FEDRO
Sommario

Socrate incontra Fedro di ritorno da un incontro con Lisia e lo prega di riferirgli il discorso d'amore che Lisia ha pronunciato ed in cui ha sostenuto che si deve compiacere più a chi non ama che a chi ama (I 227a-228a). Ironia di Socrate sull'approssimazione con cui Fedro dice di ricordare il discorso di Lisia (II 228a-c). Socrate e Fedro ricercano un luogo tranquillo lungo l'Ilisso in cui poter conversare (III 228c-229c). Il ricordo del mito del rapimento di Oritia ad opera di Borea offre lo spunto a Socrate per fare alcune considerazioni sulla sapienza necessaria per interpretare i miti, sapienza di cui egli stesso non partecipa (IV 229c-230b). Descrizione del bellissimo paesaggio in cui Socrate e Fedro si fermano a discutere (V 230b-e). Parte prima: il discorso di Lisia. Superiorità del comportamento di coloro che non amano rispetto a quello di coloro che amano: è tra i primi che bisogna cercare chi sia degno di amicizia (VI 230e-231e). Ulteriore svolgimento di questo concetto (VII 231c-233a). E’ più facile diventare migliori dando retta a chi non ama che a chi ama. E’ a chi non ama, dunque, che bisogna compiacere (VIII 233a-IX 234b). Conclusione del discorso di Lisia e giudizio di Socrate: il discorso è bellissimo, riesce abilmente a non far vedere che ripete due o tre volte le stesse cose, ma quanto a completezza molte sono le cose che potrebbero essere aggiunte (IX 234b-XI 236a). Fedro obbliga Socrate, che scherzosamente cerca di resistere, a parlare di questo argomento (XII 236a-237a). Il primo discorso di Socrate (Socrate velato): è necessario innanzitutto definire che cosa è l'amore (XIII 237a-XIV 237d). L'amore è un desiderio, che rientra, non già in quell'opinione acquisita che ha di mira l'ottimo e che si chiama temperanza, ma in quel desiderio dei piaceri che ha molte sembianze: è un desiderio, scompagnato da ragione, che, rafforzato da tutti gli altri desideri, ha di mira la bellezza dei corpi e domina completamente chi lo prova (XIV 237d-XV 238d). Per questa natura dell'amore, chi ama naturalmente vuole che l'oggetto del suo amore gli sia inferiore e non lo contrasti in nulla (XV 238d-239c). Ancora su questo concetto: colui che ama è geloso di tutto quanto possa essere di ostacolo al possesso di chi è oggetto del suo amore (XVI 239c-240a). Differenza di età, costrizione assillante e fastidiosa contribuiscono a rendere difficili e anche gravosi i rapporti dell'amato con l'amante (XVII 240a-e). E quando l'amore finisce, l'amante fugge, perché è diventato un altro uomo, e l'amato continua, anche così, a soffrire. L'amicizia di un amante non sorge mai accompagnata da benevolenza (XVIII 240e-241d). Quanti sono i mali che l'amante arreca ad una persona tanti sono i beni che arreca chi non ama: termina così il primo discorso di Socrate, ma Fedro lo trattiene e chiede che la conversazione continui (XIX 241d-242b). Seconda parte: Socrate acconsente, perché ha sentito l'abituale voce del demone che lo distoglieva dall'andarsene: è necessaria una palinodia espiatoria, perché se Amore è, come è, un dio, non può essere un male (XX 242b-243b). Ancora sulla necessità della palinodia e della purificazione (XXI 243c-e). Secondo discorso di Socrate (Socrate a capo scoperto): non è vero che si debba compiacere a chi non ama piuttosto che a chi ama, perché il primo è assennato ed il secondo in stato di mania. La mania non solo non è un male, anzi per essa, dono divino, ci vengono i più grandi beni: è per mania che parlano gli oratori, le sibille, gli indovini. Etimologia del nome, e superiorità della mania sull'assennatezza (XXII 244a-245a). Bisogna dunque dimostrare che la mania e l'amore sono doni divini. Ma per far questo è necessario aver chiara la natura dell'anima umana (XXIII 245b-c). L’anima è immortale, perché ciò che muove se stesso non cessa mai dal moto, non è generato e non perisce (XXIII 245c-246a). La natura dell'anima. Il mito del carro alato e del suo auriga. La congiunzione dell'anima e del corpo (XXV 246a-d). La processione celeste delle anime (XXVI 246d-247c). Il luogo sopraceleste e la contemplazione delle idee (XXVII 247c-e). Diversi destini delle anime e diverse loro incarnazioni a cui sono destinate a seconda di quanto siano riuscite ad avvicinarsi al luogo sopraceleste (XXVIII 248a-e). L'escatologia e la reminiscenza. Superiorità dell'anima del filosofo (XXIX 248e-249d). La reminiscenza dell’idea della bellezza e la mania amorosa (XXX 249d-250c). Superiorità della vista sugli altri sensi. La bellezza è l’unica idea che traluce nel mondo sensibile. Dalla bellezza sensibile alla bellezza in sé (XXXI 250c-251b). A seconda della permanenza celeste dell'anima, chi s'imbatte nel bello cede al piacere, o avverte smarrimento e calore improvviso. Alla sua anima germogliano e si distendono le ali man mano che amore la pervade (XXXII 251c-252c). La mania amorosa imita il dio, al cui seguito essa si trovava nella sua precedente processione celeste (XXXIII 252c-253c). Ripresa del mito della biga alata: la natura del cavallo buono e quella del cavallo cattivo (XXXIV 253c-254b). La mania amorosa ed il diverso comportamento dei due cavalli sotto l'azione dell'auriga (XXXV 254b-e). E’ l'azione benefica di amore che a poco a poco convince l'amato a concedersi all'amante, fino a superarlo in passione e desiderio (XXXVI 254c-256a). Superiorità dell'amore in cui prevale la parte migliore dell'anima su quello volgare: questo ultimo, tuttavia, pur non mettendo all'anima le ali, fa nascere in essa il desiderio di averle (XXXVII 256a-c). Conclusione del discorso di Socrate e della palinodia sull'amore (XXXVIII 256e-257b). Intermezzo nella discussione: la "logografia" (XXXIX 257b-258c). Socrate propone di esaminare in che cosa consiste il brutto tanto nel parlare che nello scrivere (XL 258d-259b). Il mito delle cicale (XLI 259b-d). Terza parte: le condizioni dell'opera d'arte. La prima condizione per ben parlare e ben scrivere è che si conosca la verità sulle cose. Retorica e politica (XLII 259d-260d). Retorica e verità: per sostenere che non è possibile persuadere senza retorica, indipendentemente da ciò che si vuol persuadere, bisogna esser certi che la retorica sia un'arte. Retorica in senso stretto come arte dei discorsi nei tribunali e nelle assemblee (XLIII 260d-261c). Non è possibile trarre vantaggio dalla retorica o evitarne le insidie se non si conosce la verità su ciò di cui si parla (XLIV 261c-262c). Applicazione di questo principio ai due discorsi sull'amore (XLV 262c-263a). La retorica ha tanto maggior peso quanto più è opinabile e incerto il suo soggetto: e così è appunto per l'amore (XLVI 263a-e). Verifica di questo principio sul discorso di Lisia: analisi della disposizione degli argomenti (XLVII 263c-264e). Verifica di questo principio sui due discorsi dì Socrate: il concetto di mania e le sue quattro forme (XLVIII 264c-265c). Il metodo dialettico e i suoi due procedimenti: unificare e dividere (XLIX 265c-266b). Retorica e dialettica (L 266b-d). I procedimenti della retorica e l'arte dei discorsi: l'episodio, la narrazione e le testimonianze, le prove, ecc. Rassegna dei retori più illustri. E’ necessario tuttavia esaminare in che misura tutto ciò costituisca veramente un'arte (LI 266d-268a). Quali sono le condizioni perché uno possa essere veramente considerato medico o poeta tragico: innanzi tutto una reale competenza (LII 268a-269a). Per quanto concerne la retorica, poi, essa non può essere definita senza dialettica. Per essa occorre bensì esercizio e scienza, ma l'arte su cui essa si fonda non è certo quella dei retori più celebrati (LIII 269a-e). L'esempio di Pericle, discepolo di Anassagora: medicina e retorica, rispettivamente per il corpo e per l'anima, hanno bisogno oltre che dell'esperienza anche di un metodo scientifico (LIV 269e-270e). Preliminare alla retorica è la conoscenza dell'anima, di ciò che essa può operare o patire, per quali cause la persuasione si produce nelle anime (LV 270c-271e). Quali sono i criteri e il metodo, secondo cui va composto un trattato (LVI 271c-272d). Esposizione della tesi secondo cui la retorica non deve aver di mira la verità, ma la verisimiglianza e cioè l'opinione della moltitudine (LVII 272d-273d). Ma parlare di verisimiglianza non si può se non si possiede la verità; e con ciò si torna al punto da cui si era partiti (LVIII 273d-274b). Valore del discorso scritto: il mito di Theuth e l'invenzione dell'alfabeto e della scrittura. Il discorso scritto è più di ostacolo che di aiuto alla vera scienza (LIX 274b-275c). Ancora sull'inferiorità del discorso scritto rispetto a quello parlato (LX 275c-276a). I discorsi come semi gettati nell'anima. La dialettica (LXI 276a-277a). Conclusione e riepilogo: verità e retorica (LXII 277a-c). Ancora il riepilogo: discorso scritto e discorso parlato (LXIII 277c-278b). Considerazioni conclusive su retorica e filosofia; giudizio su Isocrate (LXIV 278b-279c).

TESTO


        [227a] I. SOCRATE. Caro Fedro! Dove vai? E di dove vieni? FEDRO. Ero con Lisia, il figlio di Cefalo, o Socrate: ora me ne vado a spasso fuori delle mura. Perché sono stato là un monte di tempo, sempre a sedere, sin dall’alba; così, su consiglio dell’amico comune, Acumeno, faccio i miei quattro passi all’aria aperta perché, dice, rinvigori-[b] scono di più che passeggiare sotto i portici. SOCR. Hai ragione, amico mio. Ma dunque Lisia era in città a quanto pare! FEDR. Sì! Stava da Epicrate, in quella casa di Morico vicino al tempio di Giove olimpico. SOCR. E come ve la passaste? Lisia v’avrà certamente festeggiato con discorsi! FEDR. Lo saprai se hai tempo di accompagnarmi un po’ e di ascoltare. SOCR. Ne dubiti? Non ti sembro il tipo, per dirla con Pindaro, capace di "preferire ad ogni occupazione" l’ascoltare come tu e Lisia [c] vi siate intrattenuti? FEDR. Avanti dunque! SOCR. E tu parla! FEDR. Davvero, o Socrate, la cosa ti riguarda, perché il discorso attorno al quale s’è discusso, non so in che modo, era d’amore. Lisia cioè ha scritto di un bel giovane insidiato, ma non da un innamorato, anzi qui sta proprio l’eleganza della trovata: egli sostiene che ci si debba concedere preferibilmente a chi non t’ama, piuttosto che a un innamorato. SOCR. O nobile mente! Avesse mai scritto che ci si conceda a un povero piuttosto che a un ricco, a un vecchio, più che a un giovane, e a quant’altro [d] mi porto addosso con la maggior parte della gente... Sarebbero sì proposte civili e democratiche! Son tutto così preso dal desiderio d’ascoltare che se anche tu volessi passeggiare fino a Megara e, giuntone alle mura, volessi ritornare indietro, come Erodico, giuro che non resterò [228a] indietro. FEDR. Che intendi dire, mio ottimo Socrate? Ti sembro il tipo io, dilettante come sono, che possa ripetere a memoria, senza sfigurarlo, il discorso che Lisia, il più abile scrittore d’oggi, ha composto in tanto tempo e in tutto comodo? Ce ne vuole! E sì che preferirei esserne capace, piuttosto che possedere tutto l’oro del mondo.

II. SOCR. O Fedro! Se non conosco il mio Fedro mi sono scordato di me stesso. Ma né l’uno né l’altro! So bene che trattandosi d’un discorso di Lisia, il mio Fedro non l’ha ascoltato una volta sola, ma spesso, a più riprese l’ha pregato di ripeterglielo, e Lisia non se lo faceva dire [b] due volte. Tuttavia la ripetizione non gli bastava e alla fine prendendogli di mano il libro s’è messo a riesaminare i brani che lo attraevano di più. Finalmente, esausto di starsene là seduto a fare questo fin dal mattino, se n’è sortito a passeggiare, sulla mia parola, per il cane, sapendo il discorso tutto a memoria, se non era troppo lungo. E si metteva a camminare verso la campagna per esercitarsi a declamarlo. E poiché ha incontrato un uomo che ha la febbre di ascoltare discorsi, ah! appena l’ha visto, ha gongolato dalla gioia al pensiero d’avere qualcuno cui [c] partecipare il suo delirio e gli ha chiesto di mettersi in cammino. Ma quando l’altro, appassionato di discorsi, l’ha pregato di raccontare, questi ha cominciato ad accampar scuse, come se non avesse naturalmente voglia di parlare; mentre egli alla fine avrebbe usato anche la forza se non lo si stesse ad ascoltare di buona voglia! Ora, o Fedro, pregalo tu, che faccia sùbito ciò che, tanto, farà presto in ogni caso. FEDR. Senza dubbio è molto meglio che io cominci a parlare come posso, perché vedo che non mi lasceresti affatto andare finché io non te l’abbia bene o male raccontato. SOCR. Appunto! M’hai capito benissimo.

[d] III. FEDR. E va bene! Lo farò. Ma è proprio vero, o Socrate, che non l’ho mandato a mente parola per parola! Ma io riassumerò in generale il senso di quasi tutti quegli argomenti con i quali Lisia poneva a confronto la condizione di chi ama e di chi non ama, prendendoli nell’ordine, uno a uno, e cominciando dal primo. SOCR. Certo, amore, ma prima mostrami che cosa tieni nella mano sinistra, sotto il mantello: scommetto che hai proprio [e] il discorso. E se è così, considera che per quanto ti voglia molto bene, non sono disposto ad offrir me stesso alle tue esercitazioni oratorie, dal momento che Lisia stesso è presente. Orsù, fa vedere... FEDR. Basta, Socrate! Hai distrutto la speranza che avevo di esercitarmi su te. E va bene, ma dove vuoi che ci mettiamo seduti per leggere? [229a] SOCR. Voltiamo qui e seguiamo l’Ilisso. Se poi qualche posto ti parrà tranquillo, ci sederemo. FEDR. Che fortuna, no, che mi trovo qui scalzo! Tu naturalmente lo sei sempre; così non ci è di alcuna noia camminare con i piedi nell’acqua e bagnarci, e non è punto spiacevole soprattutto in questa stagione dell’anno e a quest’ora. SOCR. Conduci allora! e intanto guarda dove possiamo sederci. FEDR. Ecco! vedi quel platano altissimo? SOCR. E allora? [b] FEDR. Là c’è ombra, una lieve brezza e un prato per sederci, o se vogliamo, per sdraiarci. SOCR. Avanti allora! FEDR. Dimmi, Socrate, non è proprio da qui, da uno di questi posti dell’Ilisso, che Borea, come dicono, rapì Orizia? SOCR. Sì, questo è il mito. FEDR. Ma dunque proprio da qui? Certo l’acqua è bella, pura e trasparente, proprio come ci vuole perché le ragazze ci vengano a giocare sulle rive. SOCR. Non qui, ma più giù due o tre stadi, nel [c] punto che attraversiamo per andare al tempio di Agra. Ci dovrebbe essere, proprio là, un altare a Borea. FEDR. Non ci ho mai fatto caso; ma dimmi per Giove, o Socrate, credi tu che questo mito sia vero?

IV. SOCR. Se non ci credessi, come fanno i sottili sapienti, sarebbe del tutto normale: e poi, con dotta sottigliezza, potrei dimostrare come la fanciulla, mentre giocava con Farmacea, fu sospinta giù per le rupi che sono qui intorno da una ventata di Borea, e così dopo la sua morte si raccontò che fosse stata rapita da Borea, sebbene ciò possa essere avvenuto dal colle di Ares, perché c’è anche questa versione, che di là e non da qui, sia stata rapita. [d] Per conto mio, o Fedro, considero queste teorie soprattutto divertenti, ma è pane per gente di genio, che si travaglia assai e non esattamente fortunata, non fosse altro perché dopo ciò spetta loro di interpretare la figura degli ippocentauri e poi quella della Chimera. E già ti precipita addosso una valanga di tali esseri, di Gorgoni e Pegasi, e una assurda moltitudine di mille altre mostruose [e] e leggendarie creature. Che se qualche scettico vorrà ridurle, ciascuna, alla verisimiglianza, con quel certo tipo di scienza grossolana, gli ci vorrà tempo assai. Ed io non ho certo tempo per queste occupazioni; ed eccone la ragione, mio caro: che non riesco ancora a conoscere me stesso come vuole il motto delfico. Mi sembra proprio ridicolo che io, mentre sono ancora all’oscuro di questo, mi ponga [230a] ad indagare problemi che mi stanno di fuori. Donde, lasciando perdere queste storie, e pago dell’opinione comune su di esse, lo ripeto, vado indagando non quelle, ma me stesso, per scoprire se per caso sono un mostro molto più complicato e fumigante di Tifone, o una creatura più amabile e semplice, partecipe per natura d’una qualche sorte divina e mansueta. Ma, amico mio, così chiacchierando, non era questo l’albero a cui mi conducevi?

