LETTERE 
Sommario

LETTERA PRIMA  

Platone restituisce a Dionisio (Dionisio II il Giovane, tiranno di Siracusa dal 367 al 357, figlio di Dionisio il Vecchio e di Doride) la misera somma di denaro che questi gli aveva assegnato per il viaggio di ritorno dalla Sicilia. La lettera apparirebbe dunque scritta dopo il terzo viaggio di Platone in Sicilia (360 o poco dopo): ma nessuno oggi crede alla sua autenticità. Essa è un'esercitazione retorica infiorata di citazioni dai poeti (la prima citazione è da non sappiamo quale tragedia di Euripide; la seconda è di un tragico ignoto; la terza è di un poeta lirico o di un tragico: si è pensato talora a Bacchilide). L'attività di Platone in Sicilia e i suoi rapporti (storici o inventati) con Dionisio sono il tema di parecchie delle lettere: si veda soprattutto la Lettera settima, con la relativa nota introduttiva. L'autore delle versioni qui pubblicate avverte peraltro ch'egli non crede che Platone abbia scritto né la prima, né alcuna altra delle tredici lettere, e le ragioni di questa sua convinzione espose nella raccolta delle Lettere pubblicata presso il medesimo editore nel 1948.

  LETTERA SECONDA

 La lettera apparirebbe scritta in un momento di tensione, ma prima che intervenga fra Platone e Dionisio II un grave dissidio quale è quello che, secondo la Lettera settima, si ebbe dopo il terzo viaggio di Platone in Sicilia. Uno studioso che la ritiene autentica (il Novotny) la data perciò fra il secondo e il terzo viaggio di Platone, circa il 364/63. Dei personaggi in essa nominati, Archedemo è ricordato anche in altre lettere (terza e settima) come amico di Dionisio e Platone e discepolo di Archita. Dione è una delle figure centrali dell'epistolario: fratello della seconda moglie di Dionisio il Vecchio, Aristomache, discepolo di Platone, dopo alcuni inutili tentativi di convertire alla filosofia Dionisio il Giovane fu da questi bandito. Tornato con una schiera d'armati nel 357, si impadronì di Siracusa cacciandone Dionisio; ma fu poi ucciso da Callippo (si veda per tutto ciò in particolare la Lettera settima); Plutarco gli dedicò una delle sue Vite, e così anche Cornelio Nepote. Polisseno, di cui anche si parla nella lettera, secondo altre fonti antiche avanzò contro la dottrina delle idee l'argomento detto del terzo uomo. Filistione fu un celebre medico della scuola siciliana, vissuto nella prima metà del IV secolo. Speusippo è il nipote di Platone che, alla morte di questi, assunse la direzione dell'Accademia, tenendola dal 347 al 339. Più oscuri o ignoti gli altri personaggi.

  LETTERA TERZA

 Il racconto dei rapporti fra Dionisio II, Dione e Platone fatto in questa lettera ha precisi riscontri nella settima. Alcune incongruenze nei particolari inducono a credere che la terza presupponga la settima, che pur figurerebbe scritta dopo la cacciata di Dionisio II e la morte di Dione. La terza figura scritta dopo l'ultimo ritorno di Platone dalla Sicilia e prima della cacciata di Dionisio. Dei personaggi nominati in questa lettera, a parte Dione (pel quale si veda la nota alla Lettera seconda), il più notevole è Eraclida, che compare anche nella settima, perseguitato dall'ira di Dionisio, e nella quarta, come uno dei capi siracusani accanto a Dione; secondo altre fonti antiche, dopo la cacciata di Dionisio venne a contrasto con Dione e da questi fu poi fatto uccidere. Accanto a Eraclida, compare sempre in queste lettere Teodota, forse suo zio. Non si sa bene quale sia stata la guerra di cui si parla a 317a: si è supposto che si trattasse di una guerra contro i Lucani.

 LETTERA QUARTA

 La lettera figura scritta poco dopo la spedizione di Dione contro Dionisio II (cfr. la nota alla Lettera seconda): chi la crede autentica, la assegna all'incirca al 356. Eraclida e Teodota sono gli stessi personaggi ricordati anche nella Lettera terza (cfr. la nota introduttiva a quella lettera).

 LETTERA QUINTA

 Perdicca III fu re della Macedonia dal 365 al 359, fratello maggiore di Filippo e zio di Alessandro. Eufreo, che da Platone - secondo questa lettera - gli sarebbe stato inviato come consigliere, è forse il medesimo personaggio che tentò più tardi in Oieo, città dell'Eubea, di resistere a Filippo. Presa dai Macedoni la città, secondo il racconto di Demostene si diede la morte. La lettera appare nei suoi due temi fondamentali (le diverse "voci" delle diverse costituzioni; l'impossibilità per Platone di dedicarsi all'attività politica in Atene) un tentativo di imitare alcuni passi platonici (particolarmente HYPERLINK "file:///Volumes/MAC%20OS%209/Letteratura/Opere/RESP6.html#a493"Resp. 493-96).

  LETTERA SESTA

 Ermia fu tiranno di Atarneo, nella Misia, intorno alla metà del IV secolo: catturato a tradimento, fu consegnato poi al re di Persia Artaserse III Ochos, che lo mise a morte. Erasto e Corisco, di Scepsi nella Troade, sono ricordati da altre fonti antiche come discepoli di Platone. Gli stessi personaggi, secondo notizie antiche, furono in rapporto anche con Aristotele, il quale presso Ermia soggiornò dopo la morte di Platone insieme con Senocrate. Corisco è nome spessissimo usato da Aristotele nei suoi scritti quando, negli esempi, vuole nominare un qualsiasi soggetto umano. La lettera figura scritta da Platone vecchio, e non sono mancati i difensori della sua autenticità.

 LETTERA SETTIMA

La più lunga della raccolta, quella che più ha destato l'interesse dei moderni. E' rivolta agli amici e ai familiari di Dione (già ucciso da Callippo al momento in cui essa figura scritta: cfr. anche la notizia alla Lettera seconda) e contiene la risposta a una lettera che costoro avrebbero mandato a Platone per chiedergli aiuto d'opere e di parole. In realtà, più che rispondere alla domanda d'aiuto, Platone fa la storia della sua vita e della sua attività politica in Sicilia, e, nelle numerose digressioni, disserta dei più svariati argomenti di filosofia. Secondo i dati della lettera, ch'è opportuno ordinare qui cronologicamente, poiché l'esposizione di Platone (o del presunto Platone) è a volte confusa, Platone avrebbe fatto tre viaggi in Sicilia: il primo all'età di circa quarant'anni (cfr. 324a), dunque intorno al 387, quando era tiranno di Siracusa Dionisio I. In quell'occasione conobbe Dione e lo convertì alla sua filosofia. Morto nel 367 il primo Dionisio, e succedutogli il figlio Dionisio II (il Giovane), Dione, in questo racconto, concepisce la speranza di convertire il giovane tiranno "alla vita più bella e migliore" mediante l'opera di Platone: e invita Platone a tornare a Siracusa. Dopo molto dubitare, Platone si decide (cfr. 328b sgg.) al secondo viaggio, che sarebbe pertanto da' collocare circa il 366. Ma Dionisio II non si converte; anzi, all'incirca tre mesi dopo l'arrivo di Platone, "accusa Dione di voler rovesciare la tirannide... e lo caccia ignominiosamente" (329c). Platone rimane per qualche tempo ancora a Siracusa, poi torna ad Atene: aveva però convenuto con Dionisio II che, tornata la pace in Sicilia (c'era allora una guerra in corso, forse contro i Lucani: cfr. Lettera terza, 317a), egli e Dione sarebbero stati richiamati. Fatta la pace, Dionisio richiama Platone, ma non Dione, e di nuovo Platone esita moltissimo prima di partire: parte infine per la terza volta (e questo terzo viaggio si collocherebbe nel 361/60), ma anche ora né converte Dionisio, né lo riconcilia con Dione, anzi corre egli stesso gravissimo pericolo. A stento può tornare ad Atene, grazie all'intervento di Archita (pel quale cfr.  alla Lettera nona) e degli altri amici di Taranto, che in precedenza Platone stesso aveva stretto in amicizia con Dionisio (cfr. 338c). Sulla via del ritorno, a Olimpia si incontra con Dione che assiste ai giuochi: Dione lo invita a partecipare a una spedizione contro Dionisio, ma Platone rifiuta. C'è poi (nel 357) la spedizione di Dione che caccia Dionisio; e poi nuove discordie fra i Siracusani, e sempre nuovi disordini e nuove lotte: e nel 354 Dione cade vittima di una congiura, guidata da due Ateniesi, Callippo e Filostrato (i due fratelli di cui parla la lettera a 333e). Forse per tredici mesi Callippo domina in Siracusa: poi riprendono il sopravvento gli amici di Dione, fra i quali quell'Ipparino (figlio di Dionisio I piuttosto che di Dione), cui si accenna al principio della lettera (324a). E' ora che i Dionei si rivolgono a Platone, e a essi Platone risponde con questa lettera. Questi i fatti, secondo che narra o lascia intravedere la lettera: ma è da tener presente che Diodoro non dice nulla dei due viaggi di Platone presso Dionisio II, né pare che questi viaggi conoscessero gli storici più vicini ai tempi di Platone: la questione è stata discussa dal curatore di queste lettere nell'edizione, citata nella nota alla Lettera prima, nelle pagine 77-85 e 345-46 in particolare. Quanto alla prima parte della lettera, in cui Platone (o il presunto Platone) narra la genesi del suo pensiero politico, vi si accenna alle vicende fra il 404, anno della definitiva sconfitta d'Atene ad opera degli Spartani, e il 399, anno della morte di Socrate. Nel 404, grazie anche alle armi dei vincitori Spartani, cadde in Atene la democrazia e fu stabilito un governo oligarchico di trenta uomini (i "trenta tiranni": gli Undici e i Dieci del Pireo, cui pure accenna la lettera a 324c, erano magistrati inferiori). Fra i Trenta primeggiò l'intransigente Crizia, zio di Platone (un altro congiunto di Platone era fra i capi oligarchici, Carmide. Cfr. l'accenno della lettera a 324d). L'episodio ricordato a 324d-325a, l'ordine dato dai Trenta a Socrate di recarsi ad arrestare un cittadino di parte democratica, Leonte di Salamina, per condurlo a morte, è narrato da Platone nell'Apologia di Socrate. I Trenta caddero dopo che gli esuli democratici, che in piccolo numero avevano dapprima occupato la piazzaforte di File sotto la guida di Trasibulo e Anito (futuro accusatore di Socrate), ingrossate le loro forze, attaccarono e presero il Pireo: lo stesso Crizia morì in uno scontro. Dopo un breve periodo in cui Atene fu retta da una commissione di dieci uomini, i democratici tornarono al governo (403), impegnandosi le due parti, i democratici e gli oligarchici, a rispettare un'amnistia generale (cfr. la lettera a 325b, "bisogna riconoscere che gli uomini allora ritornati furono pieni di moderazione"). Il processo e la morte di Socrate sono del 399. Dei principali personaggi di questa lettera si è detto: per Eraclida e Teodota, si veda la notizia premessa alla Lettera terza. Gelone, tiranno di Siracusa (cfr. 333a), sconfisse i Cartaginesi a Imera nel 480 e impose loro il pagamento di un'indennità.

 LETTERA OTTAVA

 Questa lettera pare presupporre in Siracusa una situazione diversa da quella che si intravede dalla settima: Ipparino, figlio di Dionisio I, a capo ora dei Dionei, ha, sì, cacciato Callippo, ma è premuto da Dionisio II che tenta di rientrare in città con le armi: nessuna delle due parti riesce a prevalere e entrambe si logorano pericolosamente, tanto che è da temere la sparizione del nome greco dall'intera Sicilia, con vantaggio dei Cartaginesi o degli Oschi (353e: e negli Oschi ci fu chi vide i Romani, chi i mercenari Sanniti). Platone consiglierebbe perciò ai Dionei di istituire una monarchia costituzionale con tre re, cioè Ipparino, il figlio di Dione (che però altre fonti antiche dicono premorto al padre) e Dionisio II. Secondo la lettera, Ipparino e il figlio di Dione possono vantare antichi titoli di merito presso i Siracusani: ché, oltre ai meriti personali di Ipparino e di Dione, il padre di Ipparino (Dionisio il Vecchio) e il padre di Dione (chiamato anch'esso Ipparino) furono dai Siracusani scelti in circostanze gravissime come "tiranni con pieni poteri" (l'espressione è singolare; cfr. 353a-b) e salvarono la Sicilia: dove è un'allusione all'ascesa al potere di Dionisio I, avvenuta dopo che i Cartaginesi, distrutta Imera, presero anche Agrigento (nel 406). Nel racconto della lettera pare che Dionisio I fosse senz'altro eletto tiranno, mentre altre fonti fanno pensare che egli, eletto dapprima stratego, sia poi giunto alla tirannide con un colpo di mano. La parte del vecchio Ipparino, inoltre, sembra assai esagerata nella lettera. L'istituzione di una monarchia costituzionale sottoposta all'impero della legge troverebbe, secondo la lettera, un modello negli ordinamenti dati da Licurgo a Sparta, dove due re regnavano contemporaneamente, con potere limitato da un senato (gerusia) e dagli efori; v'era anche a Sparta, ma la lettera non la ricorda, un'assemblea popolare, l'apella, cui mancava però la facoltà d'iniziativa. Le "Erinni in forma di ospiti" di 357a sono Callippo e Filostrato.

 LETTERA NONA

 Il destinatario è Archita di Taranto, insigne studioso di matematica, geometria e musica, uomo di stato e condottiero, vissuto nella prima metà dei IV secolo. Compare in rapporto con Platone e Dionisio II nella Lettera settima. Testimonianze sulla vita e sull'opera di Archita e frammenti della sua dottrina possono leggersi nel volume I Pitagorici, a cura di Antonio Maddalena, Bari, 1954, pp. 208-32. Archippo e Filonide sono ricordati fra i Pitagorici da Giamblico, il quale nomina anche due Echecrati. Ma il nome di Echecrate in questa lettera può essere suggerito dal Fedone.

  LETTERA DECIMA

 Il destinatario di questo biglietto ci è del tutto ignoto.

 LETTERA UNDICESIMA

 Si pensa che il destinatario della breve lettera debba essere il matematico Laodamante di Taso; e Socrate, che non può ragionevolmente essere il maestro di Platone (il quale figura qui già vecchio), sarà Socrate il Giovane, il matematico che compare come uno dei personaggi del Politico.

 LETTERA DODICESIMA

La risposta a una lettera di Archita conservataci da Diogene Laerzio: e sono sicuramente false l'una e l'altra.

  LETTERA TREDICESIMA

 E', o vuol essere, un documento interessante sui rapporti privati, anzi d'affari, fra Dionisio II e Platone. Dei personaggi in essa nominati parecchi sono oscuri. Degni di nota sono il maestro di Elicone, Eudosso di Cnido, illustre matematico e astronomo, che formulò anche una dottrina del piacere ricordata da Aristotele. Leocare fu chiaro scultore ateniese, attivo all'incirca fra il 370 e il 320, autore di ritratti e di statue di dèi. Collaborò alla decorazione del Mausoleo di Alicarnasso. Polisseno è nominato anche nella Lettera seconda: qui è detto amico o discepolo di Brisone, sofista più volte ricordato da Aristotele. Simmia e Cebete sono fra i personaggi del Fedone (il "dialogo intorno all'anima" ricordato a 363a). La coregia, di cui si parla a 362a, era in Atene una prestazione cui erano tenuti i più ricchi cittadini, e consisteva nel fornire i mezzi per l'allestimento delle rappresentazioni drammatiche. I molti fatti particolari citati in questa lettera non sono da noi controllabili: soltanto si può dire che alcuni sembrano inverosimili, come inverosimili sono i due sigilli di cui la lettera parla, all'inizio e a 363b.

TESTO

Lettera prima 

PLATONE A DIONISIO CON L’AUGURIO CHE STIA BENE 

[309a] Lungo tempo io trascorsi tra di voi; e governai la vostra città ed ebbi tutta la vostra fiducia; ma i vantaggi toccavano a voi, a me le calunnie, ch’erano gravi. Tuttavia le sopportavo, perché ero convinto che nessuno mi avrebbe [b] giudicato corresponsabile delle vostre crudeltà. Ne sono testimoni quanti parteciparono al vostro governo, ch’io spesso aiutai e salvai da gravi castighi. Ma, dopo che fui a capo della vostra città con pieni poteri, mi mandaste via più oltraggiosamente che un mendico, comandandomi di salpare dopo una sì lunga dimora nella vostra città. Io dunque penserò a tenermi, d’ora innanzi, più lontano dagli uomini; ma tu, tiranno come sei, resterai solo. La bella [c] somma che mi desti per la partenza, te la porta Bacchìo, latore di questa lettera: era una somma che non poteva bastare né per il viaggio, né per altra cosa, ma che piuttosto grandissima vergogna procura a te, che me l’hai data, e quasi altrettanta procurerebbe a me, se l’accettassi. Perciò te la restituisco. Una tal somma, evidentemente, per te è indifferente darla o riceverla; dunque riprendila, e usala per far onore a qualche altro amico tuo, come hai [d] fatto onore a me. Io sono stato onorato abbastanza Mi viene in acconcio il verso di Euripide: quando ti troverai in altra condizione, allora "vorrai aver vicino un uomo come me". E voglio ricordarti che anche quasi tutti gli altri tragediografi, quando mettono in scena un tiranno che viene ammazzato, gli fanno gridare: "Privo d’amici, [310a] sventurato, io muoio". Nessuno invece ha fatto morire un tiranno per la sua povertà. Gli uomini di senno troveranno appropriati anche quei versi: Non l’oro splendido, ch’è tanto raro

ai mortali ognor privi di speranze,

non il diamante, né i letti pregiati

d’argento, né i ricchi fertili campi,

feraci d’ogni frutto in questa terra

vasta di pianure, brillano agli occhi,

quanto l’amore degli uomini buoni.[b] Addio: riconosci che hai gravemente peccato contro di me, e così ti comporterai meglio con gli altri.

