Critone chiede a Socrate di raccontargli la discussione che ha avuto il giorno prima con Eutidemo e Dionisodoro. Dell'arte di questi, della loro abilità eristica Socrate fa, ironicamente, un alto elogio, esprimendo il desiderio, malgrado l'età, di farsi loro discepolo e invitando Critone a fare altrettanto (I 271a-272d). Socrate narra come la discussione si sia avviata: la presentazione, al giovanotto Clinia seguito da molti innamorati, tra cui Ctesippo, di Eutidemo e Dionisodoro, maestri di virtù (II 272e-273d). Socrate li invita a darne una dimostrazione. Tutti i presenti si dispongono in circolo per ascoltare (III 273d-274d). Socrate esorta Eutidemo e Dionisodoro a dare prova con Clinia del fatto che si deve amare la sapienza e seguire la virtù. Clinia risponderà alle loro domande (IV 274d-275c). Ironica invocazione di Socrate alle Muse e inizio della narrazione della discussione di Clinia con Eutidemo e Dionisodoro, che pongono il primo sofisma: Chi è che impara? Chi sa o chi non sa? (V 275c-276c). Secondo sofisma di Eutidemo e Dionisodoro: Chi impara, impara ciò che sa o ciò che non sa? (VI 276d-277c). Socrate interviene per evitare a Clinia un più grave imbarazzo e gli spiega la soluzione dei sofismi: si tratta, dice Socrate ironicamente, del primo grado di iniziazione ai misteri, di scherzi cui seguirà la parte seria. Per suo conto Socrate proverà a dire come se la immagina (VII 277c-278e). Tutti vogliamo essere felici; enumerazione dei beni che costituiscono le condizioni della felicità. Non esiste un problema della fortuna o buona riuscita, indipendentemente dalla scienza (VIII 278e-280a). Il possesso dei beni, da solo, non è tuttavia sufficiente: bisogna anche servirsene, perché essi giovino; e servirsene giustamente. E' la scienza la condizione del buon uso di qualcosa, cosicché quelli che prima erano apparsi come beni ora si rivelano come cose che possono essere tanto buone che cattive, a seconda che il loro uso sia guidato dalla scienza o dall'ignoranza: quindi la scienza è il vero bene e l'ignoranza il vero male (IX 290a-291e). Conseguente necessità di acquisire il massimo di scienza possibile, dal momento che la scienza è insegnabile (X 282a-d). Riprendono a discutere i due eristi: terzo sofisma di Dionisodoro: Socrate, se vuole che Clinia diventi sapiente, vuole che egli non sia più quello che è, cioè che muoia (XI 282e-283d). Reazione di Ctesippo e quarto sofisma di Eutidemo: E' impossibile mentire (XII 283e-285a). Intervento di Socrate presso Ctesippo e dissoluzione ironica del terzo sofisma. Ctesippo si dichiara disposto a continuare a discutere (XIII 285a-d). Quinto sofisma di Dionisodoro: è impossibile contraddire (XIV 285d-286b). Intervento di Socrate: Se non è possibile dire né pensare né fare il falso, che senso ha dirsi maestri di qualcosa? (XV 286b-287b). Sesto sofisma di Dionisodoro sull'ultima domanda di Socrate. La discussione, per un nuovo intervento di Ctesippo, minaccia di degenerare e Socrate si offre nuovamente di dare un esempio di quel che intende udire dai sofisti (XVI 287b-288d). Ripresa di Socrate con Clinia: è necessario un sapere che unisca il saper fare e il saper usare ciò che si fa. Ma quale è questo sapere? Rassegna delle varie arti (XVII 288d-290d). Interruzione di Critone e ripresa del racconto di Socrate: identificazione dell'arte regia con la politica (XVIII 290e-291d). Impossibilità di identificare la scienza ricercata con l'arte regia o politica. Invocazione di Socrate ad Eutidemo e Dionisodoro (XIX 291d-293a). Settimo sofisma di Eutidemo: La scienza che Socrate cerca, egli la possiede già, perché chi sa qualcosa, sa tutto e chi non sa qualcosa è del tutto ignorante (XX 293b-294b). Intervento di Ctesippo su questo argomento: Eutidemo e Dionisodoro non arretrano neanche di fronte alle estreme conseguenze (XXI 294b-295a). Eutidemo ripropone a Socrate lo stesso sofisma in altra forma e Socrate lo subisce, pur facendo notare attraverso domande ed aggiunte che il sofisma si regge solo se si risponde alla lettera quello che Eutidemo vuole (XXII 295b-296d). Socrate tenta di rovesciare il sofisma, ma Dionisodoro prima ed Eutidemo poi cambiano discorso; essi sono perciò ironicamente paragonati all'idra e al gambero contro i quali Ercole dovette lottare (XXIII 296d-297d). Prendendo spunto da questo ricordo mitologico, Dionisodoro presenta il suo ottavo sofisma a Socrate: dolce è nipote non più di Ercole che suo (XXIV 297d-298e). Nono e decimo sofisma di Dionisodoro ed Eutidemo (XXV 298e-300a). Undicesimo e dodicesimo sofisma di Dionisodoro ed Eutidemo (XXVI 300b-d). Tredicesimo sofisma di Dionisodoro (XXVII 300e-301d). Ultime schermaglie sofistichi tra Socrate, Ctesippo, Eutidemo e Dionisodoro (XXVIII 301e-303a). Socrate ricorda a Critone l'alto elogio, tutto tessuto di ironia, che egli ha pronunciato nei confronti di Eutidemo e Dionisodoro prima di andarsene (XXIX 303b-304b). Critone, di fronte al rinnovato invito di Socrate a frequentare quei sapienti, ricorda il giudizio fortemente polemico tanto contro l'eristica quanto contro la filosofia di un anonimo interlocutore, molto istruito e buon oratore forense (XXX 304b-305b). Giudizio negativo di Socrate su questo anonimo interlocutore, e in genere contro gli scrittori di discorsi: la loro polemica contro la filosofia non può essere condivisa (XXXI 305b-306d). Perplessità di Critone circa l'educazione dei figli, Socrate lo esorta ad esaminare che cosa deve essere insegnato e a non farsi influenzare se chi l'insegna non è all'altezza (XXXII 306d-307c).
[271a] I. CRITONE. Chi era, Socrate, quel tale con cui discutevi ieri nel Liceo? Era tanta la folla che vi stava intorno, che io, volendo sentire, per quanto mi sia avvicinato, non ho potuto ascoltare nulla chiaramente. Ad ogni modo, alzatomi sulla punta dei piedi, sono riuscito a vedere e mi è sembrato che quel tale con cui discutevi fosse uno di fuori. Chi era? SOCRATE. Ma di chi chiedi, Crotone? Non uno, ma due erano! CRIT. Quello, di cui parlo io, stava seduto alla tua destra e occupava il terzo posto: in [b] mezzo, tra te e lui, c’era il giovane figlio di Assioco. Mi è sembrato, Socrate, che sia cresciuto parecchio e che abbia quasi l’età del mio Critobulo. Solo che lui è mingherlino, mentre questo mostra un’età maggiore e sembra proprio un gran bravo ragazzo. SOCR. Eutidemo, Critone, è quello di cui mi chiedi; l’altro, seduto alla mia sinistra, era suo fratello, Dionisodoro; anche lui prende parte ai discorsi. CRIT. Non conosco nessuno dei due, Socrate. Nuovi sofisti, a quel che penso! Di che luogo? Quale il campo di loro [c] competenza? SOCR. Credo siano originari di Chio, o giù di lì, ma emigrati a Turi; di là esiliati, sono già molti anni che s’indugiano da queste parti. Quanto alla loro sapienza, di cui mi chiedi: portentosa, Critone! Puramente onniscienti! Fino ad ora, anzi, non sai chi siano i pancraziasti! Eh sì, perché l’uno e l’altro sono assolutamente preparati ad ogni genere di combattimento, e non come i due fratelli Acarnani, campioni di pancrazio. I [d] due Acarnani erano capaci di combattere solo con il corpo; questi invece, in primo luogo sono fisicamente straordinari e tali, in combattimento, da vincere chiunque - conoscono benissimo l’uso delle armi, e sono in grado [272a] d’istruire in ciò anche gli altri che paghino - ; fortissimi sono poi nelle competizioni giudiziarie e nell’istruire gli altri a parlare ed a comporre discorsi propri da tribunale. Prima erano valenti solamente in questo; ora hanno raggiunto la massima perfezione nell’arte pancraziastica. Il solo genere di lotta che non avevano ancora coltivato, l’hanno oggi praticato a fondo, sì che nessuno potrebbe controbatterli, tanto terribili sono divenuti nel combattere entro [b] il campo delle parole, e a confutare qualsiasi cosa si dica, falsa o vera che sia. Personalmente, Critone, ho in mente di mettermi in mano a questi due valenti uomini, perché dicono anche d’esser capaci di rendere un altro, chiunque sia, abile, in brevissimo tempo, in questa stessa arte. CRIT. Ma via, Socrate! Alla tua età, non hai paura d’essere oramai troppo vecchio? SOCR. Per niente, Critone! Ho, per non aver paura, una sufficiente prova ed un incoraggiamento, ché essi stessi, per così dire, si volsero da vecchi a questa sapienza oggetto del mio desiderio: l’eristica; uno o due anni fa non ne erano affatto addottrinati. [c] Di una cosa solo ho paura, di far fare una brutta figura a questi due stranieri, come a Conno di Metrobio, il citarista, che ancora oggi m’insegna a suonare la cetra; a tale spettacolo, i ragazzi, miei condiscepoli, si ridono di me e chiamano Conno maestro dei vecchi. Così qualcuno potrebbe prendere ugualmente in giro questi due forestieri, ed essi, per paura di ciò, potrebbero non volermi accettare. Ma io, Critone, già ho persuaso altri vecchi a farsi miei [d] condiscepoli e a frequentare quelle lezioni, e, così, tenterò di persuadere anche altri a seguire costoro. Anzi, perché non ci vieni anche tu? A mo’ di esca condurremo loro i tuoi figlioli. So con certezza che, pur di averli come discepoli, insegneranno anche a noi. CRIT. Nessun ostacolo, Socrate, se così ti sembra. Ma prima spiegami in che consiste la sapienza di questi due uomini, si che io sappia anche cosa potremo apprendere.
