatto, a chi, in quali circostanze e quando? Sono infiniti i casi, uno per uno, di tutto ciò, e molto diversi uno dall’altro. Devolvere però tutte queste cose ai tribunali perché ne giudichino o, al contrario, nessuna di queste, è impossibile. Una cosa infatti è necessario rimettere a loro in ogni caso, perché ne giudichino, e cioè se ciascuna di tali cose è o non è avvenuta. Invece il non lasciare per nulla [876a] a loro di decidere quale multa deve pagare o che cosa deve subire chi ha commesso ingiustizia in qualcuna di queste cose, ma far sì che sia il legislatore a dar leggi particolari per tutti i casi, piccoli e grandi, è quasi impossibile". CLIN. Quale è dunque il discorso che segue? ATEN. Questo: egli deve rimettersi in alcune cose ai tribunali, non in altre e quindi dare le leggi per queste. CLIN. Quali sono gli aspetti della cosa su cui deve legiferare e quali deve rimettere ai tribunali perché ne giudichino?
XIV. ATEN. Dopo quanto si è detto, sarebbe quanto mai giusto dire questo e cioè che in quello stato nel quale i [b] tribunali siano inetti e silenziosi e dove i giudici nascondono la loro opinione e emettono i verdetti a scrutinio segreto, e ciò che è ancora più grave, quando neppure sanno tacere, ma pieni di tumulto come teatri, con le grida lodano e biasimano ciascuno dei due oratori che parlano a turno e giudicano così, allora questa suol risultare una difficile situazione per tutto lo stato. E’ una disgrazia per un legislatore dover preparare le leggi per questi tribunali costretto da una qualche necessità, e pure essendo [c] stato così costretto dalla necessità deve rimettere a loro la decisione delle pene per i reati più piccoli, mentre per le cose più importanti dovrà legiferare lui stesso espressamente, se mai si debbano dare le leggi per una siffatta costituzione. In quello stato invece dove i tribunali sono stati costituiti con tutta la correttezza possibile agli uomini, dove coloro che devono essere giudici sono stati ben educati e vagliati minuziosamente con ogni attenzione, ivi è corretto ed è bene ed è conveniente il rimetter da giudicare a questi giudici, a proposito di coloro che vengono riconosciuti colpevoli, in molti casi, che cosa debbono essi subire o pagare. E noi ora non potremmo essere rimpro-[d] verati di non legiferare per essi sulle cose più importanti e più numerose, cose che anche giudici educati in modo meno valido potrebbero scorgere e quindi assegnare a ciascuno dei falli il giusto valore in relazione all’aver ricevuto ed inferto dei danni. Ma anzi poiché noi riteniamo che coloro per i quali stiamo preparando le leggi diverranno giudici di queste cose quanto mai adatti a discernerle, bisogna che noi rimettiamo a loro la maggior parte delle decisioni. D’altra parte ciò che spesso abbiamo detto e [e] fatto nella elaborazione delle leggi precedenti, e cioè, enunciando il disegno generale e i caratteri delle pene, l’aver fornito ai giudici i modelli di quel giudicare che non deve travalicare mai i confini della giustizia, tutto questo allora era perfettamente corretto ed anche ora bisogna farlo, ritornando ormai di nuovo alle leggi. Sia così stabilita da noi la legge scritta sui ferimenti: se qualcuno dopo aver deliberatamente pensato di uccidere una persona amica, fatta eccezione per coloro che la legge permette, la ferisca, e non riesca ad ucciderla, chi così ha [877a] pensato e ha ferito non è degno di compassione, e, non avendo per lui altro rispetto che se avesse ucciso, sia costretto a subire il procedimento per omicidio. Però per rispetto alla sorte sua che non gli è stata del tutto contraria, e rispettando il suo dèmone che per pietà di lui e del ferito sviò dall’uno una ferita inguaribile, dall’altro una sorte maledetta e la sventura, testimoniando gratitudine a quest’ultimo e senza contraddire la sua volontà, si distolga la morte dal feritore e lo si condanni ad [b] un perpetuo esilio nello stato vicino, godendo ivi del frutto di tutto il suo avere. Risarcisca però il danno completamente al danneggiato se ne abbia recato al ferito; il danno sia valutato dal tribunale che giudica il processo e giudichino quelli che avrebbero giudicato dell’omicidio se quello fosse morto per la ferita infertagli. Se un figlio nello stesso modo ferisce con premeditazione i genitori, o così lo schiavo ferisce il padrone, la pena sia la morte. Anche se nello stesso modo il fratello ferisce il fratello o la sorella, o la sorella ferisce nelle stesse condizioni il fra-[c] tello o la sorella e sono riconosciuti colpevoli di ferita con premeditazione, la pena sia la morte. Se la moglie ferisce il marito con premeditazione di ucciderlo o il marito ferisce per la stessa ragione la moglie, siano condannati all’esilio a vita; le loro sostanze, se i figli o le figlie che hanno sono ancora bambini, saranno curate dai tutori ed essi si prenderanno cura dei bambini come se fossero orfani. Se invece sono già grandi avranno tutto il patrimonio senza obbligo per i loro figli di mantenere il genitore esiliato. Se è senza figli colui che cade in siffatta sventura, tutti i [d] consanguinei si riuniranno insieme fino ai figli dei cugini dell’esule compresi, dall’una e dall’altra parte, sia da parte degli uomini che delle donne, e di concerto con i custodi delle leggi e i sacerdoti nominino un erede di questa casa, la cinquemilaquarantesima parte della città avuta in sorte dall’esule, e rifletteranno in questo modo e con questo discorso, e cioè che nessuna casa delle 5040 è di proprietà di chi vi abita né di tutta la sua stirpe così come lo è dello stato invece, proprietà sia collettiva che privata, e che lo stato deve possedere tutte le sue case [e] il più possibile sante e felici. Così quando una di esse è in condizioni difficili e si macchia di empietà tanto che chi la possiede non vi lascia figli dietro di sé, e muore, non importa se sposato o no, senza prole, muore condannato per un omicidio volontario o per altro delitto contro gli dèi, o i cittadini, che la legge punisce espressamente con la pena di morte, oppure un uomo senza figli si allontana dallo stato condannato all’esilio a vita, è obbligo di legge prima di tutto che la casa sia purificata ed esorcizzata secondo la legge, e poi, come si è detto or ora, che i fami-[878a] liari si radunino coi custodi delle leggi e esaminino quale stirpe fra quelle dello stato sia di ottima reputazione per la sua virtù e fortunata e dove ci sian molti figli; prendano uno di questi e facendolo adottare come figlio al padre del morto ed ai suoi ascendenti, come fosse figlio loro, lo denominino in modo che abbia buoni auspici, e dopo aver pregato perché abbia miglior fortuna del padre adottivo come genitore, custode del focolare, ministro delle [b] cose sante e delle cose sacre, lo nomineranno legittimo erede e il colpevole lasceranno giacere senza nome, senza discendenti, senza la sua parte di beni avuti in sorte, il colpevole che sia stato preda di sventure quali abbiamo nominato.
XV. Non di tutte le cose che sono, il limite, come è evidente, coincide con il limite, ma per le cose per le quali si dà la possibilità, fin dapprincipio, di un elemento di confine, intermedio, allora se questo nello spazio intermedio ai limiti dell’una e dell’altra si viene accostando a ciascuno dei due limiti, risulterà in mezzo di ambedue le cose. Così abbiamo detto anche che il delitto commesso per ira è intermedio fra quelli involontari e quelli volontari, in questo modo. Questa sia dunque la legge per i ferimenti inferti durante l’ira: Il colpevole prima di tutto, riconosciuto [c] tale, risarcisca al ferito una somma pari al doppio di quanto è valutato il danno, se la ferita è risultata una ferita sanabile, una somma pari al quadruplo se la ferita non è guaribile; se la ferita è sanabile ma lascia al ferito un segno deturpante grave e vergognoso, il quadruplo. Per tutte le volte che ferendo qualcuno qualcun altro non solo danneggia l’individuo che subisce, ma anche lo stato in quanto rende il ferito inabile a portar aiuto alla patria contro i nemici, il feritore insieme alle altre pene pecuniarie risarcisca anche lo stato del danno; oltre al suo [d] servizio militare sia quindi tenuto a prestarlo anche in vece dell’altro che non può e ad assumere il posto dell’altro nelle schiere in guerra, o, non facendo così, chiunque lo voglia potrà accusarlo per renitenza al servizio militare, secondo la legge. Fissino i giudici che hanno emanato la condanna mediante votazione, l’equivalente del danno recato, da pagare, sia al doppio sia al triplo, sia al quadruplo. Se in questo stesso modo un consanguineo ferisce un consanguineo, i capi della stirpe e gli altri membri della stirpe, per parte di donne e per parte di uomini, uomini [e] e donne fino ai figli dei cugini, si riuniscano, giudichino della colpevolezza e devolvano ai genitori, secondo natura, il compito di valutare il danno. Se sulla valutazione vi è contestazione, con potere sovrano decidano della valutazione i parenti in linea maschile, se anche qui ci sia impossibilità, devolvano la cosa in ultima istanza ai custodi delle leggi. Per i figli rispetto ai genitori, nel caso di simili ferimenti, siano d’obbligo, come giudici, uomini superiori ai sessanta anni, che abbiano figli non adottivi ma veri e il colpevole riconosciuto tale valutino se deve essere condannato a morte o subire qualche altra pena maggiore di [879a] questa o anche non molto minore. E nessuno dei parenti del feritore giudichi, neppure se abbia raggiunto l’età prescritta dalla legge. Se uno schiavo ferisce un libero per ira, consegni, chi lo possiede, lo schiavo al ferito perché ne faccia ciò che vuole; se non lo consegna risani il danno lui stesso. Se qualcuno adduce che il fatto è un intrigo nato da un patto fra lo schiavo e il ferito, sostenga l’accusa in un processo; nel caso che egli lo perda, risarcisca il danno tre volte, nel caso che egli lo vinca invece, egli persegua per cattura di schiavo colui che con lo schiavo ha mac-[b] chinato l’intrigo. Chi ferisce un altro involontariamente risarcisca il danno semplicemente; non c’è nessun legislatore infatti che possa comandare alla sorte. Giudici saranno gli stessi che abbiamo detto dover giudicare i ferimenti fatti dai figli contro i genitori e spetterà a loro valutare il danno stesso.
XVI. Tutte le predette affezioni che noi subiamo sono azioni violente e violento è anche tutto il genere del maltrattamento. Così dunque, su questo argomento, bisogna che sempre pensi ogni uomo, fanciullo, donna che la vecchiaia è rispettata molto di più della giovinezza nell’opi-[c] nione degli dèi e di quegli uomini che vogliono salvaguardare se stessi e la loro felicità. Bisogna di conseguenza considerare cosa vergognosa e odiosa agli dèi vedere i maltrattamenti che avvengono in uno stato da parte dei giovani contro i vecchi. Conviene anzi che ogni giovane se percosso da un vecchio ne sopporti serenamente l’ira, preparando così per sé una riserva di onore e rispetto per la sua vecchiaia. Sia dunque così: Ognuno da noi rispetti chi è più vecchio di lui sia con l’opera che con la parola, e veneri chi è più vecchio di lui di venti anni, sia questo uomo o donna, come il padre e la madre, e mai, per rispetto [d] agli dèi della nascita, alzi la mano su ognuno che abbia un’età da poter esser padre o madre di lui. E parimenti si tenga lontano dallo straniero, sia residente da lungo tempo nello stato, sia venuto da poco; nessuno osi mai punirlo percuotendolo né attaccandolo né difendendosene. Ma chi ritiene che deve essere punito uno straniero che è insolente e tracotante fino a percuoterlo, presolo lo porti davanti alla magistratura degli astynòmoi, ma astenendosi dal batterlo, affinché stia lontano dall’osar mai di picchiare [e] un cittadino del luogo. Gli astynòmoi lo prendano, lo interroghino con i riguardi dovuti al dio degli ospiti, e se lo straniero apparirà colpevole di ingiuste percosse al cittadino lo condannino a tanti colpi di frusta quante sono state le percosse date da lui, mettendo fine così alla sua tracotanza di straniero. Nel caso abbia agito senza ingiustizia, riprendano con minacce e rimproveri il cittadino che l’ha portato in giudizio e li dimettano entrambi. Se uno percuote una persona della stessa età o più anziana [880a] ma senza figli, se un vecchio un vecchio, un giovane un giovane, il percosso si difenda come può in modo naturale, senza usare le armi e a mani vuote; se un uomo di più di quarant’anni oserà battersi con chiunque, sia attaccando sia per difendersi, sia pubblicamente denunciato come uomo villano, basso e servile, e nel subire questa pena vergognosa avrà senz’altro ciò che si merita. Chi cederà a queste esortazioni si mostrerà mite e facile da guidare, chi invece non si lascerà persuadere e non si [b] curerà affatto del proemio, si abbia la legge che dirò subito: Se qualcuno percuoterà uno più vecchio di lui di venti o più anni, prima di tutto li separi il primo che vi si imbatte, se non abbia la stessa età e non sia più giovane dei contendenti, o sia considerato cattivo cittadino per legge; se della stessa età del colpito o più giovane lo difenda come sarebbe suo dovere difendere il fratello, il padre o un più lontano ascendente, che subissero ingiustizia. Inoltre chi oserà, come si è detto, percuotere uno più vecchio di lui sia perseguibile per maltrattamento e se riconosciuto [c] colpevole sia condannato a non meno di un anno di carcere. Se però i giudici ritengano di fissare una condanna per più di un anno, sia valido il tempo così stabilito per lui. Nel caso che uno straniero, residente o no, colpisca una persona più anziana di venti o più anni, valga sull’aiuto delle persone presenti la stessa legge con la stessa forza, e lo straniero riconosciuto colpevole e condannato in siffatto processo, qualora sia straniero non convivente nello stato, paghi questa stessa sentenza con due anni di carcere, lo straniero invece residente e ribelle alle leggi [d] dello stato sia condannato a tre anni di carcere a meno che il tribunale non ritenga di valutare la sua pena con un maggior periodo di detenzione. Sia anche multata la persona presente accanto a una qualsiasi di queste violenze e che, come vuole la legge, non accorra in aiuto; la multa sia di una mina se appartiene alla prima classe, di cinquanta dracme se alla seconda, di trenta se alla terza, di venti se alla quarta; il tribunale competente per queste cose sia formato dagli strateghi, dai tassiarchi, dai comandanti di squadrone per tribù, e dai comandanti generali della cavalleria.
XVII. Le leggi, come è evidente, sono di due specie, le une servono per gli uomini onesti al fine di insegnar [e] loro in qual modo stringendo reciproche relazioni potranno vivere concordi, le altre per chi si è sottratto all’educazione alla virtù, per chi ha dura la natura e non si lascia commuovere affatto in modo da non andare alla più completa malvagità. Sono questi ultimi la causa dei discorsi che stanno per essere fatti, questi, per i quali necessariamente dovrà il legislatore formulare le leggi che nell’animo suo desidera non siano mai richieste dal bisogno di applicarle. Chiunque mai oserà levar la mano sul padre, la madre, o anche sui progenitori che li precedono, chi userà contro di loro violenza e maltrattamenti, senza temer [881a] l’ira degli dèi del cielo, né quella delle punizioni che si dicono esservi sotto la terra, ma quasi conoscesse alla perfezione ciò che ignora del tutto, e disprezzando i detti degli antichi e di tutti gli uomini, va fuori della legge, costui ha bisogno di qualche mezzo estremo che lo distolga dal delitto. Non è mezzo estremo la morte, e le pene che si dicono aver costoro nell’Hade sono ancora più all’estremo di quella, ma pur essendo la più completa verità quello che se ne dice in alcun modo riescono a distogliere anime siffatte dal male e infatti mai ci sarebbero stati altrimenti matricidi né sacrileghi atti di audacia nel percuotere gli [b] altri ascendenti. Bisogna quindi che le pene di qui, quelle che costoro per tali delitti hanno in vita, non siano inferiori per nulla, nella misura del possibile, a quelle che avranno nell’Hade. Dopo di ciò la legge sia enunciata così: Se qualcuno osa colpire il padre o la madre, o il padre e la madre loro, senza essere in preda a pazzia, prima di tutto chi vi si imbatte, come si è detto precedentemente, porti aiuto. Lo straniero residente o no che verrà in aiuto del colpito sia chiamato al posto di onore alle gare, in caso contrario sarà esiliato per sempre dal territorio; lo stra-[c] niero non residente se porta aiuto avrà pubblica lode, in caso contrario pubblico biasimo; lo schiavo che porterà aiuto sarà liberato, in caso contrario sia colpito con cento frustate dagli agoranòmoi se il fatto avviene nel mercato, se fuori dal mercato ma nella città lo punisca quello degli astynòmoi che è presente, se nei campi, in qualche luogo della regione, lo puniscano i capi degli agronòmoi. Se sia [d] uno del luogo, quello che vi si imbatte, ognuno, bambino, uomo o donna corra in difesa gridando all’empietà, in caso contrario cada su di lui la maledizione di Zeus protettore della stirpe e dei padri; così vuole la legge. Chi è riconosciuto colpevole di maltrattamento contro i genitori sia, prima di tutto, condannato all’esilio dalla città dentro i confini del resto del territorio, a vita, e sia escluso da tutti i luoghi sacri; se non se ne tiene lontano, lo puniscano gli agronòmoi con le vergate e in ogni altro modo essi vorranno; se ritorna, sia punito con la morte. Tutti i cittadini liberi che mangeranno, berranno, staranno [e] insieme con un uomo siffatto in qualsiasi altra simile forma di vita in comune e di società, o anche solo, incontrandolo, lo toccheranno volontariamente, prima di essersi purificati non entrino in nessuno dei templi, né nel mercato, né in alcun luogo della città, e ciò nella convinzione di essersi accomunati a un destino funesto. Se uno di questi, disobbedendo e ribellandosi alla legge, contaminerà i templi e la città, e un magistrato pur conoscendo la cosa non gli intenta una causa, alla resa dei conti della sua carica, [882a] questo fatto sia per lui una delle accuse di maggior gravità. Se uno schiavo percuoterà un uomo libero, straniero o cittadino, difenda il percosso chi vi si imbatte o paghi la multa predetta secondo il censo, e chiunque si trovi ad essere presente intervenga insieme al percosso per legare lo schiavo e consegnarlo a lui stesso che lo ha [b] subìto; egli lo prenda, lo leghi con ceppo ai piedi e lo frusti finché ne avrà voglia, purché però non danneggi il suo padrone cui lo rimetterà perché usi su di lui del diritto di proprietà secondo la legge. La legge sia questa: Lo schiavo che percuoterà un uomo libero senza ordine dei magistrati, lo prenda in consegna dal colpito il suo padrone, legato, e non lo sciolga finché lo schiavo non per-[c] suada il colpito di essere degno di vivere sciolto. Le stesse leggi valgono per le donne in tutte le simili circostanze, sia nel caso che le donne si battano fra di loro, sia nel caso che le donne battano uomini o gli uomini le donne.
X
[884a] I. ATEN. Dopo le norme sui maltrattamenti formuliamo questa unica legge per tutti gli atti di violenza: Nessuno sottragga e porti via nulla di ciò che è di altri, né usi di nessuna delle cose del vicino senza il consenso del proprietario persuaso; in dipendenza infatti della non osservanza di questa legge sono stati, sono ora, e saranno, tutti i mali di cui si è parlato. Delle altre colpe da trattare le più gravi sono gli atti di indisciplina e di prevaricazione dei giovani. Toccano questi la massima gravità quando hanno per oggetto la religione, e in special modo sono gravi quando offendono la vita religiosa dello stato o quelle istituzioni sacre che sono solo in parte pubbliche, comuni ai membri [885a] della tribù o di qualche altra di queste comunità. Vengono al secondo posto e sono al secondo posto per gravità quelli che offendono la vita religiosa dell’individuo e le tombe; vengono poi al terzo posto quelli che avvengono quando qualcuno oltrepassa i limiti verso i genitori, fatta esclusione degli atti di cui si è trattato precedentemente. Il quarto genere di prevaricazione si ha quando qualcuno, mostrando disprezzo per i magistrati, asporta, sottrae, usa cose che appartengono a loro senza il loro permesso ottenuto persuadendoli. Quinto, attentare ai diritti politici di ciascun cittadino in particolare, cosa che chiama la punizione della giustizia. Bisogna formulare una disposizione di legge comune a tutte queste infrazioni e tale che si riferisca a ciascuna in particolare. Abbiamo già parlato [b] infatti del furto sacrilego complessivamente, sia di quello perpetrato per violenza sia di quello per frode, ed abbiamo sommariamente stabilito la pena che deve subire nei due casi. Per tutte le altre prevaricazioni contro gli dèi che qualcuno può compiere con la parola o con l’opera, dicendo od agendo, bisogna enunciare ciò che deve subire il colpevole ponendo come presupposto la nostra esortazione. E tale esortazione sia questa: Nessuno di coloro che credono all’esistenza degli dèi, come vuole la legge, volontariamente ha mai commesso azioni empie, né si è lasciato sfuggire parole illecite. Qualora agisca o parli così, ciò accade per una di queste tre affezioni che egli subisce, o perché non crede a ciò di cui ho parlato, o, in secondo luogo, perché pensa che pur esistendo gli dèi non si interessino degli uomini, o finalmente, in terzo luogo, perché ritiene che con sacrifici e preghiere si possono facilmente [c] placare e sedurre. CLIN. Che possiamo fare dunque o anche dire contro costoro? ATEN. Caro, cominciamo con l’ascoltare quello che, io immagino, come per una divinazione, ci dicono disprezzandoci e prendendoci in giro. CLIN. Che cosa? ATEN. Potrebbero dire forse così scherzando: "Ospite ateniese, e tu spartano e tu di Cnosso, voi dite il vero. Alcuni di noi infatti non credono per nulla agli dèi, altri invece li credono quali voi dite. E così noi [d] riteniamo giusto, come voi per le leggi avete ritenuto opportuno, che, prima di minacciarci duramente, proviate a persuaderci e insegnarci che ci sono gli dèi, a portarci delle prove valide, e provateci anche che gli dèi sono troppo superiori per lasciarsi allettare da qualche dono e per lasciarsi portar fuori strada contro la giustizia. Noi ora infatti sentiamo dire queste e altre simili cose da quelli che sono detti i migliori poeti, retori, indovini, sacerdoti e infiniti altri, in modo che la maggior parte di noi non ci orientiamo verso il non fare le cose ingiuste, ma dopo [e] averle fatte cerchiamo di porvi rimedio. E per quanto riguarda ciò che ci deve venire da legislatori che ci dicono essere non selvaggi ma umani, noi riteniamo giusto che essi usino verso di noi della persuasione, prima di tutto, dicendo degli dèi, che ci sono, se non in modo molto migliore degli altri, migliore almeno rispetto alla verità, e allora forse noi ci faremo convincere da voi. E se è giusto quello che diciamo, provate allora a dire ciò che vi invitiamo a dire". CLIN. Dunque credi, ospite, che sia facile dire, rimanendo nel vero, che gli dèi ci sono? ATEN. [886a] Come? CLIN. Prima di tutto la presenza della terra, e del sole e di tutti gli astri, e l’ordine così bello delle stagioni che si suddividono negli anni e nei mesi; e poi il fatto che tutti, Greci e barbari, pensano che gli dèi esistono. ATEN. Ho paura, caro mio, dei malvagi - non direi mai infatti che ho rispetto di loro -, ho paura che in qualche modo ci disprezzino. E infatti per ciò che li riguarda, voi non sapete quale è la causa della contesa, voi credete che [b] le anime di quelli si spingano verso la vita empia a causa solo dell’incapacità di dominare i loro piaceri e i loro desideri. CLIN. Quale causa ci sarebbe oltre a questa, ospite? ATEN. Direi che è una cosa che assolutamente voi non potreste conoscere vivendo fuori da questi problemi, anzi vi dovrà sfuggire. CLIN. Che vuoi dire ora? ATEN. La causa è una ignoranza così grave che sembra essere la più grande manifestazione dell’intelligenza. CLIN. Come dici?
II. ATEN. Ci sono da noi discorsi scritti nei libri che da voi non sono a causa della virtù propria della vostra [c] costituzione, come io intendo; alcuni sono in versi, altri in prosa e parlano degli dèi. I più antichi narrano come in principio fu la prima natura del cielo e delle altre cose e, procedendo non molto oltre il principio, espongono la nascita degli dèi e come venuti all’essere gli dèi ebbero rapporti fra loro. E se queste cose per coloro che le ascoltano sono buone o non buone in funzione di qualche altra cosa da quelle che dirò, non è proprio facile valutarlo facendo ad esse rimproveri, a esse che sono così antiche, ma per quanto riguarda le cure e gli onori che si debbono avere per i genitori non potrei proprio dire mai per esse un discorso di lode, non potrei dire che siano utili, né che sono state dette in modo conforme alla realtà, asso-[d] lutamente. Ma lasciamo e diciamo addio a ciò che riguarda queste cose antiche, su di loro si esprima il giudizio che è caro agli dèi; noi ora dobbiamo accusare le opere dei nostri moderni e sapienti, in quanto sono causa dei mali. E’ questo dunque ciò che fanno i discorsi di uomini come costoro: quando tu ed io portiamo le prove dell’esistenza degli dèi, e proponiamo proprio cose come queste, il sole, la luna, le stelle, la terra come dèi e cose divine esistenti, allora coloro che si sono lasciati convincere da questi nuovi sapienti direbbero che tutte queste [e] cose non sono altro che terra e pietre, incapaci di pensare nessuna delle cose umane, e queste loro opinioni essi presentano in certo modo ben cucinate e rivestite dei loro discorsi fino ad essere persuasive. CLIN. Ospite, ti trovi ad aver detto un difficile discorso, e ciò se fosse almeno uno solo quello che hai detto; ma dato che in questo momento si trovano ad essere molti i discorsi che vengono detti così, ora risulterà ancora più difficile. ATEN. Ebbene? Che diciamo noi? Che dobbiamo fare? Ci dobbiamo difendere come se qualcuno ci accusasse collocandoci davanti ad un tribunale di uomini empi, i quali dicessero a noi accusati di fare delle leggi, dicessero che noi stiamo compiendo [887a] un’opera terribile in quanto stabiliamo per legge che gli dèi ci sono? O li lasceremo andare e ci rivolgeremo ancora alla formulazione delle leggi perché il proemio che stiamo premettendo alle leggi non divenga esageratamente lungo? Non sarebbe breve il discorso, una volta completamente sviluppato, se a coloro che desiderano d’essere empi prima di tutto dessimo sufficiente dimostrazione con i discorsi e le argomentazioni di ciò su cui dicevano doversi parlare, e poi volgessimo al timore qualcuno di loro e ancora, dopo aver suscitato in loro avversione per certi atteggiamenti, allora dopo tutto ciò finalmente legiferas-[b] simo su ogni punto convenga farlo. CLIN. Ma, ospite, spesse volte in così poco tempo noi abbiamo ripetuto questa stessa cosa e cioè che per nulla dobbiamo preferire in questa circostanza il discorso breve al discorso disteso; non c’è nessuno infatti che ci corre dietro e ci spinge ad andare, come si suol dire. Sarebbe ridicolo e stolto mostrare di preferire ciò che è più breve a ciò che è migliore. E in certo modo non di poco la cosa più importante di tutto ora è, che i nostri discorsi abbiano una certa forza di persuasione nel dire che gli dèi ci sono e sono buoni e hanno in onore la giustizia in modo incomparabile agli [c] uomini. E direi che noi non potremo dare proemio più bello e migliore di questo a tutte le nostre leggi. Non spazientiamoci dunque per nulla e non affanniamoci, e senza risparmiare per nulla quella forza che noi possiamo avere per rendere persuasivi siffatti discorsi, esponiamoli il più possibile completamente.
III. ATEN. Il discorso detto da te mi par chiamare la preghiera, poiché tu lo esponi con calda partecipazione. E non è più possibile esitare a dire. Suvvia, come si potrebbe parlare e dire che gli dèi esistono senza sentirsi presi dall’ira? Infatti è inevitabile sopportare a stento e [d] odiare coloro che sono divenuti per noi la causa di siffatti discorsi e lo divengono ora, non credendo ai miti che fin da piccolissimi bambini ascoltavano dalle nutrici e dalle madri quando ancora erano allevati nel latte, miti che venivano raccontati quasi con parole incantatrici un po’ per gioco un po’ seriamente, ed essi li ascoltavano anche nelle preghiere congiunte ai sacrifici e vedevano le visioni che a questi si accompagnavano, spettacoli che il giovane vede con il più grande piacere quando sono messi in atto durante il sacrificio e con piacere ascolta, e così vede ed ascolta i suoi genitori, impegnati con estrema [e] serietà per sé e per loro, parlare agli dèi e conversare con le preghiere e le suppliche presupponendo che gli dèi esistono più che ogni altra cosa, e così ancora tutti i giovani sentono dire e vedono che al sorgere e al tramontare del sole e della luna tutti i Greci e i barbari si prosternano e si inginocchiano sia nei giorni in cui sono preda di ogni sorta di sventure sia nei giorni di fortuna, non come se non ci fossero, ma pensandoli quanto mai esistenti, in nessun modo sollevando il sospetto che non ci siano dèi. Quanti dunque disprezzando tutto ciò, senza l’appoggio di neppure un solo argomento sufficiente, come direbbero anche tutti quelli che posseggono anche una piccola parte di intelletto, quanti ci costringono ora a dire [888a] quello che stiamo dicendo, come potrebbe uno esortarli con parole miti e insieme insegnar loro sugli dèi prima di tutto che gli dèi ci sono? Bisogna osare di farlo d’altra parte; non bisogna infatti che insieme a quelli di noi che divengono pazzi per ingordigia di piaceri, diventino pazzi altri di noi per lo sdegno contro di loro. Dunque senza animosità vada questa ingiunzione a coloro che sono così corrotti nel pensiero e diciamo serenamente, spegnendo l’ira come se parlassimo ad uno di loro per tutti: "Ragazzo, sei giovane, e il tempo a poco a poco col suo procedere [b] farà sì che molte delle tue opinioni di ora tu abbia a mutare e divengano per te esattamente contrarie a quello che sono ora. Attendi dunque quel tempo per ergerti a giudice dei fatti più importanti e il più importante, anche se tu lo credi ora cosa da nulla, è che si viva o no una vita onesta pensando correttamente degli dèi, e su questo se io ti indicherò prima di tutto una sola cosa di grande momento non credo che apparirei mai dire il falso, ed è questa: Non tu da solo sei stato il primo, né lo sono stati i tuoi amici, ad aver avuto per la prima volta questa opinione sugli dèi; viene sempre ad esserci un certo numero di uomini, più o meno grande, ammalato della vostra malattia. Ed io ti potrei dire con sicurezza, avendone cono-[c] sciuti molti, che non ne ho mai trovato uno che dopo aver fatto propria questa opinione sugli dèi, e cioè che non ci sono, fin da giovane sia vissuto sempre rimanendo in questo pensiero fino alla soglia della vecchiaia; solo alcuni di loro, ma non molti, hanno poi conservato in sé le altre due affezioni sugli dèi, e cioè da una parte che gli dèi esistono sì, ma sono del tutto incuranti delle cose umane, e l’altra affezione che segue, e cioè che si occupano sì degli uomini ma sono facili ad essere placati e influenzabili con sacrifici e preghiere. E se tu credi a me, attenderai che in te possa essersi fatta chiara, il più possibile, l’opinione che hai sugli dèi, analizzando se è così o in un [d] altro modo, e informandotene dagli altri e specialmente anche dal legislatore; in questo periodo tu non oserai però commettere alcuna empietà contro gli dèi. E colui che ti da le leggi deve provare ora e dopo a insegnarti come stanno queste cose". CLIN. Ci hai fatto un discorso bellissimo, fin qui. ATEN. Sì, senza dubbio, Megillo e Clinia, ma siamo venuti a cadere, senza accorgercene, in uno strano discorso. CLIN. Quale intendi? ATEN. Il [e] discorso che molti ritengono superiore di tutti gli altri per sapienza. CLIN. Parla più chiaro.
