IPPIA MINORE
Sommario
 

  Eudico si meraviglia che Socrate non reagisca, né approvando né obbiettando, al gran discorso di Ippia. Socrate manifesta il desiderio di conoscere come Ippia valuta Achille e Ulisse (I 363a-c). Ippia accetta di rispondere ed esalta la sua abilità, ironicamente assecondato, da Socrate (II 363c-364a). Socrate ripropone la sua domanda e Ippia risponde che Omero ha presentato Achille come il più valoroso e Ulisse come il più astuto (III 364b-d). Socrate, attraverso l'esame di Omero, porta ad affermare che Achille è veritiero e Ulisse menzognero (IV 364d-365c). Lasciata l'esegesi di Omero, Socrate pone il problema di chi sia il menzognero: Ippia ammette che il menzognero deve essere furbo, intelligente e sapiente (V 365c-366a). Gli uomini menzogneri sono capaci di mentire, quando vogliono (VI 366a-c). Chi è sapiente e capace e buono in qualcosa, sarà anche capace di mentire in questo qualcosa? (VII 366c-367a). Prendendo esempio dalla matematica, Socrate non ha difficoltà a mostrare che in questo campo la stessa persona è capacissima di dire il vero e il falso (VIII 367a-d). E così anche in altri campi, come la geometria e l'astronomia (IX 367d-368a). Lo stesso vale, ancora, per tutte quelle molte scienze di cui Ippia si proclama esperto (X 368a-369a). Ma se veritiero e menzognero sono la stessa persona, non è possibile contrapporre Achille a Ulisse.

Ippia si spazientisce al modo di discutere di Socrate e si dichiara pronto a dimostrare che Omero ha raffigurato Achille veritiero e Ulisse menzognero, il primo migliore e il secondo peggiore (XI 369a-c). Tuttavia Socrate, pur simulando ignoranza, imitando il metodo sofistico di interpretazione dei poeti, fa vedere che anche Achille è menzognero in Omero (XII 369d-370e). Né vale osservare che le menzogne di Achille sono senza malizia, perché non corrisponde a ciò che dice Omero (XIII 370e-371d). E poi, se Ulisse mente volontariamente e Achille involontariamente, il primo è migliore del secondo. Reazione di Ippia a questo paradosso: anche le leggi puniscono più gravemente chi fa il male volontariamente! (XIV 371d-372a). Attraverso la consueta simulazione di ignoranza, Socrate, con l'aiuto anche di Eudico, riesce a persuadere Ippia e a proseguire la discussione su questo argomento (XV 372a-373c). E' migliore chi sbaglia volontariamente o chi sbaglia involontariamente? L'esempio della corsa, della lotta e di tutte le altre attività fisiche mostra che è migliore chi sbaglia volendo (XVI 373c-374e). La stessa conclusione è da trarre a proposito dell'uso di qualsiasi strumento o capacità, e infine dell'anima (XVII 374e-375d). E anche nel caso della giustizia, chi erra, compie il male e agisce ingiustamente di sua volontà - se mai esiste! - non può essere che colui che è buono. Paradossalità di questa conclusione (XVIII 375d-376c).

TESTO
[363a] I. EUDICO. Ma tu, Socrate, perché te ne stai lì in silenzio, dopo che Ippia ha tenuto sì brillante lezione, e, insieme a noi, non approvi qualche punto almeno di quanto è stato detto, oppure, se in un qualche passaggio non ti sembra che sia stato felice, non lo confuti? Tanto più che ora siamo rimasti soli, proprio noi che desidereremmo, più di ogni altro, partecipare a una discussione diatribh/ [diatribè] filosofica. SOCRATE. Sì, Eudico, c’è davvero qualcosa che con piacere domanderei a Ippia su quello [b] ch’è venuto dicendo a proposito di Omero. Anche da tuo padre Apemanto ho sentito dire che, tra i poemi di Omero, l’Iliade sarebbe più bella dell’Odissea, e di tanto più bella di quanto Achille sarebbe migliore di Ulisse: dei due poemi, diceva, l’uno era stato composto in funzione di Achille, l’altro di Ulisse. Ecco quello che ora, con piacere, vorrei chiedere a Ippia, se lo vuole, poi che ci ha mostrato tante svariate cose su molti poeti e anche su Omero, quale sia cioè la sua opinione su Achille, e su Ulisse [c] e quale dei due egli ritiene il migliore.

II. EUD. Ma sì! Ippia, certo, non si rifiuterà di rispondere, se gli poni qualche domanda. Non è vero, Ippia, che se Socrate ti porrà qualche domanda, gli risponderai? Non lo farai? IPPIA. Sarebbe davvero strano, Eudico, se, proprio mentre sto per andare ad Olimpia, alla solenne riunione di tutto il popolo greco, ove sempre mi reco da [d] Elide, mia patria, ogni qual volta si celebrano le Olimpiadi, ed ove nel tempio mi offro al pubblico, pronto a svolgere qualsivoglia tema mi si proponga tra quelli che ho preparato per dare un saggio del mio valore, o per rispondere a chiunque mi interroghi, sarebbe ben strano se, proprio io, sfuggissi ora alle domande di Socrate. [364a] SOCR. Sei davvero fortunato, Ippia, se al tempo di ogni Olimpiade puoi andartene al tempio, con sì grande fiducia in te stesso per la tua sapienza. Mi stupirei, anzi, se vi fosse un qualche atleta che vada ad Olimpia senza alcun timore e con tanta fiducia nel suo corpo, come tu dici d’esserlo delle tue capacità intellettive. IPP. Per me, Socrate, è naturale provare una tale fiducia, poiché da quando ho cominciato a gareggiare nelle Olimpiadi, non ho mai incontrato nessuno migliore di me, in alcuna questione.