II. SOCR. Lo ascolterai sùbito; non posso negare, infatti, d’essere stato attento alle loro parole: attentissimo, [e] anzi, e ne ho un vivissimo ricordo, e cercherò di spiegarti tutto dal principio. Mentre, per divino caso, me ne stavo seduto a sedere dove tu mi vedesti, solo, nello spogliatoio, ma già avevo in mente di alzarmi e di andarmene, proprio sul momento in cui mi stavo alzando avvertii quel solito segno demonico. Mi rimisi di nuovo a sedere, [273a] quand’ecco poco dopo entrare questi due, Eutidemo e Dionisodoro, e con essi molti altri, loro discepoli, a mio parere. Appena entrati si misero a passeggiare in su e in giù per la pista coperta. Ma non avevano ancora compiuto due o tre giri, quando entrò Clinia, che tu dici - e dici il vero - cresciuto molto e, dietro a lui, un gran numero di suoi innamorati, e, tra gli altri, Ctesippo, un giovinetto di Peania, buono e bello per natura, salvo una sua qual [b] certa sicumera dovuta alla giovinezza. Dalla porta, Clinia, vedendomi seduto solo, venne diritto da me sedendosi alla mia destra, come anche tu hai detto. Avendolo veduto, Dionisodoro ed Eutidemo dapprima si fermarono a discorrere tra loro, di tanto in tanto volgendo gli occhi su di noi - io non cessavo di stare loro attento - poi si mossero; e l’uno, Eutidemo, si mise a sedere vicino al giovinetto, l’altro accanto a me, a sinistra; il resto, ciascuno così come capitava. Io, poiché non li vedevo da molto tempo, li salutai con effusione; quindi, rivoltomi a Clinia, [c] dissi: - Clinia, due sapienti sono questi due uomini, Eutidemo e Dionisodoro, e non in questioni da poco, ma nelle grandi questioni. Relativamente alla guerra essi hanno scienza di tutto, di tutto ciò che deve sapere chi voglia divenire stratega: tattica, guida degli eserciti, tutto ciò che v’è da insegnare per combattere con le armi; non solo, ma sanno rendere anche altri capaci di autodifendersi in tribunale, allorché abbiano ricevuto un torto. Le mie [d] parole suscitarono il disprezzo dei due: tutti e due, certo, si misero a ridere guardandosi tra loro; ed Eutidemo disse: - No, Socrate, di codeste cose non ci occupiamo più, se non per passatempo. Ed io, meravigliato: - Dev’essere davvero una bella occupazione la vostra, seguitai, se di faccende così importanti non v’interessate che per passatempo. Ditemi, dunque, in nome degli dèi, in che consiste mai codesta bella occupazione! - La virtù, Socrate, disse: ci crediamo capaci d’insegnarla meglio di chiunque altro e più rapidamente.
[e] III. - Oh Zeus!, esclamai, cosa mai dite! E dove avete fatto questa felice scoperta? Personalmente ritenevo ancora di voi, come appena ora dicevo, che soprattutto terribili foste in quella grande cosa che è la lotta con le armi: questo dicevo appunto di voi; tanto più che, quando veniste la volta precedente, era questa, ricordo, l’arte che professavate. Ma se ora possedete davvero la scienza che avete detto, siatemi propizi - mi rivolgo a voi proprio [274a] come se foste due dèi -, e vi chiedo perdono di ciò che prima ho detto. Ma guardate, Eutidemo e Dionisodoro, se avete detto la verità, ché promettete cosa di sì grande importanza, che non c’è da stupirsi se uno ne diffida. Sappi, Socrate, risposero insieme, che è proprio così! - Beati voi per il vostro possesso, ben più grande che non il dominio del Gran Re. Ma ditemi una cosa, ditemi solo se avete intenzione di mostrare questa sapienza, o quale decisione avete presa. - Siamo qui proprio per questo, Socrate, per mostrare la nostra dottrina ed insegnarla, se qualcuno voglia apprenderla. - Che la vogliano apprendere tutti coloro che non la posseggono, [b] me ne faccio garante io: io stesso innanzi tutto, e poi Clinia qui presente e Ctesippo, che è lì, e tutti questi altri, aggiunsi, indicando gli amanti di Clinia, che già avevano fatto circolo intorno a noi. Ctesippo, infatti, s’era ritrovato a sedere lontano da Clinia, e mi sembrava che Eutidemo, sporgendosi in avanti per discorrere con me, impedisse a [c] Ctesippo che si trovava tra noi due; Ctesippo, allora, che voleva guardarsi il suo amato ed era a un tempo desideroso di udire, balzò in piedi e per primo si mise in faccia a noi. Gli altri, vedendolo, fecero come lui e ci vennero intorno, gli amanti di Clinia e i compagni di Eutidemo e Dionisodoro. Questi indicavo, appunto, a Eutidemo, dicendogli che erano tutti pronti [d] ad apprendere. Ctesippo approvò con fervore le mie parole e con lui gli altri, e tutti insieme invitarono i due ad esporre in che consistesse l’efficacia del loro sapere .
IV. Io dissi allora: - Eutidemo, Dionisodoro, sù via, fate, ad ogni modo, cosa gradita a costoro, e fatelo anche per me, mostrate, dunque, la vostra abilità. Mostrarcene la maggior parte è chiaro che non sarebbe impresa da poco, ma ditemi almeno questo: riuscite a far divenire buono solo uno che sia già persuaso a dovere imparare da voi, [e] o anche uno che non ne sia ancora persuaso, o perché non ritiene che la cosa nel suo genere, la virtù, sia oggetto di apprendimento, o che voi due non ne siate maestri? Sù via, anche uno che abbia simile opinione, persuaderlo che la virtù si possa insegnare e che voi siate i maestri dai quali meglio che da ogni altro si possa apprenderla, è proprio di una stessa arte o di una diversa? di questa arte, Socrate, rispose Dionisodoro. dunque, dissi io, Dionisodoro, meglio di ogni altro contem- [275a] poraneo, siete capaci di avviare alla filosofia e al culto della virtù? - Lo crediamo, sì, Socrate! E allora, seguitai io, lasciate stare per ora l’esposizione di tutto il resto, limitandovi ad esporci sùbito questo solo punto: persuadete questo giovinetto che è necessario filosofare ed aver cura della virtù, e farete un favore a me e a tutti i presenti. A questo nostro ragazzo, appunto, più o meno, accade questo: io e tutti gli altri qui presenti ci troviamo d’accordo nel desiderio ch’egli divenga quanto più è possibile migliore. Egli è il figlio di Assioco, figlio di Alcibiade [b] il Vecchio, cugino dell’Alcibiade ora in vita: Clinia è il suo nome. E’ giovane, e, come avviene quando si tratta di un giovane, abbiamo paura per lui che qualcuno non ci prevenga, indirizzando altrove la sua mente, e lo guasti. Voi due siete, perciò, capitati nel momento più opportuno. E allora, se per voi è indifferente, mettete alla prova il ragazzo e discutete con lui in nostra presenza. Fatto all’incirca, questo discorso, Eutidemo, con arditezza e spavalderia insieme, disse: - Per noi, Socrate, è indiffe-[c] rente, basta che il giovinetto voglia rispondere. - Ma sicuro!, risposi. Vi è anche abituato, ché sovente, gli amici qui presenti gli si avvicinano e gli pongono molte domande e discutono con lui, si che non v’è dubbio alcuno ch’egli sappia rispondere con sicurezza.