IV. ATEN. Dicono alcuni che tutto ciò che è, che è stato, e che sarà dipende in parte dalla natura, in parte dall’arte, in parte dal caso. CLIN. E non è vero? ATEN. Può darsi che questi essendo sapienti abbiano ragione. [889a] Seguiamo il loro ragionamento e vediamo che cosa mai anche si trovano a pensare quelli che stanno dalla loro parte. CLIN. Vediamo. ATEN. Le cose più grandi e importanti, dicono, fra quelle sopra elencate e le più belle, sembra le facciano la natura e il caso, e che l’arte faccia quelle meno importanti e più piccole, l’arte la quale, prendendo dalla natura i principi originari delle opere prime e più grandi, plasma e costruisce tutto ciò che è più piccolo e secondario e che noi tutti chiamiamo ‘opera [b] d’arte’. CLIN. Che vuoi dire? ATEN. Sarò più chiaro così. Essi dicono che il fuoco, l’acqua, la terra e l’aria sono tutti dalla natura e dal caso, nessuna di queste cose viene dall’arte, e che tutti i corpi che vengono dopo di questi, quelli della terra, del sole, della luna e degli astri vengono all’essere tutti per opera di quegli elementi primi che sono tutti corpi inanimati. Essi dicono che ciascuno di questi essendo mosso e spostato a caso dalla forza propria a ciascuno, là dove si incontrano e in un certo modo conveniente e familiare adattandosi il caldo al freddo, il sec-[c] co all’umido, il molle al duro e così tutte le altre cose che, per la mescolanza dei contrari, di necessità, quando ciò poté accadere, si fusero insieme, ivi, proprio per questa stessa causa, in tal modo essi hanno dato origine all’intero cielo e a tutto ciò che è nel cielo e a tutti gli animali e a tutte le piante, una volta che tutte le stagioni per la causa di cui si è detto vennero ad esserci, e tutto ciò, non per l’azione, dicono, di una mente, né di un dio o di un’arte, ma, come stiamo riferendo noi, si fonda sulla natura e sul caso. L’arte è venuta dopo e discende da queste cose ed è posteriore a loro, essendo essa stessa cosa mortale fatta da cose mortali, e ha, alla [d] fine di questa serie, generato dei giochi che non partecipano molto della verità, ma sono certe immagini appartenenti allo stesso genere delle stesse arti da cui derivano, immagini quali genera l’arte del dipingere e la "musica", e quali generano le altre arti loro compagne. E le arti che producono qualcosa di serio, dicono essere quelle che uniscono la loro potenza a quella della natura, come la medicina, l’agricoltura e la ginnastica. E la politica, dicono, ha pochi contatti con la natura, prevale in essa l’arte; così anche tutta la legi-[e] slazione non è per natura, ma per arte, e le leggi che essa stabilisce non sono vere. CLIN. Che dici? ATEN. Caro mio, questi cominciano col dire che gli dèi sono frutto dell’arte degli uomini, non sono per natura, sono per certe leggi e convenzioni, sono diversi da luogo a luogo, come cioè ciascun popolo convenne con se stesso nello stabilirli per convenzione, come fissando una legge. E così per la bellezza; è diverso ciò che è bello per natura e ciò che è bello per convenzione e per legge, e la giustizia non è affatto per natura, ma gli uomini, sempre in contestazione fra loro per tutta la loro esistenza e mutando sempre ciò che appartiene alla giustizia, ciò [890a] che mutano a questo proposito, e quando lo mutano, proprio allora, ciascuna appunto di queste cose, ha valore sovrano, e tutto ciò viene all’essere per l’arte e per le leggi, ma non per un qualche aspetto della natura. E, amici, tutto ciò è proprio di quegli uomini sapienti, tali ritenuti presso i giovani, uomini, quelli, che sono semplici e privati prosatori o anche poeti, e dicono che la massima giustizia è ciò in cui qualcuno riesce ad imporsi con la violenza. Di qui gli atti d’empietà che cadono sopra i giovani i quali agiscono come se gli dèi non fossero quali la legge comanda che si debbano pensare, di qui le rivolte di quelli che trascinano, per questa ragione, verso la giusta vita secondo natura, che è in verità vivere dominando gli altri e non servire mai [b] gli altri nei limiti voluti dalle leggi. CLIN. Quale dottrina, ospite, hai esposto e quanta rovina propria di questi giovani uomini, sia pubblicamente per gli stati sia in privato per le famiglie! ATEN. E’ vero, Clinia, quello che dici. Che cosa credi che dovrà fare dunque il legislatore davanti a una situazione da così lungo tempo preparata? Dovrà soltanto minacciare a tutti, levandosi in piedi nella città, che se i cittadini non affermeranno che gli dèi ci sono, e non li penseranno ritenendo che essi siano quali dice che sono la legge, - e lo stesso discorso sulla bellezza e la giustizia e tutte le cose più [c] importanti, tutte quelle che hanno relazione alla virtù e al vizio, lo stesso discorso che dice che bisogna per tutto ciò agire pensando nello stesso modo in cui il legislatore scrivendo le leggi suggerisce - dovrà dunque minacciare e dire che, se qualcuno non si offre facile da persuadere alle leggi, l’uno avrà la morte come inevitabile pena, un altro sarà punito con la frusta e il carcere, un altro con la privazione dei diritti civili, altri con la confisca dei beni e l’esilio? Non dovrà usare per gli uomini, e unire ai suoi discorsi, alcuna forma di persuasione nel momento stesso in cui dà loro le leggi, in modo da conferire nella misura del possibile a questi [d] discorsi un carattere più dolce? CLIN. No, ospite, in nessun modo, ma se è possibile persuadere anche di poco, in queste cose, il legislatore, che sia degno anche di una piccola stima, non deve in modo alcuno stancarsi di farlo e, come si suol dire, emettendo tutta la sua voce deve col suo discorso farsi protettore e sostenitore dell’antica legge e dire che ci sono gli dèi e tutto il resto che hai detto tu ora, e difendere ed aiutare la legge stessa e l’arte affermando che sono per natura ambedue queste cose o che sono ambedue non meno della natura, se mai sono prodotti dell’intelletto che nascono sulla base di un corretto discorso, discorso che mi pare tu dica e [e] io credo ora a te. ATEN. O volonteroso Clinia, ebbene? Non è difficile seguire discorsi detti così per la massa, discorsi che poi posseggono una lunghezza enorme e che ampiamente risuonano? CLIN. Ebbene ospite? Abbiamo parlato così a lungo dell’ubriachezza e della "musica" e abbiamo sopportato i nostri discorsi; vuoi che non abbiamo pazienza di ascoltare i discorsi sugli dèi e le cose siffatte? Ne riceverebbe anche il più grande aiuto la legislazione che si accompagna all’uso dell’in-[891a] telletto, perché i comandamenti relativi alle leggi messi per iscritto, come quelli che per ogni tempo darebbero ragione di sé, rimarranno del tutto stabili e non c’è quindi da scoraggiarsi se in principio è difficile ascoltare quello che dicono e sarà possibile anche a chi impara con difficoltà spesso tornarci sopra e riprenderli in considerazione; e se pur essendo estesi, sono però utili, neppure per questo ha alcuna giustificazione, e neppure cosa pia mi appare, il fatto che ogni uomo, con tutte le sue forze, non dia il suo contributo a questi discorsi. MEG. Sì, ospite, mi sembra che Clinia dica [b] benissimo. ATEN. E’ certo, Megillo, e bisogna proprio fare come dice. E infatti se discorsi siffatti non fossero stati disseminati fra tutti gli uomini, per così dire, non ci sarebbe affatto bisogno di difendere con i nostri discorsi l’esistenza degli dèi; ma ora è necessario. Chi, d’altra parte, più del legislatore converrebbe portasse aiuto alle leggi più importanti che uomini infami distruggono? MEG. Non c’è nessun altro che lo debba.
V. ATEN. Ma rispondimi di nuovo, Clinia, anche tu, [c] dato che anche tu devi partecipare ai discorsi. V’è pericolo infatti che colui che dice queste cose ritenga il fuoco, l’acqua e la terra e l’aria come princìpi di tutte le cose e proprio queste cose chiami ‘natura’, e ne derivi l’anima, come qualcosa di successivo. Anzi mi sembra non che ci sia pericolo, ma che proprio questo ci indichi in realtà col discorso. CLIN. Certamente. ATEN. Ebbene, per Zeus, non abbiamo forse trovato una fonte, in certo modo, della stolta opinione di tutti gli uomini che mai abbiano messo mano alle indagini sulla natura? Esamina anche tu, analizzando ogni discorso [d] loro; perché sarebbe molto importante se a noi risultasse che coloro che si sono attaccati a dottrine empie, nelle quali guidano anche altri seguaci, neppur del discorso sanno usar bene, ma commettono degli errori. Io credo dunque che questi discorsi siano veramente così. CLIN. Parli bene, ma prova a dirci dove. ATEN. Dobbiamo affrontare, mi sembra, dei discorsi un po’ diversi dal solito. CLIN. Nessuna esitazione, ospite. Capisco infatti che tu ritieni di uscire dal campo della legislazione se affrontiamo discorsi sif-[e]fatti ma, se in nessun altro modo si può trovare l’accordo con ciò che ora secondo la legge sono detti esser gli dèi, e dire che è giusto siano così, se dunque in nessun altro modo che così si può far questo, bisogna parlare e nel modo che abbiamo detto, straordinario uomo. ATEN. Allora dovrei dire, come sembra, ormai un certo discorso in certo modo diverso dal solito. La causa prima della generazione e della corruzione di tutte le cose, questa, non prima, ma cosa nata successivamente hanno dichiarato i discorsi che hanno reso tale, quale è, l’anima degli uomini empi, e ciò che è successivo da essi è considerato essere prima. Donde il loro errore che fa loro sfuggire [892a] il vero essere degli dèi. CLIN. Non capisco ancora. ATEN. Essi, amico, quasi tutti, rischiano di aver ignorato la natura dell’anima, che cosa si trova ad essere, e la sua facoltà e, fra le altre cose che la riguardano e che riguardano anche la sua generazione, hanno ignorato che l’anima è una delle entità originarie che ha preceduto tutti i corpi nel suo venir all’essere e guida tutti i mutamenti e le trasformazioni di questi più di ogni altra cosa. Se dunque queste cose sono così, non è forse anche necessario che tutto ciò che appartiene al genere dell’anima abbia preceduto nel suo venir all’essere tutto ciò che [b] appartiene al corpo, poiché l’anima è più vecchia del corpo? CLIN. Necessario. ATEN. L’opinione, la previsione, l’intelletto, l’arte e la legge precederanno in ordine di tempo le cose dure e molli, pesanti e leggere, e le grandi e le prime produzioni verranno ad essere, essendo prime, opere ed azioni dell’arte, e quelle che invece sono per natura e la natura, ciò che erroneamente indicano con questo nome, dopo, e sono cose che dipenderanno e deriveranno dall’arte e dall’intelletto. [c] CLIN. Perché non sarebbe esatto quel nome? ATEN. Essi intendono dire col nome ‘natura’ la generazione relativa alle prime realtà; ma se risulterà essere prima l’anima e non il fuoco, né l’aria, ma appunto l’anima esser venuta ad essere fra le prime realtà, direi che si affermerebbe nel modo più corretto che l’anima è, più che mai, per natura. Sarà così tutto ciò se si possa dimostrare che l’anima è più vecchia del corpo, altrimenti, in nessun modo. CLIN. E’ verissimo quello che dici. ATEN. Allora, dopo di ciò, dobbiamo accingerci proprio a quanto [d] abbiamo detto? CLIN. Senz’altro. ATEN. Stiamo in guardia di fronte a un discorso del tutto ingannevole, che cioè, essendo nuovo alle nostre orecchie, in qualche modo non inganni noi che siamo vecchi e, facendoci sfuggire di mano l’argomentazione, ci copra di ridicolo, e appariamo così come chi, per voler cose troppo grandi, perde anche le piccole. Vedete dunque. Facciamo come se dovessimo noi tre attraversare un fiume dalla corrente veloce, e io, il più giovane di noi e esperto di molte cor-[e] renti d’acqua, dicessi che prima è giusto che provi io da solo, lasciando voi al sicuro, provi a vedere se la corrente è attraversabile anche da voi più vecchi, o come è comunque, e, risultata possibile, allora vi chiami e vi aiuti ad attraversare con l’esperienza già fatta, ma, se fosse insuperabile per quelli come voi, limiti così a me solo il rischio; se dicessi così, apparirei fare una proposta sensata. E anche ora il discorso che sta per essere fatto è troppo duro e forse invalicabile alle vostre forze, direi. Temendo dunque che il discorso metta in voi stordi-[893a] mento e vertigini, travolgendovi e ponendovi domande cui non siete abituati a rispondere, e non generi in voi un senso spiacevole di sconvenienza e di inadeguatezza, mi sembra che io debba ora far così, e cioè prima di tutto che io rivolga le domande a me stesso, mentre voi le ascoltate al sicuro, e poi che io stesso ancora mi risponda, e condurre così tutto il discorso finché non sia esaurito l’argomento dell’anima, e dimostri che è stata prima del corpo. CLIN. Mi sembra che tu abbia detto benissimo, ospite. Fa come dici.
[b] VI. ATEN. Cominciamo. Se è giusto che mai noi chiamiamo in aiuto la divinità in qualche momento, avvenga ora così; siano chiamati con ogni attenzione e tutto l’impegno in aiuto gli dèi nella dimostrazione della loro esistenza, attacchiamoci a loro come ad una corda sicura e inoltriamoci nel discorso di ora. Ed in me che su questo tema sono oggetto della confutazione con queste domande, a me sembra che sia più sicuro, nel modo più certo, dare queste risposte. Quando uno dice: "Ospite, tutto sta e nulla si muove? O è vero tutto il contrario di questo? Oppure qualche cosa si muove e qualche cosa sta, di quelle cose?", quando uno dice così, dirò [c] io: "Qualche cosa si muove qualche cosa sta, in qualche posto". "E non è vero che quello, che sta, sta in un certo spazio, e quello che si muove, si muove in un certo spazio?". "Come no?". "E alcune cose faranno ciò in una sola sede, altre in molte?". E noi diremo: "Intendi parlare delle cose che hanno la potenza delle cose che stanno immobili nel loro centro e dici che si muovono in un solo luogo, nello stesso modo in cui si volge la periferia dei cerchi che si dicono star fermi?". "Sì, sappiamo che in questo moto circolare un moto siffatto fa muovere insieme il cerchio maggiore [d] e quello minore, e questo stesso moto si distribuisce in modo proporzionale ai cerchi piccoli e a quelli più grandi ed è, proporzionalmente alla grandezza dei cerchi, minore o maggiore. E’ qui perciò che si è avuta la fonte di tutti quei fatti meravigliosi che avvengono appunto quando lo stesso moto fornisce velocità più lente o più rapide, proporzionali ai cerchi grandi e piccoli, fatto che, a quando uno potrebbe attendersi, sembrerebbe impossibile come affezione di detti cerchi". "E’ verissimo quello che dici". "E quanto a ciò che si muove in molti luoghi, mi pare tu dica che sono tutte quelle cose che muovendosi con un moto di traslazione passano sempre in un altro luogo, e talvolta sono dotate di un passo che si ap-[e] poggia sulla base di un solo centro, talvolta di molti centri a causa del loro rotolare. E ogni volta che si incontrano, ciascuna con ciascuna, se incontrano corpi fermi, si dividono, e se invece incontrano altre cose che vengono avanti e si muovono da opposta direzione, riunendosi in un unico corpo, si combinano in composti di siffatti enti, e i composti stanno in mezzo, intermediari, fra questi". "Dico infatti che le cose stanno proprio così come tu dici". "Combinandosi, danno luogo a un composto di volume maggiore di ciascun componente, dividendosi, il volume di ciascuno diminuisce, e tutto ciò allorché sopravviva la condizione di ciascuno [894a] costituita ed originaria; quando invece questa vien meno, essi scompaiono distrutti in ambedue i casi, per l’una o per l’altra causa. In occasione di quale affezione dunque avviene la generazione di ciascuna cosa? E’ evidente che ciò avviene quando un principio acquista un incremento quantitativo e poi giunge alla seconda trasformazione, e da questa a quella che immediatamente le è prossima, finché, giunto così alle tre dimensioni, acquista la capacità di fornire sensazioni di sé a tutti quelli che sono dotati della sensibilità. Tutto quindi nasce così attraverso la trasformazione e il moto da uno stadio all’altro; ed è realmente esistente quando permane, ma totalmente si corrompe e muore quando si trasforma in un’altra natura e condizione". Abbiamo detto così [b] tutti i moti in modo da coglierli nelle loro specie e da enumerarli, amici, salvo, direi, due di essi? CLIN. Quali due? ATEN. Direi, mio caro, che sono quei due per i quali tutta la nostra presente ricerca vien fatta. CLIN. Sii più chiaro. ATEN. Non era fatta per l’anima? CLIN. Sì. ATEN. Di queste due specie di moto l’uno sia dunque quello che può muovere altro ma non se stesso, ed è sempre una stessa specie di moto; l’altro sia il moto che sempre può muovere se stesso e altre cose secondo combinazioni, divisioni, accrescimenti, diminuzioni e generazioni e corruzioni. Anche tutto ciò [c] forma una sola specie di moto distinta da tutti gli altri. CLIN. Sta bene così. ATEN. E allora porremo il moto, uno di questi due, che sempre muove altro e da altro viene modificato, come nona specie di moto, e quello che muove se stesso e gli altri e che si confà a tutto ciò che vien fatto e subìto, e si chiama veramente ‘modificazione e moto di tutte le cose che sono’, questo moto diremo che costituisce, possiamo affermarlo, la decima specie. CLIN. Senza dubbio. ATEN. Di questi die-[d] ci tipi di moto, quale potremmo soprattutto prescegliere come il più forte e il più attivo di tutti, scegliendo nel modo più corretto? CLIN. Mi pare che il moto che può muovere se stesso sia necessario dire che è infinitamente superiore e che tutti gli altri sono da posporre ad esso. ATEN. Sì, dici bene; ma fra le cose sbagliate che noi ora abbiamo detto non ne dobbiamo correggere una o due? CLIN. Quale dici? ATEN. Che quel moto di cui ho parlato è la decima specie, questo forse non è stato detto in modo corretto. CLIN. Perché? ATEN. Perché è la prima, in proporzione, non solo per la sua origine ma anche per [e] la sua forza. E dopo di questo abbiamo come secondo, dopo di lui, quello che poco fa in modo assurdo abbiamo detto nono. CLIN. Come dici?
VII. ATEN. Ecco. Quando una cosa ne modifica un’altra e questa un’altra ancora e così di seguito, fra queste ci sarà un primo che modifica? E se una cosa è mossa da un’altra, come potrà mai essere questa come prima cosa fra le cose che modificano? E’ impossibile. Ma quando ciò che muove se stesso modifica anche l’altro da sé e questo un’altra cosa, [895a] e di seguito le cose mosse divengono migliaia sopra decine di migliaia, di numero infinito, forse c’è altro principio di tutto il moto di tutte se non quella modificazione propria del moto che ha mosso se stesso? CLIN. Hai detto benissimo, bisogna convenire con queste cose. ATEN. Diciamo ancora questo, e di nuovo rispondiamo a noi stessi: "Se, come osano dire la maggior parte degli uomini siffatti, tutte le cose fossero venute ad essere insieme e fossero in quiete, quale dei moti elencati di necessità è venuto ad [b] essere in esse come primo moto? Quello certamente che muove se stesso; non potrebbe infatti ricevere mai alcun mutamento anteriormente da un altro poiché in quelle cose non vi era alcuna precedente trasformazione. Il principio quindi di tutti i moti, il primo moto che è venuto ad essere sia nelle cose in quiete sia nelle cose in moto, il moto che muove se stesso, diremo che necessariamente è il più vecchio e il più potente di tutti i mutamenti, e che quello la cui modificazione dipende da altro, e che muove altro, viene dopo di quel primo". CLIN. E’ veris-[c] simo quello che dici. ATEN. Ora che siamo giunti a questo punto, dunque, del discorso, rispondiamo a questa domanda. CLIN. Quale? ATEN. Se noi vedessimo un mutamento come questo avvenire in ciò che è fatto di terra, d’acqua, di fuoco, separato o mescolato, quale affezione diremo mai esservi in tale cosa? CLIN. Forse mi domandi se diremo che vive questa cosa quando muove se stessa? ATEN. Sì. CLIN. Vive, come no? ATEN. Ma allora? Quando vediamo che qualche cosa ha l’anima, forse è cosa diversa o la stessa cosa? Non bisogna convenire che [d] vive? CLIN. Non altro. ATEN. E allora fermati, per Zeus; ti rifiuteresti di pensare tre cose per ciascuna cosa? CLIN. Come dici? ATEN. Una è il suo essere, una è il discorso che dà la definizione del suo essere, una è il nome; e poi che su ogni cosa che è si possono porre due interrogazioni? CLIN. Quali due? ATEN. Qualche volta ciascuno di noi, io dico, proponendo il solo nome di una cosa domanda la definizione, qualche volta proponendo la sola definizione domanda il nome della cosa. E’ questo che vogliamo dire ora? CLIN. Che cosa? [e] ATEN. Essere diviso per due è possibile in altre cose e anche nel numero. Quando è nel numero questo fatto si chiama ‘pari’ e la definizione è ‘numero diviso in due parti uguali’. CLIN. Sì. ATEN. E’ questo che voglio dire. Noi non indichiamo forse in ambedue i modi la stessa cosa, sia che diamo il nome se siamo richiesti sulla definizione, o diciamo questa se la domanda è sul nome, dicendo e chiamando la stessa cosa, col nome, ‘pari’ e, con la definizione, ‘un numero diviso per due’? CLIN. Certamente. ATEN. Quale è la definizione di ciò che ha nome ‘anima’? [896a] Ce n’è un’altra, che noi abbiamo da dire, oltre a quella che è stata data or ora, ‘ il moto che può muovere se stesso’? CLIN. Dici che ha come definizione il ‘muovere se stesso’ quel medesimo essere che noi tutti chiamiamo col nome ‘anima’? ATEN. Lo dico. E se è così forse che ancora rimarremo col rimpianto di non aver avuto una sufficiente dimostrazione che l’anima è la stessa cosa che la prima generazione e il primo moto delle cose che sono, che sono state e che saranno e di tutto ciò che vi è di opposto a [b] queste determinazioni, poiché ci è risultata causa per tutte le cose di ogni moto e trasformazione? CLIN. No, ma è stata data dimostrazione nel modo più sufficiente che l’anima è la cosa più antica di tutte, perché è risultata il principio del moto. ATEN. Non è vero quindi che il moto che viene ad esser in altro da sé a causa di altro, e che mai a nulla fornisce il muovere se stesso in se stesso, viene dopo, al secondo posto, o più indietro ancora di tanti posti, di quanti numeri uno potrebbe voler contarlo come il più arretrato, poiché in realtà è il moto di modificazione proprio dei corpi inanimati? CLIN. Giusto. ATEN. Giustamente allora e assolutamente nel modo più vero e più completo [c] avremmo detto che l’anima per noi è venuta ad essere prima del corpo, e il corpo secondo e successivamente e che, poiché l’anima guida e comanda, il corpo per natura è guidato e comandato da lei. CLIN. E’ verissimo.
VIII. ATEN. Noi ricordiamo che prima abbiamo convenuto che se ci fosse risultato essere l’anima precedente in ordine di tempo al corpo, anche tutto ciò che è dell’anima sarebbe precedente in ordine di tempo a tutto ciò che è del corpo. CLIN. Sì, senza eccezione. ATEN. I costumi, le indoli, le volizioni, i ragionamenti, le opinioni vere, le [d] previsioni e i ricordi sarebbero venuti all’essere prima della lunghezza dei corpi, della larghezza, della profondità, della forza, se fosse venuta all’essere anche l’anima prima del corpo. CLIN. Di necessità. ATEN. Dopo di ciò non è necessario convenire quindi che la causa del bene e del male, del bello e del brutto, del giusto e dell’ingiusto e di tutti i contrari è l’anima, sempre se noi porremo l’anima come causa di tutte le cose? CLIN. Certamente. ATEN. E l’anima che amministra e regge e inerisce a tutto ciò [e] che d’ogni parte si muove, non è necessario dire che amministra e regge anche il cielo? CLIN. Sicuro. ATEN. Un’anima o più anime? Più di una, risponderò io per voi. Non poniamone certo meno di due, quella che opera il bene e quella che può operare il male. CLIN. Hai detto in modo giustissimo. ATEN. Sia così. L’anima conduce tutte le cose del cielo, della terra, del mare, le muove con [897a] i moti che le sono propri e che hanno nome: ‘volere’, ‘esaminare’, ‘prevedere’, ‘decidere’, ‘opinare’ nel vero e nel falso, ‘godendo’ e ‘soffrendo’ nel ‘coraggio’ e nella ‘paura’, con ‘odio’ e con ‘amore’, con tutti i moti congeneri a questi, cioè i moti primi che assumono sotto di sé i secondi, dei corpi, e guidano ogni cosa a crescere e a diminuire, a dissolversi ed a comporsi e a ciò che segue a queste affezioni: calore e gelo, pesantezza e levità, durezza [b] e docilità, il bianco e il nero, l’aspro e il dolce, tutto ciò di cui ancora l’anima si serve e sempre quando si allea all’intelletto, che è un dio e tale è ritenuto correttamente dagli dèi, dirige tutto alla perfetta rettitudine e alla felicità, quando invece si accoppia alla stoltezza compie e realizza tutto ciò che v’è di opposto. Dobbiamo affermare che le cose stanno così, oppure ancora dubitiamo se sia in qualche modo diversamente? CLIN. In nessun modo. ATEN. Qual è il genere dell’anima che dobbiamo affermare esser divenuto signore del cielo, della terra, e di tutta la [c] rivoluzione dell’universo? L’anima intelligente e piena di virtù, o quella che non possiede né l’una né l’altra cosa? Volete che rispondiamo a questa domanda in questo modo? CLIN. E come? ATEN. Se tutto il cammino del cielo, diciamo, straordinario uomo, e insieme tutto il moto di traslazione di esso e di tutto ciò che è in esso ha natura simile al moto, allo sviluppo circolare e ai calcoli dell’intelletto, se procede con moto ad esso congenere, è chiaro che bisogna dire che è l’anima migliore che cura l’universo intero e lo conduce per una via siffatta. CLIN. E’ esatto. [d] ATEN. Se invece esso procede con moto folle e disordinato l’anima deteriore lo conduce. CLIN. Anche questo è esatto. ATEN. Quale natura ha dunque il moto dell’intelletto? Ormai è difficile, amici, rispondere a questa domanda e parlare assennatamente; è ora giusto però che vi aiuti anch’io, prendendo per me la risposta. CLIN. Dici bene. ATEN. Non facciamo come quelli che, guardando il sole dirimpetto, si fanno scendere la notte a mezzogiorno, non facciamo così la risposta come se mai potessimo con occhi mortali vedere e conoscere in modo adeguato la mente; [e] è più sicuro guardare osservando un’immagine dell’oggetto su cui è la domanda. CLIN. Come dici? ATEN. Prendiamo come immagine quella di quei dieci moti cui assomiglia la mente. Ve lo ricorderò io e risponderò insieme a voi alla domanda di prima. CLIN. Faresti benissimo rispondendo così. ATEN. Di tutto ciò che fu detto allora ci ricordiamo ancora questo almeno, e cioè che abbiamo stabilito che di tutte le cose alcune si muovono, altre sono in quiete? CLIN. Sì. ATEN. E che di quelle in moto [898a] abbiamo detto alcune muoversi in un solo luogo, e spostarsi altre per molti CLIN. E’ così. ATEN. Di questi due moti, quello che si sposta in un solo luogo è necessario si muova sempre intorno a un centro ed è a imitazione dei cerchi lavorati al tornio; è questo anche che da ogni punto di vista e quanto più è possibile è vicino e assomiglia al moto circolare dell’intelletto. CLIN. Come dici? ATEN. Se diciamo che l’intelletto e il moto che si muove e si sposta in un solo luogo, ambedue si muovono secondo le stesse relazioni, identicamente, nel medesimo posto, intorno allo stesso centro, nel medesimo verso, secondo una [b] stessa proporzione e uno stesso ordine, rappresentando come fedele immagine i moti di traslazione della sfera al tornio, non appariremmo mai cattivi artefici nel fare belle immagini con il discorso. CLIN. E’ giustissimo quello che dici. ATEN. E allora il moto che non è mai lo stesso, mai secondo le stesse relazioni, mai nello stesso luogo, né intorno allo stesso centro, né nella stessa direzione, che non avviene spostandosi in un solo luogo, senza armonia, ordine e proporzione sarà dunque congenere della completa [c] stoltezza. CLIN. E’ verissimo che lo sarebbe. ATEN. Ora non è più per nulla difficile dire espressamente che, poiché l’anima secondo noi guida tutto l’universo nel suo moto circolare, bisogna asserire che il moto ciclico del cielo deve essere di necessità condotto, o sotto la sorveglianza e l’ordinamento dell’anima ottima, o di quella ad essa opposta. CLIN. Da quanto ora è stato detto, ospite, non è più neppure cosa pia dire altrimenti che affermando che nel suo ciclo il cielo è guidato o da un’anima dotata di ogni virtù, o da [d] molte anime così. ATEN. Benissimo, Clinia, hai seguito i discorsi; ascolta ancora questo. CLIN. Che cosa?
IX. ATEN. Se l’anima muove in giro il sole, la luna e le altre stelle, tutti questi astri, non muove anche ciascuno di questi in particolare? CLIN. Senza dubbio. ATEN. Facciamo i nostri discorsi su di uno ed essi ci risulteranno adattarsi anche a tutti gli astri. CLIN. Quale? ATEN. Ogni uomo vede il corpo del sole, nessuno ne vede l’anima, né vede l’anima infatti di nessun altro corpo d’animale, [e] sia vivo che morto. Abbiamo molte ragioni però di supporre e di attenderci che questo genere dell’anima sia per noi tale che del tutto sfugga naturalmente a tutti i sensi del nostro corpo e sia conoscibile solo per via d’intelletto. Usiamo quindi il solo intelletto e il solo pensiero per comprendere questo su di esso. CLIN. Che cosa? ATEN. Se un’anima conduce il sole, non sbaglieremo, credo, dicendo che essa fa una di queste tre cose. CLIN. Quali? ATEN. O inerisce al corpo rotondo e visibile del sole e lo trasporta attraverso ogni luogo come l’anima che è in noi ci trasporta [899a] in giro in ogni luogo; o, procurandosi da qualche parte esternamente al sole un corpo di fuoco o d’aria, di forza sospinge il sole, come alcuni sostengono, corpo con corpo; o, terzo, essa stessa, essendo priva di corpo, lo muove e lo fa andare, possedendo certe altre facoltà ancora più straordinarie. CLIN. Sì, questo è necessario, che l’anima cioè facendo una di queste cose conduca e guidi il tutto. ATEN. Ognuno deve credere che quest’anima è qualche cosa di più del sole; sia che porti la sua luce a tutti tenendolo secondo noi in un carro, sia che dal di fuori lo spinga, sia che comunque essa agisca e dovunque su di lui, ognuno deve ritenere che è una divinità. Che altro? CLIN. Sì, [b] colui almeno che non sia giunto all’ultimo grado della stoltezza. ATEN. Così su tutte le stelle e la luna, gli anni i mesi e tutte le stagioni, quale altro discorso diremo se non questo stesso, e cioè che, poiché un’anima o molte anime apparvero cause di tutte queste cose, anime buone per ogni virtù, le diremo divinità esse stesse, sia che stiano celate nei corpi, come esseri viventi, e così danno ordine a tutto il cielo, sia in qualche altro luogo e modo? C’è qualcuno che convenendo in queste cose oserà ancora sostenere che tutte le cose non sono piene degli dèi? CLIN. [c] Non ci può essere nessuno tanto pazzo, ospite. ATEN. Ebbene, Clinia e Megillo, per colui di cui si è parlato fin qui e che non crede negli dèi abbiamo stabilito certi termini, ed ora allontaniamoci. CLIN. Quali? ATEN. O insegnarci che commettiamo errore nel porre l’anima origine e generazione di tutte le cose e in tutte le altre cose che abbiamo detto ne seguono, oppure, non potendo dire nulla di meglio di noi, credere a noi e vivere tutta la vita restante [d] credendo agli dèi. Vediamo dunque se in modo sufficiente abbiamo ormai detto che gli dèi esistono a coloro che non credono agli dèi, o in modo manchevole. CLIN. Non manca in nulla, ospite.