Lettera seconda 

PLATONE A DIONISIO CON L’AUGURIO CHE STIA BENE

 Ho saputo da Archedemo che tu vorresti che non solo io non m’occupassi dei fatti tuoi, ma che anche i miei amici si astenessero dal dire o dal fare alcunché contro di te. Eccettui soltanto Dione. Ma quest’eccezione che tu fai [c] dimostra ch’io non ho alcun potere sui miei amici: ché, se io avessi questo potere su di loro e su di te e su Dione, sarebbe, credo, un gran vantaggio per noi tutti e per il resto della Grecia. La mia grandezza sta invece nel seguire la mia ragione. Questo io ti dico, perché Cratistolo e Polisseno ti hanno informato male: uno di costoro, mi si [d] racconta, va dicendo di aver udito nelle Olimpiadi molti amici miei parlar male di te. Costui ha forse l’udito più fine del mio, perché io non ho sentito niente. Comunque, io penso che in avvenire tu deva fare così: se uno ti racconta qualche cosa di simile su qualcuno di noi, tu scrivimi e domandami; perché io non esiterò e non mi vergognerò di risponderti la verità. Le cose tra me e te stanno in questi termini: entrambi siamo ben conosciuti da tutti, per così [e] dire, i Greci, e conosciuta è la nostra amicizia. Né devi dimenticarti che d’essa si parlerà anche in futuro, tanti sono quelli che ne sono informati, perché è amicizia grande e non celata. Che cosa voglio dire con questo? Te lo spiegherò rifacendomi al principio. Per natura la saggezza e la potenza tendono ad unirsi, e si inseguono e si ricercano e si riuniscono: quindi gli uomini si dilettano a parlarne e a sentirne parlare nelle conversazioni private [311a] e nei componimenti poetici. Così, quando si parla di Gerone e di Pausania spartano, si ricorda con piacere la loro amicizia con Simonide, e quello che egli fece e gli disse: e si sogliono cantare insieme Periandro di Corinto e Talete di Mileto, e Pericle e Anassagora, e Creso e Solone sapienti, amici di Ciro re. E similmente i poeti parlano insieme di [b] Creonte e di Tiresia, di Poliido e di Minosse, di Agamennone e di Nestore, di Odisseo e di Palamede. E fu per questa stessa ragione, io credo, che i primi uomini unirono i nomi di Prometeo e di Zeus. Degli tini cantano l’amicizia, degli altri l’inimicizia, e il succedersi di amicizie e inimicizie, e le parziali concordie e le parziali discordie. Tutto [c] questo io ti dico per mostrarti che, neanche quando saremo morti, cesseranno di parlar di noi; pensiamoci dunque. Perché anche del futuro, tu capisci, dobbiamo tener conto, essendo in qualche modo legge di natura che siano le anime più servili a non preoccuparsene; mentre gli uomini migliori fanno di tutto per acquistarsi buona fama per l’avvenire. E questo costituisce anche per me un indizio che i morti hanno in qualche modo percezione delle cose [d] di quassù: perché son le anime migliori quelle che prevedono che sarà così, mentre le anime peggiori lo negano; ora i presagi degli uomini divini sono più attendibili di quelli degli altri. Sicché io penso che, se gli antichi di cui ora ho parlato potessero correggere le loro amicizie, cercherebbero in tutti i modi d’ottenere una fama migliore di quella che ora godono. E noi possiamo ancora, che iddio lo voglia, raddrizzare, con l’opera e con la parola, gli errori che durante la nostra amicizia possiamo aver compiuti. [e] Perché io dico che la vera filosofia sarà meglio giudicata se noi saremo uomini dabbene, peggio nel caso contrario. Eppure nulla noi potremmo fare di più pio che prendendoci cura di tal cosa, né di più empio che trascurandola. Come questo debba avvenire e che cosa vuole la giustizia, ora ti dirò. Io venni in Sicilia con la fama di sopravanzare d’assai gli altri filosofi; e vi venni perché a Siracusa volevo [312a] avere anche la tua testimonianza, sì che la filosofia mi fosse onorata anche dalla moltitudine. Non ci riuscii. Ma non per la ragione che molti potrebbero addurre; io dico che questo avvenne per la diffidenza che tu mostrasti verso di me: pareva che tu volessi mandarmi via e chiamare altri al mio posto e domandarti che cosa volevo; e questo, è ovvio, era dovuto a sfiducia. Molti ne parlavano e dicevano che tu mi disprezzavi e d’altre cose ti curavi: questa voce [b] corse per ogni dove. Quindi io ti dirò quello che dobbiamo fare, e così risponderò alla tua domanda, come dobbiamo condurci nel nostri rapporti. Se tu disprezzi assolutamente la filosofia, lasciala stare: se hai appreso da altri o hai tu stesso trovato dottrine migliori delle mie, a quelle tienti; ma se le mie ti soddisfano, allora devi onorare anche me quanto più puoi. E anche ora, come in principio, tu devi essere il primo; io ti seguirò. Se tu mi onorerai, io [c] ti ricambierò: se non mi onorerai tu, neanch’io lo farò. Ancora: se tu mi renderai onore per primo, mostrerai di onorare la filosofia; e questo stesso fatto (dato che tu hai sempre considerato anche le opinioni degli altri) ti procurerà la stima di molti e sarai giudicato filosofo. Se invece sarò io ad onorare te senza essere a mia volta onorato, si dirà che io ammiro e ricerco la ricchezza; ed è una voce, questa, che, tu lo sai, procura ovunque cattivo nome. Insomma, se tu onori me, ne avremo gloria entrambi; se [d] io onoro te, ne avremo entrambi vergogna. E di questo basta.

La piccola sfera non è fatta bene: te lo mostrerà Archedemo, quando verrà. Su quell’altra questione che è ben più importante e divina di questa, e per la quale appunto tu, trovandoti nel dubbio, hai mandato Archedemo, dovrò dargli accurate spiegazioni. Egli mi dice che tu non sei soddisfatto di quanto ti è stato rivelato sulla natura del "primo". Te ne parlerò dunque, ma per enigmi, affinché, se la lettera andrà perduta nei recessi del mare o della terra, [e] chi la legge non la capisca. Le cose stanno così. Tutto sta intorno al re del tutto, e tutto è per esso, e tutte le cose belle sono da esso; le cose seconde stanno intorno al secondo; le terze intorno al terzo. Or dunque l’anima umana tende a conoscere com’esse sono e guarda alle cose [313a] che le sono affini, ma di queste nessuna è bastevole. Per quanto riguarda il re e le cose che ho dette, nulla c’è di simile. Allora l’anima si domanda: "Di che specie sono?". E questa è la domanda, o figlio di Dionisio e di Doride, ch’è causa di tutti i mali; o piuttosto la doglia che si genera nell’anima per rispondervi, e dalla quale essa deve essere liberata, se vuole giungere realmente alla verità. Questo tu mi dicesti d’aver pensato, quand’eravamo nel giardino [b] sotto gli allori, e che questa era una tua scoperta: ed io ti risposi che, se ti pareva che le cose stessero così, mi avevi liberato dalla necessità di fare molti discorsi. Aggiunsi che non avevo trovato alcuno che avesse fatto tale scoperta, e che tutta la mia fatica era appunto intorno a questo problema. Tu invece l’hai forse udito da qualcuno, o ti sei messo spontaneamente per questa strada per una sorte divina: ma poi, sicuro delle dimostrazioni, non le hai fermate, sicché ti balzano ora da una parte e ora dal-[c] l’altra intorno all’immagine, ma nulla è così. Né tu sei il solo cui tal cosa sia accaduta, perché tutti quelli che mi hanno ascoltato, sappilo, si trovano da principio in questa condizione; e a stento se ne liberano, chi con più, chi con meno fatica, ma quasi nessuno con pochi sforzi. Poiché dunque così sono state e così stanno le cose, mi sembra che abbiamo trovato il modo di dare una forma ai nostri rapporti, che è appunto quello per cui tu mi hai scritto: poiché tu esamini queste dottrine discutendone con altri e [d] paragonandole con quelle degli altri e considerandole in se stesse, se la tua ricerca è seria, ne diventerai conoscitore sempre più sicuro, e avrai dimestichezza con esse e con noi. Ma come si potrà attuare questo e tutto il resto di cui abbiamo parlato? Hai fatto bene a mandarmi Archedemo; ma dovrai mandarmelo ancora, se avrai senno, perché quand’egli sarà tornato e ti avrà portato le mie spiegazioni, altri dubbi forse ti sorgeranno; tu me lo manderai dunque di nuovo, ed egli ritornerà poi da te dopo aver sentito le mie risposte. Se questo si ripeterà due o tre volte e tu [e] studierai bene le mie spiegazioni, io son certo che i tuoi dubbi saranno diversi da quelli che hai ora. E dunque, coraggio, fate così. Non ci sarà un commercio più bello e più gradito agli dèi di questo, per cui tu mandi Archedemo [314a] ed egli viene. Bada tuttavia che questa lettera non cada nelle mani di uomini ignoranti, perché, se non sbaglio, gli uomini per lo più giudicano che non vi siano discorsi più ridicoli di questi, mentre in realtà non ve ne sono di più mirabili e ispiratori per la gente bennata. Sono dottrine che bisogna discutere spesso e udirle sempre esporre e per molti anni: e allora, a stento e con molta fatica, si purificano, come l’oro. Ed ascolta questa loro mirabile qualità: ci sono parecchi uomini, che hanno sentito discutere questi problemi, uomini capaci di intendere, di ricordare e di [b] giudicare dopo aver esaminato un problema per ogni verso, i quali, già vecchi, dopo aver studiato per più di trent’anni, affermano che quello che una volta pareva loro incredibile, ora lo trovano chiarissimo ed evidentissimo; e quello che pareva credibilissimo, ora non lo trovano più tale. E dunque pensa a questo, e guarda di non averti a pentire per aver lasciato conoscere a gente indegna queste dottrine. Il miglior modo per mantenere il segreto è quello [c] di non scrivere, ma di imparare a memoria, perché non è possibile evitare la divulgazione di ciò che è scritto. Per questa ragione io non ho mai scritto di queste cose; sicché non esiste e non esisterà mai alcun trattato di Platone. Quanto ora gli si attribuisce, è dovuto a Socrate, bello e giovane. Animo dunque, e dammi ascolto: leggi parecchie volte questa lettera, e poi bruciala.

E di questo basta. Ti sei meravigliato ch’io ti abbia man-[d] dato Polisseno; ma anche riguardo a Licofrone e agli altri che ti stanno dintorno, ripeto quello che ho sempre detto, che per natura e per metodo di ragionare tu li superi d’assai: nessuno di essi si lascia confutare da te per compiacerti, come alcuni suppongono; son confutati perché non possono altrimenti. Mi sembra che li abbia assai ben trattati e regalati. Su costoro non ho altro da dire; per quel [e] che valgono, ne ho parlato già troppo. Di Filistione, se ne hai bisogno, serviti senza riguardo; poi, se t’è possibile, mandalo in prestito a Speusippo. Te ne prega anche Speusippo: Filistione per parte sua mi ha promesso di venir subito ad Atene, se tu lo lasci. Hai fatto bene a rilasciare colui ch’era rinchiuso nelle latomie. Anche per i suoi familiari e per Egesippo, figlio di Aristone, è agevole pregarti, perché tu mi hai promesso che, se qualcuno [315a] avesse fatto torto a lui o a loro e tu lo fossi venuto a sapere, lo avresti impedito. Anche su Lisiclide bisogna dire la verità: egli solo, tra quanti vengono dalla Sicilia ad Atene, non ha mutato opinione sulla nostra amicizia, e sempre parla assai bene di quello che è stato fatto.

Lettera terza

PLATONE A DIONISIO

Se lo ti scrivo "Platone a Dionisio con l’augurio d’es-[b] sere lieto", forse ti faccio l’augurio migliore? o sarebbe meglio augurarti di star bene, come son solito di fare quando scrivo agli amici? Tu, anche il dio di Delfo, come raccontarono i presenti, salutasti con queste parole adulatorie, e scrivesti, secondo che dicono:

sii lieto, e serba lieta la vita d’un tiranno.[c] Io invece, neppure a un uomo mi rivolgerci con queste parole, non che a un dio: non a un dio, perché gli augurerei una cosa ch’è contro la sua natura divina, lontana dal piacere e dal dolore; non a un uomo, perché spesso il piacere e il dolore gli son dannosi, ingenerandogli nell’anima ignoranza oblio stoltezza e superbia. Ma, per le formole di saluto, quel che ho detto è sufficiente: tu leggi, e accogli quella che vuoi.

[d] Vai dicendo ad alcuni degli ambasciatori che vengono da te, secondo che molti raccontano, che una volta, avendoti udito manifestare l’intenzione di ricostruire le città greche della Sicilia, e d’alleggerire la tua signoria su Siracusa trasformando la tirannide in una monarchia costituzionale, io te ne distolsi, contrastando, come dici, al tuo vivo desiderio: ed ora proprio questo consiglierei a Dione, ser-[e] vendomi dei tuoi stessi divisamenti per farti sbalzare dal trono. Che vantaggio tu possa trarre da questi discorsi, lo saprai tu; certo è, comunque, che tu, affermando il contrario del vero, commetti un torto verso di me. Fui calunniato abbastanza presso i mercenari e presso il popolo siracusano da Filistide e da molti altri, perché rimasi dentro l’acropoli, e quelli di fuori attribuirono a me la responsabilità di tutto il male che si faceva, convinti che tu seguissi sempre [316a] i miei consigli. Tu stesso sai benissimo, invece, che di affari politici, insieme con te, io mi sono occupato assai poco di mia voglia: e fu appunto nei primi tempi, quando pensavo di poter portare qualche giovamento. Si trattava di piccole cose, soprattutto dei proemi delle leggi, ai quali lavorai secondo che conveniva, tranne che per le aggiunte fatte da te o da qualche altro. Perché poi ho sentito che qualcuno di voi li ha rimaneggiati; ma le parti aggiunte saranno facilmente riconoscibili a chi conosce il mio stile. Ora, come ho già detto, io non ho nessun bisogno di essere calunniato presso i Siracusani e quegli altri tra cui tu vai spargendo le tue calunnie e forse li convinci; ma piuttosto [b] devo difendermi dall’antica accusa, e dall’accusa odierna più importante e più grave. Contro questa duplice accusa, duplice sarà la mia difesa: in primo luogo mostrerò che ho fatto bene a non occuparmi degli affari pubblici insieme con te, e poi che è falso ch’io ti abbia sconsigliato e osta-[c] colato, impedendoti di ricostruire le città greche.

Per cominciare, ascoltami sul primo punto. Io venni a Siracusa invitato da te e da Dione. Dione lo conoscevo bene, ed era ospite mio da gran tempo, e si trovava nell’età di mezzo, la maturità, senza la quale, chi ha anche un sol briciolo di senno, non può decidere su affari importanti come quelli che tu allora dovevi trattare: tu invece eri giovanissimo, ed inesperto di quelle cose che appunto t’era [d] necessario saper bene, e a me completamente sconosciuto. In seguito un uomo forse, o un dio, o un caso, insieme con te cacciò Dione, e tu rimanesti solo. Che collaborazione politica pensi tu che ci sia stata allora tra te e me, che avevo perduto l’aiuto di quell’uomo saggio, e vedevo rimasto te stolto in compagnia di molti uomini malvagi, non loro signore, ma dominato da loro, e convinto d’essere il padrone? In quelle condizioni che cosa potevo [e] fare? Non forse quello che appunto feci, lasciando stare oramai la politica per evitare le calunnie che l’invidia suscita, e tentando di riconciliar voi due, per quanto lontani ed ostili, il meglio che potessi? Anche tu sei testimone che io non ho mai desistito da tale sforzo. Poi, per quanto a fa-[317a] tica, ottenni, mentre eravate impegnati in una guerra, il permesso di ritornare in patria a queste condizioni, che, fatta la pace, tu ci avresti richiamati, Dione e me, e noi saremmo venuti a Siracusa. Così andarono le cose, quand’io venni la prima volta a Siracusa e me ne ritornai in patria. Più tardi, quando la pace ritornò, tu mi richiamasti la seconda volta, ma senza mantener fede alla promessa che mi avevi fatta, perché mi scrivesti di venire solo; Dione, mi dicesti che lo avresti richiamato in seguito. Pertanto io non volli venire, e scontentai anche Dione; perché egli di-[b] ceva che era meglio ch’io ti dessi ascolto e che venissi. Giunse, un anno dopo, una trireme e una tua lettera, che cominciava con la promessa di concedere a Dione tutto quello che desideravo, se fossi venuto a Siracusa; ma, se non fossi venuto, dicevi che avresti fatto il contrario. Non vai la pena ch’io dica quante lettere mi giunsero dall’Italia [c] e dalla Sicilia, tue o di altri ispirati da te, e quante ne ricevettero i miei parenti e i miei amici: e tutte mi esortavano a venire e mi pregavano di darti ascolto ad ogni costo. Tutti insomma, a cominciare da Dione, mi dicevano di mettermi in viaggio senza debolezze. Eppure io facevo presente la mia età, e sostenevo che tu non saresti riuscito a non dar ascolto alle calunnie di chi voleva renderci nemici. Perché vedevo allora, come vedo ora, che le sostanze grandi [d] e smisurate dei privati e dei monarchi, suscitano, quanto più son grandi, tanti più e più possenti calunniatori e compagni di turpi e rovinosi piaceri, ch’è il male peggiore che ingenerino la ricchezza e qualsiasi altro genere di potenza. E tuttavia di tutto questo non volli tener conto, affinché nessuno dei miei amici mi potesse accusare di aver lasciato [e] perdere, per pigrizia, la possibilità di salvarlo. E venni. Tutto quello che avvenne in seguito, tu lo sai bene: io volevo che, secondo le promesse fattemi per lettera, tu ti facessi amico di Dione e gli permettessi di ritornare; e ti parlavo di quella amicizia, della quale tu avresti dovuto tener conto seguendo il mio consiglio; e le cose, credo, sarebbero andate meglio di quanto non siano andate, per te e per i Siracusani e per il resto della Grecia. Poi volevo che [318a] i beni di Dione fossero consegnati ai suoi parenti e non lasciati in mano di quegli amministratori che tu sai; infine dicevo che bisognava fargli pervenire ogni anno, come al solito, le sue rendite, e anzi di più dopo la mia venuta, non di meno. Ma nulla ottenni, e per questo decisi di ripartire. Tu allora mi persuadesti a rimanere per un anno, promettendomi di vendere tutti i possedimenti di Dione, e di mandare a lui, a Corinto, la metà del ricavato, lasciando [b] l’altra metà al figlio suo. Potrei ricordare altre ed altre promesse non mantenute, ma non voglio andare troppo per le lunghe. Perché tu vendesti tutto quello che Dione possedeva senza chiedergliene l’autorizzazione, come pure avevi dichiarato di voler fare, e infine, dopo tante promesse, compisti la tua opera nel modo più vergognoso, cercando di spaventarmi, quasi che io non sapessi che cosa allora intendevi di fare, e di render così impossibile anche a me di chiedere che fosse inviato a Dione il suo denaro. Il mezzo che allora adoperasti non fu né nobile, né decoroso, [c] né giusto, né utile: perché, quando decidesti di cacciare Eraclida, facendo una cosa ingiusta a giudizio dei Siracusani e mio, cogliesti il pretesto della preghiera ch’io ti rivolsi insieme con Teodota ed Euribio perché non lo cacciassi, per dirmi che già da gran tempo t’eri accorto ch’io non mi prendevo alcun pensiero per te, ma solo per Dione e per i suoi amici e i suoi familiari, e che, vedendo accusati Teodota ed Eraclida, familiari di Dione, facevo [d] di tutto per impedire che fossero puniti. A questo si ridussero le nostre relazioni politiche; se qualche altro segno di discordanza tu scorgesti in me, tu vedi che le cose non potevano andar diversamente. E non meravigliartene: perché la gente assennata avrebbe ragione a giudicarmi malvagio, se, sedotto dalla grandezza del tuo potere, avessi tradito un uomo, un amico ed ospite mio da lunga data, che viveva nella sventura per causa tua e non era [e] affatto, per non dir troppo, da meno di te, e gli avessi anteposto te, il persecutore, fattomi schiavo del tuo volere per la tua ricchezza. Perché sarebbe stato così: nessuno avrebbe attribuito a un’altra causa il mio mutamento, se avessi mutato. Questi sono i fatti che, per causa tua, portarono a quella nostra amicizia da lupi e al nostro distacco.