V. Ma quello che segui, Critone, come potrò mai descrivertelo bene? Non è certo cosa da nulla poter riprendere ed esporre a puntino una competenza fuori d’ogni aspettativa. Ed io, perciò, come i poeti, cominciando la mia rela-[d] zione, ho il dovere d’invocare le Muse e Mnemosine. Per quel che mi sembra, dunque, Eutidemo cominciò all’incirca così: - Clinia, chi tra gli uomini sono quelli che apprendono, coloro che sanno o gl’ignoranti? A una domanda di tanta portata, il ragazzo si fece tutto rosso, e non sapendo cosa rispondere volse gli occhi verso di me. Io, resomi conto del suo turbamento: - Coraggio [e] Clinia, dissi, e rispondi con tutta franchezza quel che te ne pare, ché forse ne trarrai un grandissimo guadagno. Dionisodoro allora, piegatosi un poco al mio orecchio, il volto tutto un sorriso, mi disse: - Sta attento, Socrate, ti avverto che comunque il ragazzino risponda, verrà confutato. Nel tempo in cui Dionisodoro mi diceva queste parole, Clinia aveva risposto, sì che non mi venne neppur fatto di raccomandare al ragazzo di stare attento: aveva [276a] già risposto esser coloro che sanno ad apprendere. Ed Eutidemo: - Vi sono, chiese, persone che tu chiami maestri, o no? Clinia fu d’accordo. - E allora, i maestri sono maestri di coloro che apprendono, come il citarista e il grammatico sono, senza dubbio, stati maestri tuoi e degli altri ragazzi, e voi scolari? Fece cenno di sì. - Solo che, quando apprendevate, sapevate, o no, quello che avreste appreso? - No, disse. - Ed [b] eravate gente che sapeva quando non sapevate ancora quelle cose? - Evidentemente no! - Dunque, se non gente che sapeva, ignoranti? - Certo! - E allora, imparando ciò che non sapevate, apprendevate essendo ignoranti. Il ragazzo fece cenno di sì. - Coloro che apprendono sono, dunque gl’ignoranti, Clinia, non chi sa, come tu ritieni. A simile conclusione, come coro al segno del maestro, i seguaci di Dionisodoro e di [c] Eutidemo si dettero, insieme, ad acclamare fragorosamente e a ridere; e prima ancora che il ragazzo avesse potuto riprendere fiato a dovere, e per bene, Dionisodoro incalzando: - Ebbene, Clinia, disse, quando il grammatico vi declamava, quali dei ragazzi apprendevano ciò ch’egli insegnava oralmente: chi sapeva o gl’ignoranti? - Chi sapeva, rispose Clinia. - Coloro che sanno, dunque, imparano, non gl’ignoranti: tu, dunque, poco fa, non hai risposto bene a Eutidemo.
[d] VI. E qui, di nuovo, a darsi a gran risate e ad applaudire con foga, i patiti di quei due, tutti fieri della loro capacità, mentre noi, stupefatti, tacevamo. Eutidemo, che si accorse del nostro stupore, perché rimanessimo ancor più meravigliati di lui, non mollò il ragazzo, ma lo interrogò ancora, e, come i bravi danzatori, volteggiò due volte con le sue domande sul medesimo punto, e disse: - Ma allora chi impara, impara ciò che sa o ciò che non sa? E Dionisodoro, di nuovo, mi bisbigliò in un soffio: - Que-[e] sta è un’altra, Socrate simile alla prima! - Oh, Zeus, esclamai, ma anche la domanda di prima mi è sembrata bella davvero! - Certo, Socrate, disse, tutte le nostre domande sono tali da non potervi sfuggire. - Ecco perché, aggiunsi, credo che abbiate tanta fama presso i vostri scolari. Clinia aveva intanto risposto a Eutidemo che coloro che imparano apprendono ciò che non sanno. Ed Eutidemo lo interrogava con il medesimo procedimento [277a] di prima: - Come, disse, non conosci le lettere? - Sì, rispose. - Tutte? Ne convenne. - Ma quando qualcuno declama una qualsivoglia cosa, non declama lettere? Fu d’accordo. - Declama, dunque, cose che sai, disse, se conosci tutte le lettere? E anche in questo fu d’accordo. - E allora, aggiunse, tu non impari ciò che altri declama e impara invece chi non sa le lettere? - Ma no, disse Clinia, sono io che imparo. - Ma allora, aggiunse, tu impari quello che sai, [b] se già conosci tutte le lettere. Fu d’accordo. - Non hai, dunque, risposto rettamente, disse. Eutidemo non aveva ancora finito di parlare, che già Dionisodoro, colta la parola come palla al balzo, di nuovo prese di mira il ragazzo, e disse: - Clinia, Eutidemo t’inganna. Eh sì! perché dimmi: imparare non è forse acquistare scienza di ciò che si apprende? Clinia ne convenne. - E sapere, aggiunse, non è, forse, altro che avere già scienza? [c] Annuì. - Non sapere, dunque, è non avere ancora scienza? - D’accordo anche in questo. - Chi sono, allora, coloro che acquistano qualcosa: chi già possiede o chi non possiede ancora? - Chi non possiede. - Ma non sei stato d’accordo nel sostenere che appunto tra questi, tra coloro che non posseggono, si trovano coloro che non sanno? Disse di sì. - E allora chi apprende si trova tra coloro che acquistano, non tra quelli che posseggono? Annuì. - Ma, dunque, caro Clinia, disse, apprende chi non sa, non chi sa!
VII. Già Eutidemo muoveva al terzo assalto, come nel-[d] la lotta, per mettere definitivamente a terra il giovanetto; ma io, resomi conto che il ragazzo stava per essere sommerso, volendogli dar fiato, perché non restasse annichilito, lo rincuorai dicendogli: - Clinia, non ti meravigliare, se strani ti sembrano codesti discorsi. Non ti accorgi, forse, di quel che girandoti intorno stanno facendo i due forestieri. Stanno facendo quello che si fa nell’iniziazione dei coribanti, quando mettono in trono chi vogliono iniziare. Anche allora avviene una danza e un giuoco, e [lo saprai] se sei stato iniziato. I due forestieri non altro fanno [e] ora che formare un coro intorno a te e giuocano danzando come se, poi, volessero iniziarti. Per il momento, dunque, pensa di avere ascoltato i primi tempi di una consacrazione sofistica. In primo luogo, come dice Prodico bisogna imparare la correttezza dei nomi; appunto questo ti mostrano i due forestieri: tu non sapevi che ‘apprendere’ to\ manqa/nein [tò manthànein] si dice in un caso come questo: quando uno non avendo in principio alcuna cognizione di qualcosa acquisti in un secondo tempo quella cognizione; ma si [278a] dice nel medesimo modo anche quando avendo già cognizione di qualcosa, di questa si giovi per esaminare la cosa stessa, la si faccia o la si dica - anche se poi questo si dica ‘intendere’ sunie/nai [suniènai] piuttosto che ‘apprendere’ manqa/nein [manthànein]; ma certo anche apprendere - ; a te, come costoro hanno mostrato, sfuggiva che lo stesso nome si riferisce a due uomini in situazioni opposte: a chi sa e a chi non sa. Quasi identico, poi, a questo caso, è quello che si presenta nella seconda domanda: qui ti si chiedeva se [b] gli uomini apprendono quello che sanno, o quel che non sanno. Questi sono, in realtà, insegnamenti per giuoco: ed ecco perché io dico ch’Eutidemo e Dionisodoro si divertono con te; e divertimenti li dico, perché, sia pur imparando simili sottigliezze, molte, o tutte, non per questo sì saprebbe affatto meglio in che consistono le cose, ma solo si sarebbe in grado di divertirsi con la gente, giuocando sui diversi significati dei nomi, dando alla gente lo sgambetto e atterrandola, come chi, scartando via lo sgabello di sotto a chi sta per mettersi a sedere, si diverte e ride a [c] vederlo cadere giù. Tieni, dunque, a mente, che tali sottigliezze, sono come uno scherzo ch’essi ti fanno: ma, poi, certo, di per sé ti proveranno ch’essi seriamente insegnano, ed io li spingerò a mantenere quello che hanno promesso. In realtà essi hanno detto che ci avrebbero dato un saggio della loro sapienza protrettica; mi sembra, invece, che, per ora, abbiano creduto di dover prima divertirsi con te. Eutidemo e Dionisodoro, sia pur questo un vostro scherzo, ma ora sembra che tanto basti. Dopo di [d] che dovete mostrarci come avvierete il ragazzo a persuadersi che conviene prendersi cura del sapere e della virtù. Comincerò io stesso a indicarvi come la intendo e cosa sia ciò che desidero ascoltare. E se vi sembrerà ch’io lo faccia in modo troppo semplice e buffo, non ridete di me: solo per il desiderio di ascoltare ciò in cui siete competenti sarò tanto ardito da improvvisare dinanzi a voi. [e] Sopportatemi, dunque, senza ridere, ascoltandomi, voi e i vostri discepoli. Tu, figlio di Assioco, rispondimi.
