FEDONE
Sommario

 Fedone racconta ad Echecrate le ultime ore di Socrate, alle quali fu presente di persona. Per quale motivo la morte avvenne tanto tempo dopo la condanna (I 57a-58c). Sentimenti contrastanti di Fedone al cospetto di Socrate in procinto di morire. Quali amici erano presenti in quel momento (II 58c-59c). Prima parte: il giorno destinato alla morte gli amici si ritrovano per tempo per andare da Socrate, il quale, al loro arrivo, congeda rapidamente Santippe. Socrate, liberato dalle catene, fa alcune considerazioni sul legame che sempre tiene uniti dolore e piacere (III 59c-60c). Le poesie composte da Socrate in obbedienza ad un sogno che gli ordinava di "comporre ed esercitare musica" (IV 60c-61b). L’atteggiamento del filosofo di fronte alla morte; l’illiceità del suicidio. Su questo tema Socrate decide di intrattenersi con gli amici fino al momento della morte (V 61b-e). Gli uomini sono proprietà degli dèi e non hanno perciò diritto di uccidersi (VI 61e-62c). Obbiezione di Cebete: se questo è vero, come è possibile allora che il filosofo desideri di morire, cioè di sottrarsi alla signoria di chi è migliore di lui? L’obbiezione è condivisa da Simmia (VII 62c-63b). Morire, rispondere Socrate, è andare presso divinità savie e buone: questa è la certezza, o almeno la speranza, che spinge il filosofo a desiderare la morte. Simmia, a nome degli altri, invita Socrate a rendere plausibile questa certezza. Intervento di Critone (VIII 63b-64a). La morte è separazione dell'anima dal corpo; il filosofo non si cura per nulla del corpo, né dei suoi piaceri (IX 64a-65a). La conquista della perfetta sapienza è opera dell'anima e non del corpo, che anzi costituisce impedimento; anche per questo aspetto, quindi, il filosofo dispregia il corpo. La verità assoluta, la realtà intelligibile, non si scorge con gli occhi del corpo, ma con il pensiero nella sua purezza (X 65a-66a). La vera sapienza è perciò solo di chi è riuscito a distaccarsi dal suo corpo e dai suoi impedimenti sensibili (XI 66a-67b). La morte come purificazione dell'anima dal corpo. La vita del filosofo non è altro che preparazione ed esercizio alla morte, perché solo dopo la morte la sua anima potrà attingere la vera sapienza (XII 67b-68b). Solo il filosofo è veramente coraggioso e temperante, mentre gli altri lo sono - e qui sta il paradosso - solo per paura o per intemperanza. Il problema della vera virtù: essa sussiste solo se accompagnata dal vero sapere e purificata da tutto il resto (XIII 68b-69e). Seconda parte: in seguito ad un intervento di Cebete, la discussione (XIV 69e-70c). Prima dimostrazione: l'argomento dei contrari. Tutte le cose si generano dal loro contrario, mediante un doppio processo generativo, onde da un essere si passa all'altro e da questo a quello (XV 70c-71b). Ma alla vita è contraria la morte: quindi i vivi si generano dai morti e i morti dai vivi, mediante il duplice processo generativo del morire e del rivivere (XVI 71b-72a). Necessità di questo doppio processo generativo: non c’è solo il morire, ma anche il rivivere, e il rivivere non sarebbe possibile se le anime dei morti non continuassero ad esistere nell’Ade per poi tornare in questo mondo (XVII 72a-e). Seconda dimostrazione: l’argomento della reminiscenza. Se conoscere è ricordare, bisogna ammettere che l'anima preesista al corpo e che nella vita precedente abbia appreso ciò che in questa vita ricorda. Necessità di richiamare la dimostrazione della dottrina del conoscere come ricordare (XVIII 72e-74a). La reminiscenza può accadere o per via di somiglianza o per via di dissomiglianza, ed è proprio in questo modo che la visione delle cose sensibili ci richiama conoscenze che non si sono generate da quella visione ma che anzi da questa sono presupposte. Perciò, già prima di nascere, l’anima doveva possedere tali conoscenze (XIX 74a-75c). Con la nascita l’anima dimentica tali conoscenze e poi via via torna a ricordarle (XX 75c-76a). Quindi l’anima preesiste alla nascita (XXI 76a-d). La preesistenza dell’anima è strettamente connessa all’esistenza delle idee in sé, e viceversa (XXII 76d-77b). La preesistenza dell’anima, però, obbietta Simmia, non prova che essa continui ad esistere anche dopo la morte. Tale prova, risponde Socrate, si può raggiungere congiungendo l’argomento della reminiscenza con quello dei contrari (XXIII 77b-d). E’ necessario, tuttavia, approfondire la discussione (XXIV 77d-78b). Terza dimostrazione: solo ciò che è composto si può decomporre. Distinzione tra realtà stabili, sempre identiche a se stesse, percepibili solo con il pensiero, e realtà in continuo mutamento, percepibili con i sensi (XXV 78b-79a). Parallela distinzione tra anima e corpo: l’anima è simile alle realtà invisibili ed il corpo a quelle visibili (XXVI 79a-c). Ancora su questo parallelismo (XXVII 79c-e). Conclusione su questo punto (XXVIII 79e-80b). Ma se neppure il corpo si dissolve immediatamente dopo la morte, tanto più a lungo durerà l’anima, simile essa è alle realtà semplici e immutabili. Il felice destino delle anime pure (XXIX 80b-81a). Il triste destino delle anime che furono troppo attaccate ai loro corpi e non seppero elevarsi all’invisibile (XXX 81a-e). Le diverse reincarnazioni delle anime pure e di quelle impure (XXXI 81e-82b). Solo il filosofo può avvicinarsi alla natura degli dei (XXXII 82b-d). La funzione della filosofia: tenere l’anima lontana dal corpo, dai suoi piaceri e dai suoi desideri (XXXIII 82d-83e). Queste convinzioni rendono l’anima serena e fiduciosa verso la morte (XXXIV 83e-84b). Terza parte. Segue una pausa nella discussione. Simmia e Cebete continuano, apportati, a discutere; Socrate allora li esorta ad esporre i loro dubbi: anche lui, come i cigni, vuoi fare prima di morire i suoi discorsi più belli. Simmia non si dichiara soddisfatto del tutto dei discorsi fin qui fatti (XXXV 84b-85d). L’obbiezione di Simmia: tutto quel che si è detto potrebbe essere accettato anche da chi ritenesse che l’anima non è altro che l’armonia degli elementi corporei. Ma se così fosse essa svanirebbe istantaneamente al momento della morte, come l’accordo musicale quando si rompe lo strumento (XXXVI 85d-86d). Socrate, prima di rispondere, chiede di sentire anche l’obbiezione di Cebete, che è la seguente: d'accordo sulla preesistenza dell’anima, d’accordo anche sul fatto che l’anima è più duratura del corpo; ma se l'anima cambia molti corpi non potrebbe darsi che essa muoia durante l’ultima incarnazione? (XXXVII 86d-88b). Pausa nel racconto di Fedone. Anche Echecrate è smarrito da queste obbiezioni. Fedone torna a narrare come Socrate rincuorasse i suoi amici e riprendesse la discussione (XXXVIII 88b-89c). Se un discorso che si riteneva vero appare in séguito incerto ciò non deve indurre alla "misologia" (XXXIX 89c-90d). Disposizione d’animo con cui Socrate riprende la discussione: non si deve voler aver ragione ad ogni costo (XL 90d-91c). Socrate richiama le obbiezioni di Simmia e Cebete e il loro consenso sulla dottrina del conoscere come ricordare. Socrate confuta l’obbiezione di Simmia: c’è contrasto - osserva Socrate e Simmia riconosce - tra quest’ultima dottrina e quella dell'anima armonia e Simmia ammette che, tra le due, la prima è certamente meglio fondata (XLI 91c-92e). Se l’anima fosse armonia dovrebbe conseguirne che tutte le anime sono eguali, che non è possibile distinguere le anime buone da quelle cattive e che addirittura è impossibile che vi siano anime cattive (XLII 92e-94b). Se l'anima fosse armonia del corpo, essa non potrebbe contrastare - come di fatto fa - ai desideri del corpo, ma solo assecondarli. L’anima, dunque, non è armonia del corpo (XLIII 94b-95a). Socrate risponde a Cebete: comincia con il riepilogare la sua argomentazione (XLIV 95a-e). Per rispondere all’obbiezione di Cebete, bisogna veder chiara qual è la causa della generazione e della corruzione. Socrate ricorda i suoi interessi giovanili per la scienza della natura e come questa, invece di risolvere i suoi dubbi, li accrescesse (XLV 95e-97b). Entusiasmo di Socrate per le dottrine di Anassagora: se tutte le cose sono ordinate da una mente, esse sono ordinate in vista del meglio e in ciò avrebbero potuto trovare la loro vera spiegazione (XLVI 97b-98b). Disillusione di Socrate per la dottrina di Anassagora: anche in questa le cause sono alla fine individuate in quegli elementi, che già prima non lo avevano soddisfatto (XLVII 98b-99d). Socrate abbandona la scienza della natura e si volge ai "logoi" (XLVIII 99d-100a). La vera causa è l'idea o realtà in sé, di cui partecipano le realtà sensibili. Il metodo ipotetico e la ricerca delle cause (XLIX 100a-102a). Le realtà in sé non ammettono, in se stesse, il loro contrario (L 102a-103a). Obbiezione di uno dei presenti: come si concilia questo con quella generazione da contrari di cui si parlava prima. Socrate distingue i contrari in sé dalle cose che hanno in sé i contrari: ma il contrario sarà contrario di sé medesimo (LI 103a-c). Anche tra le cose, tuttavia, alcune partecipano di uno solo dei contrari (la neve del freddo, il fuoco del caldo, i numeri dispari del dispari, ecc.) e pur non essendo contrarie di altre cose (per es. il tre del due) non possono partecipare dell’idea contraria di cui queste partecipano (per es. il tre del pari) (LII 103c-104c). Nuova enunciazione generale di questo principio (LIII 104c-105b). Sua applicazione al problema dell’anima: l’anima sempre arreca vita e quindi essa non può accogliere il contrario di questa: la morte (LIV 105b-d). L’anima dunque è immortale e imperitura (LV 105d-106d). Considerazioni di Socrate, Cebete e Simmia sulla fondatezza di quanto detto (LVI 106d-107b). Conseguenze morali: bisogna aver cura della propria anima, se essa è immortale, perché diverso è il destino delle anime dei buoni e di quelle dei cattivi (LVII 107b-108c). Il mito "geografico" del destino delle anime : la terra, sferica, è perfettamente in equilibrio al centro dell’universo. Quella che noi chiamiamo terra e che abitiamo è soltanto una parte interna, come una grotta sovrastata dall'aria: siamo in una situazione analoga a chi abitasse le profondità marine e ritenesse che la superficie delle acque è il cielo (LVIII 108c-110b). Com’è la terra al di sopra della superficie dell’aria e quali sono le condizioni di vita per gli uomini che l’abitano (LIX 110b-111c). Le cavità della terra e il Tartaro. Flusso e riflusso nel Tartaro dell’aria e dell’acqua (LX 111c-112e). I quattro fiumi principali: l’Oceano; l’Acheronte, che sfocia nella palude Acherusiade dove si raccolgono le anime dei morti; il Piriflegetonte e il Cocito (LXI 112e-113c). Il giudizio dei morti e le diverse pene per l'espiazione delle diverse colpe commesse in vita (LXII 113c-114c). Carattere di verosimiglianza e utilità morale di questo mito (LXIII 114c-115a). Ultime raccomandazioni di Socrate: aver cura di se stessi. Ed in particolare a Critone: ora sì che Socrate fuggirà, perché il vero Socrate non è quello che tra poco vedranno cadavere, ma quello che andrà tra i beati (LXIV 115a-116a). Gli ultimi istanti di Socrate (LXV-LXVII 116a-118a).

TESTO

 [57a] I. ECHECRATE. Proprio tu c’eri, o Fedone, con Socrate, quel giorno che bevve il farmaco nel carcere; oppure ne udisti da qualcun altro? FEDONE. Proprio io c’ero, o Echècrate. ECH. E allora; che disse l’amico nostro prima di morire? e come morì? Volentieri ascolterei. Anche perché de’ miei concittadini di Fliunte nessuno c’è che sia solito di questi giorni recarsi ad Atene; e d’altra parte è gran tempo che da Atene non è giunto più qui alcun forestiero il quale [b] fosse in grado di raccontarci esattamente come andarono le cose: all’infuori di questo, che egli bevve il veleno e morì; e di tutto il rimanente non aveva che dire. FED. [58a] Dunque neanche del giudizio avete saputo in che maniera andò? ECH. Di questo sì, ce ne riferì un tale; e anzi noi ci meravigliavamo che, mentre il giudizio era già avvenuto da un pezzo, solo dopo molto tempo com’è chiaro, egli morì. Come fu codesto, o Fedone? FED. Una combinazione fu, o Echècrate. Si dette che proprio il giorno prima del giudizio fosse stata incoronata la poppa della nave che gli Ateniesi sogliono mandare a Delo. ECH. E che nave è questa? FED. Questa è la nave, dicono gli Ateniesi, in cui un giorno navigò Tèseo conducendo a Creta quelle "sette coppie" di vergini e di fanciulli; e [b] salvò costoro ed egli stesso fu salvo. E però gli Ateniesi, come si dice, fecero voto allora ad Apolline che, se quei giovani fossero campati, avrebbero mandata ogni anno un’ambasceria sacra a Delo; e questa è appunto l’ambasceria che sempre, anche oggi, da allora, gli Ateniesi mandano tutti gli anni al dio. Orbene, da quando la solennità incomincia, è legge per gli Ateniesi che in questo periodo di tempo la città si conservi pura, e che quindi nessuno possa essere in giudizio pubblicomandato a morte se prima non sia giunta la nave a Delo e poi di nuovo ritornata ad Atene. Il che richiede talvolta molto tempo, quanto càpitino vènti [c] contrari che la trattengano. E il principio della solennità è dal momento in cui il sacerdote di Apollo incorona la poppa della nave. E questo, come dicevo, accadde proprio il giorno innanzi del giudizio. Ecco perché assai lungo tempo trascorse a Socrate nel carcere tra il giudizio e la morte.

II. ECH. E il giorno proprio della morte che ci fu, o Fedone? che cosa fu detto, che cosa fu fatto, e chi c’era dei discepoli con lui? o forse non permisero gli Undici che ci fosse alcuno, ed egli moriva solo e lontano dagli [d] amici? FED. No, ce n’erano amici; anzi, parecchi. ECH. Vedi dunque, tutto questo, di raccontarcelo più esattamente che puoi: salvo che tu non abbia qualche cosa da fare. FED. Non ho nulla da fare, e mi proverò a raccontarvi. E poi, ricordarmi di Socrate, sia che ne parli io, sia che ne oda parlare da altri, è sempre per me la più dolce cosa fra tutte. ECH. Ebbene, o Fedone, anche quelli che sono qui per ascoltarti sono come te. Vedi dunque di narrare ogni cosa quanto più puoi minutamente. FED. In [e] verità io non so che strani sentimenti ebbi a provare trovandomi allora con Socrate. Ché non già, sebbene fossi presente alla morte di tale amico, mi entrò nell’anima senso alcuno di commiserazione: felice egli era, o Echècrate, e ne’ modi e nelle parole, tanto intrepidamente e nobilmente morì; e mi dava immagine come di uno che pur andando all’Ade, non vi andasse senza un divino fato, e che, anche colà giunto, egli sarebbe stato felice come [59a] nessun altro mai. E perciò, ti dicevo, nemmeno l’ombra mi sfiorò l’animo di un senso di misericordia, come pure sarebbe sembrato naturale in chi era presente a una scena così dolorosa; e d’altra parte nemmeno un senso di piacere, per quanto fossimo a ragionare di filosofia secondo la nostra consuetudine, - ché tali erano, anche allora, i nostri ragionamenti: - ma c’era in me una disposizione di spirito veramente singolare, e una non so che inusata mescolanza di piacere e di dolore insieme, al pensiero che colui doveva tra poco morire. E tutti noi che eravamo presenti ci trovavamo su per giù in questa stessa disposizione, ora ridendo e talora piangendo; e uno di noi in modo specialissimo, [b] Apollodoro: tu conosci credo, l’amico e il suo fare. ECH. E come non lo conosco? FED. Costui dunque era del tutto in questa disposizione; e anch’io ero conturbato, e così gli altri. ECH. E chi c’era di presenti, o Fedone? FED. Del luogo c’era, come s’è detto, questo Apollodoro, e c’erano Critobùlo e suo padre, e anche c’erano Ermògene ed Epìgene ed Eschine e Antìstene; c’era poi anche Ctesippo di Peania e Menèsseno e alcuni altri del luogo; Platone, credo, era ammalato. ECH. E forestieri ce n’era? [c] FED. Sì, c’era Simmia di Tebe e Cebète e Fedonda, e da Mègara erano venuti Euclìde e Terpsione. ECH. E Aristippo e Cleòmbroto c’erano? FED. Non c’erano: si diceva fossero in Egina. ECH. E c’era nessun altro? FED. A un di presso questi mi pare fossero presenti. ECH. Ebbene, quali ragionamenti tu dici che si fecero?

III. FED. Mi proverò a raccontarti distesamente ogni [d] cosa fino dal principio. Sempre, anche nei giorni precedenti, noi eravamo soliti, e io e gli altri, di recarci da Socrate; e ci radunavamo per tempo in quel tribunale dove appunto s’era svolta la causa, che era vicino alla prigione. E quivi aspettavamo ogni giorno, conversando fra noi, che il carcere si aprisse; perché non si apriva molto presto; e, quando s’era aperto, entravamo da Socrate, e il più delle volte passavamo la giornata con lui. E così anche in quel giorno, naturalmente, ci radunammo, ma un poco più presto. Perché il giorno innanzi, quando uscimmo la sera [e] dal carcere, ci dissero che la nave da Delo era arrivata. E noi, allora, ci passammo la parola di ritrovarci il dì dopo al luogo solito, molto per tempo. E così fu; e il carceriere, quello che ci soleva introdurre, venuto fuori del carcere, ci disse di aspettare, e di non passare dentro se prima non ce ne avesse avvisato egli stesso. "Gli Undici, disse, stanno sciogliendo Socrate, e dànno gli ordini opportuni, perché oggi dovrà morire". Stette un poco di tempo, e poi [60a] tornò e ci disse di entrare. E noi entrammo e trovammo Socrate che era stato sciolto allora allora; e c’era Santippe, tu la conosci, che aveva seco il figlioletto di lui più piccolo, e gli sedeva accanto. Come ci vide, Santippe ruppe in grida e lamenti e si mise a dire di quelle parole che sogliono le donne: "O Socrate, ecco, l’ultima volta è questa che ti parleranno gli amici tuoi e tu a loro...". E Socrate, vòltosi a Critone, "O Critone, disse, qualcuno la meni via di qui, la riconduca a casa". E mentre alcuni dei famigliari di [b] Critone conducevano via colei che tuttavia gridava e si percuoteva, Socrate, che già erasi levato a sedere sul letto, piegò a sé la gamba e si diede a stropicciarsela fortemente con la mano; e così, stropicciandola, "Che strana cosa, disse, o amici, sembra essere questo che gli uomini chiamano piacere! e che meravigliosa natura è la sua in relazione a quello che sembra essere il suo contrario, il dolore! Ché tutti due non vogliono trovarsi insieme nell’uomo, ma poi, se taluno insegua l’un d’essi e lo prenda, ecco che costui in certo modo si trova costretto sempre a prendere anche l’altro, come se fossero attaccati a un [c] unico capo, pur essendo due. E a me sembra, disse, che, se a questo caso avesse posto mente Esopo, ne avrebbe composto una favola: come, cioè, volendo il dio riconciliare codesti due esseri in guerra tra loro e non vi riuscendo, legò loro le teste a un medesimo punto; e così, a quello cui càpiti vicino l’uno dei due, ecco che sùbito dopo gli vien dietro anche l’altro. Come appunto sembra che sia seguìto anche a me: ché mentre prima, sotto il peso della catena, c’era nella mia gamba il dolore, ecco che già sento a quello venir dietro il piacere".

IV. E allora Cebète, interrompendo, - Appunto, disse, o Socrate, hai fatto bene a ricordarmelo, perché, a propo-[d] sito delle poesie che tu hai fatto mettendo in versi e in musica le favole di Esopo e il proemio ad Apollo, altri già mi domandarono, e l’altro ieri anche Evèno, con quale intendimento tu, sùbito che venisti qui, ti mettesti a fare di codeste cose, tu che non ne avevi mai fatte prima. Se dunque ti fa piacere che io abbia da rispondere a Evèno quando ancora me ne domanderà, - e so bene che me ne domanderà, - dimmi che cosa gli debbo dire. - E tu digli, o Cebète, rispose, la verità: e cioè che, non per voglia di entrare in gara con lui e nemmeno con le sue poesie [e] - sapevo del resto che non era facile - io mi misi a poetare in codesto modo; ma solo per sperimentare certi miei sogni che cosa volessero dire, e per togliermi dal cuore ogni scrupolo nel caso che proprio questa fosse la musica che mi ordinavano di fare. Perché mi capitava questo: più volte nella vita passata veniva a visitarmi lo stesso sogno, apparendomi ora in uno ora in altro aspetto; e sempre mi ripeteva la stessa cosa: "O Socrate, diceva, componi ed esercita musica". E io, allora, quello che facevo, codesto [61a] appunto credevo che il sogno mi esortasse e mi incitasse a fare; e, alla maniera di coloro che incitano i corridori già in corsa, così anche me il sogno incitasse a fare quello che già facevo, cioè a comporre musica, reputando che la filosofia fosse musica altissima e non altro che musica io esercitassi. Ma ora, dopo che ci fu il giudizio, e la festa del dio impediva che io morissi; dato che fosse questa, nel significato ordinario della parola, la musica che il sogno mi comandava di fare; mi parve non dover disobbedire al sogno, ma appunto fare di questa; e fosse più sicuro e tranquillo non partirmi di qui se non prima di essermi [b] tolto ogni scrupolo componendo poesie e obbedendo al sogno. E così, prima di tutto, feci un inno al dio di cui era allora la festa; e dopo l’inno al dio, pensando che il poeta, se vuol esser poeta, ha da comporre favole e non ragionamenti, e io non ero favoleggiatore, ecco perchéquelle favole che avevo più alla mano e che sapevo a memoria, quelle di Esopo, mi misi a poetare di codeste, le prime che mi vennero in mente.

V. Questo dunque, o Cebète, rispondi ad Evèno; e digli che io lo saluto e che, se è savio, mi venga dietro al [c] più presto. Io me ne vado, pare, quest’oggi. Così vogliono gli Ateniesi. E Simmia: - Che è mai questo, disse, o Socrate, che tu mandi a dire ad Evèno! Già più di una volta io ho avuto occasione di trovarmi con lui; ma in verità, da quello che ho potuto capire, non mi pare proprio che egli abbia nessuna voglia di darti retta. - O come, rispose Socrate, non è filosofo Evèno? - Credo bene, disse Simmia. - E allora non solo Evèno avrà desiderio di seguirmi, ma chiunque altro partecipi degnamente di questo nostro filosofare. Non però, credo, egli farà violenza a se stesso; perché questo, dicono, non è lecito. [d] E così dicendo mise giù le gambe a terra; e così seduto seguitò d’ora innanzi il suo ragionare. E Cebète gli domandò: - Come dici questo, o Socrate, che far violenza a se stessi non è lecito, e d’altra parte che chi è filosofo possa aver desiderio di andar dietro a chi muore? - O come, Cebète, non avete udito tu e Simmia parlare di questi argomenti, voi che siete stati discepoli di Filolao? - Sì, ma niente di preciso, o Socrate. - Anch’io, veramente, solo per averne udito parlo di queste cose; e quello che m’è occorso di udire niente mi impedisce di ridirlo a voi. Anche perché, a chi è sul punto di intra-[e] prendere il suo viaggio per il mondo di là, niente mi pare si addica meglio del meditare e favoleggiare intorno a questo suo viaggio e dimora nel mondo di là, di che natura possiamo pensare che sia. E, del resto, che altro si potrebbe fare in questo frattempo, fino al tramonto del sole?