[b] V. FEDR. Sì, proprio questo. SOCR. Ah, per Era, che bel posto per riposare! Con questo platano così ampio di fronde e così alto! E che slancio quell’agnocasto, che bellissima ombra! E’ al colmo della sua fioritura e spande profumo per tutto il luogo. La sorgente amenissima scorre sotto il platano con fresche acque, come si può sentire col piede. Dalle statuette e dalle immagini si direbbe un [c] luogo sacro a qualche ninfa e ad Acheloo. E poi, la brezza del posto, quant’è amabile e dolce! Melodia estiva che risponde al coro delle cicale. Ma più gentile di tutto è quest’erba, sorta così soffice sul dolce pendio, da appoggiarvi comodo il capo per chi si sdraia. Sicché mi sei stato una guida stupenda, Fedro caro. FEDR. Tu sì, o mirabile amico, sei del tutto straordinario: ché, proprio come dici, ti si prende per uno straniero menato dalla guida, e [d] non per uno che qui ci abita. Che mai t’allontani dalla città, e non per passare il confine, ma neppure, mi dai l’idea, per mettere i piedi fuori dalle mura. SOCR. Sii buono con me, mio caro. Io sono appassionato a imparare: ma la campagna e gli alberi non sono disposti ad insegnarmi alcunché, mentre imparo dagli uomini in città. Ora, tu hai scoperto, forse, la droga per farmi uscire; perché come quelli che menano avanti le bestie affamate agitando sui loro occhi una frasca o un frutto, così tu mostrandomi i discorsi dei libri mi dai l’idea che mi porterai in giro per tutta l’Attica e per ogni altro posto ti venga voglia. Ma ora [e] che sono arrivato fin qui, credo bene di sdraiarmi. Tu scegliti la posizione che pensi più comoda per leggere e comincia. FEDR. Ecco! Ascolta:

VI. "Sei al corrente della mia situazione e già t’ho detto che considero un vantaggio per noi se la cosa si farà. [231a] Né ritengo giusto che mi si rifiuti ciò che chiedo semplicemente perché si dà il caso che non sia innamorato di te. Giacché gli innamorati, appena la loro passione verrà meno, si dorranno del bene che t’hanno fatto, mentre per coloro che non amano non viene mai il giorno in cui debbano ricredersi. Ché costoro non sono costretti, ma spontaneamente fanno il bene che è loro possibile, seguendo nel miglior modo il loro interesse personale. Inoltre, gli innamorati soppesano gli svantaggi subiti nelle proprie cose, per servire l’amore, e il bene fatto alla persona amata [b] e, aggiuntivi i travagli che hanno sopportato, ritengono d’aver da lungo tempo pienamente ripagati i favori ricevuti. Ma coloro che non amano, di conseguenza non possono addurre come pretesto che hanno trascurato i loro affari, né mettere in conto i trascorsi travagli, né lamentare contrasti con i familiari, cosicché, una volta eliminate queste miserie, null’altro resta loro che impegnarsi a fondo in ciò che ritengono possa far piacere agli amati. Inoltre, se la ragione [c] per cui è giusto che gli amanti siano tenuti in gran conto è perché sostengono d’avere una grande devozione per quelli che amano e perché sono disposti, con le parole e con i fatti, a farsi odiare da tutto il mondo per far piacere agli amati, si intenderà facilmente, se dicono il vero, che via via che si innamoreranno di qualcun altro, lo avranno in maggior considerazione, ed è ovvio che, se questi nuovi amanti lo vorranno, gli innamorati faranno del male anche ai loro amanti di ieri. Ma, davvero, che senno c’è ad accordare un favore così prezioso a chi è travagliato da un [d] malanno così grave che nessuno, per quanto abile, potrebbe provarsi a levargli di dosso? Perché gli innamorati stessi ammettono d’essere più malati che in senno, e sanno bene d’aver perduto la ragione e di non farcela a dominarsi! Di conseguenza, una volta rinsaviti, come potrebbero approvare quei propositi che hanno formato in una simile alterazione? E osserva ancora: se ti vuoi scegliere davvero il migliore fra coloro che sono innamorati di te, la tua scelta sarà fra pochi; se invece vuoi cercare la persona che ti sarà più utile fra gli altri, avrai largo campo; cosicché fra i [e] tanti avrai migliore probabilità di trovare chi sia degno del tuo affetto.

VII. "Può darsi che, per rispetto alle convenzioni comuni, tu tema il disprezzo della gente, se viene a sapere [232a] di te; è naturale invece che gli amanti, convinti come sono d’essere ammirati anche dagli altri come da se stessi, si esaltino a parlare e, per farsi belli, mettano in piazza che i loro sforzi non sono stati vani. Ma coloro che non amano, padroni di se stessi come sono, preferiscono il loro reale vantaggio piuttosto che la considerazione presso la gente. Inoltre viene di necessità che molte persone conoscano e vedano gli amanti sempre al seguito come sono dei loro diletti e impegnati soltanto in questo, cosicché [b] quando essi sono visti a parlare gli uni con gli altri la gente pensa che sono insieme o perché hanno soddisfatto o vanno a soddisfare tra poco il loro piacere. Ma gli altri, nessuno si sogna di accusarli se si intrattengono insieme, visto che è pur forza frequentare qualcuno o per amicizia o per qualche altro interesse. Ma osserva ancora: se ti sta addosso il timore pensando che l’amicizia difficilmente dura e che, mentre in ogni altra situazione se sorge qualche contesa essa ricade in egual misura su entrambe le parti, [c] qui, invece, quando hai sacrificato quel che più tieni caro, il peggior danno sarebbe tuo, a ragione dovresti maggiormente temere gli innamorati. Perché da mille cose sono rattristati e pensano che tutto vada a loro danno. Per questo scoraggiano gli incontri dei loro amati con altre persone, temendo che i ricchi li soppiantino con il denaro, e i colti prevalgano per intelligenza: e montano di guardia contro il potere di coloro che possiedono un qualche altro [d] bene. Inducendoti così a essere malvisto da quelli, ti lasciano solo e senza un amico; ma se tu guardi al tuo proprio interesse e mostri più buon senso dei tuoi innamorati, verrai a una rottura. Invece coloro che non sono innamorati, e hanno ottenuto ciò che chiedevano per la loro virtù, non saranno gelosi di quelli che staranno teco, anzi prenderanno in odio chi non voglia farlo perché sono convinti che questi t’hanno in dispetto, mentre gli altri ti possono giovare. Ne consegue che di qui essi [e] trarranno molte più probabilità di amicizia che di inimicizia.

VIII. "E osserva ancora: molti amanti desiderano il tuo corpo prima di conoscere il tuo carattere e di avere intimità con le altre tue doti naturali, cosicché non si può essere certi se essi vorranno ancora essere tuoi amici quando [233a] sarà placato quel desiderio. Invece per coloro che non sono innamorati e che erano tuoi amici anche prima di ottenere i tuoi favori, non è probabile che diminuisca la loro amicizia in seguito al godimento ricevuto, ma piuttosto che questo resti come pegno dei favori futuri. E osserva ancora, che diventerai migliore più facilmente ascoltando me che un amante. Perché costoro lodano, anche contro ogni senso del giusto, tutto ciò che dici e che fai, in parte perché temono di indispettirti, in parte [b] perché essi stessi hanno il giudizio offuscato dalla passione. Ché queste sono le manifestazioni d’amore: quando la sorte li perseguita, esso fa apparire intollerabile ciò che agli altri non dà alcuna noia; ma quando la fortuna è loro benigna, esso li induce a lodare anche ciò che non ha nulla di piacevole. Perciò agli amati capita più spesso di sentire pietà per i loro innamorati che di provare ammirazione per loro. Ma se tu mi darai ascolto, per prima cosa m’accompagnerò teco non in vista dell’immediato piacere, [c] ma anche del tuo futuro vantaggio, perché non sono soggiogato dall’amore, ma padrone di me stesso; né sollevo per sciocchezze un violento rancore, ma porto un’ira modesta e posata per gravi ragioni; perché compatisco i falli involontari e i volontari mi provo di impedire. Tali sono i segni d’una amicizia destinata a durare lungo tempo. Se dunque hai in mente che non è possibile una salda amicizia, tranne che con un innamorato, devi riflettere che allora neppure i figli potremmo tenere a cuore, o il padre [d] e la madre, né potremmo possedere alcun amico fidato, i quali tutti ci diventano tali non per passione erotica, ma per legami del tutto diversi.

IX. "Inoltre se è un dovere compiacere coloro che più sono bisognosi, meriterebbe allora che anche negli altri casi si benefichino non le persone più degne ma quelle in più grave privazione, perché più grande è l’angustia da cui sono liberati, più saranno riconoscenti. E osserva appunto che quando c’è festa in casa sarebbe giusto invitare [e] non gli amici, ma gli indigenti e quelli che meritano di sfamarsi, perché costoro ti vorranno bene, diventeranno tuoi fedeli, verranno alla tua porta: soprattutto gongoleranno di gioia, ti saranno non poco riconoscenti e pregheranno per te tutti i beni del mondo. Ma no! Forse merita di più favorire non quelli che giacciono nella maggior privazione, [234a] ma coloro che più sono in grado di ricambiare; non quelli che sanno soltanto domandare, ma quelli che sono degni del beneficio; non quanti trarranno gioia dalla tua giovane bellezza, ma quanti ti faranno partecipe dei loro beni quando sarai vecchio, non coloro che, goduto di te, se ne vanteranno con gli altri, ma coloro che terranno un rispettoso silenzio davanti a tutti; non chi ti sia devoto per breve stagione, ma chi per tutta la vita ti resterà costantemente amico; non quanti cercheranno pretesti per rompere con te, quando sia spenta la loro passione, ma quanti, finita la tua giovanile bellezza, allora ti proveranno [b] la loro eccellenza. Tu dunque tieni a mente ciò che t’ho detto e rifletti che mentre gli innamorati sono sempre rimproverati dagli amici cui pare vergognosa la loro condotta, chi invece non è innamorato da nessuno mai dei famigliari è rimproverato di comportarsi a svantaggio del proprio interesse. Probabilmente mi potresti chiedere se io ti raccomando di concederti a tutti coloro che non ti amano. Ma io credo che neppure un innamorato ti inviterebbe ad avere questa favorevole disposizione verso tutti coloro che [c] ti amano, perché per chi l’ottenga a pensarci bene, la cosa non pare degna della gratitudine dovuta né tu, pur volendolo, puoi in ogni caso tener nascosta la cosa alla gente. Ma noi dobbiamo trarre da quest’affare non danno, ma reciproco vantaggio. Ed ora io penso d’aver detto quanto basta; ma se tu desideri saper altro che ti sembra da me trascurato, domanda!".

X. Che pensi, o Socrate, di questo discorso? Non ti pare composto stupendamente soprattutto nella lingua? [d] SOCR. Ha del demonico anzi, mio caro, tanto che ne son rimasto tutto scosso. E sei tu che mi hai fatto provare questa impressione, o Fedro, perché guardandoti mi sembrava che t’illuminassi di gioia mentre leggevi. Così, convinto che in queste cose tu ne capisci più di me, ti seguivo, e seguendoti mi sono trovato in estasi bacchica con te, mio ispirato amico. FEDR. Beh, via! Ti pare, per questo, di doverci scherzare? SOCR. Perché, ci ho l’aria di uno che scherza e non parla sul serio? FEDR. [e] Non continuare, Socrate! Ma seriamente dimmi, in nome di Giove, dio dell’amicizia, pensi che qualcun altro dei Greci potrebbe dire di più e meglio sullo stesso argomento? SOCR. Ma come? Dobbiamo io e te lodare il discorso anche per il fatto che l’autore ha detto tutto ciò che doveva? Ma non basta lodarlo solo perché ogni parola era chiara, elegante e tornita? Se si deve, lo ammetterò per compiacerti perché io, almeno, a causa della mia nullità, non me ne sono [235a] accorto. Gli è che seguivo attentamente il solo lato oratorio del discorso e pensavo che lo stesso Lisia non si ritenesse soddisfatto del risultato. Insomma mi è parso, o Fedro, se non hai nulla da obiettare, che abbia ripetuto le stesse cose due o tre volte, come se egli si districasse male a tenere un discorso lungo su un tema unico, o forse non avesse alcun interesse in tale tema. Ecco, mi dava l’impressione di fare come i giovani, ostentando la sua abilità a ripetere le stesse cose ora in un modo, ora nell’altro, sempre con risultato perfetto. FEDR. Quel che dici non [b] significa niente, o Socrate! Perché proprio questa è la qualità distintiva del suo discorso che non ha dimenticato alcun aspetto fra quelli che valevano la pena d’essere esposti sull’argomento! Così che, in confronto a come ha parlato lui, nessun altro può tenere un discorso più completo e più pregevole. SOCR. Qui non sono più in grado di seguirti. Perché anche antichi sapienti, uomini e donne che hanno parlato e scritto sulle stesse questioni, mi confuterebbero se, per compiacerti, ti dessi ragione. FEDR. [c] Chi sono costoro? E dove hai ascoltato qualcosa migliore di questa?

XI. SOCR. Ora, così all’improvviso, non so dirtelo; ma sono sicuro d’aver udito da qualcuno qualcosa di meglio, forse dalla bella Saffo, o dal poeta Anacreonte, o da qualche prosatore. E sai che cosa me lo fa dire? Questo, o divino, che il mio petto è tutto gonfio e sento di poter dire cose non peggiori di questa. Ma so bene che da me stesso non ne ho pensata una sola di esse, perché conosco la mia ignoranza. Ecco, non rimane, credo, che, come un vaso, io [d] me ne sia riempito attraverso gli orecchi da qualche altra fonte. Sennonché, stordito come sono, ho scordato proprio come e da chi le ho udite. FEDR. Stupendo generoso amico! Poiché non riuscirò a cavarti di bocca da chi e come le hai udite, neppure se ti costringo, fa, però, quello che hai detto: hai promesso di fare un discorso migliore di questo qui scritto nel libro, e non più breve, senza ispirarti ad esso; ed io, come i nove arconti, ti prometto di alzare a Delfi una statua d’oro di grandezza naturale [e] e non solo di me, ma anche di te. SOCR. Sei proprio caro, o Fedro, e sei davvero d’oro, se supponi che io affermi che Lisia ha mancato in pieno il suo discorso e che sia possibile, lasciando dietro tutte le sue cose, dire dell’altro. Ma ciò non capiterebbe nemmeno al più infimo scrittore. E per venire al tema del discorso, credi tu che qualcuno, dovendo dimostrare la convenienza di concedersi a chi non ama, piuttosto che a un innamorato, se non lodasse la saggezza del primo e non riprendesse la follia del secondo, [236a] argomentazioni queste indispensabili, credi tu che avrebbe altre cose da dire in cambio? No! Al contrario, per chi sostenga ciò, questi argomenti, credo, debbono essere concessi e condonati; e non la loro invenzione va lodata, ma il modo come sono disposti; ma trattandosi di argomenti inessenziali o difficili da inventare, ne va lodata oltre che la disposizione anche l’invenzione.

XII. FEDR. Sono d’accordo perché mi paiono cose giuste quelle che dici. E dunque farò anch’io così: ti concederò [b] come base del tuo discorso che l’innamorato è meno sano di chi non ama; e per il resto se parlerai meglio e in modo più completo di quanto è qui, ti starai, in oro battuto, ad Olimpia accanto al dono dei Cipselidi. SOCR. L’hai presa sul serio, o Fedro, che io per canzonarti ho pizzicato il tuo beniamino; ed ecco, immagini che io seriamente mi metterò a dire, in gara con la saggezza di quello, un discorso più elaborato? FEDR. Qui, caro mio, sei cascato nella [c] stessa trappola! Ormai devi assolutamente parlare, così come ti riesce, se non vuoi che ci riduciamo tutti e due a fare una di quelle scene grossolane da commedia, rimbeccandoci a vicenda. Sta in guardia e non obbligarmi a ripetere quel tuo: ‘Se io, o Socrate, non conosco il mio Socrate, mi sono scordato di me stesso’, e ‘desiderava parlare, ma cominciava ad accampar scuse’. Mettiti in testa invece che di qui non ce ne andremo finché tu non m’abbia fatto il discorso che dicevi di avere nel petto. Siamo soli ed isolati, ed io sono più forte e più giovane [d] di te. Per tutte queste buone ragioni "intendi quel che dico", e non ridurti a parlare per forza piuttosto che di tua voglia. SOCR. Ma benedetto Fedro, sarò ridicolo, dilettante come sono, a improvvisare sullo stesso argomento in gara con un grande artista! FEDR. Sai che ti dico? Smettila di fare il prezioso con me! Perché ho forse qualcosa che, se te la dico, ti costringerò a parlare. SOCR. E non dirla, allora! FEDR. No, ma sùbito la dico! E sarà un giuramento: "Sì, ti giuro..." ma per quale mai, per [e] quale dio? O ti va per questo platano? "ti giuro che se non mi fai il tuo discorso, qui davanti a questo, mai più ti mostrerò, né mai più ti informerò di altri discorsi di qualcuno!".

XIII. SOCR. Ahimé, scellerato, come l’hai scovato il segreto per costringere un appassionato di discorsi a fare quello che vuoi! FEDR. Cos’hai, allora, da contorcerti? SOCR. Niente ormai, per via del giuramento che hai fatto! Perché, come potrei fare senza simili banchetti? FEDR. [237a] Parla, allora. SOCR. Senti, sai come farò? FEDR. A proposito di che? SOCR. Parlerò col capo coperto per correre prima alla fine e per non essere imbarazzato dalla vergogna, a vederti. FEDR. Purché tu parli, per il resto fa come vuoi. SOCR. Orsù, Muse canore, così invocate sia per la natura del vostro canto, sia per essere voi della stirpe musicale dei Liguri, "ponete mano con me" alla favola che questo ottimo amico mi costringe a dire, [b] affinché il suo beniamino che già prima gli sembrava sapiente, ora gli appaia anche di più. C’era dunque un fanciullo, anzi un giovane bellissimo; e gli stavano intorno molti innamorati. Ed uno di costoro la sapeva lunga e aveva convinto il ragazzo che non l’amava benché gli fosse affezionato non meno degli altri. E una volta, sollecitandolo, cercava di convincerlo che bisogna concedersi a uno che non ama piuttosto che a un innamorato, e diceva così:

XIV. "Ragazzo mio, per deliberare giustamente, in ogni cosa c’è un solo principio: si deve conoscere bene l’oggetto [c] della decisione, altrimenti è forza maggiore cadere in errori. Ma i più non s’accorgono di ignorare l’essenza di ciascuna cosa e, come se la conoscessero, non ne cercano una definizione comune al principio dell’indagine; ma inoltratisi in quella, ne scontano la pena com’è giusto, perché non si trovano d’accordo né con se stessi né con gli altri. Non permettiamo quindi che capiti a me e a te ciò che biasimiamo negli altri; ma giacché si presenta a noi la questione se si debba entrare in intimità con chi ami o piuttosto con chi non ami, stabiliamo prima d’accordo una definizione d’amore che precisi la sua natura e i suoi [d] effetti, e poi tenendola sempre d’occhio e riferendoci ad essa, possiamo indagare se l’amore è benefico o dannoso. Ora, che l’amore sia un tipo di desiderio, è chiaro a tutti, e in più sappiamo che si ha desiderio del bello, anche senza essere innamorati. Da cosa, allora, distingueremo chi ama da chi non ama? Bisogna, procedendo, considerare che in ognuno di noi vi sono due tipi di princìpi che ci governano e ci guidano, che noi seguiamo dovunque ci menino: l’uno è un innato desiderio di piaceri, l’altro, invece, è l’opinione acquisita che aspira all’ottimo. Talvolta questi due impulsi interni sono in accordo, ma talvolta sono in lotta fra loro: e ora prevale l’uno, ora l’altro. [e] Quando l’opinione, che ci mena all’ottimo attraverso la ragione, vince, la sua vittoria è chiamata temperanza; ma il predominino su di noi del desiderio che irrazionalmente [238a] ci tira ai piaceri, viene chiamato sfrenatezza. Ma in verità la sfrenatezza ha molti nomi perché ha molte membra e forme, e quando una di queste forme è presente in modo cospicuo, dà il proprio nome a chi ne è pieno, nome né bello né onorevole a portarsi. Così il desiderio del cibo quando predomina sulla ragione dell’ottimo e sugli altri [b] desideri, si chiama gola e il nome servirà anche per chiamare chi n’è posseduto. A sua volta, il desiderio del bere che diventi padrone e che trascini per questa via chi ne è posseduto, è ovvio che nome prenderà; e così di seguito, sia per persone analoghe a queste sia per desideri fratelli di questi non è men chiaro quale sia il nome adatto per il desiderio che via via divenga dispotico. In vista di qual desiderio s’è premesso tutto ciò, lo si può già quasi capire; ma a dirlo sarà molto più chiaro che non dirlo. Quando il desiderio irrazionale, trascinato al piacere della bellezza, prevale sull’opinione tendente alla rettitu-[c] dine ed è vigorosamente irrobustito dai desideri a lui affini volti alla bellezza del corpo, diventa guida vittoriosa, allora prendendo nome dalla sua stessa forza (rhóme), è chiamato amore (éros)".