VIII. Non è vero che noi tutti, in quanto uomini, vogliamo stare bene? O tale domanda è, come appena ora temevo, una di quelle che fanno ridere? Sì, è senza dubbio da sciocchi porre simile domanda: chi, tra gli uomini, non vuole star bene? - Ma nessuno!, rispose Clinia. - E-[279a] satto, dissi io: ma allora, posto che vogliamo stare bene, in che modo lo potremo? Forse se avessimo molti beni? O questa è una domanda ancor più banale della prima? Che sia così non vi è, infatti, alcun dubbio. Annuì. - Ma allora, quali tra le cose sono quelle che risultano beni per noi? O neppur questo appare difficile, né tale che ci voglia un sublime uomo per trovarlo? Ché ognuno sa dirci ch’essere ricchi è bene. Così, no? - Senza dubbio, disse. - Anche stare bene in salute, essere [b] belli e avere ogni altra dote fisica? Fu di questa opinione.- Ma la nobiltà di nascita, il potere, l’essere onorato nel proprio stato, tutti questi, evidentemente, sono beni. Ne convenne. Ed io: - Quali beni ancora ci restano? In che consiste esser prudente, giusto, coraggioso? Per Zèus, Clinia, ritieni che sia una giusta tesi porre questi tra i beni, oppure no? Vi è forse qualcuno che possa sostenere il contrario: ma tu che ne pensi? - Vanno posti tra i beni, disse Clinia. - Bene!, esclamai. - E là sapienza, la porremo nel coro? Tra i beni, o che dici? Tra i beni. - Sta attento a non lasciarne da parte [c] qualcuno, degno d’essere ricordato. - Mi sembra, rispose Clinia, di non averne tralasciato alcuno. Ed io ricordandomene, dissi: - Ma sì, per Zeus, rischiamo di avere lasciato da parte il più grande dei beni. - E quale?, domandò. - La buona fortuna, Clinia. Tutti, anche i più stupidi, dicono ch’essa sia il più grande dei beni. - E’ vero!, esclamò. Ma io, mutando ancora pensiero, proseguii: - Per un pelo non ci siamo coperti di ridico [d] di fronte a questi forestieri, tu ed io, figlio di Assioco. - E perché?, domandò. - Perché già, discorrendo prima, abbiamo posto la buona fortuna, ed ora ne veniamo a parlare di nuovo. - E cioè ? - Ma è senza dubbio ridicolo, quel che ci sta di fronte da tempo proporlo di nuovo e dire due volte la medesima cosa. - In che senso lo dici?, chiese. - Ma è proprio il sapere, dissi, la buona fortuna: lo sa anche un bambino. Egli restò meravigliato, tanto è giovane e semplice, sì che io, resomi conto della sua meraviglia, dissi: - Non sai, Clinia, che [e] i flautisti sono i più fortunati relativamente a saper suonare bene il flauto? Acconsentì. - E non è anche così, seguitai, dei grammatici nello scrivere e nel leggere le lettere? - Certo! - Ma come? Relativamente ai pericoli del mare credi che altri vi siano, in genere, più fortunati dei nocchieri che fanno il loro mestiere? - Evidentemente no! - Non solo, ma durante una campagna militare con chi preferiresti affrontare pericoli e casi di guerra, con uno stratega che sa o con uno ignorante? [280a] - Con uno che sa. - E se tu fossi in cattiva salute con chi passeresti il pericolo con serenità, con un medico che sa o con un ignorante? - Con un medico che sa. - E allora, dissi, ritieni che avresti maggior fortuna se tu avessi a che fare con uno che sa piuttosto che con un ignorante? Fu d’accordo. - Il sapere, dunque, in ogni campo, fa la buona fortuna degli uomini, ché il sapere, mai, in nulla, può sbagliare, ma necessariamente opera e riesce rettamente: se no, non sarebbe più sapere.
IX. Non so come, ma alla fine ci trovammo d’accordo che, [b] nella sostanza, la questione stesse così: se c’è sapere, chi lo possiede non ha bisogno di buona fortuna. Poiché ci eravamo trovati d’accordo su questo, lo interrogai di nuovo per sapere come ci si trovasse d’accordo in ciò che prima s’era convenuto. - Eravamo rimasti d’accordo, dissi, che se avessimo avuto molti beni, avremmo vissuto felicemente e bene. Acconsenti. - Ma vivremmo felici, avendo quei beni, se essi non fossero per noi un vantaggio, oppure sì? - Se lo fossero!, esclamò. - E [c] costituirebbero un vantaggio per noi, solo se li avessimo, ma non ne usassimo? Per dire: se avessimo molti cibi, ma non mangiassimo, o bevande ma non bevessimo, ne avremmo forse una qualche utilità? - Evidentemente no!, disse. - E allora, tutti gli artigiani, se tenessero preparati gli attrezzi del loro lavoro, ma non se ne servissero, vivrebbero forse bene per il fatto che posseggono l’occorrente, perché, cioè, posseggono tutto ciò che un artigiano deve possedere? Un falegname, ad esempio, che fosse provvisto di tutti gli strumenti e di sufficiente legname, ma non costruisse, potrebbe trarre un qualche utile da tale suo possesso? - Nient’affatto!, esclamò. - E se uno [d] fosse ricco e possedesse tutti quei beni di cui or ora dicevamo, ma non li usasse, sarebbe felice per il solo fatto che possiede tali beni? - Evidentemente no, Socrate! - E allora, dissi, a quanto sembra non solo deve possedere codesti beni chi voglia essere felice, ma deve anche servirsene; altrimenti nessun giovamento gli deriverà da tale possesso. - E’ vero. - Eppure, Clinia, sarà sufficiente questo solo a fare felice un uomo, cioè possedere i [e] beni e servirsene? - Mi sembra di sì! - Se, aggiunsi, uno se ne serva rettamente, oppure no? - Se rettamente - Giusta risposta, dissi. Eh sì, perché ritengo che sia peggio servirsi in maniera scorretta di una qualsivoglia cosa che non servirsene affatto, ché dei due modi l’uno è male, l’altro né male né bene. Non dobbiamo [281a] dire così? Fu d’accordo. - Ebbene, nella lavorazione e nell’uso del legname, ciò che fa sì che rettamente se ne usi non è forse la scienza falegnamesca? - Non altro, rispose.- Ed egualmente, nella lavorazione delle suppellettili quella che ne rende possibile la realizzazione è la scienza. Ne convenne. - E allora, proseguii, anche nell’uso di quelli che prima dicevamo beni, ricchezza, salute, bellezza, sempre la scienza è guida ad usarne rettamente e a indirizzare l’azione al suo giusto fine, o è [b] altro? - La scienza, disse. - Non solo, dunque, la buona fortuna, ma anche la scienza, sembra, procura agli uomini il fare bene in qualsivoglia possesso ed azione. Fu d’accordo. - E allora, per Zeus, seguitai, c’è forse una qualche utilità nel possedere gli altri beni se mancano ragionevolezza e sapere? Sarebbe forse utile a un uomo possedere molte cose e farne molte, qualora non avesse intelligenza, o piuttosto gli converrebbe possedere e operare poche cose, con intelligenza? Vedi un po’: operando meno non cadrebbe in meno errori? e facendo meno errori non si troverebbe meno male? e, stando meno male, non sarebbe meno infelice? - Senza dubbio!, esclamò. [c] - Già, ma chi si trova a operare meno, chi è ricco o chi è povero? Un povero, rispose. - Chi è debole o chi è forte? Un debole. - Chi ricopre alte cariche o un ignoto? - Un ignoto. - E chi sarà meno pronto all’azione, chi sia coraggioso e intelligente o un vile? - Un vile. - Anche un pigro, dunque, piuttosto che un uomo d’azione. - Fu d’accordo. - Chi [d] va con lentezza piuttosto che uno sollecito, chi è corto di vista e duro d’orecchi piuttosto che uno di vista e d’orecchi acuti? Ci trovammo in tutto vicendevolmente d’accordo. - E allora, o Clinia, dissi, ecco il capo della questione: finisce che tutte quelle doti che sopra dicevamo beni non è forse esatto discorrerne come se fossero per sé beni in natura, ma, sembra, altrimenti sta la cosa: se loro guida è l’ignoranza sono ancor più mali dei loro contrari, di tanto quanto più potenti sono gli strumenti che mettono a disposizione della loro cattiva guida; se invece hanno a guida prudenza e sapere sono beni maggiori: in sé e per sé nessuno di essi è un valore. - A quanto sembra, disse, la questione si [e] mostra proprio come tu dici. - E che ne vien fuori da tutto quel che si è detto? Che nessuna di tutte le altre cose è buona o cattiva, mentre delle due che restano la capacità è buona, l’ignoranza cattiva: non è così? Fu d’accordo.
[282a] X. - E ora, dissi, esaminiamo quel che ci resta. Poiché tutti desideriamo essere felici, ed è apparso che diveniamo tali usando le cose e servendocene rettamente e che la scienza è lo strumento che procura il retto uso e la buona fortuna, bisogna, sembra, che tutti gli uomini in ogni modo s’impegnino in questo, a divenire quanto più è possibile sapienti: o no? Sì, disse. - E se uno si convinca che questo gli convenga ricevere dal proprio padre ben più che il denaro, questo da tutori e da amici, [b] da quelli che si dichiarano amanti e da altri, questo da forestieri e da concittadini, e preghi e supplichi che lo si faccia partecipe di sapienza, non è per nulla vergognoso, per nulla biasimevole, Clinia, che con tale scopo costui obbedisca e serva all’amante, a chiunque, e sia pronto a servirlo in tutto, purché in onesti servigi, per il suo ardente desiderio di diventare sapiente. O non ti sembra che sia così?, dissi. Mi sembra che tu dica benissimo, rispose. - Solo se, Clinia, proseguii, il sapere sia insegnabile e non si [c] venga, invece, formando negli uomini spontaneamente: questo il punto non ancora esaminato e su cui tu ed io non ci siamo ancora messi d’accordo. - Ma, Socrate, a me sembra che sia insegnabile, disse. Ed io, rallegrandomi, aggiunsi: - Dici cosa giustissima, ottimo tra gli uomini, ed hai fatto bene ad evitarmi una lunga analisi su tale questione, se cioè il sapere sia o no insegnabile. Ed ora, poiché, dunque, ti sembra insegnabile e l’unica cosa che possa fare l’uomo felice e fortunato, cos’altro puoi dire se non che [d] necessario è filosofare? anzi, non pensi tu stesso di fare proprio questo? - Ma senz’altro, Socrate!, esclamò, come meglio so e posso.