[b] III. SOCR. Belle parole, Ippia, e la tua fama è, senza dubbio, titolo di sapienza per la città di Elide e per i tuoi genitori. E allora, cosa mai ci dici di Achille e di Ulisse? Quale dei due affermi essere il migliore e per quale ragione? Sì, perché, quando là dentro eravamo in così grande numero e tu tenevi la tua conferenza, non sono riuscito a seguire tutto quello che dicevi; lì per lì non ho osato interrogarti: c’era tanta gente nella sala e, poi, temevo d’essere d’impaccio alla tua conferenza; ma ora, che siamo in meno, [c] e il nostro Eudico mi prega d’interrogarti, parla e spiegaci con chiarezza quello che intendevi dire a proposito di questi due uomini. In che senso li distinguevi? IPP. Sì, Socrate, a te voglio spiegare ancor più chiaramente di prima quale sia il mio pensiero su questi punti e anche su altri. Io affermo, dunque, che Omero ha poeticamente rappresentato Achille come esempio d’uomo superiore, tra quelli che andarono a Troia, Nestore come esempio del più assennato, ed Ulisse come esempio dell’uomo più scaltro. SOCR. Ehi là là, Ippia! Ma mi potresti fare il favore di non ridere di me se faccio fatica a capire quello [d] che si dice e se più volte ripeto la domanda? Cerca di rispondermi con calma e dolcezza. IPP. Sarebbe, certo, brutto, Socrate, se io, pur educando gli altri proprio in questo, e proprio per questo ritenendo giusto d’essere pagato, io stesso, invece, interrogato da te, non ti venissi incontro e non rispondessi urbanamente.

IV. SOCR. Molto bene! E allora, quando tu hai detto che Achille è stato rappresentato come l’ottimo, mi é sembrato di capire quel che volevi dire, e così quando hai detto che Nestore è il più assennato. Ma quando, a pro-[e] posito di Ulisse, hai aggiunto che il poeta lo avrebbe rappresentato come il più scaltro, su questo, a dirti la verità, non ho affatto capito cosa intendevi dire. Dimmi, e vediamo se per quest’altra via riesco a capirne di più: Achille non è stato da Omero rappresentato come scaltro? IPP. Ma no, Socrate! Anzi, l’ha rappresentato come un uomo semplicissimo e assolutamente veritiero, come si dimostra anche nelle Suppliche, dove Omero presenta i due che discutono tra loro: e Achille, rivolto ad Ulisse, dice:

 [365a]                      o figliuol di Laerte, divino di stirpe, molto ingegnoso Ulisse,

                                     francamente bisogna ch’io ti dica quello che penso,

                                     che farò e come credo che giungerò al mio scopo.

                                    Come le porte dell’Ade, odioso mi è chi una cosa nasconda

[b]                             nel proprio pensiero e altra, invece, dica.

                                     Io dirò, invece, come andrà a finire.

In questi versi Omero rivela il carattere dei due uomini, Achille veritiero e semplice, Ulisse scaltro e mentitore: non a caso, infatti, Omero fa che proprio Achille rivolga queste parole ad Ulisse. SOCR. Sì, Ippia, ora forse capisco quello che vuoi dire; quando dici ‘scaltro’, tu intendi dire ‘mendace’. IPP. Esattamente, Socrate. In realtà [c] Omero tale ha rappresentato Ulisse in più luoghi sia dell’Iliade sia dell’Odissea. SOCR. E’ ovvio, dunque, che ad Omero sembrava che il veritiero e il mendace fossero diversi e non la stessa persona. IPP. Ma com’è possibile, Socrate, che sia altrimenti? SOCR. Anche tu, Ippia, pensi allo stesso modo? IPP. Senza dubbio! Sarebbe strano pensare in diversa maniera.

V. SOCR. Bene, e allora lasciamo stare Omero, tanto [d] più che sarebbe impossibile interrogarlo su cosa aveva in mente quando compose quei versi; ma poiché sembra che tu voglia sostenere la sua causa e condividi lo stesso parere di Omero, rispondi insieme per lui e per te. IPP. E sia! Domandami - ma in breve - quello che vuoi. SOCR. Quando di alcuni dici che sono menzogneri, intendi significare che sono impotenti nel fare qualcosa, come ad esempio lo sono gli ammalati, oppure che possono fare qualcosa? IPP. Che possono fare, e molto, tante cose, tra cui, anche, ingannare gli altri. SOCR. Essi, [e] dunque, sembra, sono, seguendo il tuo ragionamento, capaci di fare molte cose e perciò stesso sono scaltri. O no? IPP. Sì. SOCR. Ma sono scaltri e ingannatori per stupidaggine e mancanza d’intelligenza, o per malizia e per una qual certa intelligenza? IPP. Soprattutto per malizia e intelligenza. SOCR. Sono, dunque, intelligenti, a quanto pare. IPP. Sì, per Zeus! e molto! SOCR. E in quanto intelligenti non sanno quello che fanno, o lo sanno? IPP. Lo sanno benissimo! ed ecco perché sono capaci di agire con malvagità. SOCR. E poiché sanno quel che sanno, sono ignoranti o è gente che sa? IPP. [366a] Gente che sa, certo! almeno in questo, nell’ingannare.