XV. Oh! non ti sembra, caro Fedro, come pure a me, che io sia tutto preso da un’ispirazione divina? FEDR. Davvero, o Socrate! Contro il tuo solito, vieni giù facile come un fiume d’eloquenza! SOCR. Taci allora, ed ascolta. Certo in questo luogo sento una presenza divina, così che non ti devi sorprendere se procedendo nel discorso io [d] ne sarò posseduto. Già il mio stile non suona lontano dal ditirambo. FEDR. Oh! è verissimo. SOCR. Ma tu ne sei il responsabile! Ma ascolta il resto, perché forse l’estro potrebbe abbandonarmi. A questo però ci penserà il dio; noi riprendiamo il discorso al fanciullo. "Bene, mio buon amico, la vera natura di ciò su cui dobbiamo prendere una decisione, è stata precisata e definita; ed ecco che ora diremo il resto con la mente rivolta a questa definizione: quale vantaggio o danno può verosimilmente prove-[e] nire da parte di chi è innamorato e da parte di chi non lo è a colui che concede loro i suoi favori? Ora un uomo dominato dal desiderio e schiavo del piacere è forza maggiore che cerchi di foggiarsi il suo amato nel modo più piacevole per se stesso. Ma a un ammalato piace tutto ciò che non lo contrasta, mentre lo indispettisce ciò che lo prevarica o gli [239a] è pari, onde l’amante non può sopportare facilmente che il suo amore valga più di lui o gli sia pari e sempre cerca di foggiarselo inferiore a sé e più debole: e l’ignorante è inferiore al sapiente, l’imbelle al forte, l’illetterato all’oratore, il tardo al perspicace. E’ giocoforza che l’amante da una parte goda di questi gravi difetti intellettuali e di molti ancora maggiori creatisi o insiti per natura nell’amato, e che d’altra parte li provochi per non privarsi dell’immediato piacere. Ecco che inevitabilmente è geloso, e impedendogli [b] molte altre compagnie ed anche quelle utili, attraverso le quali potrebbe divenire un vero uomo, è responsabile d’una grave rovina, ma d’una gravissima quando gli impedisce quelle per cui potrebbe avvicinarsi alla maggiore intelligenza, alla divina fìlosofia, voglio dire, dalla quale è inevitabile che l’amante distorni il fanciullo, tutto terrorizzato com’è di diventare oggetto di disprezzo. E le penserà tutte perché il ragazzo non sappia nulla e non abbia occhi che per il suo amante, e ridotto così sia un piacere dolcissimo per l’amante ma per se stesso un’immensa rovina. Così per ciò che concerne l’intelligenza dell’amato, l’uomo innamorato non è in alcun modo utile né come guida, [c] né come amico.

XVI. "Ed ora dobbiamo esaminare riguardo le condizioni fisiche e la cura rivolta al corpo, quale attenzione vi porrà e in che modo chi del corpo sia divenuto padrone e che, per forza delle cose, persegua il piacere invece del bene. Lo si vedrà corteggiare un giovinetto cascante e molle, ingracilito nel chiuso torbido e non cresciuto all’aria pura, inesperto di virili fatiche e di dimagranti sudori, avvezzo [d] ad una vita delicata ed effeminata, che s’adorna di colori e ornamenti artificiali in mancanza dei propri, occupato in tutte le altre frivolezze che comportano simili pratiche; le quali cose sono così ovvie che non meritano un’ulteriore enumerazione; tuttavia, prima di passare ad altro, riassumiamo in una definizione: davanti a un tal corpo, in caso di guerra o in altre occasioni gravi, i nemici prendono ardimento, ma i suoi compagni e anche i suoi amanti si scoraggiano. Ma lasciamo adesso queste ovvie osservazioni e affrontiamo la prossima questione, qual [e] vantaggio cioè e qual danno ai propri beni comportano la consuetudine e la protezione di un innamorato. Bene, lo sanno tutti, ma soprattutto lo sa l’amante che il suo desiderio supremo sarà che il suo amore sia interamente spogliato di tutti i beni che ha più cari, più preziosi e divini: padre, madre, famigliari ed amici vorrà che gli vengano [240a] meno, giudicandoli solo come ostacoli e condanne alla intimità così intensa di piacere per lui. Poi se il giovane possiede ricchezze in denaro o in altre sostanze, l’amante penserà che non sia facile conquistarlo, né sia trattabile quando lo conquistasse. Per ciò è forza maggiore che l’amante sia geloso delle ricchezze del suo amore e gongoli di gioia se le perde; ma ancora egli scongiurerà fra sé che il suo diletto rimanga senza moglie, figli, e casa il più lungo tempo possibile, poiché desidera di godere quanto più lungamente può, la sua dolcezza.

XVII. "Sicuramente vi sono altri mali nella vita, ma un demone mescolò nella maggior parte di essi un momentaneo [b] piacere: per esempio nell’adulatore, che è bestia terribile e perniciosa, la natura tuttavia infuse una sorta di piacere non senza fascino; e si può condannare la cortigiana come rovinosa e così molte altre creature simili con le loro analoghe pratiche, le quali certo, almeno per breve ora, possono riuscire dolcissime. Ma un amante, oltre ad essere rovinoso all’amato, è anche la maggior seccatura fra tutte [c] ad averlo tutto il giorno fra i piedi. Perché, anche secondo il vecchio proverbio, ogni età ama la sua età, e difatti l’essere coetanei, forse con il sollecitare gli stessi piaceri, per via della somiglianza produce amicizia; ma anche la continua convivenza di due coetanei arriva a saziare. Ed ora aggiungi alla differenza d’età che è sensibilissima fra l’amante e il suo diletto, la costrizione ritenuta da tutti gravosa in ogni circostanza. Perché uno anziano, a starsene sempre attorno a un giovane, non vorrebbe mai, né notte né giorno, esserne [d] disertato, ma è pungolato dall’assillo di un bisogno che, allettandolo con continui piaceri, lo spinge a guardare il suo diletto, ad ascoltarlo, palparlo, sentirlo in ogni altro senso fisico, così che, stretto al suo ragazzo, l’amante lo serve con gioia. Ma, all’incontro, quale conforto o quali piaceri avrà l’amante da offrire al suo amato per impedire che per tutto il tempo in cui stanno insieme, quegli non giunga all’ultimo grado del disgusto? Vedersi dinanzi il volto vecchio e sfiorito, con tutte le altre cose che questo comporta e che ripugna solo a sentirle dire nonché a praticarle sotto [e] continua e pesante costrizione! E doversi guardare in ogni luogo e di fronte a tutti da sospettosi spioni, e stare a sentire lodi inopportune ed esagerate come anche rampogne che quando l’amante è ancora sobrio non sono già più tollerabili, ma che quando lui diventa ubriaco oltre che insopportabili diventano disgustose per il linguaggio di smodata e sfacciata impudenza!

XVIII. "Ma se mentre ama è nocivo e noioso, quando cessa di amare mostrerà la sua infedeltà per tutto il tempo a venire, per quel tempo cioè in vista del quale era stato generoso di promesse accompagnate da giuramenti e suppliche, riuscendo così a far durare stentatamente, con la [241a] speranza di beni, la già faticosa intimità di allora. Ecco venuto il tempo di mantenere le promesse: ma cambiato come ha padrone e autorità, la ragione e la saggezza subentrate al posto dell’amore e della follia, egli è divenuto un altro e il suo amato non se n’è accorto. E questi domanda il riconoscimento del passato e gli rinverdisce il ricordo di ciò che l’amante fece e promise pensando di parlare allo stesso uomo, ma l’amante pieno di vergogna non osa neppure dirgli che è diventato un uomo nuovo, né sa come mantenere i giuramenti e le promesse fatte sotto l’impero della precedente follia; e tutto assennato e rinsavito [b] com’è, teme che rifacendo le stesse cose non diventi ancora uguale a quel che era prima, anzi lo stesso uomo. Per questi motivi diventa disertore e ridottosi necessariamente traditore l’amante d’un tempo, cambia bandiera e mutate le parti si dà alla fuga. Ma l’amato è costretto a corrergli dietro, imprecando tutto indignato, perché dal principio alla fine non ha mai compreso che non doveva concedersi ad un innamorato destinato com’è ad essere privo di senno, ma che gli meritava piuttosto compiacere chi non fosse in amore, cioè fosse sano di mente. In caso [c] diverso era destino che cascasse con un uomo di mala fede, bisbetico, geloso, disgustoso, rovina delle sue sostanze e rovina ancora del suo corpo, ma soprattutto intiera rovina della sua educazione spirituale della quale sicuramente nulla c’è o vi sarà mai di più pregiato per gli uomini e per gli dèi. Dunque, ragazzo mio, devi comprendere e convincerti che l’amicizia di un innamorato non nasce da affetto, ma è fame che cerca di saziarsi, e che "come i lupi aman [d] gli agnelli", così gli amanti adorano il fanciullo".

XIX. Ecco tutto, o Fedro. Ora non potresti più udire da me una sola parola; ma considera che il mio discorso è già finito. FEDR. E io che credevo tu fossi a metà del discorso e che avresti esposto le ragioni di chi non ama mostrando che a questo bisogna di preferenza concedersi ed enumerando tutti i beni che offre! Ma perché ora ti fermi a mezzo, o Socrate? SOCR. Benedetto te, non ti [e] sei accorto che non più il ditirambo ma già canto l’epica, e proprio mentre sto facendo rampogne? Se comincio a lodare l’altro, dove pensi che andrei a finire? Non vedi che per opera delle ninfe in balia delle quali mi hai di proposito gettato, sarò chiaramente invasato? Ti dico dunque, in breve, che quanti sono i mali che abbiamo biasimato nell’innamorato, altrettanti beni corrispondono in chi non lo è. E perché ci vorrebbero tante parole? Su entrambi è stato detto quanto basta. Ecco! Questa mia storia vada a finire così come merita; ma io passo il rivo e me ne [242a] vado prima che tu mi costringa a qualcosa di peggio. FEDR. Non ancora, o Socrate, finché non sia passata la calura. Non vedi come il mezzogiorno già quasi ci sovrasta, l’ora cioè che si dice immota? Via, rimaniamo qui a discutere le cose già dette e, come sarà rinfrescato, ce ne andremo! SOCR. Sei sublime, o Fedro, nel tuo entusiasmo per i discorsi e veramente ti ammiro! Perché dei discorsi [b] tenuti durante la tua vita, nessuno, credo, ne ha fatti nascere più di te, sia che tu stesso li abbia detti, sia che in qualche modo tu abbia costretto gli altri. Non parlo di Simmia tebano, ma gli altri li vinci con larghezza. E adesso, mi pare, ancora una volta sei responsabile che io tenga un certo discorso. FEDR. Non mi dichiari certo la guerra! Ma come mai? E che discorso è questo?

XX. SOCR. Nel momento stesso, amico mio, in cui stavo per ripassare il rivo, m’è accaduto di sentire il mio segnale [c] demonico e famigliare - che sempre mi trattiene sul punto di far qualcosa - e ho creduto d’udire all’istante una voce che mi proibiva di andarmene se prima non avessi espiato non so quale colpa commessa contro il dio. Ora io sono un indovino, come sai, anche se non molto bravo, ma, come quelli che stentano a leggere l’alfabeto, così per quel che serve a me, lo sono abbastanza. Vedo ora chiaramente l’offesa che ho fatto. Ché tu lo sai, amico mio, la mia anima ha un qualche potere divinatorio e già da un pezzo mentre parlavo mi sentivo preso da una inquietudine, e mi scoraggiavo al pensiero che, per dirla con Ibico, [d] "avendo mancato verso gli dèi, rimediassi in compenso fama dagli uomini". Ma ora m’accorgo della mia colpa. FEDR. Che colpa è mai? SOCR. Orribile, o Fedro, orribile discorso cui tu m’hai indotto e che mi hai costretto a dire. FEDR. Come mai? SOCR. Un discorso sciocco e in certe cose empio! Ce ne potrebbe essere uno più orribile? FEDR. No, se però è vero quel che dici. SOCR. E come no? Non è un dio, per te, Amore, figlio di Afrodite? FEDR. Certo! Lo si dice. SOCR. Ma non lo dice Lisia, né quel tuo discorso che la mia bocca, stregata da te, ha [e] pronunciato. Se Amore è, come certamente è, un dio o un essere divino, non può essere un male, ma quei due discorsi di poco fa lo trattavano proprio come se fosse un male; questa è la loro colpa verso il dio. Inoltre erano d’una vuotaggine addirittura comica con quel loro darsi aria solenne, senza dir nulla di sano e di vero, come se aves-[243a] sero un senso perché, per avere turlupinato quattro omiciattoli ne avevano meritato il plauso! Così, amico mio, debbo purificarmi. C’è per chi offende i miti divini un’antica forma di purificazione che Omero non conobbe, ma Stesicoro sì. Perché costui divenuto cieco per l’infamia gettata su Elena, non ne ignorò la ragione come Omero, ma, da vero musico, comprese la causa della cecità e sùbito cantò:

                                        Non è vero quel racconto!

                                        Non salisti nelle solide navi

[b]                                    Non venisti alle torri di Troia

 

E com’ebbe composto l’intero canto, la cosiddetta Palinodia, all’istante ricuperò la vista. Ora mi mostrerò più saggio di loro, almeno in questo, che comincerò a tributare la mia dovuta palinodia ad Amore prima che abbia a subirne l’ira per la calunnia che gli ho fatto; e non più con il capo nascosto per la vergogna, come prima, ma scoperto. FEDR. Oh! Socrate, cosa più bella di questa non me la potevi dire!

[c] XXI. SOCR. Sì, caro Fedro, ti rendi conto quanto furono irriverenti i due discorsi di prima, il mio e quello letto nel libro! Perché se qualcuno, generoso e nobile, che fosse innamorato, o già altre volte lo fosse stato di un suo pari, ci avesse per caso udito mentre dicevamo che gli amanti concepiscono profonde inimicizie per futili ragioni, e che sono tormento e peste per i loro amori, non pensi tu che costui avrebbe creduto di udire gente che ha visto un amore educato nei bassiporti, ed ignobile? E [d] che avrebbe rifiutato di accettare i nostri biasimi di Amore? FEDR. Forse, per Giove, o Socrate. SOCR. Ora, almeno per rispetto di costui e per timore di Amore, desidero lavare l’amaro delle cose udite con un dolce discorso. E consiglio anche a Lisia di scrivere sùbito come convenga, a parità di condizioni, concedersi all’innamorato piuttosto che a chi non ama. FEDR. Sta certo che andrà [e] così. Quando tu abbia detto l’elogio dell’innamorato, per forza costringerò Lisia a riscrivere il discorso sullo stesso tema. SOCR. Non ne ho alcun dubbio, finché continui ad essere l’uomo che sei. FEDR. Coraggio, comincia. SOCR. Ma dov’è il ragazzo a cui parlavo prima? Perché voglio ch’egli mi ascolti ancora una volta e non corra, per non avermi udito, a compiacere chi non lo ama. FEDR. E’ qui, vicinissimo, sempre accanto a te quando tu lo voglia.

XXII. SOCR. Orbene, mio bel giovane, devi convincerti che mentre il primo discorso era di Fedro, figlio di Pitocle, [244a] cittadino di Mirrinunte, quello che sto per dire è di Stesicoro, figlio di Eufemo, cittadino di Imera. Ed è così che deve dire: "Non è verace il discorso che ad un innamorato si debba preferire chi non ama, con il pretesto che questi delira e il primo invece è sano e saggio. Ciò sarebbe detto bene se il delirio fosse invariabilmente un male; ora invece i più grandi doni ci provengono proprio da quello stato di delirio, datoci per dono divino. Perché [b] appunto la profetessa di Delfo, le sacerdotesse di Dodona, proprio in quello stato di esaltazione, hanno ottenuto per la Grecia tanti benefici, sia agli individui che alle comunità; ma quando erano in sé fecero poco o nulla. Tralascio di parlare ancora della Sibilla e di quanti altri profetizzano per ispirazione divina, i quali con le loro anticipazioni hanno spesso e a moltissimi indicato una giusta strada per il futuro; ché ci soffermeremmo su cose note a tutti. Ma è giusto che sia addotto a testimonianza questo fatto, che anche gli antichi artefici dei nomi non tennero il delirio dell’esaltazione né in vergogna, né in disprezzo, perché diversamente non avrebbero connesso [c] questo stesso nome con l’arte bellissima, per la quale si discerne il futuro, chiamandola esaltazione profetica ("manica"). No, fu perché essi la ritennero cosa bella, quando nasca da dono divino, che la chiamarono così. I moderni invece, che non hanno alcun senso del bello, inserendovi una ‘t’ la chiamarono "mantica". Lo prova anche che c’è una investigazione del futuro, condotta da persone che sono completamente in senno, attraverso gli uccelli ed altri segni; essa, fornendo attraverso il ragionamento, intelligenza e informazione all’opinare degli uomini, fu chiamata "oionoistica", che i moderni, rendendola solenne con un omega, dicono "oiónistica". Vedi dunque: [d] di quanto la mantica é più perfetta e venerabile dell’oionistica - il nome e l’opera dell’una lo sono più di quelli dell’altra - di tanto la testimonianza degli antichi considera superiore lo stato di delirio che viene da un dio che il senno ch’è proprio degli uomini. Ma in secondo luogo, in occasione di malattie e pene grandissime, che colpirono i membri di certe stirpi appunto per qualche antica colpa, l’esaltazione divina apparve in coloro in cui doveva e, profetando, [e] assicurò la liberazione di quei mali, ricorrendo a preghiere e riti per gli dèi. Onde con purificazioni e iniziazioni rese immune per il presente e l’avvenire il sofferente, assicurando, per chi fosse invasato e posseduto dal vero delirio, la liberazione da ogni male presente. V’è una [245a] terza forma di esaltazione e delirio, di cui sono autrici le Muse. Questa, quando occupa un’anima tenera e pura, la sollecita e la rapisce nei canti e in ogni altra forma di poesia, e celebrando le infinite opere del passato, educa i posteri. Ma chi giunga alle soglie della poesia senza il delirio delle Muse, convinto che la sola abilità lo renda poeta, sarà un poeta incompiuto e la poesia del savio sarà offuscata da quella dei poeti in delirio.