XI. Ed io, lieto di averlo ascoltato parlare così, dissi: - Dionisodoro ed Eutidemo, ecco il modello di quelli che desidero siano i discorsi protrettici, modello forse estremamente semplice e faticosamente esposto con troppe parole: ad ogni modo, chi di voi due lo vuole, queste stesse cose ce le esponga con arte. Ma se non volete far così, riprendete il discorso da dove l’ho lasciato, e dimostrate al ragazzo s’egli debba far propria la scienza nella sua tota-[e] lità, o se ve ne sia una particolare che, acquisita, lo renda felice e buono, e quale essa sia. Certo, ché, come ho detto fin dal principio, è di grande importanza che questo ragazzo divenga sapiente e buono. Ecco, Critone, quello [283a] che dissi; stavo quindi tutto teso a quel che sarebbe seguìto, e mi domandavo come quei due avrebbero mosso il discorso e da dove avrebbero cominciato per esortare il giovinetto all’esercizio del sapere e della virtù. Il più anziano dei due, Dionisodoro, fu il primo a prendere la parola, e tutti avevamo gli occhi rivolti su di lui, sicuri che avremmo ascoltato meravigliosi discorsi, come, in realtà, ci capitò. Sì, Critone, il nostro uomo dette l’avvio ad un meraviglioso [b] discorso, tale che merita tu ascolti quanto efficace fosse per eccitare alla virtù. - Dimmi, Socrate, e voi tutti, quanti affermate starvi a cuore che questo giovinetto divenga sapiente: così dicendo, scherzate, o lo desiderate veramente e parlate sul serio? Fui allora convinto che quei due avevano prima creduto che noi scherzassimo, quando li avevamo esortati a discutere con il giovinetto: ecco perché avevano proseguito nello scherzo e non avevano discusso seriamente. Convinto di questo, con ancora [c] maggior forza sostenni che la nostra richiesta era straordinariamente seria. Dionisodoro, allora: - Sta attento, Socrate, disse, che tu non debba rimangiarti quello che ora dici. - Ci sono stato attento, risposi, e non c’è caso che debba rinnegarmi. - Ma come?, proseguì, voi dite di volere che il ragazzo divenga sapiente? - Certo! - E ora, chiese, Clinia è uno che sa, oppure no? - Non ancora, né dice di esserlo: non è un millantatore, [d] dissi. - Ma voi, ribatté, volete ch’egli divenga persona che sa e non sia ignorante? Fummo d’accordo. - Volete, dunque, che divenga quello che non è e non sia più quello che è ora. - Io, ascoltandolo, mi turbai, ed egli, sorprendendomi così turbato, incalzò: - Poiché volete ch’egli non sia più quello che è ora sembra che lo vogliate morto! Quali mai degni amici ed amanti potrebbero essere costoro, cui soprattutto starebbe a cuore di vedere morto l’amato!
[e] XII. A tali parole, Ctesippo ribollì di sdegno per il suo amato, ed esclamò: - Forestiere di Turi, se non fosse troppo da zotico, direi: la parola ricada "sul tuo capo"; ché, di fronte a me e agli altri, ti è venuto in mente di dire una menzogna, che solo dirla per me sembra empietà, che io lo voglia vedere morto! - E che, Ctesippo, disse Eutidemo, ti sembra possibile mentire? - Sì, per Zeus, rispose, se non sono impazzito! Dicendo la cosa di cui si parla, o non dicendola? - Dicendola, [284a] affermò. - Comunque, dicendola, non altro uno dice delle cose che sono se non quella che dice. - E come potrebbe?, disse Ctesippo. - Quella ch’egli dice è, senza dubbio, una delle cose che sono, separata dalle altre. - Certo! E allora, prosegui, chi la dice esprime ciò che è? Sì! - Ma chi esprime ciò che è, e cose che sono, dice la verità, per cui se Dionisodoro esprime cose che sono, dice la verità e non è affatto menzognero nei tuoi confronti. - Sì, disse Ctesippo, ma, caro Eutidemo, chi dice questo non dice ciò che è. Ed Eutidemo: [b] - Ma ciò che non è, che cos’è d’altro, se non che ‘non è’? - ‘Non è’. - E ciò che non è, che altro è se non assoluto non essere? - Assoluto non essere! - E’ mai possibile allora che relativamente a queste cose, che non sono, si possa agire in qualche modo, si che qualcuno, chiunque sia, possa fare quelle cose che non sono assolutamente? - Non mi sembra, rispose Ctesippo. - Ma gli oratori, quando parlano al popolo, agiscono in qualche modo? - Sì che agiscono, disse. - Ma se [c] agiscono, anche fanno? - Sì! Parlare è, allora, un agire e un fare? Fu d’accordo. Ma le cose che non sono, proseguì, nessuno le dice, poiché farebbe già qualcosa (e tu hai acconsentito al fatto che ciò che non è, è impossibile che qualcuno lo faccia), onde, secondo il tuo stesso ragionamento, nessuno dice il falso: ma, allora, se Dionisodoro parla, dice la verità e cose che sono. - Per Zeus! Eutidemo, disse Ctesippo, egli dirà certo, in un qualche modo, cose che sono, ma non quali sono effettivamente. - Che dici, Ctesippo!, esclamò Dionisodoro, vi è chi dice [d] le cose come sono? - Sì, rispose: le persone oneste e che dicono la verità. - Come, dunque, proseguì, le cose buone non sono il bene e le cattive il male? Fu d’accordo. - E tu sei d’accordo nel sostenere che le persone oneste dicano le cose come sono? - D’accordo. - E che dunque, Ctesippo, incalzò, i virtuosi dicano male delle cose cattive, se le dicono appunto come sono? - Sì, per Zeus, rispose, e dicono molto male dei malvagi, per cui se tu vuoi prestarmi fede vacci con cautela, sì che i virtuosi non parlino male di te. Sappi [e] che i virtuosi parlano male dei malvagi. - E dei grandi, disse Eutidemo, parlano grandemente, e dei caldi con calore? - Esattamente, esclamò Ctesippo, e con freddezza dei freddi che, si dice, ragionano per freddure. - Ehi là là! Oh Ctesippo, esclamò, tu offendi Dionisodoro, offendi! - Ah no, per Zeus, Dionisodoro, disse, non ti offendo perché ti amo, ma ti ammonisco come compagno e tento di persuaderti che di fronte a me non devi dire cosa [285a] tanto zotica, che cioè io voglia la morte di coloro che mi stanno più a cuore.
XIII. Allora io, poiché mi sembrò che vicendevolmente si coprissero di eccessive villanie, mi rivolsi a Ctesippo scherzando e dissi: - Ctesippo, io penso che dagli ospiti sia necessario accettare quel che dicono, se tale è il dono che vogliono farci, e non sottilizzare sulle parole. Oh sì! perché se sono capaci di far morire gli uomini, sì da restituirceli poi da malvagi e sciocchi, che erano, buoni e saggi, [b] o che questa forma di eccidio e di sterminio sia una loro trovata e l’abbiano imparata da altri, si che dopo avere ucciso un malvagio lo facciano riapparire buono, se costoro, dunque, sono capaci di questo - ed è evidente che ne sono capaci poiché hanno dichiarato che l’arte da loro recentemente scoperta consiste proprio nel rendere gli uomini da malvagi buoni -, ebbene, si sia d’accordo con loro: ci facciano pure morire questo ragazzo e ce lo restituiscano saggio, insieme a tutti noi. Se voi giovani avete paura, tutto il rischio dell’esperimento si faccia su di me come su di un Cario. Personalmente, poiché sono anche vecchio, [c] sono pronto a correr tale rischio e ad affidarmi a Dionisodoro, come alla Medea di Colchide: mi uccida e, se vuole, mi cucini, e faccia di me tutto quel che desidera, pur che mi restituisca buono. E Ctesippo: - Anche io, Socrate, disse, sono pronto ad affidarmi a questi due stranieri, e, se vogliono, mi spellino ancor più di quanto mi stanno spellando ora, solo che in otre non finisca la mia [d] pelle, come quella di Marsia, ma in virtù. Dionisodoro, qui presente, ritiene ch’io sia irritato con lui: no, non sono affatto in collera, ma contraddico quelle cose che sconvenientemente mi sembra egli abbia detto nei miei confronti. E tu, nobile Dionisodoro, non chiamare offesa la contraddizione: altra cosa è l’offesa!