VI. - E dunque, perché dicono che non è lecito uccidere se stessi, o Socrate? E’ vero che di quel che tu or ora mi domandasti io sentii già ragionare non solo da Filolao quando era con noi ma anche da alcuni altri, e cioè che è cosa che non si deve fare; ma di preciso a codesto proposito non ho mai udito niente da nessuno. - Ebbene, [62a] fatti animo, disse Socrate, e presto potrai udire dell’altro. Se non che, forse, ti potrà far meraviglia che questo sia l’unico, di quanti casi si possono presentare, che non ammetta distinzioni, e non accada mai, come per altre condizioni di vita, il contrario, e cioè che per l’uomo - dico per certi uomini e in certe circostanze - sia meglio morire che vivere; e se c’è di quelli cui è meglio morire, può farti, credo, meraviglia che a costoro sia vietato come cosa empia procurarsi bene da se medesimi e debbano invece aspettare un altro benefattore. E Cebète, lievemente [b] sorridendo, - Per Zeus!, disse nel suo dialetto. - E sì, veramente, disse Socrate, la questione, posta in questo modo, potrebbe parere poco ragionevole; non tanto però, io credo, che qualche ragione non se ne possa dare. E quella parola che si ode pronunciare in certi misteri, che noi uomini siamo come in una specie di carcere, e che quindi non possiamo liberarcene da noi medesimi e tanto meno svignarcela, è, sì, certo, parola di una qualche profondità e non facile a penetrare compiutamente; ma, in ogni modo, almeno questo, o Cebète, mi pare ben detto, che dèi sono coloro che hanno cura di noi e che noi uomini siamo una delle cose in possesso degli dèi. O non ti pare che sia così? - Sì, disse [c] Cebète.- E allora, riprese Socrate, anche tu, se qualcuno di tua proprietà si uccidesse, senza che gli avessi dato mai alcun segno che eri tu a volere che si uccidesse, non ti adireresti con costui, e, se avessi modo di punirlo, non lo puniresti? - Senza dubbio, rispose Cebète. - E dunque, posto questo principio, io non credo sia fuor di ragione che uno non debba uccidere se stesso, se prima Iddio non gli abbia mandata qualche necessità, come quella appunto che ora è sopra di me.

VII. - Sta bene, disse Cebète, questo pare probabile. Ma quello che dicevi or ora, che chi è filosofo possa, così [d] alla leggera, desiderar di morire, questo, o Socrate, mi pare un’assurdità, dato sia ben detto quello appunto che dicevamo ora, che è Iddio che ha cura di noi e che noi siamo cose di Dio. E di fatti, che i più saggi non abbiano a dolersi di uscire da questo servizio divino in cui dominano sopra di loro quelli che sono, fra quanti esistono, i migliori dominatori, gli dèi, non ha fondamento di ragione; né tu vorrai credere che un uomo savio speri di provvedere meglio a se stesso divenendo libero. Solamente uno stolto potrebbe sperar codesto, e credere di dover fuggire dal [e] proprio padrone; e non pensare che anzi dal padrone buono giova non fuggire ma rimanerci insieme il più che si può; e che quindi farebbe cosa insensata se ne fuggisse: e invece ammetterai che chi ha senno avrà desiderio di rimaner sempre presso chi è migliore di lui. Se non che, ragionando in tale modo, mi pare, o Socrate, che si venga a dire proprio il contrario di quello che si diceva poco fa: e cioè che ai saggi convenga dolersi di morire, e agli stolti rallegrarsi. E allora Socrate, udito ciò, parve rallegrarsi [63a] di codesto sottile filosofare di Cebète; e, vòltosi a noi, - Veramente, disse, questo Cebète è sempre in caccia di certe sue argomentazioni e non è mai disposto a lasciarsi persuadere alla prima di quel che uno dica. E Simmia: - Ma in realtà, disse, o Socrate, pare anche a me che, questa volta almeno, qualche cosa di buono ci sia in quel che dice Cebète. A che scopo uomini veramente sapienti fuggirebbero da padroni migliori di loro e così leggermente se ne allontanerebbero? E anche mi pare che Cebète abbia di mira te con le sue parole: te che non mostri nessun rammarico, non solo di abbandonare noi, ma nem-[b] meno così buoni governatori, come tu stesso ammetti che sono gli dèi. - Voi ragionate giusto, disse Socrate; e io credo infatti vogliate dirmi che dinanzi a codesto vostro ragionare bisognerà ch’io mi difenda come in tribunale - Proprio così, disse Simmia.

VIII. - Orsù dunque, diss’egli, che io mi provi a fare dinanzi a voi una difesa più persuasiva che non feci dinanzi ai giudici. Ché se veramente, disse, o Simmia e Cebète, io non credessi di andare anzi tutto da altre divinità e savie e buone, e poi anche da uomini morti migliori di quelli che sono qui, io avrei torto di non rammaricarmi di morire; [c] ma voi sapete bene che io, come ho speranza di andare presso uomini buoni... - su questo, per verità, io sento che non potrei insistere con troppa sicurezza; mentre, invece, di andare presso dèi, padroni assolutamente buoni, voi sapete bene che, se c’è cosa su la quale io possa sentirmi forte e sicuro, è appunto questa. Cosicché, data questa mia speranza, io non ho ragione di rammaricarmi alla pari di chi eguale speranza non abbia; e anzi io sono pieno di fede che per i morti qualche cosa ci sia, e, come anche si dice da tempo, assai migliore per i buoni che per i cattivi. - O che, Socrate, disse Simmia, pensi tu forse di andartene via di qui tenendo solo per te codesta tua persuasione; o vor-[d] rai farne parte anche a noi ? Perché mi pare che codesto sia un bene comune anche a noi; e al tempo stesso sarà la tua difesa, se ti riesca persuaderci di quello che dici. - Bene, mi proverò, disse. Ma prima di tutto vediamo qui questo nostro Critone che cos’è che da un pezzo pare abbia voglia di dire. - Oh, Socrate! disse Critone; niente altro se non che da un pezzo colui che deve darti il farmaco mi sta dicendo che io devo raccomandarti di parlare il meno possibile; perché dice che ci si riscalda a parlare troppo, e che non bisogna predisporre il corpo in codesto modo quando s’ha da prendere il farmaco: se no, [e] dice, qualche volta si è costretti a berne anche due e anche tre volte, chi fa come te. E Socrate: - Lascia andare, disse, colui; e solo pensi a fare quello che deve e a prepararmi di codesto farmaco come se dovesse darmene anche due volte, e, se bisogni, anche tre. - Già potevo bene immaginarmelo questo!, disse Critone. Ma da tanto mi infastidisce! - Lascialo dire, disse. E a voi piuttosto, come dinanzi a miei giudici, io voglio oramai rendere il conto che debbo; e dire come a me sembri naturale che un uomo, il quale abbia realmente spesa nella [64a] filosofia tutta la sua vita, non abbia alcun motivo di timore quando è sul punto di morire, e sia pieno di fede che colà egli troverà beni grandissimi, appena morto. E come la cosa sia così come dico, questo, e Simmia e Cebète, mi proverò ora a dimostrarvi.

IX. Tutti coloro i quali per diritto modo si occupano di filosofia corrono il rischio che resti celato altrui il loro proprio intendimento; il quale è che di niente altro in realtà essi si curano se non di morire e di essere morti. Ora, se questo è vero, sarebbe certamente strano che uno per tutta la vita non avesse l’animo ad altro che alla morte, e poi, quando la morte, com’è naturale, arriva, - che è ciò appunto a cui da tanto tempo aveva posto l’anima e lo studio, - allora se ne rammaricasse. E Simmia, ridendo: [b] - Per Zeus, disse, o Socrate, tu mi hai fatto ridere che proprio non ne avevo nessuna voglia! Perché penso che gli uomini, a udire codesto, crederanno sia molto giusto dire dei filosofi - e massimamente lo diranno i miei compaesani - che in verità coloro che fanno professione di filosofia sono come dei moribondi; né mostrano di ignorare che sono ben meritevoli costoro di patire tal sorte. - E direbbero proprio la verità, o Simmia; solo, non è vero che se ne rendano conto. Infatti non sanno né perché siano come moribondi, né perché siano degni di morte e di quale morte, quelli che sono veramente filosofi. [c] E perciò, disse, ragioniamo fra noi e lasciamo dire la gente. Crediamo che la morte sia qualche cosa? - Certamente, rispose Simmia. - E altra cosa crediamo che ella sia se non separazione dell’anima dal corpo? e che il morire sia questo, da un lato, un distaccarsi il corpo dall’anima, divenuto qualche cosa esso solo per se stesso; dall’altro, un distaccarsi dal corpo l’anima, seguitando a essere essa sola per se stessa? o altra cosa dobbiamo credere che sia la morte, e non questo? - No, ma questo, disse. - E allora considera bene, o amico, se dunque anche tu hai la stessa opinione che ho io. Perché da quello[d] che dirò potremo farci, credo, un’idea più chiara di ciò che stiamo ricercando. Pare a te sia proprio di un vero filosofo darsi pensiero di quei tali che si dicono abitualmente piaceri, come, per esempio, del mangiare e del bere? - No affatto, o Socrate, disse Simmia. - E dei piaceri d’amore? - Nemmeno. - E le altre cure del corpo credi tu che le reputi pregevoli il filosofo? Così, per esempio, acquisto di belle e speciali vesti, di belli e speciali calzari, e gli altri abbellimenti del corpo, credi tu siano cose che il filosofo abbia in pregio o no se non per quel [e] tanto che stretta necessità lo costringa a usarne? - Mi pare che le abbia in dispregio, disse, chi sia filosofo veramente. - In generale dunque non pare a te, disse, che la occupazione di tale uomo non sia rivolta al corpo, e anzi si tenga lontana da esso quanto è possibile, e sia invece rivolta all’anima? - Mi pare. - E dunque anzi tutto è chiaro che il filosofo, in tutte codeste cose sopra [65a] dette, cerca di liberare quanto più può l’anima da ogni comunanza col corpo a differenza degli altri uomini. E’ chiaro. - E’ così, o Simmia, come dicevi, la gente crede che chi non prova piacere di tali cose né in alcun modo vi partecipa, reputi senza pregio la vita, e che anzi abbia come una sua inclinazione a morire chi non si cura minimamente dei piaceri che provengono dal corpo. - Tu dici perfettamente la verità.

X. - E che dici ora, dell’acquisto della perfetta sapienza? è d’impedimento il corpo o no, se si prenda a compagno in tale ricerca? Io penso, per esempio, a questo: [b] hanno qualche verità vista e udito per l’uomo, o è proprio come ci ripetono continuamente anche i poeti, che noi non udiamo e non vediamo niente di preciso? E sì che se proprio questi due, fra i sensi del corpo, non hanno niente né di preciso né di sicuro, tanto meno gli altri; perché tutti gli altri ammetterai che sono più debolidi questi. O non ti pare che sia così? - Ma certo, disse. - E allora quand’è, riprese egli, che l’anima tocca la verità? Che se mediante il corpo ella tenta qualche indagine, è [c] chiaro che da quello è tratta in inganno.- Dici bene. - E dunque non è nel puro ragionamento, se mai in qualche modo, che si rivela all’anima la verità? - Sì. - E l’anima ragiona appunto con la sua migliore purezza quando non la conturba nessuna di cotali sensazioni, né vista né udito né dolore, e nemmeno piacere; ma tutta sola si raccoglie in se stessa dicendo addio al corpo; e, nulla più partecipando del corpo né avendo contatto con esso, intende con ogni suo sforzo alla verità. - E’ così. - Non [d] dunque anche in questa sua ricerca l’anima del filosofo ha in dispregio più di ogni altra cosa il corpo, e fugge da esso, e si sforza anzi di essere tutta sola raccolta in se stessa? - E’ chiaro. - Ancora, o Simmia: diciamo noi di alcuna cosa che è giusta per se medesima, o no? - Lo diciamo di certo. - E anche, diciamo noi di alcuna cosa che è bella per se medesima, e di alcuna che per se medesima è buona? - Certamente. - Orbene, di codeste cose ne hai tu veduta mai alcuna con gli occhi? - Affatto, rispose. - E con altro senso del corpo sei riuscito mai a percepirle? Bada, io intendo dire di tutte le cose, per esempio, della grandezza della sanità della forza e, in una parola, di tutte quante nella loro realtà ultima, [e] cioè, che cosa sia realmente ciascuna di esse; e domando: si scopre in esse coi sensi del corpo la verità assoluta, o invece è così, che solo chi di noi più intensamente e più acutamente si appresti a penetrare col pensiero ogni oggetto di cui faccia ricerca nella sua intima realtà, solo costui andrà più vicino di ogni altro alla conoscenza di codesto oggetto? - Precisamente. - Potrà dunque far questo con purità perfetta chi massimamente si adopri di avvicinarsi a ciascun oggetto col suo solo pensiero, senza né aiutarsi, nel suo meditare, della vista, né trarsi dietro al-[66a] cun altro senso insieme col suo raziocinio; bensì cerchi, valendosi esclusivamente del suo pensiero in se stesso, mondo da ogni impurità, di rintracciare esclusivamente in se stesso, mondo da ogni impurità, ogni oggetto, astraendo, per quanto può, e da occhi e da orecchi e insomma da tutto il corpo, come quello che perturba l’anima e non le permette di acquistare verità e intelligenza quando abbia comunanza con esso. Non è questi, o Simmia, più di ogni altro, colui che potrà cogliere la verità? - Mirabilmente vero, o Socrate, disse Simmia, è codesto che dici.

[b] XI - Dunque, diss’egli, da tutto ciò, deve formarsi necessariamente nei filosofi veri una credenza di questo genere; ond’essi ragioneranno tra loro press’a poco così: "Pare ci sia come un sentiero a guidarci, col raziocinio, nella ricerca; perché, fino a quando abbiamo il corpo e la nostra anima è mescolata e confusa con un male di tal natura, noi non saremo mai capaci di conquistare compiutamente quello che desideriamo e che diciamo essere la verità. Infinite sono le inquietudini che il corpo ci procura [c] per le necessità del nutrimento; e poi ci sono le malattie che, se ci càpitano addosso, ci impediscono la ricerca della verità; e poi esso ci riempie di amori e passioni e paure e immaginazioni di ogni genere, e insomma di tante vacuità e frivolezza che veramente, finché siamo sotto il suo dominio, neppure ci riesce, come si dice, fermare la mente su cosa veruna. Guerre, rivoluzioni, battaglie, chi altri ne è cagione se non il corpo e le passioni del corpo? Tutte le guerre scoppiano per acquisto di ricchezze; e le ricchezze [d] siamo costretti a procurarcele per il corpo e per servire ai bisogni del corpo. E così non abbiamo modo di occuparci di filosofia, appunto per tutto questo. E il peggio di tutto è che, se pur qualche momento di quiete ci venga dal corpo e noi cerchiamo di rivolgerci a qualche meditazione, ecco che, d’un tratto, in mezzo alle nostre ricerche e dovunque, quello viene ancora a tagliarci la strada, e ci rintrona e conturba e disanimisce, sicché insomma non è possibile per la influenza sua vedere la verità: e ci apparisce chiaro e manifesto che, se mai vorremo conoscere alcuna cosa nella sua nettezza, ci bisognerà spogliarci del corpo [e] e guardare con sola la nostra anima pura la pura realtà delle cose. E solamente allora, come pare, riusciremo a possedere ciò che desideriamo e di cui ci professiamo amanti, la sapienza; e cioè, come il ragionamento significa, quando saremo morti, ché vivi non è possibile. Se difatti non è possibile, in unione col corpo, venire a conoscenza di alcuna cosa nella sua purità, delle due l’una, o non è possibile in nessun caso conquistare il sapere, o solo è possibile quando si è morti; perché allora soltanto l’anima [67a] sarà tutta sola in se stessa, quando sia sciolta dal corpo, prima no. E in questo tempo che siamo in vita, tanto più, come è naturale, saremo prossimi al conoscere, quanto meno avremo rapporti col corpo, né altra comunanza con esso se non per ciò che ne costringa assoluta necessità; e in ogni modo non ci lasceremo contaminare dalla natura propria del corpo, e ci terremo puri e lontani da esso finché non venga il dio di sua volontà a liberarcene del tutto. E così, fatti puri e liberi da quella infermità di mente che ci viene dal corpo, ci troveremo, com’è verosimile, in compagnia di esseri altrettanto liberi e puri, e impareremo a conoscere da noi medesimi tutto ciò che è mondo da impurità. E questo appunto, io credo, è il vero. Perché non [b] è lecito a cosa impura toccare cosa pura". Questo, o Simmia, io immagino, dovranno dire e pensare tra loro tutti quelli che sono veramente amici della conoscenza. Non ti pare che sia così? - Perfettamente, o Socrate.

XII. - Ebbene, o amico, disse Socrate, se questo è vero, grande speranza ha, chi giunga dove io sono per andare, di ottenere appunto colà, nella sua pienezza, come certo in nessun altro luogo, quello per cui grande affanno ci prendemmo nella vita trascorsa; cosicché questa emigra-[c] zione che ora è ordinata a me, non è senza dolce speranza anche per chiunque altro il quale pensi di essersi a ciò preparato lo spirito come con una purificazione. - Precisamente, disse Simmia. - E purificazione non è dunque, come già fu detto nella parola antica, adoperarsi in ogni modo di tenere separata l’anima dal corpo, e abituarla a raccogliersi e a racchiudersi in se medesima fuori da ogni elemento corporeo, e a restarsene, per quanto è possibile, anche nella vita presente, come nella futura, [d] tutta solitaria in se stessa, intesa a questa sua liberazione dal corpo come da catene? - Benissimo, disse. - E dunque non è questo che si chiama morte, scioglimento e separazione dell’anima dal corpo? - Esattamente, rispose. - E di sciogliere, come diciamo, l’anima dal corpo si dànno pensiero sempre, sopra tutti gli altri e anzi essi soli, coloro che filosofano dirittamente; e questo appunto è lo studio e l’esercizio proprio dei filosofi, sciogliere e separare l’anima dal corpo. O non è così? - E’ chiaro. - E allora, come dicevo a principio, non sarebbe ridicolo che un uomo, il quale per tutta la vita si apparecchi a vivere in tal modo, tenendosi più vicino che [e] può al morire, quando poi questo morire arriva, se ne rammaricasse? - Sarebbe certo ridicolo; come no? - E’ dunque vero, egli disse, o Simmia, che coloro i quali filosofano dirittamente si esercitano a morire e che la morte è per loro cosa assai meno paurosa che per chiunque altro degli uomini. Rifletti bene su questo. Se veramente i filosofi sono per ogni rispetto in discordia col corpo e hanno desiderio di essere soli con la propria anima; se costoro, quando questo lor desiderio si avvera, fossero presi da paura e da dolore, non sarebbe una grande contraddizione? se cioè, dico, non fossero lieti di andare colà [68a] dove giunti hanno fede di ottenere quello che in vita amarono - e amarono la sapienza - e quindi di sentirsi disciolti dalla compagnia di ciò appunto con cui furono in discordia? O che forse, mentre c’è molti i quali, se pèrdono o moglie o figli, amori di creature umane, vogliono da se medesimi andarne in cerca nell’Ade, sospinti da questa lor fede di rivedere colà quelli che amarono e di trovarsi con essi; chi fu schiettamente amico della sapienza e nutrì in cuore eguale e sicura fede che in niun altro luogo potrà trovare codesta sapienza nella sua interezza [b] se non nell’Ade, costui dunque si rammaricherà di morire e non sarà lieto di andare colà? Io devo pur credere, o amico, che sia così, se realmente costui è filosofo. Perché egli si sarà pur formata la convinzione certa che in nessun altro luogo potrà incontrare la pura e perfetta sapienza se non colà. E se questo è così, non sarebbe, come dicevo or ora, una grande contraddizione che un uomo di tale animo avesse paura della morte? - Grande certamente, egli disse.

XIII. - E allora, egli disse, non è prova sufficiente per te questa, se vedi uno che si rammarica di dover morire, che costui non è stato mai amante del sapere, ma piuttosto [c] uno come tanti, amante del proprio corpo? E costui, naturalmente, sarà anche amante di ricchezze e amante di onori, o l’una delle due cose o tutte due insieme. - Proprio così, disse, come dici. - E dunque, egli disse, o Simmia, anche quella che si suol chiamare fortezza, non si addice particolarmente, a coloro che hanno tale educazione di animo? - Precisamente, disse. - E anche la temperanza, quella che anche il volgo chiama temperanza, e cioè non lasciarsi turbare dalle passioni e anzi non farne conto veruno e vivere moderatamente, non si addice a coloro soltanto che più di ogni altra cosa tengono a vile [d] il corpo e vivono in filosofia? - Necessariamente, disse. - E difatti, soggiunse, se tu vuoi riflettere un momento a quel che sono negli altri fortezza e temperanza, vedrai bene che son cose fuori di posto. - E come, o Socrate? - Tu sai bene, egli disse, che la morte tutti gli altri la mettono nel numero dei grandi mali, non è vero? - Certo, rispose. - Dunque, quelli di costoro che hanno forza di animo, se mai accade che affrontino la morte, l’affrontano per paura di mali maggiori; non è così? - E’ così. - Dunque, fatta eccezione dei filosofi, tutti gli altri sono coraggiosi perché hanno paura; sebbene sia una curiosa contraddizione dire che uno è coraggioso per [e] paura e viltà. - Certamente. - E quelli di costoro che sono temperanti? non si trovano anch’essi nel medesimo caso, che sono temperanti per loro intemperanza? Sta bene, diciamo pure che non è possibile; e tuttavia accade a costoro qualche cosa proprio di questo genere con quella loro temperanza da sciocchi: perché, per paura di restar privi di certi piaceri dei quali hanno più vivo desiderio, si astengono da altri, dominati come sono [69a] da quelli. Ora, questo lasciarsi dominare dai piaceri, lo chiamano, sì, intemperanza, ma il fatto è che a costoro, appunto perché dominati da certi piaceri, accade di dominarne altri: che è proprio il caso che si diceva or ora, di essere in certo modo temperanti per intemperanza. - Così pare. - O mio buon Simmia, stiamo attenti dunque se proprio questo sia, di fronte all’idea della virtù, il giusto baratto, barattare fra loro piaceri con piaceri e dolori con dolori e paura con paura, il più con il meno, come fossero monete; e non più tosto l’unica moneta di valore, quella [b] per cui tutto ciò ha da essere barattato, sia il sapere, e soltanto le cose comperate e vendute al prezzo di questo e insieme con questo siano veramente fortezza e temperanza e giustizia; e insomma, non si abbia virtù vera se non è accompagnata dal sapere, ci siano o non ci siano piaceri e paure e tutte le altre passioni di questo genere. E quando codeste passioni siano scompagnate dal sapere e barattate fra loro, badiamo che allora cotale virtù non sia come uno scenario dipinto, virtù veramente da schiavi, senza nulla [c] di saldo né di reale; e non siano invece temperanza e giustizia e fortezza - e questa è la realtà vera - una specie di purificazione da tutto codesto, ed esso stesso il sapere un modo o un mezzo di purificazione. E anche que’ tali che istituirono i Misteri, non pare fossero gente stolta; e in verità già da tempo, per via di enigmi, ci hanno fatto intendere che chi giunga nell’Ade senza aver partecipato ai Misteri né compiuta la sua iniziazione, costui giacerà nel fango, e invece chi vi giunga in tutto purificato e iniziato, egli vivrà in compagnia degli dèi. Ché veramente, come dicono gli iniziatori di questi Misteri, "molti sono che [d] portano fèrule, ma Bacchi pochi". E questi sono, a mio credere, non altri che coloro i quali hanno esercitato filosofia nel vero senso della parola. Per esser anch’io del loro numero, nulla tralasciai, quanto mi fu possibile, nel corso di mia vita, e anzi mi adoperai con ogni sollecitudine. Se poi io mi sia adoperato giustamente, e se io e gli altri si sia profittato alcunché dal nostro filosofare, questo sapremo con sicurezza appena giunti colà, se Dio voglia, e cioè tra poco, come pare. Eccovi dunque, o Simmia e Cebète, la mia difesa, per dimostrarvi come io abbia ragione di non ritenere una sventura e di non attristarmi di dover abbandonare voi e i padroni di qui, reputando che [e] anche là non meno di qui incontrerò buoni padroni e buoni compagni. Se dunque in questa mia difesa davanti a voi io sono riuscito più persuasivo che non in quella davanti ai giudici ateniesi, tanto meglio così.

XIV. Come Socrate ebbe detto ciò, intervenne Cebète e disse: - O Socrate, quanto al resto pare a me che si dica [70a] bene; ma quanto all’anima c’è negli uomini molta incredulità; perché temono che quand’ella si sia distaccata dal corpo, non esista più in alcun luogo, e si guasti e perisca il giorno stesso in cui l’uomo muore; temono cioè che, nell’atto medesimo in cui ella si distacca dal corpo e ne esce, subito come soffio o fumo si dissipi e voli via, e così cessi dall’esistere del tutto. Che se invece l’anima rimanesse in qualche parte tutta raccolta in se stessa e libera da codesti mali dei quali discorrevi or ora, grande speranza sarebbe, [b] o Socrate, e bella, che sia vero quello che tu dici. Ma questo appunto, mi sembra, è ciò che bisogna di non piccola conferma e dimostrazione: e cioè, primo, che l’anima séguita a esistere pur quando l’uomo è morto; secondo, ch’ella conserva potere e intelligenza. - Hai ragione, disse Socrate, o Cebète. Ebbene, che cosa vogliamo fare? vuoi che ci intratteniamo a ragionare di queste cose, se è verosimile che siano così o no? - Certo che io, rispose Cebète, udrei volentieri qual è l’opinione tua su questo proposito. - E io credo bene, soggiunse Socrate, che [c] nessuno il quale mi ascolti in questo momento, neanche fosse un poeta comico vorrà dire che io fo delle ciarle e ragiono di cose che non mi riguardano! E dunque, se credi, facciamo questa ricerca.

