Lisimaco e Melesia chiedono consiglio a Nicia e Lachete circa l'educazione dei loro figli Aristide e Tucidide (I 178a-179b). Ed in particolare circa l'educazione al combattimento in armi (II 179b-180a). Nicia e Lachete propongono concordemente di far partecipare anche Socrate alla discussione (III 180a-d). Elogi di tutti i presenti a Socrate come educatore e come uomo d'armi (IV 180d-181c). Socrate accetta con qualche riserva. Discorso di Nicia in favore della scienza dell'esercizio delle armi come parte dell'educazione dei giovani (V 181d-182d). Discorso di Lachete in risposta a Nicia: è dubbio che la scienza dell'esercizio delle armi sia veramente una scienza e che faccia parte dell'educazione (VI 182d-183c). E' dubbio, inoltre, che essa sia utile (VII 183c-184a). In ogni caso non merita di studiarla: sia il vile che il coraggioso non ne avranno vantaggio. Socrate è invitato ad intervenire (VIII 184b-d). La questione sul tappeto è tale che non può essere decisa a maggioranza: occorre seguire il parere dell'esperto (IX 184d-185b). Più precisamente: dell'esperto di ciò in vista di cui si indaga quel che si indaga, cioè dell'anima dei giovani (X 185b-186a). Socrate simula la sua ignoranza sull'argomento ed esorta Lisimaco a chieder conto a Nicia e Lachete della loro sapienza, di come se la sono procurata, di quali testimonianze possono portarne (XI 186a-187b). Lisimaco gira la proposta a Nicia e Lachete, accettandone l'impostazione (XII 187b-e). Giudizio di Nicia sul modo socratico di discutere (XIII 187e-188c). Giudizio di Lachete sul modo socratico di discutere (XIV 188c-189b). Socrate inizia quindi la discussione con Lachete e con Nicia per venire incontro al desiderio di Lisimaco e Melesia e pone il problema (XV 189c-190b). Si tratta di definire quella virtù che, presente nelle anime dei ragazzi, le rende migliori. Opportunità, tuttavia, di non esaminare tutta la virtù nel suo insieme ma solo una sua parte: il coraggio (XVI 190b-e). Socrate discute con Lachete, che dà la prima definizione del coraggio: coraggio è restare al proprio posto. Critica di Socrate: molti combattono coraggiosamente anche muovendosi e indietreggiando addirittura (XVII 190e-191c). E poi non si tratta solo del coraggio in guerra, ma in ogni circostanza della vita. E' quindi necessaria un'altra definizione (XVIII 191c-e). Chiarimento di Socrate circa ciò che egli intende per definizione di qualcosa. Seconda definizione di Lachete: il coraggio non è altro che una certa forza d'animo. Ma anche questo non basta: bisognerebbe aggiungere, secondo Socrate, accompagnata da intendimento (XIX 192a-d). Ma anche con questa aggiunta non si raggiunge lo scopo, perché in certi casi tanto più intendimento uno possiede e tanto meno coraggioso può essere definito (XX 192e-193d). Lachete dichiara di non riuscire ad esprimere quel che intende per coraggio e lascia il posto a Nicia nella discussione (XXI 193d-194c). Prima definizione di Nicia: il coraggio è scienza e più precisamente scienza delle cose temibili e delle cose non temibili. Dissenso netto di Lachete (XXII 194c-195b). Discussione tra Nicia e Lachete: non gli esponenti delle singole scienze sanno cosa è da temere o no, ma coloro che sanno che cosa è meglio o peggio. Cioè gli indovini?, domanda Lachete (XXIII 195b-e). Alla risposta negativa di Nicia, Lachete lo accusa di voler nascondere il proprio imbarazzo e rinuncia a discutere. Continuerà a discutere Socrate (XXIV 195e-196c). Non è da tutti conoscere cosa è da temere e cosa no; non solo, ma tra gli animali, tutti privi di conoscenza, non sarà possibile fare distinzioni tra coraggiosi e paurosi. Risposta di Nicia: per gli animali è da parlare semmai di temerarietà, ma non di coraggio (XXV 196c-197c). Ancora battute polemiche tra Lachete e Nicia. Socrate cerca di far proseguire la discussione (XXVI 197c-e). Argomentazione di Socrate: le cose temibili riguardano solo il futuro, perché il timore non è altro che l'aspettazione di un male futuro (XXVII 197e-198c). Ma la scienza non concerne solo il futuro, ma anche il presente e il passato; quindi il coraggio, come è stato definito da Nicia, riguarda solo un terzo di quella scienza che non è solo del future, ma di tutto il tempo (XXXVIII 198c-199c). Non quindi scienza dei beni e dei mali futuri dovrebbe essere il coraggio, ma del bene e del male in generale. In tal modo però, il coraggio - che è solo una parte della virtù - verrebbe ad identificarsi con tutta la virtù. Non si è ancora trovato cosa è il coraggio (XXIX 199c-200a). Scambio di battute tra Lachete e Nicia. Entrambi consigliano Lisimaco e Melesia di mandare i figli da Socrate (XXX 200a-d). Conclusione di Socrate: tutti hanno bisogno del maestro migliore possibile, altrimenti non sarà nemmeno possibile educare i ragazzi (XXXI 200e-201c).
[178a] I. LISIMACO. Avete visto il saggio di scherma di quest'uomo, o Nicia e Lachete; ma il motivo per il quale vi abbiamo invitato, io e Melesia, ad assistervi e che v'abbiamo taciuto prima, ve lo diciamo adesso. Perché vogliamo essere franchi con voi: vi sono alcuni che si fanno beffe di queste cose, e se tu chiedi loro un consiglio non dicono quasi mai [b] quello che pensano, ma tirando a indovinare quel che hai in mente, esprimono tutt'altra opinione che la loro. Voi, invece, poiché vi riteniamo uomini di giudizio responsabile, e capaci, dopo aver giudicato, di esprimere né più né meno il vostro parere, vi abbiamo presi come consiglieri per le cose che vi vogliamo accennare. Orbene, [179a] la cosa intorno alla quale sto facendo questo lungo preambolo eccola qui. Abbiamo questi due nostri ragazzi qui, il figliolo di Melesia ha il nome del nonno, Tucidide, e il mio, beh, anche lui ha il nome del nonno, di mio padre, Aristide, come lo chiamiamo. Ecco che abbiamo pensato di prenderci cura di loro quanto mai è possibile e di non fare come la più parte della gente che appena giovincelli lasciano che i figlioli facciano quel che vogliono, anzi, abbiamo pensato di cominciare proprio da adesso a prenderci [b] cura di loro per quanto ci è possibile. Siccome sappiamo che anche voi avete dei figlioli, abbiamo pensato che voi, se mai altri, vi siete già dati pensiero per loro, come educarli per divenire eccellenti. Ma se per caso, come spesso avviene, non avete riflettuto al problema, eccoci qui per richiamarvi alla mente che non conviene trascurarlo e per invitarvi a prendervi cura dei ragazzi insieme con noi.
II. Come poi ci sia nata questa idea, o Nicia e Lachete, merita che lo sentiate anche se divento un po' troppo lungo. Vedete, io e Melesia prendiamo i pasti assieme, presenti i [c] ragazzi, e, come vi dicevo all'inizio, saremo franchi con voi. Dunque, io e lui possiamo raccontare ai ragazzi le numerose e nobili azioni dei nostri padri, e quali prodezze compirono in guerra, quali attività in pace come amministratori degli affari alleati e dello stato, ma nessuno di noi due ha da dir nulla delle proprie prodezze. Di ciò proviamo un certo imbarazzo ed entrambi addossiamo la colpa ai [d] nostri padri che, mentre ci lasciavano vegetare da signori quando s'era grandicelli, badavano invece agli interessi pubblici. Ed è ciò che mostriamo ai nostri ragazzi dicendo loro che se non si daranno pensiero di se stessi e non ci daranno retta, diventeranno dei mediocri, ma se si prenderanno cura di sé forse potrebbero diventare degni del nome che portano. Ed essi dicono di sì, che ci daranno retta, e noi stiamo cercando di scoprire che cosa debbano imparare e di che cosa debbano occuparsi per diventare eccellenti. Orbene un tale ci ha indicato anche questo studio, [e] spiegandoci che sta bene che un giovane impari a esercitarsi nel combattimento. E ci lodava questo atleta di cui avete visto ora il saggio e ci spronava ad assistervi. Decidemmo allora che noi dovevamo venire a vedere questo uomo e invitare anche voi sia come spettatori, sia come consiglieri e soci, se vorrete, dell'educazione dei ragazzi. [180a] Questo è ciò che volevamo comunicarvi. Eccovi dunque il vostro turno a consigliare sia su questo studio, se vi sembra o no che meriti seguirlo, sia sulle altre discipline, posto che possiate raccomandare qualche studio o occupazione per un giovanetto, e infine sta a voi anche dirci che cosa volete fare di questa collaborazione.