VI. SOCR. Basta per ora, e mentalmente ripercorriamo cosa significa quello che hai detto. Tu affermi, dunque, che colui che mente è persona che ha il potere di fare qualcosa, è intelligente, e s’intende di ciò in cui è mendace in quanto appunto ne ha scienza? IPP. Proprio questo sostengo. SOCR. E sostieni anche che coloro che dicono il vero ed i mendaci sono diversi tra loro, anzi gli uni il contrario degli altri? IPP. Lo sostengo. SOCR. Ma allora, secondo il tuo ragionamento, tra i capaci, tra coloro che sanno, sono da collocare i mendaci? IPP. Esatta-[b] mente. SOCR. E quando affermi che capaci e gente che sa sono i mentitori, capaci ed abili proprio nel mentire, vuoi dire che, se piace loro, sono capaci di mentire, oppure che non ne sono capaci a proposito di ciò di cui dicono il falso? IPP. Secondo me sono capaci. SOCR. Ma allora, concludendo, mendaci sono coloro che sanno e che, perciò, sono capaci di mentire. IPP. Sì. SOCR. Un uomo, dunque, incapace di mentire ed ignorante, non sarebbe mendace. IPP. Proprio così! SOCR. Capace è, dunque, chiunque fa quello che vuole, quando vuole; e [c] non affermo ciò nel senso che uno sia impedito da malattia o da qualche altra cosa del genere, ma lo dico nel senso, ad esempio, che tu hai la possibilità di scrivere il mio nome quando vuoi. Non diciamo, forse, ‘capace’ chi si trovi in simile condizione? IPP. Sì.

VII. SOCR. Non è vero, Ippia, che tu sei pratico di calcoli e dell’arte del calcolo? IPP. Più di ogni altro, Socrate. SOCR. Se allora uno ti domandasse quanto fa tre volte settecento, tu, volendo, potresti dire, su questo, [d] la verità più rapidamente e meglio di ogni altro. IPP. Esattamente. SOCR. Perché in tale arte sei, appunto, il più capace ed il più abile? IPP. Sì. SOCR. Ed in quest’arte in cui sei il più capace ed il più abile, nell’arte del calcolo, sei il più abile e il più capace soltanto, o sei anche il migliore? IPP. Certamente anche il migliore, Socrate. SOCR. Tu, dunque, hai, più di ogni altro, la possibilità di dire il vero, quando si tratti di calcoli? O no? IPP. Lo [e] credo bene! SOCR. E se, nello stesso àmbito del calcolo, si trattasse, invece, di dire il falso? Rispondimi, Ippia, come prima, con franca libertà e apertamente; se uno ti domandasse quanto fa tre volte settecento, potresti più di tutti mentire ed insistere nel falsificare il risultato sempre nello stesso modo, volendo mentire e mai volendo rispondere la verità, o più di te, che vuoi mentire, potrebbe [367a] mentire uno che non sa nulla di calcolo? Ma a chi non sa fare i calcoli non càpita spesso, pur volendo dire il falso, di dire la verità senza che se ne accorga, appunto perché non sa, mentre tu, l’esperto, se vuoi mentire saprai sempre mentire allo stesso modo? IPP. Sì, è proprio come tu dici. SOCR. Ma non si potrebbe obbiettare che il mendace può dire il falso in ogni altra questione, ma non nell’àmbito dei numeri, poiché nel campo dei numeri è impossibile mentire? IPP. Sì, per Zeus! Anche sui numeri è possibile mentire!

VIII. SOCR. Dobbiamo, dunque, porre anche questo, Ippia, che nel campo dei calcoli e dei numeri vi può essere [b] qualcuno che dice il falso? IPP. Sì. SOCR. E chi può essere? Non è necessario che in lui sussista la capacità di mentire se, come tu stesso hai poco fa convenuto, vuol essere mendace? Se ti rammenti, hai sostenuto che se uno è incapace di mentire non potrà mai essere un menzognero. IPP. Certo che lo ricordo! Così dicemmo! SOCR. Ma non è risultato, appena sopra, che tu sei il più capace nel mentire anche nel campo dei calcoli? IPP. Sì. Anche questo dicemmo. SOCR. Ma allora sei anche il più capace [c] di dire la verità, sempre entro il campo dei calcoli? IPP. Esattamente. SOCR. La stessa persona, dunque, è ad un tempo la più capace di dire il falso e il vero, nell’àmbito dei calcoli; e chi è bravo nell’arte del calcolo, è chi, appunto, sa fare di calcolo  o( logistiko/j [ò logistikòs]. IPP. Sì. SOCR. Chi altro mai, Ippia, ha capacità d’essere bugiardo in fatto di calcoli se non chi sa far di calcolo? E tale persona è proprio chi ne sia capace; e chi sia capace è anche veritiero. IPP. Sembra. SOCR. Vedi dunque che, in questo medesimo argomento, la stessa persona è menzognera e verace, e che colui che dice il vero non è affatto migliore di chi dice il falso? E’ la stessa persona anzi! e dire la verità [d] e dire il falso non è l’uno il contrario dell’altro, come tu or ora credevi? IPP. Non sembra, almeno in questo campo. SOCR. Vuoi allora che esaminiamo altri campi? IPP. Sì, se lo desideri.