XV. E proviamoci a considerare la cosa da questo punto, se cioè sia proprio vero che esistono nell’Ade le anime dei morti, oppure no. C’è, l’abbiamo già ricordata, una antica dottrina che esistono colà anime giuntevi di qui e che di là nuovamente tornano qui e che si rigenerano dai morti in nuovi esseri. Ora, se la cosa sta in questo modo, che cioè i vivi si rigenerano dai morti, non dovremo [d] inferirne che colà appunto sono le nostre anime? Perché tu intendi che non si rigenererebbero se già non esistessero; e a riprova di questo basterebbe fosse realmente chiarito che non da altro si generano i vivi se non dai morti. Se poi non è così, allora bisognerà ricorrere ad altro ragionamento. - Benissimo, disse Cebète. - E allora, riprese Socrate, tu non hai da considerare la cosa, se vuoi fartene un’idea più spedita, solamente riguardo agli uomini, bensì anche riguardo agli animali tutti e alle piante; e, in una parola, dobbiamo vedere, rispetto a tutti gli esseri che hanno nascimento, se veramente tutti quanti si gene-[e] rano in questo modo, e cioè non da altro che dai contrari i loro contrari, quanti appunto si trovano ad avere il loro contrario, come il bello che è contrario del brutto, il giusto dell’ingiusto, e mille e mille altri allo stesso modo. Vediamo, dunque, di considerare questo, se davvero sia necessario, per tutti gli esseri che hanno ciascuno il suo contrario, che non da altro ciascuno si generi se non da quello appunto che è il suo contrario. Così, per esempio, quando si generi qualche cosa di grande, non è necessario che si generi grande in séguito, da piccolo che era prima? - Certo. - E se si genera qualche cosa di piccolo, non si [71a] genererà piccolo dopo, da grande che era prima? - E’ così, disse. - E dunque, allo stesso modo, si genereranno dal forte il debole, dal lento il veloce. - Precisamente. - E se si genera qualche cosa di male, non si genera esso dal bene, e se qualche cosa di giusto, dall’ingiusto? - Senza dubbio. - Dunque, disse, ammettiamo noi come sufficientemente provato che tutti gli esseri si generano in questo modo, e cioè, rispettivamente, i contrari dai loro contrari? - Sta bene. - C’è poi anche, in essi, qualche cosa come di mezzo fra tutte queste coppie appaiate di contrari, cioè, dico, due processi gene-[b] rativi onde da un essere si passa nell’altro e poi dal secondo nuovamente nel primo. Così, per esempio, tra grande e piccolo, c’è di mezzo accrescimento e decrescenza, che è ciò che diciamo crescere e decrescere. - Sì, disse. - E dunque, decomporsi e comporsi, raffreddarsi e riscaldarsi, e tutti gli altri mutamenti siffatti, anche se qualche volta non abbiamo parole per esprimerli, non è comunque necessario che in realtà procedano sempre in questo modo; e che pertanto gli esseri si generino reciprocamente gli uni dagli altri, e che sia proprio di ciascheduno un processo generativo onde tutti si sviluppano a vicenda l’uno nell’altro. - Proprio così, disse.

[c] XVI. Ebbene, disse, al vivere c’è qualche cosa di contrario, come all’essere sveglio è contrario il dormire? - Certamente, disse. - E che cosa è? - L’essere morto, disse - E dunque questi due stati, se è vero che sono contrari fra loro, non si generano essi l’uno dall’altro? e poiché sono due, anche i processi generativi fra loro non sono due? - Senza dubbio. - Bene, disse Socrate: di queste due coppie di contrari di cui si parlava ora, io te ne dirò una, e anche ti dirò i suoi processi generativi; e tu mi dirai l’altra. Io dico che da una parte c’è il dormire, dall’altra l’essere sveglio, e che dal dormire si [d] genera l’essere sveglio e dall’essere sveglio il dormire; e dico che i processi generativi di questi due stati sono, uno, l’addormentarsi, l’altro, lo svegliarsi. Va bene così, aggiunse, o no? - Benissimo, disse. - E ora dimmi tu, disse, allo stesso modo, quanto alla vita e alla morte. Non dici che al vivere è contrario l’essere morto? - Sì. - E che si generano l’uno dall’altro? - Appunto. - Dunque dal vivo che è che si genera? - Il morto, disse. - Bene, riprese Socrate; e dal morto? - Bisognerà convenire, disse, che si genera il vivo. - Dunque da ciò che è morto, o Cebète, si genera ciò che è vivo [e] e insomma dai morti si generano i vivi? - E’ chiaro, disse.- Dunque le nostre anime sono nell’Ade - Così pare. - E dei due processi generativi che spettano a questa coppia di contrari, almeno uno non è fuori di ogni dubbio? perché il morire è sicuramente fuori di ogni dubbio: o no? - Ma certo, disse. - E allora, diss’egli, come dobbiamo fare? non dobbiamo contrapporre a questo il suo processo generativo contrario? Salvo che non si voglia dire che la natura, in questo punto, è zoppa. O si deve contrapporre al morire il suo processo generativo contrario, quale esso sia? - Certamente, disse. - E qual è questo? - Il rivivere. - Dunque, diss’egli, se c’è veramente questo rivivere, il processo [72a] generativo che va dai morti ai vivi non sarà appunto questo, il rivivere? - Bene. - E dunque siamo d’accordo anche per questa via, che i vivi si sono generati dai morti non altrimenti che i morti dai vivi. E, posto ciò, ci pareva già ch’esso fosse prova sufficiente a ritenere che le anime dei morti devono esistere necessariamente in qualche luogo, dal quale tornano poi a rigenerarsi. - Mi pare, disse, o Socrate, che, da quanto concordemente si è ammesso, consegua di necessità che la cosa sta così.

XVII. - Vedi dunque, disse, o Cebète, che neanche è senza ragione, mi pare, se noi ci troviamo d’accordo. Perché se non ci fosse tra gli esseri, nel loro generarsi, una corrispondenza perpetua degli uni con gli altri, come [b] se ruotassero in cerchio, e invece il processo generativo si svolgesse esclusivamente da un essere al suo essere opposto, come in linea retta, e non si curvasse più all’indietro verso il primo punto e non compisse il suo giro, tu capisci bene che tutti gli esseri finirebbero con l’assumere la stessa forma e si troverebbero nelle stesse condizioni e insomma cesserebbero di generarsi. - Come vuoi dire?, domandò. - Non è difficile, rispose Socrate, capire quello che voglio dire. Ecco: se, per esempio , da un lato ci fosse l’addormentarsi, e poi, dall’altro, non gli corrispondesse lo svegliarsi che si genera dal dormire, tu capisci che il caso di Endimióne finirebbe con l’apparirci [c] una cosa da nulla in confronto, né farebbe più nessuna meraviglia perciò appunto che anche gli altri esseri si troverebbero tutti quanti nella medesima condizione di costui, cioè di dormire. Ancora: se tutti gli esseri si congregassero e poi non si disgregassero più, ben presto si sarebbe avverato il detto di Anassagora, "tutte le cose insieme". E così dunque, o amico Cebète, se tutte le cose che partecipano della vita fossero sì in processo di morte, ma, quando poi in realtà morissero, tutte codeste cose morte rimanessero in tale forma e non più riprendessero il loro corso verso la vita, non sarebbe assolutamente necessario che tutto alla fine fosse morto e più niente vivesse? Perché [d] se si ammette che da altri esseri, e non dai morti, si generino i vivi, e poi che questi vivi muoiano, quale mezzo potrà esserci perché tutto non cada assorbito e consumato nella morte? - Neppure uno, mi pare, o Socrate, disse Cebète; e mi pare anzi tu dica esattamente la verità. - Sì, disse, o Cebète, per quello che pare a me, così è veramente e non in altro modo; e noi non per nostra illusione in questo ci troviamo d’accordo: è una realtà il rivivere, e che i vivi si generano dai morti, e che le anime dei morti non cessano di esistere, e che, necessariamente, mi-[e] glior sorte spetta alle anime buone, peggiore alle non buone.

XVIII. - Certamente, soggiunse Cebète: e anche, o Socrate, per quella dottrina, se è vera, di cui sei solito parlare così spesso, che ogni nostro apprendimento non è altro in realtà che reminiscenza; anche per codesta dottrina si dovrà pur ammettere che noi si sia appreso in un tempo anteriore quello di cui oggi ci ricordiamo. La quale cosa non è possibile se l’anima nostra non esistette già in [73a] qualche luogo prima di generarsi in questa nostra forma umana. Cosicché anche per questa via apparisce che l’anima è qualche cosa di immortale. - Sta bene, o Cebète, disse allora Simmia; ma quali prove tu dai di codesto? Fammene ricordare, perché, sul momento, non me ne ricordo affatto. - Una sola, rispose Cebète, e bellissima: e cioè che gli uomini, quando sono interrogati, purché uno sappia interrogarli con discernimento, rispondono da se stessi su ogni cosa come è; e certo, se di questa o quella cosa già non fosse in loro cognizione e diritto giudizio, essi non sarebbero capaci di fare ciò. E poi, conducine [b] alcuno dinanzi a figure geometriche o ad altro di simile, ed ecco che avrai qui la riprova più sicura di quello che dico. - Se però o Simmia, disse Socrate, per questa via non ti persuadi, vedi un poco se ti riesca condividere il mio pensiero esaminando la questione da quest’altro punto. Tu dunque sei in dubbio di questo, in che modo ciò che diciamo apprendimento sia reminiscenza? - Che proprio io sia in dubbio, rispose Simmia, non è vero; soltanto, avrei bisogno di sperimentare su me stesso questo di cui si ragiona, e cioè... di ricordarmi. Veramente, da quello che si provò a dimostrare Cebète, già mi vengo, alla meglio, ricordando e persuadendo; ma non di meno udrei volentieri ora in che modo ti provasti tu nella dimostrazione. [c] - In questo modo, disse Socrate. Noi siamo d’accordo sicuramente che se uno si ricorderà di qualche cosa, bisogna che di codesta cosa egli abbia avuto cognizione in precedenza. - Sta bene, disse. - E allora, siamo noi d’accordo anche in questo, che, quando uno ha cognizione di qualche cosa nel modo che dico, codesta è reminiscenza? Che modo io dico? Questo. Se uno, veduta una cosa o uditala o avutane comunque un’altra sensazione, non solamente venga a conoscere quella tale cosa, ma anche gliene venga in mente un’altra, - un’altra di cui la cognizione non è la medesima, ma diversa; - ebbene, non s’adoperava noi la parola nel suo giusto valore quando dicevamo, a proposito di quest’altra cosa venutagli [d] in mente, che colui "se ne era ricordato"? - Come dici? - Per esempio: altra è, tu ammetti, nozione di uomo, altra è nozione di lira. - Senza dubbio. - Ebbene, non sai tu che agli innamorati, se vedono una lira o un mantello o un altro oggetto qualunque di cui il loro innamorato fosse solito valersi, accade questo, che riconoscono la lira e al tempo stesso rivedono con la mente la figura dell’innamorato di cui era la lira? Questo è reminiscenza: allo stesso modo che, capitando a uno di vedere Simmia, egli si ricorda di Cebète; e si potrebbero citare infiniti esempi di questo genere. - Infiniti veramente, disse Simmia. - Dunque, disse Socrate, questo e si-[e] mile a questo non sono casi di reminiscenza? tanto più quando càpitano in proposito di cose che per il tempo e per non averle più sotto gli occhi si erano oramai dimenticate?- Perfettamente, disse. - Bene soggiunse Socrate; e, se uno veda un cavallo dipinto e una lira dipinta, è possibile che si ricordi di un uomo? e se Simmia dipinto, che si ricordi di Cebète? - Certo. - E anche, se uno veda Simmia dipinto, non è possibile che egli si ri-[74a] cordi del vero Simmia? - E’ possibile certo, disse.

XIX. - Ora, da tutti questi esempi non risulta che la reminiscenza avviene in due modi, per via di somiglianza e per via di dissomiglianza? - Sì. - Bene: ma quando uno si ricorda di qualche cosa per via di somiglianza, non gli viene fatto necessariamente anche questo, di pensare se la cosa che ha destato il ricordo sia o no, quanto alla somiglianza, in qualche parte manchevole rispetto a quella di cui destò il ricordo? - Necessariamente, disse. - Vedi allora, rispose Socrate, se la cosa sta così. C’è qualche cosa, è vero?, di cui noi affermiamo che è eguale: e non già voglio dire di legno a legno, di pietra a pietra o di altro simile; bensì di cosa che è di là e diversa da tutti questi eguali, dico l’eguale in sé. Possiamo di questo eguale in sé affermare che è qualche cosa, o non è nulla affatto? - Dobbiamo affermarlo sicuramente, disse Simmia; proprio così. - E conosciamo anche ciò [b] che esso è in se stesso? - Certo, rispose. - E di dove l’abbiamo avuta questa conoscenza? Non l’abbiamo avuta da quegli uguali di cui si parlava ora, o legni o pietre o altri oggetti qualunque, a vedere che sono uguali? non siamo stati indotti da questi uguali a pensare a quell’uguale, che è pur diverso da questi? O non ti pare che sia diverso? Considera anche da questo punto. Pietre uguali e legni uguali non accade talvolta che appariscono, anche se gli stessi, a uno eguali e a un altro no? - Sicuramente. - E dimmi, l’eguale in sé si dà mai il caso che apparisca [c] disuguale, e insomma l’uguaglianza disuguaglianza? - Impossibile, o Socrate. - Infatti non sono la stessa cosa, disse Socrate, questi uguali e l’uguale in sé. - Mi par bene, o Socrate. - Ma pure, disse, è proprio per via di questi uguali, benché diversi da quell’eguale, che tu hai potuto pensare a fermare nella mente la conoscenza di esso eguale, non è vero? - Verissimo, disse. - E come di cosa o simile o dissimile da codesti, no? - Precisamente. - Perché non fa differenza, aggiunse. Basta che tu, veduta una cosa, riesca da codestavista a pensarne [d] un’altra, sia essa simile o dissimile, ecco che proprio qui, disse, in questo processo, tu hai avuto necessariamente un caso di reminiscenza. - Benissimo. - E dimmi, riprese, succede a noi qualche cosa di simile rispetto a quegli eguali che osserviamo nei legni e negli altri oggetti eguali di cui discorrevamo or ora? Ci appariscono essi così eguali come appunto è l’eguale in sé, o difettano in qualche parte da esso, quanto a essere tali e quali all’eguale o non difettano in nulla? - Molto anzi, egli disse, ne difettano. - E allora, quando a uno, veduta una cosa, viene fatto di pensare così: "Questa cosa che ora io vedo tende a essere come un’altra, e precisamente come uno di quegli esseri che esistono per se stessi, e tuttavia [e] ne difetta, e non può essere come quello, e anzi gli rimane inferiore"; ebbene, chi pensa così, non siamo noi d’accordo che colui ha da essersi pur fatta dapprima, in qualche modo, un’idea di quel tale essere a cui dice che la cosa veduta s’assomiglia, ma da cui è, in paragone, difettosa? - Necessariamente. - E allora, dimmi, è avvenuto anche a noi qualche cosa di simile, o no, rispetto agli eguali e all’eguale in sé? - Certo - Dunque è necessario che noi si sia avuta già prima un’idea dell’eguale; [75a] prima cioè di quel tempo in cui, vedendo per la prima volta gli uguali, potemmo pensare che tutti codesti eguali aspirano sì a essere come l’eguale, ma gli restano inferiori. - E’ proprio così. - E quindi siamo d’accordo anche in questo, che non da altro s’è potuto formare in noi codesto pensiero, né da altro è possibile che si formi, se non dal vedere o dal toccare o da alcun’altra di queste sensazioni; ché tutte per me valgono ora lo stesso. - Valgono lo stesso, o Socrate, rispetto a ciò che ora vuol dimostrare il nostro ragionamento. - Ma, naturalmente, proprio da queste sensazioni deve formarsi in noi il pensiero che tutti [b] gli eguali che cadono sotto di esse sensazioni aspirano a esser quello che è l’uguale in sé e a cui tuttavia rimangono inferiori. O come vogliamo dire? - Così. - Dunque, prima che noi cominciassimo a vedere e a udire e insomma a far uso degli altri nostri sensi, bisognava pure che già ci trovassimo in possesso della conoscenza dell’eguale in sé, che cosa realmente esso è, se poi dovevamo, gli eguali che ci risultavano dalle sensazioni, riportarli a quello, e pensare che tutti quanti hanno una loro ansia di essere come quello, mentre poi gli rimangono al di sotto. - Da quello che s’è detto, o Socrate, bisogna concludere così. - Or dunque, sùbito appena nati, non vedevamo noi, non udivamo, non avevamo tutti gli altri sensi? - Senza [c] dubbio. - E non bisognava anche, abbiamo detto, che, prima di tutto ciò, fossimo già in possesso della conoscenza dell’uguale in sé? - Sì. - E dunque, come pare, già prima di nascere noi dovevamo essere in possesso di codesta conoscenza. - Così pare.

XX. - Se dunque è vero che noi, acquistata codesta conoscenza prima di nascere, la portammo con noi nascendo, vorrà dire che prima di nascere e sùbito nati conoscevamo già, non solo l’eguale e quindi il maggiore e il minore, ma anche tutte insiemele altre idee; perché non tanto dell’eguale stiamo ora ragionando quanto anche del bello in sé e del buono in sé e del giusto e del santo, e [d] insomma, come dicevo, di tutto ciò a cui, nel nostro disputare, sia interrogando sia rispondendo, poniamo questo sigillo, che è in sé. Onde risulta necessariamente che di tutte codeste idee noi dobbiamo aver avuta conoscenza prima di nascere. - E’ così. - E anche risulta - salvo che, una volta in possesso di codeste conoscenze, non ci troviamo poi, a ogni nostro successivo rinascere, nella condizione di averle dimenticate - che appunto nel nostro perenne rinascere non cessiamo mai di sapere, e conserviamo questo sapere per tutta la vita. Perché il sapere è questo, acquistata una conoscenza, conservarla, e non già averla dimenticata. Non è questo, o Simmia, che diciamo dimenticanza, perdita di conoscenza? - Pro-[e] prio questo, egli disse, o Socrate. - Sta bene: ma se invece, io penso, acquistate delle conoscenze prima di nascere, noi le perdiamo nascendo, e poi, valendoci dei sensi relativi a certi dati oggetti, veniamo ricuperando di ciascuno di essi quelle conoscenze che avevamo già anche prima; ebbene, questo che noi diciamo apprendere, non sarà un recuperare conoscenze che già ci appartenevano? e, se adoperiamo per questo la parola ricordarsi, non l’adoperiamo nel suo giusto significato? - Certamente.[76a] - Questo infatti fu già dimostrato possibile, che uno, avuta sensazione di qualche cosa, perché l’abbia veduta o udita o in altro modo percepita, ecco che costui, per via di questa cosa, si fa a pensarne un’altra della quale s’era dimenticato e a cui quella si avvicinava o per somiglianza o anche per dissomiglianza. Cosicché, come dicevo, delle due l’una: o noi siamo nati già conoscendo quelle idee e ne conserviamo la conoscenza durante la vita tutti quanti, oppure, in séguito, quelli i quali diciamo che apprendono, non fanno altro costoro che ricordarsi, e questo apprendimento sarà appunto reminiscenza. - Proprio così, disse, o Socrate.

XXI. - Quale scegli dunque, o Simmia, delle due, che noi siamo nati già conoscendo, oppure che ci veniamo [b] ricordando poi di quello di cui precedentemente avevamo acquistata conoscenza? - Non saprei scegliere, o Socrate, sul momento. - Ebbene, qui saprai scegliere e dire qual è al proposito la opinione tua: un uomo che sa, di quello che sa, è in grado di rendere conto, o no? - Necessariamente, disse, o Socrate. - E credi anche che tutti quanti siano in grado di render conto di ciò di cui ragionavamo or ora? - Vorrei bene, disse Simmia; se non che io ho una grande paura che domani a quest’ora non ci sarà più nessuno capace di far questo come si dovrebbe. - Credi che non le conoscano, o Simmia, [c] tutti quanti, disse, codeste cose? - Non credo affatto. - Dunque si ricordano di ciò che appresero un tempo. - Necessariamente. - E quando l’hanno acquistata le nostre anime la conoscenza delle idee? perché non certo, s’intende, da quando siamo nati uomini. - No, certo. - Dunque prima. - Sì. - E dunque le nostre anime esistevano anche prima: prima, dico, di essere in questa forma umana, indipendentemente dal corpo; e avevano intelligenza. Salvo che, o Socrate, queste conoscenze non le veniamo apprendendo durante il processo del nostro nascere; perché rimane tuttavia questo inter-[d] vallo di tempo. - E sia, o amico: ma allora in che sorta mai d’altro tempo le perdiamo? perché non veniamo già al mondo con esse, come pur ora convenimmo. O forse le perdiamo in quel medesimo periodo di tempo in cui anche le acquistiamo? o a qualche altro tempo ancora vuoi accennare? - Oh no, Socrate: io non sapevo in verità quello che mi dicessi.

XXII. Non è così dunque, egli disse, o Simmia? Se veramente esistono questi esseri di cui andiamo ragionando continuamente, e il buono e il bello e ogni altro simile; e a ciascuno di questi noi riportiamo e compariamo tutte le impressioni che ci vengono dai sensi, riconoscendo che essi [e] sono gli esemplari primi già posseduti dal nostro spirito; non è necessario, per la stessa ragione onde questi esistono, che anche esista la nostra anima prima ancora che noi siamo nati? E se questi non esistono, non sarà vano il nostro ragionamento? Non è così, non dipende da una necessità eguale che esistano questi esseri e al tempo stesso esistano le nostre anime, prima ancora che noi siamo nati? e che, se l’una cosa non è, neanche l’altra può essere? - Benissimo, o Socrate, disse Simmia: la necessità mi pare identica; e bene a proposito il nostro argomento è andato a rifugiarsi proprio là dove troviamo insieme legati [77a] allo stesso nodo sia che la nostra anima esiste prima che noi siamo nati sia che esistono questi esseri dei quali vieni parlando. Né alcuna cosa in verità è per me così chiara come questa, che tutti questi esseri esistono nel più alto grado della realtà esistente, e il bello e il buono e tutti gli altri di cui or ora tu ragionavi. Quanto a me, la cosa è dimostrata sufficientemente. - Ma e per Cebète?, disse Socrate: perché bisogna persuadere anche Cebète. - Anche per lui, disse Simmia, pare a me che sia dimostrata sufficientemente. So bene che non c’è uomo più ostinato a negar fede alla ragione; ma nulla credo gli manca [b] oramai per essere persuaso che le nostre anime esistevano già prima che fossimo nati.

XXIII. Se però anche quando si è morti l’anima séguiti a esistere, questo neanche a me, disse, o Socrate, pare dimostrato; e c’è sempre la obiezione di cui parlava poco fa Cebète: come può essere che, morendo l’uomo, l’anima non si disperda, e non sia codesta anche per lei la fine del suo essere - che è quello che dice il volgo. E veramente che cosa vieta ch’ella si generi e si formi da qualche altra parte, ed esista anche prima di giungere in corpo umano; ma che poi, quando vi sia giunta e se ne distacchi, allora finisca anch’ella di esistere e si perda [c] compiutamente? - Tu dici bene, o Simmia, aggiunse Cebète. Ed è chiaro che s’è dimostrata, dirò così, la metà soltanto di quello che bisognava, e cioè che la nostra anima esisteva innanzi che noi fossimo nati; ma, oltre a questo, c’è da mostrare che anche quando si è morti l’anima séguita a esistere non meno di quando non si era ancora nati, se la nostra dimostrazione vuol essere compiuta. - Ebbene, o Simmia e Cebète, disse Socrate, è dimostrato fin d’ora anche questo: purché vogliate congiungere insieme il nostro presente argomento con l’altro sul quale già ci mettemmo d’accordo prima, e cioè che tutto ciò che è vivo si genera da ciò che è morto. Infatti, se l’anima esiste [d] anche prima, ed è necessario che, entrando essa per sua generazione nella vita, non da altro si generi se non dalla morte e dall’essere morti; come non è parimenti necessario che ella séguiti a esistere anche dopo la morte, se è vero che deve poi nuovamente rigenerarsi? Ed ecco dunque che anche questo secondo punto che dite rimane dimostrato senz’altro.