X. ATEN. Quanto ad essi, dunque, sia posta fine a questi nostri discorsi. Ora dobbiamo esortare chi crede che gli dèi esistano ma trascurino le cose umane. Diciamogli: "Caro, tu credi agli dèi e perciò forse ti porta una divina comunanza di genere ad onorare ed a credere all’esistenza di ciò che ti è connaturale. Ma le sorti di uomini malvagi [e] ed ingiusti, le loro fortune pubbliche e private in verità non felici ma nelle opinioni dei molti troppo ritenute tali, se pure in modo sconveniente, ti portano verso l’empietà, fortune cui si inneggia erroneamente nelle poesie e in ogni sorta di discorsi. Oppure tu stesso, forse vedendo uomini vecchi, che giungono alla fine della vita, lasciare dietro [900a] di sé i figli dei figli sollevati ai più grandi onori, ora sei turbato, vedendo tutto questo, sia che ciò tu conosca per sentito dire, sia che assolutamente tu stesso abbia con i tuoi occhi veduto, e incontrato, qualcuna delle molte e terribili empietà che avvengono, grazie alle quali proprio quelli giungono alle tirannidi e alle più grandi fortune muovendo da umili condizioni. E’ chiaro allora da tutto ciò che, a causa dell’unità di genere tu non volendo biasimare e accusare gli dèi di essere causa di quelle ingiustizie, portato dalla sragionevolezza ed insieme non potendo di-[b] sapprovare gli dèi, sei giunto a questa affezione in cui sei ora, sì da credere alla loro esistenza, ma anche che disprezzino e trascurino le cose umane. Affinché dunque la tua presente opinione non pervenga in te ad una maggiore affezione di empietà, e se in certo modo invece possiamo divenir capaci di respingere coi nostri discorsi l’affezione stessa che ti sta assalendo, proviamo, collegando il discorso che subito seguirà a quello che abbiamo svolto fino in fondo dal suo principio contro colui che non crede [c] affatto agli dèi, a farne uso ora". Tu Clinia, e tu, Megillo, come nei discorsi precedenti prendete il posto di questo giovane rispondendo e, se qualcosa di difficile e spiacevole verrà a cadere in questi discorsi, io, come poco fa, prendendo il vostro posto vi farò passare il fiume. CLIN. Hai ragione; tu fa così queste cose e noi faremo per quanto potremo quello che dici tu. ATEN. Ma forse non sarebbe per nulla difficile mostrare questo e cioè che gli dèi curano le cose umane, non meno le piccole, anzi di più, [d] che le molto grandi. Il giovane, direi, infatti udiva ed era presente ai discorsi che noi facevamo poco fa, e cioè che gli dèi, essendo buoni di ogni virtù, posseggono e tengono in loro mano quella cura di tutte le cose che è per loro la responsabilità più vicina alla loro natura. CLIN. E sentiva di sicuro bene. ATEN. Esaminino insieme a noi dunque, dopo di quel che si è detto, quale è la virtù di cui li diciamo in possesso quando conveniamo che sono buoni. Suvvia, essere saggio e temperante e possedere l’intelletto diciamo che appartiene alla virtù, e al vizio i [e] loro contrari? CLIN. Sì, lo affermiamo. ATEN. Ebbene? Il coraggio appartiene alla virtù e al vizio la viltà? CLIN. Senza dubbio. ATEN. E così di queste qualità le une diremo brutte, belle le altre? CLIN. Necessariamente. ATEN. E non diremo che, di queste, tutte le qualità deteriori si addicono a noi, se mai si addicono a qualcuno, ma gli dèi non ne partecipano né molto né poco? CLIN. Ognuno, su queste cose, converrebbe così. ATEN. Ebbene? La negligenza, l’ozio, la mollezza le porremo nella virtù dell’anima o come dici? CLIN. E come potrebbero? ATEN. Nel contrario, invece? CLIN. Certamente. ATEN. [901a] Le qualità contrarie a queste sono quindi nel contrario? CLIN. Nel contrario. ATEN. E allora? Ognuno che sia molle, negligente, ozioso, e che il poeta diceva quanto mai simile ai fuchi senza pungiglione, non risulterà tale anche a noi? CLIN. E diresti benissimo. ATEN. Non bisogna dire dunque che la divinità ha questo costume che essa stessa ha in odio, né lo si dovrà permettere a chi si attenta a dire qualcosa di simile. CLIN. No certamente. [b] E come si potrebbe? ATEN. E colui cui si addice fare e curare in modo eminente qualcosa, e il suo intelletto si rivolge a presiedere solo agli aspetti più importanti di quella cosa e trascura i minori, un uomo siffatto con qual discorso potremmo lodarlo senza sbagliare del tutto? Vediamo in questo modo. Non è vero che sulla base di due aspetti agisce, come si è detto, chi agisce, sia un dio o un uomo? CLIN. Quali diciamo che sono i due? ATEN. O perché pensa che non ha nessuna importanza per il [c] complesso della cosa trascurare gli aspetti minori, o perché, pur riconoscendone l’importanza, egli li trascura per indolenza e mollezza. Ed è possibile che si produca in qualche altro modo la negligenza? Perché, direi, non quando è impossibile provvedere a tutto, allora ci sarà negligenza delle cose piccole o grandi per colui che non cura ciò in relazione a cui manca di potenza e non è in grado di provvedere, sia un dio o un uomo debole e incapace. CLIN. E come, infatti?
XI. ATEN. Rispondano adesso che sono due, a noi tre, [d] quei due che ambedue convengono nell’esistenza degli dèi, ma l’uno li vuole influenzabili, l’altro irresponsabili delle piccole cose. "Voi due prima di tutto riconoscete che gli dèi conoscono vedono sentono tutto, nulla che sia sensibile e conoscibile è possibile sfugga a loro; dite che le cose sono così, o come?". CLIN. "Così". ATEN. "Ebbene? Possono fare anche tutto ciò di cui vi è potenza presso i mortali e gli immortali?". CLIN. E come non sarebbero d’accordo che anche queste cose sono così? [e] ATEN. Abbiamo anche detto e convenuto tutti e cinque che sono buoni ed ottimi. CLIN. E di certo. ATEN. E dunque, se sono tali quali conveniamo che siano, non è impossibile convenire che facciano qualsiasi cosa, assolutamente, con mollezza e indolenza? L’ozio infatti è in noi figlio della viltà e l’indolenza dell’ozio e della mollezza. CLIN. E’ verissimo quello che dici. ATEN. Quindi nessun dio è negligente per ozio e indolenza, infatti non partecipa della viltà. CLIN. Giustissimo quello che dici. ATEN. [902a] Allora rimane questo: se sono negligenti delle cose di minor importanza, e di poche cose di quelle relative al tutto, bisogna ammettere o che farebbero ciò perché conoscono che non devono assolutamente occuparsi di nessuna delle cose siffatte, oppure che cos’è che resta, salvo l’opposto del conoscere? CLIN. Non c’è altro. ATEN. E allora, carissimo e ottimo amico, diremo che tu affermi che sono ignoranti e per ignoranza trascurano ciò di cui pur debbono occuparsi, o che, pur conoscendo che devono farlo, come si dice che fanno i più vili fra gli uomini, i quali sanno che altro da ciò che fanno è meglio fare, non lo [b] mettono in pratica perché vinti dal piacere dal dolore? CLIN. E come può essere? ATEN. Le cose umane non partecipano dunque della natura animata e non è insieme l’uomo il più pio di tutti i viventi? CLIN. Par di sì. ATEN. Noi affermiamo che tutti i viventi mortali sono proprietà degli dèi e di quelli fa parte anche il cielo e l’universo. CLIN. Indubbiamente. ATEN. Si dica pure ora che queste cose hanno o non hanno grande importanza per gli dèi. [c] Infatti non si addice ai nostri signori, che sono i più attenti e i più retti, trascurarci né in un caso né nell’altro. Vediamo ancora questo infatti, oltre a quello che si è detto. CLIN. Che cosa? ATEN. Mi riferisco alle sensazioni e alle facoltà dell’anima. Non stanno per natura in modo opposto e in conflitto fra loro questi due generi di cose in relazione alla facilità e alla difficoltà? CLIN. Che vuoi dire? ATEN. E’ più difficile vedere e sentire le cose piccole che le cose grandi, mentre portare e dominare e curare le piccole e poche cose è più facile che non le molte e le grandi, [d] per ogni uomo. CLIN. E di molto, direi. ATEN. Supponiamo che a un medico sia comandato di curare un corpo, tutto intero, e che voglia e possa occuparsi delle grandi cose, ma si disinteressi delle arti e delle cose piccole: credi che quel corpo gli starà mai bene nella sua totalità? CLIN. In nessun modo. ATEN. E neppure qualcosa riuscirà bene per i piloti, gli strateghi, gli amministratori, per certi politici e nessun altro simile; lo stesso accade loro se separano le cose di grande numero e importanza dalle poche e piccole cose. Neppure infatti le grandi pietre stanno bene a posto insieme senza le piccole, dicono i [e] raccoglitori di sassi. CLIN. E come potrebbero? ATEN. Non valutiamo mai dunque gli dèi meno capaci degli artigiani mortali, i quali, relativamente alle opere che competono loro, di tanto sono migliori, quanto con una unica arte le elaborano più accuratamente e compiutamente negli aspetti fondamentali e secondari; e la divinità, che è il massimo della sapienza e vuole e può prendersi cura delle cose, non pensiamo che trascuri del tutto proprio quelle [903a] cose di cui è più facile prendersi cura, perché sono piccole, e si curi invece delle grandi, come un artefice ozioso o vile che lavora con negligenza per non affaticarsi. CLIN. Non accettiamo in noi in nessun modo mai questa concezione degli dèi, ospite; penseremmo in questo un pensiero in nessun modo né santo né vero. ATEN. Mi pare che la nostra disputa con l’attaccabrighe che si compiace di attribuire la negligenza agli dèi, sia stata ormai del tutto sufficiente. CLIN. Sì. ATEN. A costringerlo almeno a [b] forza di discorso a convenire che il suo discorso non è corretto; e mi pare che egli, oltre a ciò, abbia ancora bisogno di parole che lo possano incantare. CLIN. Di quali, amico mio?
XII. ATEN. Cerchiamo di convincere questo giovane con le nostre parole, mostriamo come colui che cura il tutto ha tutto disposto per la salvezza e la virtù dell’insieme di tutte le cose, delle quali anche ciascuna parte, per quanto più può, subisce e fa quello che le si addice. "A ciascuna di queste parti sono preposte ed ordinate divinità reggitrici che presiedono fino alla più piccola azione o passione, sempre, e ne realizzano fino all’estrema suddivisione la com-[c] piutezza del fine. Anche, tu, misero, sei una di queste e la parte che tu rappresenti sempre mira e tende al tutto, anche se infinitamente piccola, e su ciò a te sfugge che ogni nascer di vita avviene per questo, e cioè affinché nella vita del tutto sia presente un essere della felicità, e non per te viene ad essere quella generazione, ma tu per il tutto. E infatti ogni medico, ogni esperto artigiano compie ogni sua opera in funzione della totalità, e la parte egli compie, tendente quella a ciò che è il più grande bene [d] comune, in funzione del tutto, non il tutto in funzione della parte. E tu ti adiri perché ignori in qual modo ciò che ti accade risulta il maggior bene per il tutto e anche per te, e lo è per la forza della generazione comune. E poiché l’anima è sempre ordinata ora a questo ora a quel corpo, e a causa di sé o di un’altra muta ogni sorta di mutamento, null’altra opera resta da fare all’ordinatore, che gioca questa pettèia, se non trasferire in un luogo migliore l’indole divenuta migliore, e quella divenuta peggiore in uno peggiore, ciascuna secondo ciò che ad essa spetta, [e] affinché consegua il suo conveniente destino." CLIN. In qual modo dici? ATEN. Nel modo in cui sarà facile agli dèi presiedere a tutte le cose, in questo modo io penso di dire. Se infatti qualcuno, fissata come sua meta perenne il tutto, lavorasse plasmando e trasformando tutte le cose, e, per esempio, dal fuoco facesse acqua viva, e non traesse [904a] così le molte da una o una da molte, allora, avendo ricevuto le cose la prima o la seconda o la terza generazione, sarebbero di numero infinito gli ordinamenti mutati. Ma ora invece si dà una facilità meravigliosa di cui gode colui che cura il tutto. CLIN. Come dici ancora? ATEN. Così: poiché il nostro re osservò che tutte le azioni sono opera dell’anima, e in essa molta è la virtù e molto il vizio, e che, una volta venuto ad essere, l’essere dell’anima e del corpo è indistruttibile, ma non eternamente uguale a se stesso, come è la natura degli dèi secondo la legge (non ci sarebbe [b] più generazione di viventi se uno di questi due scomparisse), e pensò che l’anima per quanto è buona per sua natura è sempre utile, dannosa invece se malvagia: osservando tutto ciò trovò il mezzo per cui, essendo in un certo modo disposta ciascuna delle parti, essa potesse, nel tutto, del tutto rendere la virtù vittoriosa e il vizio sconfitto, e questo nel modo più facile e migliore. E così ha escogitato in relazione a questa totalità, in ogni occasione, di qual qualità venendo ad essere ciascuna anima, deve essa mutare luogo ed assumere per abitarvi una certa sede, e quale è questa, [c] e quali luoghi nei vari tempi. Ha lasciato però in potere delle volontà di ciascuno di noi i princìpi e le cause del fatto che qualcuno si generi di una certa qualità, e infatti per lo più ciascuno di noi, a seconda che desidera, e a seconda che è di una certa qualità riguardo all’anima, in questo modo, direi, e di questa qualità ogni volta diviene. CLIN. E’ verosimile. ATEN. Tutto ciò che ha l’anima si trasforma ed ha in sé la causa della trasformazione; trasformandosi si muove secondo l’ordine e la legge del destino. Se muta non di frequente negli aspetti minori del carattere, allora si sposta lungo la superficie dalla regione della terra, ma, se muta e cade più volte e per più aspetti, sì da aversi [d] cose più ingiuste, si avvia nel profondo e in quei luoghi detti ‘inferiori’, quanti gli uomini denominano col nome di ‘Hade’ e gli altri nomi simili a questi, e fortemente li temono e li vedono in sogno sia quando sono vivi, sia quando sono ormai sciolti dal corpo. E se l’anima attua in sé maggiori mutazioni, quando viene a partecipare della virtù e dal vizio, per la sua volontà e anche per una forte relazione che avvenga con qualcuno, quando si congiunge alla virtù divina e diviene in modo eminente divina essa stessa, lascia il luogo che occupava per andare in uno emi-[e] nentemente diverso e totalmente santo, e viene trasportata appunto in un’altra sede migliore; quando avviene l’opposto sposta la sede della sua vita in luoghi opposti. "Questa è la sentenza degli dèi che risiedono nell’Olimpo", o figlio, ragazzo che ti credi abbandonato dagli dèi; chi diventa peggiore va dove sono le anime peggiori, chi diventa migliore dove sono le anime migliori e in vita e in morte, in tutte le morti successive, il simile riceverà dal simile tutto ciò che si conviene all’uno di fare all’altro e [905a] così per quanto riguarda il fare del primo. Né tu mai né nessun altro sventurato, se tale venga ad essere, potrete vantarvi di sfuggire a questa giustizia degli dèi, giustizia posta al di sopra di tutte le giustizie dai suoi ordinatori e che gli uomini devono in modo assoluto evitare. Non ti trascurerà mai, nemmeno se tu fossi così piccolo da immergerti nelle profondità della terra, nemmeno se tu diventassi così grande da volare fino al cielo. Tu agli dèi pagherai la tua pena sia che tu rimanga qui, sia che tu scenda nel-[b] l’Hade, sia che sia portato in un luogo più selvaggio ancora di questi. Lo stesso discorso vale per te e per coloro dei quali fanno parte quelli che tu hai visto da piccoli divenuti grandi operando opere empie o similmente ingiuste, e li hai creduti divenuti felici da infelici che erano, e poi nei loro atti come in uno specchio hai creduto di aver visto la negligenza degli dèi verso tutte le cose, non [c] sapendo in qual modo mai il loro contributo si armonizza al tutto. E come puoi pensare, o di tutti il più temerario, che non ci si debba rendere conto di ciò? Chi ignora questo contributo divino non sarà mai in grado di vedere nei suoi caratteri generali il vivere degli uomini, né diverrà mai capace di portare il contributo del suo discorso sulla vita, in relazione alla felicità e alla cattiva sorte. Su queste cose se riesce a persuaderti Clinia, qui, e tutto questo senato di noi vecchi, che tu non sai quello che dici quando parli degli dèi, iddio stesso ti darebbe aiuto, ma, se tu abbia ancora bisogno di qualche discorso, ascoltaci mentre par-[d] liamo agli avversari della terza schiera, ascoltaci per quanto poco tu abbia di intelletto. Infatti, direi, per noi, di aver dimostrato, e non debolmente del tutto, che gli dèi esistono e si curano degli uomini. Ora, che gli dèi siano corrompibili dagli uomini ingiusti, accettando essi i loro doni, non dobbiamo concedere ad alcuno, e con ogni mezzo e nella misura delle nostre forze dobbiamo confutare". CLIN. Hai detto benissimo, facciamo come dici.
XIII. ATEN. Suvvia, per gli dèi stessi: in che modo [e] sarebbero da noi corruttibili se lo venissero ad essere. E quali di loro? O di quale natura sarebbero? E necessario che in qualche modo siano dei capi essi che reggono tutto il cielo in modo conveniente al fine. CLIN. Certo. ATEN. Ma a quali capi assomigliano? O quali assomigliano a loro? Capi che noi possiamo avere in sorte e confrontarli paragonando il piccolo al grande? Potrebbero essere a loro simili i guidatori delle bighe in gara, o i piloti delle navi? Potrebbero essere forse anche paragonati a duci di eserciti; sarebbe anche possibile assomigliassero ai medici che nei corpi montano la guardia contro la guerra delle malattie, [906a] o a agricoltori che attendono timorosi il ritorno consueto delle stagioni pericolose per la generazione delle piante, o ai pastori dei greggi. Ma poiché abbiamo detto concordemente a noi stessi che il cielo è pieno di molti beni ma anche degli opposti, in maggior numero però le cose che questi opposti non sono, una siffatta battaglia, diciamo, è immortale, e richiede straordinaria vigilanza; e gli dèi e i dèmoni insieme sono nostri alleati, e noi siamo una proprietà loro. L’ingiustizia e la stolta violenza ci perdono; ci [b] salvano la giustizia e la temperanza unita all’intelligenza, che ineriscono alle forze animate degli dèi; e che anche qui in ristretta misura in noi sono presenti cose siffatte si potrebbe vedere chiaramente. Alcune anime che vivono sulla terra e posseggono un ingiusto profitto e sono, è evidente, feroci, prosternandosi davanti alle anime dei cani custodi o a quelle dei pastori o a quelle dei più alti e assoluti padroni, con parole adulatrici e preghiere sedu-[c] centi, come dicono le voci dei disonesti, cercano di persuaderli che è permesso a loro, se si avvantaggeranno e prevarranno fra gli altri uomini, non subire nessuna difficoltà. E in certo modo noi diciamo che questo errore ora da noi nominato ‘il prevalere’, e nei corpi di carne chiamato ‘malattia’, nelle stagioni degli anni e negli anni stessi ‘peste’, questo stesso errore negli stati e nelle costituzioni si chiama, mutato nella dizione, ‘ingiustizia’. CLIN. E’ proprio del tutto così. ATEN. Questo discorso è neces-[d] sario dica chi sostiene che sempre gli dèi perdonano gli uomini ingiusti e i loro delitti, purché attribuiscano a loro una parte dei frutti dei delitti, come se i lupi dessero ai cani una piccola parte della preda, e i cani, addomesticati dai doni, dessero via libera alla rapina del gregge. Non è questo il discorso di coloro che affermano che gli dèi si lasciano corrompere? CLIN. Questo.
XIV. ATEN. A quali dei capi enumerati prima qualsiasi uomo potrebbe paragonare ed affermare essere simili cu-[e] stodi gli dèi, senza divenire ridicolo? Ai piloti delle navi che perdono la rotta per un sorso di vino, quanto ne occorre a una libazione, e per l’odore della carne della vittima, travolgendo nave e naviganti? CLIN. No assolutamente. ATEN. Ma neanche ai guidatori dei carri in gara che, una volta già allineati, si lasciano persuadere con doni a passare la vittoria ad altri equipaggi. CLIN. Dicendo questo discorso diresti un’immagine terribile. ATEN. E neppure agli strateghi, ai medici, agli agricoltori, neppure ai pastori, neppure ai cani che qualche volta si sono lasciati [907a] allettare dai lupi. CLIN. Parla più rispettosamente. Come si possono pensare queste cose? ATEN. Ma non sono gli dèi i più nobili fra tutti i custodi, non sono tutti gli dèi responsabili dei più grandi compiti presso di noi? CLIN. Molto più di tutti gli altri. ATEN. Potremmo ammettere che i custodi degli aspetti più nobili della realtà, coloro la cui vigilanza è superiore a tutte per valore, valgano meno dei cani e degli uomini mediocri che non tradirebbero mai la giustizia per doni ampiamente offerti da uomini ingiusti? [b] CLIN. In nessun modo; è un discorso fra tutti intollerabile. Corre il rischio, chiunque fa sua questa opinione, di essere giudicato nel modo più giusto il più perverso e il più empio fra tutti gli empi carichi di ogni empietà. ATEN. Possiamo dire ora di aver dimostrato in modo sufficiente tutte le tre cose che ci siamo proposti e cioè che gli dèi esistono, che si occupano delle cose umane e che non sono assolutamente corruttibili ad andare oltre la giustizia? CLIN. Come no infatti? Noi votiamo insieme per questi discorsi. ATEN. Sono stati detti con una certa veemenza a causa del desiderio di vincere quegli uomini malvagi. [c] Ecco perché, caro Clinia, nelle mie parole c’era l’ambizione della vittoria, perché quelli, i malvagi, non pensassero neanche un momento di battermi nei discorsi e così di avere libertà di fare ciò che vogliono per tutte quelle cose che pensano degli dèi, nella quantità e nella qualità, in cui le pensano. Per questo è nato in me uno slancio un po’ troppo giovanile ai discorsi. E se almeno di un po’ siamo riusciti a far opera utile a persuadere quegli uomini a odiare se stessi, ad amare l’indole ed il costume in qualche modo opposto a loro, allora potremmo affermare di aver [d] detto bene il proemio alle leggi contro l’empietà. CLIN. Se non altro ce lo auguriamo. In caso contrario il genere del discorso non darà biasimo al legislatore.
XV. ATEN. Dopo il proemio dunque venga correttamente un discorso tale che ci sia interprete delle leggi, e proclami esso a tutti gli empi di abbandonare il loro costume di vita per rivolgersi verso i pii. Ma per coloro che non obbediranno sia questa la legge sull’empietà: Se qualcuno [e] commette empietà nelle parole o nelle opere, chi vi si imbatte difenda la legge e lo denunci ai magistrati; i magistrati che per primi ne avranno notizia lo portino davanti al tribunale designato a giudicare su questa materia secondo le leggi. Se, pur avendo ascoltato la denuncia, un corpo di magistrati non procede contro il colpevole, sia incriminato per delitto di empietà da chiunque vuole vendicare le leggi. Se qualcuno è riconosciuto colpevole il tribunale fisserà una pena particolare per ogni colpevole riconosciuto tale di empietà e per ciascun fatto; pena fondamentale [908a] sia il carcere per tutti. Nel nostro stato ci saranno tre carceri; uno presso il mercato, comune alla maggior parte dei criminali, carcere che avrà la funzione di assicurare la custodia della maggior parte delle persone fisiche dei delinquenti, un secondo presso il luogo della riunione dei magistrati che si radunano di notte, chiamato sophronistèrion, e un terzo al centro della regione, in un qualsiasi posto dove il luogo sia deserto e selvaggio al massimo grado possibile, e porterà per denominazione una qualche parola che indichi la punizione. E poiché le cause di empietà [b] sono di tre specie, come abbiamo anche esposto, e poiché da ciascuna di queste cause ne risultano due, saranno sei i generi, degni di suddivisione, di coloro che sbagliano relativamente alle cose divine, e richiedono una punizione che per tutti non sia uguale né simile. Quell’uomo, infatti, cui, non credendo egli assolutamente all’esistenza degli dèi, si sia di più aggiunta un’indole giusta e congenerata, lui e gli altri come lui vengono ad odiare i disonesti, e per la loro insofferenza dell’ingiustizia non si permettono di [c] compiere siffatte azioni e fuggono gli uomini che siano ingiusti, amano i giusti. Ma ce ne sono altri cui, oltre al pensare tutta la realtà priva di dèi, cade addosso in aggiunta l’intemperanza di piaceri e dolori; e sono dotati di robusta memoria e acuta conoscenza nell’apprendere. Gli uni e gli altri sono affetti, come dalla medesima affezione comune, dal non credere agli dèi, ma, per quanto riguarda il danno che fanno agli altri uomini, l’affezione degli uni opererà dei mali minori, quella dei mali maggiori. E infatti l’uno sarà, quanto al discorso, pieno di libertà di parola sugli dèi, [d] i sacrifici e i giuramenti e, se non fosse punito, forse col ridere degli altri potrebbe rendere altri come lui, ma l’altro pensa come il primo, e, d’altra parte, è stimato uomo di spirito, pieno di astuzia, ingannatore, e con gente come questa si preparano molti indovini e gente che si agita in tutta la magia, e qualche volta ne derivano anche tiranni, demagoghi, capi militari ed individui che hanno ordito la celebrazione di misteri privati, e gli artifici dei cosiddetti [e] sofisti. Sarebbero molte quindi queste specie di empi, ma quelle degne di legislazione sono due, delle quali l’una è quella ironica e dissimulatrice e che commette errori che sono degni di morte non una volta sola, né due, ma di più ancora, l’altra che richiede l’ammonizione e insieme il carcere. Ci sono parimenti altre due specie della empietà che genera il pensare gli dèi negligenti degli uomini, e altre due il pensarli corruttibili. Premessa noi questa distinzione [909a] di queste cose, il giudice collocherà nel sophronistèrion coloro che sono divenuti tali per stoltezza, ma non per malvagità del sentimento e del costume e ve li collochi secondo la legge, per non meno di cinque anni; durante questo tempo nessun altro dei cittadini li frequenti, salvo i magistrati che fanno parte del consiglio notturno ed essi si intratterranno con loro per ammonirli e salvare le loro anime. Quando sia passato per loro il periodo del carcere, se qualcuno di loro apparirà essere saggio, vada ad abitare coi saggi, ma in caso contrario, se in un modo siffatto sia giudicato colpevole ancora, sia condannato a morte. Tutti gli uomini che divengono selvaggi come fiere, oltre al [b] non credere negli dèi o al ritenerli negligenti o corruttibili, con il loro disprezzo degli uomini si impadroniscono dell’anima di molti di quelli che vivono e si vantano di saper evocare i morti e promettono di persuadere gli dèi allettandoli ciarlatanescamente con sacrifici preghiere e scongiuri, e intraprendono a scardinare dalle fondamenta individui famiglie intere e stati per avidità di ricchezza; per quello di questi uomini che risulti colpevole in giudizio stabilisca il tribunale, come prezzo della pena, che sia [c] rinchiuso nel carcere che sta nel mezzo del territorio, secondo la legge, e mai nessuno uomo libero avvicini questi carcerati, e il vitto definito dai custodi delle leggi ricevano dalle mani dei servi. Alla sua morte sia gettato insepolto fuori dai confini dello stato; e se un uomo libero collaborerà a seppellirlo sia perseguito da chi vuole, per empietà. Se uno di questi empi lascia figli adatti allo stato, i magistrati preposti agli orfani prendano cura anche di questi [d] come fossero orfani, li prendano in cura in modo per nulla inferiore agli altri, dal giorno in cui il padre loro è stato riconosciuto in giudizio colpevole di empietà.
XVI. Bisogna sia stabilita una legge comune per tutti costoro, la quale farà sì che la maggior parte di loro rechi meno offese agli dèi sia nell’opera che nella parola, e divengano meno stolti; e ciò mediante la proibizione di compiere alcun atto di culto fuori della legge. Sia stabilita questa legge per tutti semplicemente: Nessuno possegga santuari nelle case private. Quando a uno venga in mente di sacrificare vada a sacrificare nei luoghi sacri pubblici e consegni [e] le vittime ai sacerdoti e alle sacerdotesse cui è affidata la responsabilità della purità dei sacrifici stessi. Preghi egli stesso con loro, e chi egli vuole si associ alle sue preghiere. Ciò avvenga per questo: non è facile erigere templi e statue agli dèi; è proprio di un grande pensiero operare correttamente in queste cose. Ed è costume, delle donne specialmente, e di ogni genere di ammalati, e di quelli che sono in pericolo, e di quelli in difficoltà, qualunque sia la difficoltà di qualcuno, e all’opposto quando ottengono un qualche vantaggio, di consacrare ciò che hanno davanti in ogni [910a] occasione, e votano sacrifici, promettono statue agli dèi, ai demoni ed ai figli degli dèi, e, risvegliàti per il timore durante apparizioni e sogni, e parimenti ricordandosi delle molte visioni, e facendo per ciascuna di esse dei rimedi negli altari e nei santuari, ne riempiono tutte le case, tutti i borghi e costruiscono sia nei luoghi puri sia pur dove capita che si trovi una delle persone siffatte. E così, in ragione di tutte queste cose, bisogna fare secondo [b] la legge detta ora, e inoltre, per gli empi, affinché non facciano queste cose con azioni furtive, costruendo santuari e altari nelle loro case private, credendo di rendersi propizi gli dèi con sacrifici e preghiere nel segreto della casa, e affinché, aumentando essi così all’infinito l’ingiustizia, non attirino su di sé le accuse degli dèi e su quelli che li lasciano fare e sono migliori di loro, e così tutto lo stato, giustamente, in qualche modo non faccia il guadagno degli empi. La divinità non avrà nulla da rimproverare al legislatore. Infatti sia stabilita questa legge: Non si tengano cose sacre [c] agli dèi nelle case private. Se qualcuno è scoperto a tenere cose sacre o a celebrare cerimonie e misteri diversi da quelli dello stato, nel caso che il colpevole, uomo o donna, non abbia commesso ingiustizia alcuna di quelle che sono gravi ed empie, colui che se ne avvede lo denunci ai custodi delle leggi, i quali daranno ordine di trasportare gli oggetti sacri privati nei luoghi sacri pubblici, e se non obbedisce lo puniscano fino alla misura necessaria a che ne avvenga il trasporto. Se qualcuno è scoperto a commettere empietà non appartenenti agli atti empi di bambini ma di uomini, sia costruendo santuari privati, sia nei luoghi sacri pubblici [d] facendo sacrifici a qualsiasi divinità, sia condannato a morte come se sacrificasse impuro. I custodi delle leggi giudicheranno della colpa se è o no da bambino, e su questa base porteranno il colpevole in tribunale e puniranno così uomini come questi imponendo loro la pena della loro empietà.