IX. SOCR. Sei esperto anche in geometria? IPP. Sì. SOCR. Bene: non avviene lo stesso anche in geometria? Non è forse la medesima persona, il geometra, ad esser capacissima di dire tanto il vero quanto il falso, relativamente alle figure geometriche? IPP. Sì. SOCR. E chi altro è bravo in geometria, se non il geometra? IPP. [e] Nessun altro. SOCR. Non è, dunque, il buon geometra, che sa di geometria, chi più di ogni altro è capace di dire tanto il falso quanto il vero? E se esiste uno che sappia mentire intorno alle figure geometriche, costui non potrebbe essere se non un bravo geometra? Chi è bravo è, difatti, capace di mentire, mentre chi non lo è n’è incapace; e, come avevamo stabilito, chi è incapace di mentire non può mai essere menzognero. IPP. Proprio così. SOCR. Esaminiamo ora anche un terzo campo, e prendiamo l’astronomo, tanto più che in astronomia tu pensi d’essere ancor più dotto che non in aritmetica e in geometria. Non è così, Ippia? IPP. Sì. SOCR. E non [368a] avviene lo stesso anche in astronomia? IPP. Direi di sì, Socrate. SOCR. Anche in astronomia, dunque, se esiste uno che sappia mentire, costui non può essere se non un buon astronomo, l’unico capace di mentire, poiché chi non sapesse mentire, sarebbe un ignorante di questioni astronomiche. IPP. Sembra. SOCR. E allora, anche in astronomia sarà la stessa persona ad essere capace di dire il vero e di dire il falso? IPP. Sembrerebbe.

X. SOCR. Coraggio, Ippia, a tuo piacere prendi ora in esame tutti i vari aspetti delle scienze, se mai in qualcuna [b] trovi che le cose vadano diversamente. Tu, senza dubbio, sei assolutamente il più esperto degli uomini in moltissime arti, come ti ascoltai vantare una volta che nell’agorà, presso i banchi dei cambiavalute, esponevi la tua feconda e invidiabile sapienza. Raccontavi che una volta eri andato ad Olimpia avendo indosso tutti oggetti costruiti da te: innanzi tutto l’anello - cominciasti da questo - che portavi era opera tua, poiché tu sai incidere anelli; e [c] opera tua era un sigillo ed uno strigile e un’ampollina, che, appunto, avevi fatto da te; poi i calzari che portavi, sostenevi di averli fabbricati tu stesso, e di avere tessuto il mantello e la tunica; ma ciò che tutti giudicarono meraviglioso e davvero dotto fu quando dichiarasti che la cintura della tunica che portavi era esattamente uguale alle più ricche cinture persiane e che tale l’avevi fatta tu stesso. Non solo, ma dicevi di essere venuto portando opere [d] poetiche tue: poemi epici, tragedie, ditirambi, e anche molti discorsi in prosa sui più svariati argomenti; e di essere venuto conoscendo, più di ogni altro, quelle arti, che appena sopra citavo, e l’uso dei ritmi, delle armonie, del linguaggio, e molte altre scienze, a quel che mi sembra di ricordare. Ah, dimenticavo quella tua arte mnemonica nella quale, a quel che sembra, ritieni d’essere davvero [e] splendido! E, certo, chissà quante mai altre cose mi son dimenticato. Ad ogni modo, questo voglio dire, rivolgendo uno sguardo alle tue arti - e son più che sufficienti - e anche a quelle degli altri, se tu puoi dirmi, tenendo conto di ciò su cui siamo rimasti d’accordo, di averne mai trovata una a proposito della quale altro sia chi dica il vero e altro chi dica il falso, e siano diversi tra di loro, e non la stessa persona. Passa in rivista qualsiasi forma di sapere, scaltra abilità o come meglio ti piaccia chiamarla, [369a] ma, certo, non ne troverai alcuna, poiché non esiste. Parla tu, dunque!

XI. IPP. Così sui due piedi, non so dirlo, Socrate. SOCR. Né, credo, lo saprai mai. Ma se dico il vero, è bene tu rifletta a quello ch’è l’esito del nostro discorso, Ippia. IPP. Non capisco in pieno, Socrate, quello che vuoi dire. SOCR. Forse, ora, non usi la tua mnemotecnica; evidentemente credi che non ve ne sia bisogno. Ma te lo ricorderò io. Sai di avere detto che Achille è veritiero e Ulisse, [b] invece, mendace e scaltro? IPP. Sì. SOCR. Ma non dovresti, ora, renderti conto che coloro che dicono le menzogne e coloro che dicono il vero sono risultati essere una sola persona, sì che Ulisse se era menzognero, ora è anche uomo che dice il vero, e Achille, se era uomo che dice il vero, ora è anche mendace, per cui non sono né diversi né opposti tra di loro, ma simili? IPP. Socrate mio, tu intrecci sempre ragionamenti del genere, e, distaccando quello che in un ragionamento vi può essere di più cavilloso, ti attacchi a questo, minuziosamente lo esamini, [c] e mai discuti l’argomento in questione in tutto il suo complesso. Anche ora, se vuoi, ti posso dimostrare, con un discorso adeguato, fondato su molte prove, che Omero ha rappresentato Achille migliore di Ulisse e nient’affatto menzognero, mentre l’altro lo ha rappresentato astuto, dalle molte menzogne e peggiore di Achille. Dopo, se lo desideri, puoi opporre al mio un tuo discorso per dimostrare che Ulisse è migliore. I presenti potranno così giudicare meglio chi di noi abbia ragione.