Lo svolgimento del discorso mi ha portato a toccare del [319a] secondo argomento della mia difesa. Sta dunque attento e bada s’io mentisco e non dico la verità. Dico che, alla presenza di Archedemo e di Aristocrito, circa venti giorni prima ch’io partissi da Siracusa per ritornare in patria, mentre ci trovavamo nel giardino, tu mi movesti il rimprovero che oggi ripeti, ch’io avevo per Eraclida e per tutti gli altri un interesse maggiore che per te. Poi, sempre in loro presenza, mi domandasti anche se ricordavo di averti consigliato, sùbito dopo il mio arrivo, di ricostruire [b] le città greche. Io risposi che me ne ricordavo benissimo, e che ancora giudicavo che quella fosse la politica migliore. Devo però ricordare, o Dionisio, anche il séguito della conversazione. Io ti domandai se era quello il solo consiglio che t’avevo dato, o se ne avevo aggiunto qualche altro: e tu mi rispondesti irato e irridente (così almeno tu credevi, ma l’irrisione d’allora ti si è fatta, di sogno, realtà); mi [c] dicesti dunque con una gran risata, se ben ricordo: "Mi consigliasti di educarmi prima, e poi di fare tutto questo: se no, di non farlo". Io dissi che tu ricordavi esattamente. "Dovevo dunque studiare la geometria - replicasti, - o che cos’altro?". Io non risposi ciò che mi veniva alle labbra, per paura che una parola mi facesse, di largo, angusto il ritorno che aspettavo. Ora, ecco perché ho fatto tutti questi discorsi: non calunniarmi, dicendo che io ti [d] impedii di ricostruire le città greche rovinate dai barbari, e di migliorare la condizione dei Siracusani sostituendo alla tirannide una monarchia costituzionale. Non potresti trovare una menzogna più assurda a mio riguardo; e io, per confutarti, potrei aggiungere altri argomenti ancor più evidenti, se mai ci fosse la possibilità di un giusto giudizio, e provare che io ti consigliai questa politica e tu non volesti seguire i miei consigli: del resto, non è difficile mostrare che sarebbe stata, questa, la politica migliore per te e per [e] i Siracusani e per i Siciliani tutti. E dunque, mio caro, se neghi di aver detto quello che hai detto, implicitamente io sono assolto dall’accusa: se lo ammetti, allora pensa che Stesicoro fu saggio, e imita la sua palinodia, e cessa di mentire e di’ la verità.

Lettera quarta  

PLATONE A DIONE SIRACUSANOCON L’AUGURIO CHE STIA BENE

 [320a] Penso che sempre abbiate notato il mio zelo in tutto quello che s’è fatto, e la gran cura che mi son data perché l’impresa riuscisse: né l’ho fatto per altro che per farmi [b] onore in cose belle. Perché è giusto, a mio giudizio, che gli uomini che son veramente virtuosi e che virtuosamente agiscono, ottengano la gloria che si meritano. La situazione presente, sia detto col buon volere degli dèi, è buona: ma la fatica maggiore ci aspetta ora. Perché il coraggio, la velocità e la forza sono doti che anche altri possono avere, ma bisogna pur ammettere che per verità, per giustizia, [c] per magnanimità e per il buon contegno che accompagna tutte queste virtù, naturalmente eccelle solo chi vuole apprezzarle. Certo, quello ch’io ti dico è ovvio; ma dobbiamo ugualmente ricordare a noi medesimi, che quelli che tu conosci devono distinguersi dagli altri uomini più ancora che dai fanciulli. Dobbiamo dunque dimostrare che siamo davvero come diciamo di essere, tanto più che, con l’aiuto degli dèi, non ci sarà difficile. Gli altri devono andare er-[d] rando per molti paesi, se vogliono essere conosciuti: tu invece ti trovi ora in tale condizione, che tutto il mondo, se posso dirlo senz’essere soverchiamente ardito, guarda verso un luogo solo, e, in questo, volge gli sguardi soprattutto verso di te. E dunque, poiché tutti guardano a te, cerca di superare la fama di Licurgo, di Ciro e di tutti quegli altri che ebbero gloria per i loro costumi e per le loro istituzioni; tanto più che qui molti, anzi quasi tutti, vanno dicendo che, [e] tolto di mezzo Dionisio, tu ed Eraclida e Teodota e gli altri capi molto probabilmente rovinerete ogni cosa per la vostra ambizione. Se è possibile, che nessuno di voi agisca così: ma, se qualcuno non si comporta bene, tu procura di mettervi rimedio, e tutto allora andrà per il meglio. For-[321a] se tu troverai ridicolo ch’io ti dica queste cose, perché son cose che sai bene anche tu; ma io vedo che negli spettacoli anche i fanciulli incitano gli atleti, e non solo gli amici, che, com’è ovvio, lo fanno con tutto lo zelo dell’amicizia. Voi dunque, per parte vostra, fate tutto quello che v’è possibile per il buon esito dell’opera vostra, e a noi, se avete bisogno di qualche cosa, fatelo sapere: qui le cose vanno come quando voi c’eravate. Fateci anche sapere ciò [b] che avete fatto e ciò che state facendo; perché a noi giungono molte voci, ma non sappiamo nulla di certo: Teodota ed Eraclida hanno mandato anche ora lettere a Sparta e ad Egina, mentre noi, ripeto, udiamo qui molte voci, ma non sappiamo nulla di quanto accade costà. Rifletti, anche, che molti ti considerano troppo poco cortese, e non dimenticare che nulla si può fare se non si gode il favore degli [c] uomini, e che l’arroganza è tutt’uno con l’isolamento. Buona fortuna.

Lettera quinta

PLATONE A PERDICCA CON L’AUGURIO CHE STIA BENE

 Secondo che m’hai scritto, ho raccomandato a Eufreo di prendersi cura dei tuoi affari; devo anche darti il consiglio sacro dell’ospite, come si dice, sul resto che mi [d] domandi, e sul modo di servirti ora di Eufreo. A un uomo che può rendersi utile in molte cose, ma soprattutto in quella di cui anche tu ora hai bisogno, sia per la tua età e sia perché i giovani non trovano molti che su tal cosa li possano ben consigliare. Tutte le costituzioni, come se fossero esseri viventi, hanno una loro voce: altra è la voce della democrazia, altra quella dell’oligarchia, altra quella [e] della monarchia. Moltissimi pretendono di saperle, ma solo pochi le comprendono davvero: gli altri ne sono ben lontani. Lo stato che parla agli dèi e agli uomini con la sua propria voce e agisce coerentemente al suo linguaggio, fiorisce e si conserva sempre; quello che adopera un’altra voce, perisce. Ed è appunto per questo che Eufreo, uomo del resto anche per altre cose ben dotato, ti può essere uti-[322a] lissimo, perché sono convinto che egli può suggerirti i discorsi adatti alla monarchia non meno bene di chicchessia tra quanti ti stanno ora d’intorno. Pertanto, se ti servirai di lui, ne trarrai vantaggio tu, e grande giovamento porterai a lui. Se poi qualcuno, udendo queste mie parole: "Platone - dirà - pare che si vanti di sapere ciò che giova alla democrazia; eppure, per quanto potesse parlare al popolo e consigliarlo per il meglio, non ha mai fatto sentire la sua voce in pubblico", rispondigli che Platone è nato troppo tardi nella sua patria, e v’ha trovato un popolo [b] oramai troppo vecchio, e abituato dagli uomini politici passati a fare troppe cose disformi dai consigli ch’egli potrebbe dare: il suo popolo, egli sarebbe felicissimo di consigliarlo, come se si trattasse di suo padre, ma giudica che si esporrebbe invano al pericolo, e non otterrebbe nulla. "Lo stesso - dirai - io credo che farebbe anche con me: se vedesse ch’io sono incurabile, fattomi un bel saluto, non [c] si occuperebbe più né di me, né dei miei affari". Buona fortuna.

Lettera sesta 

PLATONE A ERMIA, A ERASTO E A CORISCO, CON L’AUGURIO DI STAR BENE

 Un dio, mi pare, vuole concedervi con benevolo amore e in larga misura, se voi saprete accoglierla, una buona fortuna: perché voi abitate vicini l’un l’altro e siete in grado [d] di prestarvi grandissimi mutui servigi. Ad Ermia, infatti, non occorre copia di cavalli o di aiuti militari d’altro genere, e neppur l’oro accrescerebbe di nulla la sua potenza, ma d’amici fidati e dal cuore sano; Erasto e Corisco d’altra parte, a quella loro bella scienza delle idee hanno bisogno d’aggiungere (lo dico, per quanto sia vecchio) anche la [e] scienza di guardarsi dagli uomini scellerati e malvagi, e, insieme, una certa forza per difendersene. Di questa scienza essi son privi per essere vissuti a lungo insieme con noi, uomini tranquilli e dabbene: ed è per questo che essi hanno bisogno, secondo me, di tale aiuto, per non essere costretti a trascurare la sapienza vera, e ad occuparsi più che non convenga di quella umana indispensabile. E questa appunto, [323a] per quello che ne posso sapere io che non mi sono mai incontrato con lui, mi pare che Ermia la possieda, sia per natura e sia per l’arte che nasce dall’esperienza. Insomma, che cosa voglio dire? A te, o Ermia, io che ho sperimentato più di te Erasto e Corisco, dico e assicuro e garantisco che non troverai facilmente altri uomini che sian degni di maggior fiducia di questi tuoi vicini; e per questo ti consiglio di cercare di farti loro amico in ogni modo, purché giusto, e di considerare quest’amicizia una cosa di sommo momento. A Corisco e ad Erasto consiglio ugualmente di avvicinarsi [b] ad Ermia per stringersi in mutua amicizia con lui. Se poi qualcuno di voi, poi che nulla v’è di stabile tra gli uomini, volesse rompere questa amicizia, prima mandate a me e ai miei amici una lettera per dirmi le ragioni del dissenso. Io penso che i discorsi che vi giungeranno di qui, se la rottura non è grave, vi indurranno meglio d’ogni incantamento, mediante il senso della giustizia e del pudore, [c] a conciliarvi e a unirvi, ritornando all’antica amicizia e all’antica familiarità: quella familiarità che, se tutti, noi e voi, vivremo da filosofi secondo la nostra possibilità e la forza di ciascuno... quello che ora ho predetto si avvererà. Quello che invece accadrà, se non faremo così, non lo dirò, perché voglio fare un buon augurio, e quindi predico che, se dio ce lo concede, tutto ci andrà per il meglio. Questa lettera leggetela tutti e tre insieme, se lo potete: se no, a due alla volta; e fatelo il più spesso possibile, considerandola quasi come il testo di un patto e di una leg-[d] ge inviolabile, com’è giusto: giuratelo con una serietà priva di rigidezza, e con quella giocosità che suole accompagnarsi con la serietà: giuratelo in nome del dio ch’è guida di tutte le cose presenti e future, e del padre signore della guida e della causa, che noi tutti conosceremo, se saremo davvero filosofi, per quanto è dato ad uomini beati.

Lettera settima 

PLATONE AI FAMILIARI E AGLI AMICI DI DIONECON L’AUGURIO DI STAR BENE 

Mi avete scritto ch’io devo considerare identico a quello di Dione il vostro pensiero, e mi pregaste di essere con [324a] voi, e di darvi tutto il mio aiuto d’opera e di parola. Ed io, se il vostro pensiero e le vostre intenzioni sono davvero gli stessi di Dione, prometto d’essere con voi: se no, ci penserò parecchio. E dunque dirò che cosa Dione pensava e che intenzioni aveva, perché non per congettura, ma per certa conoscenza io le conosco. Quando io, a circa quarant’anni, giunsi a Siracusa per la prima volta, Dione aveva l’età che Ipparino ha oggi: allora si formò in lui quella [b] concezione, che da allora egli non modificò mai più: voleva che i Siracusani fossero liberi e avessero le leggi migliori. Nulla di strano ci sarebbe, quindi, se qualche iddio facesse nascere anche in costui lo stesso pensiero politico. Come questo si formò in Dione, vale la pena che ascoltino giovani e non giovani: pertanto cercherò di spiegarvi come s’originò, comunicando dal principio; le circostanze me ne dànno l’occasione.

Quando ero giovane, io ebbi inesperienza simile a quella di molti altri: pensavo di dedicarmi alla vita politica, [c] non appena fossi divenuto padrone di me stesso. Or mi avvenne che questo capitasse allora alla città: il governo, attaccato da molti, passò in altre mani, e cinquantun cittadini divennero i reggitori dello stato. Undici furono posti a capo del centro urbano, dieci a capo del Pireo, tutti con l’incarico di sovraintendere al mercato e di occuparsi dell’amministrazione, e, sopra costoro, trenta ma-[d] gistrati con pieni poteri. Tra costoro erano alcuni miei familiari e conoscenti, che sùbito mi invitarono a prender parte alla vita pubblica, come ad attività degna di me. Io credevo veramente (e non c’è niente di strano, giovane come ero) che avrebbero purificata la città dall’ingiustizia traendola a un viver giusto, e perciò stavo ad osservare attentamente che cosa avrebbero fatto. M’accorsi così che in poco [e] tempo fecero apparire oro il governo precedente: tra l’altro, un giorno mandarono, insieme con alcuni altri, Socrate, un mio amico più vecchio di me, un uomo ch’io non esito a dire il più giusto del suo tempo, ad arrestare un cittadino [325a] per farlo morire, cercando in questo modo di farlo loro complice, volesse o no; ma egli non obbedì, preferendo correre qualunque rischio che farsi complice di empi misfatti. Io allora, vedendo tutto questo, e ancor altri simili gravi misfatti, fui preso da sdegno e mi ritrassi dai mali di quel tempo. Poco dopo cadde il governo dei Trenta e fu abbattuto quel regime. E di nuovo mi prese, sia pure meno intenso, il desiderio di dedicarmi alla vita politica. [b] Anche allora, in quello sconvolgimento, accaddero molte cose da affliggersene, com’è naturale, ma non c’è da meravigliarsi che in una rivoluzione le vendette fossero maggiori. Tuttavia bisogna riconoscere che gli uomini allora ritornati furono pieni di moderazione. Se non che accadde poi che alcuni potenti intentarono un processo a quel mio amico, a Socrate, accusandolo di un delitto nefandissimo, il più [c] alieno dall’animo suo: lo accusarono di empietà, e fu condannato, e lo uccisero, lui che non aveva voluto partecipare all’empio arresto di un amico degli esuli di allora, quando essi pativano fuori della patria. Vedendo questo, e osservando gli uomini che allora si dedicavano alla vita politica, e le leggi e i costumi, quanto più li esaminavo ed avanzavo nell’età, tanto più mi sembrava che fosse diffi-[d] cile partecipare all’amministrazione dello stato, restando onesto. Non era possibile far nulla senza amici e compagni fidati, e d’altra parte era difficile trovarne tra i cittadini di quel tempo, perché i costumi e gli usi dei nostri padri erano scomparsi dalla città, e impossibile era anche trovarne di nuovi con facilità. Le leggi e i costumi si corrompevano e si dissolvevano straordinariamente, sicché [e] io, che una volta desideravo moltissimo di partecipare alla vita pubblica, osservando queste cose e vedendo che tutto era completamente sconvolto, finii per sbigottirmene. Continuavo, sì, ad osservare se ci potesse essere un [326a] miglioramento, e soprattutto se potesse migliorare il governo dello stato, ma, per agire, aspettavo sempre il momento opportuno, finché alla fine m’accorsi che tutte le città erano mal governate, perché le loro leggi non potevano essere sanate senza una meravigliosa preparazione congiunta con una buona fortuna, e fui costretto a dire che solo la retta filosofia rende possibile di vedere la giustizia negli affari pubblici e in quelli privati, e a lodare solo essa. Vidi [b] dunque che mai sarebbero cessate le sciagure delle generazioni umane, se prima al potere politico non fossero pervenuti uomini veramente e schiettamente filosofi, o i capi politici delle città non fossero divenuti, per qualche sorte divina, veri filosofi.