XI
[913a] I. ATEN. A questo punto, dopo quanto si è detto, ci sarebbe bisogno di un conveniente ordinamento per i nostri contratti reciproci. Un principio semplicissimo, direi, è questo: ‘Nessuno, per quanto è possibile, tocchi la mia proprietà, nessuno ne sposti neppure la minima parte senza avermene persuaso in qualche modo. Io, se non sono stolto, farò altrettanto per la proprietà degli altri’. Parliamo prima di tutto, nell’ambito di questa materia, di un tesoro che un uomo abbia con cura conservato e riposto per sé e per i [b] suoi, un uomo che non sia uno dei miei padri; non preghi io mai gli dèi di trovarlo e trovatolo non lo rimuova; e neppure io comunichi la scoperta ai cosiddetti indovini che in un modo o nell’altro mi consiglierebbero di prelevare ciò che fu affidato alla terra in deposito. Non mi gioverei mai infatti di tanto nell’acquisizione delle ricchezze prendendolo, di quanto in grandezza progredirei verso la virtù dell’anima e la giustizia lasciandolo stare, acquistando un acquisto migliore al posto di un altro in una sede migliore e preferendo possedere la giustizia nell’anima piuttosto che ricchezza nel patrimonio e infatti il proverbio che per molti casi si dice bene, e cioè che non si deve muovere l’immobile, anche in questo caso, come se fosse [c] questo caso uno di quelli, si potrebbe dire. E inoltre bisogna credere anche a quanto si racconta a questo proposito e cioè che tali colpe nuocciono alla generazione dei figli. E chi non si dà cura dei figli e trascura anche chi ha posto la legge e si prende ciò che né lui né un progenitore dei suoi progenitori hanno riposto, senza il permesso di chi l’ha deposto per sé, e distrugge la legge più bella e più semplice e frutto della legislazione di quell’uomo assolu-[d] tamente nobile che disse: "Non sollevare quello che non hai deposto", e con dispregio di questi due legislatori colui prende quello che non ha deposto, e si tratta di un valore rilevante, o qualche volta di un grande ed enorme tesoro, quale pena dovrà subire? Il castigo che gli daranno gli dèi, lo conosce la divinità. Ma l’uomo che primo lo vede lo denunci agli astynòmoi se il fatto avviene in città, agli agoranòmoy se in qualche luogo del mercato della città, [914a] lo riferisca agli agronòmoi e ai loro capi se è nel restante territorio. Denunciati i fatti, lo stato mandi ad interrogare l’oracolo a Delfo; ciò che il dio dirà come responso a proposito delle ricchezze e di colui che le ha asportate, questo lo stato, obbedendo all’oracolo del dio, farà. Il delatore, se è uomo libero, avrà pubblica reputazione di virtù, ma, se non lo fa, pubblico biasimo di malvagità; se è schiavo e farà la denuncia, sarà giustamente liberato dallo stato che ne pagherà il prezzo del suo valore al padrone, ma se [b] non fa la denuncia, sia condannato a morte. A questo che si è detto dovrebbe tener dietro immediatamente che per quanto riguarda le cose piccole e quelle grandi segua la medesima norma. Se uno abbandona una cosa sua in qualche luogo volontariamente o no, chiunque vi si imbatte la lasci stare pensando che c’è un demone femminile che protegge le strade e che custodisce gli oggetti perduti, per legge consacrati a questa dea. E se qualcuno disobbedisce e va oltre questa norma e raccogliendola la porta a casa, ed è una cosa di poco valore, se si tratta di uno schiavo, il primo che lo sorprende lo frusti con molte sferzate, se questo [c] non abbia meno di trent’anni; se è un uomo libero, oltre ad essere pubblicamente ritenuto come uomo illiberale ed estraneo e ribelle alle leggi, sia tenuto a versare una somma pari al decuplo del valore dell’oggetto rimosso a quello che l’ha abbandonato. Se uno accusa un altro di trattenere cose di sua proprietà, di un maggiore o minor valore, e l’altro ammette di averle, ma dichiara che non sono di quello, se si tratta di proprietà già iscritta nelle tavole dei magistrati come vuole la legge, il primo chiami chi le ritiene in giudizio, davanti alla magistratura competente, e l’altro sia tenuto a comparirvi. Divenuto così [d] evidente l’oggetto, se nei rescritti risulta iscritto di quale dei due contendenti è, questo prenda in consegna la cosa e se ne vada. Se risulta che la cosa appartiene a qualche altro che non è presente, quello dei due che potrà dare un mallevadore sufficiente la porti via con sé a nome dell’assente, sulla base del diritto che avrebbe avuto l’assente di portarla via e per rimetterla all’assente cui è stata sottratta. Se l’oggetto contestato non ha documentazione presso i magistrati, rimanga giacente fino al processo presso i tre magistrati più anziani; se è un animale ciò che sia stato così sequestrato, chi perde su di esso la causa è obbligato a risarcire ai magistrati il nutrimento dato alla [e] bestia durante il periodo di sequestro. La causa deve essere risolta entro tre giorni con sentenza definitiva, dai magistrati.
II. E’ facoltà di ogni cittadino che lo vuole e sia sano di mente, di condurre il suo schiavo e di fare di lui ciò che vuole entro i limiti di tutto ciò che è lecito e santo. Potrà anche tenere e condurre in luogo di un altro, familiare od amico, al fine di conservarlo al padrone, lo schiavo che sia fuggito. Se qualcuno rivendica la libertà di qualcuno, in quanto condotto schiavo, chi lo detiene dovrà concedergliela; chi rivendica però la libertà di uno schiavo, lo faccia dopo aver presentato tre mallevadori sufficienti, così appunto e in altro modo no. Se qualcuno rivendica la libertà [915a] di uno schiavo contro queste norme, sia perseguibile per violenza e una volta dimostrato colpevole sia tenuto a pagare, a colui cui lo schiavo sia stato sottratto, una somma pari al doppio del valore registrato del danno. Chi vuole può rimettete le catene allo schiavo affrancato se non è rispettoso o non è sufficientemente rispettoso di chi l’ha liberato. Rispetto è per l’affrancato presentarsi tre volte al mese al focolare di chi l’ha liberato e annunciargli che farà ciò che bisogna fare purché si tratti di prestazioni giuste e insieme possibili, e quanto al matrimonio fare ciò che sembrerà opportuno all’ex-padrone. Non sarà lecito allo [b] schiavo affrancato di arricchirsi più di chi l’ha liberato; in tal caso il di più diverrà dell’altro. L’affrancato non rimarrà più di vent’anni nello stato, dopo vent’anni se ne andrà come gli altri stranieri con tutta la sua roba, a meno che non abbia ottenuto il permesso di rimanere dai magistrati e da chi l’ha liberato, convincendoli di ciò. Se il patrimonio dell’affrancato, o di uno degli altri stranieri residenti, supera il limite massimo della terza classe, entro trenta giorni dal giorno dell’acquisto della eccedenza se ne [c] vada con la sua roba senza possibilità per lui di ulteriore richiesta ai magistrati per rimanere. Se qualcuno disobbedendo a queste norme e portato in tribunale sia riconosciuto colpevole, sia condannato a morte e i suoi beni confiscati dallo stato. Tutte queste cause sono di competenza dei tribunali tribali, a meno che non siano state precedentemente abbandonate le reciproche rivendicazioni presso un tribunale di vicini o presso i giudici scelti dalle parti. Se qualcuno rivendica come sua proprietà un vivente o qualsiasi altra cosa che fa parte dei beni di [d] un altro, questo che la detiene riporti la cosa contestata al venditore o a colui che l’ha data, in ogni caso con garanzia e legittimamente, o ceduta validamente in qualsiasi altro modo e entro trenta giorni se questo è un cittadino o uno straniero residente, entro cinque mesi se la cessione è avvenuta da parte di uno straniero di passaggio, cinque mesi di cui terzo sarà comunque il mese in cui il sole d’estate si volge alle stelle invernali. Tutte le cose che attraverso qualche atto di compera o di vendita uno scambia con un altro, siano scambiate dando il venditore la merce nello spazio del mercato riservato a ciascuna qualità di oggetti e ricevendo immediatamente il prezzo e in nessun [e] altro luogo altrove; né si venda o si comperi nulla a credito. Se uno scambia con un altro con diversa procedura in luoghi diversi qualsiasi cosa con qualsiasi altra, sulla base della fiducia nei confronti della persona con cui fa lo scambio, lo faccia con la consapevolezza che non esistono procedimenti giudiziari secondo la legge in relazione alle cose che non siano state vendute secondo le norme ora esposte. Per quanto riguarda le sottoscrizioni, a chi vuole siano permesse le sottoscrizioni fra amici, però per le divergenze eventuali che ne sorgono ci si comporti in modo tale come se in nessun modo per nessuno possa esserci su di esse un intervento giudiziario. Un venditore che abbia ricevuto come prezzo dalla vendita di un oggetto non meno di cinquanta dracme è obbligato a rimanere sul posto per [916a] dieci giorni, e il compratore conoscerà il suo alloggio; questo a causa delle contestazioni che su questa materia di solito avvengono e per le eventuali restituzioni volute dalle leggi. Sia così per i casi di restituzione che la legge contempla e per quelli di non restituzione. Se uno ha venduto uno schiavo malato di tisi o del mal della pietra o di stranguria o del cosiddetto morbo sacro, o di qualche altra di queste malattie, del corpo o della mente, malattie gravi e difficilmente guaribili, nascoste ai più, e l’acquirente è un medico o un maestro di ginnastica, non ci sarà resti-[b] tuzione che il venditore debba ricevere in relazione a tale acquirente, e non ci sarà nemmeno se il venditore ha venduto a un altro qualsiasi acquirente, dicendo prima la verità. Se è un artigiano che vende qualcuna di queste cose a un cittadino qualunque, l’acquirente restituisca l’acquisto entro sei mesi salvo nel caso però che si tratti di morbo sacro; la restituzione di questa malattia sia lecito farla nel termine di un anno. Queste cause si giudichino fino alla sentenza definitiva davanti a tre medici scelti di comune accordo dalle parti che anche li avranno proposti; il colpevole riconosciuto tale in giudizio pagherà il doppio [c] del prezzo per cui ha venduto. Se lo scambio è avvenuto fra cittadino privato e cittadino privato, sia fatta la restituzione come detto sopra e discussa nello stesso modo la causa fino al giudizio definitivo, ma il colpevole sarà condannato a restituire il prezzo semplicemente. Se qualcuno vende uno schiavo omicida, non incorra quello nella restituzione di un simile schiavo nel caso che la sua condizione sia conosciuta ad ambedue i contraenti, ma se il compratore è all’oscuro ci sarà la restituzione in qualsiasi momento se ne accorga qualsiasi compratore; il giudizio in questo caso compete a un tribunale composto dei cinque custodi delle leggi più giovani. Se viene appurato in giudizio che il venditore era a conoscenza della cosa, esso sia tenuto a purificare le case del compratore secondo la legge degli [d] interpreti delle leggi, restituisca il prezzo dello schiavo moltiplicato per tre, al compratore.
III. Chi scambia denaro contro denaro, o qualsiasi degli altri viventi o non viventi, provveda a che nulla di ciò che offre o riceve sia falsificato, conformemente alla volontà della legge. Accettiamo, come per le altre leggi, il proemio anche per ciò che si riferisce a tutto questo genere di malvagità. Ognuno pensi che la truffa, la menzogna e l’inganno costituiscono uno stesso genere. E a questo genere sogliono riferire questa diceria i molti, e dicono male, e cioè che ogni volta che una cosa siffatta avviene nella circostanza [e] opportuna spesso sarebbe corretta e la circostanza opportuna, il luogo, il tempo lasciano indefiniti e indeterminati e in base a questo modo di dire subiscono e causano molti danni agli altri. Il legislatore non può lasciare questa materia indeterminata, ma sempre con chiarezza deva fissare dei limiti, quali si siano, più o meno ampi; anche noi ora dunque fissiamo questi limiti. Nessuno faccia mai, né con le parole né con le opere, alcuna falsa dichiarazione né inganno né falsificazione chiamando a testimone il genere degli dèi, nessuno che non voglia diventar l’oggetto del [917a] più grande odio degli dèi. Questo è colui che giura il falso disprezzando la divinità e poi, al secondo grado, è colui che mente davanti a quelli che gli sono superiori. E superiori sono i migliori rispetto ai peggiori di loro, così i vecchi per dire in generale, sono superiori ai giovani, i genitori ai figli, gli uomini alle donne ed ai bambini, i magistrati ai sudditi; sarebbe così conveniente che tutte queste persone siano rispettate da tutti nell’esercizio di ogni loro responsabilità e più che mai in quelle politiche, da cui ha preso le mosse per venir fin qui il nostro presente discorso. Ognuno infatti che al mercato falsifica la merce [b] in qualche suo aspetto, e per questo mente e inganna e, chiamando gli dèi a testimoni, giura secondo le leggi e le proibizioni degli agoranòmoi, costui manca di rispetto agli uomini e commette empietà verso gli dèi. E’ assolutamente buono il costume di non profanare il nome degli dèi, nominandolo con facilità, osservando sempre, come fa la maggior parte di noi nella maggior parte dei casi verso gli dèi, purezza e santità. Ma se non si obbedisce, questa è la legge. Chi vende al mercato qualsiasi oggetto o merce, non formuli mai due prezzi della stessa cosa che vende [c] ma uno solo, e se non riesca ad ottenere quel prezzo e la riporta a casa, farà bene a riportarla, e non alzi o abbassi il prezzo in quello stesso giorno; si astenga dal gridarne le lodi o dal giurare sulla qualità di ogni cosa che vende. Se qualcuno non obbedisce a queste disposizioni, qualsiasi cittadino non inferiore ai trent’anni che vi si imbatta punisca quello che giura, e lo percuota impunemente; se il primo non se ne dà pensiero e disobbedisce sia soggetto a pubblico biasimo per tradimento delle leggi. Chi vende roba contraffatta, e non è in grado di obbedire ai discorsi det-[d] ti ora, sia confutato dal primo che vi si imbatte, fra quelli che conoscono di che cosa si tratta, e che sia uno che lo può fare, davanti ai magistrati, e, se quest’ultimo è uno schiavo o uno straniero residente, si porti via la roba adulterata, se è un cittadino e non confuta la falsificazione sia proclamato malvagio perché priva gli dèi del loro avere, se invece lo fa, la consacri agli dèi del mercato. Il venditore poi che è risultato vendere qualcosa di questo genere, oltre ad essere privato della merce adulterata, in relazione a quanto abbia egli valutato il prezzo della merce venduta, [e] per ogni dracma si abbia un colpo di frusta dal banditore, il quale annuncerà nella piazza del mercato le ragioni per le quali sarà battuto. Gli agoranòmoi e i custodi delle leggi si informino dagli esperti di ciascuna merce sulle frodi e le malizie dei commercianti e annotino poi le disposizioni positive e negative che quelli dovranno osservare, e le scrivano su di una colonna che porranno davanti alle case degli agoranòmoi, in modo che queste disposizioni avranno [918a] forza di legge e parleranno chiaro a quelli che si servono del mercato. I doveri degli astynòmoi sono già stati elencati e spiegati sufficientemente nei discorsi che precedono. Se risulterà mancare o imperfetta qualche cosa, costoro dopo averlo comunicato ai custodi delle leggi, e dopo aver scritto ciò che sembra mancare collocheranno su di una colonna, davanti alla residenza degli astynòmoi, i primi e i secondi regolamenti, della loro magistratura, stabiliti.
IV. Alle pratiche della falsificazione seguono immediatamente quelle del commercio al minuto. Su di esse in generale premetteremo il nostro consiglio e il nostro discorso, poi vi applicheremo la legge. Il commercio al mi-[b] nuto, quello che si fa nello stato, in tutti i suoi aspetti, è nato, secondo la sua natura, non per danneggiare, ma per giovare gli altri. Come non dovrebbe essere un benefattore ognuno che rende uniformi e proporzionati tutti i beni di ogni tipo, nel loro essere, essi che sono senza proporzione e uniformità? E noi dobbiamo dire che questo è realizzato anche dal potere che ha la moneta, e si deve anche dire che il commerciante all’ingrosso è stato ordinato a questo. E i salariati, gli albergatori e il resto, mestieri di cui alcuni [c] sono più decorosi, altri meno, hanno tutti in questo il loro potere, e cioè fornire in abbondanza a tutti un aiuto per i loro bisogni e dare, per tutti, uniformità di distribuzione ai beni. Vediamo ora che cos’è mai questo loro non essere ritenuti cosa bella e decorosa, e che cos’è che in essi si trova ad essere screditato; vediamo ciò, affinché possiamo risanare se non il tutto, almeno, allora, le parti, con la legge. E’ evidente che si tratta di una cosa difficile e tale da non richiedere poca virtù. CLIN. Che vuoi dire? ATEN. Caro Clinia, solo un piccolo genere di uomini, limitato nel suo numero dalla stessa natura, di uomini educati in modo eccezionale, sanno fermarsi stabilmente ai limiti della moderazione, quando cadono nei bisogni e nei desi-[d] deri di qualcosa, e quando si offre loro il destro di accumulare ricchezze in grande quantità sanno sobriamente preferire il giusto al molto; ma le moltitudini degli uomini hanno comportamento a questi del tutto contrario e, se hanno un bisogno, il loro bisogno è illimitato, e se possono guadagnare il giusto scelgono di guadagnare senza sazietà. Così tutti i generi di attività che hanno contatto con il commercio al minuto, con quello all’ingrosso e con il mestiere dell’albergatore, sono stati screditati e vengono disprezzati come cosa vergognosa. Poiché se uno costringesse, cosa che non avvenga mai e non avverrà certo mai, se uno [e] costringesse (fa ridere dirlo, però sarà detto lo stesso) gli uomini di ogni luogo i migliori a fare per un certo tempo gli albergatori, o i commercianti al minuto o un mestiere analogo, e anche le donne fossero costrette a partecipare di un simile modo di vita da un destino fatale, allora noi ci renderemmo conto che ciascuno di questi mestieri è cosa amica e amabile, e se poi ciascuno di essi divenisse incorruttibile in modo coerente ai nostri principi, io penso che tutti essi sarebbero onorati come una madre o una nutrice. Ora invece che, a scopo di attività commerciale, [919a] qualcuno costruisce edifici in luoghi solitari, case che in ogni direzione hanno lunghezza di strade, dove vengano accolti nel desiderato ristoro quelli che si trovano in difficoltà o coloro che vi sono sospinti dalla furia selvaggia delle tempeste, offrendo a costoro tranquilla bonaccia o un refrigerio alla calura, ora che, dopo tutto questo, colui non li accoglie affatto come amici, né porge loro i doni che attendono gli ospiti e fanno séguito, come testimonianza di amicizia, al loro ricevimento, ma come nemici fatti prigionieri che egli libererà esigendo da loro i riscatti più [b] grandi, ingiusti e infami - ora in tutte le simili circostanze giustamente questi e simili misfatti hanno malfamato questo mestiere di soccorrere le difficoltà. E così il legislatore deve prepararvi una medicina per sempre. E’ giusto l’antico detto che è difficile combattere contro due opposti avversari, come accade nelle malattie e in molti altri casi; e anche ora la battaglia che riguarda questi uomini e su queste cose è su due fronti opposti, la povertà e la ricchezza, l’una che ha corrotto l’anima degli uomini con la mollezza, l’altra [c] che l’ha trascinata col dolore alla impudenza. Quale soccorso contro questo male ci sarà in uno stato dotato di intelligenza? Prima di tutto restringere al minimo possibile l’uso di quel genere di uomini che sono i commercianti al minuto, secondo, affidare il commercio al minuto agli uomini che, anche corrompendosi, non ne verrebbe grave danno allo stato, terzo trovare il mezzo per impedire che a coloro proprio che partecipano di siffatte occupazioni accada che nelle loro indoli diventino facilmente partecipi [d] dell’essere illimitatamente sfrontati e di animo vile. Dietro alle cose ora dette, la legge su questa materia sia questa per noi e abbia buona fortuna: Quanti dei Magneti sono quelli che ora il dio, risollevando la loro sorte, ricolloca nel nuovo stato, quanti di quelli cioè sono i proprietari fondiari cui sono toccati in sorte i 5040 focolari, nessuno di questi, né per sua volontà, né contro la sua volontà, si dedichi al commercio al minuto o all’ingrosso, né mai assuma qualsiasi servizio per privati che non siano della [e] sua stessa condizione, all’infuori che per il padre, la madre e per quelli che sono dietro di questi nella discendenza della stirpe, e liberamente per tutti i più vecchi di lui che vivano come liberi cittadini. Non è facile distinguere nella legislazione, con esattezza, ciò che si addice o no ad un libero; ciò sia giudicato da chi ha ottenuto i primi onori per altissima virtù, grazie all’avversione o l’inclinazione nei confronti delle cose di cui si parla. Se qualcuno nell’ambito di qualche arte che esercita partecipa del commercio al minuto indegno di un uomo libero, sia accusato, davanti ai cittadini giudicati primi per virtù, da chiunque vuole farlo, con l’accusa di disonorare la sua stirpe, e se risulti insudiciare con una pratica indegna il focolare suo e dei suoi padri, condannato a un anno di carcere, sia [920a] allontanato da quella occupazione; se recidivo, sarà condannato ad altri due anni di carcere, e ad ogni ricaduta nella condanna continuerà a fare dei raddoppi in relazione al tempo di detenzione precedente. Seconda legge: Chi vuole fare il commerciante al minuto deve essere o uno straniero residente o uno straniero di passaggio. In terzo luogo, terza legge: I custodi delle leggi, affinché un siffatto coabitatore del nostro stato sia quanto più è possibile virtuoso e malvagio il meno possibile, devono ritenere di essere custodi non solo di quelli cui è facile custodire al fine di impedire loro di commettere violazioni della legge e di corrompersi, quanti cioè sono ben educati sia per origine familiare sia per il modo in cui sono stati allevati, [b] ma anche, e di più, di quelli che sono lungi dall’esser tali, questi debbono custodire, questi che attendono ad occupazioni che hanno grande peso nel volgerli al male. E così in relazione al commercio al minuto che ha molti aspetti e comprende molte siffatte forme di occupazione, su tutto ciò che dal punto di vista di cui si è detto ne sarà lasciato sopravvivere in quanto appare per stretta necessità dover essere presente nello stato, su tutto ciò i custodi delle leggi dovranno riunirsi insieme agli esperti di ogni [c] branca di questa attività commerciale, come abbiamo già stabilito per le falsificazioni, materia di genere uguale a questa, e, convenuti insieme, essi esamineranno i ricavati e le spese, che cosa cioè dà in relazione a questi un guadagno giusto al commerciante al minuto e prendendone nota stabiliranno la spesa e il ricavo che ne risultano, e ne affideranno la custodia in parte agli agoranòmoi, in parte agli astynòmoi e in parte agli agronòmoi. Io penso che così il commercio al minuto, da una parte, a ciascun gruppo di cittadini diventerà utile e, dall’altra, saranno ridotti al minimo i danni che porta ai cittadini che ne fanno uso negli stati.
[d] V. Per quante cose qualcuno conviene di fabbricare e non fa secondo i termini fissati nell’accordo, a meno che non gliele impediscano leggi o decreti, a meno che l’accordo non sia stato da lui preso sotto la coercizione di ingiusta necessità, a meno che non sia ostacolato nell’assolverlo da un accidente fortuito e imprevisto e contro la sua volontà, per tutti gli altri casi si istruiscano processi per accordi non mantenuti presso i tribunali tribali, ammesso che non possano precedentemente addivenire ad una conciliazione per arbitrato o attraverso il giudizio dei vicini. Ad Efesto e ad Atena è sacro il genere degli artigiani, che con le loro [e] arti organizzano la nostra vita civile, e quelli che con altre arti di difesa garantiscono la conservazione delle opere degli artigiani sono sacri ad Ares e ad Atena; e giustamente anche il genere di questi è sacro a queste divinità. Essi tutti vivono al servizio del paese e del popolo, gli uni assolvendo una funzione di primaria importanza per le prove da sostenersi in guerra, gli altri portando a termine la fabbricazione di strumenti ed oggetti a pagamento; ad essi dunque non sarebbe affatto conveniente [921a] mentire su queste cose, se osservano il rispetto che devono agli dèi da cui derivano. Se un artigiano per sua colpa non compie l’opera nel tempo promesso, senza rispetto alcuno del dio che gli ha insegnato i mezzi per guadagnarsi la vita, pensando, senza usare gli occhi della mente, che il dio lo perdonerà in quanto a lui familiare, prima di tutto renderà conto al dio, poi questa legge sia così stabilita in modo adatto a lui: Sia tenuto a pagare il prezzo delle opere a proposito delle quali ha ingannato il committente sul tempo della consegna, e poi compia l’opera di nuovo e da principio nel tempo già stabilito precedentemente, senza nessuna ricompensa. A colui che assume un’opera da compiere, la legge fa da consigliere [b] delle stesse cose che già consigliava al venditore, e cioè di non attentarsi ad elevare il prezzo oltre il valore, ma di attenersi nel modo più rigoroso nella stima al semplice valore, la stessa cosa appunto ordina a chi prende la commissione di un lavoro (l’artigiano infatti conosce bene quanto vale il suo lavoro). Negli stati di uomini liberi non è lecito che proprio l’artigiano, usando la sua arte, che per la sua stessa natura è cosa chiara e scevra da falsità, metta alla prova i privati cittadini, e debbono esserci processi su queste cose, per chi subisce l’ingiustizia contro chi la fa. [c] Se d’altra parte chi ha commesso ad un artigiano un lavoro non gli corrisponde esattamente la ricompensa pattuita legittimamente, e si rende colpevole anche mancando di rispetto verso Zeus, protettore dello stato, ed Atena, con lui partecipi della costituzione, per amore di un piccolo guadagno, e così provoca la dissoluzione di grandi società politiche, sia questa la legge che con l’aiuto degli dèi porterà soccorso alla compagine statale: Chi, avendo ricevuto, in anticipo sul pagamento, una prestazione di opera, non la ricambia pagando la ricompensa nel tempo convenuto, sia condannato a pagare il doppio; passato un anno pur essendo proibito in ogni altro caso trarre interessi [d] dal danaro, e cioè per quante ricchezze si danno a prestito per interesse, in questo caso costui pagherà anche l’interesse di un obolo al mese per ogni dracma del prezzo del lavoro. Queste cause si discutano nei tribunali tribali. Ed ora, come in una aggiunta, è giusto anche parlare di quelli che sono artigiani della salvezza in guerra, degli strateghi e di quanti sono maestri d’arte in queste cose, poiché abbiamo ricordato in generale gli artigiani. E colui il quale, anche a questi come a quelli, anche a questi come se fossero un’altra specie di artigiani, qualora uno di loro si assuma l’impegno di fare qualche cosa per lo stato, [e] sia spontaneamente, sia dietro comando, e porta a compimento il suo impegno con bravura, colui il quale paga con giustizia a costoro un tributo di onori, che sono i salari dei combattenti, la legge non cesserà mai di lodarlo, ma se invece ha ottenuto in anticipo sul pagamento una gloriosa impresa di guerra e non la ricompensa, lo biasimerà. Sia dunque stabilita questa legge, che è nata mescolata alla lode per costoro, legge che dà consigli, non ordini [922a] costrittivi alla moltitudine dei cittadini, e li consiglia di onorare gli uomini valorosi, tutti quanti sono i salvatori di tutto lo stato sia con i loro atti di audacia sia con gli stratagemmi di guerra, ma al secondo posto nell’onore. Il maggior privilegio sia attribuito a coloro che primi sugli altri hanno saputo distinguersi nell’onorare le leggi scritte dai buoni legislatori.
VI. Abbiamo dato la regolamentazione a tutti, direi, i patti più importanti che i cittadini stringono fra loro, lasciando fuori quelli relativi agli orfani e alla cura degli [b] orfani da parte dei tutori. Dopo quanto si è detto ora è necessario che anche questi siano regolati in qualche modo. I princìpi di tutta questa materia, da una parte, sono i desideri testamentari dei moribondi, dall’altra i casi che molte volte impediscono del tutto a chi muore di fare alcun testamento. Ho detto ‘necessario’, Clinia, guardando a quanto v’è di spiacevole e di difficile in queste cose. Non è possibile infatti neppure lasciare questa materia senza regolamentazione. Ciascuno infatti darebbe molte disposizioni testamentarie e diverse da uomo a uomo, [c] contrarie alle leggi ed ai costumi dei viventi, e anche a quelli prima abituali a quello stesso che fa il testamento, prima di farlo, se qualcuno desse facoltà semplicemente che il testamento sia così valido, qualsiasi testamento fatto da qualcuno prima di morire, quali si siano le condizioni sue al termine della vita. La maggior parte di noi uomini infatti quando ci sentiamo già vicini alla morte in certo modo siamo preda alla stoltezza e privi di energia. CLIN. Che cosa vuoi dire, ospite? ATEN. E’ una cosa difficile, Clinia, un uomo che sta per morire; la sua bocca si riempie di un discorso del tutto temibile e poco piacevole ai legi-[d] slatori. CLIN. In qual modo? ATEN. Cercando di dominare tutto, dice di solito con ira... CLIN. Che cosa? ATEN. Dice: è terribile, o dèi, se io non potrò lasciare i miei beni, in nessun modo, a chi voglio, e rifiutarli, chiunque sia, e più ad uno meno ad un altro, fra quanti si sono dimostrati cattivi o buoni con me e sono stati messi sufficientemente alla prova quando ero malato, altri nella vecchiaia, in tutte le altre mie disgrazie di ogni tipo. CLIN. E allora, [e] ospite, non ritieni che dicano bene? ATEN. A me pare, caro Clinia, che gli antichi legislatori sono stati troppo deboli e nel fare le leggi hanno osservato e considerato in minima parte la realtà umana. CLIN. Che dici? ATEN. Avevano paura di quel discorso del moribondo, amico, e hanno stabilito la legge che sia lecito di far testamento sui [923a] propri beni semplicemente e assolutamente nel modo in cui si vuole. Tu ed io però risponderemo in modo più conveniente a chi è in punto di morte nel tuo stato. CLIN. Che cosa? ATEN. Amici, diremo, a voi cui ormai resta, veramente, la vita di un giorno, è difficile ormai conoscere i vostri propri beni e, di più, conoscere voi stessi, come dice anche l’iscrizione della Pizia. Io dunque che sono il legislatore stabilisco che né voi né questi vostri beni appartenete a voi stessi, ma a tutta la vostra stirpe, quella che è stata prima e quella che sarà dopo di voi, e, di più ancora, tutta la [b] stirpe e i suoi beni appartengono allo stato. E poiché le cose stanno così, io non potrò essere d’accordo con voi, di mia propria volontà, se qualcuno vi persuade a far testamento contro quelle che sarebbero le migliori disposizioni testamentarie, avendovi circuito con l’adulazione durante la malattia e vacillanti per la vecchiaia, ma io guardando a ciò che è il massimo bene per tutto lo stato e per la stirpe, guardando a tutto ciò darò le leggi, posponendo, come è giusto, l’interesse dei singoli e collocandolo fra le cose di seconda importanza, e voi, essendo verso di noi benigni e benevoli, procedete nel vostro viaggio per di là per dove ora state andando per la vostra natura umana. [c] Di tutto ciò che è vostro e resta dopo di voi noi avremo cura, e con tutte le nostre forze ce ne preoccuperemo, non di alcune cose sì, di altre no. Queste siano le esortazioni e il proemio per i viventi e per i moribondi, Clinia; la legge è questa invece.