[d] XII. SOCR. Ippia mio, non metto affatto in dubbio che tu sia più preparato di me, ma è mia costante abitudine di stare molto attento quando uno parla, specialmente quando mi sembra che colui che parla sia persona di una certa levatura, e poiché desidero capire bene quello che dice, lo interrogo punto per punto, rifletto e metto a confronto le cose dette, finché non ho capito. Se invece chi parla mi sembra che sia persona di poco valore, non lo interrogo e non m’interessa quello che dice. Potrai da questo riconoscere chi siano coloro ch’io ritengo persone di valore. Con questi troverai che insisto su ciò che hanno detto, che li interrogo punto per punto, finché [e] non ho capito e non ne ho tratto un qualche vantaggio. Così, anche adesso, mentre tu parlavi, mi sono accorto che nei versi che dianzi citavi, per dimostrare che Achille parla ad Ulisse come a un impostore, c’è, credo, se tu dici il vero, qualcosa che non torna, poiché in realtà Ulisse, [370a] lo scaltro, mai appare in veste di mentitore, mentre Achille, secondo le tue parole, si dimostra scaltro, tanto è vero che ricorre alla menzogna. Difatti, dopo avere pronunciato quelle parole, che anche tu hai declamato,

 come le porte dell’Ade, odioso mi è chi una cosa nasconda nel proprio pensiero e altra, invece, dica, 

poco dopo dichiara che non si lascerebbe persuadere né da Ulisse né da Agamennone, e che lui non sarebbe rimasto a Troia in nessun modo, ma:

domani, offerti i sacrifici a Zeus e agli dèi tutti, ben caricate le navi, dopo averle spinte nel mare, vedrai, se desiderio ti punge, e se ne hai interesse, veleggiare, sull’alba, verso l’Ellesponto pescoso, [c] le mie navi e in esse gli uomini remare con ardore; e se l’inclito Ennosigeo ci darà prospera navigazione,al terzo giorno già toccheremo la fertile Ftia;

e prima, oltraggiando Agamennone, aveva esclamato:

ma ora torno a Ftia, ché molto meglio è ritornarea casa con le curve navi: non intendo per te,[d] restando qui, offeso, accumulare beni e ricchezze. 

Dopo avere fatto simili dichiarazioni, una volta di fronte a tutto l’esercito, altra volta dinanzi ai suoi compagni, mai risulta ch’egli abbia dato poi disposizioni per partire, né fatto tirare in mare le navi con l’intenzione di fare vela verso casa; ciò che risulta è, invece, che, disinvoltamente, disdegna di dire la verità. Questa la ragione, Ippia, per cui fin dal principio ti ho posto delle domande, non riuscendo a rendermi conto quale di questi due uomini il poeta abbia rappresentato come il migliore, e pensando [e] che ambedue fossero perfetti e difficile distinguere quale fosse migliore per falsità, veracità, ed altre virtù. Anche in questo ambedue sembrerebbero quasi uguali.

XIII. IPP. No, Socrate, è che tu non consideri bene la questione. E’ vero, Achille mentisce, ma risulta ch’egli ha detto il falso non di proposito, bensì involontariamente, perché costretto a rimanere a causa di un imprevedibile rovescio dell’esercito, per portare il suo aiuto. Quando, invece, Ulisse mentisce, lo fa volontariamente e di proposito. SOCR. Carissimo Ippia, ti prendi giuoco di me: [371a] anche tu imiti Ulisse! IPP. Ma no, Socrate! E, poi, in cosa, e con quale scopo? SOCR. Mi dici che Achille afferma il falso non di proposito, mentre, a seconda di come l’ha rappresentato Omero, era talmente impostore e tanto di proposito era sfacciatamente imbroglione da manifestare di sentirsi così superiore ad Ulisse nel fare in modo che Ulisse non si accorgesse delle sue vanterie che, in presenza di lui, osò dire il contrario di quello che aveva detto prima, senza che Ulisse se ne accorgesse. Ad ogni modo non v’è nulla nella risposta di Ulisse da cui appaia ch’egli si sia [b] accorto che Achille mentiva. IPP. Ma, Socrate, come puoi sostenere questo? SOCR. Non sai che Achille, dopo aver detto ad Ulisse che avrebbe preso il mare allo spuntar del giorno, si rivolge ad Aiace non dichiarando più di partire, ma dicendo altro? IPP. E dove? SOCR. Là dove esclama:

non prima mi darò pensiero della cruenta guerra,

[c] non prima che il figlio del saggio Priamo, il divino Ettore,

alle tende e alle navi giunga dei Mirmidoni,

per uccider gli Argivi, per dare fuoco alle navi.

Dinanzi alla mia tenda, dinanzi alla mia nera nave,

Ettore saprò fermare, sia pur egli tutto ardente di lotta.