Così pensavo, quando per la prima volta venni in Italia ed in Sicilia. Giunto, non mi piacque affatto quella vita cosiddetta beata che vi si conduceva, piena di banchetti italioti e siracusani, quel riempirsi due volte al giorno, e non dormire mai la notte senza compagnia, e tutto il resto [c] che s’accompagna con tal genere di vita. Perché non v’è uomo al mondo che, abituato a vivere così fin dall’infanzia, possa acquistare sapienza (nessuno può avere una natura così meravigliosa) e neanche avvicinarsi a vivere in temperanza: lo stesso si può dire per le altre virtù. Né v’è città che possa vivere tranquilla, quali che siano le sue leggi, quando i cittadini pensano di dover spendere sempre [d] a profusione, e di non dover far altro che banchettare e bere e affaticarsi nelle cure d’amore. Queste città non possono che trapassare continuamente tra tirannidi e oligarchie e democrazie, e i loro capi neppure il nome vorranno sentire di una costituzione giusta e senza privilegi. Così, quando passai a Siracusa, queste considerazioni s’aggiungevano ai pensieri che avevo già. Fu forse per un [e] caso che vi venni, ma forse fu un dio che volle dar inizio a quello che ora è successo a Dione e a Siracusa: e c’è pericolo che altri guai capitino ancora se voi non mi darete ascolto, ora che per la seconda volta io espongo il mio consiglio. E dunque, perché mai dico che la mia venuta [327a] in Sicilia segnò il principio di tutto quello che avvenne? Io ebbi delle conversazioni con Dione, allora giovane, e gli mostravo coi miei discorsi quello che, a mio giudizio, è l’ottimo per gli uomini, e lo esortavo a vivere secondo questo ottimo; ignoravo che così, senza accorgermene, preparavo in qualche modo l’abbattimento della tirannide. Infatti Dione, giovane di viva intelligenza anche per altre cose, ma soprattutto atto a comprendere i discorsi ch’io allora gli facevo, mi si fece discepolo e mi seguì con una passione [b] che io non trovai mai in altro giovane, e volle vivere tutto il resto della vita in modo diverso dalla gran parte degli Italioti e dei Siciliani, preferendo la virtù al piacere e a ogni altro genere di mollezza. Perciò fino alla morte di Dionisio fu sempre più odiato da quanti vivevano negli usi della tirannide. In seguito pensò che questo suo convinci-[c] mento originato da sani ragionamenti non doveva restar chiuso in lui, e quindi, vedendo ch’esso nasceva in altri, non molti per verità, ma tuttavia in alcuni, tra i quali, se gli dèi lo aiutavano, credette che sarebbe stato facilmente anche Dionisio, si disse che, se questo fosse avvenuto, straordinariamente felice sarebbe divenuta la sua vita e [d] quella degli altri Siracusani. E allora, ricordandosi con quanta prontezza le conversazioni avute con me gli avevano fatto nascere il desiderio della vita più nobile e più bella, e sperando assai di poter introdurre in tutto il paese, senza stragi, senza uccisioni e senza tutti quei malanni che sono ora accaduti, una vita vera e felice, solo che avesse potuto compiere la stessa cosa con Dionisio come aveva cominciato, pensò ch’io dovevo assolutamente venire a Siracusa al più presto per aiutarlo nella sua opera. Con questo giusto intendimento, egli persuase Dionisio ad invitarmi, e mi mandò dei messi lui stesso, pregandomi di partire al più [e] presto e ad ogni costo, prima che Dionisio trovasse altri amici che lo distogliessero dalla vita migliore per una vita diversa. Queste sono le parole che egli mi scrisse e ch’io ripeterò, a costo di dilungarmi: "Che occasione stiamo ad aspettare - scriveva, - che ci sia più favorevole di questa, che ci è offerta da una sorte divina?". E mi parlava dell’im-[328a] pero dell’Italia e della Sicilia, della potenza che egli vi aveva, e insisteva sulla giovinezza di Dionisio, sul suo vivo desiderio d’educazione, sul suo amore per la filosofia, e mi diceva quanto era facile istillare nei suoi nipoti e nei suoi familiari la concezione di vita di cui io non cessavo di parlare, e come, per mezzo di costoro, si poteva agevolmente indurre anche Dionisio a seguire il medesimo modo di vita, sicché mai come allora - egli diceva - v’era la possibilità che si attuasse completamente la nostra speranza di veder congiunti nelle stesse persone filosofi e reggitori [b] di grandi città. Con questi e con molti altri simili discorsi egli m’invitava. Tuttavia mi tratteneva un certo timore, per la opinione che avevo dei giovani, quale mai sarebbe stato il risultato del nostro sforzo: perché i giovani sono volubili e spesso contraddittori nei loro desideri. D’altra parte sapevo che il carattere di Dione era grave per natura, e maturo per età. Perciò esitavo e tra me consideravo se dovevo dargli ascolto e andare, oppure no: alla fine mi decisi, perché mi pareva che, se si doveva [c] tentare di tradurre in atto le mie dottrine sulle leggi e sullo stato, quello appunto era il momento. Bastava persuadere un uomo solo, e avrei compiuto tutto il bene possibile. Questo era il mio pensiero e questa la mia speranza quando partii. Non v’andai per le ragioni che altri credettero, ma per un senso di vergogna che provavo, soprattutto al pensiero d’essere soltanto un facitor di parole, incapace di intraprendere di mia volontà opera alcuna; e poi avrei rischiato di tradire Dione, l’ospite ed amico mio, [d] che si trovava realmente in grande pericolo. Pensavo: e se gli capitasse qualche disgrazia o fosse bandito da Dionisio e dagli altri suoi nemici, e mi si presentasse e mi chiedesse: "O Platone, io sono venuto qui, esiliato, non perché avessi bisogno di opliti o mancassi di cavalieri che mi difendessero dai miei nemici: di quei discorsi persuasivi avevo bisogno, coi quali io so che tu puoi così bene indurre i giovani all’amore del buono e del giusto, e stabilire ognora [e] tra di loro salde amicizie. Ma questo aiuto per parte tua mi mancò, e per questo ho lasciato Siracusa e ora sono qui. Non è però la mia sorte quella che ti fa maggior vergogna: ma la filosofia, insieme con me, non l’hai forse tu tradita per parte tua, la filosofia che tu pur sempre esalti e che dici disonorata dagli altri uomini? Certo, s’io fossi [329a] stato a Megara, avresti ascoltato la mia preghiera e saresti accorso in mio aiuto, e se no, consìderati il peggiore degli uomini: e dunque credi tu che ti possa giustificare dalla fama di viltà il pretesto del lungo viaggio e della grande fatica della traversata? Neanche per sogno"; se dunque mi avesse fatto un tal discorso, che onesta risposta avrei potuto dargli? Nessuna. V’andai dunque per le più giuste e per [b] le migliori ragioni del mondo, e per queste ragioni abbandonai le mie belle occupazioni e andai a vivere sotto una tirannide, che pur sembrava sconvenire a me ed alle mie dottrine. Così, andandovi, feci il mio dovere verso Zeus Ospitale, e non venni meno al dovere del filosofo, mentre sarei stato biasimato a ragione, se, per mollezza o per viltà, mi fossi macchiato di turpe vergogna. Dunque, per non dilungarmi troppo, andai, e trovai grandi discordie [c] alla corte di Dionisio, e Dione calunniato presso il tiranno. Io feci quanto potei per difenderlo, ma la mia autorità era scarsa: dopo tre mesi all’incirca, Dionisio accusò Dione di voler rovesciare la tirannide, lo imbarcò su di una piccola nave e lo cacciò ignominiosamente. Tutti noi altri amici di Dione, tememmo allora che egli ci accusasse, o l’uno o l’altro, di complicità con lui e ci punisse: si diffuse anzi per Siracusa la voce ch’io ero stato ucciso da Dionisio, come complice di tutta la trama ch’era stata [d] ordita. Egli invece, accorgendosi di questa nostra paura e temendo ch’essa ci suggerisse qualche azione disperata, ci trattava tutti benevolmente; ed anzi, quanto a me, mi faceva coraggio e mi diceva di star di buon animo e mi pregava in ogni modo di rimanere: perché non la mia partenza gli avrebbe fatto onore, ma la mia dimora. Per questo appunto egli mostrava di pregarmi vivamente. Ma le preghiere dei tiranni, si sa, sono la maschera d’una costrizione:[e] egli prese le sue misure perché non potessi partire: mi condusse nell’acropoli e lì stabili la mia abitazione, lì, donde nessun capitano di nave mi avrebbe condotto via se avesse avuto il divieto di Dionisio, anzi in nessun modo, a meno che non ne avesse ricevuto l’ordine espresso; né v’era mercante, né comandante di frontiera che mi avrebbe lasciato passare da solo, ma mi avrebbero subito arrestato e condotto da Dionisio, tanto più che s’era diffusa una voce [330a] contraria a quella di prima, la voce che Dionisio mi amava moltissimo. E dunque, come andavano le cose? Bisogna dire la verità. Mi amava davvero sempre di più col passare del tempo, man mano che imparava a conoscere il mio carattere e i miei costumi; voleva anzi ch’io apprezzassi più lui che Dione, e gli fossi più amico. E faceva ogni sforzo per questo. Ma esitava a scegliere la via giusta, quella per cui avrebbe potuto, se l’avesse seguita, raggiun-[b] gere meglio il suo fine; perché non mi frequentava per ascoltare i miei discorsi di filosofia, ed imparare: irretito dalle parole dei calunniatori, temeva di poter essere da quei discorsi impacciato nelle sue azioni, e che fosse tutta una macchinazione di Dione. Io sopportavo tutto, fermo nell’intenzione con la quale ero venuto, di vedere se mai sorgesse in lui l’amore per la vita del filosofo: vinse invece la sua riluttanza.

[c] Così andarono le cose quando io venni e mi fermai la prima volta in Sicilia. In seguito io partii, e poi ritornai un’altra volta, insistentemente chiamato da Dionisio. Le ragioni per cui ritornai, e come fu giusta e ragionevole la mia condotta, le dirò in seguito per rispondere a chi mi domanda perché mai io venni a Siracusa una seconda volta: ma prima voglio darvi i consigli che la situazione presente richiede, per non fare della parte secondaria la parte principale della mia lettera. I miei consigli son questi. Quando un uomo è ammalato, e segue un regime di vita non sa-[d] lutare, bisogna, per prima cosa, consigliargli di cambiar vita: poi, se egli è disposto ad obbedire, gli si daranno altri consigli: se non è disposto, uno che sia veramente un uomo e un medico, cesserà, a mio giudizio, di consigliarlo, mentre chi facesse il contrario, io lo considererei un vile e un ignorante. Lo stesso vale per una città, sia essa governata da una o da più persone. Se essa ha un governo che segue regolarmente la retta via, e domanda un [e] consiglio che possa portarle utilità, è assennato colui che a uomini così governati non nega il suo consiglio; ma se sono assolutamente lontani dal buon governo e non vogliono in alcun modo seguirne la giusta traccia, se impongono ai loro consiglieri di lasciar stare e non toccare la co-[331a] stituzione, pena la morte, ma comandano di servire ai loro desideri e ai loro voleri mostrando il modo di soddisfarli sempre il più rapidamente e il più facilmente ch’è possibile, colui che accetta di fare il consigliere in tali condizioni, io lo considero un vile, colui che non accetta un uomo. Convinto di questo, quando uno mi domanda un consiglio su cose che riguardano le più importanti atti-[b] vità della sua vita, acquisto di beni o cura del corpo o educazione dell’anima, io, se vedo ch’egli vive con rettitudine, o che, quando riceve un consiglio, fa quello che gli si dice, lo consiglio volentieri, e non l’abbandono, solo evitando di commettere un’empietà. Ma se non mi domanda consiglio, o mostra chiaramente che non mi darebbe affatto ascolto, io non andrò di certo a dar consigli non richiesti o a far violenza, neanche se si trattasse di suo figlio. Se fosse uno schiavo, allora sì che lo consiglierei, e, [c] quando non obbedisse, lo costringerei. Ma far violenza al padre o alla madre, quando non siano in preda alla follia, per il solo fatto che essi vivono in un modo che piace ad essi ed a me no, la considero un’empietà; né s’ha da rendersi loro odiosi con vani ammonimenti e compiacerli servilmente aiutandoli a soddisfare a desideri ch’io preferirei morire che averne. Lo stesso deve fare l’uomo saggio anche quando si tratta della patria: deve parlare, quando vede [d] che non è ben governata, se la sua parola non sarà vana né gli sarà fatale; ma non deve farle violenza per modificare il suo modo di vivere, quando non sia possibile ottenere la miglior costituzione senza esili ed uccisioni; in tal caso se ne stia tranquillo, e preghi gli dèi per sé e per essa.

Solo a queste condizioni io posso darvi dei consigli, come, insieme con Dione, consigliai Dionisio: gli dicevo che doveva vivere la sua vita d’ogni giorno in modo da [e] divenire il più possibile padrone di se stesso, e farsi degli amici e dei compagni fedeli, se non voleva avere la sorte di suo padre, il quale, dopo aver conquistato molte e grandi città della Sicilia già devastate dai barbari, non riuscì a costituirvi dei governi che gliele mantenessero fe-[332a] deli, governi affidati a compagni, stranieri donde che fossero, o fratelli più giovani, ch’egli stesso aveva allevati, e di privati cittadini aveva fatti governatori, e di poveri straordinariamente ricchi. Ma né persuasione, né educazione, né benefìci, né parentela valsero ad associare qualcuno di loro al suo governo. E così fu sette volte da meno di Dario, il quale, pur non avendo né fratelli né amici da lui allevati di cui fidarsi, ma soltanto quelli che avevano [b] partecipato con lui al colpo di mano contro l’eunuco Medo, a costoro distribuì sette province, ciascuna più grande di tutta la Sicilia, e li ebbe fedeli collaboratori, ed essi vissero concordi tra di loro e concordi con lui; così mostrò con l’esempio come deve essere un buon legislatore e re, dando leggi per le quali l’impero dei Persiani esiste ancora. E similmente gli Ateniesi mantennero per settanta [c] anni il dominio di molte città greche, che un tempo erano state invase dai barbari, e che essi incorporarono nel loro impero insieme con gli abitanti senza averle colonizzate essi stessi, servendosi di uomini che in ciascuna di esse s’erano fatti amici fedeli. Dionisio invece, che pur aveva riunita tutta la Sicilia in una sola città, non fidandosi di nessuno nella sua saggezza, a stento riuscì a salvarsi per scarsità di amici fedeli: ed è questo, l’essere o no privo di tali amici, la prova maggiore della virtù o dell’ignavia d’una persona.

Questi sono dunque i consigli che Dione ed io davamo [d] a Dionisio, rimasto per colpa del padre privo di una buona educazione e di amici adatti: anzitutto <d’essere temperante> e poi, messosi per questa via, di farsi tra i suoi familiari e i suoi coetanei altri amici fedeli, concordi con lui nell’amore della virtù; ma soprattutto d’essere amico lui stesso di se medesimo, cosa di cui egli aveva grandissimo bisogno. Non che gli dicessimo queste cose apertamente, che sarebbe stato pericoloso; gliele dicevamo velatamente, cercando di fargli capire coi nostri ragionamenti che un uomo, se segue questa via, salva se stesso ed i suoi [e] sudditi, se si volge per altra via, finisce con l’ottenere il risultato contrario. Se, gli dicevamo, avesse seguito i nostri consigli, e fosse divenuto saggio e temperante, e avesse poi ricostruito le città della Sicilia, e con leggi e costituzioni le avesse rese amiche a sé e concordi tra di loro di contro al barbaro, il suo regno sarebbe divenuto non [333a] doppio, ma sicuramente parecchie volte più grande di quello di suo padre: ché avrebbe allora imposto il suo dominio ai Cartaginesi assai più di quanto non avesse fatto Gerone, mentre il contrario era toccato al padre suo, che era stato costretto a pagare un tributo ai barbari. Questi erano i nostri discorsi, questi i consigli che davamo a Dionisio noi, i cospiratori, come molti andavano dicendo, sì che riuscirono a persuadere Dionisio, e Dionisio cacciò [b] Dione, suscitando in noi altri un gran timore. Ma, per esporre brevemente i grandi avvenimenti che seguirono, Dione ritornò dal Peloponneso e da Atene, e diede coi fatti una lezione a Dionisio. Sennonché, dopo che egli ebbe per due volte liberato e restituito la città ai Siracusani, costoro provarono verso di lui il medesimo sentimento che aveva avuto Dionisio, quando Dione aveva cercato di educarlo e renderlo un re degno di questo nome, per diventare a queste condizioni suo intimo amico, e Dionisio aveva preferito alla sua l’amicizia dei calunniatori, che accusavano [c] Dione di cospirare contro la tirannide, e dicevano che ad altro egli allora non mirava se non ad affascinarlo con le lusinghe dello studio, per indurlo a trascurare gli affari del suo regno: così, essi dicevano, egli sperava che fossero affidate a lui le cure dello stato, e lui allora con l’inganno si sarebbe impadronito del potere e l’avrebbe sbalzato dal trono. Per la seconda volta simili voci corsero fra i Siracusani e furono credute; e fu, questa, una vittoria assurda, e vergognosa per gli stessi vincitori. Come andarono le [d] cose, quelli che mi invitano a intervenire in ciò che sta succedendo, devono saperlo. Io, Ateniese, andai alla corte del tiranno per aiutar Dione, l’amico mio, trasformando la guerra tra quei due in amicizia: ma ebbi di contro chi, con le calunnie, mi vinse. Dionisio cercò allora di attirarmi dalla sua parte con l’offerta di onori e ricchezze, e di farmi suo amico e testimone che l’esilio di Dione era ben meritato: ma non ci riuscì. Più tardi Dione ritornò in patria, [e] venendo da Atene con due fratelli: non erano costoro di quegli amici che nascono dalla filosofia, ma come sono per lo più gli amici, uniti da una amicizia volgare, nata o dall’ospitalità o dalla comune iniziazione ai misteri. Per queste ragioni e per l’aiuto prestatogli per ritornare gli erano divenuti amici quei due che lo riaccompagnarono. [334a] Ora costoro, quando furono in Sicilia, come seppero le calunnie che su Dione circolavano tra i Siciliani da lui liberati, che egli tentava di farsi tiranno, non solo tradirono il loro ospite ed amico, ma divennero in certo modo i suoi stessi assassini, assistendo ed aiutando, con le armi alla mano, i suoi uccisori. La turpitudine e l’empietà di questo fatto, io non la scuso, ma neanche voglio parlarne, perché molti altri ne cantano e ne canteranno nel futuro. [b] Però, che Atene sia stata disonorata da questi assassini, come si dice, io lo contesto; perché ateniese è anche colui che non volle tradire Dione e rifiutò per questo ricchezze ed onori copiosi; ma costui non gli era stretto da amicizia volgare, sì invece da quella intimità che nasce da una libera educazione, l’unica di cui possa fidarsi l’uomo di senno, ben più che della parentela delle anime e dei corpi. [c] Pertanto di nessuna vergogna la città fu macchiata dagli uccisori di Dione, come se fossero mai stati uomini di qualche conto.