VII. Chi scrive un testamento disponendo per i suoi beni, se è padre di figli, prima di tutto scriva quale dei figli di sesso maschile ritiene sia più degno di essere erede e scriva quale degli altri figli intende dare in adozione ad [d] un altro che è disposto ad accettarlo. Se gli rimane un figlio, non adottato da altri per un qualche lotto di proprietà, il quale egli si attende che sarà mandato per legge in colonia, il padre abbia facoltà di lasciargli delle altre ricchezze tutto ciò che vuole fatta eccezione per il lotto di proprietà che lui stesso ha ricevuto dal padre suo e tutto l’apparato connesso; se i figli in queste condizioni sono più di uno il padre suddividerà in parti fra loro a suo piacimento i beni eccedenti la predetta proprietà. Se uno qualsiasi di questi figli si trovasse in possesso di una casa, non suddivida con lui i beni, e nello stesso modo non suddivida con la figlia [e] cui qualcuno sia già promesso come futuro marito, ma in caso contrario suddivida. Se però uno di questi figli o figlie dopo il testamento risulterà in possesso di un lotto nello stato, lasci la parte avuta all’erede principale del testatore. Se il testatore non lascia figli maschi, ma solo femmine, iscriva nel testamento come erede principale il marito di una figlia a suo piacimento e in tal modo lo lasci dietro di sé come un figlio. Se un cittadino perde l’unico figlio maschio ancora bambino, prima che sia divenuto uomo, sia figlio suo, sia adottato, chi fa il testamento [924a] scriva anche in siffatta sventura quale ragazzo deve divenire per lui un secondo figlio con miglior fortuna. Se all’atto di scrivere il testamento qualcuno è del tutto senza figli suoi, ha facoltà di donare la decima parte dell’eccedenza patrimoniale, che egli metterà da parte dal resto, se vuole donarla a qualcuno, ma il resto deve trasmetterlo totalmente a quello che avrà adottato, e così in modo irreprensibile e con l’aiuto della legge lo renderà suo figlio benevolo. Se uno morendo lascia figli bisognosi di tutore, e muore dopo aver fatto testamento e aver designato per iscritto, ai suoi figli, tutori, che accettano e sono [b] d’accordo di prendersi cura dei piccoli, nelle persone e nel numero che lui stesso preferisce, sia valida la scelta dei tutori sulla base di quanto é stato scritto; se invece muore senza far assolutamente testamento o omettendo di scegliere i tutori, siano tali con piena facoltà i parenti più prossimi da parte paterna e materna, due per parte di padre e due per parte di madre, e un altro fra gli amici del morto; i custodi delle leggi li investiranno della loro responsabilità, per quello degli orfani che ne abbia bisogno. [c] La cura di tutto ciò che riguarda la tutela e la cura degli orfani sia affidata ai quindici più anziani di tutti i custodi delle leggi, i quali divideranno se stessi, sempre per anzianità, a gruppi di tre, un anno tre e un altro altri tre, finché sia compiuto il ciclo dei cinque periodi, e questo non finisca mai per quanto è possibile. Quando uno muore senza aver fatto assolutamente testamento e lascia figli bisognosi di [d] tutela, le esigenze dei suoi figli richiedono l’applicazione di queste stesse leggi. Se uno muore improvvisamente per una imprevedibile sventura lasciando delle figlie, non abbia risentimento verso il legislatore, se questo darà in matrimonio le figlie guardando solo a due compiti sui tre che spetterebbero al padre, e cioè alla stretta parentela e al lotto patrimoniale salvo; la terza cosa che un padre considererebbe e analizzerebbe, guardando i costumi e il modo di vita di tutti i cittadini, e cercando l’uomo adatto per esser sia a lui figlio da adottare, sia anche sposo alla [e] figlia, il legislatore deve metterla da parte per la impossibilità di fare una analisi come questa. E così la legge che su questo punto deve essere stabilita, nei limiti della possibilità, sia la seguente: Se un cittadino che muore senza far testamento, lascia delle figlie, una volta deceduto costui, la figlia vada sposa al fratello del morto che sia figlio dello stesso padre o della stessa madre, sempre che questi non abbia la proprietà di uno dei 5040 lotti e lo sposo avrà il lotto del morto. Se non c’è un fratello, lo stesso vale nei confronti del figlio del fratello, ammesso che ci sia la reciproca proporzione di età. Mancando tutti questi, e c’è un figlio della sorella, si farà nello stesso modo per lui, e poi sarà quarto lo zio paterno del morto, quinto il figlio di questo zio, sesto il figlio della sorella del padre e così si proceda sempre per prossimità di parentela nell’ambito della stirpe, se qualcuno lascia delle figlie femmine, [925a] risalendo e passando per i fratelli e i nipoti, e dando sempre la precedenza ai maschi sulle femmine nell’ambito della stessa stirpe. Il giudice esaminerà e deciderà se gli sposi sono o no in età proporzionata al matrimonio fra loro, vedendo i maschi nudi completamente e le femmine nude fino all’ombelico. Se nell’interno della stirpe ci sia impossibilità di trovare marito a quelle donne fra i membri della stessa stirpe, fino ai nipoti del fratello del morto, e analogamente dall’altra parte fino ai figli del nonno, la figlia [b] sceglierà insieme ai tutori un altro cittadino qualsiasi, ambedue consenzienti, ed esso diventerà erede del patrimonio del morto e marito di sua figlia. Nello stato può darsi che in molti casi si verifichi una difficoltà ancora più grave di questa in relazione alla penuria di molte di siffatte persone. Se allora una donna, nelle condizioni di cui sopra, non trova marito fra quelli del luogo, e vede uno inviato in colonia, e le piace che quello divenga crede del padre suo, se appartiene alla sua stirpe, venga ad assumere il lotto ereditario secondo le regole della legge; se non è della stessa stirpe, ed è fuori delle stirpi di quelli che sono nello sta-[c] to, ha diritto di sposarla, accettando la scelta dei tutori e della figlia del morto, e di tornare nello stato come erede del lotto patrimoniale del padre della sposa, morto senza far testamento. Se è del tutto senza figli, né maschi né femmine, quello che muore senza far testamento, per il resto che lo riguarda a questo proposito ci si attenga alla legge precedente, e una femmina e un maschio della stirpe sua, come sposi, vadano dal seno di questa a prendere possesso della casa fatta deserta, ogni volta che ciò accade, e l’eredità del lotto patrimoniale divenga assolutamente di loro [d] proprietà; prima ad averne diritto sarà la sorella del morto e poi, successivamente, la figlia del fratello, terza la figlia della sorella, quarta la sorella del padre, quinta la figlia del fratello del padre, sesta la figlia della sorella del padre; queste conviveranno con quelli sulla base della prossimità di parentela e del diritto divino, nel modo sopra disposto con la legge. Non ci sfugga la pesantezza di leggi siffatte e quanto sono penose, quando impongono al membro della stirpe del morto di sposare, entro la sua stirpe, una [e] donna, ed esse paiono non tener conto degli infiniti ostacoli che incontrano fra gli uomini siffatte regole, ostacoli i quali impediranno che qualcuno voglia obbedire ad esse, e, prima di farlo, qualsiasi uomo vorrebbe subire qualsiasi cosa, quando in qualcuno di coloro che sono comandati di sposare una donna o un uomo si trovano malattie o mutilazioni dei corpo e della mente. Il legislatore forse potrebbe apparire a qualcuno non occuparsi di queste cose, ma sarebbe sbagliata questa opinione. Sia dunque detto per il legislatore e per colui che ne riceve le leggi qualcosa come un proemio, direi, comune, e diciamo che il legislatore deve essere perdonato dai cittadini che ne subiscono le leggi, perché, dovendo provvedere all’interesse generale, non potrà mai regolare nello stesso tempo anche le circostanze private che vengono ad essere proprie a ciascuno, e, d’altra parte, [926a] anche quelli che ricevono le leggi devono essere scusati, pensando che qualche volta verosimilmente non possono dar perfetto compimento agli ordini del legislatore, che egli dà senza essere a conoscenza di tutti i casi particolari. CLIN. E che cosa deve fare uno in questi casi per essere il più possibile nel giusto, ospite? ATEN. Bisogna scegliere, Clinia, degli arbitri fra le leggi siffatte e quelli che le ricevono. CLIN. Come dici? ATEN. Può accadere che il nipote del morto, figlio di un padre ricco, non [b] voglia essere consenziente a sposare la figlia dello zio, perché è abituato al lusso e tiene il pensiero rivolto a nozze migliori. Però può anche darsi che uno sia costretto a disobbedire alla legge se il legislatore gli comanda la più grave sventura costringendolo ad assumersi dei congiunti pazzi, od altre disgrazie terribili del corpo o dell’anima, che rendono la vita impossibile a chi le possiede. E allora il nostro discorso di ora su queste cose sia costituito dallo stabilire [c] questa legge: Se c’è qualcuno che protesta contro le leggi stabilite per il testamento, sia per qualsiasi altra disposizione, sia anche per i matrimoni, dicendo che se lo stesso legislatore fosse presente e vivo non riuscirebbe mai a costringere ad agire così, a sposare una donna o a farsi sposare da un uomo, quelli che ora dalle sue leggi sono costretti a fare l’una e l’altra cosa, allora, se ciò dirà di fare uno dei familiari o dei tutori, dichiariamo che il legislatore ha lasciato arbitri e padri degli orfani e delle orfane i quin-[d] dici custodi delle leggi e, rivolgendosi ad essi coloro che sono in contestazione per qualcuna delle cose siffatte, diano inizio a una causa che sarà giudicata con sentenza definitiva, e la loro sentenza metteranno in pratica come decisione suprema. Se però qualcuno ritenga con ciò di affidare troppo potere in mano dei custodi delle leggi, porti i contendenti davanti al tribunale dei giudici scelti per merito ed ivi provochi il giudizio definitivo sulle cose in contestazione; chi perde la causa abbia per legge, da parte del legislatore, pubblico biasimo e riprovazione, il che per una persona di intelletto è pena più grave che una multa di molte ricchezze.
VIII. Ed ora si può dire che i figli orfani avranno quasi [e] una seconda nascita. Abbiamo parlato dei vari atti relativi all’accrescimento di ciascun loro gruppo e così dell’educazione dopo la prima nascita. Per il periodo successivo alla seconda nascita, che è avvenuta nella solitudine e nella mancanza del padre loro, bisogna escogitare in qual modo la loro sorte di orfani, appunto per quelli che lo diventano, abbia su di sé la pietà propria di tale sventura il meno possibile. Prima di tutto affermiamo di stabilire per legge che per loro i custodi delle leggi sono dei padri non inferiori a quelli naturali al posto dei genitori perduti, e anno per anno ordiniamo si succedano nella cura degli orfani come se fossero loro figli; e insieme enunciamo per loro stessi e per i tutori un conveniente proemio sull’educazione degli orfani. E infatti mi risulta [927a] che noi per una certa opportunità abbiamo esposto quei discorsi precedenti che dicevano che le anime dei morti, quando sono nell’aldilà, hanno un certo potere di occuparsi delle cose umane. I discorsi che abbracciano queste cose sono veri, ma sono lunghi, e bisogna credere anche alle altre cose che si raccontano su questa materia, e sono così numerose e molto antiche, ma bisogna anche credere a coloro che stabiliscono per legge che sono così, a meno che non si voglia considerarli del tutto stolti. Ma allora, [b] se queste cose sono secondo natura, si abbia timore prima di tutto degli dèi celesti, i quali sono sensibili alla solitudine degli orfani; e poi delle anime dei morti, le quali per natura si interessano soprattutto dei figli e sono riconoscenti a chi le onora, sono nemiche a chi le trascura; si abbia timore infine anche delle anime dei viventi, dei vecchi e dei cittadini onorati con i più grandi onori; ovunque lo stato è felice per un buon governo, i figli dei figli li amano teneramente e così vivono felici; questi vecchi hanno udito e vista acuti per i problemi degli orfani e sono be-[c] nevoli a chi è giusto in queste cose, ma si sdegnano profondamente con chi maltratta gli orfani abbandonati, persuasi che questi sono il più nobile e sacro tesoro. I tutori e i magistrati devono tener fissa la mente, anche chi è di poca capacità, a tutti questi e, stando in guardia sull’allevamento e l’educazione degli orfani, assolutamente devono beneficarli con tutte le loro forze come se apportassero un beneficio a se stessi e ai loro familiari. Chi obbedirà a queste parole che precedono la legge e non maltratterà [d] in nessun modo gli orfani, non conoscerà, nel suo manifestarsi, a proposito di queste cose, l’ira del legislatore, ma chi al contrario disobbedendo commetterà ingiustizia a chi è privo di padre e di madre, sia punito col risarcire tutto il danno in misura doppia che se danneggiasse un figlio che ha ancora i genitori. Quanto alle altre leggi per i tutori riguardo agli orfani, e per i magistrati riguardo alla sorveglianza sui tutori, se non avessero essi acquisito dei modelli di educazione e di cura dei figli dei liberi cittadini, nell’educazione che essi stessi danno ai loro figli e nella ammini-[e] strazione dei loro patrimoni, anche se avessero su questo oggetto leggi spiegate ed esposte convenientemente, avrebbe senso stabilire leggi sulla tutela, come leggi particolari e molto diverse dalle altre, che varierebbero per particolari pratiche la vita degli orfani da quella dei non orfani. Ma da noi, ora, in tutto ciò la condizione degli orfani non ha aspetti molto diversi da quella che si ha con l’autorità paterna, benché non ci sia di solito uguaglianza proprio in nessun modo nell’onore, nel disonore e nelle [928a] cure che gli uni e gli altri ricevono. Perciò per questo solo ultimo punto della legislazione riguardante gli orfani la legge si è data grande cura di esprimere le sue esortazioni e le sue minacce. Una minaccia come quella che segue, e la dobbiamo aggiungere, è più che mai opportuna. Chi è tutore di una bambina, o di un bambino, e chi dei custodi delle leggi posto come custode ha la responsabilità del tutore, non mostri di amare meno dei suoi figli colui che partecipa della sorte dell’orfano né di interessarsi del patrimonio dell’orfano, che è da lui allevato, meno che del proprio e familiare, ma anzi abbia maggior cura e zelo [b] per questo che per le proprie ricchezze. Con questa sola legge sugli orfani ognuno eserciti l’ufficio di tutore. Se qualcuno agisce altrimenti a questo proposito e non osserva questa legge, se è tutore sia punito dal magistrato, se è magistrato sia portato dal tutore davanti al tribunale dei giudici scelti per merito e lo faccia punire con una multa doppia della somma che corrisponde al danno secondo la valutazione del tribunale. Se i parenti o qualche altro cittadino giudicano che un tutore si disinteressa o danneggia i tutelati, lo portino davanti allo stesso tribunale; il danno di cui sia riconosciuto colpevole sia condannato [c] a pagarlo al quadruplo, di cui metà andrà all’orfano, metà a chi ha intentato la causa. Appena un orfano giunge all’età della pubertà, se ritiene di essere stato leso nella tutela, ha diritto di intentare causa sulla tutela, entro cinque anni dalla fine della tutela. Se è riconosciuto colpevole un tutore, decida il tribunale ciò che deve subire come pena o pagare; se è riconosciuto colpevole un magistrato, e risulta aver danneggiato l’orfano per negligenza, decida [d] il tribunale la somma che deve pagare al giovane, se invece è per ingiustizia, oltre alla pena pecuniaria sia espulso dalla magistratura dei custodi delle leggi, e tutto il governo dello stato nomini un altro custode delle leggi al suo posto, per la città e il resto del territorio.
IX. Avvengono litigi dei padri contro i loro figli e dei figli contro i loro genitori più gravi di quanto dovrebbero; in essi i padri riterrebbero che il legislatore dovesse stabilire per legge che fosse permesso loro, a loro piacimento, di [e] ripudiare il figlio davanti a tutti per bocca di un araldo dello stato, affermando che esso non è più figlio loro per legge, i figli invece che fosse loro permesso denunciare per demenza i loro padri posti in cattiva e turpe condizione da malattie o vecchiaia; ciò suole accadere quando il costume di questa gente è quello di uomini in verità del tutto cattivi; perché quando la cattiveria è solo a metà, per esempio non cattivo il padre, ma il figlio, o viceversa, non si verificano le sventure che sono figlie di inimicizia così grave. In un’altra costituzione un figlio ripudiato pubblicamente non perderebbe necessariamente il diritto di cittadinanza, ma dalla nostra, da quella cui apparterranno [929a] queste leggi, è necessario emigri in altra terra chi è senza padre: non è infatti possibile che una unità si aggiunga alle 5040 famiglie; è per questa ragione che colui che subirà questa condanna secondo giustizia dovrà essere ripudiato non da un solo padre, ma da tutta la stirpe. In questa materia bisogna fare secondo una legge come la legge seguente: colui che l’ira ha assalito, un’ira in nessun modo fortunata, sì da desiderare, a torto o a ragione, di allontanare dalla sua stirpe il figlio generato ed educato da lui, non avrà facoltà di far ciò così in modo ordinario, né immediata-[b] mente, ma prima raduni tutti i suoi consanguinei fino ai cugini compresi, e i consanguinei, nello stesso modo, del figlio per parte di madre, lo accusi davanti a questi, spieghi le ragioni per cui il figlio sarebbe degno di essere ripudiato e bandito dalla sua stirpe per decisione di tutti, dia anche al figlio facoltà di pronunciare discorsi di uguale lunghezza per dimostrare che non merita di subire nulla di ciò e, se il padre convince gli altri e riporta a suo favore più della metà dei voti di tutti i consanguinei, essendo esclusi dal voto il padre stesso, la madre e il figlio [c] in causa come accusato, e votando tutti gli altri, quanti sono in età maggiore, donne e uomini, così e a queste condizioni abbia facoltà il padre di ripudiare e bandire il figlio, e in nessun altro modo. Se un altro cittadino vuole adottare il ripudiato, non ci sarà nessuna legge che abbia potere di impedirgli di adottarlo, infatti in ogni caso per natura l’indole e i costumi dei giovani mutano molte volte durante la loro esistenza, ma se nessuno vuole adottare il ripudiato, e questo abbia raggiunto l’età di dieci anni, allora si oc-[d] cupino anche di questi i responsabili dei figli cadetti che vengono inviati in colonia, affinché anche questi abbiano a partecipare in modo conveniente del medesimo avvio in colonia. Se una malattia o la vecchiaia o anche un carattere difficile, o tutto questo insieme, rendono qualcuno fuori di senno in modo straordinario fra i molti, e questa sua condizione è nascosta a tutti gli altri, meno che a quelli di casa, se inoltre rovina la sua casa in quanto è nelle sue mani la direzione di tutto il suo patrimonio e il figlio [e] è in dubbio ed esita ad accusarlo di demenza, sia per lui stabilita una legge che ordina che prima di tutto egli, recatosi dai più anziani dei custodi delle leggi, esponga la disgrazia del padre, ed essi - esaminata la cosa in modo sufficiente - lo consiglino se deve o no promuovere l’accusa, e, se lo consiglieranno in senso affermativo, essi stessi gli faranno da testimoni e lo assisteranno nel processo. Il padre che risulti così condannato, per il tempo rimanente sia privato per tutta la vita dei suoi diritti di proprietario dei suoi beni, e anche di disporre della cosa più piccola, e viva la vita che gli resta in tutto pacificato a un bambino.
X. Se marito e moglie non vanno per nessun verso d’accordo, perché i loro caratteri sono assortiti male e senza fortuna, bisogna che sempre di casi siffatti si occupino die-[930a] ci uomini appartenenti ai custodi delle leggi, quelli di età media, e dieci delle donne incaricate di curare i matrimoni, nelle stesse condizioni. Se possono far loro raggiungere un accordo, l’accordo avrà valore definitivo, se invece le anime ribollono più di quanto essi possano, bisogna che essi cerchino, come meglio si può, chi possa rispettivamente accoppiarsi ai due sposi con un buon accordo. Persone come queste verosimilmente non hanno carattere docile, occorrerà quindi provare ad adattare a costoro, come associati, caratteri di vita più profondi e più buoni. E per quanti di essi sono in disaccordo senza figli, o ne [b] hanno pochi, il nuovo matrimonio si farà anche in funzione dei figli, ma per tutti gli altri, i quali sono in disaccordo e i figli sono in numero sufficiente, il divorzio e il matrimonio successivo devono essere fatti allo scopo del procedere insieme verso la vecchiaia e della mutua assistenza fra gli sposi. Se una donna muore lasciando figlie e figli, la legge che vien posta consiglia, non costringe, di allevare i figli che ci sono senza introdurre in casa una matrigna; se muore senza figli, v’è obbligo di un nuovo [c] matrimonio fino a che si generino figli, in numero adatto alla famiglia e allo stato. Se un uomo muore lasciando un sufficiente numero di figli, la madre dei figli di quello, sopravvissuta, deve allevarli e, se è ritenuta essere ancora troppo giovane per poter vivere in salute senza l’uomo, i parenti si consultino con le donne incaricate di curare i matrimoni e facciano a tal proposito in conformità alla decisione comune agli uni e alle altre; se poi sono senza figli si metta in atto una decisione anche in funzione dei figli. L’esatto numero sufficiente di figli è fissato dalla [d] legge in un maschio ed una femmina. Quando si è d’accordo che il figlio generato è frutto di coloro che l’hanno fatto e vi è bisogno di decidere con quale dei due egli deve stare, ci si attenga a queste norme: se una donna schiava si è unita ad uno schiavo, a un libero, a un affrancato, il figlio in ogni caso appartiene al padrone della schiava; se una donna libera si unisce a uno schiavo, il figlio appartiene al padrone dello schiavo; se poi uno ha un figlio dalla sua schiava, o una donna libera lo ha da un suo schiavo, e la cosa diventa di dominio pubblico, le donne che curano i matrimoni invieranno in altra terra fuori dallo stato [e] il figlio della donna libera con suo padre; i custodi delle leggi faranno altrettanto per il figlio dell’uomo libero con sua madre.
XI. Nessun dio, nessun uomo che non sia stolto, potrà mai consigliare a chicchessia la negligenza verso i genitori. Bisogna pensare che, in relazione alla venerazione verso gli dèi, un proemio come questo che segue sarebbe composto in modo corretto per l’onore e il disonore che si danno ai genitori. Le antiche leggi sugli dèi stabilite presso tutti i popoli si dividono in due parti. Infatti ci sono dèi [931a] che noi onoriamo, avendoli sempre chiaramente davanti agli occhi; altri, di cui onoriamo le immagini elevandone le statue, e, mentre noi li veneriamo, anche se sono statue senza vita, riteniamo che a noi, proprio per questo, quelli, gli dèi viventi, abbiano molta benevolenza e gratitudine. Chi perciò ha il padre, la madre o i loro padri e madri, nella sua casa, come tesori giacenti riposti con cura e dalla vecchiaia esauriti, non pensi, nessuno che è in questa condizione, che mai potrà avere una statua che valga di più, qualora appunto abbia un simile monumento nel suo focolare e nella su famiglia, se appunto chi la pos-[b] siede saprà venerarla come si deve correttamente. CLIN. Quale dici essere il modo corretto di venerarli? ATEN. Lo dirò, e infatti, amici, queste almeno sono cose che meritano d’essere udite. CLIN. Non hai che da parlare. ATEN. Edipo, noi raccontiamo, disprezzato dai suoi figli, lanciò contro di loro le imprecazioni che, come ognuno dice, furono messe in atto e ascoltate dagli dèi; e così, raccontano, Amintore colmo di ira maledì il suo figlio Fenice, e Teseo Ippolito e innumerevoli altri padri maledicono innumerevoli [c] altri figli e da tutto ciò fu chiaro che gli dèi esaudiscono i genitori contro i figli. E infatti la maledizione dei padri sui figli è la più terribile di ogni altra su ogni altro, ed è giustissimo. Nessuno pensi che la divinità per natura ascolti la preghiera del padre, offeso gravemente dai figli, e della madre, in modo diverso dal genitore onorato e pieno di grande gioia, che - proprio per questo - invoca con preghiere gli dèi assiduamente per il bene dei figli; riterremo noi che anche siffatte preghiere gli dèi non ascoltino ugual-[d] mente e non dispensino a noi i beni richiesti? In caso contrario gli dèi non sarebbero mai imparziali nella distribuzione delle grazie, cosa che non si addice minimamente a loro, noi diciamo. CLIN. Certamente, e di molto. ATEN. Rendiamoci conto dunque, come poco fa dicemmo, che non potremmo tener statue più ben accette e preziose agli dèi di un padre e del suo genitore con le membra abbandonate per la vecchiaia, e delle madri che siano nella stessa condizione, e quando qualcuno rende loro omaggio con onori, la divinità gode: altrimenti, infatti, non ascolterebbe le loro preghiere. Senza dubbio infatti le statue [e] viventi dei progenitori hanno per noi un valore straordinariamente superiore a quelle inanimate: quelle infatti, quando noi le veneriamo, tutte quelle viventi, uniscono le loro preghiere sempre alle nostre, quando le disprezziamo, avviene il contrario; ma le statue inanimate non fanno né questo né quello, così che, se gli uomini si comportano rettamente verso il padre, il nonno e tutti gli altri simili, allora potranno acquisire per sé, fra tutte, le più possenti statue di dèi per ottenere un destino grato alla divinità. CLIN. Hai parlato molto bene. ATEN. Chiunque ha intelletto teme ed onora le preghiere dei genitori, sapendo che per molti e spesso sono state esaudite. Queste cose [932a] dunque sono così disposte per natura, e per i buoni sono un vero beneficio i genitori vecchi, viventi fino all’ultimo limite della vita; e se muoiono giovani nei buoni nasce un grande rimpianto, per i malvagi invece sono causa di molto terrore. Onori ognuno con tutti gli onori voluti dalla legge i suoi genitori, se persuaso ora da questi discorsi, ma se una voce pubblica lo domina, sorda a questi problemi, per costoro sarebbe ben stabilita questa legge: Se uno in questo stato è troppo negligente dei genitori [b] più del lecito, e non concede a loro in tutto e non dà compimento alle loro volontà di più che ai desideri dei suoi figli e di tutti i suoi discendenti e suoi, chi subisce una cosa siffatta, o lui stesso o inviando qualcuno, la denunci ai tre più anziani custodi delle leggi e alle tre donne più anziane fra quelle che curano i matrimoni; questi si prenderanno cura della cosa, punendo coloro che commettono l’ingiustizia con le frustate e il carcere se sono ancora [c] giovani, cioè fino ai trenta anni, se sono uomini, e le donne siano punite - con le stesse punizioni - dieci anni di più. Se poi questi figli giunti oltre alla suddetta età non si asterranno dall’essere nello stesso modo negligenti dei genitori, e alcuni maltratteranno in qualche caso i loro genitori, questi li portino davanti ad un tribunale di cento e uno cittadini, i quali siano i più vecchi di tutti. Se qualcuno è riconosciuto colpevole decida il tribunale ciò che deve pagare come multa o subire come pena, non ritenendo nulla a sé proibito di quanto un uomo può subire o pagare. [d] Se uno di questi genitori maltrattati non è nelle condizioni di poter fare la denuncia, essa sia fatta ai magistrati da chiunque, uomo libero, viene a sapere dei maltrattamenti, altrimenti sia pubblicamente biasimato come uomo cattivo e sia perseguito in giudizio per danneggiamento da chiunque vuole farlo. Se la denuncia vien fatta da uno schiavo, sia liberato; se è uno schiavo appartenente a chi maltratta o ai maltrattati, sarà affrancato dai magistrati stessi; e se è uno schiavo di qualche altro cittadino, l’erario della comunità pagherà il suo riscatto al padrone. I magistrati avranno cura che nessuno commetta ingiustizia nei confronti di un uomo siffatto, punendolo a causa della sua denuncia.
[e] XII. Per quanti sono i casi in cui un uomo ne danneggia un altro con veleni, abbiamo già trattato dei venefici mortali; non abbiamo parlato ancora per nulla degli altri danneggiamenti che qualcuno compie volontariamente e con premeditazione, a mezzo di bevande cibi e unguenti. Le due specie di venefici in uso presso il genere degli uomini, infatti, ora trattengono il procedere della nostra spiegazione. Quella di cui, infatti, or ora abbiamo parlato [933a] chiaramente, è la specie del veneficio che danneggia i corpi mediante l’azione dei corpi secondo natura; ma l’altra, quella che agisce con magie, incantesimi, e le cosiddette "legature", persuade chi ha l’audacia di danneggiare altri della possibilità di compiere il loro desiderio, e gli altri poi che subiscono da questi, che sanno fare le magie, dei danni superiori a quelli causati in ogni altro modo. Tutte queste cose e quelle simili non è né facile conoscere come sono nella loro natura, né, se uno cono-[b] scesse ciò, potrebbe facilmente persuadere gli altri. Né vale la pena di provare a persuadere le anime degli uomini, che, in queste cose, si turbano guardandosi l’un l’altro, per convincerli che se mai vedano, qualcuno di loro, in qualche luogo, piccole immagini modellate in cera, alla porta o nei trivi o sulle tombe dei genitori, non devono far conto di tutto ciò che v’ha di simile, ed esortare a ciò uomini che non hanno alcuna chiara opinione su queste cose. Distinguendo due aspetti della legge su tutto il complesso dei venefici, a seconda di quello dei due modi nel quale uno si attenta ad usare veleni o magie, [c] prima di tutto si preghi, si inviti, si consigli a non dover tentare mai di fare queste operazioni magiche, a non spaurire i molti fra gli uomini che sono pieni di terrore come bambini, né a costringere il legislatore e il giudice a prendere provvedimenti per guarire queste paure degli uomini, nella convinzione che prima di tutto chi tenta queste operazioni non sa che cosa fa, non sa che cosa fanno i venefici dei corpi, a meno che non sia in possesso della scienza medica, non sa quali siano le conseguenze delle pratiche di magia, a meno che egli non sia [d] un indovino o un interprete dei prodigi. Sia detto questo discorso come legge sui venefici: Chi opera venefici contro un uomo per danneggiarlo, non con danno non mortale su di lui né sui suoi uomini, ma per compiere un altro danno o un danno mortale sul suo bestiame o le sue api, se è un medico ed è riconosciuto colpevole di veneficio, sia condannato a morte, se è un cittadino privato qualunque, decida su di lui il tribunale la multa o le altre pene che deve subire o pagare. Chi è riconosciuto, per mezzo di "legature", evocazioni, incantesimi e ogni altro [e] simile veneficio, comportarsi in modo simile a colui che danneggia, se è indovino o interprete dei prodigi sia condannato a morte, se invece è riconosciuto colpevole di veneficio senza arte divinatoria, si faccia per lui lo stesso; anche in questo caso decida il tribunale infatti ciò che ad essi pare esso debba subire o pagare. Per tutti i danni recati mediante furto o violenza dall’uno all’altro, il primo paghi un risarcimento al danneggiato, più grande per i danni più gravi, più piccolo per i danni meno gravi da lui recati, e in tutti i casi il risarcimento sarà di tanto, di quanto, ogni volta, abbia qualcuno danneggiato un altro, fino a che abbia riparato il danno subito da qualcuno. Ciascuno pagherà inoltre un’altra pena, che si adatti a ciascun danno e maleficio, oltre al risarcimento di tale [934a] maleficio, allo scopo di rieducare il colpevole, pena più leggiera chi ha fatto il maleficio per stoltezza altrui a causa della imprudenza giovanile o per altro di simile dietro istigazione altrui, più grave chi ha agito per stoltezza propria o per intemperanza di piaceri e dolori, dominato da paure proprie della viltà, da desideri, da invidie, da ire, difficili a curare; e sarà punito non in quanto ha già fatto del male, perché quello che è avvenuto non sarà mai non avvenuto, ma perché per il futuro lui e chi assiste [b] alla sua punizione abbiano in odio l’ingiustizia assolutamente, o almeno guariscano in buona parte da siffatta sventurata malattia. Per tutte queste ragioni bisogna che le leggi, mirando anche a tutto ciò che v’ha di simile, come un abile arciere si dirigano all’obiettivo della entità della punizione in relazione a ciascun caso, e sempre assolutamente verso il giusto suo valore. Nel realizzare questa medesima opera il giudice deve essere di aiuto al legislatore, quando una legge dà a lui di decidere quali pene e [c] multe deve subito pagare il giudicato, mentre il legislatore come un pittore deve delineare le sue opere in modo, che esse seguano le linee del modello; la qual cosa noi dobbiamo fare anche ora, Clinia e Megillo, nel modo più bello e più valido possibile: dobbiamo dire le pene di tutti i furti e di tutti gli altri atti di violenza, dicendole quali debbono venir ad essere, e dobbiamo dirle nel modo in cui ci concedano di legiferare su questa materia gli dèi e i figli degli dèi.