III. NICIA. Per conto mio, o Lisimaco e Melesia, non solo approvo la vostra idea ma sono anche pronto ad associarmi con voi, e così credo che anche Lachete lo sia. LACHETE. [b] Verissimo, o Nicia, è come dici. E ciò che poco fa Lisimaco diceva di suo padre e di quello di Melesia mi pare che s'adatti perfettamente a loro e a noi e a tutti quelli che amministrano gli affari dello stato: d'ordinario succede loro proprio quello che dice, che sia dei figli sia delle altre cose private essi si diano poca cura o addirittura siano negligenti. In questo hai ragione, o Lisimaco, però che tu inviti noi a dare un consiglio per l'educazione dei ragazzi, ma non [c] Socrate, qui presente, questo mi fa meraviglia: per prima cosa egli è del tuo demo e poi egli non fa che starsene nei luoghi dove si trova quel che tu cerchi, lo studio o l'esercizio che riguarda i giovani. LIS. Come dici, o Lachete? Il nostro Socrate si occupa di queste cose? LACH. Proprio così. NIC. Questo potrei assicurartelo anch'io non meno di Lachete. Tempo fa ha introdotto proprio a me uno straniero come maestro di musica per mio figlio, Damone, [d] discepolo di Agatocle, che non è solo un raffinato musicista, ma anche degno che i giovani di questa età imparino da lui qualsiasi altra cosa.
IV. LIS. E' ben vero, cari Socrate, Nicia e Lachete, che i vecchi come me non conoscono affatto i giovani, in quanto, per colpa dell'età, passano il tempo in casa; ma se anche tu, o figlio di Sofronisco, sai dare un buon consiglio a questo tuo demota, è tuo dovere farlo. Ed è giusto, anche perché [e] tu sei un vecchio amico di famiglia, dal momento che io e tuo padre s'era due grandi amici e sin quando egli visse non ci fu un dissidio fra noi. E guarda: alle parole di costoro mi viene un ricordo: i ragazzi quando parlano a casa fra loro ripetono il nome di Socrate e ne fanno grandi lodi. Però non ho mai chiesto loro se parlavano del figlio [181a] di Sofronisco. Su, ragazzi, ditemi. E' lui il Socrate di cui parlate tante volte? FIGLI. Sì babbo, è proprio lui. LIS. Bravo, per Era, o Socrate! Fai proprio onore a tuo padre, che era il migliore degli uomini! Ne sono contentissimo per molti motivi e soprattutto perché il tuo sarà il mio e il mio sarà tuo. LACH. Aspetta, o Lisimaco, non lasciartelo sfuggire quest'uomo. Perché io altrove l'ho visto [b] fare onore non solo al padre, ma anche alla patria: nella rotta di Delio si ritirava con me, ed io ti assicuro che se gli altri avessero voluto imitarlo la nostra città starebbe ancora in piedi onorata e non sarebbe caduta così in basso. LIS. O Socrate, questa lode è davvero bella, e tu la ricevi da uomini degni di fede, specialmente se si pensa a ciò per cui ti lodano. Sii dunque certo che sentendo queste lodi, godo della tua buona fama; e tu tienmi fra gli amici che ti sono più devoti. Certo, tuo dovere sarebbe stato di venirci a trovare anche prima e di considerarci tuoi amici, come era giusto, ma ad ogni modo, a cominciare da oggi, [c] giacché ci siamo come riconosciuti, fa come ti dico, vieni da noi e diventa familiare nostro e dei ragazzi, affinché voi figli perpetuiate l'amicizia di noi padri. Tu farai certo così e io te lo ricorderò ancora. Ma sul problema da cui s'era cominciato che ne dici? che ne pensate? Vi pare adatta ai giovanotti questa scienza, cioè imparare a battersi con le armi, o no?
[d] V. SOCRATE. Sì, Lisimaco, io cercherò di darti il consiglio che posso su tale problema e di fare tutto quanto mi chiedi. A dire la verità mi parrebbe molto giusto che siccome sono il più giovane ed il meno competente di costoro, io ascoltassi prima cos'hanno da dire ed imparassi da loro; se poi mi resterà qualche aggiunta da fare ai loro discorsi, allora soltanto mi parrebbe giusto di dire la mia e persuadervi. Suvvia, Nicia, perché non cominciate uno di voi due? NIC. Nessuna difficoltà, o Socrate. Il mio parere è che tale scienza sia utile ai giovani, per diverse [e] ragioni. Ed è già un bene che i giovani invece di spendere il loro tempo in quegli svaghi che essi amano quando non hanno nulla da fare, lo passino in tale disciplina, in quanto da essa è pure forza maggiore che irrobustiscano il corpo [182a] - perché non richiede uno sforzo più agevole e da meno di alcuno degli esercizi fisici - e nello stesso tempo al pari dell'equitazione è esercizio nobilissimo per un uomo libero. Perché nella lotta di cui noi siamo gli atleti e nelle condizioni nelle quali confrontiamo la lotta, sono esercitati solo coloro che praticano l'esercizio di questi strumenti di guerra. Si aggiunge che questo esercizio li avvantaggerà anche nella battaglia vera e propria quando si debba combattere nei ranghi a fianco di molti altri; ma il più grande vantaggio da questo esercizio sarà quando, rotte le file, bisognerà ormai che, solo a solo, l'inseguitore attacchi chi si [b] difende oppure chi, in fuga, si difende da un attaccante. Solo a solo, un uomo che conosca le armi non subirà offesa alcuna, e forse neppure se assalito da più d'uno, ma in ogni caso con questa sua scienza sarà dappertutto superiore. Inoltre questa disciplina desta il desiderio di un'altra bella scienza, perché chiunque abbia imparato a battersi con le armi desidererà anche apprendere la disciplina che segue, quella della tattica, e, una volta che l'abbia imparato, e vi abbia preso gusto, si muoverà verso l'insieme delle cognizioni che concerne la strategia. Ed è altresì evidente che [c] tutte le discipline e tutti gli esercizi connessi con la strategia sono non solo nobili ma anche degnissimi d'un uomo libero, sia da imparare che da coltivare, e il loro fondamento sarebbe proprio questa arte delle armi. Aggiungeremo una aggiunta di non poca importanza, che quest'arte renderebbe qualunque uomo in guerra sia molto più sicuro, sia molto più coraggioso che da se stesso non sia. Non si reputi indegno d'affermare, anche se a qualcuno potrebbe parere di poco momento, che tale arte lo renderebbe anche [d] più decoroso nei gesti là dove è necessario che l'uomo sia decoroso, là pure dove egli appare più temibile ai nemici per via del suo decoro. Per conto mio dunque penso, o Lisimaco, che si debba, come sto dicendo, insegnare ai giovani quest'arte, e ho spiegato il perché. Quanto a Lachete, se ha da dire qualcosa in più, io pure lo ascolterò con piacere.