XIV. Dionisodoro allora: - Tu, disse, Ctesippo, parli come se la contraddizione fosse reale? - Senza dubbio, [e] rispose, e come! Perché tu, Dionisodoro, non pensi che esista il contraddire? - Già!, affermò, ma tu non potrai dimostrarmi d’avere mai ascoltato qualcuno contraddire un altro. - Dici la verità!, disse, ma se mi stai ascoltando ti sto in atto dimostrando che Ctesippo contraddice Dionisodoro. E puoi anche assicurarci di saperne dare ragione? Senza dubbio!, esclamò. - E allora, chiese, per ogni singola cosa che è, vi sono corrispondenti parole? - Certo! E dunque, anche, per come ciascuna cosa è o non è? Come è. - Eh sì, Ctesippo, perché, se ti ricordi, proseguì, anche poco [286a] fa abbiamo dimostrato che nessuno può dire come una cosa non è, ché di ciò che non è, è chiaro, nessuno parla. - E con questo disse Ctesippo: ci contraddiciamo forse meno io e tu - Potremmo forse, replicò, contraddirci discorrendo ambedue della stessa cosa, o, così, senza dubbio, diremmo la medesima cosa? Fu d’accordo. - Ma se nessuno dei due, proseguì, discorre di una certa cosa, potremmo in tal caso contraddirci? o, [b] così, nessuno di noi due non menzionerebbe neppure la cosa? Ctesippo fu d’accordo anche in questo. - Ma, forse, ciò avviene quando io parlo di una cosa e tu di un’altra? può darsi sia allora che ci contraddiciamo? oppure quando io parlo d’una cosa e tu non parli affatto? Ma chi non parla può contraddire chi parla?
XV. Ctesippo rimase in silenzio, ma io, meravigliato per quel suo discorso, dissi: - Cosa dici, Dionisodoro? Codesto tipo di discorso, non nuovo, che già da molti e [c] spesso ho ascoltato, mi ha sempre meravigliato (i seguaci di Protagora ne facevano largo uso ed anche altri in epoca più antica; a me personalmente desta sempre meraviglia, ché, mi sembra, butta in aria non solo gli altri ragionamenti, ma anche se stesso); ora, credo che da nessuno meglio che da te potrò sapere la verità. In altri termini, insomma: dire il falso non esiste? questa la sostanza del discorso, non è così? In definitiva, dunque, quando si parla si dice la verità o non si dice nulla? Acconsentì. [d] - Può darsi, invece, che non esista dire il falso, ma opinare il falso? - Neppure opinare il falso, rispose. - E allora, aggiunsi, neppure esiste opinione falsa? - No!, rispose. - Neppure, dunque, ignoranza e uomini ignoranti; o l’ignoranza, se ci fosse, non altro sarebbe appunto che l’ingannarsi sulle cose? - Sicuro!, disse. - Ma questo non è [possibile], aggiunsi. - No!, rispose. - Ma tu, Dionisodoro, dici così per dire, per assurdo, o veramente credi che nessun uomo sia ignorante? [e] - E tu, confutami!, rispose. - Ma, secondo il tuo ragionamento, è mai possibile confutare se nessuno s’inganna? - Impossibile, rispose Eutidemo. - E allora, aggiunsi, neppure Dionisodoro m’incitava ora a confutarlo? - E chi potrebbe incitare a cosa che non esiste? Forse tu inviti a questo? - Caro Eutidemo, dissi, è un fatto che in codesti vostri virtuosismi, anche in quelli che sono bene impostati, io non ci capisco un gran che; poco agile è il mio intelletto! Ti farò, dunque, una domanda forse [287a] un po’ troppo grossolana, ma perdonami. Vedi un po’: se non esiste né l’ingannarsi, né l’opinare falsamente, né l’essere ignorante, non sarà neppure possibile sbagliare quando si faccia una qualsiasi cosa, ché non è possibile che facendo quel che si fa si sbagli: non dite così? - Certo, rispose. - Ed ecco, dissi io, la mia grossolana domanda: se non erriamo, né operando né parlando né ragionando, se così è, voi, per Zeus, cosa mai ci venite a insegnare? O non dichiaravate prima che meglio di tutti [b] sapevate insegnare la virtù a chi la desideri apprendere?
XVI. Dionisodoro allora, prendendo la parola, disse: - Sei così invecchiato, Socrate, da ricordare ora quel che si è detto prima e se anche ho detto una cosa l’anno scorso adesso la ricordi, ma non sei capace di trarti d’impaccio da quel che si dice in questo momento? - Eh sì, dissi, ché voi parlate in modo estremamente difficile; naturale: parole di sapienti sono le vostre! e anche da questo tuo ultimo discorso non è facile affatto trarsi d’impaccio. Dicendo, infatti, ch’io non riesco a trarmi d’impaccio, cosa vuoi dire Dionisodoro? o è chiaro ch’io [c] non saprò confutarlo? Perché dimmi, quale altro significato può avere la tua affermazione: "Non riesco a trarmi d’impaccio dalle tue parole"? - Difficile, invece, egli disse, è trarsi d’impaccio da quello che dici tu: sù via, rispondi! Ed io: - Prima della tua risposta, Dionisodoro? - Non rispondi?, disse. - E sarebbe giusto? - Giusto sì!, esclamò. - Per quale ragione?, aggiunsi: evidentemente perché tu sei giunto qui, di fronte a noi, [d] ultrasapiente nei discorsi, e sai quando si debba rispondere e quando no? E ora non rispondi nulla perché sai che non si deve? - Tu cianci, disse, invece di rispondere. Ma, buon uomo, dà retta e rispondi, dal momento, poi, che sei d’accordo ch’io sia sapiente. - A quanto sembra, esclamai, è necessario ch’io ti dia retta, poiché sei tu a dirigere la discussione! Interroga, dunque. - E allora, gli esseri che hanno ragione hanno una ragione perché hanno un’anima, o hanno ragione anche gli esseri senz’anima? - Quelli che hanno un’anima. - Ma sei a conoscenza, disse, che le parole abbiano un’anima? [e] No, per Zeus! - E perché allora poco fa mi chiedevi che ragione avessero per me quelle parole? - E perché mai, risposi, se non perché ho errato per stupidaggine? o non sono caduto in errore, ma ho anche detto questo rettamente, che cioè le parole hanno una ragione? Dimmi, insomma, ho sbagliato o no? Se non ho sbagliato, neppure tu potrai confutarmi per quanto sapiente tu sia, né saprai come trarti d’impaccio dal mio discorso; se, invece, ho sbagliato, neppure così tu parli rettamente, sostenendo ch’è impossi-[288a] bile sbagliare. E ciò non dico relativamente a quello che affermavi un anno fa. Sembra, infatti, Dionisodoro e Eutidemo - aggiunsi -, che tale affermazione rimanga ferma allo stesso punto, e che ora, come prima vada a cadere precipitando nel nulla: e un modo perché non le succeda questo non è ancora stato trovato, neppure dalla vostra arte, pur così meravigliosa nell’acribia dei ragionamenti. E Ctesippo: - Cose meravigliose, certo, esclamò, uomini di Turi e di Chio , o di dove e come vi piaccia [b] essere chiamati, voi dite, ma come poco v’interessa divagare. Ed io, temendo che si tornasse agl’insulti, eccomi di nuovo ad accarezzare Ctesippo, dicendo: - Ctesippo, ciò che or ora dicevo a Clinia ripeto a te: non conosci quanto meraviglioso sia il sapere di questi stranieri. Solo che non desiderano darcene prova seriamente, ma, imitando Proteo, quel sofista egiziano, cercano sedurci con incantesimi. Noi, invece, imitiamo Menelao e non [c] liberiamo né l’uno né l’altro, finché non ci si mostrino in ciò di cui seriamente si occupano. Oh sì, sono convinto ch’essi ci riveleranno qualcosa di molto bello, allorché cominceranno a parlare sul serio. Ma, dunque, preghiamoli, incitiamoli, supplichiamoli di rivelarsi. Io stesso, perciò, ritengo di mostrare loro di nuovo come io li supplico perché ci si rivelino. Sì, riprendendo il discorso da dove l’avevo lasciato, mi sforzerò, come meglio posso, di pre-[d] sentare ciò che v’era da dire poi, per vedere se riesco a provocarli e pietosi e compassionevoli per me, che sono tutto teso e impegnato sul serio, a loro volta s’impegnino.