Tutto questo io l’ho detto per consigliare gli amici e i familiari di Dione. Voglio però aggiungere un altro consiglio, ripetendo per la terza volta gli stessi discorsi che già due volte feci con altri: non sia asservita la Sicilia, né alcuna altra città, ma vivano tutte sotto l’imperio delle leggi, questo io dico. La tirannide non giova né agli oppressori, [d] né agli oppressi, né ai figli e ai discendenti dei figli: al contrario, è un’esperienza assolutamente rovinosa. E’ solo la gente meschina e servile quella che ama tali guadagni, la gente che non sa nulla di quanto è buono e giusto, umanamente e divinamente, sia per il presente che per il futuro. Questo io volli la prima volta persuadere a Dione, la seconda a Dionisio; la terza a voi ora. Voi dunque datemi ascolto, in nome di Zeus terzo Salvatore e pensando a Dionisio e a Dione, che, il primo non mi dette ascolto e [e] vive ora non bellamente, il secondo m’ascoltò ed è morto nobilmente; perché quando la si patisce per ottenere ciò che c’è di più bello per sé e per la propria città, non v’è sofferenza che non sia nobile e bella. Nessuno di noi, infatti, è immortale, e se anche qualcuno lo fosse, costui non sarebbe, come credono i più, un uomo felice, ché gli [335a] esseri inanimati non provano né gran mali né gran beni, ma solo ciascun’anima, sia essa congiunta o sia separata dal corpo. In verità bisogna credere alle antiche e sacre tradizioni, che dicono che noi abbiamo un’anima immortale, soggetta a dei giudici e a pagare pene severissime dopo la sua separazione dal corpo; onde s’ha da ritenere che le grandi colpe e le grandi ingiustizie sia un male minore subirle che farle. E l’uomo avido di ricchezze [b] e spiritualmente povero che non vuol sentire queste parole, e, se anche le ascolta, se ne fa beffe, come crede lui, e afferra ovunque senza vergogna, come una bestia, tutto ciò che può mangiare o bere, o che gli procura il soddisfacimento di quel piacere ingrato e da servi, che a torto è detto il piacere d’amore; ma è un uomo cieco costui, che non sa quali azioni siano empie, quanto male accompagni sempre ciascun atto ingiusto, e come il malfattore sia costretto a trascinarsi la sua empietà mentre si muove [c] sulla terra e quando torna sotto terra, in un cammino che ovunque e in ogni modo è vergognoso e miserevole. Questi ed altri simili discorsi io facevo a Dione, ed egli se ne persuadeva: perciò a ragione io sono sdegnato contro coloro che l’hanno ucciso così come contro Dionisio, perché gli uni e l’altro hanno fatto un gran male a me e, per così dire, a tutti gli uomini, quelli uccidendo una persona giusta, costui disdegnando di seguire la via della giustizia durante [d] tutto il tempo del suo governo. Egli aveva allora un vastissimo impero, e avrebbe potuto, se in esso la potenza si fosse congiunta realmente con la filosofia nella stessa persona, far brillare e nascere in tutti gli uomini, e Greci e barbari, la verace opinione che mai è felice la città, e neanche l’uomo, che non viva secondo giustizia e ragione, sia che possieda queste virtù di per se stesso, sia che le abbia acquisite mediante una retta educazione ricevuta da [e] reggitori pii. Questo è il male fatto da Dionisio: a paragone di questo le altre sue colpe, per me, son cose da nulla: e lo stesso male fece, senza saperlo, colui che uccise Dione. Perché, per quella certezza che può avere un uomo quando parla d’un altro uomo, io so che, se Dione avesse [336a] avuto il potere, avrebbe instaurato questa forma di governo: liberata e purificata Siracusa, sua patria, dalla servitù, l’avrebbe adornata in veste di libera, poi le avrebbe dato, con ogni mezzo, le leggi migliori e più adatte ai cittadini, e infine si sarebbe accinto ad attuare il fine che vien dopo di quello, di colonizzare e liberare tutta la Sicilia dai barbari, cacciando gli uni e sottomettendo gli altri; e questo gli sarebbe riuscito più facilmente che a Gerone. Ora, [b] quando per opera di un uomo giusto e valoroso e saggio e filosofo tutto questo fosse avvenuto, la gran parte degli uomini avrebbe avuto della virtù quell’opinione che avrebbero avuta tutti gli uomini, per così dire, se Dionisio mi avesse dato ascolto; e questo li avrebbe salvati. Ma ora un qualche dèmone o qualche spirito vendicatore s’è abbattuto sull’illegalità, sull’empietà, e soprattutto sull’audacia dell’ignoranza, radice onde a tutti rampollano tutti i mali e producono frutti amarissimi a quegli stessi che li han fatti nascere, e in questo modo essa ha per la seconda [c] volta rovesciato e rovinato ogni cosa. Ma ora voglio dire per la terza volta parole di buon augurio, perché sia buono il presagio. Vi consiglio tuttavia, o amici di Dione, di imitare l’amore di lui per la patria e l’austerità della sua vita, e di tentar di attuare, con auspici migliori, i suoi propositi, che son appunto quelli di cui vi ho parlato. Non [d] invitate a partecipare alla vostra opera chi tra di voi non sia capace di vivere secondo il costume patrio dei Dori, e viva al modo degli assassini di Dione e siciliano; costoro non potrebbero mai far qualche cosa di bene né agire con lealtà. Chiamate invece a colonizzare tutta la Sicilia, sotto leggi uguali per tutti, gli altri, dalla Sicilia stessa e da tutto il Peloponneso, e anche da Atene; perché anche in Atene esistono uomini a nessuno inferiori per la loro virtù, uomini che detestano le audacie degli uccisori degli ospiti. Ma se per ora tal cosa non si può fare, perché vi urgono i molti [e] e vari torbidi delle sedizioni, ogni giorno rinascenti, allora, se una sorte divina vi ha concesso anche soltanto un po’ di retta opinione, sappiate che le discordie non cesseranno d’essere fonte di mali fino a che i vincitori, dopo le battaglie, gli esili e le stragi, non oblieranno i loro risentimenti e, mettendo fine alle vendette, non daranno [337a] finalmente, vincendo se stessi, leggi uguali per tutti, altrettanto vantaggiose per i nemici che per se medesimi. Dovranno poi farle rispettare con due specie di costrizioni, il pudore e la paura: la paura, facendo temere l’uso della forza, essi che sono i più forti; il pudore, mostrando di volere e di poter obbedire più prontamente alle leggi, perché più capaci di dominare il desiderio dei piaceri. Non v’è altro modo perché cessino le sciagure d’una cit-[b] tà, ch’è stata in preda alla discordia, ma sempre nelle città che si trovano in questa condizione sorgono contese, ostilità, odii e sfiducia. E dunque, quando un partito riesce vincitore, deve, se desidera salvare lo stato, scegliere dal suo seno quei Greci che, per quanto sa, sono i migliori. Siano questi, anzitutto, uomini anziani, con figli e mogli e una lunga serie di antenati virtuosi ed illustri, e una ba-[c] stevole sostanza (il loro numero, per una città di diecimila uomini, sia... cinquanta possono bastare). Si invitino quindi con preghiere e con promesse di grandissimi onori: ed essi, dopo aver prestato giuramento, facciano le leggi, senza concedere maggiori vantaggi ai vinti o ai vincitori, ma uguaglianza e parità di diritti per tutti i cittadini. Infine, una volta fatte le leggi, tutto dipende da [d] questo, che i vincitori le rispettino più dei vinti; allora la salvezza sarà sicura, la felicità piena, i mali evitati. Se no, non invitate né me né altri a partecipare alle imprese di chi non vuole dare ascolto a questi consigli. Essi sono conformi a quello che cercammo di fare Dione ed io, per amore di Siracusa: ma fu il secondo tentativo. Il primo fu quello che per il bene di tutti facemmo con lo stesso Dionisio: ma una sorte più possente degli uomini disperse il [e] nostro sforzo. Ora fatelo voi, e vi siano più propizie una buona fortuna e una qualche sorte divina.

Ho detto i miei consigli, oggetto della lettera, e ho detto del mio primo viaggio alla corte di Dionisio. Quanto al secondo e alla seconda traversata, per quali giuste e buone ragioni furono fatti, può ora sentire chi lo desidera. Ché, [338a] come ho passato il tempo della mia prima dimora in Sicilia, l’ho detto prima di dare il mio consiglio agli amici e ai parenti di Dione. Or bene, in seguito riuscii ad ottenere da Dionisio il permesso di partire; avevamo tuttavia convenuto che, quando fosse finita la guerra (ché allora v’era guerra in Sicilia) e fosse ritornata la pace, Dionisio, rafforzato il suo potere, mi avrebbe richiamato insieme con Dione: egli diceva che Dione non doveva considerare la [b] sua partenza come un esilio, ma come un cambiamento di residenza. A queste condizioni io promisi di ritornare. Sennonché, venuta la pace, egli richiamò me solo, dicendo che Dione aspettasse ancora un anno e io andassi ad ogni costo. Dione mi pregava ed insisteva ch’io andassi, perché s’era diffusa dalla Sicilia la voce che Dionisio era di nuovo preso da uno straordinario amore per la filosofia: ed era appunto per questo che Dione mi supplicava insistentemente di non opporre un rifiuto alla chiamata. Quanto a me, io [c] non ignoravo che spesso i giovani si trovano in questa disposizione di spirito riguardo alla filosofia; e tuttavia mi sembrava più sicuro di non occuparmi più, per allora, di Dione e di Dionisio, onde risposi ch’io ero vecchio e che nessuno degli accordi era stato rispettato. Così m’inimicai entrambi. Sembra che in seguito sia andato da Dionisio Archita, il quale, insieme con i capi di Taranto, era di-[d] venuto prima ch’io partissi, per opera mia, suo ospite ed amico; poi v’erano a Siracusa alcuni che avevano sentito parlare Dione, altri che avevano sentito costoro ed erano imbevuti di formule filosofiche. Costoro, io credo, vollero parlare di tali cose con Dionisio, giudicando che egli sapesse tutto quello ch’io pensavo. Ora, Dionisio ha una facilità naturale d’apprendere, ed è straordinariamente desideroso d’onore. Quello che gli si diceva gli era dunque, forse, gradito; e forse si vergognava di mostrare che non [e] aveva imparato niente durante la mia dimora alla sua corte; perciò da una parte gli nasceva il desiderio di sentire più chiaramente il mio pensiero, e dall’altra lo spingeva il punto d’onore (le ragioni per cui non m’aveva prima ascoltato, le ho spiegate or ora). E dunque, quando io, dopo essere tornato in patria, opposi un rifiuto al suo secondo invito, come ho detto dianzi, Dionisio mi pare si sia fatto un punto d’onore di questo: voleva che nessuno pensasse ch’io lo avessi in uggia e non volessi ritornare più da lui, [339a] perché disprezzavo la sua natura e il suo carattere e avevo sperimentato il suo modo di vivere. Devo ora dire la verità, anche se qualcuno, udendo il mio racconto, disprezzerà la mia filosofia e giudicherà intelligente il tiranno. Dionisio mi invitò per la terza volta, e mi mandò una trireme per facilitarmi il viaggio, e in essa Archedemo, un [b] amico di Archita ch’egli pensava ch’io apprezzassi sopra tutti gli altri Siciliani, ed altri Siciliani ancora, miei conoscenti: e tutti ci ripeterono la stessa storia, che Dionisio aveva fatto straordinari progressi nella filosofia. Mi mandò anche una lunghissima lettera, sapendo qual era la mia amicizia per Dione, e che Dione stesso desiderava ch’io partissi e andassi a Siracusa: tenendo conto di tutto questo, mi scrisse appunto una lettera che, cominciava così: "Dio-[c] nisio a Platone"; poi vi erano le espressioni abituali, e poi sùbito: "Se mi darai ascolto e verrai ora in Sicilia, per prima cosa Dione sarà trattato come tu desideri, perché so che non mi domanderai cose irragionevoli e io non opporrò difficoltà: in caso contrario, niente sarà fatto di quello che tu desideri per lui e per i suoi affari". Il resto [d] della lettera è troppo lungo e non vale la pena di ripeterlo. Mi giungevano intanto anche altre lettere, di Archita e di quelli di Taranto, e tutti esaltavano l’amore di Dionisio per la filosofia, e tutti mi dicevano che, se non fossi andato sùbito, avrei distrutto l’amicizia che per opera mia avevano stretta con lui, amicizia di grande importanza politica. Tali erano le pressioni che mi si facevano perché partissi; da una parte mi trascinavano gli amici d’Italia e di Sicilia, dall’altra veramente mi spingevano per dir così, gli ami-[e] ci d’Atene con le loro preghiere; e sempre mi ripetevano gli stessi discorsi, che non dovevo tradire Dione e gli amici e gli ospiti di Taranto: del resto, io stesso non trovavo strano che un giovane intelligente, sentendo esporre pensieri profondi, fosse preso dal desiderio di vivere nel modo più bello: dovevo dunque sperimentare come stavano le cose, e non disinteressarmene, rendendomi colpevole di così grande vergogna, ché tale sarebbe effetti-[340a] vamente stata, se qualcuno aveva detto la verità. Vi andai dunque, nascondendomi la verità con questo ragionamento, ma, com’è naturale, temendo assai e mal presagendo: e per la terza volta dovetti ringraziare Zeus Salvatore, perché ebbi fortuna e mi salvai ancora. Ne devo grazie, oltre che al dio, anche a Dionisio, perché, contro il parere di molti che mi volevano uccidere, ebbe per me un [b] certo riguardo. Appena giunto, pensai di dover per prima cosa sperimentare se davvero Dionisio era acceso dall’ardore filosofico come da un fuoco, o erano infondate le molte notizie giunte ad Atene. Ora, v’è un modo non affatto volgare per fare questa prova, ma veramente opportuno quando s’ha a che fare con tiranni, soprattutto quando sono imbevuti di formole imparate: ed era appunto questo il caso di Dionisio, come sùbito m’accorsi. A questa gente bisogna mostrare che cos’è davvero lo studio filosofico, e [c] quante difficoltà presenta, e quanta fatica comporta. Allora, se colui che ascolta è dotato di natura divina ed è veramente filosofo, congenere a questo studio e degno di esso, giudica che quella che gli è indicata sia una via meravigliosa, e che si deva fare ogni sforzo per seguirla, e non si possa vivere altrimenti. Quindi unisce i suoi sforzi con quelli della guida, e non desiste se prima non ha raggiunto completamente il fine, o non ha acquistato tanta forza da poter progredire da solo senza l’aiuto del maestro. Così [d] vive e con questi pensieri, chi ama la filosofia: e continua bensì a dedicarsi alle sue occupazioni, ma si mantiene in ogni cosa e sempre fedele alla filosofia e a quel modo di vita quotidiana che meglio d’ogni altro lo può rendere intelligente, di buona memoria, capace di ragionare in piena padronanza di se stesso: il modo di vita contrario a questo, egli lo odia. Quelli invece che non sono veri filosofi, ma hanno soltanto una verniciatura di formole, come la gente abbronzata dal sole, vedendo quante cose si devono imparare, [e] quante fatiche bisogna sopportare, come si convenga, a seguire tale studio, la vita regolata d’ogni giorno, giudicano che sia una cosa difficile e impossibile per loro; sono [341a] quindi incapaci di continuare a esercitarsi, ed alcuni si convincono di conoscere sufficientemente il tutto, e di non avere più bisogno di affaticarsi. Questa è la prova più limpida e sicura che si possa fare con chi vive nel lusso e non sa sopportare la fatica; sicché costoro non possono poi accusare il maestro, ma se stessi, se non riescono a fare tutto quello ch’è necessario per seguire lo studio filosofico. In questo modo parlai anche a Dionisio. Non gli spiegai [b] ogni cosa, né, del resto, egli me lo chiese, perché presumeva di sapere e di possedere sufficientemente molte cognizioni, e anzi le più profonde, per quello che aveva udito dagli altri. In seguito, mi fu riferito, egli ha anche composto uno scritto su quanto allora ascoltò, e fa passare quello che ha scritto per roba sua, e non affatto come una ripetizione di quello che ha sentito; ma di questo io non so nulla. Anche altri, io so, hanno scritto di queste cose, ma chi essi siano, neppure essi sanno. Questo tuttavia io [c] posso dire di tutti quelli che hanno scritto e scriveranno dicendo di conoscere ciò di cui io mi occupo per averlo sentito esporre o da me o da altri o per averlo scoperto essi stessi, che non capiscon nulla, a mio giudizio, di queste cose. Su di esse non c’è, né vi sarà, alcun mio scritto. Perché non è, questa mia, una scienza come le altre: essa non si può in alcun modo comunicare, ma come fiamma s’ac-[d] cende da fuoco che balza: nasce d’improvviso nell’anima dopo un lungo periodo di discussioni sull’argomento e una vita vissuta in comune, e poi si nutre di se medesima. Questo tuttavia io so, che, se ne scrivessi o ne parlassi io stesso, queste cose le direi così come nessun altro saprebbe, e so anche che se fossero scritte male, molto me ne affliggerei. Se invece credessi che si dovessero scrivere e render note ai più in modo adeguato e si potessero comunicare, che cosa avrei potuto fare di più bello nella mia vita, che scriver queste cose utilissime per gli uomini, traendo alla luce [e] per tutti la natura? Ma io non penso che tale occupazione, come si dice, sia giovevole a tutti; giova soltanto a quei pochi che da soli, dopo qualche indicazione, possono progredire fino in fondo alla ricerca: gli altri ne trarrebbero soltanto un ingiustificato disprezzo o una sciocca e superba presunzione, quasi avessero appreso qualche cosa [342a] di augusto. Ma di questo voglio parlare ancora e più a lungo, e forse, dopo che avrò parlato, qualcuna delle cose che dico riuscirà più chiara. V’è infatti una ragione profonda, che sconsiglia di scrivere anche su uno solo di questi argomenti, ragione che io ho già dichiarata più volte, ma che mi sembra opportuno ripetere.