VI. LACH. Ma certo, Nicia, il difficile è dimostrare, di qualsiasi disciplina si parli, che non la si debba imparare, perché non c'è niente che non faccia bene a sapersi. Così [e] anche questa arte delle armi se è una scienza come affermano i suoi maestri e come Nicia sostiene, bisogna impararla, ma se non è una scienza e quelli che la professano ingannano o, pur essendo una scienza, è tuttavia poco seria, perché bisognerebbe impararla? Se dico questo riguardo l'arte delle armi è perché io considero il seguente punto di vista: se essa valesse qualcosa, io credo che non sarebbe sfuggita agli Spartani ai quali niente importa tanto al [183a] mondo quanto cercare e praticare ciò il cui apprendimento e la cui pratica li renda superiori agli altri nella guerra. Se quest'arte sfuggì agli Spartani, per lo meno non sarebbe sfuggito a questi suoi maestri appunto questo, che i Lacedemonii di tutti i Greci sono i più impegnati e interessati in codeste cose, e che uno apprezzato presso di loro in quest'arte potrebbe guadagnare moltissimo anche presso altri, non diversamente da un poeta tragico che sia apprezzato da noi. Appunto per questo, chi cerca di essere [b] buon poeta tragico non se ne va attorno girando fuori dell'Attica a far mostra di sé nelle altre città; no, perché viene senz'altro qui e si presenta da noi, naturalmente! Questi maestri d'arme, invece, li vedo che ritengono Sparta un recinto sacro e inaccessibile dove non mettono neppure la punta del piede e li vedo girarle attorno e far piuttosto mostra di sé dappertutto tranne che lì, e soprattutto davanti a coloro che sono pronti a riconoscere da se stessi che [c] molti sono loro superiori in fatto di guerra.
VII. In secondo luogo, o Lisimaco, ne ho veduti non pochi di costoro, alla prova dei fatti, e so quello che valgono. Ma basta considerare da questo semplice punto di vista che, come a farlo apposta, nessuno mai di questi maestri d'arme si distinse in guerra. Nelle altre arti invece gli uomini che si distinguono sono quelli che le praticano professionalmente; ma costoro a differenza degli altri, a quanto sembra, su questo punto sono stati perseguitati da una sfortuna maledetta. Il nostro Stesileo, per esempio, che [d] avete ammirato meco mentre dava spettacolo fra sì gran folla e che vanta, a parole sue, cose strabilianti, io l'ho visto in altre circostanze alla prova dei fatti mentre dava sul serio uno spettacolo, senza averne intenzione. La nave su cui era imbarcato come soldato aveva abbordato una nave da carico ed egli combatteva con una lancia a falce, arma a sentir lui superiore ad ogni altra, come egli stesso era superiore agli altri. Lascio le altre sue prodezze che non meritano resoconto, ma la trovata della falce applicata alla lancia, vi dirò come andò a finire. Mentre egli combatteva, la falce si impigliò in qualche parte del sar-[e] tiame del trasporto e vi rimase agganciata. Allora Stesileo si mise a tirare per liberarla ma non ce la faceva. Intanto il trasporto correva accanto alla nave da guerra e Stesileo quindi correva lungo il ponte attaccato alla sua lancia; ma quando il trasporto stava per staccare la nostra nave e per tirarsi dietro anche lui rimasto stretto alla lancia, [184a] egli dovette lasciarla scorrere fra le mani fino all'estrema punta del calcio. Risate ed urla di quelli del trasporto, a vederlo in quella posizione, e come qualcuno gli tirò un sasso fra i piedi nel ponte e abbandonò la lancia, allora anche quelli della trireme non poterono più trattenere una risata a vedere quella famosa asta penzoloni dal sartiame dell'altra nave. Forse quest'arte varrà qualcosa, come vuole Nicia, ma quelli che ho incontrato erano come v'ho detto.
[b] VIII. Dunque, come vi dicevo al principio, che sia una scienza di poca utilità o che senz'esserlo i suoi maestri la vantino fingendo che lo sia, non vale la pena che si cominci a studiarla. Perché a me pare che se un vigliacco credesse di aver appreso questa arte, e per ciò stesso divenisse più coraggioso, mostrerebbe meglio la sua vigliaccheria, e se un coraggioso, oggetto degli sguardi di tutti, per poco che sbagliasse, riceverebbe critica acerba. Perché è vista di [c] malocchio la pretesa di questa arte: e così, a meno che non si distingua dagli altri per qualche miracolo di valore, non è possibile che sfugga al ridicolo chi si vanti di conoscerla. Questo o Lisimaco è il mio parere sullo studio di questa disciplina. Ma ti ripeto, non bisogna lasciar sfuggire Socrate qui presente, ma lo si preghi di darci il consiglio che crede sull'argomento che ci sta davanti. LIS. Sì, ti [d] prego, Socrate. Anche perché il nostro consiglio, mi sembra, ha bisogno d'un arbitro: se invece questi due si fossero trovati d'accordo se ne potrebbe fare a meno; ma ora, come vedi, Lachete s'è messo contro Nicia. Sarà bene udire da te a favore di quale dei due tu voti.
IX. SOCR. Come sarebbe a dire, Lisimaco? Il partito che la maggioranza nostra approverà, quello intendi preferire? LIS. Cos'altro, Socrate, si dovrebbe fare, invece? SOCR. [e] Forse anche tu Melesia, faresti così? E se tu fossi a deliberare in quale esercizio convenga che tuo figlio si addestri, ti rimetteresti alla nostra maggioranza o a colui che sia stato educato ed addestrato da un buon maestro? MELESIA. A quello, naturalmente, o Socrate. SOCR. Dunque a quello, di preferenza a tutti noi quattro? MEL. Probabilmente. SOCR. Il valore del giudizio, in effetti, dipende dalla scienza e non dal numero. MEL. Come no? SOCR. Dunque anche ora dobbiamo per prima cosa vedere [185a] se c'è o no qualcuno fra noi competente su ciò intorno cui discutiamo, e se c'è dobbiamo starlo a sentire anche se è solo e non curarci degli altri. Ma se questo competente non c'è fra noi, dobbiamo cercarlo altrove. O forse pensate di rischiare per un piccolo bene, sia tu che Lisimaco? E non invece, come penso, per un bene che è il vostro maggiore possesso? Perché è dalla buona o cattiva riuscita dei figli che dipende l'amministrazione della casa paterna, che sarà tale quale saranno i figli. MEL. E' vero. SOCR. Conviene essere molto attenti in questo. MEL. Certo. SOCR. [b] Come dunque, ripeto, faremmo se volessimo vedere chi di noi sia il più competente in ginnastica? Non sarà colui che ha imparato e praticato la ginnastica e che ha avuto eccellenti maestri in questa disciplina? MEL. Mi pare di sì. SOCR. E ancora prima di ciò non vorremo stabilire cos'è questa disciplina della quale cerchiamo i maestri? MEL. Come dici?
X. SOCR. Ecco, forse così riuscirà più chiaro: fin dal principio ho l'impressione che non ci siamo messi d'accordo cos'è mai ciò intorno cui discutiamo e in vista del quale ricerchiamo chi di noi sia competente ed abbia studiato [c] sotto maestri, e chi invece non lo sia. NIC. Ma non discutiamo se convenga o no che i giovani imparino il combattimento con le armi? SOCR. Sì, certo, o Nicia. Ma se si discutesse d'un rimedio per gli occhi, se convenga o no ungerne gli occhi, forse pensi tu che convenga discutere del rimedio o degli occhi? NIC. Degli occhi. SOCR. Così anche quando si discutesse se bisogna mettere un [d] morso al cavallo, in quel momento credo che la discussione verterà sul cavallo e non sul morso. NIC. Vero. SOCR. In una parola, dunque, quando si esamini una cosa in vista di un fine, la discussione concerne il fine in vista del quale si fa l'indagine e non ciò che si esamina in vista del fine. NIC. Per forza. SOCR. Conviene dunque esaminare anche se il consigliere sia esperto della cura di ciò che è il fine cui tendiamo con la nostra indagine. NIC. Certo. SOCR. Non diciamo noi dunque ora di indagare [e] nella disciplina che ha come fine l'anima dei giovani? NIC. Sì. SOCR. Se, infine, uno di noi è competente nella cura dell'anima ed è in grado di applicarla bene ed ha avuto maestri eccellenti, questo dobbiamo vedere. LACH. Ma come, o Socrate? Non hai visto qualcuno che, senza maestro, sia diventato più competente in alcune arti di altri che sono andati a scuola? SOCR. Sì, o Lachete, ne ho visti, ma ad essi non crederesti affatto se dicessero d'essere bravi artisti a meno che non potessero mostrarti una o più opere [186a] ben riuscite nella loro arte. LACH. In ciò hai ragione.