[b] XXIII. "Tante grandi e splendide opere, e ancora maggiori posso enumerarti come dono del delirio che viene dagli dèi! Non lo si tema quindi per se stesso, né ci sconcerti quell’argomento che ci mette in guardia per farci preferire un amico in senno in luogo di uno appassionato. Ma questa teoria canti vittoria, solo dopo aver dimostrato che l’amore è inviato dagli dèi all’innamorato e all’amato non per loro vantaggio. Sta a noi dimostrare il contrario, cioè che questa specie di delirio è la più grande fortuna [c] concessa dagli dèi. Se la nostra dimostrazione non sarà convincente per gli increduli, lo riuscirà per i sapienti. Il nostro primo punto sarà comprendere la verità intorno alla natura dell’anima, divina e umana, esaminando ciò che patisce e ciò che opera. Così cominceremo la dimostrazione.

XXIV. "L’anima è immortale; perché ciò che sempre si muove è immortale. Ora, ciò che provoca movimento in altro ed è mosso esso stesso da qualcos’altro, se subisce un arresto di movimento smette di vivere. Solo dunque ciò che muove se stesso, in quanto non può abbandonare se stesso, mai cessa di essere in moto; anzi è scaturigine e principio di moto di tutte le cose che sono mosse. Ora, il principio non è generato perché, mentre ogni cosa [d] che nasce deve per forza nascere da un principio, questo invece non deve esser generato da niente: se altrimenti il principio procedesse da qualcosa, cesserebbe di essere ancora il principio. Inoltre, dal momento che non è generato, per forza sarà immortale; perché se il principio venisse a mancare, né questo potrebbe nascere da altro, né altro da esso, visto che è necessario che tutto abbia un principio. Ecco dunque: ciò che muove se stesso è principio di movimento; esso non può nè morire nè nascere, altrimenti l’intero universo e tutto ciò che è in movimento, [e] cadendo in rovina, si fermerebbe e mai più potrebbe trovare donde riprendere moto e vita. Ora che abbiamo dimostrato l’immortalità di ciò che si muove da sé, nessuno avrà scrupoli ad affermare che proprio questa è l’essenza e la definizione dell’anima. Perché ogni corpo il cui movimento sia provocato dall’ esterno, è inanimato, ma ogni corpo che riceve il movimento dall’interno, da se stesso, è animato; dato che questa è la natura dell’anima. Ma se questa affermazione è giusta, e cioè che ciò che si muove da sé non può essere che anima, ne consegue di [246a] necessità che l’anima è non generata e immortale.

XXV. "Dell’immortalità dell’anima s’è parlato abbastanza, ma quanto alla sua natura c’è questo che dobbiamo dire: definire quale essa sia, sarebbe una trattazione che assolutamente solo un dio potrebbe fare e anche lunga, ma parlarne secondo immagini è impresa umana e più breve. Questo sia dunque il modo del nostro discorso. Si raffiguri l’anima come la potenza d’insieme di una pariglia alata e di un auriga. Ora tutti i corsieri degli dei e i loro [b] aurighi sono buoni e di buona razza, ma quelli degli altri esseri sono un po’ sì e un po’ no. Innanzitutto, per noi uomini, l’auriga conduce la pariglia; poi dei due corsieri uno è nobile e buono, e di buona razza, mentre l’altro è tutto il contrario ed è di razza opposta. Di qui consegue che, nel nostro caso, il compito di tal guida è davvero difficile e penoso. Ed ora bisogna spiegare come gli esseri viventi siano chiamati mortali e immortali. Tutto ciò che è anima si prende cura di ciò che è inanimato, e penetra per l’intero universo assumendo secondo i luoghi forme [c] sempre differenti. Così, quando sia perfetta ed alata, l’anima spazia nell’alto e governa il mondo; ma quando un’anima perda le ali, essa precipita fino a che non s’appiglia a qualcosa di solido, dove si accasa, e assume un corpo di terra che sembra si muova da solo, per merito della potenza dell’anima. Questa composita struttura d’anima e di corpo fu chiamata essere vivente, e poi definita mortale. La definizione di immortale invece non è data da alcun argomento razionale; però noi ci preformiamo il dio, [d] senza averlo mai visto nè pienamente compreso, come un certo essere immortale completo di anima e di corpo eternamente connessi in un’unica natura. Ma qui giunti, si pensi di tali questioni e se ne parli come è gradimento del dio. Noi veniamo ad esaminare il perché della caduta delle ali ond’esse si staccano dall’anima. Ed è press’a poco in questo modo.

XXVI. "La funzione naturale dell’ala è di sollevare ciò che è peso e di innalzarlo là dove dimora la comunità degli dèi; e in qualche modo essa partecipa del divino più delle altre cose che hanno attinenza col corpo. Il divino è [e] bellezza, sapienza, bontà ed ogni altra virtù affine. Ora, proprio di queste cose si nutre e si arricchisce l’ala dell’anima, mentre dalla turpitudine, dalla malvagità e da altri vizi, si corrompe e si perde. Ed eccoti Zeus, il potente sovrano del cielo, guidando la pariglia alata, per primo procede, ed ordina ogni cosa provvedendo a tutto. A lui vien dietro l’esercito degli dèi e dei demoni ordinato in undici [247a] schiere: Estia rimane sola nella casa degli dèi. Quanto agli altri, tutti gli dèi, che nel numero di dodici sono stati designati come capi, conducono le loro schiere, ciascuno quella alla quale è stato assegnato. Varie e venerabili sono le visioni e le evoluzioni che la felice comunità degli dèi disegna nel cielo con l’adempiere ognuno di essi il loro compito. Con loro vanno solo quelli che lo vogliono e che possono, perché l’Invidia non ha posto nel coro divino. Ma, eccoti, quando si recano ai loro banchetti e festini, salgono [b] per l’erta che mena alla sommità della volta celeste; ed è agevole ascesa perché le pariglie degli dèi sono bene equilibrate e i corsieri docili alle redini; mentre per gli altri l’ascesa è faticosa, perché il cavallo maligno fa peso, e tira verso terra premendo l’auriga che non l’abbia bene addestrato. Qui si prepara la grande fatica e la prova suprema dell’anima. Perché le anime che sono chiamate immortali, quando sian giunte al sommo della volta celeste, si spandono fuori e si librano sopra il dorso del cielo: e l’orbitare del cielo le trae attorno, così librate, ed esse [c] contemplano quanto sta fuori del cielo.

XXVII. "Questo sopraceleste sito nessuno dei poeti di quaggiù ha cantato, né mai canterà degnamente. Ma questo ne è il modo, perché bisogna pure avere il coraggio di dire la verità soprattutto quando il discorso riguarda la verità stessa. In questo sito dimora quella essenza incolore, informe ed intangibile, contemplabile solo dall’intelletto, pilota dell’anima, quella essenza che è scaturigine della [d] vera scienza. Ora il pensiero divino è nutrito d’intelligenza e di pura scienza, così anche il pensiero di ogni altra anima cui prema di attingere ciò che le è proprio; per cui, quando finalmente esso mira l’essere, ne gode, e contemplando la verità si nutre e sta bene, fino a che la rivoluzione circolare non riconduca l’anima al medesimo punto. Durante questo periplo essa contempla la giustizia in sé, vede la temperanza, e contempla la scienza, ma non quella [e] che è legata al divenire, né quella che varia nei diversi enti che noi chiamiamo esseri, ma quella scienza che è nell’essere che veramente è. E quando essa ha contemplato del pari gli altri veri esseri e se ne è cibata, s’immerge di nuovo nel mezzo del cielo e scende a casa: ed essendo così giunta, il suo auriga riconduce i cavalli alla greppia e li governa con ambrosia e in più li abbevera di nettare.

[248a] XXVIII. "Questa è la vita degli dèi. Ma fra le altre anime, quella che meglio sia riuscita a tenersi stretta alle orme di un dio e ad assomigliarvi, eleva il capo del suo auriga nella regione superceleste, ed è trascinata intorno con gli dèi nel giro di rivoluzione; ma essendo travagliata dai suoi corsieri, contempla a fatica le realtà che sono. Ma un’altra anima ora eleva il capo ora lo abbassa, e subendo la violenza dei corsieri parte di quelle realtà vede, ma parte no. Ed eccoti, seguono le altre tutte agognanti quell’altezza, ma poiché non ne hanno la forza, sommerse, sono spinte qua e là e cadendosi addosso si calpestano a vicenda nello sforzo di sopravanzarsi l’un l’altra. Ne con-[b] seguono scompiglio, risse ed estenuanti fatiche, e per l’inettitudine dell’auriga molte rimangono sciancate e molte ne hanno infrante le ali. Tutte poi, stremate dallo sforzo, se ne dipartono senza aver goduto la visione dell’essere e, come se ne sono allontanate, si cibano dell’opinione. La vera ragione per cui le anime si affannano tanto per scoprire dove sia la Pianura della Verità è che lì in quel prato si trova il pascolo congeniale alla parte migliore dell’anima [c] e che di questo si nutre la natura dell’ala, onde l’anima può alzarsi. Ed ecco la legge di Adrastea. Qualunque anima, trovandosi al seguito di un dio, abbia contemplato qualche verità, fino al prossimo periplo rimane intocca da dolori, e se sarà in grado di far sempre lo stesso, rimarrà immune da mali. Ma quando l’anima, impotente a seguire questo volo, non scopra nulla della verità, quando, in conseguenza di qualche disgrazia, divenuta gravida di smemoratezza e di vizio, si appesantisca, e per colpa di questo peso perda le ali e precipiti a terra, allora la legge vuole che questa anima non si trapianti in alcuna natura ferina [d] durante la prima generazione; ma prescrive che quella fra le anime che più abbia veduto si trapianti in un seme d’uomo destinato a divenire un ricercatore della sapienza e del bello o un musico, o un esperto d’amore; che l’anima, seconda alla prima nella visione dell’essere s’incarni in un re rispettoso della legge, esperto di guerra e capace di buon governo; che la terza si trapianti in un uomo di stato, o in un esperto d’affari o di finanze; che la quarta scenda in un atleta incline alle fatiche, o in un medico; che la [e] quinta abbia una vita da indovino o da iniziato; che alla sesta le si adatti un poeta o un altro artista d’arti imitative, alla settima un operaio o un contadino, all’ottava un sofista o un demagogo, e alla nona un tiranno.

XXIX. "Ora, fra tutti costoro, chi abbia vissuto con giustizia riceve in cambio una sorte migliore e chi senza giustizia, una sorte peggiore. Ché ciascuna anima non ritorna al luogo stesso da cui era partita prima di diecimila anni - giacché non mette ali in un tempo minore - tranne [249a] l’anima di chi ha perseguito con convinzione la sapienza, o di chi ha amato i giovani secondo quella sapienza. Tali anime, se durante tre periodi di un millennio hanno scelto, sempre di seguito, questa vita filosofica, riacquistano per conseguenza le ali e se ne dipartono al termine del terzo millennio. Ma le altre, quando abbiano compiuto la loro prima vita, vengono a giudizio, e dopo il giudizio, alcune scontano la pena nelle prigioni sotterranee, altre, alzate dalla Giustizia in qualche sito celeste, ci vivono così come hanno meritato dalla loro vita, passata in forma umana. [b] Allo scadere del millennio, entrambe le schiere giungono al sorteggio e alla scelta della seconda vita; ciascuna anima sceglie secondo il proprio volere: è qui che un’anima può passare in una vita ferina e l’anima di una bestia che una volta sia stata in un uomo può ritornare in un uomo. Giacché l’anima che non abbia mai visto la verità non giungerà mai a questa nostra forma. Perché bisogna che l’uomo comprenda ciò che si chiama Idea, passando da una molteplicità di sensazioni ad una unità organizzata dal [c] ragionamento. Questa comprensione è reminiscenza delle verità che una volta l’anima nostra ha veduto, quando trasvolava al seguito d’un dio, e dall’alto piegava gli occhi verso quelle cose che ora chiamiamo esistenti, e levava il capo verso ciò che veramente è. Proprio per questo è giusto che solo il pensiero del filosofo sia alato, perché per quanto gli è possibile sempre è fisso sul ricordo di quegli oggetti, per la cui contemplazione la divinità è divina. Così se un uomo usa giustamente tali ricordi e si inizia di continuo ai perfetti misteri, diviene, egli solo, veramente perfetto; e [d] poiché si allontana dalle faccende umane, e si svolge al divino, è accusato dal volgo di essere fuori di sé, ma il volgo non sa che egli è posseduto dalla divinità.

XXX. "Ecco dove l’intero discorso viene a toccare la quarta specie di delirio: quello per cui quando uno, alla vista della bellezza terrena, riandando col ricordo alla bellezza vera, metta le ali, e di nuovo pennuto e agognante di volare, ma impotente a farlo, come un uccello fissi l’altezza [e] e trascuri le cose terrene, offre motivo d’essere ritenuto uscito di senno. Quel delirio, dico, che è la più nobile forma di tutti i deliri divini e procede da ciò che è più nobile, tanto per chi ne è preso quanto per chi ne partecipa; e chi conosce questo rapimento divino, ed ami la bellezza, è detto amatore. Perché, secondo quanto s’è detto, ogni anima umana per sua natura ha contemplato il vero essere, altrimenti non sarebbe penetrata in questa crea-[250a] tura che è l’uomo. Ma non per tutte le anime è agevole, partendo dalle cose terrene, far affiorare nella memoria quel vero essere, non per quelle che ebbero lassù una visione rapidissima di quelle realtà, non per quelle che, quando sono crollate a terra, ebbero mala sorte cosicché, stravolte verso l’ingiustizia da certe compagnie, dimenticarono quanto allora videro di santo. Proprio poche rimangono che possono ancora ricordare in modo bastante; e queste, quando scorgono qualche imitazione delle cose del cielo, vanno in estasi e non si tengono più, pur non sapendo di che patimento si tratti perché la percezione di ciò non è suf-[b] ficientemente profonda. Ora nelle imitazioni terrene non traspare neppure un raggio di giustizia, di temperanza e di quant’altri beni siano preziosi per l’anima; ma solo pochi, con organi così ottusi, possono a fatica scorgere, accostandosi alle immagini, la natura di ciò che in esse è raffigurato. La bellezza brillava allora in tutta luce, quando nella beata schiera ne godevamo la beatifica visione, noi al seguito di Giove, altri di un altro dio, ed eravamo iniziati a quella iniziazione che si può ben dire [c] la più beatifica di tutte; e la celebravamo integri ed inesperti dei mali che in seguito ci avrebbero atteso, in misterica contemplazione di integre e semplici, immobili e venerabili forme, immersi in una luce pura, noi stessi puri e privi di questa tomba che ora ci portiamo in giro col nome di corpo, imprigionati in esso come un’ostrica...

XXXI. "Questo discorso sia il nostro tributo alla reminiscenza che già ci ha tirato ad una lunga digressione, presi dal rimpianto delle cose di allora. Ora, la bellezza, come s’è detto, splendeva di vera luce lassù fra quelle essenze, e anche [d] dopo la nostra discesa quaggiù l’abbiamo afferrata con il più luminoso dei nostri sensi, luminosa e risplendente. Perché la vista è il più acuto dei sensi permessi al nostro corpo; essa però non vede il pensiero. Quali straordinari amori ci procurerebbe se il pensiero potesse assicurarci una qualche mai chiara immagine di sé da contemplare! Né può vedere le altre essenze che son degne d’amore. Così solo la bellezza sortì questo privilegio di essere la più percepibile dai sensi e la più amabile di tutte. Chi pertanto [e] ha una lontana iniziazione o è già corrotto non può rapidamente elevarsi da questo mondo a contemplare la bellezza in sé di lassù, coi mettersi a guardare ciò che qui in terra si chiama bello; cosicché egli la riguarda senza venerazione e, arrendendosi al piacere, come una bestia, si lancia a seminare figlioli, o abbandonatosi agli eccessi non prova timore né vergogna a perseguire piaceri contro [251a] natura. Ma chi sia iniziato di fresco e abbia goduto di lunga visione lassù, quando scorga un volto d’apparenza divina, o una qualche forma corporea che ben riproduca la bellezza, sùbito rabbrividisce e lo colgono di quegli smarrimenti di allora, e poi rimirando questa bellezza la venera come divina e se non temesse d’esser giudicato del tutto impazzito, sacrificherebbe al suo amore come a un’immagine di un dio. E rimirandolo, come avviene quando il brivido cede, gli subentra un sudore e un’accensione inso-[b] lita: perché man mano che gli occhi assorbono l’effluvio di bellezza, egli s’accende e col calore si nutre la natura dell’ala. Con il calore poi si discioglie intorno alle gemme l’ispessimento che, da tempo incallito, proibiva loro di germogliare. Affluendo il nutrimento, diviene turgida e lo stelo dell’ala riceve impulso a crescere sù dalla radice, investendo l’intera sostanza dell’anima. Perché un tempo era tutta alata.