XIII. Se uno è pazzo non sia permesso che lo si veda per la città; i parenti di ciascuno di questi li custodiscano [d] in casa nel modo in cui sappiano farlo, o paghino una multa di cento dracme se appartenenti alla prima classe, sia che il colpevole non sorvegli uno schiavo sia un cittadino libero; se della seconda classe la multa è di quattro quinti di mina, di tre quinti se della terza e di due quinto della quarta. Sono pazzi dunque molti e in molti modi; quelli di cui ora si è detto lo divengono a causa di malattie, altri però impazziscono per cattiva natura e educazione sopravvenuta dell’anima irascibile. Sono questi coloro che, alla più piccola occasione di inimicizia che avvenga, emet-[e] tono torrenti di voce e parlano, insultandosi ingiuriosamente, l’uno dell’altro; e nulla di tal genere in uno stato di cittadini ben governati non conviene avvenga in nessun luogo, in nessun modo. Per le ingiurie di tutti sia stabilita questa unica legge: nessuno ingiuri nessuno. Colui che sostiene una contestazione in certi discorsi con un altro, esponga il suo parere e ascolti per apprendere quello degli altri, sia per quanto riguarda l’avversario che i presenti, e assolutamente si astenga dall’ingiuriare. Infatti dal reci-[935a] proco imprecare e maledirsi, dal riferire a se stessi dicerie in uso presso le donne con lo scagliarsi epiteti ingiuriosi, prima che da altro dai discorsi, cosa leggera, sorgono nella realtà gli odii e le inimicizie più gravi. Chi parla e si abbandona con piacere alla collera, cosa sgradita, e nutre la sua ira di cattivo cibo, di quanto un tempo si era addomesticato grazie all’educazione, questa parte della sua anima rendendo di nuovo selvaggia, viene così a vivere, mutatosi in una belva, nel cattivo umore e inselvatichisce di nuovo e raccoglie la ricompensa amara dell’ira. Di frequente in occasione di dispute verbali tutti in qualche [b] modo sono soliti passare a deridere l’avversario; ma se qualcuno prende questa abitudine, non ci fu mai nessuno di questi che non abbia fallito del tutto il raggiungimento del costume di vita serio o non abbia perduto in gran parte la sua grandezza d’animo. Per queste ragioni assolutamente nessuno mai per nulla gridi qualcosa di simile nei templi, né in certi sacrifici pubblici, né alle gare, né al mercato, né in tribunale, né in nessuna pubblica riunione. Ciascun magistrato, che presiede a queste istituzioni, impunemente è tenuto a castigare questi individui, sotto pena di essere escluso per sempre dalle competizioni per [c] i primi premi di virtù, in quanto negligente delle leggi e come colui che non fa ciò che è stato ordinato dal legislatore. In altri luoghi se una persona qualsiasi, cominciando ad ingiuriare o per difendersi, non si astiene da siffatti discorsi, chiunque vi si imbatte, più avanzato di età, difenda la legge, cacciando con bastonate chi si abbandona alla collera, altro male, o sia sottoposto alla multa stabilita. E noi diciamo ora che, quando uno attacca lite [d] con ingiurie, non può ingiuriare senza cercar di dire cose che deridano; ora noi condanniamo questo riso quando avviene per ira. Ebbene? Approviamo noi lo slancio dei comici nel dire cose ridicole contro gli uomini, se senz’ira costoro intraprendono a dire cose siffatte mettendo in ridicolo così i nostri cittadini? Oppure dobbiamo dividere in due aspetti questa materia, in base alla presenza o alla assenza dello scherzare per gioco: e sia dunque permesso ad uno che scherza di dire qualcosa di ridicolo su qualcuno senz’ira, e invece a chi lo fa intenzionalmente e con [e] ira, come dicemmo, non sia permessa tal cosa, a nessuno di costoro? Questo non deve essere assolutamente differito, e allora stabiliamo per legge a chi sia lecito e a chi non sia lecito far ciò. Al poeta comico, al poeta di carmi giambici o lirici, non sia lecito né con parole né con immagini, né con ira, né senza ira, satireggiare, in nessun modo, nessuno dei cittadini. Chi non obbedisce a [936a] questa legge sarà assolutamente espulso dal territorio il giorno stesso, da parte degli organizzatori della competizione poetica, sotto pena di una multa di tre mine da consacrarsi al dio cui è dedicata la competizione. Quanto agli altri cui noi prima abbiamo detto esser lecito satireggiare qualche persona, a questi sia lecito farlo fra di foro senza ira e per gioco, ma con intenzione ostile o arrabbiati, non sia lecito. La ricognizione e il giudizio su questo sia attribuita al magistrato che cura l’educazione generale della gioventù e, ciò che egli ammetterà, sia lecito all’autore portarlo a conoscenza di tutti, ciò che egli respingerà né l’autore [b] potrà più mostrarlo a nessuno né risulti mai ad altro insegnarlo, né schiavo né libero, oppure sia pubblicamente ritenuto come cattivo cittadino e disobbediente alle leggi.
XIV. Non è degno di compassione chi ha fame o patisce qualche altro male del genere, ma chi - essendo saggio e temperante o avendo qualche virtù o parte di questa - oltre a ciò ha acquisito anche qualche sventura. Perciò sarebbe strano se, pur essendo tale, lo si abbandonasse del tutto, in modo che giunga all’estrema povertà, schiavo o libero che sia, anche in una costituzione e in uno stato che abbia una mediocre organizzazione. Perciò per il legi-[c] slatore è misura di sicurezza disporre per costoro una legge come questa: nel nostro stato non ci sia nessun mendicante, e chi tenta di mendicare e di raccogliere così il cibo con interminabili preghiere, lo caccino dal mercato gli agoranòmoi, dalla città la magistratura degli astynòmoì, da tutto il territorio restante lo mandino via fino ai confini gli agronòmoì in modo che tutta la nostra terra sia completamente purificata da simili animali. Se uno schiavo o una schiava danneggia una cosa qualsiasi appartenente [d] ad altri, senza che ne abbia, insieme allo schiavo, causa il danneggiato, e ciò avviene per inesperienza o per qualche altro uso non saggio, il padrone dello schiavo che ha danneggiato o risarcirà il danno completamente, o consegnerà lo schiavo stesso a chi l’ha subìto. Se il padrone dello schiavo li accusa e sostiene che l’accusa è sorta per connivenza in un imbroglio proprio del danneggiante e del danneggiato allo scopo di privarlo dello schiavo, intenti un processo per truffa contro il sedicente danneggiato, e, se vince la causa, riceva una somma pari al doppio [e] del valore dello schiavo valutato dal tribunale, se invece perde, risarcisca il danno e insieme consegni lo schiavo. Se una bestia da tiro o un cavallo o un cane, o qualche altro animale allevato, rovina qualche cosa dei vicini, il danno sia riparato secondo la legge precedente. Se una persona si rifiuta volontariamente di testimoniare, sia citato da chi ha bisogno della sua testimonianza, e chi è stato citato si presenti al processo; se è a conoscenza dei fatti oggetto del dibattito, e accetta di testimoniare, abbia luogo la sua testimonianza; se nega di sapere, giuri per i tre dèi, [937a] Zeus, Apollo, e Temi, assolutamente di non sapere e abbandoni il processo. Se chi è citato come testimone non si presenta a chi l’ha citato, sarà perseguito per danni contro la legge. Se uno fa alzare uno dei giudici a testimoniare, questi, prestata la testimonianza, non potrà più dare il voto per la sentenza nello stesso processo. Una donna libera avrà facoltà di testimoniare in un processo e di parlare in favore di qualcuno, se ha superato l’età di quaranta anni e di intentare causa, se è vedova; finché vive il marito i suoi diritti si limitano in questo campo alla sola testimonianza. Alle schiave, agli schiavi, ai bambini sarà lecito [b] soltanto di testimoniare e di parlare a favore solo nei processi per omicidio, purché uno presenti un mallevadore sufficiente, che garantisca la loro presenza al processo fino alla sentenza, per il caso che uno li accusi di falsa testimonianza. Ciascuna delle due parti in causa può accusare di falso tutta una testimonianza, o una parte, se afferma che uno abbia testimoniato il falso, prima che la sentenza sia stata emessa. I magistrati custodiranno le accuse di falso per iscritto, sigillate da ambedue le parti e le forni-[c] ranno al giudizio di falsa testimonianza. Se uno è condannato due volte per falsa testimonianza non sarà più tenuto all’obbligo di testimoniare da nessuna legge, se tre volte non gli sia più lecito testimoniare. Se quest’ultimo condannato tre volte oserà testimoniare ancora, lo denunci alla magistratura chi vuole, la magistratura lo consegni al tribunale, e, se riconosciuto colpevole, sia condannato a morte. Per quanto riguarda le testimonianze che vengono condannate in giudizio, come testimonianze di uomini che appunto apparvero dare falsa testimonianza e aver procurato la vittoria al vincitore della causa, qualora siano [d] state condannate più della metà delle testimonianze siffatte, la causa, perduta su questa base delle testimonianze false, sia di nuovo giudicata, e si faccia il dibattito e la sentenza se si sia il verdetto appoggiato o no sulle testimonianze in questione, e la nuova sentenza, comunque sia, ponga termine a tutte le azioni giudiziarie precedenti.
XV. Ci sono molti aspetti e belli nella vita degli uomini, ma per la maggior parte di essi si dà che quasi le dee della morte come sventure nascono sopra di loro ed esse quegli aspetti contaminano e insudiciano; come non [e] dire belle anche le azioni della giustizia fra gli uomini che hanno reso civile quanto v’è di umano? Bella la giustizia, come non dovrebbe essere bella da noi anche l’avvocatura? Ebbene, essendo queste cose così come si è detto, un vizio le rende odiose agli occhi di tutti, anche se coperto di un bel nome, del nome di ‘arte’. Il quale vizio prima di tutto dice che c’è un mezzo da applicarsi alle cause - esso, dice, è il mezzo di agire in giustizia e di assistere un altro nel giudizio -, mezzo che può far vincere, siano o no condotte in modo giusto le azioni di [938a] ciascun processo, e il dono che si fa dell’arte stessa e dei discorsi che nascono dall’arte vi sarà se qualcuno in cambio fa dono di ricchezze. Questa cosa, si tratti pure d’arte, o piuttosto di abilità che nasce dall’esperienza e dall’uso privo d’arte, nel nostro stato non deve assolutamente attecchire. Il legislatore li prega di obbedire e non replicare cose contrarie alle parole della giustizia e di andarsene fuori in altro luogo; e tace la legge per chi si lascia convincere di ciò, per chi non obbedisce questa è invece la sua voce: Se qualcuno risulterà tentare di volgere [b] all’ingiustizia la forza della giustizia che è nelle anime dei giudici, chi tenterà fra costoro, inopportunamente, di moltiplicare i processi e di intervenire in difesa, sia accusato, da chi vuole, di disonestà giudiziaria o anche di disonesta avvocatura, sia giudicato nel tribunale dei giudici scelti per merito e, se riconosciuto colpevole, valuti il tribunale se appare fare tali azioni per avidità di denaro o per ambizione; e, se è per ambizione, fissi per lui il tribunale per quanto tempo un uomo siffatto non potrà intentare causa a nessuno né parlare in difesa di qualcuno; [c] se per avidità di denaro, lo straniero se ne vada dal territorio dello stato e non vi ritorni più pena la morte, il cittadino sia condannato a morte per una avidità di denaro che da lui è stimata ed onorata assolutamente; e, se qualcuno è giudicato far ciò due volte per ambizione, sia condannato a morte.
XII
[941a] I. Se uno si spaccia come ambasciatore o messaggiero dello stato e fa una falsa ambasciata presso un altro stato, o se inviato dallo stato non fa le vere ambasciate per cui è inviato, oppure ancora se dai nemici o anche dagli amici non risulta riportare fedelmente le loro ambasciate di risposta o messaggi, siano accusati, questi e quelli come lui, come colpevoli di empietà, contro la legge, nei confronti delle ambasciate e degli ordini di Hermes e di [b] Zeus e si stabilisca ciò che deve subire o pagare se riconosciuto colpevole. Rubare danaro è azione di uomo servile, rapinarlo è di uomo impudente. Nessuno dei figli di Zeus, né per frode né con violenza, mai si è compiaciuto di dedicarsi a nessuna di queste due attività. Nessun uomo, quindi, violando qui la norma armoniosa ingannato dai poeti, e, in altro modo, da certi raccontatosi di favole, si lasci persuadere da loro, e creda rubando o rapinando di non far nulla di vergognoso, ma ciò che fanno gli stessi dèi: infatti non è vero e non è verosimile; e chi commette queste azioni illecite, non è dio né figlio di dio. [c] Queste cose si addice conoscerle più al legislatore che a tutti i poeti insieme. Ora, chi obbedisce al nostro discorso è felice e viva per tutto il tempo felice; ma chi disobbedisce, dopo di ciò, se la veda con una legge come questa: Se uno ruba un bene pubblico, grande o anche piccolo, richiede la stessa pena. Chi ruba poco, infatti, ha rubato con lo stesso amore e con minore capacità; chi ruba il di [d] più, rimuovendo ciò che non ha deposto, commette ingiustizia totalmente. E allora la legge non ritiene giusto punire né l’uno né l’altro dei due con pena minore di nessuno dei due sulla base della entità del furto; ma sulla base del fatto che l’uno forse è ancora curabile, l’altro è inguaribile. Se dunque qualcuno dimostra in tribunale che uno straniero o uno schiavo è reo di furto di qualcosa dello stato, la decisione su che cosa quello deve subire o quale multa pagare sia presa come per uno che è verosimilmente [942a] curabile. Ma chi è cittadino e educato come sarà educato, se è condannato in quanto depreda la patria furtivamente, o violentemente, preso o no in flagrante, in quanto probabilmente è ormai inguaribile, sia condannato a morte.
II. Sulle campagne militari sono molti i consigli, molte le leggi che vengono date in modo corretto; ma la cosa più importante è che mai nessuno sia senza un capo, né uomo né donna, né l’anima di alcuno per abitudine abbia costume, né quando fa sul serio, né quando per gioco, di [b] agire da sé e isolatamente, ma totalmente in guerra e totalmente in pace si viva sempre gli occhi al comandante e lo si segua, ci si faccia guidare anche nelle minime cose da lui - per esempio, quando lo comanda, sostare e mettersi in marcia e fare gli esercizi e lavarsi e mangiare e svegliarsi di notte per montar di guardia e per portare messaggi, e nei momenti stessi di pericolo non si avanzi per inseguire qualcuno, non si indietreggi davanti ad un [c] altro senza l’ordine dei comandanti, in una parola si insegni alla propria anima mediante abitudini a non conoscere, a non sapere assolutamente l’agire in qualche cosa separatamente dagli altri, ma la vita di tutti sia sempre e insieme, quanto più è possibile, in gruppo e comune con tutti; di questo infatti non c’è né ci sia mai cosa superiore né migliore né più a regola d’arte per la salvezza in guerra e la vittoria. E a questo bisogna esercitarsi in pace sùbito fin da bambini, a comandare cioè agli altri ed essere da altri comandati. Bisogna strappare da tutta la vita di [d] tutti gli uomini e degli animali sottomessi all’uomo l’insubordinazione. Si danzino anche tutte le "danze corali" che mirano alle azioni eroiche in guerra e si mettano in pratica allo stesso fine tutto il complesso degli esercizi di agilità e di destrezza, e gli esercizi del sopportare la fame e la sete, il freddo e il caldo e il duro giaciglio; e, ciò che è la cosa più importante, non si deve corrompere la forza della testa e dei piedi coprendoli con indumenti estranei a loro, impedendo la generazione e la formazione [e] dei peli propri della testa e della callosità sotto le piante, calzari naturali. Queste infatti, che sono le estremità, se vengono ben conservate hanno la potenza più grande in tutto il corpo, il contrario se si fa il contrario; i piedi sono infatti i più importanti servitori di tutto il corpo, e la testa ne possiede la suprema direzione, perché ivi risiedono per [943a] natura tutti i sensi dirigenti. Bisogna dunque ritenere giusto che il giovane debba ascoltare questa lode della vita di guerra che abbiamo detta, e queste leggi poi che seguono: Chi è stato arruolato o comandato di qualche missione deve prestar servizio come soldato. Se qualcuno diserta per una qualche viltà, e non è stato dimesso dagli strateghi, sia accusato di diserzione davanti ai magistrati militari quando ritornino dal campo; lo giudichino separatamente ciascun gruppo di quelli che hanno partecipato alla campagna, opliti, cavalieri e ciascun altro gruppo di forze militari analogamente, e si portino gli opliti davanti agli [b] opliti, i cavalieri ai cavalieri e nello stesso modo gli altri davanti ai loro compagni corrispondenti. Chi è riconosciuto colpevole sarà escluso per sempre dal partecipare ad ogni competizione che abbia come oggetto la virtù militare in generale, né accusi mai un altro per diserzione, né sia mai accusatore in tali processi; inoltre il tribunale decida in più per lui che cosa deve subire come pena o pagare come multa. Dopo di ciò, esauriti i processi per diserzione, i comandanti di ciascun raggruppamento di [c] nuovo riuniranno i loro soldati, e chi vuole sia giudicato per i primi premi per gli atti di valore, nell’àmbito della sua schiera; non si riferirà però nella sua proposta a nulla che riguardi nessuna precedente campagna, non fornirà nessuna prova, non porterà nessuna conferma con discorsi di testimoni, ma solo per ciò che riguarda la campagna militare da loro allora condotta. Il premio della vittoria sarà una corona di olivo per ciascuno; questa venga appesa nei templi degli dèi della guerra, quegli dèi che il vincitore preferisca, e si apporrà una scritta, testimonianza per tutta la vita del giudizio sul primo premio per virtù militari; e così per il giudizio sul secondo e sul terzo premio. [d] Se qualcuno partecipa a una campagna militare, e ritorna a casa prima del tempo, senza che lo abbiano rimandato i comandanti, sia accusato di abbandono del posto nella schiera davanti agli stessi giudici davanti ai quali si fanno i processi della diserzione e i colpevoli, riconosciuti tali, siano sottoposti alle stesse pene che prima furono stabilite per i disertori. Ogni uomo nell’accusare di qualsiasi accusa ogni uomo deve temere di far applicare a lui un falso castigo, né volontariamente né involontariamente, per [e] quanto può; si dice infatti, e con verità lo si è detto, che la vergine Giustizia è figlia del Pudore e la menzogna è odiosa per natura al pudore e alla giustizia; e, se in ogni occasione bisogna guardarsi dall’offendere la giustizia, specialmente lo si deve fare a proposito anche del gettar via le armi in guerra, affinché qualcuno, sbagliandosi nei casi di abbandono delle armi inevitabile, non li renda oggetto di biasimo come fossero veramente vergognosi, e non intenti ingiustamente un’azione penale contro chi non la merita. Non è dunque in nessun modo facile distinguere l’una dall’altra queste situazioni, d’altra parte la [944a] legge deve tentare di definirle in qualche modo suddividendo in parti questa materia. Ricorriamo al mito e diciamo insieme che se Patroclo portato alla sua tenda senza le armi fosse ritornato a respirare, come accadde a innumerevoli combattenti, e, quelle armi superiori a tutte, quelle armi che, dice il poeta, prima furono date in dono dagli dèi come dote, per Peleo, a Teti nelle sue nozze, quelle armi avesse tenuto Ettore, allora, dico, sarebbe stato possibile, a quanti vi erano di malvagi fra quelli di allora, di rimproverare al figlio di Menezio di aver abban-[b] donato le armi. E ancora quanti persero la armi precipitando, gettati giù, da luoghi scoscesi, o nel mare, o nel travaglio delle tempeste, sorpresi e improvvisamente trascinati da torrenti d’acqua o in mille e mille altre circostanze siffatte, che qualcuno potrebbe cantare a consolazione per abbellire una sventura che si presta alla calunnia. Bisogna così tagliare, nei limiti del possibile, e separare ciò che è più grande e spiacevole male dal suo contrario. E, direi dunque, la applicazione dei nomi delle cose di cui parliamo, nelle frasi di ingiuria, osserva un certo taglio distintivo. Infatti non si può dire che la denominazione ‘che getta lo scudo’ si possa ugualmente applicare giu-[c] stamente in tutti i casi a chi invece "abbandona le armi"; non nello stesso modo, infatti, chi è stato spogliato delle armi con verosimile violenza e chi le ha gettate via volontariamente, risulterà "che ha gettato lo scudo": la differenza è totale, direi, e completa. Sia così formulata la legge: Se un soldato sorpreso dai nemici con le armi in mano non li affronta rivolgendosi contro e non si difende, ma spontaneamente le abbandona o le getta, preferendo una vita di vergogna e di viltà alla morte gloriosa e felice che si accompagna al coraggio, di questo abbandono delle [d] armi vi sia la punizione perché sono state gettate, e il giudice non trascuri di esaminare l’abbandono di cui si è detto qui sopra. Bisogna infatti sempre punire il malvagio affinché si migliori, non lo sventurato; non dà infatti nessun giovamento. Quale sarà dunque la punizione conveniente a chi getta una siffatta potenza delle armi di difesa e la fa diventare l’opposto? Non è possibile agli uomini infatti fare analogamente, in senso contrario, quanto si dice aver fatto una volta la divinità che cambiò in uomo, da donna che era, Ceneo di Tessaglia; infatti la punizione più conveniente di gran lunga su tutte, in certo modo, per un uomo che ha gettato lo scudo era la generazione con-[e] traria a quella che si è detta, quella che muta da uomo in donna, una volta che gli sia potuta accadere. Ma ora, con la maggiore approssimazione a ciò, a causa dell’amore dell’esistenza, perché un uomo così viva tutta la sua vita che gli resta senza affrontare più il rischio, e per il tempo più lungo possibile viva, essendo vile, coperto di vergogna, sia questa la legge per costoro: L’uomo il quale sia riconosciuto colpevole in giudizio di aver gettato vergognosamente le armi in guerra, costui non utilizzino più come soldato né uno degli strateghi né un altro mai dei capi militari, [945a] né diano a lui più il suo posto nella schiera di qualsiasi corpo. In caso contrario l’inquisitore ne chieda ragione al colpevole e, se colui che ha messo in schiera il vile è della prima classe, lo punisca con una multa di mille dracme, di cinque mine se della seconda, di tre mine se della terza, di una mina se della quarta. Il soldato riconosciuto in giudizio colpevole, poi, oltre ad essere stato escluso per la sua natura dai pericoli degli uomini coraggiosi, pagherà una multa di mille dracme se è della prima classe, di cinque [b] mine se della seconda, di tre mine se della terza, e di una, come i precedenti, se della quarta.
III. Quale discorso nostro potrà essere conveniente sugli inquisitori dei magistrati che saranno gli uni tratti a sorte ed annuali, gli altri in carica per un maggior numero di anni ed eletti fra coloro che sono stati prescelti a tale ufficio? E su questi chi adeguatamente potrà assolvere il compito di inquisitore investigando quale dei magistrati e che cosa dica di storto o agisca nella sua magistratura piegato sotto il peso della sua responsabilità - se, d’altra parte, ciò accada anche per suo difetto di capacità in paragone al valore della sua magistratura? Non è in nessun [c] modo facile trovare un magistrato dei magistrati che li superi tutti per virtù eccezionale, d’altra parte bisogna provare a ricercare degli inquisitori che siano uomini divini. E’ infatti così. Sono molte le situazioni e le cose che si prestano alla dissoluzione della costituzione come per una nave, o un animale, e con molte denominazioni le diciamo ‘situazioni fortemente intense’, ‘fasciature’, ‘tendini’ e sono una sola natura che è disseminata in più luoghi, la quale noi denominiamo così in modo molteplice. L’ufficio degli inquisitori è una, e non la meno importante, fra le condizioni del fatto che si salvi o del-[d] l’andare dissolta la costituzione. Se, infatti, coloro che chiedono ragione del loro operato ai magistrati sono migliori di questi ed operano con giustizia irreprensibile, e in modo irreprensibile, tutto lo stato e il suo territorio fioriscono e prosperano felici; se invece l’inquisizione sui magistrati avviene altrimenti, allora viene a sciogliersi il legame della giustizia che deve tenere insieme e unificare tutte le diverse strutture dello stato, e così ogni magistratura viene strappata e divisa l’una dall’altra, ed esse, non volgendo più il loro assenso allo stesso fine, rendendo molte-[e] plice lo stato da uno che era, riempiendolo di discordie e di rivolte, in breve lo distruggono. E’ per questo che occorre che gli inquisitori da ogni punto di vista siano oggetto di meraviglia per ogni virtù. Costruiamo, in certo modo, per loro una nascita e una generazione come questa che dirò. Ogni anno, dopo il volgere del sole dall’estate all’inverno, tutta la popolazione si riunirà nel recinto sacro e comune ad Helio e ad Apollo e indicherà al dio [946a] tre uomini fra essi, indicando ciascuno quello che ciascuno di loro ritiene essere da ogni punto di vista il migliore, ad eccezione di se stesso, e che abbia non meno di cinquant’anni. Fra i prescelti con la prima proposta si scelgano quelli che riportino il voto da parte del maggior numero di votanti, fino alla metà dei voti se sono in numero pari, e, se sono dispari, si escluda un candidato, quello che avrà avuto meno suffragi; si lasci dunque da parte la metà di quelli, e cioè respingendoli in base all’ammontare dei voti, e se c’è parità di voti fra qualche candidato e fanno aumentare la metà del numero dei candidati, si tolga [b] via il di più respingendo in base all’età più giovane, e - approvati gli altri - si torni a votare, finché ne rimarranno tre con voti disuguali. Se tutti e tre o due di loro avranno parità di voti ci si affiderà alla buona fortuna ed alla sorte sorteggiando il vincitore, il secondo ed il terzo. Essi saranno incoronati d’olivo e, dando ad essi i premi, a tutti si proclamerà che lo stato dei Magneti, una seconda volta salvato dagli dèi, ha indicato ad Helio i suoi tre migliori cittadini e li consacra secondo la legge antica [c] come primizie comuni ad Apollo e ad Helio, per tanto tempo per quanto essi saranno degni della scelta. Nel primo anno essi nomineranno altri dodici inquisitori, che resteranno in carica fino a che ciascuno compia settantacinque anni; dopo se ne aggiungano sempre tre nuovi ogni anno. Questi, divise tutte le magistrature in dodici parti, esamineranno sempre i magistrati con tutte le prove che si addicono ad uomini liberi. Essi abiteranno per [d] tutto il tempo del loro ufficio di inquisitori nel recinto sacro ad Apollo e ad Helio, dove è avvenuta la loro elezione. Giudicheranno, sia ciascuno singolarmente sia anche con gli altri collegialmente, i magistrati dello stato usciti di carica e dichiareranno mediante un rapporto scritto, che metteranno a disposizione del pubblico nella piazza del mercato, ciò che per ogni magistratura si deve subire come pena o pagare come multa secondo il parere degli inquisitori. La magistratura, qualsiasi sia, che non ammette di esser stata giudicata giustamente, faccia comparire gli inquisitori davanti ai giudici scelti per merito e, nel caso in cui qualcuno sia prosciolto dalle censure relative al consuntivo della sua carica, potrà, se vuole, accu-[e] sare in giudizio gli stessi inquisitori; se invece è condannato, e se già gli inquisitori lo abbiano condannato a morte, come è necessario non dovrà far altro che morire, ma per tutte le altre pene che si possono scontare raddoppiate, sarà tenuto a scontarle raddoppiate. Bisogna ora ascoltare quali saranno, e in quale modo, le rese dei conti anche di questi magistrati. A costoro, viventi, a questi uomini che tutto lo stato ha giudicati degni dei primi [947a] premi, spettino i primi posti in tutte le solenni assemblee, ed inoltre per tutti i sacrifici comuni a tutti i Greci, per tutte le deputazioni sacre, e tutte le altre cerimonie sacre cui partecipano; fra loro verranno scelti i capi da inviare alla testa di ciascuna deputazione; essi soli in tutto lo stato saranno incoronati di alloro. Essi, tutti, saranno sacerdoti di Apollo e di Helio, e ogni anno sarà primo sacerdote quello che sarà stato giudicato migliore, fra quelli [b] che sono sacerdoti in quell’anno, e il suo nome si inscriverà ogni anno, affinché divenga la misura del calcolo del tempo, finché lo stato avrà vita. Per loro, morti, l’esposizione della salma, il funerale e la tomba saranno diversi dagli altri cittadini. Saranno tutti vestiti di bianco, non ci saranno pianti e lamentazioni; un coro di quindici ragazze e un altro di quindici giovani staranno intorno al letto funebre, da una parte e dall’altra, e a turno canteranno il canto di lode del morto, composto come un inno per [c] i sacerdoti defunti, e per tutto il giorno diranno nel canto la sua felicità. All’aurora, il giorno dopo, lo stesso letto funebre sarà portato alla tomba da cento giovani scolari dei ginnasi, scelti dai parenti del morto; avanti marceranno i giovani celibi, rivestiti ciascun gruppo delle loro armi; i cavalieri a cavallo, gli opliti con le armi pesanti e gli altri così, con le loro armi; davanti al feretro cam-[d] mineranno i bambini cantando il canto della patria. Dietro al morto seguiranno le fanciulle e tutte le donne che abbiano superato l’età della procreazione, poi i sacerdoti e le sacerdotesse che, se pur sono esclusi da tutti gli altri funerali, seguiranno questo perché purificatore, ammesso che anche la Pizia ne convenga nello stesso modo e non altrimenti. Essi avranno una tomba costruita sotto la terra a volta oblunga, fatta con pietre porose e resistenti il più possibile alla vecchiaia, e avrà letti di pietra paralleli posti [e] l’uno presso l’altro. Il beato defunto vi sarà deposto; dopo aver ammucchiato la terra intorno alla tomba, intorno vi pianteranno un bosco sacro lasciando scoperto un lato, perché la tomba possa estendersi in quella dimensione, la quale per tutto il tempo futuro rimarrà mancante dell’argine di terra per accogliere coloro che vi vengano deposti. Ogni anno in loro onore verrà organizzata una competizione musicale ginnica e di equitazione. Questi sono gli onori che si renderanno a coloro che sono sfuggiti alle difficoltà del rendiconto della loro magistratura. Ma se uno di loro, fidandosi delle elezioni avvenute a suo favore mostra la sua natura umana e diventa disonesto dopo la elezione, la legge ordinerà a chi vuole di accusarlo, e il processo [948a] avvenga in tribunale con una procedura come quella seguente. Facciano parte prima di tutto di questo tribunale i custodi delle leggi e, degli inquisitori stessi, quelli viventi e, oltre a questi, il tribunale dei giudici scelti per merito. L’accusatore accusi quello che egli accusa, e formuli un atto di accusa che dica che il tale e il tale è indegno del premio ottenuto e della magistratura. Se l’accusato è condannato, sia privato della sua carica, del funerale e delle altre distinzioni conferitegli; ma se l’accusatore non avrà ottenuto per la sua denuncia la quinta [b] parte dei voti del tribunale paghi una multa di dodici mine se della prima classe, otto se della seconda, sei se della terza e due se della quarta.