XI. SOCR. Perciò, o Lachete e Nicia, dal momento che Lisimaco e Melesia ci hanno chiamato a consigliarli per l'educazione dei figlioli, spinti dal desiderio che l'anima di questi riesca quanto più è possibile ottima, bisogna che noi indichiamo loro chi siano stati i nostri maestri, se affermiamo d'averne avuto e proviamo per prima cosa che essi erano eccellenti ed avevano lunga pratica nella cura delle [b] anime dei giovani, e poi che hanno manifestamente insegnato anche a noi. O, se qualcuno di noi nega d'aver avuto un maestro, ma è per lo meno in grado di farci conoscere le sue opere, bisogna che dica e mostri quali Ateniesi o quali stranieri, schiavi o liberi che siano, siano divenuti, per consenso di tutti, eccellenti grazie all'opera sua. Ma, se invece tra noi non c'è uno siffatto, ci conviene invitare i nostri amici a cercare altrove e non rischiare, nel caso di figli di amici, di corromperli e di incorrere nell'accusa più grave che ci possa essere fatta da genitori. Ma per quanto sta a me, o Lisimaco e Melesia, dirò per primo che non [c] ho avuto un maestro di questa arte. E pensare che l'ho desiderato fin da giovane, ma non posseggo i mezzi per pagare i sofisti che, soli, mi garantivano d'essere capaci di rendermi eccellente e nobile. D'altra parte io da solo, fino ad oggi, sono incapace di scoprire quest'arte. Però per quanto sta a Nicia e Lachete, non mi farebbe meraviglia che essi l'abbiano scoperta o appresa, anche perché hanno più mezzi di me, sì da poterla apprendere da altri, ed [d] ancora sono più anziani, sì da averla già scoperta. E dire la verità mi sembra che essi abbiano il potere di educare un uomo; perché altrimenti non sentenzierebbero mai con tanti sicurezza sugli studi utili o dannosi per i giovani, se non fossero convinti di saperne abbastanza. Così per tutto il resto io stesso mi fido di loro, ma il loro disaccordo mi ha sorpreso. Per questo mi faccio avanti a pregare a mia volta, o Lisimaco; e, come prima Lachete ti esortava a non lasciarmi scappare senza avermi prima interrogato, così anch'io ti ripeto la stessa esortazione, di non lasciarti scappare Lachete e Nicia senza interrogarli: dì loro che Socrate [e] afferma di non sapere alcunché dell'affare in questione e di non essere in grado di giudicare chi di voi dica il vero, perché da una parte egli su queste cose non ha scoperto nulla e dall'altra non ha avuto maestri. Ma tu o Lachete e tu o Nicia o diteci ciascuno di voi di qual potentissimo uomo siete stati uditori, in materia d'educazione dei giovani, e se ciò che sapete l'avete imparato da qualcuno o scoperto [187a] da voi stessi, e se l'avete imparato diteci chi è stato il vostro maestro e chi sono i suoi compagni d'arte, affinché se gli affari della città vi privano di tempo libero, noi possiamo andare da loro e persuaderli, o con denaro o con favori o con tutti e due, a prendersi cura sia dei nostri che dei vostri figli di modo che essi non disonorino i loro antenati con la loro pochezza. Ma se al contrario voi stessi siete gli scopritori di questa arte, dateci gli esempi di quali altri, per le vostre cure, voi rendeste, da persone da poco che erano, eccellenti e nobili. Perché se è questa la prima volta che vi mettete a fare gli educatori, pensate [b] che rischiate non sulla pelle d'un Cario, ma sui vostri figli e sui figli degli amici e state attenti che, proprio secondo il proverbio, non vi accada di cominciare l'arte del vasaio fabbricando una giara. Diteci dunque quale di questi casi ritenete o meno che s'applichi a voi. Ecco, o Lisimaco, quello che devi chiedere loro e non te li lasciar scappare.
XII. LIS. Mi sembra, o amici, che Socrate abbia ragione [c] e sta a voi decidere, o Nicia e Lachete, se volete essere interrogati o rispondere intorno a questi problemi. Quanto a me e Melesia, sapete che piacere avremmo se voi voleste spiegare ciò che Socrate vi domanda. E già ve l'ho detto anche prima: vi abbiamo invitato a darci consiglio proprio perché riteniamo che voi abbiate meditato, com'è naturale, su tali questioni e in parte anche perché i vostri figli quasi [d] come i nostri hanno l'età giusta per essere educati. Se perciò non avete nulla in contrario rispondete ed esaminate la questione insieme a Socrate, dando, ed a vostra volta esigendo, le ragioni degli altri. In realtà egli ha ragione anche in ciò, che cioè stiamo discutendo la più grave delle nostre questioni. Sù, vedete se si debba fare così. NIC. O Lisimaco, credo proprio che tu conosca Socrate solo attraverso suo padre, e che con lui tu non ti sia trovato mai, se non quando era ragazzo, quando per caso si avvicinò a te insieme al padre tra la gente del demo, o in un [e] tempio o in un'altra adunanza consimile. Ma da che s'è fatto uomo, è chiarissimo che non l'hai incontrato. LIS. Perché, o Nicia?
XIII. NIC. Non mi sembra che tu sappia che chi si trovi a ragionare con Socrate, come capita, ed entri in conversazione con lui, qualunque sia il soggetto in discussione, è trascinato torno torno ed è forzato a continuare finché non [188a] casca a render conto di sé, del modo in cui ha trascorso la sua vita; e una volta che c'è cascato Socrate non lo lascia più prima di averlo passato al vaglio ben bene e in ogni parte. Io che ci ho l'abitudine a lui so anche che è inevitabile che si sia trattati così e so pure benissimo che non gli sfuggirò neanch'io. Perché mi fa piacere, o Lisimaco, stare con lui e non credo che sia affatto male che ci sia richiamato alla mente che siamo vissuti e viviamo non bene, [b] ch'anzi è forza maggiore che si sia più attenti per l'avvenire, se si subisce questo esame e se secondo il detto di Solone si vuole e si ritiene giusto imparare fino all'ultimo giorno di vita, senza credere che la vecchiaia da sola porti il senno. Per quanto dunque sta a me, non m'è affatto insolito, né d'altra parte inviso il passare sotto il vaglio di Socrate, ch'anzi già da ternpo sentivo che, con Socrate presente, il discorso non sarebbe stato più sui ragazzi, ma su [c] noi stessi. Dunque, ripeto, quanto a me va benissimo di ragionare con Socrate come vuole. Ma per quanto sta a Lachete vedi un po' tu che ne pensi.
XIV. LACH. In materia di discorsi il mio sentire, o Nicia, è semplice, o, se vuoi, non semplice ma duplice: talvolta può sembrare che li ami e talvolta che li detesti. Se ascolto qualcuno che parla della virtù o di qualche arte, che sia veramente uomo e degno dei discorsi che tiene, profonda-[d] mente gioisco a contemplare come il parlante e le cose da lui dette si concordino ed armonizzino. Un uomo simile lo sento proprio come un musico, che accordi in una armonia bellissima non la lira o strumenti dilettosi, ma in realtà la sua vita stessa in accordo fra parole e azioni, secondo la musica dorica - e non ionica o frigia o lidia - [e] che, sola, è armonia greca. Un tale uomo m'incanta di piacere con la sua voce e fa credere a chiunque che io ami i discorsi, tale è l'entusiamo con cui accolgo ogni sua parola. Ma il tipo opposto in questo mi secca tanto più quanto meglio sembra che parli e fa pensare ch'io odii i discorsi. Quanto a Socrate non ho pratica dei suoi discorsi, ma in passato ho fatto esperienza delle sue azioni e qui l'ho trovato degno di bei discorsi e di ampia libertà di [189a] parola. Se dunque ha anche questa dote mi piego al suo volere e col più grande piacere mi farò esaminare da un uomo come lui, né mi rincrescerà di imparare, ma accetto anch'io le parole di Solone, con una sola aggiunta però: invecchio e son pronto ad apprendere molte cose, ma solo dai buoni. Questo solo mi conceda, che il maestro stesso sia buono, affinché io non faccia figura d'essere un discepolo tardo solo perché mi ci son messo di malavoglia. Se poi chi m'istruisce è più giovane e non ha ancora fama o [b] qualche altra cosa di questo genere, non me ne importa nulla. Te dunque, o Socrate, invito, sia ad insegnarmi che ad esaminarmi come vorrai e ad apprendere quello che da parte mia posso sapere. Tale è il mio sentire verso di te da quel giorno in cui corresti insieme con me lo stesso pericolo e desti una prova del tuo valore quale conviene si sia se si vuol darla in modo giusto. Ecco, di' ciò che vuoi senza far caso alla mia età.