[d] Tu, dunque, Ippia, credi proprio che il figlio di Tetide, lui, educato dal sapientissimo Chirone, fosse tanto smemorato che, dopo aver poco prima ingiuriato con il più feroce insulto gl’impostori, sùbito dopo dica ad Ulisse d’essere pronto a mettersi in mare, mentre, poi, ad Aiace dice di voler restare? Non pensi, piuttosto, che lo abbia fatto col preciso proposito d’ingannare e convinto che Ulisse fosse un rimbambito, sì da credere di poterlo prendere in giro con simili inganni e menzogne?

XIV. IPP. No, Socrate, mi sembra proprio di no! Io [e] credo anzi che abbia detto le stesse cose, spinto da una sua certa benevolenza, in un modo ad Aiace, in altro ad Ulisse. Ulisse, invece, sia che dica il vero sia che dica il falso, lo fa sempre con il proposito d’ingannare. SOCR. Ulisse, dunque, sembra esser migliore di Achille. IPP. Ma no, assolutamente no, Socrate! SOCR. E che? Non abbiamo concluso poco fa che coloro che dicono il falso volontariamente sono migliori di chi dice il falso involontariamente? IPP. Ma come, Socrate, chi commette in-[372a] giustizie, chi trama insidie, chi opera volontariamente il male, dovrebbe esser migliore di chi fa tutto questo senza volerlo? Non è già per tale gente una notevole scusante avere commesso ingiustizia, avere detto il falso, aver fatto un qualsivoglia altro delitto, senza saperlo? Anche le leggi sono molto più severe nei confronti di chi commette cattive azioni e di chi inganna volontariamente, che non nei confronti di chi faccia tutto questo involontariamente.

XV. SOCR. Vedi, Ippia, che dico la verità, quando af-[b] fermo che sono insistente nell’interrogare coloro che sanno qualcosa? Ma c’è pericolo ch’io possegga solo questo di buono, e che per il resto valga ben poco, se non riesco mai a centrare un argomento e non so come davvero stanno le cose. E sufficiente prova ne sia che, quando mi trovo con uno di voi, famosi per il vostro sapere, e del cui sapere sono testimoni i Greci tutti, sembra ch’io non sappia nulla: in realtà, direi, in nulla io la penso come voi. Quale maggiore prova d’ignoranza si può avere, se non quando [c] uno è sempre in disaccordo con chi sa? Ma una meravigliosa dote posseggo, che mi salva: non mi vergogno d’imparare; anzi, domando, interrogo e gratissimo sono a chi mi risponde, e mai a qualcuno ho negato la mia riconoscenza. Mai, difatti, ho negato di avere appreso qualcosa, sostenendo d’esserci arrivato da me e dando ad intendere che sia una mia scoperta. Io celebro, anzi, pubblicamente, come uomo di sapienza chi mi abbia insegnato, rivelando ciò che da lui ho appreso. Certo, anche ora non sono d’ac-[d] cordo con te, ma la penso in maniera diametralmente opposta. So bene che ciò accade per colpa mia - anche questa volta -, perché sono fatto così, per non dire di me qualcosa di peggio. Dunque, Ippia, a me sembra esattamente il contrario di quel che tu dici: coloro che danneggiano gli altri, commettono ingiustizie nei loro confronti, mentono, ingannano, errano, insomma, e lo fanno di propria volontà, non involontariamente, ebbene costoro mi sembrano migliori di quelli che fanno tutto ciò senza volerlo. Talvolta, certo, mi sembra anche il contrario e oscillo tra le varie tesi, evidentemente perché non riesco [e] a capire. Ora, invece, sono còlto come da una forma di delirio, per cui sono convinto che quelli che errano volontariamente sono, in certo qual modo, migliori di chi erra involontariamente. Accuso i discorsi di sopra di essere stati causa di questa mia specie di morbo, per cui adesso chi compie involontariamente quelle cattive azioni mi sembra peggiore di chi le compie volontariamente. Tu, dunque, fammi un favore, non rifiutarti di guarire la mia [373a] anima, ché mi faresti un bene assai più grande liberandomi l’anima dall’ignoranza che non il corpo da una malattia. Ad ogni modo ti avverto che, se hai intenzione di fare un lungo discorso, non riuscirai a guarirmi - non saprei seguirti -; se vorrai, invece, rispondere alle mie domande, come poco fa, mi sarai di grande giovamento, e, penso, neppure tu ne sarai danneggiato. A ragione potrei, qui, chiamarti in aiuto, figlio di Apemanto: sei tu ad avermi spinto a discutere con Ippia, e so ora Ippia non vuole rispondermi, pregalo per me. EUD. Ma, Socrate, credo che Ippia non abbia affatto bisogno della nostra [b] preghiera: fin dal principio egli non ha detto questo; ha dichiarato, anzi, che non avrebbe evitato le domande di nessuno. E’ vero, Ippia? Non ti sei espresso proprio così? IPP. Sì! Ma Socrate, Eudico mio, mette sempre scompiglio nei discorsi e sembra quasi lo faccia per malignità. SOCR. Ottimo Ippia, ma io non lo faccio di proposito - abile e bravo sarei, secondo il tuo ragionamento! -, ma involontariamente; perdonami dunque! tu stesso hai detto che dobbiamo perdonare chi fa il male involontariamente. [c] EUD. Non fare altrimenti, Ippia, e, sia per riguardo verso di noi, sia tenendo presenti le tue precedenti parole, rispondi a quello che Socrate ti domanderà. IPP. Sì, risponderò, ma proprio perché tu me ne preghi! Chiedi pure quello che vuoi.