XVII. Tu, Clinia, aggiunsi, ricordami il punto in cui, allora, avevamo interrotto il discorso. A quel che mi sembra, più o meno a questo punto: alla fine, eravamo rimasti d’accordo che si dovesse "filosofare". No? - Sì, rispose. - La filosofia consiste in un possesso di scienza: non è così?, domandai. - Sì, rispose. - Ora, quale è la scienza acquisita, che appunto è bene avere acquisita? [e] Cosa semplicissima, no?, la scienza che possa esserci utile. - Certo!, disse. - Ricaveremmo qualche utilità, se girando dappertutto riuscissimo a conoscere la maggiore quantità di oro? - Forse, rispose. - Solo che un momento fa, proseguii, proprio questo confutavamo, e cioè che avremmo un qualche utile sia pur se, senza fatica alcuna e senza scavare la terra, tutto ci si tramutasse in oro, per cui anche se fossimo capaci di convertire le pietre in oro, tale scienza potrebbe avere un [289a] qualsivoglia valore. Sì, perché se anche non sapessimo servirci dell’oro, non ne trarremmo, come abbiamo già chiarito, alcuna utilità. Non ricordi?, chiesi. - Lo ricordo benissimo, rispose. - Non solo, ma, sembra, neppure dalle altre scienze ci deriva un utile; né dalla crematistica, né dalla medicina, da nessun’altra scienza, capace di operare qualcosa, ma non di servirsi di ciò che fa. Non è così? - Fu d’accordo. - E neppure se [b] ci fosse una scienza che sapesse farci immortali, ma che poi non sapesse servirsi dell’immortalità, neppure da tale scienza, evidentemente, trarremmo una qualche utilità, se dobbiamo giudicare almeno in conseguenza di ciò su cui eravamo rimasti d’accordo. Anche su tutto ciò ci trovammo d’accordo. - Mio bel ragazzo, dissi, abbiamo dunque bisogno di una scienza fatta in questo modo, che il fare coincida con il sapersi servire di quello che si fa. - Sembra, disse. - Evidentemente, dunque, abbiamo [c] bisogno di ben altro che dell’arte di divenire abili costruttori di lire e padroni di tale scienza, ché, qui, l’arte che produce è distinta dall’arte che si serve del suo prodotto: sono due arti distinte anche se unico ne è l’oggetto. Senza dubbio l’arte di costruire le lire e l’arte di suonar la cetra sono assai diverse tra di loro. Non è così? - Certo. - Evidentemente, perciò, neppure abbiamo bisogno dell’arte di costruire flauti, ché anche questa è un’altra arte della stessa specie. Egli fu della mia stessa opinione. - Ma, per gli dèi, aggiunsi, se imparassimo l’arte di fare discorsi, forse sarà questa che dovremmo possedere per essere felici? - Non lo so, disse Clinia, a sua volta. - Ma come puoi provarlo?, dissi. Rispose: - Vedo alcuni [d] compositori di discorsi che dei propri discorsi, che essi stessi fanno, non sono affatto capaci di servirsi, come i fabbricanti di lire, mentre, anche qui, vi sono altri che sanno servirsi dei discorsi composti dai primi, ma incapaci di comporne da sé. Evidentemente, dunque, anche relativamente ai discorsi, altro è l’arte di fare discorsi, altro quella di usarne. - Mi sembra, dissi, che tu ci dia un’adeguata prova che l’arte di fare discorsi non è quella che dovremmo possedere per essere felici. Eppure io pensavo, se mai, che in tale arte avrebbe dovuto rivelarsi la scienza [e] che da tempo andiamo cercando. Certo, perché simili uomini, questi compositori di discorsi, quando mi capita di trovarmi con loro, mi sembrano, Clinia, ultrasapienti, e dettata da un dio e sublime l’arte loro. Né c’è da stupirsi, ché tale arte è, sia pur piccola, una parte dell’arte incantatoria ed appena inferiore a questa. L’incantatoria è l’arte [290a] di fascinare vipere, tarantole, scorpioni, altre bestie e malattie; così l’arte dei discorsi viene ad essere l’arte di fascinare e di addolcire giudici, assemblee e altre folle. O a te, dissi, sembra altrimenti? - No!, esclamò, a me sembra proprio come tu dici. - E dunque, proseguii, dove mai ci dovremmo rivolgere? a quale arte - Non saprei davvero, rispose. - Ma, dissi, penso di averla [b] trovata. - E qual è?, chiese Clinia. - Mi sembra, risposi, che più di ogni altra sia l’arte della strategia, quella che, quando uno la possegga, fa essere felici. - Non mi sembra. - E perché?, domandai. - Perché, in realtà, essa è arte di cacciare uomini. - E con ciò?, dissi. - Nessuna delle arti relative alla caccia va oltre il cacciare e il conquistare la preda. E quando, appunto, abbiano conquistato ciò di cui vanno a caccia, non sanno servirsene, tanto è vero che cacciatori e pescatori offrono il bottino ai cuochi; i geometri, gli astronomi, i maestri del calcolo [c] (anche questi sono cacciatori, ché, in effetto, ciascuno di loro non costruisce le figure, ma rintraccia quelle che già sono), tutti costoro, come quelli che non sanno servirsi delle loro arti, ma solo cacciarle, consegnano le loro scoperte ai dialettici perché ne usino; quelli almeno tra di loro che non siano dei puri folli. - E sia, dissi, bellissimo e sapientissimo Clinia: ma è proprio così? - Senza dubbio! E, aggiunse, nello stesso modo fanno gli [d] strateghi; quando abbiano conquistata una città o un accampamento, li consegnano ai politici (per proprio conto, infatti, non sanno servirsi di quello che hanno cacciato), come credo facciano i cacciatori di quaglie che consegnano quegli uccelli ai relativi allevatori. E allora, proseguì, se abbiamo bisogno di un’arte capace di servirsi di ciò che abbia acquistato per averlo fatto o cacciato, e se tale deve essere da farci felici, è da cercarne un’altra, concluse, diversa dall’arte della strategia.
[e] XVIII. CRIT. Che dici, Socrate? Quel ragazzo parlò in tale modo ? SOCR. Non lo credi, Critone ? CRIT. Ah no! per Zeus! Personalmente credo che se avesse pronunciato queste parole, non avrebbe bisogno per la sua formazione né di Eutidemo né di alcun altro uomo. SOCR. Per Zeus! che sia stato Ctesippo a dire queste cose, e [291a] io non me ne ricordi? CRIT. Ma quale mai Ctesippo? SOCR. Questo lo so con sicurezza, invece; tali parole non le dissero né Eutidemo né Dionisodoro. Ma, mio divino Critone, che a proferire tali parole sia stato uno degli esseri superiori lì presente? Certo, che abbia udito tali parole, lo so bene! CRIT. Sì, per Zeus, Socrate: credo anch’io sia stato uno degli esseri superiori, e molto! Ma poi, quale mai altra arte cercaste? E trovaste o no quella che ricer-[b] cavate? SOCR. E dove trovarla, beato amico mio? Facemmo ridere, piuttosto! Come i ragazzi che corrono dietro alle allodole, così noi, rincorrendo le scienze ad una ad una, credevamo sempre d’esser sul punto d’afferrarne una e sempre ci sfuggivano. A nulla serve raccontarti le molte cose che dicemmo. In conclusione, giunti all’arte regia ed esaminando se fosse quella che permetta ed assicuri la felicità, qui caduti come in un labirinto, mentre credevamo d’esser giunti in fondo, ci accorgemmo invece, ad una svolta, d’essere tornati ancora al punto di partenza della nostra analisi e nella stessa difficoltà in cui ci trovavamo [c] all’inizio della ricerca. CRIT. Ma come vi accadde questo, Socrate? SOCR. Ti spiegherò. Ci sembrò che l’arte politica e l’arte regia fossero una sola e identica arte. CRIT. E allora? SOCR. E che a quest’unica arte, sia l’arte della strategia sia le altre, diano, perché li facciano proprii, i prodotti di cui sono artefici, come alla sola che abbia la scienza di servirsene. Ci sembrò, dunque, chiaro che quella fosse l’arte che ricercavamo e la causa del retto [d] agire nella città e che semplicemente essa sola, secondo il giambo di Eschilo, stesse alla poppa dello stato governando tutto, e, tutto avendo in mano, facesse sì che tutte le cose avessero una loro utilità. CRIT. Vi sembrava, dunque, di aver pensato giusto, Socrate?