XXIV. A ogni modo mi pare che tu e Simmia anche su questo punto avreste piacere di investigare un poco più a fondo; e che siate come i ragazzi, con la paura addosso che veramente, quando la nostra anima sarà per uscire dal corpo il vento la soffi via e la disperda del tutto; mas-[e] sime poi che si trovi a morire non già in un momento di calma, ma in mezzo a una grande bufera. E Cebète, sorridendo: - Proprio come se s’avesse paura, disse, o Socrate, vedi di persuaderci e di farci animo; o meglio, non come se s’avesse paura noi: ché c’è forse, anche dentro di noi, come un fanciullino, ed è lui che ha di questi sgomenti. Tu dunque cerca che muti animo questo fanciullo, e si persuada a non aver paura della morte, come dell’Orco. - Bene, disse Socrate, bisogna fargli l’incantesimo a codesto fanciullo, ogni giorno, finché non siate riusciti a incantarlo totalmente. - Ma dove l’an-[78a] dremo a prendere, o Socrate, egli disse, un buon incantatore di paure come questa, se tu, disse, ci abbandoni? - Oh, l’Ellade è grande, disse, o Cebète, e vi sono, tu lo sai, uomini capaci; e molte sono anche le genti straniere, le quali dovreste rifrugar da per tutto in cerca di tale incantatore, senza badare né a danari né a fatiche: sapendo bene che non c’è cosa per la quale i vostri denari potreste spenderli meglio. Ma bisogna anche facciate questa ricerca da voi medesimi, gli uni con gli altri, perché non credo sarà facile che riusciate a trovar persone capaci di fare ciò meglio di voi. - E sarà fatto, disse Cebète. Ma torniamo [b] al punto donde siamo partiti, se non ti dispiace. - Ma anzi mi fa piacere, disse; e come potrebb’essere diversamente? - Cortese, egli disse, è la tua parola.

XXV. - Ebbene, riprese Socrate, bisogna che noi ci facciamo ora una domanda in questo modo: qual è la cosa cui si conviene essere soggetta al rischio di disperdersi e per cui c’è da temere che codesta dispersione avvenga; e quale è quella a cui tutto ciò non si conviene? E, dopo ciò, bisogna rifarsi a considerare quale di queste due cose è l’anima; e, secondo quello che ne risulti, sperare o disperare per l’anima nostra. - Tu dici bene, disse. - Or dunque, non è a cosa la quale sia stata composta, [c] o già sia composta per natura sua, che si conviene esser soggetta al rischio di essere decomposta nello stesso modo in cui fu composta? e se c’è cosa che appunto sia non composta, non è a questa sola, se mai ad alcuna, che si conviene non esser soggetta a questa decomposizione? - Mi pare che sia così, disse Cebète. - Dunque, le cose che permangono sempre costanti e invariabili, non è naturale che unicamente queste siano le non composte, e quelle invece che sono variabili e non sono mai costanti, queste siano composte? - Mi par bene che sia così. - Torniamo ora, egli disse, a ciò di cui ragionavamo precedentemente. La realtà dell’essere, che è ciò di cui [d] interrogando e rispondendo siamo soliti dare la definizione, permane invariabilmente costante o è variabile? L’eguale in sé, il bello in sé, e insomma ogni data cosa che è in sé, l’ente, c’è mai caso che patisca mutazione veruna, sia pure in qualunque modo? oppure, ciascuna di queste cose che è in sé, che è uniforme in quanto si consideri esclusivamente in sé, permane invariabilmente costante, e non si dà mai il caso che per nessuna via e per nessun modo patisca alterazione veruna? - Necessariamente, o Socrate, disse Cebète, permane invariabilmente costante. - E dimmi: che pensi tu delle infinite cose, come uomini, [e] cavalli, vesti, e così via di tutte le altre quali esse siano o eguali o belle, e insomma di tutte quante alle quali diamo lo stesso nome che alle cose in sé? Permangono esse costanti, oppure tutto il contrario che a quelle, non si dà mai che conservino lo stesso rapporto, né esse rispetto a se stessené le une rispetto alle altre, e insomma non siano mai per nessun modo costanti? - Vero anche questo, disse Cebète: non sono mai allo stesso modo. - Bene: [79a] e tu codeste cose puoi toccarle, puoi vederle, puoi comunque percepirle con gli altri sensi; ma quelle che permangono costanti non c’è altro mezzo col quale tu le possa apprendere se non col pensiero e con la meditazione: perché quelle di questa specie sono invisibili e non si possono percepire con la vista. Non è vero? - Perfettamente vero, egli disse, è questo che dici.

XXVI. - Vuoi tu dunque, disse, che poniamo due specie di cose, l’una visibile, l’altra invisibile? - Poniamole, disse. - E che l’invisibile sia sempre costante, il visibile non sia mai? - Anche questo, disse, poniamo. - Ora [b] dimmi, soggiunse, non ci sono in noi stessi due cose, da una parte il corpo, dall’altra l’anima? - Precisamente, disse. - E qual è delle due specie sopra dette quella a cui diremo che sia più simile e più congenere il corpo? - E’ chiaro a tutti, disse, che è la visibile. - E l’anima? è visibile o invisibile? Non certo dagli uomini, egli disse, o Socrate, è visibile. - Ma evidentemente le cose visibili e le non visibili noi le dicevamo così riferendoci alla natura umana: o tu forse pensi riferirti a qualche altra natura? - No; alla natura umana. - Dunque, che cosa diciamo dell’anima, che è visibile o non è visibile? - Che non è visibile. - Dunque è invisibile. - Sì. - E allora l’anima è, più del corpo, simile all’invisibile, [c] e il corpo al visibile. - Necessariamente, o Socrate.

XXVII. - E dicevamo da un pezzo anche questo, che l’anima, quando per qualche sua ricerca si vale del corpo, adoperando la vista o l’udito o altro senso qualunque, perché ricercare mediante il corpo è come dir ricercare mediante i sensi, - allora l’anima è trascinata dal corpo a cose che non sono mai costanti, ed ella medesima va errando qua e là e si conturba e barcolla come ebbra, perché tali appunto sono le cose a cui si appiglia. - Precisamente. - Quando invece l’anima procede tutta sola in [d] se stessa alla sua ricerca, allora se ne va colà dov’è il puro, dov’è l’eterno e l’immortale e l’invariabile; e, come di questi è congenere, così sempre insieme con questi si genera, ogni volta che le accade di raccogliersi in se medesima e le è possibile; e cessa dal suo errare, e rimane sempre rispetto a essi invariabilmente costante, perché tali sono appunto codesti esseri a cui egli si appiglia. E questa sua condizione è ciò che diciamo intelligenza. - Proprio così, disse; tu dici bene e con verità, o Socrate. - Orsù, dunque, ancora una volta, da ciò che si disse prima e da [e] ciò che s’è detto ora, a quale di queste due specie pare a te che l’anima sia più congenere e più somigliante? - Chiunque, diss’egli, anche il più rozzo, messo così su la traccia, pare a me debba convenire in questo, che l’anima è simile in tutto e per tutto a ciò che è sempre invariabile che a ciò che non è. - E il corpo? - All’altra specie.

XXVIII. - Guarda ora anche da questo punto: quando [80a] sono insieme anima e corpo, all’uno la natura ordina di servire e di obbedire, all’altra di comandare e dominare. Ciò posto, quale dei due credi sia simile al divino e quale al mortale? Non pare a te che il divino per sua propria natura sia atto a dirigere e a comandare, e il mortale a obbedire e a servire? - Così pare. - E allora, a quali di questi due l’anima si assomiglia? - E’ ben chiaro, o Socrate, che l’anima al divino e il corpo al mortale. - Considera ora, disse, o Cebète, se da quanto [b] s’è detto possiamo concludere questo, che al divino all’immortale all’intelligibile all’uniforme all’indissolubile e insomma a ciò che rimane sempre con se medesimo invariabilmente costante, è simigliantissima l’anima; e, viceversa, all’umano al mortale al multiforme al sensibile al dissolubile, e insomma a ciò che non è mai con se medesimo costante, è simigliantissimo il corpo. Abbiamo noi qualche ragione da dire in contrario, mio Cebète, per dimostrare che la cosa non è cosi? - Non l’abbiamo.

XXIX. - Ebbene dunque, se la cosa è così, dimmi, non è proprio del corpo dissolversi rapidamente, e dell’anima invece rimanere al tutto indissolubile o press’a poco? [c] - E come no? - Ora tu pensi, disse, che, quando l’uomo muore, la parte di colui che è visibile, il corpo, e che giace in luogo visibile, - che è quella appunto che noi chiamiamo cadavere e di cui è proprio dissolversi e cadere a pezzi e svanire nel nulla, - non è soggetta, così tutto a un tratto, a niente di simile, ma si conserva com’è per un tempo piuttosto lungo. In verità, se anche uno muore che abbia tuttavia il corpo in floride condizioni e nel fiore dell’età, si conserva pure per un tempo assai lungo; e infatti, se un corpo è sfinito e disseccato come sono le mummie degli Egiziani, si conserva quasi totalmente per un tempo addirittura indefinito; oltre che, poi, ci sono [d] certe parti del corpo, come ossa e tendini e simili, le quali, se anche il resto imputridisca, tuttavia restano, per dir così, immortali. O non è così? - Certo. - E allora l’anima, la parte di noi che è invisibile, e che se ne va via ad un altro luogo della sua stessa natura, e cioè della sua stessa nobiltà di origine e come lei puro e invisibile, - all’Invisibile propriamente detto - presso il dio buono e intelligente, là dove, se Dio voglia, anche la mia anima dovrà andare fra poco; ebbene, dico, questa nostra anima che è così fatta e ha tale natura, vorremo noi dire che, appena si stacca dal corpo, ecco che tutt’a un tratto già s’è dileguata ed è finita, come dicono la più parte [e] degli uomini? Ci corre molto in verità da questo, mio caro Cebète, mio caro Simmia; e anzi è molto più probabile che la cosa stia così. Se cioè l’anima si diparte pura dal corpo, nulla del proprio corpo traendo seco, come quella che nulla in vita, per quanto poté, volle avere in comune con esso, e anzi fece di tutto per fuggirlo e starsene tutta raccolta in se medesima, poiché a questo sempre si preparò, - e questo non è altro che propriamente filosofare e vera-[81a] mente prepararsi a morire senza rammarico; non è questo infatti che diciamo preparazione di morte? - Precisamente. - Ebbene dunque, se tale è l’anima, non se n’andrà ella a ciò che le è simile, cioè, dico, all’invisibile, al divino, all’immortale, all’intelligente, dove giunta potrà essere in realtà felice, libera ormai da vagamenti e da stoltezze e paure e disordinate passioni, e insomma da tutti i mali umani; e veramente, come si dice degli iniziati, potrà trascorrere il rimanente tempo in compagnia degli dèi? Vogliamo dire che sia così, o Cebète, oppure diversamente?

XXX. - Così certo, disse Cebète. - Se invece, io [b] penso, ella si parte dal corpo contaminata e impura, come quella che fu sempre insieme col corpo e lo servì e lo amò e si lasciò affascinare da esso, e cioè dalle sue passioni e dai suoi piaceri; tanto che niente le parea vero se non ciò che avesse forma corporea, ciò che si può toccare e vedere e bere e mangiare e usare per i piaceri d’amore; e quello al contrario che è oscuro agli occhi e invisibile, e che solo si può intendere e apprendere con la filosofia, questo s’era abituata a odiare e a temere e a fuggire: ebbene, dico, un’anima così fatta, credi tu che potrà [c] mai dipartirsi dal corpo tutta sola in se stessa, monda di ogni impurità? - In nessun modo, egli disse. - Ma anzi, io credo, ne partirà tutta penetrata di quel corporeo che la familiarità e convivenza sua col corpo, non cessando ella mai di vivere con esso e di averne così grande sollecitudine, generarono in lei come una sua propria natura. - Certamente. - E questo corporeo bisogna pur credere, o amico, che sia cosa pesante e grave e terrena e visibile; e quell’anima che abbia codesto dentro di sé, dovrà sentirsene appesantita, e sarà tratta di nuovo in giù verso la regione visibile, per paura dell’invisibile o, come [d] dicono dell’Ade; e se n’andrà girando intorno alle tombe e ai sepolcri, presso i quali si veggono di cotali fantasmi e ombre di anime; offrendo tal vista di sé appunto come quelle anime che non riuscirono a liberarsi dal corpo con purità, ma partecipano tuttavia del visibile, onde ancora si vedono. - E’ verosimile, o Socrate. - E’ verosimile senza dubbio, o Cebète. E non già bisogna credere che queste siano le anime dei buoni, bensì dei malvagi; le quali sono costrette ad andare vagando intorno a codesti luoghi, pagando in tal modo la pena della lor trista vita trascorsa. [e] E così vanno errando fino a che, per la insaziabilità di quel corporeo che sempre le accompagna, non sono di nuovo incatenate in un corpo.

XXXI. E s’incatenano, come pare, in corpi siffatti quali furono le consuetudini che in vita ebbero care. - Che cosa precisamente vuoi tu dire con questo, o Socrate? - Che a quelli, per esempio, che si dettero a gozzoviglie e a violenze carnali e a stravizi del bere, e da codeste passioni non si guardarono, è verosimile che prendano corpo [82a] in forma di asini e di simili bestie; non ti pare? - Può ben essere così come dici. - E quelli che predilessero ingiustizie e tirannie e rapine è verosimile prendano corpo in forma di lupi e di sparvieri e di nibbi; o da che altra parte diciamo che possono andare a finire le anime di costoro? - Senza dubbio, disse Cebète, in questi e simili animali. - Ebbene, riprese Socrate, anche rispetto alle altre anime non è chiaro per quale via ognuna dovrà incamminarsi, secondo le speciali affinità di ciò che praticarono nella vita? - Chiarissimo, disse. - E dunque, anche di queste altre anime, non saranno felicissime e non andranno in ottimo luogo quelle che in vita praticarono la virtù comune e propria del buon cittadino, [b] che è ciò appunto che chiamiamo temperanza e giustizia e che nasce da consuetudine e pratica di vita, indipendentemente da ogni filosofia e speculazione mentale? - Come dici felicissimi costoro? - Per questo, che costoro è probabile tornino di nuovo in una specie civilizzata e mansueta come essi furono, per esempio api o vespe o formiche; o a dirittura ritornino nella lor prima forma umana, e si generino da costoro uomini dabbene. - E’ probabile.

XXXII. - Ma alla natura degli dèi non è lecito giungere chi non abbia esercitato filosofia e non si diparta dal corpo [c] perfettamente puro: a nessuno è lecito se non al filosofo. E appunto per questo, amici miei Simmia e Cebète, i filosofi veri si astengono da tutte le passioni del corpo, e restano padroni di se medesimi e a quelle non si concedono; e non già perché temano perdita di beni o miseria, come fanno i più e particolarmente gli avari; e tanto meno poi per paura del disprezzo e del disonore che seguirebbero alle lor male azioni, come gli ambiziosi di potere e di onori: non per ciò essi si astengono da codeste passioni. - E in verità, o Socrate, disse Cebète, per un filosofo ci sarebbe [d] contraddizione. - Certamente, rispose Socrate. E però, o Cebète, quelli a cui sta a cuore la propria anima e non vivono per il corpo adattandosi alle sue voglie, questi, detto addio a tutti costoro, non si mettono per la stessa loro via, come di gente che non sanno dove vadano a finire; e pensando invece che non bisogna far nulla contro la filosofia né contro la liberazione e purificazione che ci vengono dalla filosofia, si mettono dietro la sua guida, volgendosi appunto per quella via per cui essa li conduce.

XXXIII. - In che, modo, o Socrate? - Te lo dirò, disse. Quelli che amano il sapere, disse, conoscono bene [e] che la filosofia, prendendo a educare la loro anima, la quale veramente è incatenata e anzi incollata al corpo, e costretta a indagare la verità attraverso di questo, come, attraverso un carcere, e non da se medesima senza altro mezzo, ed è inviluppata in una totale ignoranza; e anche vedendo che il terribile di codesto carcere sono le passioni del corpo, in quanto, chi v’è dentro incatenato, si trova a essere egli medesimo l’artefice migliore del proprio in-[83a] catenamento; coloro dunque, ripeto, che amano il sapere, conoscono bene che la filosofia, prendendo a educare in siffatte condizioni la loro anima, cerca a poco a poco di guidarla, e addirittura si adopra di liberarla dal corpo, dimostrandole che, come è piena d’inganno la indagine mediante gli occhi, così è piena d’inganno la indagine mediante gli orecchi e gli altri sensi; e la persuade a tenersi lontana da questi sensi se non in quanto le sia impossibile non usarne; e la esorta a raccogliersi e a restringersi tutta sola in se stessa, e a non fidare in niente altro che in se [b] stessa, qualunque sia l’essere che ella voglia da se medesima penetrare nella sua essenza immutabile; e quello che, per diversi aspetti mutevole, ella voglia indagare con altri mezzi, questo a non ritenerlo per vero; e che come questo è percepibile ai sensi e visibile, quello invece che l’anima vede da se medesima è intelligibile e invisibile. Così dunque, non pensando l’anima di chi è vero filosofo di dover contrastare a questa sua redenzione, perciò appunto si astiene, quanto più ella può, da piaceri e desideri e dolori; perché fa conto con ragione che, chi si lascia trasportare violentemente da piaceri o paure o desideri, non riceve da codeste passioni un male di tal gravità quale uno potrebbe credere, come chi, per esempio, ammalasse [c] o chi disperdesse in cupidigie ogni sua sostanza; bensì patisce il male che di tutti è il più grave e l’estremo; e non ne fa conto. - E qual è questo male, o Socrate?, disse Cebète. - Che l’anima di ogni uomo, nell’atto medesimo in cui è presa violentemente o da dolore o da gioia per alcuna cosa, è anche costretta a pensare che ciò appunto che le cagiona codesti sentimenti, ciò sia evidentissimo e verissimo; e non è. E questo accade in modo particolare delle cose visibili. Non è così? - Così certo. - E dunque non è precisamente in queste sue affezioni [d] che l’anima è tenuta stretta e incatenata dal corpo? - Come dici questo? - Perché ogni piacere o dolore, quasi avesse un chiodo, inchioda l’anima al corpo e ve la conficca e la rende corporea, e la induce nella illusione che ciò solo è vero che anche il corpo dice vero. E da questo suo avere le stesse illusioni del corpo e godere gli stessi piaceri del corpo, ella è pur costretta, io credo, a divenir simile al corpo nelle sue consuetudini e nella sua educazione; e quindi sarà tale che non mai potrà giungere all’Ade nella sua purezza, e sempre uscirà dal corpo piena di esso e guasta, onde ricadrà presto in altro corpo, e ivi, [e] cote seminata, germoglierà; e così non potrà mai essere partecipe della compagnia del divino, del puro, dell’uniforme. - Verissimo, disse Cebète, è questo che dici, o Socrate.

XXXIV. - Queste dunque, o Cebète, sono le ragioni per cui i veri filosofi sono temperanti e coraggiosi, non già quelle [84a] del volgo. O tu credi che sia diversamente? - No certo. - Proprio così, in verità; e l’anima di chi è filosofo dovrà appunto ragionare in questo modo; e non penserà che, se è ufficio della filosofia liberare l’anima dal corpo, debba poi l’anima, mentre la - filosofia si adopera questa liberazione, consegnarsi da se medesima ai piaceri e ai dolori perché ribadiscano anche una volta le sue catene, e fare così il lavoro senza fine di una Penelope che intorno a certa sua tela si affatichi al contrario dell’altra. E invece, come l’anima cerca di conquistare la propria serenità da codeste passioni, seguendo il raziocinio e in esso persistendo ininterrottamente, attendendo alla contemplazione del vero del divino di ciò che non è soggetto alle illusioni dei sensi, [b] e da ciò traendo il suo nutrimento vitale; ella pensa che appunto questo modo ha da tenere nella vita finché la vita ci sia, e che poi, terminando la vita, pervenuta a quegli esseri che sono della stessa sua origine e a lei somiglianti, sarà libera finalmente da ogni male umano. E così, o Simmia e Cebète, alimentata di questo suo nutrimento, non c’è pericolo abbia a temere che, anche strappata violentemente nel suo separarsi dal corpo, ella sia dai venti soffiata via e dispersa, e svanisca a volo per l’aria, e non sia più nulla in nessun luogo.

FEDONE (segue…)


XXXV. Quando Socrate ebbe finito di parlare, ci fu si-[c] lenzio per qualche tempo; e anche Socrate, come si vedeva bene a guardarlo, era tuttavia assorto nel suo precedente ragionamento; e così la più parte di noi. Solamente Simmia e Cebète discorrevano tra loro a bassa voce. E Socrate, vòlto l’occhio a costoro, gl’interrogò: - Ebbene, disse, che forse a voi quello che s’è detto fin qui pare manchevole in qualche parte? Certo si presentano ancora molti dubbi e parecchie obiezioni a chi voglia di codesti argomenti andar fino al fondo e toccare ogni punto. Ora, se il vostro pensiero è ad altro, non ho che dire; ma se le vostre difficoltà si riferiscono alle cose dette, non abbiate [d] ritegno a parlare liberamente e a esporre codeste difficoltà, se vi pare che in qualche punto si sarebbe potuto dir meglio; e ad accogliere novamente anche me in vostra compagnia, se credete che insieme con me potrete più facilmente trovare una via di uscita. E Simmia disse: - Ebbene, Socrate, ti parlerò francamente. E’ già un poco che ognuno di noi due, avendo dei dubbi, dà nel gomito all’altro e lo incita a domandare per il desiderio che abbiamo di ascoltarti; ma, d’altra parte, ci rattiene il pensiero di darti disturbo, e la preoccupazione che possa riuscirti fastidioso questo domandare in un momento così malaugurato. E Socrate, udendo ciò, sorrise un poco e disse: - Ahimè, o Simmia! Davvero ha da esser difficile ch’io riesca a per-[e] suadere gli altri che non reputo una sventura questo mio caso, se neanche riesco a persuadere voi, i quali avete timore che io mi trovi ora in una disposizione di animo più difficile che non nella vita passata. E anche, si direbbe, io devo sembrarvi nell’arte della divinazione assai da meno dei cigni, i quali, appena si accorgono di dover morire, benché anche prima non tralasciano di cantare, cantano [85a] allora il loro canto più lungo e più bello, presi come sono dalla letizia che di lì a poco se ne andranno al dio di cui sono devoti. E gli uomini, per la paura che hanno della morte, dicono il falso anche dei cigni: e dicono che, cantando essi il loro canto di morte, così cantano appunto per il dolore della morte; e non pensano che nessun uccello canta quando ha fame o freddo o altro male patisce, neanche l’usignolo né la rondine né l’upupa, che pur sono gli uccelli dei quali si dice che cantino lamentele di dolore. Dunque né questi uccelli pare a me che cantino per dolore, né i [b] cigni; e anzi i cigni, credo, come sacri ad Apollo, sono indovini, e, presentendo quali beni troveranno nell’Ade, cantano in quel giorno e fanno allegrezza assai più che nei giorni precedenti. Or anch’io credo di essere compagno di servizio coi cigni e sacro al medesimo iddio, e di aver avuto dal dio signore non meno di loro l’arte della divinazione; e perciò anche credo di potermi allontanar dalla vita con non minore letizia. E così dunque voi dovete dire e domandare ciò che vi piace, fino a che gli Undici lo consentono. - Hai ragione, disse Simmia: e io ti [c] dirò il mio dubbio; e così questo amico, a sua volta ti dirà dov’è che non accetta le tue parole. Perché su tali questioni a me pare, o Socrate, come forse anche a te, che avere in questa nostra vita una idea sicura, sia o impossibile o molto difficile; ma d’altra parte non tentare ogni modo per mettere alla prova quello che se ne dice, e cessare di insistervi prima di aver esaurita ogni indagine da ogni punto di vista, questo, o Socrate, non mi par degno di uno spirito saldo e sano. Perché insomma, trattandosi di tali argomenti, non c’è che una cosa sola da fare di queste tre: o apprendere da altri dove sia la soluzione; o trovarla da sé; oppure, se questo non è possibile, accogliere quello dei ragionamenti umani che sia se non altro il migliore e [d] il meno confutabile, e, lasciandosi trarre su codesto come sopra una zattera, attraversare così, a proprio rischio, il mare della vita: salvo che uno non sia in grado di fare il tragitto più sicuramente e meno pericolosamente su più solida barca, affidandosi a una divina rivelazione. E così dunque, anche ora, io non avrò scrupolo a interrogarti, dal momento che tu stesso me lo dici; e tanto meno avrò da incolparmi in séguito di non averti detto ora quello che avevo nel cuore. Perché veramente, o Socrate, le ragioni dette fin qui, da che io sto indagando meco medesimo e con questo nostro amico, non mi pare che soddisfino del tutto.