XVI. SOCR. Ebbene, Ippia, desidero sul serio esaminare a fondo la questione di cui abbiamo discusso finora, il problema cioè se siano migliori quelli che sbagliano volontariamente, o quelli che, invece, sbagliano involontariamente. E questa, credo, sia per la nostra indagine, la migliore maniera di procedere. Dimmi: c’è qualcuno che chiami [d] buon corridore? IPP. Secondo me, sì! SOCR. E cattivo? IPP. Sì. SOCR. E non è buon corridore chi corre bene, cattivo corridore chi corre malamente? IPP. Sì. SOCR. Chi, dunque, corre lentamente corre male e chi velocemente corre bene? IPP. Sì. SOCR. E allora, nella corsa e nel correre, la velocità è un bene e la lentezza un male? IPP. E come potrebbe essere altrimenti? SOCR. Chi, dunque, è miglior corridore, chi corre lentamente perché così vuole, o chi corre lentamente senza volerlo? IPP. Chi così corre di propria volontà. SOCR. Ma il correre non è, in un certo qual modo, un agire? IPP. Sì, è un modo di agire. SOCR. E se è un agire, non è [e] anche un operare qualcosa? IPP. Sì. SOCR. Dunque, chi corre male eseguisce, relativamente al correre, una cattiva e disonorevole opera? IPP. Senza dubbio cattiva: come potrebbe essere altrimenti? SOCR. E corre male chi corre con lentezza? IPP. Sì. SOCR. Il buon corridore, dunque, fa volontariamente questa cattiva opera; mentre il cattivo corridore la fa senza volere? IPP. Sembra di sì. SOCR. Nella corsa, dunque, chi fa male senza volerlo [374a] è peggiore di chi opera male volontariamente? IPP. Nella corsa, sì. SOCR. E nella lotta? E’ miglior lottatore chi cade volontariamente o chi cade involontariamente? IPP. Chi cade volontariamente, a quanto sembra. SOCR. E nella lotta è peggiore e più brutto cadere o atterrare? IPP. Cadere. SOCR. Anche nella lotta, allora, chi opera il male e turpe cosa, di propria volontà, è migliore di chi lo fa involontariamente. IPP. Sembrerebbe. SOCR. E in ogni altro tipo di esercizio fisico non accade lo stesso? Non è forse chi sia fisicamente migliore che ha la possibilità di operare in entrambi i modi, sia da forte sia da de-[b] bole, sia facendo cose vergognose sia cose belle? Qualora, dunque, si facciano male gli esercizi fisici, chi è fisicamente migliore li fa male di propria volontà, mentre chi è peggiore involontariamente? IPP. Anche relativamente alla forza fisica sembra proprio così! SOCR. E relativamente ad un bel portamento, Ippia? Non è proprio di un fisico in condizioni migliori assumere di propria volontà atteggiamenti indecorosi e brutti, mentre di un corpo malandato prendere tali atteggiamenti involontariamente? Non ti sembra? IPP. Sì. SOCR. Ma allora, anche un portamento sgraziato, se è dovuto alla volontà, è indice [c] di una virtù del corpo, mentre, se involontario, di un vizio! IPP. Sembra. SOCR. E della voce, che dici? E’ migliore la voce di chi stona volontariamente, o quella di chi stona senza volerlo? IPP. Quella che stona volontariamente. SOCR. E la voce che stona senza volerlo è una voce peggiore? IPP. Sì. SOCR. Preferiresti avere buone o cattive qualità? IPP. Buone. SOCR. Preferiresti avere piedi che zoppicano anche quando non vuoi, o che zoppicano a tua volontà? IPP. Che zoppicano quando voglio. [d] SOCR. Ma lo zoppicare non è forse un difetto, non è forse una brutta cosa? IPP. Sì. SOCR. Ebbene, la miopia non è un difetto degli occhi? IPP. Sì. SOCR. E quali occhi vorresti avere, di quale tipo vorresti essere provvisto? Di occhi con i quali vedere solo da vicino e male qualora tu lo voglia, o di occhi con i quali vedere male anche se non vuoi? IPP. Di occhi con cui vedere a mia volontà. SOCR. Tu pensi, dunque, che siano migliori quelle parti di te stesso che funzionano male solo che tu lo voglia, o quelle che funzionano male indipendentemente dal volere? IPP. In questo genere di cose, certo! SOCR. Lo stesso discorso, dunque, si può ripetere per tutti gli organi, orecchi, naso, bocca, qualsiasi altro organo di senso, e cioè che quegli organi che funzionano male indipendentemente dalla volontà non merita il conto che siano posseduti in quanto [e] difettosi, mentre quelli che funzionano male quando si vuole, merita il conto possederli in quanto buoni. IPP. Sembra anche a me!