IV. Radamanto, per il modo con cui giudicava - come si racconta - i processi, è degno del nostro ammirato stupore, poiché egli conosceva - per averlo osservato - che gli uomini di allora credevano come cosa evidente all’esistenza degli dèi, e a buon diritto, perché in quel tempo i molti erano figli di dèi, e lui stesso, Radamanto, era uno di questi - così si racconta; e pare che egli ritenesse di non dover affidare a nessun uomo l’ufficio di giudice, ma solo agli dèi, e, quindi, le sentenze erano giudicate da lui in modo semplice e rapidissimo: infatti, dando alle parti in causa facoltà di giurare su ciascun punto contro-[c] verso, le dimetteva, liberandosene rapidamente e senza strascichi. Oggi però una parte degli uomini, diciamo, non crede assolutamente agli dèi, un’altra parte crede che essi non si curino di noi e l’opinione dei più, e dei peggiori anche, è che gli dèi - accettando piccoli sacrifici e qualche lode adulatoria - li aiutino a rubare grandi ricchezze e li liberino in molte occasioni da gravi punizioni; e oggi, che accadono queste cose, l’arte di Radamanto non sa-[d] rebbe più conveniente ai processi degli uomini contemporanei. Essendo dunque mutate le opinioni degli uomini sugli dèi, si devono di conseguenza mutare anche le leggi. E infatti le leggi fatte con intelletto devono togliere, nella prassi degli atti d’accusa, i giuramenti di ambedue le parti in causa, e colui che intenta a qualcuno una causa dovrà scrivere le sue accuse, senza giurare nulla, e ugualmente l’accusato presenterà per iscritto i suoi dinieghi ai magistrati, senza giuramento. E infatti, direi, sarebbe gravissimo, dato il grande numero di processi che si fanno nello [e] stato, dover riconoscere per certo che quasi la metà dei cittadini che vi partecipano hanno spergiurato, e si riuniscono fra loro, senza troppe preoccupazioni, nei "pasti in comune" e nelle altre assemblee e riunioni private di ciascun gruppo. Sia stabilita la legge che giuri il giudice prima del giudizio, e sempre faccia giuramento anche colui [949a] che dà investitura alle pubbliche magistrature, sia giurando direttamente, sia votando col deporre il sassolino traendolo dal sacro altare, e giuri il giudice dei "cori" e di tutte le competizioni "musicali", gli organizzatori e gli arbitri di quelle ginniche ed ippiche e di tutte quelle che per la umana opinione non danno un vantaggio allo spergiuro. Ma, per tutte quelle circostanze ove sembra essere evidente un grande guadagno a una negazione giurata, si giudichino con processi senza giuramento tutti coloro che reciprocamente si accusano. E in generale nei processi i giudici che presiedono non permetteranno a chi giura, [b] per dare maggior forza di persuasione alle proprie parole, di parlare, né imprecando contro di sé e la propria famiglia, né che ci si abbandoni a supplicazioni senza dignità e a pianti femminili. I giudici provvederanno perché le parti non facciano altro che sempre, fino alla fine, con parole di buon augurio informare gli avversari su ciò che è proprio della giustizia e apprenderlo da essi; e in caso contrario, come se uno andasse fuori del tema del suo discorso, i magistrati lo ricondurranno ogni volta al discorso relativo al fatto. Allo straniero rispetto agli stranieri, sia lecito accettare giuramenti l’uno dall’altro e dare giu-[c] ramenti, con pieno diritto, a loro piacimento come anche oggi è in uso; essi infatti non invecchieranno nello stato e, non facendovi il nido, per lo più non forniranno quali signori del territorio altri uomini simili a loro, essendo stati allevati con loro. In relazione alla procedura dell’atto d’accusa nei processi reciproci vale lo stesso metodo di discutere e concludere per tutti il giudizio. Per tutte le disobbedienze alle leggi dello stato di un uomo libero, non così gravi da essere punite con la frusta, con il carcere e con la morte - disobbedienze che riguardano la partecipazione a qualche festa "corale", o a processioni e a certe altre cerimonie pubbliche dello stesso genere, [d] o alla prestazione di pubblici servizi, quante in tempo di pace avvengano in relazione all’allestimento dei sacrifici, e per le contribuzioni in tempo di guerra - per tutto ciò la prima necessità, cui si possa venir incontro per riparare il danno, è di multare i colpevoli e, se si rifiuteranno, sia fatto un pignoramento sui loro beni da quelli cui lo stato, insieme e la legge ordineranno di farlo, riscuotendo il dovuto; e, qualora essi si rifiutino ancora di riscattare beni pignorati, questi saranno venduti e il denaro andrà a beneficio dello stato. Se occorre una punizione più forte, [e] ciascuna delle magistrature che applicano la multa conveniente alle varie disobbedienze, li deferiranno al tribunale, fino a che vorranno eseguire gli ordini.
V. E’ necessario ora decidere come deve essere regolato nel nostro stato - il quale non trarrà guadagno da nulla salvo che quello che deriva dai soli prodotti del suolo, né avrà nessuna attività mercantile con l’esterno - ciò che riguarda i viaggi esterni al territorio dei nostri cittadini e l’accoglienza degli stranieri che vengono da altri paesi. Per prima cosa il legislatore deve dare dei consigli su questa materia e cercare per quanto può di persuadere. Il frequente mescolarsi dei cittadini di uno stato con quelli di un altro per natura confonde insieme costumi di ogni [950a] sorta; stranieri gli uni agli altri non possono non essere occasione di reciproche novità e innovazioni nei rispettivi stati. Ciò porterebbe il danno più grave di tutti agli stati bene organizzati e fondati mediante buone leggi; per gli altri, per la maggioranza degli stati, in quanto in nessun modo ben governati, non v’è alcuna differenza nel mescolarsi, con l’accogliere quelli che sono stranieri a loro, e se si diano al bel tempo essi stessi negli altri stati, quando qualcuno desidererà fare un viaggio all’esterno, quale si sia il luogo e il tempo, sia giovane o vecchio. D’altra parte non è assolutamente possibile, direi, non accogliere altri [b] e non viaggiare noi altrove, e inoltre ciò apparirebbe selvaggio e scortese allo stesso tempo agli altri uomini, appariremmo usare parole dure, i cosiddetti bandi agli stranieri, e modi arroganti ed ostili; così penserebbero gli altri. Non si deve mai considerare trascurabile il fatto di avere o no una buona reputazione presso gli altri. Non di quanto infatti i molti si sbagliano nel raggiungere l’essere della virtù, di tanto anche si sbagliano nel giudicare gli altri, quanti sono malvagi e quanti buoni; e questo alcunché di divino e felice nel colpire è presente anche [c] nei cattivi, cosicché moltissimi, anche dei più fortemente malvagi, sanno ben distinguere nei loro discorsi e nelle loro opinioni i migliori dai peggiori degli uomini. Perciò è bella per la maggior parte degli stati la massima che dice di preferire la buona reputazione da parte dei molti. Ma la cosa più corretta e più importante è, essendo veramente buono, di cercar così di raggiungere la vita dotata di buona reputazione, ma non separatamente dalla virtù, in nessun modo, almeno per colui che vuol essere perfetto; ed anche allo stato che viene edificato in Creta sarebbe conveniente procurarsi da parte degli altri uomini [d] l’opinione più bella e migliore in relazione alla virtù, e dobbiamo attenderci - con ogni speranza fondata sulla verosimiglianza - che esso, se sarà come lo stiamo disegnando col discorso, con pochi altri si offrirà all’occhio del Sole e degli altri dèi nel numero degli stati e dei territori ben governati. Così bisogna dunque fare per i viaggi all’esterno dello stato in altre regioni e luoghi, e per l’accoglimento degli stranieri: prima di tutto sarà vietato uscire dalla frontiera per un viaggio all’esterno in qualsiasi luogo e modo a chi è più giovane di quarant’anni, e inoltre a nessun altro sia lecito farlo privatamente; per lo stato invece siano leciti i viaggi all’esterno agli araldi, alle ambascerie e a certuni come membri delle deputazioni dello [e] stato. I viaggi per motivi di guerra e le spedizioni militari non meritano di essere indicati nel numero dei viaggi per motivi politici - come se vi appartenessero. A Pito per Apollo, ad Olimpia per Zeus, a Nemea e all’Istmo bisogna inviare delle delegazioni a partecipare ai sacrifici e alle gare in onore di questi dèi; bisogna inviare, quanto più si può, il maggior numero di cittadini e i più belli e i migliori; essi saranno tali da creare la reputazione di buona fama al nostro stato durante le riunioni religiose e pacifiche comuni, e da preparare per noi una gloria che [951a] valga in cambio e corrisponda a quella che ci guadagneremo in guerra. Al ritorno in patria insegneranno ai giovani che tutte le norme relative alla costituzione degli altri stati sono inferiori alla nostra. Ma bisogna anche mandare altri delegati, che siano come i cittadini di cui si è qui parlato, e li invieranno i custodi delle leggi con propria concessione. Nessuna legge vieterà ai cittadini che lo desiderano di recarsi a studiare, con più tempo, la vita [b] degli altri popoli: e infatti uno stato che non abbia esperienza degli uomini, cattivi o buoni, mai potrebbe - appunto vivendo isolato - essere civile sufficientemente e perfetto, né potrà garantire vita sicura alle proprie leggi senza afferrarle con la mente e non solo possederle con l’abitudine. Ci sono sempre infatti, fra i più, alcuni uomini divini, non molti in verità, ma a ogni prezzo degni di essere avvicinati; essi vengono alla luce non di più negli stati ben governati che negli altri; sulle orme dei quali deve guidare la sua ricerca sempre colui che vive negli stati dalle buone leggi, partendo da casa, e - purché [c] incorruttibile - viaggiando per mare e per terra, sia dando conferma a quelle leggi e regole, tutte, che sono ben stabilite, per il suo stato, sia correggendole se in qualche cosa son deficienti. E infatti senza questa osservazione e questa ricerca uno stato non rimane mai perfetto, e neppure se in essa, osservazione e ricerca, l’osservazione è condotta male. CLIN. E come potrebbero avverarsi ambedue le cose?
VI. ATEN. Così. Per prima cosa un siffatto osservatore deve, per noi, avere più di cinquant’anni e poi deve essere venuto a far parte degli uomini di chiara fama nelle cose di pace e anche in quelle di guerra, ciò se vuole intro-[d] durre negli altri stati l’esempio dei custodi delle leggi. Oltre ai sessant’anni non vada piú come osservatore. Viaggerà come osservatore quanti anni vuole dei dieci che intercorrono fra i suoi cinquanta e i sessant’anni e, tornato in patria, si presenti al Consiglio dei magistrati ispettori delle leggi. Questo organismo sia misto di giovani e di vecchi, e si radunerà ogni giorno obbligatoriamente dall’alba all’aurora; ne faranno parte prima di tutto i sacerdoti premiati con i primi premi per la loro virtù e [e] poi, dei custodi delle leggi, sempre i dieci più anziani; inoltre il nuovo magistrato che cura l’educazione generale, ultimo in carica, e tutti gli altri che lo hanno preceduto e hanno lasciato tale magistratura. Ognuno di questi membri non andrà solo alle riunioni ma si farà accompagnare da un uomo giovane, fra i trenta e i quarant’anni, scegliendo quello che gli piace. Oggetto della riunione di costoro e [952a] di tutti i discorsi che vi si faranno sempre siano le leggi e il proprio stato, e discuteranno anche se su siffatti argomenti sono informati che altrove v’è qualcosa che eccelle, ed anche sulle conoscenze, quante in questa ricerca appaiono giovare a chi le apprende sì che ad esso la ricerca proceda in modo più limpido, e a chi non le apprende appaiano più oscure e incerte le cose delle leggi. E, ciò che di queste cose i più vecchi giudicheranno favorevolmente, con ogni cura i più giovani impareranno, e se uno di questi apparirà indegno di essere fra gli invitati, il Consiglio tutto insieme esprimerà un voto di biasimo a chi [b] l’ha invitato. Di questi giovani, quelli che riscuoteranno la stima, siano vigilati da tutto il resto della popolazione dello stato che li osserverà e in modo eccezionale li terrà d’occhio e darà onore a loro guidandoli e correggendoli, ma li disistimerà più degli altri se divengono peggiori dei molti. A questo Consiglio dunque si porti, appena giunto, colui che ha osservato e studiato le leggi vigenti presso gli altri popoli e, sia che abbia trovato qualcuno che avesse qualcosa da dire sulla legislazione o sull’educazione o sull’accrescimento dei cittadini, sia anche nel caso che lui stesso venga dopo avere riflettuto su qualcosa, lo comu-[c] nichi a tutto il Consiglio. Se quest’uomo apparirà essere tornato in patria in nulla peggiore né migliore di come era alla sua partenza, sia lodato almeno per il suo grande zelo, se molto migliore, sia lodato molto di più durante la sua vita, e, dopo morto, il Consiglio con la autorità dei suoi membri gli renderà gli onori che gli si addicono. Ma se al suo ritorno rivelerà di aver subìto corruzione, con nessuno stia insieme giovane o vecchio dandosi l’aria di uomo sapiente e, se obbedisca ai magistrati, viva priva-[d] tamente, altrimenti sia messo a morte qualora sia condannato in tribunale per ingerenza indebita nell’educazione e nelle leggi. Qualora sia giusto condurlo davanti al tribunale e nessuno dei magistrati lo faccia, a tali magistrati sia riservato il biasimo nel giudizio dei primi premi per a virtù. Colui che viaggia al di fuori dello stato, viaggi così ed essendo tale quale si è detto. Dopo di ciò dobbiamo rivolgere la nostra benevolenza a chi viene da noi dall’esterno. Sono quattro le specie di stranieri dei quali bisogna parlare. Il primo, quello che sempre senza interruzione [e] viene d’estate, passa la sua vita per lo più andando di qua e di là, come quegli uccelli che viaggiano, e anche la maggior parte di questi, quasi volando naturalmente attraverso il mare per guadagnare denaro con i loro traffici facendo la mercatura, volano nella bella stagione dell’anno verso gli altri stati. Riceveranno questi stranieri nei mercati, nei porti, in edifici pubblici, fuori ma vicino alla città i magistrati preposti a questi luoghi e staranno in [953a] guardia a che qualcuno di questi stranieri non faccia qualche innovazione, e correttamente amministreranno per loro la giustizia, e limiteranno i rapporti con loro al necessario, il minimo possibile. Il secondo è quello che è veramente osservatore con gli occhi, e anche è osservatore di tutti gli spettacoli della poesia che sono tali per le orecchie. Per questo straniero, per ognuno di essi, devono essere apprestati, in prossimità dei templi, degli alberghi appositi per accoglierli ospitalmente; i sacerdoti e i guardiani dei templi si occuperanno anche di questi e ne avranno cura fino a che, rimasti il tempo giusto, dopo di aver visto e ascoltato ciò per cui sono venuti, se ne vadano senza [b] aver fatto danni né averne ricevuti. Per essi saranno giudici i sacerdoti, se qualcuno di essi fa ingiustizia a qualcuno o qualcuno fa ingiustizia a qualche altro di questi, nell’àmbito di cinquanta dracme; se invece viene ad esserci per loro o contro di loro qualche accusa più grave, i processi per costoro devono essere portati agli agoranòmoi. Come terzo straniero bisogna accogliere a spese dello stato colui che è venuto da un’altra terra per ragioni pubbliche. Lo devono accogliere solo gli strateghi, i comandanti generali della cavalleria e i tassiarchi, e cura di costoro [c] avrà, insieme ai pritani, solo quel cittadino presso il quale qualcuno di questi stranieri, accolto come ospite, sarà alloggiato. Il quarto, se mai uno di questi arrivi, è raro; se dunque mai venga qualcuno per osservare da un’altra terra, in cambio degli osservatori nostri che noi inviamo, prima di tutto non abbia per nulla meno di cinquant’anni, e inoltre dovrà domandare di vedere qualcosa di bello nel nostro stato, qualche cosa di veramente superiore in bellezza alle cose degli altri stati, o anche di mostrarci che c’è qualcosa [d] di altrettanto valido in un altro stato. Vada ognuno di costoro allora, senza essere invitato, a battere alle porte dei ricchi e dei saggi, perché anche egli è un altro di loro, e vada così alla casa del magistrato che cura l’educazione generale, confidando di essere degno ospite per un tale ospite. Oppure a quella di un cittadino che ha riportato il premio del vincitore per la virtù. E dopo aver insieme a qualcuno di questi insegnato qualcosa, qualcosa imparato, se ne vada - amico che lascia amici - onorato con doni ed onori convenienti. Sulla base di queste leggi bisogna accogliere tutti gli stranieri e le straniere che vengono da [e] altra terra e inviare i propri all’esterno dello stato, rendendo onore a Zeus Ospitale, guardandosi bene dal respingere lo straniero dalla tavola e dai sacrifici, come fanno ora i figli del Nilo, e dall’allontanarlo con ordinanze selvagge.
VII. La mallevadoria che uno dà la dia espressamente e per iscritto, definisca di comune accordo tutto l’affare e davanti a non meno di tre testimoni per valori equivalenti a somme fino a mille dracme, davanti a non meno [954a] di cinque per somme superiori a mille dracme. E’ mallevadore anche chi vende per un altro come sensale qualsiasi cosa, e lo è di colui che vende senza averne il diritto, o anche che in nessun modo è in grado di rispondere della vendita. Anche il sensale è soggetto alla giustizia come il venditore. Chi vuole operare una perquisizione in casa di qualcuno, chiunque sia, si presenti nudo o con una tunica corta e senza cintura e, dopo aver giurato davanti agli dèi designati dalla legge che certamente egli spera di trovare qualcosa, faccia la perquisizione. Il padrone di casa dovrà mettere a sua disposizione la casa per la ricerca e tutte le cose sigillate o aperte. Se qualcuno rifiuta il permesso di perquisizione a chi vuole cer-[b] care un suo oggetto, gli intenti causa colui che ne è impedito e, valutata da questi la cosa cercata, se riconosciuto colpevole, sia condannato a risarcire il danno, pagando il doppio del valore dell’oggetto stimato. Se il padrone di casa è assente per un viaggio all’esterno dello stato, chi abita nella casa darà il permesso di cercare fra gli oggetti non sigillati, e l’interessato alla ricerca metterà i suoi sigilli sugli altri già sigillati, e vi ponga a guardia chi vuole per cinque giorni. Se il padrone sta assente di più, l’interessato prenda con sé gli astynòmoi e così perquisisca, sciogliendo anche le cose sigillate, e poi tutto [c] risigilli davanti ai familiari e agli astynòmoi nello stesso modo. Ci sarà un limite al tempo delle cose contestabili dal punto di vista della proprietà, durante il quale, se qualcuno le possiede fino alla sua scadenza, non vi sia più il diritto di contestare i beni posseduti da un altro. Non vi è contestazione attuabile riguardo alla terra e alle case, nel nostro stato. Degli altri beni, tutto ciò che qualcuno possiede, se ne fa uso palesemente in città, al mercato e nei templi, senza che nessuno li rivendichi e a un certo momento un cittadino ne rivendica la proprietà, affermando di averli cercati per tutto questo tempo, e l’altro è palese che non [d] nascondeva la cosa, se in tal modo continuano per un anno, l’uno possedendo qualsiasi cosa, l’altro cercandola, non sia più lecito a nessuno rivendicare tale possesso una volta passato questo anno. Se il possessore non ne fa uso in città e neppure al mercato, ma palesemente nei campi, e qualcuno non l’incontra per cinque anni, passati i cinque anni, non sia più lecito a quest’ultimo nel tempo restante rivendicare la proprietà di quell’oggetto. Se qualcuno lo usa in casa, in città, la scadenza del diritto di contestazione [e] è in tre anni; se lo tiene nei campi ma non scopertamente, dopo dieci anni; se fuori dello stato, per tutto il tempo avvenire, quando si dia che qualcuno lo ritrovi in qualche luogo, non ci sarà alcuna scadenza del diritto di rivendicare la proprietà. Se uno impedisce con la forza ad un altro di comparire in tribunale, sia la parte in causa sia i testimoni, se uno di questi ultimi è schiavo suo o di altri, il processo sia dichiarato non avvenuto e invalido; se oggetto della violenza è un uomo libero, oltre all’an-[955a] nullamento del processo, sia imprigionato per un anno e chiunque lo vuole potrà intentargli causa per assoggettamento di persona. Se un concorrente alle competizioni ginniche o "musicali" o a qualche altra gara è impedito da qualcuno, in quanto è un suo competitore, con la forza, di parteciparvi, chiunque vorrà denunci il fatto agli organizzatori, i quali concederanno libertà di partecipare alla gara a chi vuole gareggiarvi. Se non sono nella possibilità di farlo e vince colui che impedisce ad un altro di gareg-[b] giare, diano a quello che ne è stato impedito la palma di vincitore e, come tale, si iscriva nei templi a sua scelta, e non sarà lecito che colui che ha impedito la partecipazione di un altro ottenga mai il permesso di porre alcuna offerta agli dèi e nessuna iscrizione per la sua vittoria nella predetta gara, ma invece sia perseguito per danneggiamento, sia che gareggiando perda sia anche che vinca. Chi accetta un qualsiasi oggetto rubato, scientemente, sia soggetto alla stessa pena del ladro; la pena, per chiunque dà ricetto ad un bandito, sia la morte. Ognuno consideri amico o nemico a se stesso la stessa persona che è amica o nemica [c] allo stato. Se qualcuno privatamente con qualcuno fa la pace o la guerra indipendentemente dalla comunità, anche questo sia punito con la morte. Se una parte dello stato con qualcuno per proprio tornaconto farà la pace o la guerra, gli strateghi porteranno in tribunale coloro che furon causa di questa azione e, riconosciuti colpevoli, la morte sia la pena per loro. Coloro che rendono un servizio alla patria devono farlo senza donazioni ricevute in cambio; non sarà valida nessuna scusa, né si faccia alcun discorso che approvi la massima che le buone azioni e non [d] le cattive devono essere remunerate. Infatti non è facile discernere le varie circostanze in relazione a ciò e, una volta valutatele, attenersi al giudizio; la via più sicura è di ascoltare e obbedire alla legge e non fare nessun servizio per doni. Chi non obbedisce ed è condannato in giudizio sia senz’altro condannato a morte. Relativamente alle contribuzioni di denaro per la comunità è necessario per molte ragioni una valutazione preventiva del patrimonio di ciascuno, e che i membri della tribù rimettano agli agronòmoi per iscritto i profitti annuali di ciascuno, e ciò affinché - essendo due le contribuzioni - l’erario [e] pubblico si avvalga di quella delle due di cui vuole avvalersi, decidendosi - anno per anno - se avvalersi di una parte del patrimonio complessivo secondo quanto è stato valutato, o di una parte del reddito annuale, detratte le spese per i "pasti in comune". L’uomo equilibrato che fa offerte agli dèi deve far loro dei doni che abbiano misura. La terra e il focolare delle abitazioni per tutti i cittadini sono sacri a tutti gli dèi; nessuno dunque consacrerà una seconda volta le cose sacre agli dèi. L’oro e l’argento, sia posseduto dai privati sia presente nei templi, è per gli [956a] altri stati un possesso causa di invidia; l’avorio strappato a un corpo che ha abbandonato la vita è un’offerta impura, il ferro e il bronzo sono strumenti di guerra. Si offra quindi legno in un solo pezzo, quello che uno vuole, o pietra monolitica, ai templi pubblici e, se preferiscono offrire un tessuto, questo sia tale da non costare più di un mese di lavoro a una sola donna. Sarà conveniente agli dèi il colore bianco sia per i tessuti che per gli altri doni, le tinte non si usino salvo che per gli ornamenti [b] militari. Sono più che tutti gli altri degni degli dèi i doni che siano le offerte di uccelli e di raffigurazioni che un solo pittore compia in un giorno di lavoro. E tutte le altre offerte siano imitazioni di questi modelli.
VIII. Ora che noi abbiamo distinto in tutto lo stato tutte le sue parti, abbiamo detto quante e quali devono venir ad esserci, sono state formulate per quanto abbiamo potuto anche le leggi su tutti i principali patti reciproci fra i cittadini, ciò che resta da dire sarebbe necessario fosse ciò che riguarda i processi. Dei tribunali il primo sarà formato da giudici scelti, quelli cioè che prescelgano [c] l’accusato e l’accusatore di comune accordo; i giudici di questo tribunale avranno come nome più conveniente quello di ‘arbitri’ piuttosto che quello di ‘giudici’. Il secondo sarà formato dai giudici di borgata e di tribù, distribuiti nelle dodici parti dello stato; davanti a questi si presenteranno le parti, se non avranno trovato accordo davanti ai primi, e vi andranno a competere per una maggior pena, e l’accusato - se per la seconda volta perderà la causa - sarà tenuto a pagare la quinta parte della pena pecuniaria inscritta nell’atto d’accusa. Se un cittadino, rimproverando qualcosa ai giudici, vuole per la terza volta so-[d] stenere un processo, porti la causa davanti ai giudici scelti per merito e, se perde per la terza volta, sia tenuto a pagare una volta e mezza la pena iscritta nell’atto d’accusa. Se l’accusatore, battuto in prima istanza, non vuole fermarsi e si presenta al secondo tribunale, in caso di vittoria avrà la quinta parte della suddetta multa, in caso di sconfitta verserà la medesima parte della somma. Se le parti giungeranno alla terza istanza perché rifiutano di obbedire alle due prime sentenze, l’accusato condannato, come si è detto, pagherà una volta e mezza la suddetta multa, l’ac-[e] cusatore perdente, la metà solamente. Abbiamo già trattato anche prima le modalità del sorteggio dei giudici e il loro numero per aver la completezza del tribunale, l’istituzione dei servizi per ogni singola magistratura, i tempi dell’anno nei quali deve avvenire ciascuno di questi adempimenti, le votazioni dei giudici, gli aggiornamenti delle udienze, tutte le simili cose che è necessario avvengano nei processi, le procedure processuali in prima istanza e in quelle successive, le risposte obbligatorie, le comparizioni obbligatorie, tutto ciò che è fratello a queste disposizioni; ma, almeno per ciò che è giusto, è bello dirlo [957a] anche due e tre volte. E a tutte le norme minute e facili a trovarsi, tralasciate dal legislatore anziano, deve supplire il legislatore giovane. I tribunali per le questioni private, se si realizzano in qualche modo così, avranno raggiunto la loro giusta misura. Per quanto riguarda i tribunali pubblici e per lo stato e tutti quelli di cui si servono le magistrature, e così debbono amministrare ciò che spetta a ciascuna di esse, ci sono in molti stati, non prive di proprietà, opere legislative non in piccolo numero di uomini di grande capacità; di qui debbono attingere [b] i custodi delle leggi per organizzare ciò che si addice alla costituzione che ora nasce, inferendo e correggendo, mettendo alla prova con ripetute esperienze, fino a che sembri loro che ciascuna di queste cose sia ben stabilita; e allora, ponendo fine a quest’opera, in queste condizioni apporranno a tutto il sigillo della immutabilità, e lo stato se ne servirà per tutta la sua vita. Per quanto riguarda il silenzio ed il linguaggio corretto dei giudici e il contrario di ciò e quanto si discosta dalle molte cose che negli altri stati sono considerate giustizia, bontà e bellezza, in parte [c] è stato trattato, in parte sarà trattato ancora verso la fine del nostro discorso. Sono tutti punti, questi, cui chi vuol essere giudice imparziale secondo la giustizia deve tener fisso lo sguardo; deve studiarli dopo essersi procurato dei documenti scritti che li contengano. E infatti le nozioni stabilite relativamente alle leggi saranno superiori a tutte le scienze per la loro efficacia nel migliorare gli uomini che le apprendono, se sono però correttamente stabilite; altrimenti la legge, che per noi è cosa divina e meravigliosa, possederebbe invano il nome che è legato al nome della mente. Ed anche di tutti gli altri discorsi, quanti sono nei componimenti poetici, quelli che si dicono [d] a lode o biasimo di qualcuno, e quanti in prosa, sia per iscritto e sia invece - in tutte le riunioni - espressi giorno per giorno quando si discute e per amor di prevalere e per dar consensi che talvolta sono del tutto vani, di tutti questi discorsi sarà pietra di paragone con chiara evidenza la parola scritta dal legislatore. Deve tenerla in sé il giudice giusto quale antidoto agli altri discorsi e con essa dirigere se stesso e lo stato, preparando ai buoni la [e] conservazione della giustizia in essi e il suo progredire, ai malvagi il più possibile una trasformazione che li tolga alla loro ignoranza, indisciplina, viltà e, in una parola, ad ogni specie di ingiustizia - quanti almeno dei malvagi posseggono opinioni curabili, ma, per coloro che realmente [958a] le hanno in sé legate dal filo del destino, per coloro che hanno le anime in tale condizione, se come rimedio daranno loro la morte, cosa che sarà detta più volte giustamente, essi saranno, siffatti giudici e capi di giudici, degni di grande lode da parte di tutta la popolazione dello stato. Dopo che i processi dell’anno, giudicati, abbiano avuto compimento, v’è bisogno di queste leggi per le azioni che ne derivano. Prima di tutto la magistratura giudicante darà facoltà al vincitore di prelevare il denaro che gli spetta da tutte le ricchezze del colpevole condannato, fatta eccezione per ciò che è obbligatorio possedere; questo sarà [b] proclamato, sùbito dopo ciascuna votazione della sentenza, da un araldo davanti ai giudici. Se finisce il mese successivo a quelli giudiziali, e qualcuno non soddisfa volontariamente il vincitore che volontariamente accetta, la magistratura che avrà giudicato la causa - su richiesta del vincitore - metterà a sua disposizione le ricchezze del colpevole condannato; se non hanno di dove prendere per soddisfare il debito, e manca non meno di una dracma, il perdente non avrà diritto di intentare causa a nessun altro prima di aver saldato tutto il debito al vincitore. [c] Gli altri cittadini però avranno pieno diritto di citarlo in giudizio. Se un condannato per questo reca impedimento all’azione ordinata dai giudici che lo hanno condannato, quelli che sono stati ingiustamente impediti lo portino davanti al tribunale dei custodi delle leggi e, se è riconosciuto colpevole, in siffatto processo, come colui che rovina l’intero stato e le leggi, sia condannato a morte.