[e] XXXVI. E Socrate, - Può darsi, disse, o amico, che la tua impressione sia giusta. Ma dimmi dove precisamente ti pare che non soddisfi quello che si è detto. - In questo. C’è un punto, disse Simmia, in cui codesto tuo medesimo ragionamento si potrebbe ripetere anche a proposito di accordo musicale e di lira e di corde: e dire cioè che questo accordo, in una lira bene accordata, è qualche cosa di invisibile e di incorporeo, di perfettamente [86a] bello e divino; mentre la lira e le corde sono corpi, e di forma corporea, e composti e terreni, e insomma congeneri del mortale. Ora, se uno, rotta la lira o tagliate e strappate le corde, si facesse forte del tuo stesso ragionamento, e dicesse, come tu dici, che quel tale accordo deve necessariamente seguitare a esistere e non può perire: - perché certo non ci sarà modo che si conservi la lira dopo spezzate le corde, e si conservino le corde, che sono cose tutte mortali, e viceversa perisca l’accordo, che è della stessa [b] natura e della stessa origine del divino e dell’immortale, e perisca prima del mortale; ma anzi, dice, sarà proprio questo accordo che dovrà in qualche modo conservarsi, e infradiceranno prima i legni e le corde innanzi che patisca esso di alcuna perturbazione... - Del resto io credo bene, o Socrate, che ti sarai avveduto anche tu di questo, che noi ci figuriamo dell’anima a un di presso qualche cosa di simile: che cioè, come se il nostro corpo fosse teso e tenuto insieme dal caldo e dal freddo, dal secco e dall’umido e da altrettali elementi, l’anima sia appunto una temperanza [c] e un accordo di codesti elementi; quando, s’intende, essi siano mescolati gli uni con gli altri in misura eguale e perfetta. Se dunque l’anima è una specie di accordo, è ben chiaro che, quando il nostro corpo da morbi o da altri mali sia rilassato o teso fuori del suo giusto equilibrio, necessariamente l’anima deve sùbito cessare di esistere, per quanto divinissima ella sia, allo stesso modo degli altri accordi che osserviamo nei suoni e in tutte generalmente le opere degli artisti; e dureranno invece per un tempo assai lungo i residui di ciascun corpo fino a che siano arsi [d] dal fuoco e consumati dalla putrèdine. Vedi tu dunque ora che cosa potremo rispondere a questo argomento, se uno ritenga che l’anima, essendo una temperanza degli elementi onde è costituito il corpo, sia proprio essa, nella così detta morte, la prima a morire.

XXXVII. Allora Socrate, sorridendo e guardando in giro, come spesso soleva, coi suoi occhi aperti, - In verità, disse, giusto è il ragionamento di Simmia... Ebbene, se c’è alcuno tra voi più pronto di me, perché non risponde?... Egli è tale, mi sembra, l’amico nostro, che affronta le discussioni non senza una certa bravura. Credo però sia [e] bene, innanzi di rispondere a Simmia, sentire prima anche Cebète, che cosa ha da dire lui, per parte sua, contro il mio ragionamento; e così, in questo frattempo, posso pensare a quello che dirò io: e poi, sentiti tutti e due, o convenire con loro, se si vede che, diciamo così, cantino a tono, o altrimenti... eh, allora, bisognerà pur ch’io mi provi, così com’è, a fare la difesa del mio ragionamento. Su via, disse, o Cebète, parla: che cos’è che ti lasciava dubitoso e turbato? - Ecco qua, rispose Cebète; te lo dirò. Io ho l’impressione che il ragionamento sia rimasto ancora allo stesso punto, e che si presti alle medesime [87a] obiezioni che facevamo precedentemente. Che la nostra anima esistesse anche prima di rivestire questa nostra forma umana, quanto a codesto io non mi tiro indietro, non nego che sia stato dimostrato assai bene, e anzi, se dire così non è molesto, in modo veramente perfetto. Ma che, morti noi, ella séguiti tuttavia a esistere, ecco il punto in cui non vedo che la dimostrazione sia stata sufficiente. Non però che io consenta alla obiezione di Simmia che l’anima non abbia una maggior resistenza e una più lunga durata del corpo; perché, sotto tutti questi rispetti, mi pare che l’anima sia di moltissimo superiore. "O allora - potrebbe oppormi il tuo ragionamento - perché ancora diffidi, se vedi che, morto l’uomo, la parte di lui che pur [b] riconosci più debole esiste tuttavia? non pare a te che la parte la quale è di più lunga durata dovrebbe necessariamente seguitare a vivere in questo periodo di tempo in cui dura ancora quell’altra?". Considera dunque a questo proposito se ha qualche valore quel che sono per dire. E ho bisogno anch’io, pare, di una immagine come Simmia. Io credo che codesto che dici tu si potrebbe dire ugualmente bene a proposito di un vecchio tessitore morto, chi sostenesse che non è morto l’uomo ma che è vivo e vegeto; e a riprova di ciò presentasse il mantello che colui indossava e che s’era da se medesimo intessuto, mostrando che codesto mantello è vivo e non è morto; e, a chi non gli [c] credesse, domandasse se è di più lunga durata la natura dell’uomo o quella del mantello che uno adopera e porta indosso; e, rispondendogli quel tale che molto più, s’intende, la natura dell’uomo, egli ritenesse con ciò bell’e dimostrato che dunque a maggior ragione ha da esser vivo l’uomo, dal momento che l’altro, il mantello, che pur riconosceva di minor durata dell’uomo, non è morto. Ma no, o Simmia, la cosa, credo, non è così. Sta attento anche tu a quello che intendo dire. Perché chiunque vorrà ammettere che chi fa un ragionamento di questo genere dice cosa senza senso. Infatti questo nostro tessitore, dopo aver consumati e intessuti molti di codesti mantelli, va bene dire che rispetto a codesti mantelli, che erano pure pa-[d] recchi, egli è morto dopo, ma rispetto all’ultimo, credo bene, egli è morto prima; e questa non è di certo una maggior ragione per dire che l’uomo è da meno e di minor resistenza di un mantello. Ora, questa stessa immagine penso che si potrebbe applicare alle relazioni dell’anima col corpo; e chi a codesto proposito ragionasse appunto così, e cioè sostenesse che l’anima è cosa di assai lunga durata e il corpo di minor durata e di minor resistenza, costui, mi pare, ragionerebbe giustamente. Ma in realtà egli direbbe che ogni anima viene via via consumando più corpi; e tanto più se quest’anima dura in vita parecchi anni. E anche se il corpo è in un continuo stato di deflusso e di deperimento, mentre l’uomo rimane ancora in vita, [e] ma d’altro canto l’anima ritesse via via quella parte del corpo che si viene consumando; sarà pur necessario che, il giorno in cui l’anima venga a morire, ella si trovi precisamente ad avere su di sé l’ultima sua tessitura, e che muoia quindi prima di questa e di questa soltanto; e poi, morta l’anima, allora finalmente il corpo rivelerà la sua propria naturale debolezza, e rapidamente imputridirà e dileguerà del tutto. Cosicché, chi ragiona in tale modo, non può essere ancora in condizione da affrontare la morte con la sicurezza che, morto lui, seguiterà in qualche modo [88a] a sussistere la sua anima. Che se pure taluno concedesse, a chi sostiene come te la immortalità dell’anima, anche più di quello che io stesso conceda, e cioè non solamente che le anime nostre esistettero già in un tempo anteriore al nostro nascere, ma anche che nulla vieta che pur dopo la nostra morte seguitino e seguiteranno a essere ancora anime di viventi e che più volte si rigenereranno e più volte di nuovo moriranno; - perché l’anima è cosa per sua propria natura di tal resistenza che può tollerare di rigenerarsi in più corpi più volte: - ma poi, conceduto codesto, egli si rifiutasse di concedere altro, e cioè che l’anima non si affatichi nel passare tante volte di generazione in generazione, e per avventura non finisca, in qualcuna delle morti corporee, di morire anch’ella totalmente; e dicesse che di questa morte ultima e di questa ultima [b] dissoluzione del corpo, quella appunto che reca seco la distruzione dell’anima, nessuno ha coscienza perché non è possibile ci sia alcuno di noi che se ne possa accorgere; - ebbene, dunque, se la cosa è così com’io dico, non c’è nessuno il quale, affrontando la morte con coraggio, abbia il diritto di credere che codesto suo coraggio non è stolto; nessuno, dico, il quale non sia in grado di dimostrare che veramente l’anima è immortale e veramente indistruttibile. Altrimenti sarà pur sempre fatale che chi è su la soglia della morte tema per la propria anima, e dubiti che quello che per essa è, nel momento, il suo distacco dal corpo, non sia anche la sua estrema e totale dispersione.

XXXVIII. Tutti quanti, a sentir quei due parlare così, [c] provammo un senso di disagio, come poi ci dicemmo più volte, dopo di allora, l’uno con l’altro; perché, mentre dalle ragioni di prima eravamo stati pienamente convinti, ora quei due pareva ci scompigliassero di nuovo l’animo e ci ributtassero giù nella sfiducia, non solo rispetto ai ragionamenti già fatti, bensì anche rispetto a quelli che si sarebbero fatti poi; nella sfiducia, dico, o di essere noi al tutto incapaci di giudicare, o addirittura che l’argomento della disputa fosse poco credibile per se medesimo. ECH. Oh, mio Fedone, vi capisco bene! Perché anche a me, a udirti ora parlare, vien fatto di dire a me stesso qualche cosa di simile: "A qual ragionamento d’ora innanzi [d] potremo credere? Era così profondamente persuasiva la dimostrazione di Socrate? E ora, ecco, è ricaduta nella incertezza". Ed è meraviglioso come anche ora e sempre mi prenda e vinca, di fronte all’altro codesto argomento che la nostra anima sia una specie di accordo; e, sentendomelo ripetere, mi ha fatto in certo modo tornare a mente che già anch’io ero di questo parere. E così ho grande bisogno ancora, e come se si ricominciasse da capo, di un’altra dimostrazione la quale mi persuada che, morto l’uomo, non muore l’anima insieme con lui. Dimmi, dunque, per quale via Socrate seguitò il proprio ragionamento? e dimmi, [e] che forse anche lui, come mi dici di voi dette a vedere di essere un poco turbato, oppure no, e serenamente venne in aiuto delle proprie ragioni? e l’aiuto fu sufficiente o rimase manchevole? Raccontaci tutto, quanto più esattamente tu puoi. FED. In verità, o Echècrate, più volte io ebbi occasione di ammirare Socrate, ma non mai fui preso da tanta ammirazione e stupore come quest’ultima che [89a] mi trovai con lui. Che egli, Socrate, avesse ragioni da rispondere, codesto, so bene, non è niente di straordinario; ma ciò che più che mai, allora, suscitò la mia ammirazione, fu questo: prima, a vedere con che dolcezza e benevolenza e deferenza ascoltò l’argomentazione di quei giovani; poi, con quale penetrazione si avvide sùbito dello smarrimento che i loro discorsi ci avevano messo nell’anima; e poi anche come bene seppe guarirci, e come, mentre noi, si può dire, già eravamo in fuga e sconfitti, egli ci richiamò a sé e ci rincorò a seguirlo e a riesaminare insieme la dimostrazione. ECH. E come? FED. Te lo dirò. Io mi trovavo alla destra di lui, ai piedi del suo lettuccio, seduto [b] sopra uno sgabello basso, ed egli era seduto assai più alto di me. E così, accarezzandomi il capo e lisciandomi i capelli sul collo, - era sua abitudine, se gli capitava, di scherzare sui miei capelli, - Domani, dunque, disse, o Fedone, questi tuoi bei capelli forse te li taglierai. - Così pare, io risposi, o Socrate. - Ma no, se darai ascolto a me. - E come? domandai. - Quest’oggi, disse, e io taglierò i miei capelli e tu i tuoi se ci muoia questo nostro ragionamento e non si sia capaci di richiamarlo in vita. [c] E io anzi, se fossi in te, e il ragionamento mi scappasse via, farei giuramento, come già fecero gli Argivi, di non lasciarmi più crescere i capelli se prima non sarà riuscito con una nuova battaglia a vincere il ragionamento di Simmia e di Cebète. - Ma contro due, osservai io, neanche Eracle è buono, dice il proverbio. - Ebbene, disse, e tu chiama me in aiuto come fossi i tuo Iolào; finché ancora c’è luce.- Sta bene, dissi, ti chiamerò; ma non come fossi io Eracle, bensì come Iolào e tu Eracle. - Sarà lo stesso, disse.

XXXIX. Ma prima di tutto bisogna stare attenti che non ci succeda un guaio. - Che guaio?, domandai. [d] - Questo, disse: che non diventiamo misòlogi come si diventa misàntropi. Perché non può capitare a uno peggior guaio di questo, che gli vengano in odio i ragionamenti. Misologia e misantropia nascono allo stesso modo. La misantropia ci si mette indosso così, che riponiamo tutta la nostra fiducia in qualcuno senza avere degli uomini nessuna pratica, e crediamo che costui sia la perla della verità della sincerità e della fedeltà; e poi, dopo poco, troviamo che quest’uomo è tristo e infido, e poi ancora lo troviamo diverso, e così avanti. Ora, se questo ci càpiti più volte, e massime da parte di persone che reputassimo [e] intimissime e amicissime, si finisce, naturalmente, per le continue delusioni, con l’odiare tutti quanti a un modo e col credere che addirittura non vi sia più niente di schietto in nessuno. Non ti sei mai accorto tu che succede proprio così? Certamente, dissi. - E dunque, egli disse, non è vergogna che codesto avvenga? non è evidente che colui a cui càpitano di tali delusioni usa trattare con gli uomini senza avere nessuna pratica delle cose umane? Perché, se trattasse con gli uomini avendone qualche conoscenza, giudicherebbe la cosa come realmente è, e cioè che di uomini del tutto buoni e di uomini del tutto mal-[90a] vagi ce n’è pochi da una parte e dall’altra, e che i più invece stanno nel mezzo fra gli uni e gli altri. - Come vuoi dire?, dissi io. - Succede lo stesso, riprese, delle cose estremamente piccole e delle cose estremamente grandi. Credi tu ci sia niente di più raro al mondo che trovare, per esempio, o un uomo o un cane o un altro essere qualsiasi estremamente grande o estremamente piccolo? e così pure, che trovar cosa estremamente veloce o lenta, estremamente brutta o bella, estremamente bianca o nera? Non ti sei accorto che di tutte codeste qualità gli estremi dall’uno e dall’altro lato sono rari e pochi, e che invece le qualità intermedie sono abbondanti e molte? - Certo, dissi io. - E dunque, disse, non credi tu che, se si [b] facesse una gara di malvagità, ben pochi anche qui sarebbero i primi? - E’ naturale, dissi. - Sicuro, disse, è naturale. Ma non è questo il punto in cui io dico si possano assomigliare i ragionamenti agli uomini. Tu mi hai condotto or ora fuori strada, e io ti son venuto dietro. Bensì è questo: e cioè che, quando uno ripone la sua fiducia in qualche ragionamento con la persuasione che sia vero, ma senza ch’egli abbia alcuna conoscenza dell’arte del ragionare; e poi, poco dopo, si metta in capo che codesto ragionamento è falso - e talora è realmente falso, talora non è; - e poi di nuovo gli sembri diverso da prima, e poi ancora diverso e così via... Ora tu sai bene [c] che sono precisamente quei tali che perdono il lor tempo a ragionare pro e contro, i quali finiscono col credere di essere essi soli divenuti sapientissimi e di aver capito essi soli che di tutte le cose di questo mondo non ce n’è una che sia sicura e salda, e così neanche dei ragionamenti; e che insomma tutte quante, proprio come nell’Eurìpo, danno volta continuamente su e giù, e che non c’è mai né un momento né un punto in cui esse rimangono ferme. - Precisamente, risposi; è giusto come tu dici. - Ebbene, o Fedone, egli disse, non sarebbe dunque una condizione lamentevole questa, di uno che, pur essendoci qualche ragionamento vero e saldo e di cui sia pur possi-[d] bile capire che è vero e saldo; per il fatto che poi egli venga a trovarsi dinanzi a ragionamenti i quali, per quanto siano sempre gli stessi, cioè veri o falsi, ora gli appariscono veri ora no, non già incolpasse se medesimo e la sua particolare imperizia, ma, per il piacere di liberarsi dal tormento di simile alternativa, finisse col respingere da sé quella ch’è unicamente sua colpa e la gittasse addosso ai ragionamenti stessi, e così oramai seguitasse per tutto il resto di sua vita, odiando e maledicendo ogni ragionamento, e si privasse della conoscenza e della verità di ciò che realmente esiste? - Senza dubbio, io risposi, sarebbe una lamentevole condizione.

XL. - Per prima cosa dunque, egli disse, dobbiamo stare attenti a questo, e non lasciare che si faccia strada [e] nel nostro animo il pensiero che il male abbia da essere nei ragionamenti; ma pensiamo piuttosto che ammalati siamo noi, e bisogna comportarsi da uomini e procurare di esser sani: tu e gli altri, per tutta la vita che vi resta ancora da vivere, io... sì, proprio per questa morte che m’è [91a] addosso. Perché anch’io, trattando di un problema come questo in questo momento, corro il rischio di non comportarmi da vero filosofo, bensì di voler ragione a ogni costo, come quei tali che di educazione filosofica sono privi del tutto. Anche costoro, quando discutono intorno a qualche argomento, non si curano già di ricercare dove sia realmente la verità in ciò di cui stanno ragionando, bensì di fare apparir vere a chi discute con loro le questioni che essi stessi pongono; di questo solo si preoccupano. Ora io credo che, nel momento presente, la mia diversità da costoro sia solamente questa: in quanto cioè io non mi darò pensiero che appariscono vere a voi le cose che sono per dire, - se così avviene, tanto meglio! - ma che appariscono [b] vere a me prima che a ogni altro. Perché io faccio bene i miei conti, amico mio; e vedi tu se non ne avrò un guadagno! Se quello che dico risulterà vero, è chiaro ch’è un bene persuadersene; se poi, per chi è morto, non c’è più niente,... allora, se non altro, per tutto il tempo che precede la mia morte, non avrò dato fastidio a chi è meco con delle lamentele. Del resto ormai questa ignoranza non durerà un pezzo - e sarebbe un guaio! - ma sparirà fra poco. Ecco dunque, o Simmia e Cebète, con quale preparazione di animo io ritorno al nostro ragionamento. [c] E voi, se mi date ascolto, dovete preoccuparvi ben poco di Socrate e molto più invece della verità: e così, se vi pare che io dica il vero, e voi datemi il vostro consenso; se non vi pare, datemi contro con ogni vostro argomento, e state attenti che io, per troppo amore alla mia dimostrazione, non inganni me stesso e voi, e non me ne vada via di qui lasciandovi in cuore il pungiglione come fanno le api.

XLI. Andiamo, dunque, disse. E anzi tutto fatemi tornare a mente quello che dicevate, se mai io mostri di non ricordarmene. Simmia, se non sbaglio, dubita e teme che [d] l’anima, pur essendo più divina e più bella del corpo, muoia prima del corpo, come quella che è una specie di accordo. E Cebète mi pare consentisse meco in questo, che veramente l’anima duri più a lungo del corpo; ma poi, aggiungeva, quello che a tutti rimane oscuro è che l’anima, dopo consumati uno dopo l’altro più corpi, nell’atto in cui abbandona il suo ultimo corpo, proprio allora non venga ella stessa a morire, e che, ciò che diciamo morte, sia appunto questo, distruzione dell’anima, considerato che il corpo non cessa mai un solo istante di morire continuamente. C’è altro o son questi, Simmia e Cebète, gli argo-[e] menti che dobbiamo esaminare? Consentirono tutt’e due che erano questi. - Ebbene, egli disse, i ragionamenti di prima voi li rifiutate tutti in blocco, oppure alcuni sì e altri no? - Alcuni sì, risposero, altri no. - Ebbene, disse, di quel mio ragionamento che cosa pensate, nel quale io sostenevo che l’apprendimento è reminiscenza, e che quindi, ammesso ciò, la nostra anima dové pur esistere in qualche parte prima di noi, [92a] prima cioè che ella fosse legata al nostro corpo? - Io per me, disse Cebète, come fui persuaso allora da codesto tuo ragionamento che meglio non si poteva, così non c’è altro ragionamento ora al quale io rimanga fermo come a questo. - E quanto a me, disse Simmia, sono anch’io come Cebète: e molto mi meraviglierei di poter mai avere intorno a ciò una opinione diversa. - E Socrate: Ma allora, disse, ospite tebano, ti bisogna per forza mutar d’opinione, se veramente permani in quella tua idea che l’accordo sia qualche cosa di composto e che l’anima in quanto sia una specie di accordo, resulti composta dei vari elementi che si distendono per il corpo: perché non credo [b] vorrai proprio tu dire e ammettere che l’accordo, il quale è costituito di elementi, esistesse già prima che esistessero quei tali elementi di cui dovette pur un giorno costituirsi. O ammetti questo? - Ma niente affatto, egli disse, o Socrate. - Dunque ti accorgi, egli disse, che proprio questa contraddizione resulta dal tuo ragionamento, quando dici che l’anima nostra esisteva già prima di assumere forma e corpo di uomo, e che esisteva come costituita di elementi che non c’erano ancora prima di lei? E’ chiaro infatti che per te accordo non è tal cosa quale è quella a cui l’assomigli; ché prima esistono la lira le corde [c] e i suoni non anche accordati, e ultima cosa di tutte nasce l’accordo, e muore prima di tutte. Ora, questo tuo ragionamento, come lo puoi intonare con l’altro? - In nessun modo, disse Simmia. - E sì che, diss’egli, se c’è ragionamento che bisogna non stoni, è proprio questo su l’accordo! - E questo, egli disse, davvero ti stona. Vedi, dunque: dei due ragionamenti quale scegli, quello che l’apprendimento è reminiscenza o l’altro che l’anima è accordo? - Ma quello assai più, disse, o Socrate. Ché questo in verità m’è venuto fatto così, non per via di [d] dimostrazione, ma per una specie di analogia che pareva gli s’adattasse, che è il modo onde si formano in generale le opinioni degli uomini. Ma io so bene di che natura sono quei ragionamenti che voglion fare dimostrazioni per via di analogie! Sono ragionamenti impostori, dai quali, se uno non si guarda, è molto facile restare ingannati, così in geometria come in tutte le altre cose. Invece, questo del ricordarsi e dell’apprendere, fu fatto movendo da una ipotesi la quale parve degna di essere accettata. Infatti fu detto che così esiste la nostra anima anche prima di entrare i nel corpo, allo stesso modo che esistono e sono proprietà di essa anima quelle idee o essenze che hanno il nome [e] dell’essere in sé. E questa ipotesi io l’ho accettata con buona ragione e dirittamente, come ormai mi vengo persuadendo. Cosicché, mi pare, non è più possibile consenta a chi dice, sia io o sia altri, che anima è accordo.