XVII. SOCR. Ancora, di quali strumenti è migliore l’impiego? E’ meglio possedere strumenti con cui si lavora male volontariamente o strumenti con cui si lavora male senza volere? Ad esempio, è migliore il timone con cui si governa male la nave involontariamente, o il timone con cui si dirige la nave a propria volontà? IPP. Quest’ultimo! SOCR. E non si deve ripetere lo stesso dell’arco, della lira, [375a] del flauto e di tutti gli altri strumenti? IPP. Vero! SOCR. Ancora: è meglio possedere un cavallo di natura tale da poterlo cavalcare male volontariamente, o uno da cavalcarlo male anche se non si vuole? IPP. Meglio il cavallo con cui cavalcare male quando si voglia. SOCR. Perché è un cavallo migliore! IPP. Sì. SOCR. Ma allora, con un cavallo la cui natura sia migliore si potranno compiere male di propria volontà gli esercizi equestri, mentre con un cavallo di cattiva natura si compiranno male involontariamente? IPP. Esattamente. SOCR. E lo stesso si dovrà ripetere anche del cane, di tutti gli altri animali? IPP. Sì. SOCR. Ancora: è meglio avere un arciere di natura tale da sbagliare volontariamente la mira, o un arciere che [b] fallisce il bersaglio senza volerlo? IPP. Un arciere che fallisce volontariamente. SOCR. Dunque, anche nel sapere tirare d’arco, migliore è l’anima che fallisce di propria volontà? IPP. Sì. SOCR. Ma, dunque, un’anima che involontariamente erra è peggiore di un’anima che erra volendo? IPP. Nel saper tirare d’arco, sì. SOCR. E nella medicina? Non ha una migliore anima di medico chi di proposito cura male i corpi? IPP. Sì. SOCR. Anche in medicina, dunque, chi cura intenzionalmente male è migliore di chi lo fa involontariamente. IPP. Migliore, sì! SOCR. E nell’arte di suonar la cetra ed in quella di suonar [c] la tibia, in tutte le altre arti e scienze, non è migliore l’anima che opera male, vergognosamente, e pecca volontariamente, mentre peggiore è l’anima che fa tutto questo anche contro la propria volontà? IPP. Sembra. SOCR. Preferiremmo, allora, possedere servi la cui anima erra e si comporta male volontariamente, anziché senza volerlo, perché sarebbero, appunto per questo, migliori in quelle tali arti? IPP. Sì. SOCR. Ebbene, anche riguardo alla stessa nostra anima, non vorremmo possederla quanto migliore è possibile? IPP. Sì. SOCR. E allora, se l’anima opera [d] male ed erra volontariamente, non è migliore che se opera ed erra involontariamente? IPP. Eppure, Socrate, sarebbe stranissimo se coloro che di propria volontà commettono ingiustizia fossero migliori di coloro che sono ingiusti involontariamente. SOCR. Ma proprio questo risulta da quanto è stato detto. IPP. Per me, no!

XVIII. SOCR. Eppure, Ippia, avrei proprio creduto che anche a te risultasse così. Comunque, rispondimi di nuovo: la giustizia è una capacità [dùnamis], una scienza, o l’una e l’altra cosa insieme? Oppure non è necessario che sia una di queste due? IPP. Sì. SOCR. E allora, se la [e] giustizia è una capacità dell’anima, l’anima che ha maggiore capacità è la più giusta? Ché, ottimo amico, migliore ci è risultata una simile anima. IPP. Così è risultato. SOCR. E se la giustizia è una scienza non è più giusta l’anima più sapiente, e più ingiusta quella più ignorante? IPP. Sì. SOCR. E se è capacità e scienza? Non è forse più giusta l’anima che le possiede entrambe, la capacità e la scienza, mentre più ingiusta è l’anima più ignorante? Non è fatale che sia così? IPP. Sembra. SOCR. L’anima, dunque, maggiormente dotata e più sapiente non è risultato essere anche migliore, e maggiormente capace di operare in entrambi i sensi, cioè tanto in bene quanto in male, [376a] in ogni sua attività? IPP. Sì. SOCR. Quando, dunque, una simile anima opera il male, lo compie volontariamente, per capacità e per arte: e questo, la capacità e l’arte, sono opera della giustizia, o entrambe, o l’una delle due. IPP. Sembrerebbe. SOCR. D’altra parte, commettere ingiustizia è operare male, praticare la giustizia è agire bene. IPP. Sì. SOCR. E allora, l’anima maggiormente dotata e migliore, qualora sia ingiusta commetterà ingiustizia volontariamente, mentre un’anima peggiore la commetterà involontariamente? IPP. Sembra. SOCR. E non è uomo [b] buono chi ha una buona anima, cattivo chi l’ha cattiva? IPP. Sì. SOCR. Ma, allora, è di un uomo buono commettere ingiustizia volontariamente e di uno cattivo involontariamente, dal momento che virtuoso è chi possiede un’anima buona. IPP. Senza dubbio ha un’anima buona. SOCR. Dunque chi volontariamente erra e di propria volontà sì comporta vergognosamente e ingiustamente, un simile uomo, Ippia, dato ch’esista, non può essere altro che l’uomo buono. IPP. Ma Socrate, è impossibile essere d’accordo con te su questo. SOCR. Neppure io so esserlo con me, Ippia! solo che ora così dobbiamo necessariamente con-[c] cludere sul filo del nostro ragionamento. Per altro, come da un pezzo vo dicendo, io in questi argomenti oscillo in sù e in giù, e non sono mai della stessa opinione. E non c’è da stupirsi affatto che io, o altro incompetente, sia incerto. Ma se anche voi, i sapienti, sarete incerti, anche per noi questa è, oramai, una terribile situazione, se neppure ricorrendo a voi riusciremo a liberarci dal nostro oscillare.