[c] XXXII. "Ora essa palpita e fermenta in ogni parte e quel che soffrono i bambini con i denti quando spuntano, quel prurito e tormento, ecco questo l’anima patisce quando cominciano a spuntarle le ali: palpita, s’irrita e prova tormento mentre le spuntano. Quando dunque rimirando la bellezza d’un giovane, l’anima riceve le particelle che da quello partono e scorrono (ed è perciò che si chiama ‘fiume di desiderio’), se ne nutre, se ne riscalda, cessa [d] l’affanno e gioisce. Ma quando sia separata da quella bellezza l’anima inaridisce e le aperture dei meati attraverso i quali spuntano le penne disseccandosi si contraggono si da impedire i germogli dell’ala. Ma questi, imprigionati dentro, insieme all’onda del desiderio amoroso, palpitando come un’arteria urgono ciascuno contro la propria apertura sicché l’anima, trafitta da ogni parte, smania per l’assillo ed è tutta affannata. Ma riassalendola il ricordo della bellezza, ringioisce. Così sovrapponendosi questi due sentimenti, l’anima se ne sta smarrita per la stranezza della sua condizione e, non sapendo che fare, smania e [e] fuor di sé non trova sonno di notte né riposo di giorno, ma corre anela là dove spera di poter rimirare colui che possiede la bellezza. E appena l’ha riguardato, invasa dall’onda del desiderio amoroso, le si sciolgono i canali ostruiti: essa prende respiro, si riposa delle trafitture e degli affanni, e di nuovo gode, per il momento almeno, questo soavissimo piacere. Ed è così che non si staccherebbe mai dalla bellezza e che la tiene cara più di tutte; anzi si smemora della madre, [252a] dei fratelli e di tutti gli amici, e se il patrimonio rovina perché l’ha abbandonato, non gliene importa nulla, e, messe da parte norme e convenienze delle quali prima si adornava, è prona ad ogni schiavitù e a dormire in qualunque posto le si permetta, il più vicino possibile al suo caro. Perché, oltre a venerare colui che possiede bellezza, ha [b] scoperto in lui l’unico medico dei suoi dolorosi affanni. Questo patimento dell’anima, mio bell’amico a cui sto parlando, è ciò che gli uomini chiamano amore; ma quando ti dirò come lo chiamano gli dèi, forse sorriderai, data la tua giovinezza. C’è una coppia di versi sull’amore, citati da certi Omeridi, traendoli forse dalla loro tradizione segreta, il secondo dei quali è davvero insolente e zoppicante di metrica. Dicono così:

Gli uomini lo chiamano Amore che vola,Alato gli dèi, perché fa crescere l’ali. 


[c] Ci si può credere o no, tuttavia la causa delle condizioni degli innamorati è proprio questa.

XXXIII. "Ora, se chi è preso d’Amore faceva parte del seguito di Zeus, è in grado di portare con più solidità l’affanno del dio che ha nome dalle ali. Ma quanti furon nel corteggio di Ares e lo seguirono nel suo giro, quando sian preda d’Amore e credano d’aver subito offesa dall’amato, sono facili al sangue, e disposti a sacrificare se stessi e il [d] loro amato. E così via, ogni innamorato vive secondo il modo del dio di cui fu al seguito, venerandolo ed imitandolo per quanto può. Finché rimane incorrotto e sia nella prima esistenza, egli tratta e si comporta in quel modo con gli amati e con gli altri. E ancora secondo quella maniera ciascuno trasceglie il suo amore fra i belli e di quello ne fa il suo dio; se ne costruisce una specie di immagine [e] divina e la adorna con l’idea di venerarla e tributarle un culto. Così quelli che erano al seguito di Zeus anelano ad amare chi abbia un’anima conforme alle virtù di Zeus: scrutano se abbia sortito da natura amore alla saggezza e carattere per comandare, e quando l’abbiano trovato, se ne infiammano d’amore e fanno di tutto per mantenere quelle disposizioni. Ma se prima non avevano intrapreso questo studio, ora, impegnandosi, lo apprendono da ogni altra fonte per quanto possono e ne proseguono da se stessi la ricerca. E mentre essi si mettono sulle tracce per scoprire da sé la natura del loro dio, sono facilitati dall’essere forte-[253a] mente costretti a tenere gli occhi su di lui: finalmente raggiungendolo con il ricordo, ne sono invasati e da lui prendono costumi e attività, per quanto è possibile all’uomo di partecipare della divinità. Ora, ecco che attribuendo il merito di ciò al loro amato lo amano ancor più, e sebbene l’abbiano attinto da Zeus come attingono le Baccanti, riversano nell’anima del diletto e la formano così per quanto possono più simile al proprio dio. Quanti poi furono al seguito di Era, anelano a un’anima regale e, trovata che l’hanno, fanno del pari ogni cosa per lei. Quelli al seguito [b] di Apollo e di ciascuno degli dèi, procedendo al passo del loro dio anelano a un amato che ne abbia natura conforme. E quando l’hanno conquistato, sia imitando essi stessi il loro dio, sia persuadendo e disciplinando il loro amato, lo menano, per quanto a ciascuno è possibile, verso l’attività e la forma del dio; e agiscono in tal modo non per gelosia o meschina malevolenza verso il diletto, ma nello sforzo di renderlo simile a se stessi e più completamente [c] al dio ch’essi onorano. Così l’aspirazione e l’iniziazione dei veri amanti, se cercano di conquistarsi l’amore nel modo che sto dicendo, è gloriosa e felice per chi sia amato e sia stato conquistato da un amico invasato d’amore. E l’amato si conquista in questo modo.

XXXIV. "Al principio di questo nostro mito abbiamo distinto ciascun’anima in tre parti, delle quali due rassomigliandole a corsieri e la terza a un auriga. Riprendiamo l’immagine. L’uno dei cavalli, dicemmo, è nobile, e l’altro [d] no; ma quale sia l’eccellenza del virtuoso e il vizio del malvagio non l’abbiamo spiegato: conviene dunque parlarne ora. Ora l’uno, e cioè quello in miglior forma, è di figura dritta e snella, ha la cervice alta, le froge regali, il mantello bianco e gli occhi neri, ama la gloria temperata e pudica, [e] ed è amico dell’opinione verace; lo si guida senza frusta solo con l’incitamento e la ragione. Ma l’altro corsiero ha una struttura contorta e massiccia, messa insieme non si sa come, ha forte cervice, collo tozzo, froge vili, mantello nero ed occhi chiari e sanguigni , compagno di insolenza e di vanità, peloso fino alle orecchie, sordo e a stento dà retta alle sferzate della frusta. Quando l’auriga alla vista del volto amoroso, tutto infiammato l’animo di quella sensazione, è invaso dalla smania e dal pungolo della passione, il [254a] cavallo docile all’auriga, costretto ora come sempre dal pudore, si trattiene dal lanciarsi sull’amato, ma il cavallo sordo alle sferzate della frusta, scalpitando è spinto di forza e, mettendo in grande imbarazzo il compagno e l’auriga, li costringe ad avanzare verso l’amato e a rammemorare i piaceri dell’amore afrodisiaco. E i due da principio [b] resistono, infuriati d’esser forzati ad azioni mostruose e proibite, ma alla fine, non trovando un freno al male, spinti ad avanzare cedono e lasciano fare ciò che gli è imposto. E si fanno vicini all’amato e ne vedono la folgorante visione.

XXXV. "A tal vista la memoria dell’auriga è ricondotta alla natura della bellezza e di nuovo la vede alta su un sacro soglio a fianco della Temperanza, e al ricordo di questa visione l’auriga preso dal timore e dalla venerazione cade riverso all’indietro: perciò è costretto a trarre indietro le [c] redini con tale violenza che i cavalli si accosciano sulle anche, senza resistenza il corsiero docile, ma a forza il violento. Ora che si sono tratti un po’ più lontani dall’amato, il primo corsiero, vergognoso e smarrito, inonda l’anima intiera di sudore, ma l’altro, placandosi la sofferenza provocata dal morso e dalla caduta, non ha ancora preso lena, che infuria d’ira ingiuriando e svergognando molto l’auriga e il [d] compagno d’aver tradito il posto e l’accordo per viltà e debolezza. E di nuovo cerca di forzarli ad avanzare contro voglia e solo a stento cede alla loro preghiera di rimandare a un’altra volta. Ma giunto il momento che hanno stabilito, mentre quei due fingono d’aver scordato l’impegno, l’altro cavallo li richiama alla promessa e con violenza, nitriti e strattoni li forza di nuovo ad avvicinarsi all’amato per rinnovare la loro profferta. E quando gli sono vicini protende innanzi la testa, rizza la coda, morde il freno e tira avanti impudico. [e] Ma l’auriga, impressionato ancor più violentemente di prima, rovesciatosi indietro come un corridore rinculante dalla barra di partenza, con rinnovata violenza strappa indietro dai denti il morso del cavallo insolente insanguinandogli la lingua malvagia e le mascelle, e atterrandolo sulle anche "lo dà in preda ai dolori". Quando però, spesse volte sottoposto allo stesso trattamento, il malvagio abbandona l’insolenza, ubbidisce finalmente, tutto umiliato, alla guida dell’auriga e, quando vede il bell’amato, muore dalla paura. Così avviene che finalmente l’anima del-[255a] l’amante tiene dietro all’amato, vergognosa e riverente.

XXXVI. "Così l’amato, divenendo oggetto di culto come un dio non già da parte di uno che simula, ma da parte di uno che prova davvero tale devozione, anche egli di sua natura si dispone amichevolmente verso il suo devoto; e se prima era stato fuorviato da compagni e da altri che trovavano vergognoso egli avesse commercio con un amante, e se per questa ragione egli lo aveva respinto, tuttavia, col passare [b] del tempo, l’età stessa e la forza delle cose lo spingono ad accoglierlo nella sua intimità. Perché è assurdo che un malvagio sia amico d’un malvagio e che un buono non sia amico d’un buono. Come dunque ha introdotto l’amante a sé e gli ha concesso l’assiduità ed il discorrere insieme, sperimentando da vicino l’affetto dell’amante, l’amato rimane pieno di turbamento perché sente che tutti gli altri, amici e famigliari, non gli possono offrire nulla in confronto di questo amico posseduto da un dio. Così quando quello perseveri a conversare con lui e lo avvicini trovando contatto nei ginnasi e nelle altre compagnie, allora l’onda di quel [c] fiume che Zeus, amante di Ganimede, chiamò "onda di passione", si versa copiosa sull’amante e parte penetra in lui, parte invece trabocca fuori. Come una corrente di vento o un’eco che rimbalzando su una superficie levigata e solida si ripercuote al punto d’origine, così la corrente di bellezza penetra di nuovo nel bell’amato attraverso gli occhi. Così per il suo naturale canale raggiunge l’anima, e come vi arriva disponendola al volo irrora i meati delle penne, [d] stimola la crescita delle ali e a poco a poco riempie d’amore l’anima dell’amato. Così è innamorato, ma non sa di che cosa: non capisce né può dire ciò che prova continuamente, ma, come chi abbia contratto da un altro una malattia d’occhi, non può dirne il motivo e non s’accorge che nell’amante egli vede se stesso come in uno specchio. E quando questi gli è vicino cessa la sua sofferenza, come avviene anche in quello, ma quando è lontano, del pari, desidera ed è desiderato, perché ha in sé un’immagine [e] riflessa d’amore, un amore di risposta. Ma non lo chiama e non lo crede amore, bensì amicizia. Però desidera ugualmente, anche se con minor forza dell’amante, vedere, toccare, baciare il ragazzo e giacere con lui: e in queste condizioni ci arriva, naturalmente, assai presto. Così mentre stanno l’uno accanto all’altro il corsiero ribelle dell’amante ha ben di che dire all’auriga e pretende un po’ di godimento in compenso di tanti affanni. Il corsiero ribelle dell’amato non ha nulla da dire: gonfio di de-[256a] siderio e sgomento abbraccia l’amante e lo bacia con l’idea di riconoscere il suo affetto. Quando giacciono insieme non è in grado di rifiutarsi, per parte sua, a compiacere le richieste del suo amante. L’altro corsiero insieme all’auriga vi si oppongono mossi dal pudore e dalla ragione.

XXXVII. "Vedi dunque che se ottengono la supremazia gli elementi migliori dell’anima che guidano a una vita ordinata dall’amore della sapienza, i loro giorni su questa terra [b] saranno beati e in piena armonia, perché sono padroni di se stessi e misurati, avendo assoggettato ciò che produce il male nell’anima e liberato ciò che è fonte di virtù. Ecco che giunti al termine della vita, alati e lievi, delle tre gare veramente olimpiche ne hanno vinta una, di cui né la saggezza umana né il delirio divino possono recare maggior bene all’uomo. Ma se invece camperanno una vita non nobile, e tutti volti al desiderio d’onore invece che di sapienza, può [c] darsi che o nell’ubriachezza o in qualche ora d’abbandono i loro due cavalli ribelli cogliendo le rispettive anime alla sprovvista, e, insieme, traendole allo stesso fine, facciano la scelta che secondo il volgo è la più felice e la traducano in atto. E fatto questo una volta, essi continuino, sebbene più raramente, in quanto vedono di commettere cose che l’anima intiera non approva. Anche questi dunque [d] sono due amici, ma meno di quegli altri: vivono l’uno per l’altro e durante il tempo d’amore e dopo quando ne sono fuori, perché sentono d’aver dato e ricevuto scambievolmente le massime prove di fede, prove che sarebbe un delitto spezzare per divenire un giorno nemici. Alla morte s’allontanano dal corpo senz’ali ma non senza sollecitazioni a rivestirsene, cosicché portano seco un non piccolo premio del loro delirio amoroso, ché la Legge prescrive che coloro che hanno già iniziato il viaggio superceleste non torneranno ancora alle tenebre e al cammino sotterraneo, ma si accompagneranno insieme felici in una vita luminosa e insieme saranno provvisti di ali, quando sarà il tempo, [e] in grazia dell’amore.

XXXVIII. "Questi, o mio giovane, sono i grandi e divini doni che ti procurerà l’amicizia di un amante. Ma l’intimità di chi non t’ama, diluita da saggezza mortale, dispensando beni mortali e meschini, nell’anima amata ingenera una grettezza che è lodata dal volgo come una virtù [257a] e la condanna a rotolare per novemila anni, priva di intelletto, intorno e sotto terra." Così, caro Amore, ti ho offerto in espiazione la più compiuta e la migliore palinodia che potevo; la quale per piacere a Fedro è stata forzata ad essere poetica nell’insieme e nei vocaboli. Ma perdona le cose di prima e gradisci quelle dette ora: siimi propizio e benigno, non privarmi del talento amoroso che mi hai donato, né indebolirlo a causa della tua collera; anzi concedimi che [b] più d’ora io sia in pregio presso i belli. E se qualcosa Fedro ed io abbiamo detto nel discorso precedente troppo duro contro di te, incolpane Lisia, il solo autore di quel discorso, e, distogliendolo da tale genere, volgilo all’amore della sapienza, come ha fatto suo fratello Polemarco, affinché anche questo suo appassionato qui non stia più a cavallo di due opinioni come è ora, ma viva senza incertezze per Amore, la guida della filosofia.

XXXIX. FEDR. Aggiungo la mia preghiera, o Socrate, [c] perché avvenga così, se ciò è bene per noi. Ma quanto al tuo discorso, già da un pezzo sto ammirando con quanto più bella esecuzione dell’altro tu l’hai detto! Così temo proprio che troverò Lisia ben meschino, caso mai voglia competere col tuo, scrivendo un altro discorso. Perché, poco fa, o meraviglioso Socrate, anche uno dei nostri politici lo biasimava e gli rimproverava, lungo tutta la polemica, d’essere uno scrittore di discorsi. Può anche darsi quindi che, per desiderio di fama, si trattenga dallo scriverne un altro. SOCR. E’ un’idea ridicola la tua, ragazzo mio! Ti sbagli di grosso sul conto del tuo amico [d] se supponi che egli si spaventi di ogni brusio. Ma c’è il caso che tu creda davvero che l’autore dell’invettiva dicesse ciò che diceva con l’intenzione di biasimarlo. FEDR. Ne avevo proprio l’impressione, o Socrate. E tu sai bene quanto me che gli uomini dominanti e più influenti nella vita politica sono riluttanti a scrivere discorsi e a lasciare dei loro scritti alla posterità, temendo che l’opinione pubblica delle età successive li possa chiamare "sofisti". SOCR. E tu non sai, Fedro che l’espressione ‘ansa dolce’ viene dalla ‘lunga ansa’ del Nilo. E la-[e] sciando da parte l’ansa tu non t’accorgi che i più orgogliosi dei politici hanno addirittura la mania per la logografia e di lasciare opere scritte; costoro, se scrivono qualche discorso, si compiacciono tanto degli ammiratori, da aggiungervi in prima linea il nome di quelli che lodano il discorso in questione. FEDR. Cosa vuoi dire? Non ti seguo. [258a] SOCR. Non vedi che un politico in prima riga ci scrive il nome del suo lodatore? FEDR. Ma come? SOCR. "E’ parso opportuno all’Assemblea" - essi dicono press’a poco - o "al Popolo", o a entrambi, oppure "il tal o il tal altro ha proposto..." Ed ecco che l’autore si mette a parlare di se stesso pomposamente e a elogiarsi, poi finalmente procede in ciò che ha da dire, non senza far bella mostra presso i suoi ammiratori della propria sapienza componendo talvolta un’opera lunghissima. E una cosa del genere ti sembra altro che un discorso scritto? FEDR. [b] No. SOCR. Così se il discorso regge e passa, il suo poeta si allontana gongolante dalla scena; ma se è bocciato e perde il suo diritto di logografo e la dignità di scrittore, egli si duole e con lui i suoi amici. FEDR. E molto! SOCR. E’ dunque chiaro che non disdegnano questa pratica, ma anzi l’ammirano. FEDR. Certamente è così. SOCR. [c] Ma ascolta: quando un oratore o un re che abbiano raggiunto la potenza di Licurgo, un Solone, o un Dario, diviene da tanto che s’assicura l’immortalità fra il suo popolo come logografo, non è forse considerato pari a un dio mentre ancora vive, e i posteri non lo tengono nello stesso onore quando ne leggono gli scritti? FEDR. Sì, è vero. SOCR. E credi tu che uno di questa razza, chiunque sia e qualunque sia la sua animosità contro Lisia, lo potrebbe rimproverare semplicemente di questo, di scrivere. FEDR. Da quanto dici è del tutto improbabile, perché si troverebbe a rimproverare la propria passione.

[d] XL. SOCR. Da tutto ciò consegue chiaro che, in sé, lo scrivere discorsi non è un male. FEDR. Perché mai? SOCR. Ma questo io ritengo male, e cioè parlare e scrivere in modo brutto e riprovevole invece che bello. FEDR. Senza dubbio. SOCR. Qual è dunque la natura dello scrivere bene o male? Vogliamo, o Fedro, interrogare Lisia su questo punto e ogni altro che abbia scritto o stia per scrivere, vuoi lavori politici, vuoi privati, in versi come un poeta o in prosa [e] come uno scrittore? FEDR. Domandi se vogliamo? E per che si vivrebbe mai, oserei dire, se non per cogliere piaceri come questi? Non certo per quelli che vogliono una sofferenza precedente prima d’esser goduti, come capita press’a poco per tutti i piaceri del corpo, i quali proprio per questo sono stati chiamati giustamente servili. SOCR. E tempo ne abbiamo per rispondere: e mi sembra pure che, come conviene nel pieno dell’afa, le cicale sopra il nostro [259a] capo, cantando e conversando fra loro, non mancano di osservarci. Se poi vedessero noi due far come quelli del volgo sotto il mezzogiorno, non ragionare ma starsene a bocca chiusa e sonnecchianti, ammaliati da loro con le menti in ozio, avrebbero ragione di deriderci e di scambiarci per un paio di schiavi, venuti, come pecore, presso la loro dimora ad appisolarsi il meriggio vicino alla fonte. Ma se ci vedono a conversare e continuare la nostra rotta, [b] insensibili al loro incanto di sirene, forse ammirate ci procurerebbero il dono che gli dei hanno loro concesso di distribuire agli uomini.