XLII. - Ebbene, egli disse, o Simmia, che dici di questo: pare a te che l’accordo o alcun altro composto possa [93a] avere una natura diversa da quella degli elementi che lo compongono? - Non mi pare. - E nemmeno quindi, io credo, ch’esso faccia o patisca cosa diversa da ciò che possono fare o patire codesti elementi. Consentì. - Dunque l’accordo non può dirigere esso questi elementi dei quali è composto, ma seguirli. Convenne. - Che dunque l’accordo possa aver vibrazioni o suoni in senso contrario, o in altro modo si contrapponga alle sue proprie parti, questo non si può neanche pensare. - Sicuramente, disse. - Dimmi, ora, ogni accordo non è accordo appunto per questa sua natura, in quanto cioè sia accordato? - Non capisco, disse. - Un accordo, egli [b] disse, che fosse accordato più e meglio, dato che questo si potesse fare, non sarebbe un accordo maggiore e migliore; e, se meno e peggio, minore e peggiore? - Certamente. - Bene, è possibile questo dell’anima, che cioè un’anima, ancorché in parte infinitamente piccola più anima di un’altra, più e meglio o meno e peggio di un’altra, possa essere precisamente e unicamente questo, cioè anima? - Non è possibile affatto, disse. - Or via, dunque, egli disse: si è soliti dire di un’anima, la quale abbia senno e virtù, che è buona; e di un’altra, la quale abbia dissennatezza e perversità, che è cattiva. E’ giusto quando diciamo così? [c] - Giustissimo, disse. - Allora, uno di quelli i quali pongono che l’anima sia accordo, che cosa dirà che sono queste qualità che si trovano nelle anime, la virtù e il vizio? dirà forse che la virtù è una specie, anche questa, di accordo, e il vizio disaccordo? e che, delle anime, l’una, la buona, è accordata e ha in sé, in quanto è accordo, un altro accordo; e che l’altra è scordata essa, né ha in sé altro accordo? - Io per me, disse Simmia, non saprei che dire: ma capisco che chi pone codesta ipotesi si troverà a dire press’a poco in codesto modo. - Ma s’è pur convenuti or ora, [d] fra noi, disse Socrate, che un’anima non differisce da un’altra né in più né in meno; che è appunto quello che convenimmo col dire che un accordo non differisce né in più né in meglio, né in meno né in peggio , da un altro accordo. Sta bene? - Benissimo. - E che questo accordo, in quanto non è né maggiore né minore di un altro, non è neanche né più né meno accordato. E’ così? - Così. - E l’accordo, che non è accordato né in più né in meno, può avere in sé qualche cosa di più o di meno di accordo, o ha da averne in misura eguale? - In misura eguale. - E dunque l’anima, dal momento che, non essendo un’anima né più né meno anima di un’altra, è appunto e preci-[e] samente questo, cioè anima, neanche potrà essere, credo bene, più o meno accordata. - Così. - Ma se questa è la condizione dell’anima, nessun’anima potrà avere più di un’altra né disaccordo né accordo. - Certo non potrà. - E ancora, se questa è la sua condizione, nessun’anima potrà avere più di un’altra né vizio né virtù, ammesso che vizio è disaccordo e virtù è accordo. - Niente di più. - Sta bene: anzi, o Simmia, seguendo [94a] il filo del nostro ragionamento, diremo meglio che nessun’anima è accordo. Perché senza dubbio l’accordo, in quanto non è altro per se stesso e assolutamente che accordo, non potrà mai partecipare di disaccordo. - No certo. - E dunque, tu capisci bene, anche l’anima che è assolutamente anima, non può partecipare di malvagità. - Sicuro; e come potrebb’essere altrimenti dopo ciò che s’è detto? - Per noi dunque, secondo questo nostro ragionamento, tutte le anime di tutti gli esseri viventi saranno virtuose a un modo, se è vero che tutte quante a un modo per propria natura sono unicamente questo, cioè anime. - Così mi pare, egli disse, o Socrate. - E ti pare anche sia giusta, disse, questa conclusione, e che a questa [b] conclusione il nostro ragionamento sarebbe venuto se fosse vera l’ipotesi che l’anima è accordo? - No affatto, disse.

XLIII. - E dimmi, rispose Socrate, di tutto ciò che è nell’uomo sai dirmi se vi sia altra cosa che comandi, all’infuori dell’anima, massime tenuto conto che ella possiede intelligenza? - Io no. - E comanda cedendo alle passioni del corpo o anzi avversandole? Voglio dire di casi come questo: per esempio, nel corpo c’è arsura e sete, e l’anima lo tira al contrario, a non bere; c’è fame, e l’anima lo tira a non mangiare; e così altri mille casi in cui ve-[c] diamo che l’anima si oppone alle passioni del corpo. O no? - Proprio così. - Ma non convenimmo già noi, nei ragioname di prima, che l’anima, se veramente è accordo, non potrebbe mai dar suoni contrari al modo onde sono tesi o allentati o tòcchi o come altrimenti alterati quegli elementi da cui quest’anima risulta; bensì dovrebbe seguire codesti elementi, e non mai esser loro di guida? - Convenimmo, disse; e come no? - E dimmi, dunque, non è evidente ora per noi che l’anima fa proprio tutto il contrario, sia ch’ella diriga tutti codesti elementi di cui vogliono alcuni sia costituita, sia che li avversi, [d] dirò così, da ogni parte, per tutta quanta la vita, e in ogni modo li domini; ora, cercando di contenerli con severità e anche con dolore, seguendo i suggerimenti della ginnastica e della medicina, ora invece, più dolcemente, con semplici minacce e consigli, disputando coi desidèri con le ire con le paure, quasi ch’ella fosse da codeste passioni estranea e diversa, queste a lei? Anche Omero, nell’Odissea, ha poetato, mi pare, qualche cosa di simile, là dove dice di Odìsseo

 e battendosi il petto, così parlava al suo cuore:

[e] soffri, mio cuore ! altri morsi una volta soffristi più acuti ! 


Credi tu forse che Omero poetasse a quel modo avendo in mente come se l’anima fosse un accordo e tale da essere governata dalle passioni del corpo, e non invece come se ella governasse e dominasse codeste passioni, e fosse realmente cosa troppo divina da poter essere collocata allo stesso livello di un accordo? - Certo, o Socrate, mi pare proprio così. - E dunque, amico, per noi, dire che anima è accordo non può stare assolutamente. Perché, [95a] com’è chiaro, non solo saremmo in contraddizione con Omero, poeta divino, ma anche con noi medesimi. - E’ così, disse.

XLIV. - Sta bene, dunque, disse Socrate: quanto ad Armonia, quella tebana, c’è divenuta, pare, propizia abbastanza; e quanto a Cadmo, disse, o Cebète, come ce lo propizieremo, e con quale ragionamento? - Credo bene, disse Cebète, che lo troverai facilmente. Già questo ragionamento che tu facesti su l’accordo fu una meraviglia e superò ogni nostra aspettazione. Di fatti, mentre Simmia parlava e diceva i suoi dubbi io ero pieno di stupore e mi domandavo: "Ci sarà qualcuno capace di cavarsi fuori [b] da queste sue obiezioni?". E però tanto più mi parve straordinario che sùbito non reggessero codeste obiezioni al primo impeto delle tue parole. E così non mi meraviglierei se anche al ragionamento di Cadmo capitasse lo stesso. - Amico mio, disse Socrate, non parlare troppo alto, ché un qualche brutto incantesimo non ci abbia da ributtare indietro il ragionamento che sta per uscire. A questo, del resto, ci penserà Iddio; quanto a noi, "facciamci da presso", direbbe un eroe omerico, e vediamo bene che cos’è che tu dici. Il punto capitale della tua ricerca è questo: tu vuoi ti sia dimostrato che l’anima nostra è [c] indistruttibile e immortale. Altrimenti, se uno che ha in vita professato filosofia, mentre è per morire, confida e crede che, dopo morto, sarà di là assai più felice che se morisse dopo vissuta una vita tutt’affatto diversa, costui tu dici, si fa forte di una confidenza che è dissennata e pazza. D’altra parte, dimostrare che l’anima è qualche cosa di resistente e di divino, e che c’era prima ancora che noi fossimo uomini, tutto questo, dici, può essere indizio, non già che l’anima sia immortale, ma solamente che è di lunga durata, e che anche prima esistette per un tempo quanto si voglia interminabile; e che sapeva e faceva molte cose. Se non che, dicevi anche, codesta non è una ragione [d] maggiore per sostenere che l’anima sia immortale; e che anzi questo suo entrare in corpo umano è proprio esso, come una malattia, il principio della sua rovina; e che per tutta questa nostra vita ella vive in mezzo a travagli, e poi finalmente si spegne in quella che appunto diciamo morte. E quindi, concludevi, per la nostra paura, che l’anima entri in corpo umano una volta sola o più volte, non fa differenza; perché chi non sa né ha modo di rendersi conto che ella è immortale, se colui non è sciocco, è naturale abbia paura in ogni modo. Queste o Cebète, mi pare siano [e] su per giù le cose che dici. E io appositamente le riassumo più volte, perché niente ci sfugga e tu abbia modo, se vuoi, di aggiungere o di togliere. E Cebète, - Veramente, disse, almeno per ora, non ho niente né da togliere né da aggiungere. Questo è quello che io dico.

XLV. Socrate rimase un poco di tempo sopra pensiero e come riflettendo tra sé e sé; poi disse: - Non è cosa da poco, o Cebète, quello che cerchi. Bisognerà rifarsi a ricercare in genere la causa della generazione e della corru-[96a] zione delle cose. Or io ti dirò, a questo proposito, se vuoi, quello che è capitato a me. E se qualche cosa di quel che sono per dirti ti sembrerà utile, potrai usarne per persuaderti che quello appunto che dici... - Ma certo, disse Cebète, proprio questo desidero. - Ascolta, dunque, che te lo dirò. Io, disse, o Cebète, quando ero giovane, fui preso da una vera passione per quella scienza che chiamano indagine della natura. E veramente mi pareva scienza altissima codesta, conoscere le cause di ciascuna cosa, e perché ogni cosa si genera e perisce ed è. [b] E più volte ogni mia indagine da cima a fondo rimutavo, esaminando anzi tutto problemi come questi: se è vero, per esempio, che quando il caldo e il freddo fanno putrèdine, allora, come alcuni dicono, nascano e crescano gli esseri viventi ; e se l’elemento con cui pensiamo è il sangue o l’aria o il fuoco; oppure niente di tutto questo, ed è invece il cervello che dà le sensazioni dell’udire del vedere e dell’odorare, onde poi si generino memoria e opinione, e, dalla memoria e dall’opinione, una volta presa stabilità nel nostro animo, così appunto si generi la conoscenza. E via via indagando poi il corrompersi delle cose, [c] e le vicende del cielo e della terra, finii col persuadermi che a questa specie di indagini io ero nato assai meno di ogni altro. E a persuaderne te basterà questo. Ché quello che già prima io sapevo con chiarezza, almeno secondo pareva a me e agli altri, ecco che allora, per effetto di queste ricerche, mi si abbuiò totalmente, cosicché disimparai anche quello che prima credevo sapere, sia riguardo a molti altri problemi, sia, per esempio, riguardo a questo, perché l’uomo cresce. Infatti, prima di allora, credevo fosse chiaro a chiunque che l’uomo cresce per il mangiare e per il [d] bere; e che, siccome dal nutrimento si aggiungono carni alle carni e ossa alle ossa e nello stesso modo anche alle altre parti del corpo si aggiungono quegli elementi che sono propri di ciascuna di esse, - allora dunque io credevo che il volume del corpo, da poco che era, fossi poi divenuto molto, e così l’uomo da piccolo diventasse grande. Così allora credevo. E non ti pare credessi giusto? - Mi pare, disse Cebète. - Vedi ora anche questo. Io credevo, per esempio, di avere un’idea giusta e sufficiente quando, posto un uomo grande accanto a uno piccolo, costui mi appariva più grande non per altro che per la [e] testa; e così un cavallo rispetto a un altro cavallo. E ancora, per darti altri esempi di più netta evidenza, mi pareva che dieci fosse più di otto per il due che ha in più, e che il bicùbito fosse maggiore del cùbito perché lo sorpassa della metà. - E ora, disse Cebète, qual è la tua opinione su queste cose? - Oh, disse, ben lontano io sono dal credere di conoscere la causa di una qualunque di queste cose ! Io che in verità, non saprei consentire a me stesso neppure questo, che cioè, se si aggiunge una unità A a una unità B, o l’unità A, a cui fu aggiunta l’unità B, diventi due <o diventi due l’unità B aggiunta>; oppure, che l’unità B aggiunta e l’unità A a cui fu aggiunta l’unità B, diven-[97a] tino due per questa aggiunzione dell’una all’altra rispettivamente. Insomma, io non riesco a capire in che modo, finché ciascuna di codeste unità era separata l’una dall’altra, realmente, allora, ciascuna fosse una e non fossero due; e poi per il solo fatto che si avvicinarono l’una all’altra, proprio questa abbia da essere stata la causa per cui diventarono due, cioè, dico, questo trovarsi insieme, che non è altro se non l’essere state collocate l’una vicina all’altra. E neanche riesco a persuadermi che se si tagli a mezzo una unità, abbia da esser ancora questa la causa, cioè questo taglio, che l’uno sia diventato due. La quale è proprio tutto l’opposto di quella onde diventò due allora. [b] Allora infatti diventò due perché si portò vicina una unità all’altra e l’una all’altra si aggiunse; ora invece perché si porta via e si distacca l’una dall’altra. E neanche sono persuaso di sapere come l’uno si genera; né insomma di verun’altra cosa credo sapere perché si genera o perisce o è, se io séguito in questo metodo di ricerca; e cerco di farmi da me, alla meglio, un altro metodo, visto che a questo non so adattarmi in nessun modo.

XLVI. Ma udito una volta un tale leggere da un libro, [c] come egli diceva, di Anassagora, e dire che dunque c’è una mente ordinatrice e causa di tutte le cose, io mi rallegrai di questa causa e, mi parve, secondo un mio modo, che questo porre la mente come causa di tutto convenisse perfettamente; e pensai, se la cosa è così, vuol dire che questa mente ordinatrice ordina tutte le cose nel loro insieme e ognuna dispone singolarmente nel modo che per essa è il migliore. E dunque, pensavo, chi voglia trovare la causa di ciascuna cosa, e cioè come ogni cosa si genera e perisce ed è, questi gli bisognerà trovare di codesta cosa, qual è il suo modo migliore di essere o di fare o di subire [d] alcun che. E, procedendo in questo ragionamento, pensavo che niente altro convenga all’uomo indagare, sia di esso uomo sia delle altre cose, se non ciò che è l’eccellentissimo e l’ottimo; e che, necessariamente, quegli medesimo che il meglio, dovrà conoscere anche il peggio, perché una sola e identica è la conoscenza del meglio e del peggio. Così ragionando, con grande gioia ritenevo di aver trovato in questo Anassagora chi m’avrebbe insegnato, secondo la mente mia propria, la causa di tutto ciò che è: e che egli, per esempio, avrebbe cominciato col dirmi se la terra è [e] piana o rotonda; e, dopo dettomi questo, mi avrebbe spiegato perché è così e perché non può essere che così, allegando la ragione del meglio, e cioè che per essa il meglio era appunto di esser così o così; e se poi mi dirà che ella è nel mezzo, mi chiarirà che per lei il meglio era appunto di essere nel mezzo; e se mi dimostrerà questo, ecco, dicevo, ch’io son pronto a non desiderar più altre cause di altro [98a] genere. E anche del Sole ero preparato a non domandare di più; e così della Luna e degli altri astri, e dei loro rapporti di velocità e dei loro ritorni e delle altre loro vicende: e cioè in che modo per ciascuna cosa il meglio sia che faccia quello che fa e subisca quello che subisce. Né io in vero mi sarei mai immaginato che costui, il quale sosteneva che codeste cose erano state ordinate da una mente, assegnasse poi loro una causa diversa da questa, che il meglio per esse sia d’esser così come sono. E quindi [b] pensavo che egli, assegnando a ciascuna cosa individualmente e a tutte collettivamente questa causa, anche avrebbe dichiarato qual è l’ottimo per ciascuna e il comun bene per tutte. E queste mie speranze non le avrei date per tutto l’oro del mondo; e, presi con grande sollecitudine que’ suoi libri, mi misi a leggerli con la maggiore rapidità, perché volevo con la maggiore rapidità conoscere il meglio e il peggio.

XLVII. Ed ecco invece, o amico, che da così alta speranza io mi sentivo cader giù e portare via man mano che, procedendo nella lettura, vedevo quest’uomo non valersi affatto della mente, non assegnarle alcun principio di cau-[c] salità nell’ordine dell’universo, bensì presentare come cause e l’aria e l’etere e l’acqua e altre cose molte, e tutte quante fuori di luogo. E mi parve fosse proprio lo stesso che se uno, pur dicendo che Socrate tutto quello che fa lo fa con la mente, quando poi si provasse a voler determinare le cause di ogni cosa ch’io faccio, incominciasse col dire che ora, per esempio, io sono qui seduto per ciò che il mio corpo è composto di ossa e di nervi; e che le ossa sono rigide, ma hanno articolazioni che le separano le [d] une dalle altre; e che i nervi sono capaci di tendersi e di allentarsi, e che avvolgono tutt’intorno le ossa insieme con la carne e con la pelle che li ricopre; e dunque, siccome le ossa sono come sospese e oscillanti nelle loro proprie giunture, e i nervi, allentandosi e tendendosi, fanno sì che ora io sia in grado di piegare in qualche modo le mie membra, questa appunto è la causa per cui ho potuto piegarmi e sedermi qui. E lo stesso anche sarebbe di questo mio conversare con voi chi lo attribuisse ad altrettali cause, allegando, per esempio, la voce l’aria l’udito e infinite altre [e] dello stesso genere, senza curarsi affatto di dir quelle che sono le cause vere e proprie: e cioè che, siccome agli Ateniesi parve bene votarmi contro, per questo anche a me è parso bene restarmene a sedere qui, e ho ritenuto mio dovere non andarmene via, e affrontare quella qualunque pena che costoro abbiano decretato. Perché da un [99a] pezzo, lo so bene, questi miei nervi e queste mie ossa sarebbero o a Mègara o in Beozia, menate colà dalla opinione di ciò che per esse era il meglio, se io non avessi ritenuto più giusto e più bello, invece di andare in esilio e di darmela a gambe, pagare alla mia città la pena, qualunque essa sia, che ella m’impone. Ma chiamar cause ragioni di questo genere non ha che fare assolutamente. Ché se uno dice che, senza avere di codeste cose, e ossa e nervi e tutto quello che io ho, non sarei capace di fare quello che mi sembri dover fare, sta bene, costui dirà il vero; ma dire che queste sono la causa per cui io faccio quello che faccio, e dire al tempo stesso che io opero con [b] la mente ma senza che ci sia per la mia parte la scelta del meglio, questo in verità è il più grossolano e insensato modo di parlare. E significa essere incapaci di discernere che altro è la causa vera e propria, altro quel mezzo senza cui la causa non potrà mai esser causa. E tuttavia proprio questo, quasi fosse la vera causa, la più parte degli uomini, brancolando come nel buio, chiamano causa: e le danno un nome che non è suo. Ecco perché, per esempio, c’è chi, ponendo intorno alla terra un movimento vorticoso, immagina ch’ella sia tenuta ferma da questo moto del firmamento; e c’è chi immagina la terra come una madia piatta, e sotto le pone l’aria come sua base e sostegno. Ma quel [c] potere onde cielo e terra si trovano oggi disposti come fu possibile un giorno fossero disposti nel modo migliore, codesto potere né lo ricercano essi né credono abbia alcuna sua forza divina; bensì credono di poter ritrovare un Atlante assai più forte e più immortale di questo, e meglio capace di contenere in sé l’universo; e ciò che è il bene, che è ciò che lega ogni cosa al suo fine, non pensano affatto né che veramente colleghi cosa veruna né che la contenga. Ora io, dunque, per apprendere una causa di tal genere, in che modo ella è, ben volentieri mi sarei fatto discepolo di chicchessia. Ma siccome ne rimasi privo, e non fui capace [d] né di trovarla da me né di apprenderla da altri, mutai modo di navigazione. Vuoi tu, o Cebète, ch’io mi provi ora a spiegarti come mi son dato da fare in questo nuovo modo per la ricerca della vera causa? - Ma pensa, disse, con che entusiasmo io lo desidero!

XLVIII. - Dopo ciò, egli disse, stanco com’ero di tali indagini, credetti bene guardarmi da questo, che cioè non mi capitasse come a coloro che durante una ecclissi contemplano e indagano il sole: alcuni infatti ci perdono gli occhi, se non si limitano a considerarne l’immagine riflessa [e] nell’acqua o in qualche cos’altro di simile. E così pensai anch’io, e temetti mi s’accecasse del tutto l’anima a voler guardare direttamente le cose con gli occhi e a cercare di coglierle con ciascuno dei sensi. E mi parve che mi bisognasse rifugiarmi nei concetti, e considerare in essi la realtà delle cose esistenti. Sebbene forse, in certo senso, [100a] la similitudine non si addice. Perché io non posso ammettere che chi considera le cose nei loro concetti le vegga in immagine più di chi le consideri nella loro realtà. Io mi misi dunque per questa via; e, assumendo caso per caso come vero quel concetto che io giudicassi più sicuro e più saldo, le cose che a codesto concetto mi parevano accordarsi, queste ritenevo come vere, sia rispetto alla causa sia rispetto a tutte le altre questioni; quelle che no, ritenevo come non vere. Ma voglio chiarirti meglio ciò che intendo di dire. Perché penso che tu ora non capisca. - No, disse Cebète, non troppo.

[b] XLIX. - Eppure, rispose Socrate, questo ch’io dico non è niente di nuovo, ma quello sempre che già altre volte e anche nel precedente ragionamento non ho mai cessato di dire. E ora son qui per tentare di dimostrarti qual è questa specie di causa che mi sono costruita, e torno di nuovo a quei punti dei quali già fu discorso più volte, e ricomincio da quelli. Poniamo dunque che esista un bello in sé, un buono in sé, un grande in sé, e così via: le quali cose se tu mi concedi e ammetti che esistano realmente, io ho speranza, movendo da queste, di scoprire la vera causa e di dimostrarti che l’anima è immortale. - Sta [c] bene, disse Cebète: fa pur conto ch’io ti conceda ciò; e affretta, ti prego, le tue conclusioni. - Esamina dunque, egli disse, quello che da codesti punti consegue, se anche a te pare lo stesso che a me. A me pare infatti che, se c’è cosa bella all’infuori del bello in sé, per nessuna altra cagione sia bella e non perché partecipa di codesto bello in sé. E così dico, naturalmente, di tutte le altre cose. Consenti tu che la causa sia questa? - Consento, rispose. - E allora, riprese Socrate, io non capisco più e non posso più riconoscere le altre cause, quelle dei dotti. E se uno mi dice perché una qualunque cosa è bella, sostenendo che è bella o perché ha un colore brillante o [d] perché ha una sua figura o comunque per altre proprietà dello stesso genere, ebbene, io tutte codeste altre cause le lascio perdere, perché in esse tutte mi confondo; e mi tengo fermo a questa mia, sia pur ella semplice e grossolana e forse anche sciocca: e cioè che niente altro fa si che quella tal cosa sia bella se non la presenza o la comunanza di codesto bello in sé, o altro modo qualunque onde codesto bello le aderisce. Perché io non insisto affatto su questo modo, e dico solo che tutte le cose belle sono belle per il bello. E questo pare a me che sia l’argomento più sicuro per rispondere a me stesso e ad altri; e, tenendomi [e] stretto a questo, penso che non potrò mai cadere, e che per me e per ogni altro la cosa più sicura da rispondere sia questa, che le cose belle sono belle per il bello. O non pare anche a te così? - Mi pare. - E non ti pare dunque che per la grandezza le cose grandi siano grandi e le maggiori maggiori, e per la piccolezza le cose minori minori? - Sì. - Se dunque uno ti dicesse che un tale è più grande di un altro per il capo, e che il più piccolo dei due è più [101a] piccolo egualmente per il capo, tu non potresti accettare neppure codesto: e protesteresti vivamente che tu non intendi dire altro se non che il più grande, qualunque cosa sia più grande di un’altra, per niente altro è più grande se non per la grandezza, e che questa appunto è la causa per cui è più grande, la grandezza; e tutto ciò che è più piccolo per niente altro è più piccolo se non per la piccolezza; e che questa appunto è la causa per cui è più piccolo, la piccolezza. Infatti, se tu dicessi che per il capo uno è più grande di un altro e quest’altro più piccolo, avresti paura, credo, ti si facessero contro queste due obiezioni: primo, che per la stessa cosa il maggiore è maggiore e il [b] minore minore; e poi, che il più grande è più grande per il capo che è cosa piccola; e riconosceresti che è in verità mostruoso che uno sia grande per cosa che è piccola. Non è vero che avresti paura di tali obiezioni? - E Cebète, ridendo: Sì, certo, disse. - E anche, soggiunse, non avresti paura di dire che il dieci è più dell’otto per il due, e che proprio questo due è la causa per cui il dieci supera l’otto; e non invece che è per la pluralità, e che appunto questa pluralità è la causa del suo essere più? e che il bicùbito è maggiore del cùbito per la metà, e non invece per la grandezza? Si tratta sempre, mi pare, della stessa paura. - Di certo, disse. - E ancora, se si aggiunge uno a uno, non avresti ritegno a dire che sia codesta addizione la causa del diventar due, e, se si divide [c] uno in due, che la causa sia codesta divisione? E dirai alto e forte che tu non sai come altrimenti una data cosa si generi se non in quanto viene a partecipare di quella essenziale realtà che è propria di quella data idea di cui ella partecipa; e così, nei casi sopra detti, tu non hai altra causa da addurre di codesto diventar due se non la partecipazione alla dualità, e che di questa dualità bisogna partecipino le cose che sono per diventar due, e della unità la cosa che è per diventar uno; e le divisioni e le addizioni e tutte le altre sottigliezze di questo genere le manderai a spasso, lasciando ai più sapienti di te che se ne servano [d] nelle loro risposte: ma tu, per paura, come si dice, della tua propria ombra e della tua ignoranza, ti terrai stretto all’appoggio sicuro di codesta ipotesi e risponderai in questo modo. Che se poi qualcuno si ostini contro codesta ipotesi per se sola, lo lascerai dire e non risponderai se prima tu non abbia esaminato le conseguenze che da quella risultano, e cioè se ti pare siano d’accordo fra loro o no; e, quando ti bisogni dar conto di codesta ipotesi in sé, allora procederai allo stesso modo ponendo a sua volta un’altra ipotesi, quella che ti sembri via via la migliore fra quelle che sono più in alto e cioè di carattere più universale, fino a che tu non giunga a qualche cosa che sia [e] sufficiente per se medesimo; e così non ti impiglierai nella confusione degli antilogici, i quali mettono in discussione contemporaneamente il punto di partenza e le sue conseguenze, se veramente vuoi scoprire delle cose la verità. Perché costoro, mi sembra, della verità non fanno alcun conto né si danno alcun pensiero, capaci come sono, per effetto di quella loro sapienza che mescola insieme e confonde ogni cosa, di piacere ugualmente a se stessi; ma [102a] tu, se davvero sei filosofo, credo farai come io ti suggerisco. - Verissimo dici, esclamarono insieme Simmia e Cebète. ECH. E di certo avevano ragione, o Fedone: è una meraviglia a sentire con che lucidezza, anche per chi abbia scarsa intelligenza, Socrate espose il suo pensiero. FED. Proprio così, o Echècrate; e così parve anche a tutti i presenti. ECH. E difatti anche a noi che non ci eravamo e che ascoltiamo ora soltanto. E che disse dopo di ciò?