Ciascuna delle cose che sono ha tre elementi attraverso i quali si perviene a conoscerla; quarto è la cono-[b] scenza; come quinto si deve porre l’oggetto conoscibile e veramente reale. Questi sono gli elementi: primo è il nome, secondo la definizione, terzo l’immagine, quarto la conoscenza. Se vuoi capire quello che dico, prendi un esempio, pensando che il ragionamento che vale per un caso, vale per tutti. Cerchio è una cosa che ha un nome, appunto questo nome che abbiamo ora pronunciato. Il secondo elemento è la sua definizione, formata di nomi e di verbi: quella figura che ha tutti i punti estremi ugualmente distanti dal centro, questa è la definizione di ciò che [c] ha nome rotondo, circolare, cerchio. Terzo è ciò che si disegna e si cancella, che si costruisce al tornio e che perisce; nulla di tutto questo subisce il cerchio in sé, al quale si riferiscono tutte queste cose, perché esso è altro da esse. Quarto è la conoscenza, l’intuizione e la retta opinione intorno a queste cose: esse si devono considerare come un solo grado, ché non risiedono né nelle voci né nelle figure corporee, ma nelle anime, onde è evidente che la conoscenza è altra cosa dalla natura del cerchio e dai tre [d] elementi di cui ho già parlato. La intuizione è, di esse, la più vicina al quinto per parentela e somiglianza: le altre ne distano di più. Lo stesso vale per la figura diritta e per la figura rotonda, per i colori, per il buono per il bello per il giusto, per ogni corpo costruito o naturale, per il fuoco per l’acqua e per tutte le altre cose simili a queste, per ogni animale, per i costumi delle anime, per ogni cosa che [e] si faccia o si subisca. Perché non è possibile avere compiuta conoscenza, per ciascuno di questi oggetti, del quinto, quando non si siano in qualche modo afferrati gli altri quattro. Oltre a questo, tali elementi esprimono non meno [343a] la qualità che l’essenza di ciascuna cosa, per causa della inadeguatezza dei discorsi; perciò nessuno, che abbia senno, oserà affidare a questa inadeguatezza dei discorsi quello ch’egli ha pensato, e appunto ai discorsi immobili, come avviene quando sono scritti. Bisogna però che io spieghi di nuovo quello che ho detto. Ciascun cerchio, di quelli che nella pratica si disegnano o anche si costruiscono col tornio, è pieno del contrario del quinto, perché ogni suo punto tocca la linea retta, mentre il cerchio vero e proprio non ha in sé né poco né molto della natura contraria. Quanto ai loro nomi, diciamo che nessuno ha [b] un briciolo di stabilità, perché nulla impedisce che quelle cose che ora son dette rotonde si chiamino rette, e che le cose rette si chiamino rotonde; e i nomi, per coloro che li mutassero chiamando le cose col nome contrario, avrebbero lo stesso valore. Lo stesso si deve dire della definizione, composta com’è di nomi e di verbi: nessuna stabilità essa ha, che sia sufficientemente e sicuramente stabile. Un discorso che non finisce mai si dovrebbe poi fare per ciascuno dei quattro, a mostrare come sono oscuri; ma l’argomento principale è quello al quale ho accennato poco fa, e cioè che, essendoci due princìpi, la realtà e la qua-[c] lità, mentre l’anima cerca di conoscere il primo, ciascuno degli elementi le pone innanzi, nelle parole e nei fatti, il principio non ricercato; in tal modo ciascun elemento, quello che si dice o che si mostra ce lo presenta sempre facilmente confutabile dalle sensazioni, e riempie ogni uomo di una, per così dire, completa dubbiezza e oscurità. E dunque, là dove per una cattiva educazione non siamo neppure abituati a ricercare il vero e ci accontentiamo delle immagini che ci si offrono, non ci rendiamo ridicoli gli uni di fronte agli altri, gli interrogati di fronte agli interro-[d] ganti, capaci di disperdere e confutare i quattro; ma quando vogliamo costringere uno a rispondere e a rivelare il quinto, uno che sia esperto nell’arte di confutare può, quando lo voglia, avere la vittoria, e far apparire alla gran parte dei presenti che chi espone un pensiero o con discorsi o per iscritto o in discussioni, non sa alcunché di quello che dice o scrive; e questo avviene appunto perché quelli che ascoltano ignorano talvolta che non è l’anima di chi scrive o parla che viene confutata, ma la imperfetta na-[e] tura di ciascuno dei quattro. Solo trascorrendo continuamente tra tutti questi, salendo e discendendo per ciascuno di essi, si può, quando si ha buona natura, generare a gran fatica la conoscenza di ciò che a sua volta ha buona natura. Se invece uno non ha una natura buona, come avviene per la maggior parte degli uomini, privi d’una naturale disposizione ad apprendere e incapaci di vivere [344a] secondo i cosiddetti buoni costumi, e questi sono corrotti, neppure Linceo potrebbe dar la vista a gente come questa. In una parola, chi non ha natura congenere alla cosa, né la capacità d’apprendere né la memoria potrebbero renderlo tale (ché questo non può assolutamente avvenire in nature allotrie); perciò quanti non sono affini e congeneri alle cose giuste e alle altre cose belle non giungeranno a conoscere, per quanto è possibile, tutta la verità sulla virtù e sulla colpa, anche se abbiano capacità d’apprendere e buona memoria chi per questa e chi per quella cosa, né la conosceranno quelli che, pur avendo tale natura, man-[b] cano di capacità d’apprendere e di buona memoria. Infatti insieme si apprendono queste cose, e la verità e la menzogna dell’intera sostanza, dopo gran tempo e con molta fatica, come ho detto in principio; allora a stento, mentre che ciascun elemento (nomi, definizioni, immagini visive e percezioni), in dispute benevole e in discussioni fatte senza ostilità, viene sfregato con gli altri, avviene che l’intuizione e l’intellezione di ciascuno brillino a chi com-[c] pie tutti gli sforzi che può fare un uomo. Perciò, chi è serio, si guarda bene dallo scrivere di cose serie, per non esporle all’odio e all’ignoranza degli uomini. Da tutto questo si deve concludere, in una parola, che, quando si legge lo scritto di qualcuno, siano leggi di legislatore o scritti d’altro genere, se l’autore è davvero un uomo, le cose scritte non erano per lui le cose più serie, perché queste egli le serba riposte nella parte più bella che ha; mentre, se egli mette per iscritto proprio quello che ritiene il suo pensiero più [d] profondo, "allora, sicuramente", non certo gli dèi, ma i mortali "gli hanno tolto il senno".

Chi ha seguito questo mito e questa digressione, capirà bene che se Dionisio, o qualche altra persona maggiore o minore di lui, ha scritto sui principi primi e supremi della natura, non può aver appreso né aver ascoltato, secondo il mio pensiero, alcunché di sano sulle cose di cui ha scritto: altrimenti le avrebbe rispettate quanto me, e non le avrebbe esposte a un pubblico inadatto e disforme. Perché non ha certo scritto per richiamarsele alla memoria nel futuro; son [e] cose che non si possono dimenticare, una volta penetrate nell’animo, ché si riducono a brevissime formule: se l’ha fatto, l’ha fatto per una biasimevole ambizione, sia che abbia detto che son sue e sia che le abbia scritte come seguace di una scuola filosofica, alla quale era indegno d’appartenere, se desiderava la gloria che nasce dal farne parte. [345a] Se poi Dionisio ha appreso la dottrina in quella sola conversazione, ha fatto presto: come poi ci sia riuscito, lo sa Zeus, come dicono i Tebani. Perché, come ho già detto, io ne ho parlato con lui una sola volta, allora, e poi non più. Chi vuol sapere come andarono le cose, si domanderà perché mai io non abbia avuto con lui una seconda e una terza ed altre conversazioni: si domanderà se fu perché Dionisio, dopo avermi ascoltato una volta, pensava di saper-[b] ne e ne sapeva abbastanza, sia che avesse trovato la verità da sé, sia che l’avesse appresa prima da altri; o anche se fu perché gli sembrava che fossero sciocchezze le cose ch’io gli dicevo; o infine se fu perché le giudicava non adatte a lui, ma troppo difficili, e sé stimava realmente incapace di occuparsi della sapienza e della virtù. Ora, se le considerava sciocchezze, si troverà in contrasto con molti che testimoniano il contrario, e sono, per queste cose, giudici assai più autorevoli di lui: se invece pensava di averle scoperte o imparate, e le considerava utili alla educazione [c] di un animo libero, come si può considerarlo un uomo ragionevole, quando disprezzava con tanta leggerezza la guida e il maestro di questa dottrina? Come mi disprezzò, lo dirò ora. Non molto tempo dopo i fatti ora raccontati, Dionisio, che fino allora aveva lasciato a Dione il possesso dei suoi beni e il godimento delle rendite, proibì ai suoi amministratori di mandargliene mai più nel Peloponneso; pareva che si fosse completamente dimenticato della sua lettera. Diceva che non appartenevano a Dione, ma al di lui figlio, ch’era suo nipote, e di cui egli era, per legge, il [d] tutore. Fino a quel momento le cose erano andate così, e allora, dopo questo fatto, io vidi chiaramente in che cosa consisteva l’amore di Dionisio per la filosofia, e non potei non affliggermene, volente o no. Era già estate, il tempo propizio alla navigazione: e mi pareva di non dover essere risentito con Dionisio, tanto quanto con me stesso e con [e] chi mi aveva spinto a venire per la terza volta allo stretto di Scilla, "per affrontare ancor Cariddi infausta". Dissi allora a Dionisio che non potevo più rimanere, quando Dione era così maltrattato: ed egli cercò di calmarmi e mi pregò di restare, perché gli pareva inopportuno ch’io stesso andassi sùbito a raccontare quello che aveva fatto: non persuadendomi, promise che si sarebbe occupato lui stesso [346a] del mio viaggio. Perché io volevo partire sulla prima nave da trasporto che avessi trovata, irato com’ero e ben deciso ad affrontare qualunque rischio, se si fosse cercato d’impedirmi di partire: ché era evidente che non io facevo un torto ad altri, ma gli altri a me. Dionisio allora, vedendo che volevo assolutamente andarmene, escogitò questo mezzo per trattenermi fino a che fosse passato il tempo della navigazione: venne da me il giorno dopo, e mi tenne questo discorso persuasivo: "Tra me e te non ci siano più [b] - disse - Dione e gli affari suoi a renderci spesso per essi discordi: pertanto farò questo per lui, per amor tuo. Riabbia egli i suoi beni, e resti nel Peloponneso, non come esule, ma con la possibilità di ritornare qui, quando saremo tutti d’accordo, lui, io, e voi suoi amici. Metto come condizione ch’egli non cospiri contro di me; ne sarete garanti tu e i tuoi familiari e i familiari di Dione che sono qui: a voi darà garanzia lui stesso. Il denaro che gli sarà [c] inviato, sarà depositato nel Peloponneso e ad Atene, presso persone scelte da voi; Dione ne godrà il frutto, ma non potrà toccare il capitale senza il vostro consenso. Perché io non mi fido troppo di lui, che delle sue ricchezze, che non saranno poche, non voglia servirsi contro di me: mi fido piuttosto di te e dei tuoi. Vedi dunque se queste proposte ti piacciono, e resta a queste condizioni ancora un anno; [d] poi con la buona stagione prenderai il denaro e te ne andrai. Sono certo che Dione ti sarà gratissimo se farai questo per lui". Questo discorso mi dispiacque assai; e tuttavia risposi che avrei riflettuto e gli avrei fatto sapere la mia decisione il giorno dopo. Per allora restammo d’accordo così. Rimasto solo, cominciai a riflettere tutto sconvolto. Il mio primo pensiero, quello che guidò la mia deli-[e] berazione, fu questo: "Or bene, se pur Dionisio non ha in animo di mantenere la promessa, e tuttavia, una volta ch’io sia partito, fa conoscere a Dione, sia scrivendogli direttamente, sia facendogli scrivere da molti altri suoi amici, la proposta che ora mi fa; e gli fa credere ch’egli era disposto a mantener fede all’accordo, ma ch’io non volli fare quello che mi chiedeva perché non mi importa niente degli affari suoi; e se, oltre a questo, non mi lascerà partire, pur senza vietare ai capitani di accogliermi nella [347a] loro nave, ma mostrando a tutti chiaramente che non vuole ch’io me ne vada, chi ci sarà che voglia accogliermi nella sua nave e condurmi via, quando io esca dalla casa di Dionisio?". (Agli altri guai s’aggiungeva poi questo, ch’io abitavo nel giardino circostante la reggia, sicché neppure il portiere mi avrebbe lasciato uscire senza un ordine di Dionisio.) "Se invece - pensavo - rimango per questo anno, potrò far sapere ogni cosa a Dione, in che condizione ancora mi trovo e quello che faccio. Quindi se Dionisio mantiene poi davvero, anche soltanto in parte, le sue pro-[b] messe, non si dirà ch’io sono stato sciocco a rimanere, dato che la sostanza di Dione, se si fa una stima esatta, ammonta a non meno di cento talenti: se invece le cose andranno come è verosimile che vadano, io certo non so che farò; e tuttavia è forse necessario portar pazienza ancora per un anno, e tentare di svelare coi fatti le astuzie di Dionisio." Così dunque decisi; e il giorno dopo dissi a [c] Dionisio: "Resto: ma tu non devi credere ch’io abbia il diritto di disporre a mio talento delle cose di Dione; perciò mandiamogli insieme una lettera annunciandogli quello che abbiamo stabilito tra di noi, e domandiamogli se ha obiezioni da muovere. Se egli non è contento, ma desidera che si faccia in modo diverso, ce lo faccia sapere al più presto. Nel frattempo sia lasciato tutto così com’è ora". Questo è, presso a poco, quello che dicemmo e concordammo allora. Dopo questo le navi partirono, e io non avevo più la possi-[d] bilità d’andarmene, quando Dionisio si ricordò di dirmi che Dione aveva diritto soltanto alla metà della sostanza, perché l’altra metà era di suo figlio; e che avrebbe venduto tutto, e poi metà del ricavato l’avrebbe data a me perché gliela portassi, metà l’avrebbe lasciata al figlio di Dione: questa, egli diceva, era la soluzione più giusta. Indignato per queste parole, per quanto capissi ch’era ridicolo muovere obiezioni, dissi tuttavia che dovevamo aspettare la risposta di Dione, per fargli poi sapere questa novità. Egli [e] vendette invece sùbito, senza alcun riguardo, tutta la sostanza di Dione, dove, come e a chi volle: e a me non ne parlò più; e altrettanto feci io: non gli parlai più degli affari di Dione, convinto com’ero di non poter far nulla.