[c] XV. SOCR. Non siete davvero voi che potremo accusare di non essere disposti alla discussione e alla ricerca. LIS. E' interesse di tutti noi, o Socrate, giacché ti considero uno dei nostri. Prendi, dunque, il mio posto e vedi cosa vogliamo sapere da questi, nell'interesse dei ragazzi, e ragionando insieme decidi con loro. Perché, quanto a me, fra l'altro, dimentico, data l'età, la maggior parte delle questioni che intendo porre e a loro volta le cose che ascolto non le tengo affatto bene a memoria se si frammettono [d] nuovi discorsi. Voi dunque parlate ed illustrate gli uni agli altri ogni punto del problema. Intanto io potrò ascoltare e quando avrò ascoltato farò, d'accordo con Melesia, ciò che avete deciso. SOCR. Ubbidiamo, cari Nicia e Lachete, a Lisimaco e Melesia. L'indagine che abbiamo ora cominciato e cioè chi siano stati i nostri maestri di questa disciplina o chi altri abbiamo reso migliori, non sarebbe forse svantaggioso per noi condurla; ma credo che anche [e] quest'altra indagine ci porti allo stesso punto e forse dovrebbe perfino essere adottata per prima. Perché se si desse il caso che noi sappiamo di un oggetto che con la sua presenza fa migliore ciò in cui si trova presente e che noi, per di più, siamo in grado di provocare la presenza di quell'oggetto, è chiaro che noi conosciamo proprio ciò al cui proposito noi potremmo, al caso, essere chiamati a consigliare sul modo più facile e sicuro di procurarselo. Forse afferrate male quel che dico, ma ve lo dirò subito in modo più chiaro. Supponiamo di sapere che la vista con la sua pre-[190a] senza negli occhi li renda perfetti e che noi, per di più, siamo in grado di provocare la presenza della vista negli occhi; è chiaro che noi sappiamo cos'è la vista a proposito della quale potremmo essere chiamati a consigliare sul modo più facile e più sicuro per procurarsela. Perché se noi non sappiamo cos'è la vista (o cos'è l'udito) saremmo dei ben poveri consiglieri e medici degli occhi o degli orecchi per dire il modo migliore d'acquistare l'udito o [b] la vista. LACH. Hai ragione, Socrate.
XVI. SOCR. Bene, o Lachete, nel caso nostro questi due ci esortano a consigliarli in che modo la virtù una volta presente nei loro figli possa rendere migliori le loro anime. LACH. E' così. SOCR. Non ci occorre dunque prima di tutto sapere cos'è mai la virtù? Perché penso che se non sappiamo affatto cosa possa mai essere la virtù, come potremo consigliare chiunque sul modo migliore di procu-[c] rarsela? LACH. Non potremo affatto, pare. SOCR. Di conseguenza, o Lachete, affermiamo di sapere cosa sia. LACH. Sì, l'affermiamo. SOCR. Ora, che sappiamo, certo potremmo anche dire cos'è. LACH. E come no! SOCR. Però, carissimi, non prendiamo in esame subito tutta quanta la virtù: è un compito forse troppo grave. Ma cominciamo a vederne una parte, per renderci conto se la nostra conoscenza è sufficiente. Poi, [d] mi pare, la nostra ricerca sarà più facile. LACH. Sì, facciamo così, Socrate, come ti piace. SOCR. Quale parte scegliere della virtù? Senza dubbio quella a cui questo studio delle armi si pensa che tenda? E tende, nell'opinione comune, al coraggio. No? LACH. Certo, questa è l'opinione comune. SOCR. Ecco. Innanzitutto, o Lachete, incominciamo a dire cos'è il coraggio e, dopo, studieremo [e] anche in quale modo se ne procuri la presenza ai giovani, per quanto è possibile che l'acquistino tramite gli esercizi e lo studio. Ma provati a rispondere alla mia domanda, cos'è il coraggio.
XVII. LACH. Per Giove, o Socrate, non è difficile dirlo: quando un soldato resta al suo posto, combatte contro i nemici e non fugge, ecco, quest'uomo è coraggioso. SOCR. Hai ragione, Lachete, ma forse la colpa è mia se, per non essermi spiegato chiaramente, hai risposto non a ciò che pensavo, ma ad altro. LACH. Che vuoi dire, o Socrate? [191a] SOCR. Cercherò di spiegartelo, se ne sono capace. Senz'altro è coraggioso il soldato che descrivi, che resta al suo posto e combatte contro i nemici. LACH. Io almeno credo. SOCR. Anch'io lo credo. Ma che dire di quell'altro che abbandona il posto ma combatte contro i nemici mentre fugge? LACH. Mentre fugge? SOCR. Sì, come gli Sciti, per esempio, di cui si dice che combattono fuggendo non meno bene che mentre avanzano, e come Omero anche, che loda i cavalli di Enea "i quali velocemente qua [b] e là" sapevano "inseguire e fuggire". E lodò per questo motivo lo stesso Enea, cioè per la sua maestria nella fuga, quando lo definì "maestro di fuga". LACH. E ben fece, o Socrate, perché parlava di carri, e tu pure ti riferisci agli Sciti che sono cavalieri; la cavalleria è proprìo così che combatte, ma la fanteria greca combatte come dico io. SOCR. Eccetto, forse, quella spartana. Perché si dice che a [c] Platea quando si trovarono di fronte i gerrofori lo non vollero restare a piè fermo a combatterli, ma fuggirono; però, come i Persiani ruppero le file, gli Spartani, all'ordine di far voltafaccia, si misero a combattere al modo di cavalieri e così vinsero quella battaglia. LACH. E' vero.
XVIII. SOCR. Dunque, ti dicevo poco fa che la colpa è mia se non hai risposto bene perché non ti ho posto bene [d] la domanda. Vedi, io volevo interrogarti non solo sul coraggio dei fanti, ma anche su quello dei cavalieri e di tutti i combattenti in generale e non solo su quelli che sono coraggiosi in guerra, ma anche su quanti sono coraggiosi di fronte ai pericoli del mare o di fronte alle malattia, alla povertà, alle vicende politiche, e ancora non solo su quelli che sono coraggiosi contro i dolori o i timori, ma anche sono tremendi combattenti contro i desideri e i [e] piaceri sia stando al loro posto, sia facendo il voltafaccia in fuga. Perché vi sono pure degli uomini, o Lachete, coraggiosi in queste cose. LACH. E come, o Socrate. SOCR. Allora tutti costoro sono coraggiosi, ma gli uni esercitano il coraggio contro i piaceri e gli altri contro i dolori, gli uni contro i desideri e gli altri contro i timori, mentre ve ne sono altri che mostrano viltà nelle stesse circostanze. LACH. Certo. SOCR. Io ti domandavo che cosa sono mai l'una e l'altra. Ecco, provati ancora: dimmi adesso cos'è il coraggio, per restare lo stesso in tutte queste circostanze, o non capisci ancora cosa voglio dire? LACH. Proprio no.