L. FED. Quando, per quello che mi rammento, gli fu consentito codesto, e si era tutti d’accordo che in corrispon-[b] denza di ogni cosa esiste un’idea, e che tutte le cose, in quanto partecipano delle idee, appunto da esse prendono il loro nome; dopo di ciò egli domandò: - Se dunque, disse, tu ragioni così, quando affermi che Simmia è più grande di Socrate e più piccolo di Fedone, non ammetti allora che in Simmia ci sono tutt’e due insieme queste qualità, grandezza e piccolezza? - Sì, certo. - Ma in realtà, egli soggiunse, quando dici che Simmia è più grande di Socrate, sei tu d’accordo che la verità vera non è precisamente così come apparisce dalla espressione verbale? e che infatti Simmia non già per sua propria natura [c] è più grande, cioè in quanto è Simmia, bensì a cagione della grandezza che si trova ad avere; e, d’altra parte, che è più grande di Socrate, non già perché Socrate è Socrate, ma solo perché Socrate ha la piccolezza in relazione alla grandezza di Simmia? - E’ vero. - E ancora, sei d’accordo che Simmia è superato da Fedone non già perché Fedone è Fedone, ma perché Fedone ha la grandezza rispetto alla piccolezza di Simmia? - Sta bene. - Così dunque Simmia ha nome di esser piccolo e grande al tempo stesso perché si trova nel mezzo tra Fedone e Socrate; e alla grandezza dell’uno sottopone, perché la [d] superi, la piccolezza propria, e presenta all’altro la propria grandezza che supera la piccolezza di quello. E aggiunse, sorridendo: - Ho l’aria di parlare come un estensore di contratti: ma comunque, tu vedi, la cosa è proprio così com’io dico. Cebète assenti. - E parlo in questo modo perché desidero tu venga nella stessa persuasione mia. Ora a me pare che non solo la grandezza per se medesima non voglia mai esser grande e piccola al medesimo tempo, ma altresì la grandezza che è in noi non voglia mai accogliere la piccolezza e tanto meno esserne superata: e allora delle due l’una, o fugge e cede il posto, [e] quando il suo contrario, la piccolezza, le si avvicina, o addirittura, quella sopravvenendole, perisce; ma di restar ferma al suo posto e ricevere in sé la piccolezza ed esser diversa da ciò che era prima, questo non vuole assolutamente. Allo stesso modo che io, Socrate, se in un dato momento mi sono fermato ad accogliere la piccolezza, pur rimanendo quello che sono, ecco che io, lo stesso Socrate di prima, sono piccolo, ma quel che già era grande non può tollerare di essere piccolo: e così anche il piccolo che è in noi non vorrà mai né diventare né esser grande; e in generale nessuno dei contrari può tollerare di divenire o essere il suo stesso contrario restando contemporaneamente quello che [103a] era prima; e, se un caso simile gli accade, o se ne va o perisce... - Mi pare proprio che sia così, disse Cebète.

LI. E uno dei presenti, non ricordo bene chi fosse, udito ciò, disse: - Ma nei nostri ragionamenti di prima non s’era tutti d’accordo a dire proprio l’opposto di quel che si dice ora, e cioè che dal piccolo si genera il grande e dal grande il piccolo, e che insomma la generazione de contrari avviene in questo modo, i contrari dai loro contrari? E ora mi pare si dica che codesto non potrà essere mai. E Socrate, vòlto il capo e udito colui, - Bravo, disse, [b] che te ne sei rammentato! Se non che tu non pensi alla differenza tra quel che si dice ora e quello che si diceva prima. Prima si diceva che da cosa contraria nasce cosa contraria; e ora si dice che il contrario in sé non può mai divenir contrario a se stesso, né quello ch’è in noi né quello che è nella natura. Allora, amico mio, si ragionava delle cose che hanno in sé i contrari e alle quali diamo nome dal nome di essi contrari; ora si ragiona de’ contrari in sé, dei quali, in quanto sono nelle cose, le cose nominate prendono il nome. E sono appunto questi contrari in sé che [c] noi riteniamo non vorranno mai accettare di generarsi gli uni dagli altri. E insieme, vòlti gli occhi a Cebète, disse: - Che forse, o Cebète, anche te turba qualcuna delle obiezioni che disse costui? - No, rispose Cebète; per codesto, ora, non sono turbato: ma non voglio dire che parecchi dubbi non mi turbino tuttavia. - Su questo dunque, riprese Socrate, senz’altro, siamo tutti d’accordo: che non mai il contrario sarà contrario di se medesimo. - Perfettamente, disse Cebète.

LII. - E ora, disse, vedi un po’ se anche su questo non sei d’accordo con me. C’è qualche cosa che tu chiami caldo e qualche cosa freddo? - Certo. - E sono lo stesso che neve e fuoco? - Oh no, non dico codesto. [d] - Dunque altra cosa dal fuoco, il caldo; e altra cosa dalla neve, il freddo. - Sì. - Ma di questo, credo, sei persuaso di certo, che giammai la neve, che realmente sia neve, ricevendo in sé, come dianzi dicevamo, il caldo, possa seguitare a essere quello che era prima, cioè neve, e insieme caldo; bensì, avvicinandosele il caldo, o si trarrà indietro da esso o perirà. - Sta bene. - E così pure il fuoco, avvicinandoglisi il freddo, o si ritirerà o perirà; e non si darà mai ch’esso tolleri, ricevendo in sé il freddo, di seguitare a essere quello che era, cioè fuoco e [e] insieme freddo. - Verissimo, disse. - Or dunque avviene, riprese Socrate, per talune cose di questo genere, che non solamente l’idea in sé abbia diritto al suo proprio nome in perpetuo, ma anche abbia diritto a codesto nome qualche altra cosa che non è propriamente lo stesso che quell’idea; ma ha sempre di quell’idea la forma ogni volta che comparisce nel mondo. In quest’altro esempio ti riuscirà forse più chiaro ciò che intendo dire. Il dispari ha diritto d’aver sempre questo nome di dispari che gli diamo ora, o no? - Senza dubbio. - Ed esso solo di tutte le cose che esistono - perché questo è il problema che io pongo - oppure anche qualche cos’altro [104a] che non è propriamente lo stesso che il dispari, e tuttavia bisogna chiamarlo, oltre che col suo proprio nome, anche con questo di dispari, perché è di tale natura che dal dispari non si scompagna mai? Intendo dire con ciò quel che può capitare, per esempio, al tre e ad altre cose molte. Vedi il caso del tre. Non ti pare che il tre abbia da esser chiamato sempre, oltre che col suo proprio nome di tre, anche con quello di dispari, sebbene non siano la stessa cosa il dispari e il tre? Eppure sono di tal natura e il tre e il cinque e insomma tutta la metà della serie dei numeri, che, pur non essendo ciascuno di essi lo stesso che il di-[b] spari, sempre tuttavia ciascuno di essi è dispari. E similmente il due e il quattro e tutta l’altra fila dei numeri, pur non essendo ciascuno lo stesso che il pari, tuttavia ciascuno di essi è sempre pari. Sei d’accordo con me, o no? - E come no?, disse. - E dunque sta bene attento, soggiunse, a quello che voglio chiarire. Ed è questo: che cioè, evidentemente, non solo codesti contrari in sé non si ricettano l’un l’altro, ma anche tutte le cose le quali, pur non essendo contrarie l’una all’altra, hanno sempre in sé idee contrarie, anche queste, è chiaro, non ricevono in sé, nessuna, quell’idea la quale sia contraria o quella che è in loro; e anzi, questa sopravvenendo, o [c] periscono o si ritraggono. Non diremo che il tre sarà pronto a morire o a patire altra sorte qualsiasi, piuttosto che sopportare, seguitando a essere tre, di diventar pari? - Proprio così, disse Cebète. - Ma pure, disse Socrate, certamente il due non è contrario al tre. - No certo. - Dunque, non solamente le idee contrarie non sopportano che l’una sopravanzi l’altra, ma anche altre cose, quali esse siano, nessuna sopporta che sopravanzi su lei l’idea contraria a quella di cui essa partecipa. - Giustissimo, disse, questo che dici.

LIII. - E allora vuoi tu, diss’egli, che ci proviamo, se siamo buoni, a definire di che natura sono queste cose? - Bene, proviamoci. - Non saranno quelle, disse, [d] o Cebète, le quali se un’altra cosa qualunque riesce a dominarle, sono costrette da codesta non solo ad assumere ciascuna l’idea propria di quella che la domina, ma anche quella di un dato contrario al contrario di cui dissi sopra? - Come dici? - Né più né meno di quello che dicevamo ora. Tu capisci bene di certo che, qualunque cosa l’idea del tre riesca a dominare, ella deve necessariamente non solo essere tre ma anche dispari. - D’accordo. - E a una cosa come questa dei tre, naturalmente, non potrà giungere l’idea contraria a quella, quale si sia, che informa e produce il tre. - No, certo. - E non era l’idea del dispari che produceva il tre? - Sì. - E non è contraria a questa l’idea del pari? - Sì. - Dun-[e] que al tre non giungerà mai l’idea del pari. - Non c’è dubbio. - Ciò significa che il tre non è partecipe all’idea del pari. - Non è partecipe. - Impari quindi è l’idea del tre. - Sì. - Quello dunque ch’io dicevo di definire, quali cose, pur non essendo contrarie a un dato contrario, tuttavia non ricevono esso contrario; come, nell’esempio citato ora, il tre, pur non essendo contrario al pari, non perciò lo riceve perché porta sempre sopra di sé il contrario a esso pari, e così il due porta sempre il contrario al dispari, e il fuoco al freddo, e altre cose in-[105a] numerevoli; vedi ora dunque se accetti questa definizione: e cioè che non solo il contrario non ammette il suo contrario, ma anche quella qualunque cosa la quale porti seco, dovunque vada, un suo contrario, codesta cosa, dico, che porta seco un suo contrario, non potrà mai accogliere in sé il contrario del contrario che da lei è portato. E ancora, vedi di ricordarti. Non è male sentir parlare più volte di una cosa. Il cinque non riceverà l’idea del pari, né quella del dispari il dieci ch’è doppio del cinque. E’ pur vero che questo doppio anche per se medesimo è contrario a un’altra cosa, ma al tempo stesso non riceverà [b] mai l’idea del dispari. E così una frazione come il 3/2 e tutte le altre di questo genere come 1/2 che hanno per denominatore il 2, non ricevono l’idea dell’intero; e nemmeno la ricevono frazioni come 1/3 e tutte le altre dello stesso genere che hanno per denominatore il 3. Mi segui? sei anche tu di questa mia opinione? - Ti seguo, disse, e sono della tua stessissima opinione.

LIV. - E ancora, disse, da capo, rispondi: ma non mi rispondere con la stessa parola con cui io ti interrogo; prendi esempio da me. Dico questo perché, oltre quella tal risposta sicura che dicevo prima dal ragionamento che s’è fatto ora vedo che ne vien fuori un’altra egualmente sicura. Dunque, se tu non mi domandi: Quel corpo sarà [c] caldo in cui si generi... che cosa?, io non ti darò quella tal risposta sicura ma stolta, quello in cui si generi calore, perché, da ciò che s’è detto ora, ne viene fuori un’altra più sottile, e cioè, quello in cui si generi fuoco. E anche, se tu mi domandi: Quel corpo sarà ammalato in cui si generi... che cosa?, io non ti risponderò, quello in cui si generi malattia, bensì, quello in cui si generi febbre. E ancora, se mi domandi: Quel numero sarà dispari in cui si generi... che cosa?, io non ti risponderò, quello in cui si generi disparità, bensì, quello in cui si generi mònade; e così via. Vedi ora se hai capito bene quello che voglio dire. - Ma benissimo, disse. - E allora, disse, rispondi: Vivo sarà quel qualunque corpo in cui si generi... che cosa? - Quello in cui l’anima si generi, disse. - Ed [d] è sempre così? - E come no?, rispose. - Dunque l’anima, qualunque cosa ella investa di sé, sempre dove entra arreca vita? - Sempre, disse: sicuramente. - E dimmi, alla vita c’è qualche cosa contrario, o non c’è? - C’è, disse. - E che cos’è? - Morte. - Dunque l’anima non sarà mai che possa accogliere in sé il contrario di ciò che sempre ella reca seco; secondo s’è rimasti d’accordo dopo quel che dicemmo. - Perfettamente, disse Cebète.

LV. - Ebbene, ciò che non può ricevere l’idea del pari come lo chiamavamo or ora? - Impari, disse. - E ciò che non può ricevere giustizia, e ciò che non può rice-[e] vere cultura? - Incolto, disse: e l’altro, ingiusto. - Sta bene. E ciò che non può ricevere morte come lo chiamiamo? - Immortale, disse. - Dunque l’anima non riceve morte? - No. - Allora l’anima è immortale. - Immortale. - Bene, disse. Questo per ora dobbiamo dire ch’è dimostrato: che ne pare a te? - Sì, o Socrate; e in maniera soddisfacente. - Or via, soggiunse, o Cebète: se l’impari fosse di necessità [106a] imperituro, potrebbe il tre esser altro che imperituro? - Certamente. - E se anche il non-caldo fosse di necessità imperituro, quando alcuno avvicinasse caldo a neve, la neve in quanto neve, non scapperebbe via intatta e senza liquefarsi? Perché di certo né potrebbe perire e nemmeno restare ferma al suo posto per ricevere il calore. - Verissimo, disse. - Allo stesso modo, dico, se anche il non-freddo fosse imperituro, quando sul fuoco sopravvenisse alcunché di freddo, non mai esso si spegnerebbe e nemmeno perirebbe, ma se n’andrebbe via sano e salvo. - Necessariamente, disse. - O dunque, [b] non bisognerà dire il medesimo anche dell’immortale? Se è vero che l’immortale è anche imperituro, non sarà possibile all’anima, quando morte le sopravvenga, di perire: perché l’anima, è chiaro da ciò che s’è detto, non riceverà morte, né sarà mai anima morta; allo stesso modo che il tre, dicevamo, non sarà pari, e tanto meno il dispari; né mai, si capisce, sarà freddo il fuoco, e tanto meno il calore che è nel fuoco. "Ma che cosa impedisce, dirà qualcuno, non già che pari diventi dispari, come s’è pur convenuto, sopravvenendogli, il pari, ma che, morendo [c] esso dispari, in suo luogo si generi il pari?". A chi ci dicesse questo, noi non avremmo da opporgli che il dispari non perisce; perché l’impari non è imperituro. Che se invece avessimo convenuto che fosse, allora assai facilmente potremmo opporre che, sopravvenendogli il pari, il dispari e così anche il tre se ne vanno via soltanto. E del fuoco e del caldo e di ogni altra cosa potremmo sostenere lo stesso. O no? - Certamente. - E allora anche qui, su questa questione dell’immortale, se siamo d’accordo che l’immortale è anche imperituro, l’anima, oltre che [d] essere immortale, sarà anche imperituro. E se no, bisognerà ricorrere ad altro ragionamento. - Ma non bisogna affatto, disse, almeno su questo: difficilmente infatti si potrebbe dire di un’altra cosa che non ammette corrompimento, se poi ha da ammettere corrompimento l’immortale che è eterno.

LVI. - Iddio, disse Socrate, ed essa stessa l’idea della vita e se altro v’è di immortale, da tutti, credo, si vorrà ammettere che giammai possono perire. - Certamente, rispose: da tutti gli uomini, e anche più, credo bene, dagli dèi. - Se dunque l’immortale è anche incorruttibile, [e] non sarà essa l’anima, posto che è immortale, anche imperitura? - Necessariamente. - E quindi, se morte s’abbatte su l’uomo, la parte di lui che, come sembra, è mortale, muore, la parte che è immortale, se ne va via salva e incorrotta sfuggendo alla morte. - E’ chiaro. - Tanto più dunque, disse, o Cebète, l’anima che è immortale [107a] e imperitura: e veramente le anime nostre abiteranno nell’Ade. - O Socrate, io per me, rispose, non ho nulla da opporre a codesto tuo ragionamento; né in verun modo saprei negar fede alle tue parole: ma se qualche cosa hanno tuttavia da dire il nostro Simmia o qualche altro, sarà bene che non tacciano. Perché io non so a quale altra occasione diversa da questa potrebbe voler rimandare la disputa chi abbia desiderio su tale argomento di parlare ancora o di ascoltare. - In verità, disse Simmia, neanch’io ho più ragione di dubitare, dopo quello che si è ammesso; ma certo, la gravità del soggetto di cui stiamo disputando, e la poca fiducia che io ho di questa nostra debolezza u-[b] mana, mi sforzano tuttavia a ritenere dentro me alcun dubbio su quello di cui abbiamo discorso. - Sì, o Simmia, disse Socrate, e non solo è ragionevole codesto che dici, ma fai bene a dirlo; e anzi, quelle nostre prime ipotesi, se anche non sono esse a te e agli altri cagione di dubbio, gioverà in ogni modo, per maggior sicurezza, riesaminarle da capo. E quando sarete riusciti a chiarirle quanto basti alla vostra persuasione, allora, credo, potrete seguire il ragionamento, in ciò almeno che sia possibile a uomo mortale seguirlo. E quando ne sarete sinceramente convinti, allora non avrete più niente da ricercare più in là. - Verissimo parli, egli disse.

LVII. - Ebbene, o amici, questo, se non altro, sarà [c] bene sia chiaro nella mente: che, se l’anima è immortale, ella avrà bisogno se ne abbia cura; né solo per questo spazio di tempo che chiamiamo vita, ma per sempre; e che oramai, dopo quel che s’è detto, anche il pericolo, a chi non ne abbia cura, dovrà apparire assai grave. Infatti, se la morte fosse una liberazione da ogni cosa, gran fortuna sarebbe pe’ tristi, morendo, sentirsi liberi non solo del corpo, ma, nello stesso momento, insieme con l’anima, anche della lor propria tristizia. Ma ora che l’anima ci si è rivelata immortale, nessuno scampo ella potrà avere dai mali né [d] alcuna salvezza, se non in quanto divenga il più possibile virtuosa e intelligente. Perché nient’altro l’anima ha seco, andando nell’Ade, all’infuori della sua cultura e del suo costume, che è ciò appunto, come dicono, che grandemente giova o nuoce a chi muore, sùbito al principio del suo viaggio nell’al di là. E si dice così : che dunque, appena uno cessa di vivere, il suo dèmone, quello che lo ha avuto in sorte durante la vita, prende a menarlo in un certo luogo; quando poi, quelli che sono stati ivi radunati, si siano lasciati giudicare, allora bisogna che di lì passino nell’Ade, [e] e per guida hanno appunto colui al quale è stato assegnato di condurre le anime da codesto luogo nell’Ade. E, dopo subìta colà quella sorte che debbono subire e aspettato quel tempo che devono aspettare, un’altra guida gli riconduce qua; e questo avviene entro molti e lunghi periodi di tempo. E la strada non è come dice il Tèlefo [108a] di Eschilo: "... semplice via conduce all’Ade" dice colui; e invece a me pare che non sia né semplice né una sola; altrimenti non bisognerebbero guide; né alcuno mai sbaglierebbe per andare in alcun luogo, se la strada fosse una sola. In realtà pare ci siano diramazioni e biforcazioni parecchie; e dico questo argomentandolo dai sacrifici e dalle cerimonie che usano qui. Dunque, l’anima buona e intelligente segue il suo dèmone, e non ignora la sua sorte e condizione presente; ma quella che è tuttavia desiderosa del corpo, come già dissi prima, per lungo tempo [b] è conturbata e agitata dalla passione di quello e della regione visibile; e alla fine, dopo molto lottare e molto patire, trascinata a forza e a stento dal dèmone che le fu assegnato, se ne va via. E giunta dove sono le altre, l’anima impura e che ha commesso qualche cosa di impuro, o perché si sia contaminata di uccisioni inique o abbia compiuto altre male azioni sorelle a queste e di anime sorelle; quest’anima, dico, ognuno la fugge e la scansa, e nessuno vuol esserle compagno e guida, e tutta sola se ne va er-[c] rando in gran pena e incertezza fino a che non siano trascorsi que’ certi periodi di tempo dopo i quali per forza è menata via alla sede che le spetta. Invece l’anima che ha trascorsa la propria vita con purità e temperanza, trovati a compagni e guide degli dèi, ecco che súbito se ne va ad abitare ognuna nel luogo che le conviene. Vi sono poi nella terra molti e mirabili luoghi; ed essa stessa la terra, secondo che un tale riuscì a persuadermi, non è né così fatta né così piccola com’è ritenuta da coloro che ne sogliono ragionare.

[d] LVIII. E Simmia: - Che cosa vuoi dire, disse, o Socrate, con questo? Perché veramente della terra anch’io ho sentito parlare più volte; non però al modo che persuade te. E perciò ascolterei volentieri. - Ma sì, o Simmia; né credo ci voglia arte di Glauco a esporti le cose come io me le figuro. Piuttosto, dimostrare che sono vere, questo mi pare più difficile che se avessi l’arte di Glauco; oltre che, forse, nemmeno sarei capace; e, anche se fossi, la vita che mi rimane, caro Simmia, non credo basterebbe alla lunghezza della dimostrazione. In ogni [e] modo, dirti la forma della terra quale io ho potuto immaginarmi che sia, e i suoi luoghi, non ho nessuna difficoltà. - Bene, disse Simmia, anche codesto mi basta. - Io dunque, diss’egli, anzi tutto mi sono persuaso di questo, che se la terra è collocata nel mezzo nell’universo ed è sferica, ella non ha bisogno, per non cadere, [109a] né di aria né di alcun altro appoggio di tal genere, essendo sufficiente a sostenerla il fatto che l’universo è tutto eguale da ogni parte a se stesso e che la terra è per se stessa perfettamente equilibrata. Infatti, una cosa equilibrata, posta nel mezzo di un’altra che sia eguale a se stessa, non potrà mai inclinarsi né un po’ più né un po’ meno da nessuna parte; e, trovandosi sempre in una condizione di perfetta eguaglianza, rimarrà ferma al suo posto senza veruna inclinazione. Anzi tutto dunque, egli disse, io mi sono persuaso di questo. - E con ragione, rispose Simmia. - Inoltre, disse, credo che la terra sia qualche cosa di molto grande per se stessa, e che noi, dal Fasi [b] alle colonne di Eracle, abitiamo soltanto una sua piccola parte; e abitiamo intorno al mare Mediterraneo come formiche o rane intorno a una palude; e altra gente molta abita altrove in molti altri luoghi simili a questo. Perché vi sono da ogni parte intorno alla terra molte cavità, e diversissime l’una dall’altra così di forma come di grandezza, nelle quali confluiscono insieme l’acqua, la nebbia e l’aria; ma essa la vera terra si libra pura nel cielo puro dove sono [c] le stelle, il quale la più parte di coloro che si occupano di queste cose chiamano ètere; e l’acqua, la nebbia e l’aria sono un sedimento di questo ètere, e insieme si riversano continuamente nelle cavità della terra. Ora, noi che abbiamo queste cavità, non ce ne accorgiamo, e crediamo di abitare in alto sopra la terra: allo stesso modo di uno il quale, abitando in mezzo alla profondità del mare, s’immaginasse di abitare su la superficie, e vedendo, attraverso l’acqua, il sole e le altre stelle, credesse cielo il mare; e non essendo [d] mai giunto, per sua inerzia e debolezza, su la superficie del mare, non avesse mai osservato, come avrebbe potuto emergendo dal mare e levando su il capo verso le regioni che abitiamo noi, di quanto queste sono più pure e più belle di quelle di chi abita nel mare, e non ne avesse mai neanche sentito parlare da altri che le avesse vedute. Ebbene, anche a noi, credo, è capitato precisamente lo stesso: ché, mentre abitiamo in una cavità della terra, crediamo di abitare in alto sopra di essa; e l’aria la chiamiamo cielo perché ci pare che attraverso questa, quasi fosse cielo, facciano lor cammino le stelle. Ed è, ripeto, proprio la stessa cosa: anche noi, per nostra debolezza e inerzia, [e] non siamo capaci di passare attraverso l’aria fino alla sua sommità; e infatti, se uno riuscisse a spingersi fin su all’estremo lembo dell’aria, o, messe le ali, vi giungesse volando; colui vedrebbe, levando il capo fuori dell’aria, allo stesso modo che qui da noi i pesci levando il capo fuori del mare vedono le cose nostre, così vedrebbe anche le cose di lassù; e, se la natura sua fosse capace di sostenere codesta visione, riconoscerebbe che quello è il vero cielo, quella [110a] la vera luce e la vera terra. E in verità questa terra nostra e le pietre e tutta quanta la regione che noi abitiamo, sono guaste e corrose come le regioni di dentro il mare sono guaste e corrose dalla salsedine; e nel mare non nasce cosa alcuna che abbia pregio, e nulla v’è, diciamo pure, che sia perfetto, bensì vi sono scoscendimenti e sabbie e fango senza fine, e pantani dovunque sia anche terra, cose insomma che neppure sono da mettere a confronto con le bellezze di qui; e a loro volta le bellezze di lassù anche meglio dovranno apparire di gran lunga superiori a queste [b] nostre di qui. Dunque, o Simmia, se anche dire una favola è bello, val bene la pena che tu ascolti come siano le cose sopra la terra sùbito al di sotto del cielo. - Ma certo, rispose Simmia, noi avremo gran piacere di ascoltare questa favola, o Socrate.