E dunque fino a questo punto io compii così il mio dovere verso la filosofia e i miei amici. Dopo d’allora, io e [348a] Dionisio vivevamo così: io guardavo fuori, come un uccello che desidera di volarsene via, lui cercava di placarmi senza restituire a Dione i suoi beni: tuttavia fingevamo d’essere amici dinanzi a tutta la Sicilia. Accadde allora che Dionisio decidesse di diminuire il soldo ai mercenari veterani, contrariamente al costume di suo padre; e i soldati irati si raccolsero e decisero di opporsi a tale riduzione. [b] Egli tentò di forzarli e fece chiudere le porte dell’acropoli; ma essi corsero sùbito alle mura, intonando un loro peana barbaro e guerresco. Dionisio, assai spaventato, cedette, e concesse ai peltasti radunati più ancora di quello che chiedevano. E sùbito si diffuse la voce che Eraclida era il responsabile di tutti i torbidi. Eraclida, informato di questo, si rese irreperibile. Dionisio cercò di catturar-[c] lo, ma, non sapendo come fare, chiamò Teodota nel suo giardino, ove per caso allora mi trovavo anch’io a passeggiare. Tutto quello ch’essi si dissero, io non l’udii e non lo so: so però e ricordo quello che Teodota disse a Dionisio in mia presenza: " O Platone - egli disse, - io sto cercando di indurre Dionisio a promettermi, se riesco a far venire qui Eraclida a discolparsi delle accuse che gli sono mosse ed egli poi decide d’allontanarlo dalla Sicilia, di lasciare che esso possa prendere con sé il figlio e la mo-[d] glie, e andare con essi nel Peloponneso, ove rimarrà senza far nulla contro di lui, godendo le rendite dei suoi possedimenti. Io l’ho già mandato a chiamare una volta, e lo farò chiamare ancora; e forse egli verrà in seguito alla prima chiamata, forse in seguito a questa. Questo però domando e di questo prego Dionisio, di non fargli alcun male se lo [e] si trova qui o nei campi; ma lo allontani dal paese, finché non decida diversamente lui stesso. Sei d’accordo su questo?", aggiunse poi rivolgendosi a Dionisio. "Sono d’accordo - rispose Dionisio; - nulla gli accadrà oltre quanto abbiamo ora stabilito, anche se lo si troverà vicino alla tua casa". Ma ecco che il giorno dopo, di sera, vennero da me, affannati e sconvolti, Euribio e Teodota; e Teodota: "Platone - disse, - tu eri presente ieri, e ricordi certamente le promesse che Dionisio ci fece per Eraclida, a me e a te". "E come no?", risposi. "Ora - riprese Teodota, - i peltasti sono in giro per arrestare Eraclida, ed egli forse si trova qui vicino: bisogna dunque assolutamente che [349a] tu venga con noi da Dionisio". Andammo allora, e ci presentammo a lui, e i due gli stettero davanti in silenzio e piangendo, e io dissi: "Costoro temono che tu voglia fare qualche male ad Eraclida, contrariamente a quanto ieri promettesti: perché mi si dice che egli sia stato visto volgersi da queste parti". A queste parole Dionisio arse di collera, e il suo volto si fece di tutti i colori, come accade a chi è in preda all’ira: e Teodota si gettò ai suoi piedi, e gli [b] prese la mano, e piangendo lo supplicava di non far nulla di simile. Io lo interruppi cercando di fargli coraggio: "Animo - gli dissi, - Teodota! Dionisio non oserà mancare alla promessa che ci ha fatta ieri". E Dionisio, volgendomi uno sguardo da vero tiranno: "A te - mi disse, - non ho promesso né molto né poco". Ed io: "Per gli dèi - dissi, - certo che tu mi hai promesso, quello appunto che costui ora ti prega di non fare". Così io dissi, e sùbito mi volsi e me ne andai. Poi egli continuò a dar [c] la caccia ad Eraclida; e Teodota lo fece avvertire che fuggisse. Dionisio mandò Tisia e i peltasti ad inseguirlo; ma Eraclida, come poi si raccontò, riuscì a sfuggirgli poche ore prima che arrivassero, e si rifugiò nel territorio dei Cartaginesi. Dopo questi fatti, l’antico disegno di Dionisio di non restituire i beni di Dione parve trovare una giustificazione plausibile nella sua inimicizia verso di me: quindi, per prima cosa, mi fece uscire dall’acropoli col pretesto [d] che le donne dovevano fare un sacrificio di dieci giorni nel giardino nel quale abitavo, e mi ordinò di restare fuori durante questo tempo, nella casa di Archedemo. Mentre io mi trovavo lì, Teodota mi mandò a chiamare e si lamentò assai di quanto era avvenuto e si lagnò di Dionisio: e Dionisio, informato ch’io ero andato da Teodota, colse questo [e] secondo pretesto, simile al primo, per giustificare il suo disaccordo con me, e mi fece domandare s’era vero che Teodota mi aveva invitato ad andare da lui e ch’io v’ero andato. "Verissimo", risposi; e il messo: "Dionisio - disse - m’ordina dunque di dirti che non fai bene a preferirgli sempre Dione e i suoi amici". Questo mi fece dire allora; né più mi richiamò a casa sua, come se fosse oramai evidente ch’io ero amico di Teodota e d’Eraclida e suo nemico: d’altra parte egli pensava ch’io non gli volessi bene, perché tutta la sostanza di Dione era oramai completamente per-[350a] duta. Da allora io abitai fuori dell’acropoli, presso i mercenari; ma vennero da me alcuni, e tra questi dei servi d’Atene, miei concittadini, e mi dissero che presso i peltasti correvano delle calunnie su di me, e che alcuni avevano dichiarato di volermi uccidere se mi prendevano. Io escogitai questo mezzo per salvarmi: feci sapere ad Archita e agli altri amici di Taranto in che situazione mi trovavo. E costoro, cogliendo il pretesto di un’ambasceria [b] mandata dalla città, inviarono una triacontoro con Lamisco, uno di loro. Costui andò da Dionisio e lo pregò per me, dicendogli ch’io volevo partire e che non mi mettesse ostacoli. Dionisio accondiscese e mi licenziò, dandomi il denaro per il viaggio. Quanto ai beni di Dione, né io più li richiesi, né lui me li consegnò. Arrivato ad Olimpia nel Peloponneso, v’incontrai, tra gli spettatori, Dione, e gli raccontai quanto era avvenuto; e sùbito Dione, chiamato Zeus a testimonio, ci disse, a me e ai miei familiari e ai [c] miei amici, che ci preparassimo a vendicarci di Dionisio: noi per l’inganno da lui fatto all’ospite (così egli diceva e pensava), lui per il bando e l’ingiusto esilio. Io gli risposi che invitasse pure i miei amici, se volevano seguirlo: "Ma quanto a me - dissi, - tu, insieme con altri, mi facesti in certo modo forza perché partecipassi alla mensa e al focolare e ai sacrifici di Dionisio: e forse lui, cui giungevano tante voci di calunniatori, credeva davvero che io cospirassi con te contro di lui e contro il suo governo: e tuttavia [d] non mi uccise, ma ebbe rispetto per me. Né io d’altra parte sono in età da poter combattere insieme con chicchessia: sarò con voi, se voi, sentendo il bisogno di pacificarvi, vorrete fare qualche cosa di buono; finché volete il male, chiamate altri". Così io dissi, maledicendo il mio viaggio in Sicilia e il suo insuccesso. Ma essi non vollero ascoltarmi e riconciliarsi come io avevo consigliato; pertanto sono responsabili di tutti i mali ch’ebbero a subire, e che non [e] sarebbero accaduti, se Dionisio avesse restituito a Dione i suoi beni o si fosse completamente riconciliato con lui. Così almeno si può congetturare, per quanto è possibile congetturare quando si tratta di accadimenti umani; perché Dione avrei voluto e avrei potuto facilmente trattenerlo io. Invece essi si sono scontrati e hanno riempito ogni [351a] cosa di sciagure. Eppure Dione aveva la volontà di fare quello ch’io dico che dovrei far io e chiunque sia un uomo equilibrato: perché costui, per quanto riguarda il potere e gli amici e la patria, farebbe certamente tanti più benefìci, quanto più grandi fossero la sua autorità e i suoi onori. Questo non è invece possibile, quando uno, povero e incapace di dominarsi, servo vile dei suoi desideri, arricchisce [b] sé e i suoi amici e la città per mezzo di cospirazioni e di congiure; quando chiama nemici quelli che possiedono, e li uccide per dilapidarne gli averi, ed esorta i suoi complici a fare lo stesso, perché nessuno possa accusarlo d’essere rimasto povero. Lo stesso si può dire di chi riceve onori dalla sua città perché la benefica in tal modo, distribuendo coi suoi decreti gli averi dei pochi ai molti; e di chi è capo di una città grande, imperante su molti popoli più deboli, [c] e a quella distribuisce i beni di questi, contro giustizia. Così né Dione, né alcun altro volontariamente cerca un potere infausto a sé e alla sua stirpe perpetuamente, ma piuttosto vuol dare allo stato la costituzione e le leggi più giuste e più belle, senza ricorrere a uccisioni e a stragi. Così appunto faceva Dione quando, preferendo patire che fare un delitto e pur cercando di evitare di subirlo, cadde mentre stava per ottenere una completa vittoria sui suoi [d] nemici. Né è cosa strana; perché se un uomo pio ha a che fare con empi, un uomo saggio ed avveduto, non si ingannerà mai completamente sull’animo di uomini siffatti; e tuttavia non c’è niente di strano se gli capita quello che capita a un buon navigatore, il quale non ignora quando una tempesta lo minaccia, ma non può sapere quanto violenta essa sarà e quanto imprevedibile sarà la sua forza; e così inevitabilmente sprofonda. Nello stesso modo cause insignificantissime fecero cadere Dione. Egli sapeva la malvagità degli uomini che poi l’uccisero, ma a qual punto di [e] stoltezza, di cattiveria, d’ingordigia giungessero, egli ignorava; e per questo, ingannato, egli cadde, e sommerse la Sicilia in un grandissimo lutto.

[352a] Il mio consiglio dopo quanto vi ho raccontato, ve l’ho già dato ed è bastevole. Per questa ragione ho raccontato il secondo viaggio in Sicilia, che mi sembrava opportuno dirlo, per la stranezza e la novità di quanto è avvenuto. Se qualcuno giudica ragionevole quello che ho raccontato, e trova sufficientemente giustificato quello che ho fatto, ho ottenuto quello che volevo, e non v’è bisogno che dica di più.

Lettera ottava 

[b] PLATONE AI FAMILIARI E AGLI AMICI DI DIONECON L’AUGURIO DI STAR           BENE 

Quale condotta vi farà star bene davvero, io cercherò di spiegarvi meglio che posso. Spero che i miei consigli saranno utili non soltanto a voi, ma a voi per primi, e poi [c] a tutti i Siracusani, e poi anche ai vostri avversari e nemici, eccettuato chi tra di loro si sia reso colpevole di qualche empietà: perché questi son mali immedicabili, che nessuno può cancellare. State dunque attenti a quello che vi dico. Tutta la Sicilia, dopo il rovesciamento della tirannide, è sconvolta da questa sola contesa; da una parte sono quelli che vogliono riprendere il potere, dall’altra quelli che vogliono completare definitivamente la liberazione dai ti-[d] ranni. In questi casi la gente suole credere che, per ben consigliare, bisogni indicare ciò che più nuoce ai nemici e più giova agli amici. Ma è tutt’altro che facile fare gran danni agli altri, senza soffrirne molti a propria volta. Per convincersi di questo non c’è bisogno di andar molto lontano; basta osservare quello che accade ora proprio qui [e] in Sicilia, ove gli uni cercano di fare del male e gli altri rispondono: voi stessi potreste insegnare agli altri questa verità raccontando i casi vostri. Di fatti di questo genere, si fa presto a trovarne: difficile è piuttosto trovare dei provvedimenti che giovino a tutti, amici e nemici, o li danneggino il meno possibile; e difficile è, anche se li trovi, metterli in atto. Il mio consiglio e la mia spiegazione sembreranno pertanto una preghiera. E siano appunto una pre-[353a] ghiera agli dèi, ai quali sempre bisogna rivolgersi quando si comincia un discorso o un pensiero: ed abbia essa il suo compimento, ispirandoci il seguente ragionamento. Ora, voi e i vostri nemici, da quando è cominciata la guerra, siete governati senza interruzione da una sola famiglia, quella che ricevette il potere un tempo dai vostri padri, in un momento di estremo pericolo, quando la Sicilia ellenica stava per essere assoggettata completamente dai Cartaginesi e resa barbara. Allora essi, per salvare la Sicilia, si scelsero come [b] capi, conferendo loro il titolo di tiranni con pieni poteri, Dionisio, giovane guerriero, cui affidarono la direzione della guerra alla quale era addestrato, e Ipparino, più vecchio, come consigliere. E la città, sia dovuta a una fortuna divina la sua salvezza e a un dio, o al valore dei capitani, o all’una e all’altra cosa insieme oltre che al valore dei cittadini (pensi pure ciascuno come vuole), certo è che [c] allora fu salvata. E tutti devono essere grati ai salvatori. Ché se in seguito la dinastia ha abusato del dono fattole dalla città, essa ha già scontato in parte la sua pena; per l’altra la sconterà. Ma quale pena veramente giusta ci può essere, da far pagare nella situazione presente? Se voi poteste evitare facilmente, senza grandi pericoli e travagli, il loro dominio, o essi potessero facilmente riprendere il potere, non varrebbe neanche la pena di dirvi quello che [d] vi dirò: ma voi, d’entrambe le parti, dovete pensare e ricordarvi quante volte avete avuto la speranza che poco ci mancasse per veder compiuto ogni vostro desiderio, e come poi questo poco diventa ogni volta causa di sempre nuove gravi sciagure, sicché non se ne vede mai la fine, ma sempre quella che sembra essere la fine di un male antico è congiunta con un principio novellamente nascente: [e] così v’è pericolo che siano completamente distrutti da questo ciclo tutto il partito dei tiranni e il partito popolare, e che tutta la Sicilia alla fine si trovi, se una tale eventualità insieme verosimile e deprecabile realmente si verificherà, quasi completamente priva della lingua greca, sotto il dominio dei Fenici o degli Oschi. Pertanto i Greci tutti devono cercare di porre un rimedio a questo stato di cose, con tutte le loro forze. Ora, se v’è qualcuno che possa proporre un rimedio migliore e più efficace del mio, lo [354a] dica, e meriterà veramente d’essere chiamato amico dei Greci. Quanto a me, io cercherò di esporre il mio pensiero sulla situazione attuale in tutta sincerità, e senza alcuna parzialità. Parlerò come un arbitro tra due contendenti, quello che esercita e quello che subisce la tirannide, e a ciascuno singolarmente ripeterò il mio vecchio consiglio. A ogni tiranno io dico: fuggi il nome e la sostanza di un tal potere, e trasformalo, s’è possibile, in un governo regio. [b] Ed è possibile: lo ha dimostrato coi fatti un uomo saggio e valoroso, Licurgo, il quale, vedendo che gli uomini della sua famiglia ad Argo e a Messene, trasformandosi di re in tiranni, avevano rovinato sé e le loro città, temendo la stessa sorte per la sua patria e per la sua famiglia, introdusse come rimedio il Consiglio degli anziani e il freno dell’eforato, che ha salvato il potere regio; perché fu così che tale potere si mantenne e si mantiene gloriosamente da tante [c] generazioni, dacché la legge fu signora degli uomini, e non gli uomini tiranni della legge. Questo è dunque il consiglio ch’io do: coloro che aspirano alla tirannide si tengano lontani da questo potere, e assolutamente rifuggano da questa felicità di uomini stolti ed insaziabili; e lo trasformino in una monarchia costituzionale, e ubbidiscano alle leggi regie, tenendosi solo quegli onori grandissimi che saranno loro conferiti spontaneamente dai cittadini e dalle leggi; a loro [d] volta coloro che son amanti della libertà e vogliono evitare quella sciagura ch’è per essi il giogo della servitù, si guardino dal desiderio sfrenato di una libertà inopportuna, causa di sciagure quali ebbero a patire per la loro eccessiva anarchia i loro antenati, trascinati da un desiderio smisurato di libertà. Perché, prima che Dionisio e Ipparino diventassero tiranni, i Siciliani vivevano felicemente, secondo la loro concezione, dediti a una vita lussuriosa e signori dei loro stessi capi: giunsero persino al punto di lapidare, senza [e] processarli, i dieci strateghi che governarono prima di Dionisio, per non sottostare ad alcuno, anche se giusto e rispettoso della legge, e per non avere freni alla loro libertà: e fu per questo che poi caddero in balla di una tirannide. Perché la servitù e la libertà immoderate sono entrambe un gran male; moderate un gran bene. Moderata è la servitù a dio, immoderata la servitù agli uomini: e un dio è per [355a] gli uomini saggi la legge, per i dissennati il piacere. E quindi, perché questa è la legge naturale, io prego gli amici di Dione di far conoscere a tutti i Siracusani il mio consiglio, come mio e di Dione a un tempo. Vi dirò dunque qual consiglio egli vi darebbe se fosse vivo e potesse parlare. Che consiglio, qualcuno potrebbe domandare, ci darebbe oggi Dione? Questo:

"Per prima cosa, o Siracusani, datevi quelle leggi che [b] non vi sembrino fatte per suscitare il desiderio e spingere l’animo vostro a ricercare ricchezze e lucri; ma, poiché vi sono tre cose, l’anima il corpo e le ricchezze, datevi leggi che mettano al primo posto la virtù dell’anima, e poi, come seconda e sottomessa alla prima, la forza del corpo, e infine, come terzo ed ultimo, il pregio delle ricchezze, serve del [c] corpo e dell’anima. Solo le disposizioni che hanno questo intendimento meritano d’essere chiamate leggi, perché rendono effettivamente felici gli uomini a cui son date: invece il discorso di chi chiama felici i ricchi, è esso un discorso miserevole, stolto discorso da donne e da fanciulli, e miserevoli rende coloro che l’ascoltano. Di questa verità vi potrete convincere coi fatti, se metterete alla prova i miei consigli: perché questa dei fatti è, in ogni cosa, la prova più sicura. E dunque datevi di queste leggi. Quindi, perché la [d] Sicilia si trova in pericolo, e né voi avete una bastevole superiorità sui nemici, né essi su di voi, dovreste scegliere la via di mezzo, giusta e utile a tutti, a voi, che non volete sottostare a un governo tirannico, e ad essi, che desiderano di riconquistare il loro dominio. Gli antenati di costoro hanno il merito grandissimo di aver salvato una volta i Greci dai barbari, sì che ora si può discutere sulla costituzione: mentre, se essi fossero stati sconfitti, non si potrebbe più né discorrere né sperare. E dunque gli uni accettino [e] la libertà sotto un governo monarchico; gli altri abbiano il potere regio ma responsabile: e siano le leggi signore dei cittadini e insieme anche dei re, se le trasgrediscono. Tutto questo fate con lealtà ed onestà, eleggendo re, con l’aiuto degli dèi, prima mio figlio, per un dovere duplice di riconoscenza, verso di me e verso mio padre, verso mio padre perché liberò la città dai barbari ai suoi tempi, verso di me [356a] perché la liberai ora due volte dai tiranni, e voi stessi ne siete i testimoni; poi eleggete colui che ha lo stesso nome di mio padre ed è figlio di Dionisio, per l’aiuto che ora ci ha dato, e per la santità del suo carattere, lui che, figlio d’un tiranno, si adopera spontaneamente per la libertà della patria, e acquista onore eterno per sé e per la sua famiglia, in cambio di una tirannide effimera ed ingiusta. Poi accor-[b] datevi con colui che ora è a capo dell’esercito nemico, Dionisio figlio di Dionisio, ed eleggetelo terzo re di Siracusa, se egli, per timore dei casi della fortuna e mosso da compassione per la sua patria e per i templi e i sepolcri abbandonati, vuole evitare di trascinarla per ambizione ad una completa rovina gioiosa per i barbari, ed accetta la trasformazione del suo potere in quello regio. Con questi tre re voi vi accorderete e gli concederete la stessa autorità o un’autorità minore di quella concessa ai re di Sparta, e [c] li eleggerete nel modo che vi fu già detto, ma che ripeto ancora. Se i discendenti di Dionisio e d’Ipparino vorranno, per la salvezza della Sicilia, porre un termine alle presenti sciagure, accettando questi onori per sé e per i propri discendenti, per il presente e per l’avvenire, chiamate a trattare la pacificazione, come è stato già detto, gli ambasciatori ch’essi desiderano, o cittadini o stranieri o cittadini e stranieri insieme, e nel numero che essi concor-[d] dano: e questi vengano, e diano leggi e stabiliscano una costituzione, in cui ai re sia concessa l’autorità suprema nelle cose sacre e in quelle altre che si devono lasciare agli antichi benefattori, e poi affidino ai custodi delle leggi, in numero dì trentacinque, le decisioni, insieme col popolo e col Consiglio, della pace e della guerra. Siano costituiti per i vari delitti vari tribunali, ma il giudizio sui reati che comportano la pena capitale o l’esilio sia affidato a un tribunale formato dai trentacinque; oltre a questi ci siano altri giudici, scelti annualmente tra i magistrati dell’anno [e] precedente, uno per ciascuna magistratura, quell’uno che s’è dimostrato il migliore e il più giusto: questo tribunale resti in carica per un anno, e decida nei casi di reati che comportano la pena di morte o del carcere o dell’esilio. A questi processi non renda però parte il re in qualità di giudice, perché, come sacerdote, egli non deve [357a] essere contaminato da condanne a morte o al carcere o all’esilio. Questo io pensavo quand’ero in vita, e questo continuo a pensare che si deva fare: e lo avrei fatto dopo aver vinto i nemici con l’aiuto vostro; ma Erinni in forma di ospiti me l’hanno impedito. Poi, se le cose fossero andate secondo i miei desideri, avrei strappato il resto della Sicilia ai barbari che l’occupano, tranne a quelli che hanno com-[b] battuto fino alla fine contro i tiranni per la comune libertà, e l’avrei colonizzata, restituendo nelle antiche dimore dei loro padri coloro che abitavano in territori ellenici. Queste stesse cose ora io consiglio a voi di volere e di fare, invitando tutti a cooperare con voi: chi non voglia rispondere all’invito, sia considerato nemico comune. Né è cosa impossibile, questa: perché, quando due anime concepiscono un’idea, e questo, chi rifletta, è il meglio che si possa fare, chi la trova inattuabile è certamente poco as-[c] sennato. I due di cui parlo sono Ipparino figlio di Dionisio, e mio figlio: se si trovano d’accordo costoro, io credo che si troveranno d’accordo tutti quegli altri Siracusani che hanno amore per la loro città. E dunque onorate e pregate gli dèi, e quelli che si devono onorare dopo di essi: e cercate di persuadere ed esortate amici e nemici con parole di mitezza e comunque possiate, e non stancatevi, fino a che non avrete portato a un felice e chiaro compimento [d] quello che v’ho detto, come un sogno divino apparso a uomini desti".

Lettera nona  

PLATONE AD ARCHITA DI TARANTOCON L’AUGURIO DI STAR BENE

 Sono venuti da me Archippo e Filonida e i loro com-[e] pagni, e mi hanno portato la tua lettera, e mi hanno riferito quello di cui li hai incaricati. Quello che dovevano trattare con la città, l’hanno ottenuto facilmente (né era, del resto, cosa faticosa): da parte tua ci hanno riferito che sei scontento di non riuscire a liberarti dalle pubbliche cure. Che nella vita niente sia più gradito che dedicarsi alle proprie occupazioni, soprattutto quando si scelgono le [358a] occupazioni che tu preferisci, è ovvio: ma tu devi considerare anche questo, che ciascuno di noi non è nato solo per se stesso, ma che della nostra vita una parte appartiene alla patria, un’altra ai genitori, un’altra agli altri amici; e che molto anche si deve ai casi che ci càpitano durante la nostra esistenza. Quando la patria stessa ci chiama ai pub-[b] blici affari, non è bene, credo, rifiutarle il proprio aiuto. Inoltre, così facendo, si lascia la propria terra in balìa di uomini dappoco, che non si dedicano ai pubblici affari per le ragioni migliori. E di questo basta. Di Echecrate ci prendiamo cura e sempre ce ne prenderemo, sia per amor tuo che per amore di suo padre Frinione e dello stesso giovinetto.

Lettera decima 

PLATONE AD ARISTODORO CON L’AUGURIO DI STAR BENE 

[c] Sento che tu sei e sei sempre stato uno degli amici più cari di Dione, e che hai il carattere migliore tra quelli che son fatti per la filosofia: perché vera filosofia io chiamo la fermezza, la fedeltà e l’onestà. Le altre forme di sapienza e di abilità che tendono ad altri scopi, io le chiamo, e credo con ragione, forme d’ingegnosità. Sta sano, e continua a vivere come vivi ora.

Lettera undicesima 

[d] PLATONE A LAODAMANTE CON L’AUGURIO DI STAR BENE

 Ti ho già scritto un’altra volta che sarebbe molto meglio che venissi tu stesso ad Atene per parlare di tutte le questioni di cui scrivi: ma, poiché mi dici che non puoi, il meglio sarebbe se potessimo venire, come mi scrivi, o io o [e] Socrate. Socrate però è ammalato di stranguria: e se venissi io, e non riuscissi a compiere quello per cui mi chiami, sarebbe una cosa disdicevole. Né io ho grande speranza di poter riuscire: a dirtene il perché, dovrei scriverti un’altra e lunga lettera, spiegandoti ogni cosa punto per punto. Inoltre là mia età non mi permette di mettermi in viaggio e di affrontare i rischi che si corrono per terra e per mare, tanto più che ora tutti i viaggi son pieni di [359a] pericoli. Tuttavia posso darti un consiglio, a te e agli altri colonizzatori, un consiglio che, come dice Esiodo, a dirlo può sembrare ovvio, ma che pur era difficile trovare. Se credono che basti scrivere le leggi, e sian pure le migliori, perché lo stato sia ben governato, anche se manchi un’autorità capace di occuparsi della vita quotidiana della città in modo che si comportino saggiamente e virilmente e i cittadini e i servi, sono in errore. E dunque, se vi son già [b] uomini cui si possa affidare questo potere, bene: se invece avete bisogno di uno che vi educhi, non avete, io credo, né chi vi possa educare, né chi possa essere educato; pertanto non vi resta che pregare gli dèi. In queste condizioni si trovarono, alla loro fondazione, anche altre città nel passato; e tuttavia ebbero in seguito un buon governo, quando, nella congiuntura di grandi accadimenti bellici o d’altro genere, un uomo valoroso vi nacque, fornito di un grande potere. E dunque è opportuno, anzi necessario, che, [c] prima di iniziare la vostra opera, vi prendiate cura di questo; e tuttavia riflettete su quello che vi ho detto, e non agite sconsideratamente, credendo di poter riuscire facilmente. Sta bene.

Lettera dodicesima 

PLATONE AD ARCHITA DI TARANTOCON L’AUGURIO DI STAR BENE

 Abbiamo ricevuto con grandissimo piacere le memorie [d] che ci hai mandate, e ne abbiamo ammirato moltissimo l’autore, che ci è sembrato degno dei suoi antichi antenati, i Mirii, come si racconta, che erano una parte dei Troiani emigrati al tempo di Laomedonte, uomini dabbene, secondo la tradizione. Quanto alle mie memorie sugli argomenti di cui mi scrivi, non sono ancora del tutto compiute: tuttavia [e] te le mando così come stanno. Sulla cura che bisogna averne siamo tutti e due d’accordo, sicché non c’è bisogno di raccomandazioni.

Lettera tredicesima 

[360a] PLATONE A DIONISIO TIRANNO DI SIRACUSA CON L’AUGURIO DI STAR        BENE

 Voglio che il principio stesso della lettera ti garantisca della sua autenticità. Un giorno in cui tu ospitavi a un banchetto i giovani Locri e ti trovavi sdraiato lontano da me, ti alzasti e mi ti avvicinasti, per dirmi una parola che [b] a me e a chi mi stava sdraiato accanto, uno dei belli, parve amichevole. Costui ti aveva detto: "In verità, o Dionisio, Platone ti ha fatto guadagnare molto in sapienza"; e tu rispondesti: "E in molte altre cose ancora mi ha giovato, perché dallo stesso invito che gli rivolsi, quando lo invitai, trassi sùbito gran beneficio". Questa disposizione d’animo dobbiamo dunque conservarla ancora, per poter trarre un utile sempre maggiore l’uno dall’altro. Con questo scopo appunto ti mando alcuni scritti pitagorici e delle distinzioni, e, insieme, secondo gli accordi presi allora, [c] un uomo che potrebbe essere utile a te e ad Archita, se Archita viene a trovarti. Ha nome Elicone, di Cizico, ed è scolaro di Eudosso, nelle cui dottrine tutte è molto erudito: ha frequentato anche uno scolaro di Isocrate, e Polisseno, un amico di Brisone. E’ anche, cosa rara in uomini come questi, di piacevole conversazione: pare che [d] non sia cattivo, ma piuttosto dolce e buono. Dico questo con esitazione, perché esprimo un giudizio su di un uomo, e l’uomo è un animale non cattivo, ma volubile, eccettuati pochissimi e per poche cose. E dunque, temendo e diffidando di lui, ho cercato di conoscerlo personalmente, e mi sono rivolto ad alcuni suoi concittadini per averne informazioni: e nessuno me ne ha parlato male. Studialo anche tu, e sii cauto. Ma soprattutto, se hai un po’ di tempo, impara da [e] lui quello che ti può insegnare, e coltiva le altre discipline filosofiche. Se no, fa istruire da lui qualcun altro, per poter poi imparare con calma da costui, e diventar migliore, e acquistare buona fama: in questo modo io non cesserò di giovarti. Ma di questo basta.

[361a] Quanto alle cose che vuoi che ti mandi, ho fatto fare l’Apollo, e Leptine te lo porterà: è opera di un artista giovane e valente, di nome Leocare. Costui aveva un’altra statua che mi parve molto graziosa: l’ho comperata per farne un dono a tua moglie, come segno di gratitudine per le cure che mi ha prestate in modo veramente degno e di te e di me, sia quando ero sano che quando ero ammalato. E dunque, se ti pare, consegnagliela. Ti mando anche dodici brocche di vino dolce per i fanciulli e due di miele. [b] Per i fichi, siamo giunti quando erano stati già colti: le bacche di mirto, raccolte, erano marcite: ce ne prenderemo maggior cura un’altra volta. Delle piante ti parlerà Leptine. Il denaro per queste spese e per alcuni contributi che dovevo pagare alla città, me lo son fatto dare da Leptine, al quale ho parlato con sincerità e come mi sembrava più decoroso: gli dissi che era mio il denaro, circa sedici mine, speso per la nave Leucadia: e questo denaro mi son fatto [c] dare, e me ne son servito io stesso, e ho comperato quello che vi invio. Quanto allo stato del tuo denaro ad Atene, e a quello del mio, le cose stanno così. Io impiegherò il tuo denaro, come già ti dissi, a quel modo che impiego quello degli altri amici: spendo il meno possibile, quanto mi sembra necessario o giusto o decoroso per me e per chi me lo dà. Ora mi capita questo. Io ho a mio carico le [d] figlie delle mie nipoti, morte quando tu volevi ch’io ricevessi la corona, e io non volli; sono quattro: una è in età da marito, la seconda ha otto anni, la terza poco più di tre, l’ultima non ha ancora compiuto l’anno. A queste devo far io la dote con l’aiuto dei miei amici; almeno a quelle che si sposeranno prima ch’io muoia, perché alle altre non penso. Se il padre di qualcuna di loro sarà in quel momento più ricco di me, non farà niente: ma per ora io sono più ricco dei loro padri, e ho fatto la dote anche [e] alle loro madri, con l’aiuto di alcuni amici, tra i quali è Dione. Una di queste sposa Speusippo, fratello di sua madre. Essa non ha bisogno per la sua dote di più di trenta mine, che è una somma adeguata alla nostra situazione. Se poi morirà mia madre, dieci mine basteranno per farle la tomba. Questa è dunque, all’incirca, la somma che mi è necessaria per fare queste spese: in seguito, se dovrò fare qualche altra spesa pubblica o privata, per poter venire da te, cercherò di spendere, come allora ti dissi, il [362a] meno possibile; ma, quello che non posso evitare, dovrai spenderlo tu.

Venendo ora alle spese che devo fare per te ad Atene, sappi prima di tutto che, se devo spendere del denaro per una coregia o per altre cose simili, non trovo, come credevamo, alcun ospite che voglia prestarmelo per te; sappi poi che, se la cosa per cui domando il prestito ha grande importanza per te, quando sia necessario far sùbito la spesa per averne giovamento, perché il differirla fino all’arrivo di qualche tuo inviato ti danneggerebbe, la mancanza di gente pronta a farti un prestito ti recherà vergogna oltre [b] che danno. Io ne ho fatto la prova quando mandai Erasto da Andromeda egineta, al quale mi avevi detto di rivolgermi, come a tuo ospite, in caso di necessità: perché volevo comperare le altre cose assai costose, che mi avevi incaricato di mandarti. Egli mi rispose cose giuste ed umane: disse che una volta aveva fatto delle spese per tuo padre, e che aveva fatto fatica a riavere il suo: era disposto a dare ancora, ma poco, non più. Mi rivolsi pertanto a Leptine, ed egli mi fece il prestito: egli merita lode, e non tanto per il fatto che m’ha dato il denaro, ma più perché me lo ha dato prontamente, e perché sempre dimostra la [c] sua amicizia per te, nei fatti come nelle parole. Perché bisogna che io ti dica come mi pare che ciascuno si comporti riguardo a te, sia che agiscano come Leptine, sia che facciano il contrario. Sulla questione del danaro ti parlerò con franchezza, perché è giusto che faccia così, e d’altra parte sono bene informato su quanti ti stanno vicino. Chi dovrebbe avvertirti ogni volta che fa una spesa che egli sa che ti dovrebbe comunicare, esita a farlo, per paura di venirti in [d] uggia; e dunque abituali a farlo, e costringili a riferirti e questo e ogni altra cosa, perché tu devi essere informato il meglio possibile, e decidere tu stesso, senza lasciar correre. Questo è quanto di meglio tu possa fare per il tuo governo, perché lo spendere bene e il pagare con esattezza offrono, tra gli altri, il vantaggio di mantenere intatta la tua sostanza, come certamente riconosci e riconoscerai tu stesso. Evita dunque che ti accusino pubblicamente quelli che dicono di prendersi a cuore le cose tue, perché non è [e] bello né giova alla tua reputazione, di passare per un disordinato.

Vorrei ora parlarti di Dione: quanto al resto, non posso dir niente prima che m’arrivino le lettere che mi hai annunciate; per quanto riguarda quello che tu mi hai detto di tacergli, non gli ho parlato né gli ho fatto alcun cenno. Ho tuttavia cercato di capire se, quando questo avvenisse, egli lo sopporterebbe di buon animo o se ne affliggerebbe, e mi è sembrato che egli non lo sopporterebbe tranquillamente. Per il resto Dione è, nei tuoi riguardi, molto moderato a parole e a fatti.

[363a] A Cratino, fratello di Timoteo, mio amico, donerò una corazza da oplita, di quelle pieghevoli che portano i fanti, e alle figlie di Cebete tre tuniche di sette cubiti, non di quelle lussuose di Amorgo, ma di quelle fatte di lino dì Sicilia. Senza dubbio tu conosci il nome di Cebete: è ricordato nei discorsi socratici insieme con Simmia, e discute con Socrate nel dialogo intorno all’anima: è amico di noi tutti e ci vuol bene.

[b] Del segno che distingue le lettere che ti scrivo seriamente, credo che ti ricordi: tuttavia osservale e sta ben attento, perché vi son molti che mi pregano di scriverti, e non è facile rifiutare apertamente. Le lettere serie cominciano con la parola "dio", le altre con la parola "dèi".

Gli inviati m’hanno pregato di scriverti, ed è naturale: essi ci lodano grandemente dovunque, te e me, e sopra tutti Filagro, quello che allora aveva la mano ammalata. E [c] anche Filede, venuto dalla corte del Gran Re, parlò di te: se la lettera non fosse già troppo lunga, ti scriverei quello che disse; ma tu puoi fartelo dire da Leptine.

Se vuoi mandarmi per mezzo di altra persona la corazza o qualche altra delle cose ch’io ti chiedo, consegnala pure a chi vuoi: se no, consegna tutto a Terillo, un nostro amico che viaggia per mare, uomo esperto di molte cose, ma soprattutto di filosofia. Il genero di Tisone, ch’era edile quand’io partii.

Sta bene, e dedicati allo studio della filosofia, ed invita [d] allo stesso studio i più giovani, e abbracciami i compagni di gioco, e di’ ad Aristocrito e agli altri che, se giunge qualche mio discorso o qualche mia lettera per te, te li facciano conoscere sùbito e ti rammentino di fare quello che ti chiedo. Ed ora non aspettare, ma restituisci sùbito a Leptine il suo denaro; così anche gli altri, guardando a lui, saranno più pronti a farci prestiti.

[e] Iatrocle, quello ch’io ho liberato insieme con Mironide, ora sta venendo da te con gli altri ch’io ti mando; prendilo al tuo servizio, perché è ben disposto verso di te, e serviti di lui per quello che t’occorre. La lettera conservala o fatti degli appunti, e mantieniti sempre tu stesso.