[192a] XIX. SOCR. Mi spiego. Supponi per esempio che ti chiedessi cos'è la velocità, la velocità che può trovarsi in noi sia nella corsa che nel pizzicare la cetra, sia nel parlare che nell'imparare e in molte altre circostanze e che ordinariamente si trova, per riferirci ai casi più importanti, nell'esercizio delle nostre mani, delle gambe, della bocca, della voce e del pensiero. Non sei d'accordo? LACH. Certo. SOCR. Ebbene, se uno mi domandasse: "Socrate, cos'è questo che in tutte le circostanze chiami velocità?" [b] io gli risponderei che chiamo velocità la potenza di fare in poco tempo molte cose con la voce, nella corsa, e così via. LACH. Risponderesti esattamente. SOCR. Allora prova anche tu o Lachete a dire lo stesso per il coraggio; che potenza è che si ritrova identica nel piacere e nel dolore e in tutte le circostanze che menzionavamo poco fa e che vien chiamata coraggio. LACH. Mi sembra una [c] certa forza dell'anima se occorre dire quello che è di natura in tutte le circostanze. SOCR. Sì che occorre, almeno se vogliamo rispondere alla nostra domanda. Tuttavia una cosa mi pare, che cioè non ogni forza dell'anima, a quanto vedo, è coraggio. Ed eccotene il perché: credo di sapere che tu annoveri il coraggio fra le cose bellissime. LACH. Lo sai bene: fra le più belle. SOCR. Non è forse quando è congiunta all'intelligenza oculata che la forza è bella e buona? LACH. Certo. SOCR. E che ne è [d] quando è accompagnata da stoltezza? Non è, tutto al contrario dell'altra, dannosa e nociva? LACH. Sì. SOCR. Chiamerai, allora, bella una cosa che è dannosa, e nociva? LACH. Non sarebbe giusto, o Socrate, se lo facessi. SOCR. Non sarai dunque d'accordo a chiamare il coraggio questa specie di forza, dal momento che non è bella, mentre il coraggio lo è. LACH. Hai ragione. SOCR. Ma a seguitare il tuo ragionamento il coraggio sarebbe dunque la forza intelligente. LACH. Probabilmente.
[e] XX. SOCR. Vediamo dunque, intelligente in che? Forse intelligente riguardo ogni cosa, le grandi come le piccole cose? Per esempio se un uomo ha la forza d'animo di fare un'oculata e intelligente spesa in previsione d'un guadagno superiore, lo chiameresti coraggioso? LACH. Per Giove, non certo io. SOCR. Ma invece, per esempio, se un medico, a cui il figlio, o qualunque altro, sofferente di polmonite chiede da mangiare o da bere, non piegasse e [193a] resistesse con forza d'animo? LACH. No, neppure questo è coraggioso. SOCR. E in guerra uno che con calcolo intelligente sia forte e resoluto a combattere, sapendo che altri verranno in suo aiuto, e combatte contro un gruppo minore e più inetto di quello in cui egli stesso si trova, ed in più sta in una posizione vantaggiosa, quest'uomo la cui forza s'accompagna con tanta intelligente preparazione di vantaggi lo chiameresti più coraggioso di quello che nella schiera avversaria fa fronte e resiste? LACH. [b] No, ma quello nella schiera avversaria, direi coraggioso, o Socrate. SOCR. Però la sua forza è meno intelligente di quella dell'altro. LACH. E' vero. SOCR. E chi con forza sta in uno scontro di cavalleria e sia esperto d'arte ippica, lo dirai meno coraggioso di uno che stia ugualmente ma sia sprovvisto di quell'arte? LACH. Mi pare di sì. SOCR. E lo stesso dirai del fromboliere, dell'arciere, e d'ogni altro [c] esperto dell'arte sua? LACH. Senz'altro. SOCR. Così quanti sono pronti a mostrare forza d'animo nei pozzi o nei tuffi sott'acqua o in altre prove simili, pur senz'essere del mestiere, li chiamerai in ciò più coraggiosi di quelli che lo fanno di mestiere? LACH. Come potrei negarlo, o Socrate ? SOCR. Impossibile: se la si pensa così. LACH. Ma è così che la penso. SOCR. Tuttavia, Lachete, costoro corrono rischi e mostrano una forza dell'anima ben più sprovvista d'intelligenza di coloro che praticano ciò di mestiere. LACH. Evidentemente. SOCR. Ma non c'era [d] parso evidente poco fa che l'audacia e la forza dell'anima sprovvista d'intelligenza è brutta e dannosa? LACH. Sì. SOCR. Mentre s'era d'accordo almeno che il coraggio è bello. LACH. Sì, s'era d'accordo. SOCR. Ed ecco che ora, al contrario, diciamo che il coraggio è brutto, cioè forza dell'anima sprovvista d'intelligenza. LACH. Parrebbe. SOCR. Ti pare che abbiamo ragionato bene? LACH. No, per Giove, o Socrate, a me non pare davvero.
XXI. SOCR. Così che tanto io che te, o Lachete, per usare la tua espressione, non ci siamo certo armonizzati alla dorica, perché i fatti non corrispondono alle parole; [e] giacché nei fatti, a quanto pare, si potrebbe dire di noi che siamo dei coraggiosi, ma a parole, invece, se la gente sentisse i nostri ragionamenti, parrebbe proprio di no. LACH. Verissimo. SOCR. Che fare? Ti pare che ci troviamo in belle acque? LACH. Neanche per sogno. SOCR. Vuoi allora che ubbidiamo al nostro discorso almeno in parte? LACH. In che parte? Quale discorso? SOCR. [194a] Il discorso che ci esorta a star forti d'animo. Se dunque vuoi, anche noi resteremo al nostro posto e resisteremo con forza nella ricerca: altrimenti il coraggio stesso si farebbe beffe di noi che non lo ricerchiamo con coraggio, dato che spesso la forza dell'anima è coraggio. LACH. Eccomi pronto, o Socrate, a non defezionare, sebbene a dire il vero non sia abituato a questi discorsi. Tuttavia mi [b] ha preso una tal voglia di spuntarla di fronte ai discorsi che letteralmente sono in collera di non essere capace di esprimere proprio quanto ho in testa. Mi sembra d'avere l'idea chiara di cos'è il coraggio, e non so come mi sia sfuggita via sì da non poterla afferrare con la parola e dire che cos'è. SOCR. Ebbene, mio caro, il buon cacciatore corre dietro alla preda e non le dà tregua. LACH. Senz'altro. SOCR. Vuoi allora che invitiamo anche Nicia a entrare nella caccia nel caso che gli riesca meglio che a noi? [c] LACH. Sì, certamente.
XXII. SOCR. Su, Nicia, aiuta questi amici tuoi che non hanno via di scampo nella bufera dei loro ragionamenti. La nostra situazione, come vedi, è disperata. Tu dicci cosa pensi che sia il coraggio e tiraci fuori da questo imbrago mettendo le tue parole a sostegno del tuo pensiero. NIC. Penso già da qualche tempo, o Socrate, che voi non definiate bene il coraggio. Perché voi non utilizzate un'idea giusta che pur t'ho sentito dire altre volte. SOCR. Quale, o Nicia? NIC. Spesso t'ho sentito dire che ciascuno di [d] noi è buono nelle cose che sa, mentre nelle cose che non sa è cattivo. SOCR. E' vero, per Giove, o Nicia. NIC. Ora se chi è coraggioso è buono, evidentemente sarà anche sapiente. SOCR. Hai sentito, Lachete? LACH. Sì, ma non capisco bene cosa vuol dire. SOCR. Ma io credo di capire e mi pare che intenda che il coraggio è una certa forma di sapienza. LACH. Quale sapienza, o Socrate? [e] SOCR. Ma non è lui che interroghi? LACH. Sì. SOCR. Sù digli, o Nicia, che razza di sapienza sarebbe il coraggio, nella tua idea. Perché non è certo la sapienza del flautista. NIC. Ma no! SOCR. Neppure quella del citarista. NIC. No, certo. SOCR. Qual è dunque e di che cosa è scienza? LACH. Ecco la domanda esatta, o Socrate. Ci dica qual è. NIC. Questa, dico io, o Lachete: la scienza di ciò che si deve temere e di ciò che si deve osare, in guerra [195a] come in tutte le altre circostanze. LACH. Che assurdità, o Socrate. SOCR. Riguardo a che cosa, o Lachete? LACH. Riguardo a che? La sapienza non ha nulla da vedere con il coraggio. Questo è certo. SOCR. Nicia però non la pensa così. LACH. No, lo so, per Giove, che non la pensa così, e son sciocchezze che dice! SOCR. Allora, cerchiamo di farglielo capire ma non diciamo insulti. NIC. Non è come pensi, o Socrate! Lo so io! Lachete desidera solo che anch'io faccia la figura di parlare a vanvera [b] come ha fatto lui poco fa.