XLI. FEDR. E che dono è questo? Non mi risulta d’averne mai sentito parlare. SOCR. Certo non fa onore che un uomo devoto alle Muse non abbia mai udito queste cose! La storia è che una volta le cicale erano uomini - viventi prima della nascita delle Muse - e che quando esse nacquero e comparve il canto, alcuni di questi a tal segno furono storditi dal piacere che, per cantare, scordavano cibo e bevanda [c] e neppure si accorgevano di morire. Da costoro e in seguito a ciò saltò fuori la famiglia delle cicale, alle quali le Muse concessero il favore di non aver affatto bisogno, da che son nate, di alimenti, ma di poter cantare sùbito, senza mangiare e bere, fino alla morte; e dopo, di andare presso le Muse a riferire chi le onori sulla terra e quale di esse ciascuno veneri. A Tersicore dunque le cicale men-[d] zionano gli uomini che l’hanno venerata con le danze, e così li rendono assai cari alla Musa; a Erato, parlano di quelli che la venerano in canti d’amore; e alle altre Muse ugualmente secondo l’arte per cui ciascuna è onorata. Alla più anziana, Calliope, e a Urania che le vien dietro, le cicale menzionano quelli che passano la vita a filosofare e che così onorano l’arte musica propria di quelle; perché queste due, sopra tutte le altre Muse presiedendo alle cose celesti ed occupandosi dei discorsi divini ed umani, sanno il canto più soave. Così abbiamo mille ragioni per discorrere, invece di starcene appisolati nel mezzogiorno. FEDR. Sì, parliamo.

[e] XLII. SOCR. Bene, come abbiamo proposto proprio ora, dobbiamo esaminare la ragione per cui un discorso o uno scritto siano belli o no. FEDR. Certo. SOCR. Forse un discorso ben detto e con successo non deve presupporre nella mente di chi lo dice la conoscenza della verità sull’argomento di cui sta per parlare? FEDR. Su questo punto, caro Socrate, ho sentito dire che chi vuol riuscire oratore non ha alcuno stretto dovere di comprendere ciò [260a] che è veramente giusto, ma soltanto quello che ne pensa la folla che decide, né di conoscere il bene e il bello in sé, ma ciò che lo sembra. Perché è da questa opinione che viene la persuasione, non dalla verità. SOCR. "Non è rigettabile il verbo" che pronunziano i dotti, o Fedro, ma bisogna esaminare se hanno ragione. Ed in particolare non va lasciato passare quello che hai detto ora. FEDR. E’ giusto. SOCR. Ecco, esaminiamolo così. FEDR. Come? SOCR. Supponi che io cercassi di persuaderti ad acquistare un [b] cavallo per combattere contro i nemici e che nessuno di noi conoscesse il cavallo, ma una cosa io conoscessi di te, che Fedro crede che il cavallo sia fra gli animali domestici quello che ha le orecchie più grandi... FEDR. Sarebbe ridicolo, Socrate! SOCR. Aspetta un momento. Supponi ancora che io ci mettessi tutto il mio impegno a convincerti con una ben composta lode dell’asino, chiamandolo cavallo, e dicendo che è una bestia straordinariamente preziosa ad acquistarsi, per la casa e per le campagne militari, e che è utile per farci la guerra e resistente nel portare bagagli, e vantaggiosa [c] in molte altre cose... FEDR. Sarebbe ancora più ridicolo! SOCR. Ma non è forse meglio essere un ridicolo amico che un temibile nemico? FEDR. Penso di sì. SOCR. Quando allora l’oratore, ignorando il bene e il male, cerca di persuadere una città ignara delle stesse cose come lui, non lodando un misero asino come se fosse un cavallo, ma lodando il male come se fosse bene, e quando, dopo aver fatto uno studio delle opinioni delle masse, le persuade a fare il male invece del bene, quale frutto mai credi che l’arte oratoria raccoglierà dal seme che ha gettato? FEDR. [d] Certo un frutto sconveniente.

XLIII. SOCR. O forse, mio caro, abbiamo infierito più duramente del necessario contro l’arte oratoria? Essa ci potrebbe dire: "Cosa mai andate vaneggiando, o meravigliosi? Io non forzo alcuno che sia amante della verità a imparare l’arte del dire, ma al contrario, se il mio consiglio vale qualcosa, costui dovrebbe acquistare prima la verità e poi occuparsi di me. E soltanto questo dichiaro con forza, che cioè senza di me chi conosca il vero non sarà affatto più facilitato a persuadere secondo [e] l’arte". FEDR. E non avrebbe ragione a dire così? SOCR. Sì, se gli argomenti portati contro di lei provassero che essa è un’arte. Ché già mi pare di udire certi argomenti che si presentano e l’accusano di mentire e di non essere un’arte, ma una semplice pratica: "Una vera arte della parola - dice lo Spartano - senza essere connessa alla verità, non esiste, né mai esisterà". FEDR. Vogliamo [261a] sentire questi argomenti, o Socrate? Suvvia, portali qui e senti che cosa dicono e come. SOCR. Presentatevi, nobili rampolli, e persuadete Fedro, padre di bella prole, che se non si mette a filosofare bene, non sarà mai bravo oratore su alcun soggetto. Ecco, ora Fedro risponda! FEDR. Interrogatemi. SOCR. Forse che la retorica, presa nel suo complesso, non è una specie di arte per dirigere le anime attraverso le parole, e non solo nei tribunali e nelle altre riunioni pubbliche, ma anche in conversazioni private? Forse che questa non è la stessa, tanto nelle [b] questioni minime che in quelle grandi e il suo giusto uso non è meno prezioso riguardo le materie più gravi, come quelle più leggiere? O come ne hai sentito parlare tu? FEDR. No, per Giove, non ne ho sentito parlare affatto in questo modo. Ma è soprattutto nei processi, direi, che si parla e si scrive applicando la retorica, o anche nei discorsi all’assemblea. Ma su un àmbito più vasto, non ne ho mai sentito parlare. SOCR. No? Conosci solo i "trattati di retorica" di Nestore e di Ulisse che li composero nelle ore d’ozio a Troia? Non hai mai sentito parlare dell’opera [c] di Palamede? FEDR. Per Giove, no, mai sentito parlare di Nestore! A meno che sotto Nestore non sottintenda un Gorgia, e sotto Ulisse un Trasimaco e un Teodoro.

XLIV. SOCR. Ma lasciamoli stare, e dimmi piuttosto: nei tribunali che cosa fanno le parti in causa? In verità non contendono a parole? o cosa diremo? FEDR. Precisamente come hai detto. SOCR. Contendono su ciò che è giusto e ingiusto? FEDR. Sì. SOCR. Allora chi fa questo con arte farà apparire la stessa cosa allo stesso pubblico ora come cosa [d] giusta e ora come cosa ingiusta, a suo piacimento? FEDR. Perché no? SOCR. E nell’assemblea popolare, ancora, egli farà apparire la stessa cosa alla cittadinanza ora come buona, ora il contrario di buona? FEDR. E’ così. SOCR. Non sappiamo poi che l’eleatico Palamede parlava con un’arte tale da far apparire al suo pubblico la stessa cosa simile e dissimile, una e molteplice, immota e in movimento? FEDR. Certo che lo faceva. SOCR. Allora non solo nei tribunali e nelle assemblee popolari s’applica l’arte del con-[e] traddittorio, ma, a quel che pare, sarebbe un’arte unica (se è vero che esiste) per tutte le forme dei discorsi, la quale mette in grado di far apparire simile, nei limiti della possibilità, tutto a tutto e di scoprire quando altri faccia di queste assimilazioni tentando di farla franca. FEDR. Ma come fai a dire questo? SOCR. Eccoti, diverrà chiaro se seguiamo questa via. L’inganno è forse più facile fra le cose che differiscono molto o poco? FEDR. In quelle [262a] che differiscono poco. SOCR. Se vuoi andare inosservato da un punto a un altro opposto più facilmente passerai a piccoli che a grandi passi. FEDR. E come no! SOCR. Così chi intende ingannare un altro, ma non ingannare se stesso, deve per forza conoscere con esattezza la rassomiglianza e la differenza fra le cose. FEDR. E’ necessario! SOCR. Sarà mai possibile che uno, senza conoscere la verità di una data cosa, riesce a discernere il grado, piccolo o grande, di rassomiglianza fra quella cosa che lui ignora [b] con le altre? FEDR. E’ impossibile. SOCR. Dunque quando si opina contro la realtà e ci si inganna, è chiaro che codesto inganno s’insinua attraverso certe rassomiglianze. FEDR. Avviene senz’altro così. SOCR. E’ allora possibile che uno sia così abile da fuorviare la gente a poco a poco menandola di volta in volta dalla verità al suo contrario per via di rassomiglianze e che egli stesso non cada nel suo tranello, senza che egli sia già ben padrone della verità di ogni cosa? FEDR. No, non può essere mai! SOCR. Ma allora, amico mio, colui che non co-[c] nosce la verità e che è solo un cacciatore di opinioni, ci ammannirà, come tutto fa credere, una specie di arte ben ridicola e proprio priva di arte! FEDR. Può darsi di sì.

XLV. SOCR. Vuoi allora indagare nel discorso di Lisia che ti porti teco e nei discorsi che sono seguiti se c’è qualche esempio di ciò che abbiamo definito presenza o assenza dell’arte? FEDR. Questo ci vuole perché ora discorriamo in astratto non avendo a mano esempi adatti. SOCR. Così è stato forse un colpo di fortuna aver fatto due discorsi che si prestano a una specie [d] di esempio di come si possa, conoscendo il vero, giocare con le parole e fuorviare gli uditori. Ed io, Fedro, ne attribuisco la causa alle divinità di questo sito; ma forse anche le profetesse delle Muse che ora cantano sulle nostre teste, ispirandoci, ci hanno fatto questo dono, perché di certo io non sono dotato dell’arte della parola. FEDR. Sia come vuoi, soltanto spiega quel che hai detto. SOCR. Va bene, suvvia, leggi il discorso di Lisia, al principio. [e] FEDR. "Sei al corrente della mia situazione e già t’ho detto che considero un vantaggio per noi se la cosa si farà. Né ritengo giusto che mi si rifiuti ciò che chiedo, semplicemente perché si dà il caso che non sono innamorato di te. Giacché gli innamorati...". SOCR. Basta. Nostro compito è indicare dove l’autore sbaglia e procede senza arte. Non [263a] è così? FEDR. Sì.

XLVI. SOCR. Orbene, non è ovvio per tutti il fatto che su alcune questioni di questo genere siamo tutti d’accordo, mentre su altre discordiamo? FEDR. Credo di capire quello che dici, ma spiegamelo ancora più chiaramente. SOCR. Se si dice il termine ‘ferro’ o ‘argento’, non pensano tutti allo stesso oggetto? FEDR. Per forza! SOCR. E se si dice ‘giusto’ o ‘buono’? Forse che ciascuno non se ne andrà per conto suo e non dissentiremo dagli altri e anche da noi stessi? FEDR. E’ così. [b] SOCR. Dunque in alcuni casi siamo d’accordo, in altri no. FEDR. Certo. SOCR. Ora, in quale caso ci troviamo in condizioni migliori per essere fuorviati e in quali la retorica ha più efficacia? FEDR. E’ chiaro. Nei casi in cui vaghiamo nell’incertezza. SOCR. Dunque chi intende studiare l’arte della retorica, per prima cosa deve classificare metodicamente queste cose e ricordare certi caratteri di ciascuna delle due specie, di quella cioè nel cui uso la moltitudine è necessariamente incerta e di quella in cui non lo è. [c] FEDR. Certo, Socrate, sarebbe una bella forma di classificazione, afferrare tutto questo. SOCR. E in secondo luogo, credo, per ogni singola cosa bisogna che costui non si lasci sfuggire ciò che è, ma apprenda acutamente a quale delle due specie appartenga la cosa di cui intende parlare. FEDR. Perché? SOCR. Perché? Includeremo l’amore fra i valori controversi o fra quelli dell’altra specie? FEDR. Certo, fra quelli controversi. Altrimenti come credi che sarebbe stato possibile per te dirne le cose che hai detto prima, che egli è un danno per l’amato e l’amante, poi, il contrario, che è loro il sommo dei beni? SOCR. Benissimo. [d] Ma dimmi ancora (perché invasato com’ero non ricordo molto) se iniziando il discorso ho definito amore. FEDR. Sì, per Giove, in modo insuperabile. SOCR. Oh! Così vieni a dire di quanto le ninfe di Acheloo e Pan figlio di Ermete siano superiori, come artisti, all’oratoria di Lisia di Cefalo! Ma sbaglio, o anche Lisia, al principio del suo discorso sull’amore ci ha forzati a concepirlo come quella [e] particolare entità che voleva lui? E di seguito se n’è andato fino in fondo, conformando su quello tutto il resto? Vuoi che ne rileggiamo il principio? FEDR. Se vuoi! Ma ciò che cerchi non è qui. SOCR. Leggi perché io ascolti le sue stesse parole.

XLVII. FEDR. "Sei al corrente della mia situazione e già ti ho detto che considero un vantaggio per noi se la cosa si farà. Né ritengo giusto che mi si rifiuti ciò che [264a] chiedo, semplicemente perché si dà il caso che non sia innamorato di te. Giacché gli innamorati, appena la loro passione verrà meno si dorranno del bene che t’hanno fatto...". SOCR. Pare che lui sia ben lontano dal fare quello che stiamo cercando! Egli non comincia il discorso dal principio, ma dalla fine, e cerca di rimontare la corrente nuotando indietro di dorso, iniziando con le parole che l’amante direbbe al suo amore soltanto al momento d’abbandonarlo. O sbaglio, mio caro Fedro? FEDR. E’ proprio [b] vero, o Socrate! E’ dalla fine ch’egli comincia il suo ragionamento. SOCR. E il resto poi? Non dà l’impressione che le varie parti del discorso siano gettate alla rinfusa? O pensi che ci sia qualche ragione stringente per cui il pensiero espresso come secondo debba occupare quel posto, o piuttosto vi potrebbe stare un altro pensiero qualunque? A me, nella mia ignoranza, m’è parso che l’autore abbia espresso con faccia franca tutto quello che gli veniva in testa; o conosci tu qualche regola fissa di retorica per cui egli abbia posto giù le sue osservazioni in fila, una di fianco all’altra? FEDR. Sei molto bravo tu! Mi credi [c] capace di comprendere le sue intenzioni con tanta precisione? SOCR. Ma questo punto almeno, credo, lo ammetterai, che cioè ogni discorso deve essere costruito come una creatura vivente; deve avere un suo proprio corpo cosicché non manchi né di testa, né di piedi, ma abbia le sue parti di mezzo e i suoi estremi, composti così da essere in armonia fra loro e con l’intiero. FEDR. E come no? SOCR. Osserva adesso il discorso del tuo amico e vedi se è così o no. Troverai che non differisce per nulla dall’epigramma che si dice scritto per Mida di Frigia. FEDR. [d] Qual è e che cosa ha di strano? SOCR. Eccolo:

Sono una vergine bronzea e sto sul sepolcro di Mida

Finché l’acqua scorra e gli alberi crescano alti

Stando su questa sua molto lacrimata tomba,

Annuncerò ai passanti che qui è sepolto Mida.

[e] Capisci da te, suppongo, che non c’è alcuna differenza se si comincia dal primo o dall’ultimo verso. FEDR. Tu ti fai gioco del nostro discorso, Socrate!

XLVIII. SOCR. Bene, per evitare di addolorarti, lasciamolo in pace; benché mi paia offra molti esempi che sarebbe vantaggioso osservare guardandoci bene dall’imitarli. Passiamo agli altri discorsi perché a quanto penso c’era qualcosa in essi che ciascuno curioso di analizzare i discorsi farebbe bene ad osservare. FEDR. A cosa ti [265a] riferisci? SOCR. Essi erano in certo modo contrari, perché uno sosteneva che è bello concedersi all’innamorato, l’altro invece a chi non è. FEDR. E con gran forza. SOCR. Pensavo che avresti detto la parola giusta, ‘con delirio’. Ed è proprio questo che io stavo chiedendo. Perché noi abbiamo affermato che l’amore è un tipo di delirio, non è vero? FEDR. Sì. SOCR. E che vi sono due generi di delirio, uno prodotto dall’umana debolezza, l’altro da un divino straniarsi dalle normali regole di condotta. FEDR. Certo. SOCR. Del delirio di-[b] vino noi abbiamo distinto quattro tipi attribuendoli a quattro dèi, l’ispirazione profetica ad Apollo, quella mistica a Dioniso, quella poetica alle Muse e un quarto tipo che abbiamo definito il più alto, delirio d’amore, ad Afrodite ed Eros. E, non so come, fingendoci una immagine dell’emozione amorosa, abbiamo forse raggiunto qualche parte di verità, ma, forse per altre parti siamo andati fuori strada, e componendo un discorso non senza efficacia per-[c] suasiva, abbiamo rivolto un certo inno mitico, misurato e riverente, al mio e al tuo signore, Amore, protettore dei bei giovani, o Fedro. FEDR. Non mi è affatto spiaciuto ascoltarlo.

XLIX. SOCR. Prendiamo proprio questo punto, come cioè il discorso abbia potuto passare dal biasimo alla lode FEDR. Come lo spieghi? SOCR. Ecco: per la maggior parte il nostro discorso ha giocato in verità festosamente; ma fra le altre cose che abbiamo detto casualmente non sarebbe [d] affatto privo di ricompensa cogliere scientificamente il significato di due procedimenti. FEDR. Che procedimenti? SOCR. Uno: abbracciare in uno sguardo d’insieme e ricondurre ad un’unica forma ciò che è molteplice e disseminato affinché definendo ciascun aspetto si attinga chiarezza intorno a ciò di cui s’intenda ogni volta insegnare. Come anche adesso nel caso di Amore, siccome l’abbiamo definito, bene o male che lo si sia fatto, il nostro discorso ha potuto raggiungere chiarezza e coerenza con se stesso. FEDR. E qual è l’altro procedimento che dici, o Socrate? [e] SOCR. Consiste nella capacità di smembrare l’oggetto in specie, seguendo le nervature naturali, guardandosi dal lacerarne alcuna parte come potrebbe fare un cattivo macellaio. Ma, per fare un esempio dei due discorsi di poco fa, essi riducevano tutti gli elementi che compongono l’irrazionale del pensiero in un’unica forma, analogamente a [266a] quanto avviene in un corpo che, pur essendo unico, si dirama naturalmente in membra doppie e omonime - e sono designate come arti di destra e di sinistra -; così anche gli elementi dell’insania sono stati considerati nei due discorsi come un’unica forma naturale in noi. Il primo discorso, tagliata via la parte sinistra, e sezionando ancora, non cessò finché non scoprì in tutte quelle sezionature un certo amore definito sinistro, e non lo coprí di vituperi del tutto legittimamente. Ma l’altro menandoci alle forme di delirio che stanno alla destra, ci scoprì un certo amore, omonimo del primo, ma divino, e, messocelo in evidenza, lo ha preso a lodare come autore di beni [b] grandissimi per noi. FEDR. E’ verissimo!