IX. Dopo di ciò, a un uomo generato e allevato e che ha generato e allevato i suoi figli, ha stretto legami onesti [d] con gli altri uomini, e ha pagato con le pene della giustizia - se ha recato ingiustizia a qualcuno - ed è stato risarcito dai danni da altri ingiustamente subiti, e vivendo fedele alle leggi è invecchiato secondo il suo giusto destino, allora a lui la sua fine verrà secondo natura. Sui morti, si tratti di un uomo o di una donna, per quanto riguarda le norme relative al culto proprio degli dèi che stanno sotto la terra e di quelli di qui, tutto di ciò che deve essere compiuto, diranno con autorità sovrana gli interpreti delle leggi. Le tombe non si potranno fare in nessun luogo in tutti i terreni che sono coltivabili; ivi non si potranno nemmeno porre monumenti funebri né grandi [e] né piccoli; quei luoghi in cui la regione ha la propria natura rivolta solo a questo fine - e cioè tale da poter accogliere e celare i corpi dei morti nel modo meno doloroso per i vivi, questi luoghi bisogna colmare; e quei luoghi invece che la terra, che è a noi madre, per natura vuole diano alimento agli uomini, né vivente né defunto li sottragga a chi di noi è ancor vivo. Non si farà poi elevare il tumulo più in alto di quanto possono farlo cinque uomini in cinque giorni di lavoro; i cippi in pietra che lo coroneranno non supereranno la misura necessaria a contenere non più di quattro versi epici, elogio della vita del [959a] defunto. L’esposizione del cadavere in casa non durerà anzitutto di più del tempo necessario a mostrare chi è, apparentemente morto e chi è veramente morto; secondo la natura umana sarebbe, direi, conveniente un trasporto al monumento funebre nel terzo giorno. E’ necessario credere al legislatore sempre, e anche quando insegna che l’anima è assolutamente diversa dal corpo, e che nella stessa vita ciò che dà a ciascuno di noi la sua individualità non [b] è altro se non l’anima, e il corpo segue come un’apparenza somigliante ciascuno di noi, e che bene si dice che i corpi dei morti sono soltanto immagini loro, ma che colui che è ciascuno di noi veramente, ed è ciò che chiamiamo ‘anima’ immortale, se ne va da altri dèi a rendere conto di sé, come tramanda dai padri fino a noi la legge della tradizione - causa per l’onesto di coraggio, per il malvagio di paura - e afferma che dopo la morte nessun grande aiuto avrà colui che è morto. E, infatti, durante la vita tutti i parenti dovevano aiutarlo, affinché vivesse essendo [c] più giusto e più santo possibile quando era vivo, e allora, morto, non sarebbe stato soggetto alle pene dei suoi malvagi errori durante la vita che segue quella di qui. E, poiché le cose stanno così, è per questa ragione che non si deve mai mandare in rovina la famiglia, credendo ciecamente che quell’ammasso di carne che viene sepolto sia uno dei propri cari; ma invece quel figlio, quel fratello, quella persona, qualsiasi essa sia, che uno fermamente crede, rimpiangendola, di seppellire, se ne va dopo aver percorso fino in fondo e aver reso completo tutto il suo destino; e al presente bisogna agire bene e limitare al [d] giusto le spese funebri, pensando di farle per un altare senza vita consacrato agli dèi infernali. Il legislatore potrà come un oracolo indicare non in modo del tutto improprio la giusta misura di queste spese. Sia questa la legge: Le spese di chi appartiene alla prima classe per tutto il rito funebre che non superino le cinque mine, e siano di tre mine per quello dalla seconda, due per quello della terza e una mina per quello della quarta, saranno spese giuste. I custodi delle leggi devono obbligatoriamente fare molte altre cose e interessarsi di molte, e soprattutto di queste, e cioè di occuparsi, e in tutta la loro vita, dei bam-[e] bini, degli uomini, delle persone di ogni età; e così un custode delle leggi, quello che i familiari del morto sceglieranno come sovraintendente, presiederà anche alla fine di tutti, e sarà da ascrivere a suo onore che avvengano secondo bellezza e misura i riti funebri, a sua vergogna se in modo sconveniente. L’esposizione del cadavere e il resto, dunque, si facciano secondo la legge di costume che riguarda le cose siffatte; all’uomo politico, però, che sta dando le leggi, bisogna concedere anche questo che [960a] segue. Non è evidentemente opportuno che egli stesso ordini di piangere il morto o di non piangerlo, però deve vietare le lamentazioni e vietare di gridare la notizia fuori della casa, deve impedire nelle strade la esposizione in pubblico del cadavere, e che si lancino grida nelle vie mentre si passa col funerale, e che esso stia fuori della città prima del giorno. Queste norme siano stabilite così su questa materia, e chi obbedisce non incorrerà nella pena, ma chi disobbedisce a uno dei custodi delle leggi da tutti sia pu-[b] nito con la pena che sarà stata decisa da tutto il collegio stesso dei custodi delle leggi. Di tutte le altre sepolture dei morti che si fanno, e i casi in cui si procede senza sepoltura, come per i parricidi, i ladri sacrileghi e tutti i simili, abbiamo già nei precedenti discorsi detto, e sono cose stabilite mediante leggi, cosicché, si può dire, per noi sarebbe finita la formulazione delle leggi; ma, in ogni caso, non è fine di tutte le cose, direi, il fare ciascuna di esse, né l’acquisirla e il fondarla, ma solo dopo aver trovato per ciò che è stato fatto il mezzo di garantirne la conservazione e la salvezza in modo completo sempre, allora ormai si deve ritenere che sia stato compiuto tutto quanto deve essere compiuto, e che prima non è ancora perfetta [c] l’opera completa. CLIN. Dici bene, ospite. Ma dicci ancor più chiaramente in vista di che ciò che ora fu aggiunto è stato detto.
X. ATEN. O Clinia, molte cose degli antichi sono state giustamente molto lodate, ma direi, soprattutto, i nomi delle Moire. CLIN. Quali? ATEN. Il fatto che la prima è chiamata Làchesi, la seconda Klòtho, e la terza Atropo, la terza che salva le parole del destino -, denominazioni [d] assimilate a quelle delle cose filate, che realizzano però una forza irreversibile al fuoco. E sono queste cose che allo stato e alla costituzione non solo devono fornire salute e salvezza ai corpi, ma anche buon governo nelle anime e, più di tutto, la salvezza delle leggi, e a me pare che alle nostre leggi risulti mancare ancora questo, e cioè che noi diciamo come potrà necessariamente ingenerarsi in loro la forza naturalmente irreversibile. CLIN. Non dici poco se in verità non è possibile scoprire come un siffatto possesso potrà venir ad essere per ogni legge. ATEN. E’ [e] possibile, invece, per quanto a me ora ciò si fa vedere del tutto chiaro. CLIN. Non abbandoniamo il problema allora in nessun modo prima di aver dato anche questa garanzia alle nostre leggi già enunciate; sarebbe infatti ridicolo aver faticato invano per qualsiasi cosa, collocandola su un fondamento per nulla sicuro. ATEN. Giusta esortazione; e in me troverai un altro come te. CLIN. Dici bene. Quale salvezza allora, dici tu, potrà esserci, e in qual modo, per la nostra costituzione e le nostre leggi? [961a] ATEN. Non abbiamo detto forse che deve esserci nel nostro stato un Consiglio come questo? Abbiamo detto che dovrà essere formato da dieci custodi delle leggi, sempre i più anziani, e che tutti i cittadini premiati per la virtù con i primi premi si devono riunire insieme con quelli; e ancora gli osservatori, andati all’esterno alla ricerca di trovare se ci fosse in qualche luogo qualcosa - almeno una cosa - opportuna da ascoltare per la custodia delle leggi e la loro salvaguardia, e tornati salvi in patria, dovevano, dopo esser stati sottoposti ad una prova, esser da quelli ritenuti degni di essere associati al Consiglio. Abbiamo anche detto che oltre a questi ciascuno di essi deve pren-[b] dere con sé uno dei giovani, non inferiore a trent’anni, prima di tutto giudicandolo degno - per natura ed educazione - di far parte del Consiglio, e portare così il giovane fra gli altri, e prenderlo con sé se appaia tale anche agli altri; in caso contrario, i termini della decisione avvenuta dovranno essere segreti a tutti gli altri, e specialmente al giovane stesso che è stato respinto. E abbiamo detto che la riunione dovrà tenersi all’alba, quando massimamente vi sia per ognuno disponibilità di tempo libero dalle altre faccende private e pubbliche. Era qualcosa di simile che fu detto da noi in qualche luogo dei precedenti [c] discorsi? CLIN. Infatti era questo. ATEN. Tornando a parlare da principio di questo Consiglio, io direi una cosa come questa. Io dico che se uno gettasse questo Consiglio come un’ancora per tutto lo stato, se avrà tutti i poteri e le qualità convenienti a se stessa, potrà garantire la salvezza di tutto ciò che ora vogliamo si salvi. CLIN. E come? ATEN. A questo punto sarebbe per noi l’occasione opportuna di parlare correttamente, senza perdere in nulla lo zelo. CLIN. Hai detto benissimo, ospite, fa [d] come anche pensi di fare. ATEN. Bisogna, Clinia, pensare dunque, per ogni cosa, quale sia, in ciascuna delle opere nostre e della natura, il verosimile salvatore; l’animale per esempio ha l’anima e la testa per natura tali o, almeno, le più importanti salvatrici. CLIN. Come dici ancora? ATEN. La virtù di questi due elementi senza dubbio fornisce ad ogni animale la sua salvezza. CLIN. Come? ATEN. Nell’anima, oltre alle altre facoltà, ingenerandosi l’intelletto, e nella testa, oltre al resto, vista e udito. E così in una parola, l’intelletto congiunto ai due sensi maggiori, e più belli, fuso con loro, e divenuto una sola cosa, nel modo più giusto potrebbe essere chiamato ‘salvezza di ciascuno’. CLIN. E’ verosimile, almeno. [e] ATEN. E’ verosimile, infatti. Ma l’intelletto relativo a che cosa, fuso con i sensi, potrà risultare salvezza delle navi nella tempesta come nel tempo sereno? Non sono forse nella nave il pilota e i marinai, insieme a lui, che fondendo le loro sensazioni all’intelletto del pilota stesso salvano se stessi e l’imbarcazione? CLIN. Senza dubbio. ATEN. Non c’è bisogno affatto di aggiungere molte esemplificazioni per cose come queste; ma, per esempio, a proposito degli eserciti pensiamo a quale è lo scopo che ponendo a se stessi gli strateghi, e così tutto il servizio che rende al-[962a] l’uomo l’arte medica, cercheranno correttamente di raggiungere la salvezza. Non è forse, questo obiettivo, per lo stratego, la vittoria e il dominio sul nemico, per il medico e i suoi aiuti, il procurare la salute al corpo? CLIN. Come no? ATEN. Ma un medico che non conosce che scopo della sua opera sui corpi è ciò che ora dicemmo ‘salute’, uno stratego che non sa che deve mirare alla vittoria, e, del resto, a ciò che ora abbiamo detto, possiamo dire che è possibile per loro apparire di aver intelletto di qualcuna di queste cose? CLIN. E come? ATEN. E per lo stato allora? Chi mostrasse di non conoscere il fine cui deve mirare l’uomo politico, forse che, prima di [b] tutto, potrebbe essere giustamente chiamato ‘magistrato’, e poi forse che sarebbe capace di salvare ciò di cui neppure conosce affatto lo scopo? CLIN. E come?
XI. ATEN. E bisogna anche ora, come è evidente, se la fondazione in questa terra del nostro stato vuol essere del tutto compiuta, che comprenda dentro di sé qualche cosa che sia ciò che conosce prima di tutto ciò che stiamo dicendo, cioè che conosca il fine dello stato - e per noi quel "qualche cosa", quale si sia, non può essere altro che l’uomo politico -, e poi che conosca in qual modo si deve partecipare di quel fine, e quale delle leggi stesse consiglia bene o no secondo lui prima di tutto, e poi quale [c] degli uomini; se uno stato sarà vuoto di una siffatta guida, non c’è affatto da meravigliarsi se lo stato privo di intelletto e di sensibilità si limiterà ad agire volta per volta come càpita, in ciascuna delle sue azioni. CLIN. E’ vero quello che dici. ATEN. E ora, dunque, in quale parte mai del nostro stato, in quale delle sue pratiche c’è adeguatamente organizzata qualsiasi cosa che possa essere un tale presidio? Possiamo rispondere? CLIN. No di certo, ospite, almeno in modo chiaro. Ma, se si deve congetturare, mi pare che questo discorso tenda ad andare verso quel Consiglio che or ora dicesti doversi riunire di notte. ATEN. [d] Hai supposto molto bene, Clinia. Questo Consiglio, come ci indica il discorso che ora ci sta davanti, deve essere dotato della pienezza della virtù: virtù che è guidata dalla capacità di non andare errando tentando molti obiettivi, ma, guardando sempre a uno scopo, lanciare come dardi su questo scopo ogni cosa. CLIN. Hai ragione completamente. ATEN. E ora noi comprenderemo che non c’è meraviglia per nulla che vadano errando le leggi degli stati, poiché in ognuno di questi la legislazione ha orientamenti diversi, quella di uno stato rispetto a quella di un altro. E per lo più non è per nulla sorprendente che per alcuni il limite della giustizia stia nel conseguimento [e] del potere nello stato da parte di alcuni, siano migliori o peggiori, per altri, nell’arricchimento di alcuni, siano essi schiavi o no di altri, e lo slancio di un terzo gruppo si spinge verso la vita della libertà; ci sono poi anche quelli che stabiliscono le leggi per due cose insieme mirando ad ambedue, e così essere liberi e padroni degli altri stati; altri ancora, i più sapienti, come credono, si propongono questi stessi scopi e insieme tutti gli altri simili, nulla avendo da proporre di particolarmente e sopra tutto il resto preferito per una cosa cui anche tutte le altre cose per loro [963a] dovessero guardare. CLIN. E il nostro almeno, ospite, sarà stato posto bene già allora, da tanto tempo? Dicevamo, infatti, che sempre tutto ciò che riguarda le nostre leggi deve mirare ad una sola cosa, e in qualche modo concordavamo che, dicendo che questa è la virtù, si dice del tutto correttamente. ATEN. Sì. CLIN. Abbiamo detto che la virtù è, da un certo punto di vista, quattro cose. ATEN. Certamente. CLIN. E che l’intelletto è la guida di tutte queste, cui anche tutte le cose e le altre tre virtù si debbono orientare. ATEN. Segui molto bene, Clinia. Segui con me anche per il resto. Abbiamo infatti detto [b] dell’intelletto nel pilota, nel medico, e nello stratego per quanto riguarda quell’unica cosa cui deve guardare; ed ora siamo qui, nell’atto di sottoporre ad esame quello del politico e, interrogandolo come se interrogassimo un uomo, potremmo dire: "O straniero, e tu dove guardi? Che cos’è mai quell’unica cosa che chiaramente l’intelletto del medico può indicare per sé, e tu, che sei, come diresti, superiore a tutte le cose dotate di intelligenza, non saprai forse dire per te?". Oppure tu, almeno, Megillo, tu Clinia, avete, analizzando e sezionando al posto suo, avete da dire a me che cosa mai affermate essere quest’uno, nello stesso [c] modo in cui per gli altri molti io definivo e distinguevo, parlando a voi? CLIN. No, ospite, in nessun modo. ATEN. Ebbene, che cos’è che bisogna cercare con ogni sforzo di vedere nel suo insieme, in se stesso, e anche in quelle cose che...? CLIN. In quali dici, per esempio? ATEN. Per esempio quando abbiamo detto che ci sono quattro aspetti della virtù; è chiaro che se sono quattro bisogna dire che ciascuno è uno. CLIN. Evidente. ATEN. E non vi è dubbio che anche li designiamo tutti con un solo nome. Diciamo infatti che il coraggio è virtù, che l’intelligenza è virtù, e anche gli altri due li denominiamo [d] come se fossero realmente non molti, ma questa cosa sola virtù. CLIN. Esattamente. ATEN. La ragione dunque per cui quei due differiscono fra loro ed hanno avuto due nomi, e così gli altri, non è affatto difficile dirla, ma invece dire perché ambedue con un nome solo, ‘virtù’, noi denominammo, e così gli altri aspetti, non è più cosa facile. CLIN. Come dici? ATEN. Non è per nulla difficile chiarire quello che intendo dire. Suddividiamo fra di noi l’un l’altro la domanda e la risposta. CLIN. Come [e] dici, ancora? ATEN. Domandami perché mai mentre chiamiamo ambedue le cose con lo stesso unico nome ‘virtù’, poi di nuovo attribuiamo loro due nomi, l’uno ‘coraggio’ e l’altro ‘intelligenza’. E io ti dirò la causa di questo fatto; la causa è che l’uno è in relazione con la paura, di cui partecipano anche le fiere, dico del coraggio, ed anche le indoli, almeno, dei bambini, quelli del tutto piccolissimi. Senza discorso della mente, infatti, e per natura l’anima viene ad essere coraggiosa, ma d’altra parte senza il discorso l’anima mai è venuta ad essere, né è, né mai poi verrà ad essere dotata di intelligenza e di intelletto, e infatti l’intelligenza è diversa. CLIN. E’ vero [964a] quello che dici. ATEN. In che cosa dunque sono diversi e sono due aspetti della virtù, tu l’hai appreso da me col discorso. Ora tu a tua volta di’, in restituzione, a me, in che cosa sono una e la stessa cosa. Pensa che tu stai per dire anche in che modo essendo quattro sono uno, e pretendi e chiedimi, quando tu avrai dimostrato che sono uno, di nuovo in che modo sono quattro. E dopo di ciò vediamo ed osserviamo colui che ha sufficiente conoscenza di una qualsiasi cosa che ha nome e che ha anche definizione, vediamo se deve conoscerne solo il nome, e ignorare la definizione, o se non è addirittura vergognoso per un uomo di valore ignorare l’una e l’altra cosa, relativamente ai fatti di primaria importanza per grandezza e bellezza. [b] CLIN. Mi pare che sia incredibilmente vergognoso. ATEN. C’è qualcosa di più importante, per il legislatore e per il custode delle leggi, per uno di questi che si senta superiore a tutti per virtù avendo vinto il premio della vittoria proprio per queste cose, di più importante di ciò proprio di cui parliamo ora, il coraggio, la saggia temperanza, la giustizia e l’intelligenza? CLIN. E come potrebbe essere più importante? ATEN. Non è vero forse che devono gli interpreti delle leggi, i maestri, i legislatori, i custodi di ogni altra cosa, primeggiare su tutti gli altri nella conoscenza di questi argomenti per chi ha bi-[c] sogno di conoscere e di sapere e per chi ha bisogno di essere corretto e, perché sbaglia, che lo si punisca, insegnando quale forza ha il vizio e quale la virtù e chiarendo pienamente e spiegando tutto ciò; o piuttosto un poeta venuto nel nostro stato o uno che si affermi educatore di giovani dovrà apparire migliore del cittadino vincitore del primo premio per la virtù completa di tutti i suoi aspetti? E poi, in uno stato tale che né nel discorso né nell’opera vi siano sufficienti i custodi e tali da conoscere sufficientemente ciò che riguarda la virtù, ci sarebbe qualcosa di strano se tale stato che è privo di vigilanza [d] subisse ciò che molti subiscono degli stati di ora? CLIN. No, non ci meraviglieremmo per nulla, come sembra.
XII. ATEN. Ebbene? Dobbiamo fare quello che ora diciamo o che cosa? Dobbiamo preparare i custodi più perfetti dei molti sulla virtù, nell’opera e nel discorso? Oppure in qual modo si assimilerà il nostro stato alla testa e ai sensi degli uomini intelligenti, possedendo in se stesso un presidio siffatto? CLIN. Come dunque e in qual modo, ospite, parliamo quando facciamo il paragone dello stato con qualcosa di simile a questo che abbiamo detto? ATEN. [e] E’ chiaro che, essendo lo stato stesso il tronco del corpo, i più giovani dei custodi, scelti per la maggior nobiltà di natura, ne staranno quasi all’estrema sommità e, possedendo acuti sensi in tutta l’anima, spazieranno e scruteranno intorno per tutto lo stato; vigileranno così e confideranno alla loro memoria le sensazioni che ne avranno, [965a] per portare le notizie di tutta la vita dello stato ai più anziani custodi, e questi, assimilati all’intelletto poiché pensano molte cose degne di considerazione in modo superiore agli altri, essi, i vecchi, prenderanno le decisioni e, servendosi dell’aiuto dei giovani, unendosi ad essi nel prender consiglio, in tal modo, insieme, gli uni e gli altri veramente salveranno tutto lo stato. Diciamo che bisogna organizzare così lo stato, o come altrimenti? Forse è possibile che il nostro stato possegga tutti i cittadini in modo che siano simili e non ci siano quelli che siano stati allevati ed educati con rigore. CLIN. Ma, straordinario amico, è impossibile. [b] ATEN. E allora bisogna che noi andiamo verso una educazione più accurata di quella stessa di cui abbiamo parlato. CLIN. Può darsi. ATEN. Credete che, l’educazione che siamo quasi riusciti or ora ad abbracciare con la mente, sarà questa quella di cui abbiamo bisogno? CLIN. Assolutamente. ATEN. Noi non dicevamo dunque che l’artigiano ottimo in ciascuna cosa particolare, e così il custode, non solo deve essere capace di guardare alle molte cose del suo ufficio, ma anche deve saper perseguire con slancio incalzante quell’uno e conoscerlo e, conosciutolo, ordinarvi ogni cosa, considerando tutto con uno sguardo generale? [c] CLIN. E’ giusto. ATEN. E dunque potrebbe venir ad esserci un più acuto esame e una migliore osservazione, per qualsiasi uomo di qualsiasi cosa, che l’esser capace di guardare verso una sola nota caratteristica generale, muovendo dalle molte e dissimili cose? CLIN. Può essere. ATEN. Non "può essere", caro, ma in verità non c’è metodo e via di indagine più chiara e certa di questa per nessun uomo. CLIN. Ti credo, ospite, e sono d’accordo con te; e allora nei nostri discorsi procediamo per questa via. ATEN. Bisogna costringere, pare, anche i custodi della nostra divina costituzione a vedere rigorosamente innanzi tutto che cosa mai attraverso tutte le quattro virtù [d] è presente come una cosa identica - ciò che diciamo che nel coraggio, nella saggia temperanza, nella giustizia e nella intelligenza è una unità esistente - che con un solo nome si potrebbe chiamare correttamente ‘virtù’. Questa cosa, amici, se vogliamo ora, fortemente, direi, noi terremo stretta e non lasceremo prima di aver sufficientemente definito che cos’è questo cui bisogna guardare, sia che sia da considerare come uno, sia un tutto, sia l’una e l’altra cosa, sia ancora quale sia la sua natura. Oppure, [e] se ciò ci sfugge, noi pensiamo di saperne mai abbastanza sulla virtù, di cui non sapremo dire né se è molte cose, né se quattro, né se è da pensare come una? Se dunque vogliamo seguire i miei consigli, cercheremo piuttosto di trovare qualche altro mezzo, sì da introdurre questa conoscenza nello stato che stiamo facendo. Ma se vi par di dover abbandonare del tutto questo discorso, bisogna far come volete. CLIN. No, in nome del dio degli ospiti, ospite, non dobbiamo per nulla abbandonarlo, per nessuna ragione, questo problema, poiché pare a noi che tu dica nel modo più giusto. Ma piuttosto in qual modo si potrebbe escogitare un mezzo sì da far questo? ATEN. Non [966a] diciamo ancora il come potremmo escogitarlo sì da ottenere quello che cerchiamo. Prima di questo confermiamo con un accordo fra di noi se vi è necessità di cercarlo o no. CLIN. Ma dobbiamo cercarlo, senza dubbio; se è possibile.
XIII. ATEN. Ebbene? Possiamo applicare le stesse riflessioni al bello e al buono? Dobbiamo dire che i nostri custodi devono intendere che ognuno di questi è solo una pluralità, oppure come e in che cosa sono una unità? CLIN. Mi pare che, direi, di necessità devono anche pensare [b] come sono una unità. ATEN. Ebbene? Pensarlo sì, ma non essere in grado di darne la dimostrazione col discorso? CLIN. E come? Tu parli di un modo di sapere le cose degno di uno schiavo. ATEN. E allora? Possiamo estendere questo stesso discorso nostro a tutto ciò che v’è di importante? Dire che quelli che saranno veramente custodi delle leggi devono veramente conoscere ciò che riguarda la verità di quelle cose, e col discorso devono essere in grado di darne una spiegazione e nelle opere di operare coerentemente alla conoscenza acquista, sapendo giudicare ciò che per natura è ben fatto e ciò che non lo [c] è? CLIN. Come no, infatti? ATEN. E dunque non è una delle conoscenze più belle quella sugli dèi, e noi con grande impegno ne abbiamo dato, in questi limiti, un’esposizione compiuta e abbiamo detto che sono e di quanta potenza appaiono signori, non è una delle cose più belle saperne, per quanto è possibile all’uomo conoscere queste cose? E non dicevamo che bisogna perdonare alla maggior parte di quelli che vivono nello stato se soltanto seguono la parola delle leggi, ma non si potrà neppure affidare questo incarico a quelli che parteciperanno della custodia dello stato, se uno di loro non risparmi i suoi sforzi per conoscere tutte le prove esistenti sugli dèi? E che la negazione della concessione dell’incarico sarà così [d] formulata, che cioè mai sia eletto custode delle leggi chi non ha una natura divina e non si è affaticato nello studio delle cose divine, né potrà poi essere incluso nel numero dei cittadini scelti per il premio della virtù? CLIN. E’ giusto dire almeno come dici tu, che cioè chi è pigro o incapace di questo studio deve essere respinto e allontanato dalle massime distinzioni. ATEN. E non sappiamo dunque che sono due le cose che conducono alla fede negli dèi? E che sono tante quante nei discorsi precedenti abbiamo esposto? CLIN. Quali? ATEN. La prima è quella che noi dicevamo riguardo all’anima, in quanto è realtà [e] più antica e più divina senza paragone fra tutte quelle cui il moto, ricevuta la generazione, fornì l’essere eternamente. L’altra riguarda il moto di traslazione degli astri, in quanto seguono un ordine, e di quanti altri corpi è signore l’intelletto che guida e armonizza il tutto. Di coloro infatti che guardano queste cose non alla leggera e da ignorante, nessun uomo mai ci fu per sua natura così privo di dio, che non abbia subìto l’opposta affezione a quella che i molti sogliono prevedere. Quelli infatti pen-[967a] sano che chi si dedica allo studio dell’universo attraverso l’astronomia e le altre scienze necessarie che si collegano all’astronomia, divenga ateo, avendo avuto modo di osservare, per quanto era possibile, che le cose vengono ad essere per le determinazioni delle necessità e non per i pensieri di una volontà relativa al compiersi dei beni. CLIN. E questo come sarà allora? ATEN. E’ tutto il contrario, come dissi, ora da quando quelli che pensavano pensavano gli astri come corpi inanimati. D’altra parte [b] anche allora lo stupore penetrava le anime umane alla visione del cielo, e faceva sospettare ciò che ora è tenuto per certo, da quanti raggiungevano la conoscenza degli aspetti rigorosi di questa materia, e cioè che mai corpi inanimati potrebbero muoversi con tanta rigorosa perfezione, secondo così meravigliosi calcoli, privi di intelletto. E anche allora alcuni osavano arrischiare proprio questo pensiero, dicendo che era l’intelletto che aveva ordinato tutte le cose del cielo. Ma quelli stessi poi, di nuovo sbagliando e lasciandosi sfuggire la natura dell’anima e che è più [c] antica dei corpi, pensando che fosse più giovane, tutto, per così dire, di nuovo rovesciarono, e molto di più se stessi. E infatti ciò che avevano davanti agli occhi, tutti i corpi che essi vedevano muoversi nel cielo, parvero loro pieni di pietre, di terra, di altri molti corpi inanimati e tali da distribuire le cause a tutto l’universo. Queste erano le cose che allora hanno provocato che si infliggessero loro molte accuse di incredulità negli dèi, e che ricevessero molte contrarietà; e di qui anche sopravvenne l’arte delle ingiurie ai poeti che rappresentarono i filosofi come [d] cagne che vanamente disperdono il loro abbaiare; di qui le altre cose stolte che vennero dette da loro. Ma oggi, come si è detto, ci troviamo in una situazione totalmente contraria. CLIN. Come?
XIV. ATEN. Non è possibile che nessun uomo mortale divenga mai fermamente rispettoso verso gli dèi, se non sarà riuscito a cogliere queste due cose dette ora, se non saprà cioè che l’anima è la realtà più antica di tutto ciò che ha avuto parte alla generazione, è immortale, è la guida di tutti i corpi; e inoltre, ciò che ora noi spesso abbiamo [e] ripetuto, se non riesca a cogliere e conoscere l’intelletto che abbiamo detto presente negli astri, ed è l’intelletto delle cose che sono, e le nozioni necessarie che precedono quelle di cui si è parlato, e, considerando con uno sguardo generale i rapporti di queste con la "musica", se non userà di tutto ciò per coordinare le attività e le regole di vita delle varie indoli, e, per quanto ammette un di-[968a] scorso che lo giustifichi, se non sarà in grado di rendere ragione di ciò col discorso. Chi non sa acquisire queste conoscenze oltre alle sue virtù civili, direi, mai potrà divenire un magistrato adeguato a reggere tutto lo stato, ma servitore ed aiutante degli altri magistrati. Ora dobbiamo vedere, Clinia e Megillo, se oltre a tutte le leggi già enunciate, quante sono quelle che abbiamo esposto, ormai aggiungeremo anche questa, che cioè sia custodia, secondo la legge, per la salvezza dello stato il Consiglio [b] Notturno dei magistrati, e sarà partecipe di tutta l’educazione da noi esposta or ora. O come dobbiamo fare? CLIN. E come potremmo, o mio caro, non volere aggiungere questa legge, se per qualche via anche appena lo possiamo? ATEN. Uniamoci tutti allora per gareggiare in vista di siffatto scopo. E anch’io diverrò vostro coadiutore in questo di gran cuore, e forse potrei trovare anche degli altri uomini oltre a me per questa opera, potrei aiutarvi per l’esperienza che ho avuto di siffatti argomenti e per la mia molto lunga riflessione su di essi. CLIN. D’altra parte, ospite, prima di ogni altra cosa, ormai dobbiamo camminare su questa strada per dove anche la divinità, direi, ci conduce; ma quale sia il modo che, se noi seguis-[c] simo, sarebbe giusto, questo ora dobbiamo dire e ricercare. ATEN. Non è possibile ancora, Megillo e Clinia, formulare le leggi su ciò, prima cioè che esso, il Consiglio, sia stato ordinato; allora si dovrà stabilire per legge ciò su cui dovranno avere autorità sovrana; ma oramai ciò che può preparare cose siffatte è un insegnamento che se avvenisse correttamente, dovrebbe avvenire con un frequente incontrarsi. CLIN. Come? Che cosa dobbiamo ora dire che sia quello che è stato detto? ATEN. Prima [d] di tutto bisognerebbe fare una lista di quanti sarebbero idonei a quella che è per natura la custodia, per età, capacità di acquisire conoscenze, indole del costume di vita, abitudini. Dopo di ciò non è facile trovare le discipline che essi dovranno apprendere, né lo è diventare noi discepoli di un altro che le ha trovate. Oltre a ciò sarebbe vano dire per iscritto i tempi durante i quali, ed entro quali termini di tempo, debbono apprendere ciascuna nozione; [e] e infatti neppure a quelli stessi che apprendono sarebbe chiaro che quelle nozioni vengono apprese al momento opportuno, prima che nell’anima di ciascuno sia venuta ad esserci la scienza di ciascuna di quelle nozioni. E così tutto ciò che riguarda questa materia, se fosse detto che è qualcosa di cui non si può parlare, non sarebbe detto correttamente, ma è qualcosa che non si può predire per il fatto che nulla di ciò che vien detto sarebbe chiarito se ciò venga detto prematuramente. CLIN. Se è così, ospite, che dobbiamo dunque fare? ATEN. Come si dice, amici, la cosa è ancora, sembra, giacente in comune e in mezzo a noi, alla nostra portata e, se vogliamo arrischiare su tutta la costituzione, gettando i dadi, come dicono, per avere [969a] il tre volte sei o soltanto il tre volte uno, bisogna far così. Io dividerò il rischio con voi col dirvi e con lo spiegarvi il mio punto di vista sulla educazione e sull’allevamento, quell’educazione e quell’allevamento che ora abbiamo di nuovo smosso coi discorsi. Il rischio non è piccolo e non sarebbe somigliante a certi altri rischi. Io invito te, Clinia, a prenderti la responsabilità di questo almeno; sei tu infatti che, se organizzerai bene lo stato dei Magneti, o comunque sia denominato con il nome di quello da cui il dio gli darà il nome, raccoglierai la più [b] grande gloria, o almeno non sfuggirai mai all’essere stimato il più coraggioso di tutti quelli che ti seguiranno dei tuoi cittadini. E se, compagni miei, verrà ad esserci veramente per noi questo divino Consiglio, sia affidato a lui lo stato, e non c’è nessuna contestazione su questo da parte di nessuno dei legislatori di ora, per così dire, e sarà in verità quasi realtà compiuta quel sogno che abbiamo concepito, poco fa, e così era nel discorso, quando fondevamo insieme in qualche modo una certa immagine dell’unione fra la testa e l’intelletto; e ciò sarà se gli uomini del nostro Consiglio saranno scelti con cura rigorosa e [c] convenientemente educati e, una volta educati, se si collocheranno a governare nella cittadella del territorio dello stato, e siano divenuti perfetti custodi quali noi non abbiamo mai visto nella vita precedente esserci stati, per la loro virtù di salvazione. MEG. O caro Clinia, da tutto quanto ora ci è stato detto, io capisco che o dobbiamo abbandonare l’impegno di fondare lo stato o non dobbiamo lasciar andare questo ospite ma, pregandolo e usando ogni altro mezzo, dobbiamo associarlo a noi nella fondazione dello stato. CLIN. E’ verissimo, Megillo, quello [d] che dici, ed io farò proprio così come dici tu, e tu aiutami. MEG. Ti aiuterò.