XXIII. LACH. Proprio a vanvera, o Nicia, e la prova cercherò di dartela. Dici cose senza senso: guarda, per esempio, nelle malattie i medici non hanno forse conoscenza di ciò che v'è da temere? Forse credi che i coraggiosi sappiano e chiami tu coraggiosi i medici? NIC. No, in nessun modo. LACH. Immagino neppure i contadini. Eppure essi conoscono certo ciò che si deve temere, nell'agricoltura, e tutti gli altri artigiani conoscono ciò che c'è da temere e da osare nelle loro professioni, ma non [c] per ciò sono dei coraggiosi. SOCR. Che ne dici o Nicia? Ti pare che Lachete dica qualcosa di sensato? NIC. Dice sì qualcosa, ma non vera. SOCR. In che senso? NIC. Nel senso che crede che i medici riguardo gli ammalati sappiano qualcosa di più di quel che sia salute e malattia. Ma essi invece ne sanno solo fino a qui. E se per qualcuno sia più da temere la salute che la malattia, credi tu o Lachete che i medici lo sappiano? O non credi che per molti sarebbe meglio non levarsi piuttosto che alzarsi dal lettuccio di malattia? Vediamo! Rispondi: ritieni tu che per tutti [d] sia meglio la vita e che per molti non sia preferibile la morte? LACH. Sì, lo credo anch'io. NIC. Quelli per cui la morte è un guadagno credi tu che abbiano a temere le stesse cose che quelli per cui la vita è un guadagno? LACH. No. NIC. Attribuisci tu dunque questa conoscenza ai medici o a qualunque altro professionista, all'infuori di chi conosce ciò che c'è da temere e il suo contrario e che io chiamo coraggioso? SOCR. Hai ben chiaro, o Lachete ciò che ti vuol dire? LACH. Sì, chiarissimo, che [e] lui chiama coraggiosi proprio gli indovini, perché chi altri mai saprà per chi sarà un vantaggio vivere o morire? Per altro tu, Nicia, confessi d'essere un indovino o né indovino né coraggioso? NIC. Che dici? Riservi all'indovino la conoscenza delle cose da temere e da osare? LACH. Certo: e a chi altro mai?
XXIV. NIC. Molto meglio a quello che dico io, mio caro, perché all'indovino spetta di sapere i segni del futuro, se avverrà la morte, la malattia, la bancarotta, o la vittoria, [196a] la sconfitta nella guerra o in altra contesa. E quale di queste cose sia preferibile che capiti o non capiti, perché l'indovino dovrebbe giudicarlo meglio di qualunque altro? LACH. Ma io proprio non capisco, o Socrate, quello che vuole dire. Perché né l'indovino, né il medico né alcun altro egli ammette che sia coraggioso e chi poi sia un coraggioso non lo dice, a meno che non pensi a un qualche dio. A me fa l'impressione che Nicia non voglia onestamente ri-[b] conoscere d'aver parlato a vanvera, ma si contorce per tutti i versi per nasconderci il suo imbarazzo. Epperò anche noi saremmo stati capaci, poco fa io e te, di contorcerci in questo modo se avessimo voluto evitare d'apparire in contraddizione con noi stessi. Ora se fossimo a parlare in tribunale ci sarebbe qualche ragione a fare come fa, ma in una conversazione così fra amici perché mai farsi bello senza senso con dei discorsi insensati? SOCR. Non vedo [c] anch'io alcuna ragione, o Lachete. Ma stiamo attenti! Nicia crederà pure di dire qualcosa che ha qualche senso, e non parlerà tanto per parlare. Cerchiamo di sapere da lui con più chiarezza ciò che ha in mente. E se è chiaro che significa qualcosa l'ammetteremo; se no cercheremo di farglielo capire. LACH. Interrogalo pur tu, Socrate, se vuoi interrogarlo: quanto a me, mi pare, ne so abbastanza. SOCR. Nulla me lo vieta: ché l'indagine sarà comune, per me e per te. LACH. D'accordo.
XXV. SOCR. Eccomi o Nicia, rispondimi, anzi rispondici, giacché facciamo il discorso in comune io e Lachete: affermi [d] tu che il coraggio è la scienza di ciò che si deve temere o osare? NIC. Sì. SOCR. E sostieni che non è da ogni uomo conoscere questa scienza, dal momento che né il medico né l'indovino potranno conoscerla ed essere coraggiosi, a meno che non aggiungano al loro sapere proprio questa scienza. Non dicevi così? NIC. Così. SOCR. Dunque è proprio il caso del proverbio: non ogni scrofa potrebbe saper tanto né essere coraggiosa. NIC. Non ogni scrofa, mi pare. SOCR. E' chiaro, o Nicia, che per [e] te neppure la scrofa crommionia è stata coraggiosa. Non parlo così per scherzare perché è inevitabile, mi sembra, che chi parla così non riconosca il coraggio alle belve, oppure ammetta nel belluino una sapienza, cosicché ciò che pochi uomini conoscono, tanto è difficile da conoscere, lo conoscono invece un leone, una pantera o un cinghiale qualunque. Ma è ancora inevitabile che chi definisce il coraggio come fai tu dica che un leone e un cervo, un toro e una scimmia sono per natura coraggiosi allo stesso modo. [197a] LACH. Sì, per gli dèi, o Socrate. Hai ragione, e tu di' la verità e rispondici, o Nicia: le fai più sapienti di noi queste belve che tutti d'accordo definiamo coraggiose, oppure vai dritto contro tutti e osi sostenere che non sono coraggiose? NIC. Non così, o Socrate, perché io non chiamo coraggiosi né le belve né alcun altro essere che non tema i pericoli per ignoranza, ma li chiamo privi di paura [b] e stupidi. Hai forse l'idea che io chiami coraggiosi tutti i bambini i quali, per sconsideratezza, non temono nulla? No, ma credo che l'assenza di timore e il coraggio non siano la stessa cosa. E sono dell'opinione che coraggio e preveggenza siano di pochissimi uomini, mentre la temerarietà, l'audacia e l'impavidezza sconsiderate siano di moltissimi uomini e donne, bambini e fiere. Gli esseri che tu e la gente chiamate coraggiosi io li chiamo temerari, invece [c] quelli dei quali io parlo sono riflessivi.
XXVI. LACH. Guarda, o Socrate, come costui si fa bello, così crede, con le sue parole, mentre tenta di togliere a quelli che sono, per opinione universale, coraggiosi, proprio questa gloria. NIC. No certo, o Lachete. Animo! Sapiente sei, lo riconosco, e anche Lamaco, dacché siete coraggiosi, e anche tanti altri Ateniesi. LACH. [d] Non risponderò una parola, anche se potrei: altrimenti mi dirai che sono davvero del demo di Aissone. SOCR. No, non rispondergli, o Lachete, perché tu non hai capito, se vedo bene, che questa sapienza l'ha tolta da Damone, amico nostro, e Damone a sua volta frequenta spesso Prodico, che è certo il più abile dei sofisti a distinguere il senso delle parole. LACH. Ecco, o Socrate! Questi belletti convengono a un sofista molto più che a un uomo che la patria giudica degno del governo. SOCR. Tuttavia conviene, o [e] beato amico, che chi ha grandissime cariche abbia saggezza grandissima e ritengo che valga la pena di indagare cos'ha in mente Nicia quando dà questo significato alla parola coraggio. LACH. Bene, indaga pure tu, Socrate. SOCR. Questo sto facendo, mio caro. Però non credere che io rinunci ad averti compagno nell'indagine, ma sta attento e collabora meco. LACH. Va bene, se ti sembra necessario.
XXVII. SOCR. Sì, mi sembra. E tu Nicia dicci ancora le cose dal principio. Sai che dall'inizio del ragionamento in-[198a] daghiamo sul coraggio considerandolo come una parte della virtù. NIC. Sì, lo so. SOCR. E anche tu nelle tue risposte sul coraggio lo consideravi una parte della virtù, fra le altre parti che d'essa evidentemente esistono, e che tutte insieme hanno nome virtù. NIC. Certo. SOCR. Vedi se io e te siamo d'accordo su questo: io chiamo virtù, oltre al coraggio, anche la temperanza, la giustizia e simili. [b] Anche tu? NIC. Senz'altro. SOCR. Benissimo! Fin qui siamo d'accordo, ma esaminiamo ora queste cose da temere o da non temere, di modo che tu e noi non pensiamo a cose differenti. Ti diremo che cosa riteniamo che siano e, se tu non sei d'accordo, ci spiegherai. Noi riteniamo che sia una cosa da temere precisamente ciò che ispira timore, e da non temere quella che non ne ispira. Riteniamo che non i mali passati o presenti ispirano timori, ma quelli aspettati: il timore è in realtà l'aspettazione di un male futuro. Non la pensi così anche tu, o Lachete? LACH. [c] Sì, assolutamente, o Socrate. SOCR. Ecco, o Nicia, tu sai cosa pensiamo: noi intendiamo che cose da temere siano i mali futuri e le cose da non temere siano i non-mali o i beni futuri. La pensi così anche tu o in altro modo? LACH. In questo modo. SOCR. E chiami coraggio precisamente la scienza di questi mali e beni futuri? NIC. Perfettamente.