L. SOCR. Credimi, Fedro, io sono innamorato di queste cose, delle suddivisioni e delle riunificazioni, per essere in grado di parlare e di pensare. E se ritengo che qualcun altro sia capace per sua natura di abbracciare l’unità che è naturalmente nel molteplice, lo seguo, "tenendo dietro alla sua traccia, come quella di un dio". E ancora quelli capaci di far ciò - dio sa se dico bene o male - li chiamo [c] finora ‘dialettici’. Ma ora dimmi, come dovremmo chiamare quelli che seguono l’insegnamento tuo e di Lisia? Non si tratta forse di quell’arte per la quale Trasimaco e altri sono divenuti provetti oratori, e tali rendono altri, purché portino loro dei doni, come a dei re? FEDR. Personaggi regali, certo, ma non hanno proprio alcuna idea delle questioni che tu presenti. Ma questo procedimento mi sembra tu lo chiami con il suo termine giusto, definendolo dialettico. Tuttavia il procedimento retorico, mi pare, ci sfugge ancora. SOCR. Come dici? Ci potrebbe essere qualcosa [d] di veramente bello, che possa essere conosciuto scientificamente senza quel procedimento. Non lo si deve quindi assolutamente sottovalutare, né io, né tu, ma dobbiamo dire quel po’ che resta dell’arte retorica. FEDR. Oh, è tanto, o Socrate: tutto quanto è scritto nei manuali di retorica.

LI. SOCR. Hai fatto bene a ricordarmelo. Primo, io credo, viene il proemio, che deve essere pronunciato all’inizio del discorso. Sono queste (non è vero?) le squi-[e] sitezze della retorica. FEDR. Sì. SOCR. In secondo luogo ecco l’"esposizione" accompagnata dalle testimonianze, in terzo luogo le "prove", e in quarto le "probabilità"! E credo che quell’ottimo Dedalo dei discorsi che è il Bizantino v’aggiunga la "prova" e la "controprova". FEDR. Alludi al grande Teodoro? SOCR. [267a] Perché no? E per lui, nell’accusa e nella difesa bisogna procedere nella "confutazione" e nella "controconfutazione". E non vogliamo tirare in ballo anche il magnifico Eveno di Paro? Il quale per primo scopri l’"allusione" e l’"elogio indiretto", e che, a quanto dicono alcuni, ha messo in versi perfino il "rimprovero indiretto" per comodità mnemonica. Un grande maestro lui! Ma non ci permetteremo di disturbare Tisia e Gorgia? I quali videro che la verosimiglianza è molto più pregiata della verità, e che, con la forza delle parole, fanno apparire piccole le [b] cose grandi e grandi le cose piccole, nuove le cose vecchie e viceversa, e scoprirono il modo di parlare conciso o con interminabile lunghezza su ogni questione? Udendomi dire queste cose, una volta Prodico sbottò a ridere e disse che lui solo aveva scoperto l’arte di fare i discorsi come si deve: bisogna che non siano né lunghi né corti, ma di misura giusta! FEDR. Che oracolo di sapienza, quel Prodico! SOCR. Ed Ippia dove lo mettiamo? Perché credo che anche il nostro ospite eleo gli darebbe sùbito il voto. FEDR. Perché no? SOCR. E come parleremo delle muse stilistiche di Polo, cioè del "raddoppiamento" [c] dello "stile sentenzioso" e di quello "immaginoso"? E del Vocabolario di Licinnio, dono di questo maestro a Polo quando compose il bello stile? FEDR. Ma, Socrate, non c’è però anche presso Protagora qualcosa del genere? SOCR. Sì, una Proprietà della lingua, amico mio, e una quantità d’altre belle cose... Ma in quanto a discorsi pieni di pianto, tiràti sulla vecchiaia o sulla miseria, mi sembra che eccella per arte quel gigante di Calcedonio, uomo che, come egli dice, è un mago capace di mandare in furore [d] la folla e di rabbonirla d’incanto, formidabile a fomentare in qualunque modo calunnie e a dissiparle... Ma, per riprendere il filo, la conclusione dei discorsi pare che la trattino tutti d’accordo, e alcuni la chiamano "ricapitolazione", altri con un altro nome. FEDR. Intendi l’uso di richiamare per sommi capi agli uditori, verso la fine, ogni punto toccato nel discorso? SOCR. Sì. Ma se tu hai dell’altro da dire sull’arte retorica... FEDR. Solo picco-[268a] lezze e senza importanza. SOCR. Lasciamo allora le piccolezze. Vediamo piuttosto le cose in piena luce per stabilire quale efficacia dell’arte esse posseggano e quando operi. FEDR. Potentissima, o Socrate, almeno nelle riunioni popolari. SOCR. E’ così. Ma, divino amico, guarda anche tu se non ti sembra, come a me, che il tessuto sia poco unito. FEDR. Non hai che da mostrarmelo.

LII. SOCR. Ebbene, dimmi. Se qualcuno si presentasse dal tuo amico Eurissimaco o da suo padre Acumeno e gli dicesse: "Io so applicare certi trattamenti al corpo in modo da scal-[b]darlo, se voglio, o da raffreddarlo, o se mi pare emetici o purganti, e tutte le altre cose del genere. Poiché so queste cose pretendo di essere un medico e di poter rendere medico un altro cui io confidi la mia conoscenza di questi trattamenti". Udendolo cosa credi che risponderebbero? FEDR. Non gli chiederebbero altro che se sa anche a quali tipi di pazienti debba somministrarli e quando debba applicare ciascuno di questi e in che misura. SOCR. Se quello rispondesse: "Assolutamente no. Ma ritengo che chi im-[c] parerà da me queste cose sarà in grado di fare ciò che chiedi". FEDR. Diremmo quasi certamente che gli ha dato di volta il cervello e che per aver casualmente ascoltato qualcosa dio sa da qual libro o per aver bazzicato con dei palliativi s’illude d’esser diventato medico mentre di medicina non ne capisce nulla. SOCR. Ascolta ancora. Se uno presentandosi a Sofocle o a Euripide sostenesse di saper comporre delle tirate lunghissime su un minuscolo argomento e concisissime su uno enorme, o, se vuole, tali da strappare le lacrime o al contrario da mettere il terrore, e piene di minacce e d’altre cose di questo genere, e se crede poi che insegnando queste cose potrebbe insegnare a far [d] tragedie, cosa direbbero quelli? FEDR. Quelli, o Socrate, quasi certamente sbotterebbero a ridere davanti a uno che pensa che la tragedia sia qualcosa di diverso da una composizione di questi pezzi attraverso organizzazione armonica fra di essi e con il tutto. SOCR. Però non gli scaricherebbero addosso contumelie villane, ma come un maestro di musica che s’imbattesse in un uomo che si crede armonista, unicamente perché gli è capitato di sapere come si fa a cavare fuori dalla corda la nota più acuta e [e] quella più grave, non gli direbbe villanamente: "disgraziato che sei, scervellato!... ma bonariamente, come si conviene a un maestro d’armonia: "Ottimo amico - gli direbbe - sì, sono necessarie anche queste conoscenze se vuoi diventare maestro d’armonica; ma è perfettamente possibile che uno abbia codesta tua capacità, senza aver la minima idea dell’armonia. Tu conosci solo le regole preliminari dell’armonia, ma non l’armonia". FEDR. Verissimo. SOCR. Pertanto anche Sofocle direbbe quando [269a] quello venisse a far mostra innanzi a loro: "Tu conosci i preliminari della tragedia, ma non l’arte dello scrivere tragedie", e Acumeno: "Tu conosci i preliminari della medicina, non la medicina ". FEDR. Senza dubbio.

LIII. SOCR. E possiamo mai immaginare cosa direbbero "L’Adrasto dalla voce di miele" oppure Pericle a sentire le bellissime artificiosità delle quali s’è discusso adesso, lo "stile conciso" e quello "immaginoso" e quanto altro abbiamo visto e detto di voler esaminare a piena luce? Forse, [b] sdegnati come me e te, uscirebbero villanamente in qualche frase scorretta verso coloro che negli scritti e nell’insegnamento contrabbandano questa roba come arte retorica? O forse, più saggi di noi, ci rimprovererebbero dicendo: "O Fedro, o Socrate, non val la pena prendersela così di petto, ma piuttosto bisogna essere indulgenti se taluni, per il fatto d’ignorare la dialettica, sono poi incapaci di definire la retorica, e se, in conseguenza di ciò, per il fatto di possedere le premesse necessarie a quest’ arte, s’immaginano di aver inventato la retorica e insegnandola ad altri [c] s’immaginano d’aver compiutamente istruito nella retorica, mentre ritengono che usare ciascuno di questi artifici in modo persuasivo e comporre insieme l’intiero - una bagattella da nulla - questo lo debbono trovare i discepoli da se stessi quando si trovino a parlare". FEDR. Eh! sì, Socrate, è probabile che proprio in qualcosa di questo genere consista l’arte che costoro insegnano e su. cui scrivono: e in quanto a me mi sento che hai scovato fuori la verità. Ma allora in che modo e da chi si potrebbe acquistare l’arte [d] della vera eloquenza e persuasione? SOCR. La capacità, o Fedro, di divenire un perfetto competitore probabilmente, o forse necessariamente, è la stessa che per le altre cose: se è nella tua natura di essere eloquente diventerai un famoso oratore, solo che tu vi aggiunga la scienza e lo studio. Ma se tu manchi in una di queste cose, sarai in quella un oratore imperfetto. Quanto all’arte di questo tirocinio, non mi pare che la via per arrivarci sia quella seguita da Lisia e da Trasimaco. FEDR. Ma allora qual è? SOCR. [e] Sono spinto a pensare, mio carissimo amico, che forse Pericle sia stato fra tutti il più perfetto nell’arte oratoria. FEDR. Perché?

LIV. SOCR. Tutte quante le arti di una certa impor-[270a] tanza hanno bisogno di un po’ di chiacchiere oziose e discussioni campate in aria sulla natura, perché da queste pare che procedano l’elevatezza della mente e l’esecuzione rifìnita di ciò che si pensa. Anche ciò oltre a una natura ben dotata possedeva Pericle, perché, a quanto ne so, gli capitò d’imbattersi in un uomo di tal natura come Anassagora e riempitosi di quelle aeree speculazioni, e approdato alla natura dell’intelligenza e della stoltezza, - questioni a cui Anassagora s’applicò profondamente - egli trasse di qui quanto era fecondo per l’arte retorica. FEDR. Che intendi dire? SOCR. Lo stesso modo tengono [b] su per giù la medicina e la retorica. FEDR. Cioè? SOCR. In entrambe le arti dobbiamo determinarne la natura; del corpo nell’una, dell’anima nell’altra se si vuole somministrare scientificamente, e non per pratica empirica, le medicine e la dieta al corpo, onde apportare sanità e forza, o ragionamenti e norme di condotta all’anima, onde infondere la persuasione o la virtù come si desidera. FEDR. Hai probabilmente ragione, o Socrate. SOCR. Ma [c] credi sia possibile conoscere la natura dell’anima in maniera degna di parlarne, se si prescinde dalla natura del tutto? FEDR. Se Ippocrate fa testo - e lui è un Asclepiade - non si può neppure capire il corpo senza un simile procedimento. SOCR. Ed ha ragione, amico mio. Ma oltre a sentire Ippocrate dobbiamo interrogare il discorso e vedere se è d’accordo. FEDR. Lo dico anch’io!

LV. SOCR. Esamina dunque ciò che dicono Ippocrate e il discorso veritiero sulle questioni della natura. Non è nel mo-[d] do che segue che si deve ragionare sulla natura di ogni cosa? Per prima cosa bisogna determinare se l’oggetto di cui vogliamo divenire esperti e capaci di rendere tali gli altri è semplice o composto. In secondo luogo, se esso è semplice, bisogna indagare quale potenza abbia di natura ad agire e su che, o quale capacità abbia ad essere influenzato e da che; se invece è composto, dopo aver enumerato le sue parti, bisogna considerare ciascuna parte come nel caso che fosse semplice e vedere per ciascuna con quale parte abbia naturale capacità di agire e su che o con quale parte abbia naturale capacità di essere influenzata in che e da che. FEDR. Forse è proprio così, o Socrate. SOCR. Certo, in ogni caso, senza far così il metodo avrebbe tutta l’apparenza del progredire di un cieco. Ma non dobbiamo trarre l’immagine [e] di un ricercatore di qualsivoglia disciplina da un cieco o da uno zoppo! No; è evidente che se si vuole indirizzare la gente con metodo si deve accuratamente svelare l’essenza vera dell’oggetto sul quale si aggira il ragionamento; e [271a] l’oggetto sarà, ritengo, l’anima. FEDR. Certamente. SOCR. Di qui, tutto lo sforzo è concentrato sull’anima, perché è in essa che egli cerca d’ingenerare la persuasione. Non è così? FEDR. Sì. SOCR. Va da sé dunque che Trasimaco e chiunque altro voglia insegnare seriamente l’arte retorica, dovrà innanzitutto descrivere in tutta precisione l’anima, e farci vedere se di natura essa è una ed uniforme, o se, analogamente al corpo, è poliforme, perché questo significa, per noi, mostrare la natura di una cosa. FEDR. E’ indubbiamente così. SOCR. In secondo luogo dovrà mostrare con che e su che cosa ha capacità naturale di agire o da che cosa ha capacità di essere influenzata. FEDR. Certo. [b] SOCR. Finalmente, in terzo luogo, dovrà classificare i tipi dei discorsi e i tipi dell’anima e i vari modi in cui le anime sono influenzate, e ne esaminerà tutte le ragioni, suggerendo il tipo di discorso appropriato ad ogni tipo di anima e dimostrando per quale ragione tal anima è necessariamente persuasa da tali argomenti mentre tal altra rimane incredula. FEDR. Sarebbe un bellissimo metodo, penso. SOCR. Si, mio caro, in realtà quanto viene inse-[c] gnato o detto su questo o su altro argomento con metodo diverso non sarà mai scritto o esposto a regola d’arte. Ma gli autori di retorica d’oggigiorno, che tu hai sentito parlare, sono degli scaltri che conoscono tutto della natura dell’anima, ma tengono nascosta questa conoscenza. Finché dunque non parleranno e scriveranno in questo modo, non lasciamoci persuadere che essi scrivano a regola d’arte. FEDR. E qual è il modo? SOCR. Dire le frasi stesse non è facile; ma sono pronto a dire come si dovrebbe scrivere per farlo il più possibile a regola d’arte. FEDR. Dillo.

LVI. SOCR. Poiché la funzione del discorso è in certo modo [d] quella di guidare l’anima, chi intenda diventare oratore bisogna che conosca quante specie di anime ci sono. Ora, esse sono tante e tante e di tale natura diversa che gli uomini sono chi di un carattere chi di un altro. E in più, a questi tipi così catalogati, corrispondono tanti e tanti tipi di discorsi, ciascuno diverso. Di qui un certo tipo di uditori rimarrà facilmente persuaso da un certo tipo di discorso a fare certe cose e per certe ragioni, mentre un altro tipo rimarrà indifferente. Bisogna quindi che l’oratore non solo capisca con precisione queste cose, ma anche che le tenga presenti reali ed attive come sono nella pratica e che possa seguirle [e] con acuta sensibilità, oppure è forza maggiore che egli non sappia nulla più di quelle cognizioni che imparò un giorno andando a scuola. E quando sia in grado di dire quale tipo di uomo sia suscettibile a quale tipo di discorsi, quando egli possa avendolo davanti agli occhi intuirlo e [272a] dire a se stesso: "Questo è l’uomo e questa è quella natura di cui un tempo udivo ragionare a scuola: ora mi è presente in realtà e devo rivolgergli questi ragionamenti in questo modo per persuaderlo di ciò" - quando sappia già tutto questo e comprenda inoltre la opportunità del parlare e del tacere e discerna il momento giusto o sfavorevole per usare lo "stile conciso" o "patetico" o quello "esacerbato" e quant’altri modi di discorsi abbia appreso, allora, ma non prima di allora, egli è giunto alla completa perfezione dell’arte. Ma se nell’oratoria, nell’insegnamento o nello scrivere mancasse di uno di questi requisiti, so-[b] stenga pure di usare l’arte retorica, ma in realtà ha ragione chi non gli presta orecchio. "Orbene, che ne pensate, o Fedro e Socrate?, potrebbe dire il nostro autore. Siete d’accordo o dobbiamo cercare un’altra, teoria dell’arte del dire?". FEDR. Non è possibile, o Socrate, cercarne un’altra; e in più non mi pare una bagattella da nulla. SOCR. Hai ragione! Perciò bisogna mettere sottosopra tutte le nostre argomentazioni e scrutare bene se c’è qualche via più facile e più breve per raggiungere l’arte, per non cor-[c] rere il rischio di sviarci inutilmente in un tratto lungo e difficile, mentre si potrebbe prendere una strada breve e agevole. Ma se tu puoi aiutarci in qualche modo per aver udito Lisia o altri, cerca di ricordartene e parla. FEDR. Provandomici, potrei anche, ma così alla sprovvista non so suggerire nulla. SOCR. Vuoi allora che esponga io qualche argomento che ho udito dire da certuni su tale questione? FEDR. Perché no? SOCR. In ogni caso, o Fedro, si dice pure che è giusto esporre anche le ragioni [d] del lupo. FEDR. E tu dille.