LIX. - Anzi tutto dunque, o amico, egli riprese, dicono questo, che la vera terra, chi la guardi dall’alto, ha l’aspetto delle nostre palle di cuoio a dodici pezzi, iridescente, e come intarsiata di diversi colori; e di codesti colori perfino quelli che adoprano i pittori qui da noi sono immagini [c] appena. E tutta quanta la terra lassù è colorata di colori siffatti, e assai più rilucenti e più puri di questi di qui; e parte infatti è porporina, di meravigliosa bellezza, parte ha lo splendore dell’oro, parte, tutta quella ch’è bianca, è più bianca del gesso e della neve; e così dico di tutti gli altri colori che la colorano nel rimanente, che sono anche di più e più belli di quanti mai noi ne abbiamo veduti. E le stesse cavità della terra, ripiene come sono di acqua [d] e di aria, presentano lassù un lor colorito particolare: cosicché, riducendo ancor esse tra mezzo la iridescente varietà di tutti gli altri colori, la superficie della terra apparisce alla vista come un’unica ininterrotta iridescenza. Analogamente a questo suo aspetto crescono ivi i suoi prodotti, e alberi e fiori e i lor frutti; e così, medesimamente, le montagne e le pietre vi sono levigate e trasparenti, e quindi i loro colori hanno più vivo splendore; e di codeste pietre e montagne, anche quelle petruzze che qui da noi hanno sì gran pregio, non sono che frammenti, sarde diaspri [e] smeraldi, e altre simili; e insomma non c’è niente lassù che non sia della stessa vista di queste nostre gemme e anche più bello di queste. E la ragione è che lassù codeste pietre sono pure, e non róse né guaste, come queste di qui, da putredine e da salsedine a cagione dei sedimenti che qui confluiscono e posano, e che alle pietre e alla terra, come pure agli animali e alle piante, ingenerano deformità e malattie. La terra medesima riceve bellezza da tutti questi ornamenti, come anche dall’oro e dall’argento e da tutti [111a] gli altri metalli di simil genere: tanto più che quivi, per loro propria e naturale disposizione, si vedono allo scoperto, e ce n’è gran quantità, e sono grandi e disseminati da ogni parte; cosicché a mirarla codesta terra è davvero uno spettacolo di spettatori beati. E vi sono esseri viventi e molti e di specie diverse, e anche uomini; e gli uomini abitano alcuni verso l’interno della terra, altri su le rive dell’aria come noi su le rive del mare, altri in isole non lontane dal continente e circondate tutt’intorno dall’aria; e, in una parola, ciò che per noi, cioè, dico, per la consuetudine nostra, è l’acqua e il mare, per quelli di [b] lassù è l’aria, e ciò che per noi è l’aria, per costoro è l’etere. E le stagioni hanno ivi tal temperanza che non vi sono ammalati; e gli uomini non solo vi campano assai più tempo che qui, ma anche, per la finezza della vista, dell’udito, dell’intelligenza e in genere di tutte le altre facoltà, sono alla stessa distanza da noi che la purezza dell’aria dalla purezza dell’acqua e la purezza dell’ètere da quella dell’aria. E inoltre vi sono boschi sacri agli dèi e templi dove gli dèi abitano realmente; e vi sono oracoli e divinazioni e contatti diretti con gli dèi, e insomma per-[c] sonali comunioni di essi stessi gli uomini con essi stessi gli dèi. E anche il sole, la luna e le stelle si veggono da codesti uomini direttamente quali sono in realtà; e così essi godono di ogni altra beatitudine che è conseguenza delle cose sopra dette.

LX. Dicono dunque che la terra nel suo insieme sia così, e così siano le cose intorno alla sua superficie. Dentro di essa poi, tutt’intorno, e in corrispondenza alle sue cavità, sono molte regioni, alcune più profonde e più aperte di questa che abitiamo noi, altre più profonde ma con [d] minore apertura, e ce n’è di quelle che hanno minore profondità di questa nostra e sono più estese. Tutte. queste regioni sono perforate in più parti da sotterranei ora più stretti ora più larghi che comunicano fra loro; e vi sono appunto vie di comunicazione onde scorre molta acqua da una regione all’altra come da un bacino in altro bacino; e vi sono sotto la terra smisurate masse di fiumi perenni e di acque calde e fredde, e molto fuoco, e grandi fiumi di fuoco, e molti anche di liquido fango, ora più chiaro [e] ora più limaccioso, come in Sicilia quei fiumi di fango che scorrono davanti la lava, ed essa stessa la lava. E di codesti fiumi si empiono via via tutte le regioni, secondo che in ogni regione si riversi via via il flutto delle correnti. E tutte queste acque le agita in su e in giù come una specie di altalena che è dentro la terra. E questa altalena è dovuta, io credo, a questa cagione. Una delle voragini della terra, oltre che fra tutte le altre grandissima, anche [112a] attraversa la terra tutta quanta da una estremità all’altra; ed è quella voragine di cui parla Omero quando dice, "lungi, sotterra, dove profondissimo un baratro s’apre", e che anche altrove e Omero e molti altri poeti hanno chiamata Tartaro. Di fatti in questa voragine confluiscono tutti i fiumi, e da questa di nuovo tutti quanti refluiscono fuori; e ognuno di questi fiumi diviene di volta in volta della stessa natura della terra in cui si trova a scorrere. Ora, la cagione [b] di siffatto confluire e refluire di tutte le fiumane dal Tartaro è questa, che laggiù tutto questo umore non ha né fondo né base; e quindi oscilla e ondeggia in su e in giù, e anche l’aere e il fiato che gli sono d’attorno fanno lo stesso, perché sono tratti a seguirlo sia quando si spinge verso le regioni della terra che sono dalla parte di là, sia quando si spinge verso le regioni di qua; e, come accade di chi respira che il fiato sempre va e viene fluendo senza interruzione, così anche là questo fiato che oscilla insieme con l’umore produce venti terribili e sterminati entrando e [c] uscendo. Quando dunque la massa d’acqua si ritrae verso la regione che la gente, come sai, chiama ‘giù in basso’, ecco che si riversa attraverso la terra in que’ luoghi lungo le correnti che sono da quella parte, e le riempie come riempiono lor canali quelli che attingono acqua; e quando poi recede di là e rompe dalla parte nostra, allora empie le fiumane che sono di qua; e queste, come quelle, riempite, scorrono per i lor condotti attraverso la terra, e, giunte in quei luoghi ai quali ognuna s’è aperta la sua via, formano mari e laghi e fiumi e fonti; o poi di lì novamente si sprofondano giù sotto la terra, e, dopo aver percorso, quale [d] regioni più estese e di più, quale meno estese e di meno, si riversano di nuovo nel Tartaro, alcune molto più giù del punto da cui l’impeto dell’altalena le sospinse in alto, altre meno, ma tutte sboccano in un punto più basso di quello da cui sgorgano; e ce n’è che sboccano dalla parte opposta a quella da cui ruppero fuori, altre dalla stessa parte; e ce n’è di quelle che, dopo fatto a dirittura tutto intorno il giro della terra rivolgendosi intorno ad essa o una o più volte a modo di spirale come fanno i serpenti, discese il più possibile in giù imboccano di nuovo nel [e] Tartaro. Ed è possibile scendere giù in direzione di una parte e dell’altra fino al centro; ma non oltre il centro; perché, per ciascuna delle due serie dei fiumi, viene a trovarsi in salita quella parte che discende al centro dal lato opposto.

LXI. Di questi fiumi dunque ce n’è parecchi altri e grandi e di natura diversa; ma, fra questi molti, ce n’è quattro, dei quali il maggiore, e che scorre tutto intorno alla terra più lontano dal centro, è quello chiamato Oceano; dirimpetto a questo, e scorrente in senso contrario, c’è l’Acheronte, il quale attraversa luoghi deserti, e poi, ina-[113a] bissandosi, come sai, sotto la terra, giunge alla palude Acherusìade: quivi convengono la più parte delle anime dei morti, le quali, dopo rimaste colà quello spazio di tempo che a ciascuna è destinato, alcune più lungo altre più breve, sono rimandate di nuovo nel mondo a rigenerarsi in forme di esseri viventi. Un terzo fiume scaturisce nel mezzo tra questi due, e vicino alla sua scaturigine dilaga in un luogo ampio e riarso da molto fuoco, e fa una palude più vasta del nostro mare, ribollente d’acqua e di fango; [b] di là poi muove in giro, torbido e fangoso, e, serpeggiando per entro la terra, passa per altri luoghi finché giunge a una estremità della palude Acherusìade, ma senza mescolare con quella le sue acque; e, dopo fatti più giri a spirale sotto la terra, imbocca nel Tartaro, ma in un punto più basso della sopraddetta palude. Questo fiume è quello che chiamano Piriflegetonte; del quale sono come frammenti quelle colate di lava che erompono fuori sopra la terra, dovunque trovino una via d’uscita. Dirimpetto a questo scaturisce il quarto fiume: il quale dapprima dilaga, come dicono, in una regione orrida e selvaggia e che ha [c] da per tutto il colore del cìano, ed è quella regione che chiamano Stigia; e la palude che fa questo fiume imboccandovi la chiamano Stige. Questo fiume, dopo imboccato in codesto luogo e attinte quivi nell’acqua certe sue orribili forze, si sprofonda sotto terra, e, girando a spirale, scorre in senso contrario al Piriflegetonte e con esso s’incontra nella palude Acherusìade dal lato opposto. Neppur questo fiume mescola con altra acqua le sue acque; e anche questo, dopo girato in cerchio, si getta nel Tartaro dal lato opposto al Piriflegetonte. Il suo nome, come dicono i poeti, è Cocìto.

[d] LXII. Questa dunque è la forma e la natura della terra. Ora, quando i morti giungono al luogo dove è menato ognuno dal suo dèmone, per prima cosa si sottomettono al giudizio; e si distinguono coloro che hanno vissuto bene e santamente e quelli che no. E quelli i quali si riconosca abbiano tenuta nella vita una via di mezzo, giunti alle rive dell’Acheronte, salgono su quelle navicelle che sono là appunto per loro, e arrivano così alla palude Acherusìade; e quivi dimorano, e, scontando lor pene, si purificano e sciolgono delle colpe se mai ne hanno commesse, [e] e delle buone azioni ricevono premi ognuno secondo il suo merito. E quelli i quali siano riconosciuti in istato di inespiabilità per la gravezza dei loro peccati, come chi abbia commesso sacrilegi molti e gravi, e uccisioni inique e molte e in onta alle leggi, o altrettali misfatti, costoro il meritato castigo li getta nel Tartaro, e di lì non escono fuori mai più. Quelli invece che siano incorsi in colpe espiabili sì ma gravi, come chi, per esempio, in un impeto di collera, abbia fatto violenza al padre o alla madre e poi [114a] se ne sia pentito e abbia vissuto così il resto di sua vita; o chi sia divenuto omicida per altro motivo simile e allo stesso modo se ne sia pentito; costoro debbono sì, necessariamente, precipitare nel Tartaro, ma poi, trascorso laggiù un anno dalla loro caduta, ecco che la marea li ricaccia fuori, gli omicidi lungo il Cocìto, i percotitori del padre e della madre lungo il Piriflegetonte; e quando, trasportati da queste fiumane giungono a livello della palude Acherusìade, quivi allora gridano e invocano, gli uni quelli che uccisero, gli altri quelli cui fecero violenza, e, chiamandoli [b] a nome, pregano e supplicano che gli lascino uscir fuori nella palude e che gli accolgano; e, se riescono a persuaderli, escono fuori e così hanno pace dai loro mali; se no, sono riportati via un’altra volta nel Tartaro, e dal Tartaro sono ributtati un’altra volta nei fiumi, e mai cessano di patire quest’alterna vicenda se prima non hanno persuaso coloro a cui fecero offesa: perché questa è la pena che da quei giudici fu loro inflitta. Quelli poi i quali sono segnalati fra tutti per la santità della vita, costoro vengono a trovarsi senz’altro liberi e sciolti da questi luoghi terreni come da [c] carceri, e giungono in alto nella pura abitazione e abitano su la vera terra. E di costoro sono quelli i quali, fatti mondi e puri dalla filosofia, vivono il resto di lor vita senza legami corporei, e giungono in abitazioni anche più belle di queste, le quali non è facile descrivere, né basterebbe il tempo nell’ora presente. E così dunque, o Simmia, per tutto quello di cui abbiamo discorso, giova non tralasciar nella vita alcuna cosa per acquistare virtù e intelligenza: ché bello è il premio e la speranza è grande.

[d] LXIII. Certo, ostinarsi a sostenere che le cose siano proprio così come io le ho descritte, non si addice a uomo che abbia senno; ma che sia così o poco diverso di così delle anime nostre e delle loro abitazioni dopo che s’è dimostrato che l’anima è immortale, sostener questo mi pare si addica, e anche metta conto di avventurarsi a crederlo. E la ventura è bella. E giova fare a se stesso di tali incantesimi; e proprio per questo già da un pezzo oramai io tiro in lungo la mia favola. Ma qui appunto sta la ragione che timori per la propria anima non deve avere chi disse addio [e] ai piaceri del corpo e ai suoi ornamenti, sapendo che le sono estranei, e persuaso che più le possono far male che bene; e si curò invece dei piaceri dell’apprendere, e l’anima adornando non d’ornamenti a lei alieni ma di quelli suoi [115a] propri, temperanza giustizia fortezza libertà verità, attende così preparato l’ora del suo viaggio all’Ade, pronto a pigliar su la sua strada appena il destino lo chiami. E così, disse, anche, tu, o Simmia, e tu, o Cebète, e voi altri tutti, ciascuno alla sua volta. Quanto a me, ecco, oramai, direbbe un eroe tragico, il destino mi chiama! Credo sia l’ora di andarmene al bagno. Perché mi par meglio ch’io mi lavi prima, e poi beva il farmaco, e non dia questo fastidio alle donne di lavare il cadavere.

LXIV. Come egli ebbe detto così, - Ebbene, o Socrate, [b] disse Critone, hai nessun ordine da dare a questi tuoi amici o a me per i tuoi figlioli o per altra persona o cosa? che cosa possiamo fare per te che ti sia particolarmente gradito? - Quello, rispose, che dico sempre, o Critone, niente di nuovo: che se voi avrete cura di voi medesimi, farete cosa grata a me e ai miei e a voi stessi qualunque cosa facciate, anche se ora non mi promettete niente; se invece non avrete cura di voi e non vorrete vivere seguendo le tracce di quel che s’è detto ora e in ragionamenti precedenti, non vale che v’affanniate a ripeterne di gran [c] promesse in questo momento; non farete niente di meglio. - Quanto a questo, si certo, disse, procureremo di fare come tu dici; ma... in che modo dobbiamo seppellirti ? - Come volete, rispose: dato che pur riusciate a pigliarmi e io non vi scappi dalle mani! E ridendo tranquillamente e vòlti gli occhi verso di noi, soggiunse: Non riesco, o amici, a persuadere Critone che io sono Socrate, questo qui che ora sta ragionando con voi e ordina una per una tutte le cose che dice; ed egli invece séguita a credere che Socrate sia quello che tra poco vedrà cadavere, e, [d] naturalmente, mi domanda come ha da seppellirmi. E quello ch’io mi sono sforzato di dimostrare tante volte da tanto tempo, che, dopo bevuto il farmaco, io non sarò più con voi, e me n’andrò via lontano di qui, beato tra i beati; questo, per lui, è come se io lo dicessi così per dire, quasi per consolare voi e al tempo stesso anche me. Ora voi mi dovete far garanzia, disse, presso Critone; ma una garanzia contraria a quella che egli mi fece davanti ai giudici: ai giudici egli garantì su la fede sua che io non sarei scappato; e voi dovete garantire a Critone su la fede [e] vostra che dopo morto io non sarò più qui, e me ne andrò via lontano; e così Critone sopporterà la cosa più facilmente; e, vedendo il mio corpo o bruciato o sepolto, non si affliggerà per me come s’io stessi soffrendo pene tremende, e non dirà nel funerale che è Socrate che espone e Socrate porta via e seppellisce. Perché tu devi pur sapere, aggiunse, mio ottimo Critone, che parlare scorrettamente non solo è cosa brutta per se medesima, ma anche fa male all’anima. Dunque bisogna non avere di queste preoccupazioni, e dire che è il mio corpo che seppellite: il mio [116a] corpo seppellitelo come vi piace e come credete sia meglio conforme alle leggi comuni.

LXV. Così detto, Socrate si alzò per andare in una stanza a lavarsi; e Critone lo seguiva; e a noi ci disse di rimanere. E noi rimanemmo lì ad aspettare; e intanto si ragionava tra noi delle cose dette, e si rimeditavano una per una, e anche pensavamo alla nostra sventura, quanto era grande, sapendo bene che il rimanente della nostra vita, privati come del padre, saremmo stati orfani veramente. E quando [b] si fu lavato e gli ebbero portati i figlioletti - n’aveva due piccolini e uno più grandicello - e anche si furon recate da lui le sue donne di casa, egli s’intrattenne a parlare con loro, alla presenza di Critone; e poi, fatte le raccomandazioni che voleva fare, disse alle donne e ai figlioli di andarsene, e ritornò fra di noi. S’era vicini ormai al tramonto del sole; perché in quella stanza s’era intrattenuto parecchio tempo. Ritornato dal bagno, si mise a sedere, e dopo d’allora non si disse quasi più niente. Ed ecco venne il messo degli Undici, il quale, fermatosi davanti a [c] lui, - O Socrate, disse, io non avrò certo a lagnarmi di te come ho da lagnarmi di altri che si adirano meco e mi maledicono, quando io vengo ad annunziar loro, per ordine degli arconti, che devon bere il veleno. Ma te, in tutto questo tempo, ho avuto modo più volte di conoscere che sei il più gentile e il più mite e il più buono di quanti mai capitarono qui; e ora specialmente so bene che tu non ti adiri meco, perché li conosci coloro che ne hanno colpa, e con quelli ti adiri. Ora dunque - tu lo sai quello che sono venuto ad annunziarti - addio, e vedi di sopportare [d] meglio che puoi il tuo destino. E così dicendo scoppiò a piangere, voltò le spalle e se n’andò. E Socrate, levato un po’ il capo a guardarlo, - E anche a te, disse: addio; e io farò come dici. E, rivolto a noi, - Che gentile persona, disse. Per tutto questo tempo egli veniva spesso a trovarmi; e talvolta s’indugiava a conversare meco ed era uomo eccellente; e vedete ora come sinceramente mi piange? Su via Critone, diamo retta ora a colui, e qualcuno porti il veleno, se è pestato; se no l’uomo lo pesti. [e] E Critone: - Ma il sole, disse, o Socrate, è ancora, credo, sui monti, non anche è tramontato. E io so che altri assai più tardi bevono dopo che ne hanno avuto l’annunzio; e dopo mangiato e bevuto a loro volontà, e taluni perfino dopo essere stati insieme a loro piacere con chi vogliono. Tu dunque, se non altro, non avere fretta, perché c’è tempo ancora. E Scorate: - E’ naturale, disse, o Critone, che costoro, quelli che dici tu, facciano così, perché credono d’aver qualche cosa da guadagnare facendo in codesto modo; ed è anche naturale che non faccia così io, perché credo di [117a] non aver altro da guadagnare, bevendo un poco più tardi, se non di rendermi ridicolo a’ miei stessi occhi, attaccandomi alla vita e facendone risparmio quando non c’è più niente da risparmiare. Via, disse, dà retta e non fare diversamente.

LXVI. E Critone, udito ciò, fece cenno a un suo servo ch’era in piedi vicino a lui, e il servo uscì, rimase fuori un po’ di tempo, e tornò menando seco l’uomo che doveva dare il farmaco, che lo portava pestato in una tazza. E Socrate, veduto colui, - Bene, disse, brav’uomo, tu che di queste cose te n’intendi, che si deve fare? - Nient’altro, rispose, che, dopo bevuto, andare un po’ attorno per la stanza, finché tu non senta peso alle gambe; dopo, rima-[b] nere sdraiato; e così il farmaco opererà da sé. E così dicendo porse la tazza a Socrate. Ed egli la prese, oh, con vera letizia, o Echècrate; e non ebbe un tremito e non mutò colore e non torse una linea del volto; ma così, come soleva, guardando all’uomo di sotto in su con quei suoi occhi da toro, - Che dici, disse, di questa bevanda, se ne può libare a qualche Iddio, o no? - O Socrate, rispose, noi ne pestiamo solo quel tanto che crediamo sufficiente a bere. - Capisco, disse So-[c] crate. Ma insomma far preghiera agli dèi che il trapasso di qui al mondo di là avvenga felicemente, questo si potrà, credo, e anzi sarà bene. E questa appunto è la mia preghiera; e così sia. E così dicendo, tutto d’un fiato, senza dar segno di disgusto, piacevolmente, vuotò la tazza fino in fondo. E i più di noi fino a quel momento erano pur riusciti alla meglio a trattenersi dal piangere; ma quando lo vedemmo bere, e che aveva bevuto, allora non più; e anche a me, contro ogni mio sforzo, le lacrime caddero giù a fiotti; e mi coprii il capo e piansi me stesso: ché certo [d] non lui io piangevo, ma la sventura mia, di tale amico restavo abbandonato! E Critone, anche prima di me, non riuscendo a, frenare il pianto, s’era alzato per andar via. E Apollodoro, che già anche prima non avea mai lasciato di piangere, allora scoppiò in singhiozzi; e tanto piangeva e gemeva che niuno ci fu di noi lì presenti che non se ne sentisse spezzare il cuore: all’infuori di lui, di Socrate. E anzi, Socrate, - Che stranezza è mai questa, disse, o amici? Non per altra cagione io feci allontanare le donne, perché non commettessero di tali discordanze. E ho anche [e] sentito che con parole di lieto augurio bisogna morire. Orsù, dunque, state quieti e siate forti. E noi, a udirlo, ci vergognammo, e ci trattenemmo dal piangere. Ed egli girò un poco per la stanza; e, quando disse che le gambe gli si appesantivano, si mise a giacere supino; perché così gli consigliava l’uomo. E intanto costui, quello che gli avea dato il farmaco, non cessava di toccarlo, e di tratto in tratto gli esaminava i piedi e le gambe; e, a un certo punto, premendogli forte un piede, gli domandò se sentiva. Ed egli rispose di no. E poi ancora gli premette [118a] le gambe. E così, risalendo via via con la mano, ci faceva vedere com’egli si raffreddasse e si irrigidisse. E tuttavia non restava di toccarlo; e ci disse che, quando il freddo fosse giunto al cuore, allora sarebbe morto. E oramai intorno al basso ventre, era quasi tutto freddo; ed egli si scoprì - perché s’era coperto - e disse, e fu l’ultima volta che udimmo la sua voce, - O Critone, disse, noi siamo debitori di un gallo ad Asclèpio: dateglielo e non ve ne dimenticate. - Sì, disse Critone, sarà fatto: ma vedi se hai altro da dire. A questa domanda egli non rispose più: passò un po’ di tempo, e fece un movimento; e l’uomo lo scoprì; ed egli restò con gli occhi aperti e fissi. E Critone, veduto ciò, gli chiuse le labbra e gli occhi.

LXVII. Questa, o Echècrate, fu la fine dell’amico nostro: un uomo, noi possiamo dirlo, di quelli che allora conoscemmo il migliore; e senza paragone il più savio e il più giusto.