XXVIII. SOCR. Passiamo allora a un terzo punto e vediamo se abbiamo la stessa opinione. NIC. E qual è? SOCR. [d] Te lo dico subito. La mia opinione e quella di Lachete è che, per quante cose si dia scienza, non vi sia una scienza del passato, per sapere come una cosa sia avvenuta, diversa da una del presente che sappia come una cosa avvenga, e diversa da una che sappia come meglio potrà avvenire o avverrà ciò che ancora non è avvenuto, ma è la stessa. Per esempio, riguardo la salute, qualunque sia il punto nel tempo, non c'è che la medicina che, in modo univoco, studia ciò che avviene, ciò che è avvenuto e ciò che avverrà, come avverrà. E riguardo i prodotti della terra, l'agricoltura [e] è la stessa cosa. E riguardo le azioni di guerra voi potreste certo attestare che la strategia provvede magnificamente, fra l'altro, anche al futuro e non crede necessario di servire alla divinazione, anzi di comandarla ritenendo di conoscere meglio, nel presente e nel futuro, le cose di [199a] guerra. E così la legge ordina non che l'indovino comandi al generale, ma che il generale comandi all'indovino. E' questa la nostra opinione, o Lachete? LACH. Questa. SOCR. Ebbene! E tu Nicia sei d'accordo con noi nel dire che, per le stesse cose, è sempre la stessa scienza che è conoscenza specializzata del futuro del presente e del passato? NIC. Sì. Anch'io penso così, o Socrate. SOCR. Ma dunque il coraggio, ottimo amico, è scienza delle cose [b] da temere e di quelle da non temere? Pensi così, o no? NIC. Così. SOCR. Ma le cose da temere, siamo d'accordo, sono i mali futuri e quelle da non temere sono i beni futuri. NIC. Sì. SOCR. E d'altra parte una medesima scienza s'applica alle stesse cose, siano esse future o di qualunque altro tempo. NIC. E' così. SOCR. Allora il coraggio non sarà solo scienza delle cose da temere e da non temere, perché non è conoscenza specializzata solo dei beni e dei mali futuri, ma anche di quelli presenti, passati e d'altro [c] tempo, come ogni altra scienza. NIC. E' probabile.
XXIX. SOCR. Così, tu hai risposto, o Nicia, definendo il coraggio solo per una parte, circa un terzo, ma noi ti domandavamo cos'è il coraggio tutto intiero. Ma ora, infine, se si segue il filo del tuo ragionamento, il coraggio non è solo scienza delle cose da temere e da non temere, ma, secondo il tuo stesso discorso, sarebbe pressappoco una [d] scienza dei beni e dei mali tutti in ogni punto del tempo. Vuoi mutare così la tua definizione o che dici? NIC. Voglio mutarla così, o Socrate. SOCR. Ti pare proprio, o divino, che gli mancherebbe qualche parte della virtù a un uomo che conoscesse tutti i beni in tutte le forme, nel presente, nel futuro e nel passato, e così tutti i mali? Credi tu che costui mancherebbe della temperanza, della giustizia e della pietà, lui che, solo, sia verso gli dèi che verso gli uomini con i quali sa come rettamente comportarsi, è in grado di guardarsi accuratamente da quel che s'ha da temere e da quel che no, e di procurarsi i beni? [e] NIC. Credo che tu dica qualcosa di sensato o Socrate. SOCR. Il coraggio di cui parli, o Nicia non sarebbe una parte della virtù, ma la virtù tutta intiera. NIC. Probabilmente. SOCR. Mentre dicevamo che il coraggio è solo una parte della virtù. NIC. Sì, lo dicevamo. SOCR. Ma il coraggio di cui parli tu non sembra una parte. NIC. Non sembra, no. SOCR. Perciò non abbiamo scoperto cos'è il coraggio. NIC. Evidentemente no. LACH. E dire che io credevo, [200a] caro Nicia, che tu l'avresti trovato, dopo il tuo disprezzo per le mie risposte a Socrate. Così, avevo proprio grandissima speranza che tu lo avresti scoperto con la sapienza di Damone.
XXX. NIC. Bravo, o Lachete, che consideri senza difficoltà la figura di poco fa di non sapere nulla sul coraggio; e ti interessa se anch'io faccio nelle stesse condizioni la figura tua, e poi non t'importa più nulla a quanto vedo, che tu ed io non si sappia nulla di ciò che un uomo che si [b] crede qualcuno ha da sapere. Un agire ben umano! E' la verità: guardare gli altri ma non te stesso. Ma per quel che mi riguarda credo di aver detto sull'argomento cose non sconvenienti e se qualche punto non è stato detto in modo sufficiente, sarà corretto più tardi anche con l'aiuto di Damone - che tu credi forse di dover deridere senza averlo mai visto di persona - e di altri. E quando avrò rafforzato gli argomenti te li insegnerò, senza fare il prezioso: perché ho l'impressione che tu debba imparare, e [c] anche molto. LACH. Ma sei proprio sapiente, o Nicia! Però, anche così, io consiglio i nostri Lisimaco e Melesia a lasciarci andare via, te certamente come me, per quanto riguarda l'educazione dei ragazzi, ma di non lasciar scappar via Socrate, invece, come dicevo anche al principio: se io avessi ragazzi così grandi, farei lo stesso. NIC. Sono d'accordo anch'io in questo. Se Socrate è disposto a prendersi cura dei ragazzi non si cerchi nessun altro. Perché [d] anch'io gli affiderei il mio Nicerato con tutto piacere, se lui lo volesse; ma tutte le volte che gliene parlo lui mi presenta degli altri e per sé si rifiuta. Però vedi, o Lisimaco, se Socrate a te vorrebbe dare più ascolto. LIS. E sarebbe poi giusto, o Nicia, perché io sarei pronto a fare per lui cose che non farei certo per molti altri. Che pensi, o Socrate? Mi darai retta e vorrai aiutarci a fare che questi ragazzi vengano sù i migliori possibile?
[e] XXXI. SOCR. Sarebbe certo strano, o Lisimaco, che io non fossi pronto ad aiutare per farli quanto migliori possibile. E se in questa discussione fosse risultato che io sapevo e questi due no, sarebbe giusto che tu invitassi soprattutto me a questo compito. Ma, vedi, siamo tutti stati incapaci allo stesso modo. Che motivo abbiamo dunque a scegliere uno di noi? A me pare che non ci sia motivo [201a] per nessuno. Ma giacché siamo in questa situazione, vedete se questo vi pare un consiglio sensato: io penso, amici miei - e nessuno vorrà tradire il segreto - che tutti insieme dobbiamo cercare un maestro il migliore possibile, innanzitutto per noi - che ne abbiamo bisogno - e poi per i nostri ragazzi, senza risparmio di denaro o d'altro. Ma restare nella condizione in cui siamo ora, non lo ammetto. E se qualcuno si farà beffe di noi perché con l'età che abbiamo ci pare giusto andare a scuola, converrà, credo, mettergli innanzi Omero, che disse: "Per l'uomo che ha [b] bisogno la vergogna non è buona". Perciò anche noi li manderemo a spasso questi irrisori ed insieme ci prenderemo cura di noi stessi e dei nostri ragazzi. LIS. Mi piace la tua proposta, o Socrate, e quanto più son vecchio tanto più zelante voglio essere ad imparare con i ragazzi. Su, fallo per me; domani mattina vieni a casa; non man-[c] care! Ci consiglieremo su questa proposta. Ora, lasciamoci! SOCR. Lo farò, o Lisimaco: verrò da te, domani, se dio vorrà.