LVII. SOCR. Dicono dunque che non c’è affatto bisogno di gonfiare tanto la questione, e di menarla così a torno per farla cascare dai sette cieli. Perché per chi vuol riuscire un discreto oratore, così dicono, non è affatto necessario, come si notava noi all’inizio di questa discussione, che costui conosca la verità su il giusto e il bene o su gli uomini giusti e buoni, siano tali per natura o per educazione; perché nei tribunali, essi dicono, nessuno si piglia la minima cura della verità di simili questioni, ma soltanto della loro persuasività. La quale consiste nella verosimiglianza ed è di questo che si deve [e] preoccupare chi vuol parlare a regola d’arte. Anzi talvolta non bisogna neppur raccontare i fatti accaduti se non si sono svolti in modo verosimile, ma solo quelli plausibili, sia nell’accusa che nella difesa; e insomma un oratore non ha altro che da star dietro alle cose verosimili e alla verità [273a] mandarci tanti saluti. Perché tutta l’intiera arte si riduce a star dietro al verosimile per tutto quanto il discorso. FEDR. La tua esposizione, o Socrate, riproduce alla lettera quel che dicono quelli che pretendono d’essere artisti dei discorsi. Già mi ricordo che all’inizio abbiamo toccato brevemente qualcosa del genere; e mi pare che essi facciano gran caso a questo punto. SOCR. Bene, prendi Tisia; tu te lo sei digerito a fondo; ebbene, ci dica Tisia anche questo: intende lui per verosimile qualcosa di diverso che l’opinione [b] del pubblico? FEDR. Nulla di diverso! SOCR. A quanto pare in séguito alla sua scoperta d’arte e di scienza, egli scrisse che se un uomo debole ma coraggioso avendole suonate ad uno forte, ma vigliacco, e, avendogli portato via il mantello o altro, finisse in tribunale, nessuno dei due deve dire le cose come veramente stanno. Ma il vile dovrà dire che il coraggioso non era solo a picchiarlo, e l’altro lo confuterà dicendo che erano soli e si servirà [c] soprattutto di questo argomento: "Come avrei potuto io, piccolo come sono, metter le mani addosso a costui grande com’è?". Ma il forte non confesserà la propria viltà bensì inventerà qualche altra menzogna fresca che permetterà al rivale una nuova confutazione. E simili regole d’arte sono date per altri casi del genere. Non è così, Fedro? FEDR. Certo. SOCR. Ahimé! Pare che abbia brillantemente scoperto un’arte ben segreta il nostro Tisia, o chi altro sia stato realmente, o comunque gli piaccia chiamarsi. Ma, amico mio, gli diremo noi o non gli diremo... [d] FEDR. Che cosa?

LVIII. SOCR. Questo: "O Tisia, già da un pezzo, ancora prima che tu apparissi in scena noi stavamo dicendo che il plausibile risulta per la moltitudine dalla simiglianza con il vero; e noi abbiamo dimostrato proprio ora che queste simiglianze le può scoprire in quei casi, nel modo migliore, colui che conosce la verità. Cosicché, se hai qualcos’altro da dire nell’arte di tenere discorsi, ti ascolteremo, se no staremo convinti degli argomenti che proprio ora abbiamo esaminato, cioè che se non si enumererà la natura dei vari uditori, e se non si è in grado di [e] classificare per specie le cose reali e di ridurle, una per una, ad una sola forma, non si riuscirà mai artisti del parlare almeno per quanto è possibile all’uomo di divenirlo. Ma queste capacità non si conquisteranno mai senza grande applicazione; e chi ha senno vi ci spiegherà tutte le sue forze, ma non per parlare ed agire nella società, bensì per poter dire cose gradite agli dèi, e per agire in tutto più che può, nel modo che è loro di maggior gradimento. Perché tu vedi, o Tisia, come dicono coloro che sono più sapienti di noi, chi ha intelletto non deve preoccuparsi di [274a] piacere ai suoi compagni di servitù, tranne che in via secondaria, ma ai suoi eccellenti padroni che discendono da esseri eccellenti. Cosicché, non meravigliarti se il giro è lungo: perché per i grandi fini il lungo giro è necessario, non come credi tu. E certo, se qualcuno vorrà, come assicura il nostro argomento, anche queste cose diventeranno bellissime a cagione di quelle. FEDR. Mi sembra che tu abbia parlato stupendamente, o Socrate, se soltanto si è in grado di arrivarci. SOCR. Ma per chi s’impegna in cose belle [b] è bello anche subire ciò che gli capiti di subire. FEDR. Certamente. SOCR. Dunque questo basti per quanto riguarda l’arte e la non arte dei discorsi. FEDR. Va bene. SOCR. Ma ci rimane la questione dell’opportunità e inopportunità dello scrivere, cioè da dire le condizioni che lo rendono opportuno e inopportuno. No? FEDR. Sì.

LIX. SOCR. Ora sai tu come si possa meglio piacere al dio, in materia di discorsi, in pratica e in teoria? FEDR. No. E tu? SOCR. Sì, posso dirti un racconto degli an-[c] tichi. Essi conoscono la verità; se potessimo scoprirla da noi, forse che ci preoccuperemmo ancora delle opinioni degli uomini? FEDR. Che domanda ridicola! Ma raccontami questa storia. SOCR. Ho sentito narrare che a Naucrati d’Egitto dimorava uno dei vecchi dèi del paese, il dio a cui è sacro l’uccello chiamato ibis, e di nome detto Theuth. Egli fu l’inventore dei numeri, [d] del calcolo, della geometria e dell’astronomia, per non parlare del gioco del tavoliere e dei dadi e finalmente delle lettere dell’alfabeto. Re dell’intiero paese era a quel tempo Thamus, che abitava nella grande città dell’Alto Egitto che i Greci chiamano Tebe egiziana e il cui dio è Ammone. Theuth venne presso il re, gli rivelò le sue arti dicendo che esse dovevano esser diffuse presso tutti gli Egiziani. Il re di ciascuna gli chiedeva quale utilità comportasse, e poiché Theuth spiegava, egli disapprovava ciò che gli sembrava [e] negativo, lodava ciò che gli pareva dicesse bene. Su ciascuna arte, dice la storia, Thamus aveva molti argomenti da dire a Theuth sia contro che a favore, ma sarebbe troppo lungo esporli. Quando giunsero all’alfabeto: "Questa scienza, o re - disse Theuth - renderà gli Egiziani più sapienti e arricchirà la loro memoria perché questa scoperta è una medicina per la sapienza e la memoria". E il re rispose: "O ingegnosissimo Theuth, una cosa è la potenza creatrice di arti nuove, altra cosa è giudicare qual grado di danno e di utilità esse posseggano per coloro che le useranno. E così ora tu, per benevolenza verso l’alfabeto di cui sei [275a] inventore, hai esposto il contrario del suo vero effetto. Perché esso ingenererà oblio nelle anime di chi lo imparerà: essi cesseranno di esercitarsi la memoria perché fidandosi dello scritto richiameranno le cose alla mente non più dall’interno di se stessi, ma dal di fuori, attraverso segni estranei: ciò che tu hai trovato non è una ricetta per la memoria ma per richiamare alla mente. Né tu offri vera sapienza ai tuoi scolari, ma ne dai solo l’apparenza perché essi, grazie a te, potendo avere notizie di molte cose senza insegnamento, si crederanno d’essere dottissimi, mentre per la maggior parte non sapranno nulla; con loro sarà [b] una sofferenza discorrere, imbottiti di opinioni invece che sapienti". FEDR. O Socrate, ti è facile inventare racconti egiziani e di qualunque altro paese ti piaccia! SOCR. Oh! ma i preti del tempio di Zeus a Dodona, mio caro, dicevano che le prime rivelazioni profetiche erano uscite da una quercia. Alla gente di quei giorni, che non era sapiente come voi giovani, bastava nella loro ingenuità udire ciò che diceva "la quercia e la pietra", purché [c] dicesse il vero. Per te invece fa differenza chi è che parla e da qual paese viene: tu non ti accontenti di esaminare semplicemente se ciò che dice è vero o falso. FEDR. Fai bene a darmi addosso; anch’io son del parere che riguardo l’alfabeto le cose stiano come dice il Tebano.

LX. SOCR. Dunque chi crede di poter tramandare un’arte affidandola all’alfabeto e chi a sua volta l’accoglie supponendo che dallo scritto si possa trarre qualcosa di preciso e di permanente, deve essere pieno d’una grande ingenuità, e deve ignorare assolutamente la profezia di Ammone se s’immagina che le parole scritte siano qualcosa di più [d] del rinfrescare la memoria a chi sa le cose di cui tratta lo scritto. FEDR. E’ giustissimo. SOCR. Perché vedi, o Fedro, la scrittura è in una strana condizione, simile veramente a quella della pittura. I prodotti cioè della pittura ci stanno davanti come se vivessero; ma se li interroghi, tengono un maestoso silenzio. Nello stesso modo si comportano le parole scritte: crederesti che potessero parlare quasi che avessero in mente qualcosa; ma se tu, volendo imparare, chiedi loro qualcosa di ciò che dicono esse ti manifestano una cosa sola e sempre la stessa. E una volta che sia messo in iscritto, ogni discorso arriva alle mani di tutti, tanto di chi l’intende tanto di chi non ci ha nulla [e] a che fare; né sa a chi gli convenga parlare e a chi no. Prevaricato ed offeso oltre ragione esso ha sempre bisogno che il padre gli venga in aiuto, perché esso da solo non può difendersi né aiutarsi. FEDR. Ancora hai perfet-[276a] tamente ragione. SOCR. E che? Vogliamo noi considerare un’altra specie di discorso, fratello di questo scritto, ma legittimo, e vedere in che modo nasce e di quanto è migliore e più efficace dell’altro? FEDR. Che discorso intendi e qual è la sua origine? SOCR. Il discorso che è scritto con la scienza nell’anima di chi impara: questo può difendere se stesso, e sa a chi gli convenga parlare e a chi tacere. FEDR. Intendi tu il discorso di chi sa, vivente e animato e del quale quello che è scritto potrebbe dirsi giustamente un’immagine?

[b] LXI. SOCR. Sì, proprio questo. Ed ora dimmi. - Forse il contadino giudizioso che avesse alcuni semi che gli stanno a cuore e da cui volesse dei frutti, li seminerebbe con tutta serietà in estate, nei "giardini d’Adone" e rigongolerebbe attendendosi i bei frutti in otto giorni? O piuttosto non lo farà per gioco e per solennizzare la festa, ammesso pure che lo faccia? Mentre per i semi per i quali ha davvero serie intenzioni li seminerà nel terreno adatto servendosi della tecnica agricola, e si rallegrerà se quanti ne ha seminati verranno a maturazione in otto mesi? FEDR. Ma certo così, o Socrate; e nel se-[c] condo caso lo farà con intenzioni serie, nel primo caso no, come dici tu. SOCR. E diremo ora che chi ha la conoscenza del bello e del giusto è meno giudizioso, riguardo le sue sementi, del contadino? FEDR. Assolutamente no. SOCR. Allora non le scriverà con intenzioni serie nell’acqua nera, seminandole mediante la penna con parole che non possano parlare a propria difesa, né possono insegnare in modo sufficiente il vero. FEDR. Non è certo probabile [d] che le scriva. SOCR. No, non lo è. Ma egli spargerà le sue sementi nei giardini letterari, io credo, e scriverà, quando scriva, solo per gioco, al fine di raccogliere un tesoro di ricordi per suo uso, contro la "vecchiaia che porta oblio" quando essa giunga, e per uso di chiunque si metta sulla stessa orma; e gioirà mirando i teneri germogli rinverdire. E quando gli altri si daranno a divertimenti diversi, affogandosi nei banchetti e in quant’altre gioie che s’accompagnano a questi, lui, invece, probabilmente vivrà degli svaghi che io dico. FEDR. Bellissimo svago [e] descrivi, o Socrate, di fronte agli altri sciocchi, lo svago di potersi dilettare delle parole, fantasticando discorsi sulla giustizia e su le altre virtù che tu dici! SOCR. Mio caro Fedro, è proprio così. Ma molto più bello, io penso, è occuparsene seriamente quando usando l’arte della dialettica e prendendo un’anima congeniale vi si piantano è vi si seminano parole con scientifica consapevolezza. Le quali sono sempre in grado di venire in aiuto a se stesse e a [277a] coloro che le hanno seminate e non sono sterili; ma poiché racchiudono in sé un germe da cui nuove parole germogliano in altre indoli esse sono capaci di rendere questo seme immortale, e rendono beato chi lo possiede, quanto può esserlo un umano FEDR. Oh! Il modo che dici è molto più bello!

LXII. SOCR. Ora che ci siamo messi d’accordo su questo, siamo già in grado di giudicare l’altra questione. FEDR. E quale? SOCR. Quella, per voler giudicare la quale, siamo giunti a questa conclusione, cioè qual giu-[b] dizio dare del rimprovero fatto a Lisia riguardo lo scrivere discorsi e quali degli stessi fossero scritti con metodo d’arte e quali no. Così penso che si sia chiarito convenientemente cosa sia "fatto secondo regola d’arte" o no. FEDR. Penso anch’io, ma richiamamelo ancora. SOCR. Fino a che non si conosce la verità sul soggetto di cui si parla o si scrive e non si è in grado, poi, di definirlo in se stesso e avendolo definito non s’è appreso come dividerlo nelle sue specie, fino a che è divisibile; se in seguito, [c] dopo l’analisi fondata sullo stesso metodo, della natura dell’anima, non si scopre per ciascun aspetto di questa natura il tipo di discorso che gli è adatto, e su questo non si costruisce e si ordina il discorso, con uno stile tutto screzi e comprendente tutti i toni dell’armonia per un’anima complessa e con uno stile lineare per un’anima semplice, - no, fino a questo momento non si sarà in grado di trattare l’oratoria a regola d’arte, per quanto è umanamente possibile, né al fine di insegnare né al fine di persuadere, come tutto quanto s’è detto prima ci ha dimostrato. FEDR. Sì, certo! Almeno in ciò è così che la questione ci è apparsa.

LXIII. SOCR. Torneremo sul problema se sia bene o male dire o scrivere discorsi e in quali circostanze ciò potrà [d] dirsi, con ragione, vergogna o no? Credo che ci abbiano chiarito le conclusioni di poco fa... FEDR. Quali? SOCR. ... che se Lisia o chiunque altro mai abbia scritto o scriverà, in privato o in pubblico, proponendo leggi, scrivendo cioè opere di carattere politico, e creda che esse abbiano chissà quale grande carattere di stabilità e di chiarezza, ciò sarà motivo di rimprovero all’autore, lo si dica o no. Perché confondere visione reale e immagine di sogno in materia di giusto e ingiusto, di male o bene non sfugge in verità [e] alla più acerba vergogna neppure se tutta la folla lo applaudisca. FEDR. Certo che no. SOCR. Ma chi, d’altra parte, ritenesse che in ogni opera scritta su qualsivoglia soggetto v’è necessariamente una gran parte di svago e che non sia mai stata scritta né in metro né in prosa un’opera degna di seria cura, e neppure mai recitata, - come venivano recitati i canti dei rapsodi senza indagine del vero o senza insegnamento, ma con lo scopo di mirare solo a persuadere -; ma ritenesse che, in realtà, le più riuscite di queste opere rinnovano solo la memoria di coloro che già sanno; che quindi solo nei discorsi sulla giustizia, sul-[278a] l’onore e il bene, esplicati e detti al fine d’imparare, nei discorsi realmente scritti nell’anima, in essi soli c’è lucidità, perfezione e motivo di seria cura; e che tali discorsi debbano essere considerati dal suo autore come fossero suoi figli legittimi, - naturalmente per primo il discorso originale in lui, quando lo si sia trovato, e poi quelli che, figli o fratelli, sono nati insieme in altre anime d’altri uomini, [b] in proporzione del loro valore -; e che ai restanti discorsi manda tanti saluti, questi, o Fedro, quest’uomo è probabile che sia quel che tu ed io vorremmo diventare. FEDR. Certo! E’ come tu dici la mia aspirazione e il mio voto.

LXIV. SOCR. Bene! Abbastanza è continuato il nostro svago sui discorsi! Ora tornandotene da Lisia, digli che noi due, scesi alla fonte e al recesso delle Ninfe, abbiamo udito parole che ci hanno imposto di inviare questo messag-[c] gio a Lisia e a quanti altri scrivono discorsi e a Omero e a coloro che compongono poesia con o senza musica, e infine a Solone e a coloro che scrivono componimenti politici ai quali danno nome di leggi: se ciascuno d’essi ha composto queste opere con piena conoscenza della verità e può difenderle, dovendo venire alla prova di quanto ha scritto, e se può dimostrare l’inferiorità dei suoi scritti in confronto della sua parola, quest’uomo non dovrebbe essere chiamato con un nome tratto da questi scritti, ma con uno tratto da ciò in cui ha posto il suo severissimo impegno. FEDR. [d] E qual nome gli assegni? SOCR. Chiamarlo sapiente mi sembra, Fedro, eccessivo, e conveniente solo a un dio; ma chiamarlo amico della sapienza o qualcosa di analogo, meglio si adatterebbe e converrebbe all’essere suo. FEDR. E gli starebbe del tutto a modo. SOCR. Ma colui che invece non ha nulla di più prezioso che le sue composizioni o i suoi scritti, e passa le ore ad elaborarle sopra e sotto, [e] con aggiunte e tagli, non lo chiamerai, e con ragione, poeta o logografo e legislatore? FEDR. Perché no? SOCR. Questo, allora, diglielo al tuo amico. FEDR. E tu? Che farai? Neppure il tuo amico si può trascurare. SOCR. Chi è questo amico? FEDR. Il bell’Isocrate. Quale sarà il tuo messaggio per lui, Socrate? E come lo chiameremo? SOCR. Isocrate è ancor giovane, o Fedro. Ma voglio dirti [279a] l’avvenire che gli presagisco. FEDR. Quale? SOCR. Penso che i suoi doni di natura son troppo grandi per confrontarli con l’eloquenza di Lisia, e ancora è di più nobile temperamento. Talché non sarà meraviglia se, procedendo nell’età e nello stesso tipo d’eloquenza cui ora s’applica, egli sorpassasse più che bambini quanti mai hanno toccato l’eloquenza, e ancora se, non bastandogli questo, un più sublime impulso lo traesse a cose maggiori. Perché la sua mente contiene, o caro, un innato senso della filosofia. Ecco, questo sarà il messaggio che da parte degli [b] dèi porterò al mio amore, Isocrate; tu dirai quell’altra cosa al tuo, a Lisia. FEDR. Va bene. Ma andiamocene. Già la calura è diventata più mite. SOCR. Non pregheremo prima di avviarci? FEDR. Sicuro! SOCR. O caro Pan, e quanti altri dèi qui dimorate, fate che io sia bello [c] di dentro. Che io ritenga ricco chi è sapiente e che di denaro ne possegga solo quanto non ne può prendere e portare altri che il saggio. Dobbiamo chiedere altro, Fedro? Per me ho chiesto abbastanza. FEDR. Associa anche me in questa preghiera, perché i beni degli amici sono comuni. SOCR. Andiamo.