XIX. SOCR. Lo giudicherai, Critone, se vuoi ascoltare anche ciò che in séguito ci accadde. Cominciammo di nuovo il nostro esame all’incirca così: sù via, l’arte regia, avendo in mano il governo di tutto, realizza qualcosa a nostro [e] vantaggio, o nulla? Senza dubbio, ci dicemmo l’un l’altro. Anche tu, no ?, diresti lo stesso, Critone? CRIT. Anch’io! SOCR. E allora, in cosa diresti che consiste la sua opera? Come, ad esempio, se io ti chiedessi: la medicina, avendo in mano il governo di tutto ciò che è in suo dominio, cosa realizza? Non diresti la salute? CRIT. Certo! SOCR. E la vostra arte, l’agricoltura, avendo in [292a] mano il governo di tutto ciò che è in suo dominio, cosa realizza? Non diresti che ci procura il nutrimento che si ricava dalla terra? CRIT. Senza dubbio. SOCR. E l’arte regia, avendo in mano il governo di tutto ciò che è in suo dominio, cosa realizza?... E qui, forse, non trovi una facile risposta. CRIT. Eh no, per Zeus!, Socrate. SOCR. Neppure noi, Critone. Ma questo almeno lo sai: se è quella che ricercavamo, necessariamente essa deve esserci utile. CRIT. Ma certo! SOCR. Deve dunque offrirci un qualche bene? CRIT. Necessariamente, Socrate. SOCR. Ma un bene - io e Clinia eravamo rimasti vicendevolmente [b] d’accordo - non può essere altro che una certa scienza. CRIT. Sì! dicevi in questo modo. SOCR. Ora, tutte le altre funzioni che si possono attribuire all’arte politica (e molte possono essercene, come far sì che i cittadini siano ricchi, liberi, non divisi in fazioni), tutte queste si sono già dimostrate né cattive né buone, mentre bisognerebbe che l’arte politica rendesse sapienti e partecipa di scienza i cittadini, se davvero volesse essere arte utile e che faccia felici. CRIT. [c] Esattamente! Così almeno eravate rimasti d’accordo, tenendo conto di ciò che hai riferito di questi vostri discorsi. SOCR. Ma l’arte regia fa gli uomini sapienti e virtuosi? CRIT. Cosa mai lo vieta, Socrate? SOCR. Ma virtuosi tutti e a tutto capaci? l’arte regia che dà luogo a ogni scienza: a quella del calzolaio, del falegname, a tutte? CRIT. Non credo, Socrate. SOCR. Ma quale scienza allora ci dà? [d] Quale vantaggio ne trarremo? Ché relativamente alle sue realizzazioni non deve produrre alcuna di quelle che non sono né buone né cattive e altra scienza non ha da offrirci se non se stessa. Dobbiamo, dunque, dire quale scienza sia quella e quale uso ne faremo? Vuoi, Critone, che si dica esser la scienza mediante cui renderemo virtuosi gli altri? CRIT. Senza dubbio. SOCR. Ma essi saranno virtuosi per noi relativamente a che, e a cosa utili? O dobbiamo dire che faranno altri virtuosi, e questi altri ancora? Solo che ciò per cui sono virtuosi non ci si svelerà mai, [e] dal momento che abbiamo tolto ogni valore a quelle che dicevamo le realizzazioni della politica, sì che in realtà si verifica il detto "Corinto figlio di Zeus" , e, come sostenevo, siamo al punto di partenza, o peggio, non sappiamo affatto quale sia la scienza che potrebbe farci felici. CRIT. Per Zeus, Socrate, sembra che vi siate infilati in una via senza uscita. SOCR. Eh sì, Critone! Io stesso, dal mo-[293a] mento che mi accorsi d’essere cascato in tale vicolo cieco feci uso di tutta la mia voce per chiedere a quei due forestieri, quasi invocassi i Dioscuri, che ci salvassero, me e il ragazzo, dalla terza ondata, del discorso, e che, comunque, facessero sul serio, e che seriamente ci mostrassero quale sia la scienza che dovremmo acquisire per trascorrere bene il resto della vita. CRIT. Ma Eutidemo volle indicarvi qualcosa? SOCR. Come no? Anzi, compagno mio, in orgoglioso modo cominciò con le seguenti parole:
[b] XX. - Socrate, disse, questa scienza, intorno a cui da tempo vi andate smarrendo, te la debbo insegnare, o dimostrarti che già la possiedi? - Beato uomo!, esclamai, sei capace di questo? - Senza dubbio, rispose. - Per Zeus, mostrami allora che già la posseggo: per chi abbia la mia età è di gran lunga più facile che apprenderla! - Rispondimi, dunque, egli disse: sai qualcosa? Certo, risposi, e molte, anche se di poco valore. - Basta, disse; credi, dunque, che qualsivoglia delle cose che sono possa essere quella che è; ma anche non essere? - Non [c] lo credo affatto, per Zeus! - Tu, dunque, disse, sai qualcosa? - Sì. - E allora, se sai, sei uomo di scienza. - Sì, sì! ma ho scienza di quella certa cosa. - Non importa; e non è necessario che tu sappia tutto perché si possa dire che tu abbia scienza! - Eh no, per Zeus! ché di molte altre cose non ho scienza. Ma allora, se vi sono cose che non sai, non sei sapiente. Di queste sicuramente no, amico mio, dissi. - E per questo, aggiunse, sei forse meno ignorante? Ma se appena ora, dicevi d’essere sapiente! E così, pur essendo lo stesso, ti succede, sotto lo stesso rispetto e ad un tempo, d’essere quello che sei e di non esserlo. - E sia, Euti-[d] demo, risposi, ché, come si afferma, tu dici tutto bene; ma, dunque, com’è ch’io so quella scienza che ricercavamo? E’ vero, è impossibile che la stessa cosa sia e non sia: se so una cosa le saprò tutte (non posso essere a un tempo sapiente e ignorante); e poiché so tutto, è in me anche quella scienza. E’ questo che dici? E questa è la tua gran bravura? [e] - Ecco, Socrate, disse: ti confuti da te stesso. - In che modo, Eutidemo?, chiesi, non ti trovi anche tu nella stessa situazione? Personalmente, con te e con Dionisodoro capo diletto, sono pronto a trovarmi, senza turbamento alcuno, in qualsiasi situazione. Dimmi: non vi sono forse cose che voi sapete e altre che non sapete? - Assolutamente nessuna, Socrate!, esclamò Dionisodoro. - Cosa dite mai!, aggiunsi: ma, dunque, non sapete nulla? [294a] - Anzi, rispose. - E allora, proseguii, poiché sapete qualsiasi cosa, sapete tutto? - Tutto, rispose, ed anche tu, se ne sai una, le sai tutte. - Zeus!, dissi, che meraviglia sostieni e quale mai grande bene si è rivelato! E anche tutti gli altri uomini sanno tutto o nulla? - Sì, perché, disse, è impossibile che sappiano alcune cose e altre no, e siano ad un tempo sapienti e ignoranti. - E allora?, chiesi. - Tutti, disse, sanno tutto, basta [b] sappiano una sola cosa. - Per gli dèi, Dionisodoro!, esclamai, ora sì, evidentemente, che parlate sul serio, e, sia pur con fatica, mi è riuscito farvi discorrere con serietà. Sapete tutto, dunque? Anche l’arte del falegname e del calzolaio? - Senza dubbio, rispose. - E siete anche capaci di rattoppare le scarpe? - Sì, per Zeus, e anche di risuolare!, esclamò. - E anche questo sapete, quante siano le stelle e quanta sia la rena? - Senza dubbio, rispose: perché, tu pensi che avremmo detto di no?
XXI. Ctesippo, allora, presa la parola, disse: - Per Zeus, [c] Dionisodoro, offritemi di questo una prova tale ch’io possa convincermi che dite la verità. - Ma quale prova?, chiese. - Sai quanti denti ha in bocca Eutidemo, ed Eutidemo quanti ne hai tu? - E non ti è sufficiente ascoltare che sappiamo tutto?, disse. - Per nulla, risposi: ma ditemi ancora questo solo e offritemi così la prova che dite la verità. Se riuscirete a dire quanti denti ha ciascuno di voi, e noi, avendoli contati, vedremo che lo sapete, vi crederemo in tutto e per tutto. Ritenendosi canzonati, [d] non vollero rispondere, ma interrogati da Ctesippo su ogni singola cosa, sostennero di saperle tutte: Ctesippo, anzi, apertamente, non ci fu nulla che non finisse per chieder loro se la sapessero, anche le cose più vergognose. Essi con estremo coraggio, affrontavano le domande, concordi nel dire che sapevano, come i cinghiali che si avventano contro il colpo, tanto che anche io, Critone, fui alla fine obbligato dalla mia incredulità a chiedere se Dionisodoro sapesse anche intrecciare danze. Ed Eutidemo: - Cer-[e] to!, esclamò. E io di rincalzo: - Ma non penso tu sia tanto abile, vecchio come sei, da fare i salti mortali sui coltelli e girare sulla ruota : non sarai mica andato tanto oltre con la tua sapienza? - Nulla v’è, che non sappiamo!, esclamò. E io: - Solo ora sapete tutto o lo sapete da sempre?- Da sempre, rispose. - Anche da piccoli, anche appena nati sapevate tutto? - Sì!, [295a] tutti e due risposero insieme. In realtà la cosa ci sembrava incredibile, per cui Eutidemo disse: - Ma come, Socrate, non ci credi? - Oh no!, risposi, se non che può darsi che siate sapienti. - E allora, aggiunse, se vuoi rispondermi, mostrerò che anche tu sei d’accordo su questi miracoli. - Ma, dissi, nulla mi farebbe più lieto che d’esser confutato. Se mi è sempre rimasto nascosto ch’io sia sapiente e tu, invece, mi dimostrerai che so tutto e l’ho sempre saputo, quale mai maggiore scoperta potrei fare in tutta la mia vita?
[b] XXII. - E, dunque, rispondi, disse. - Eccomi qua, domanda! - Socrate, chiese, hai conoscenza di qualcosa, oppure no? - Io sì! - E quel che conosci, lo conosci mediante ciò per cui sai, o con altro? - Con ciò stesso, ché, io credo, tu alludi all’anima: non vuoi forse parlare dell’anima? - Non ti vergogni, Socrate?, disse, che interrogato fai il contro-interrogatorio? - Giusto, risposi: ma cosa debbo fare? Farò proprio come tu mi ordini. Quando non so quello che mi chiedi, mi ordini di rispondere ugualmente, ma senza chiedere spiegazione? [c] - In qualche modo, infatti, afferri ciò che dico, affermò. - Certo, dissi. - Rispondi allora secondo ciò che comprendi. - Ma, dissi, se tu interroghi altro intendendo e io altro comprendo, e rispondo quindi secondo quel che ho capito, ti è sufficiente ciò, anche se non ti rispondo a proposito? - A me sì, disse, ma non a te, penso. - No, per Zeus!, esclamai, né risponderò se prima non mi è chiara la cosa. - Non risponderai, disse, secondo il significato da te a volta a volta accettato, perché continui a dire sciocchezze e sei oltremodo vecchio. [d] Mi resi conto che si sarebbe arrabbiato con me, se avessi seguitato a distinguere quel che diceva, poiché voleva prendermi attorniandomi con le sue parole, e mi tornò alla mente Conno, che si arrabbia con me ogni qual volta non gli cedo, e che poi non mi cura più essendo io incapace di apprendere. Poiché, dunque, avevo intenzione di frequentare anche lui, mi sembrò opportuno cedergli, sì che, non ritenendomi un ignorante, non mi rifiutasse di frequentarlo. Dissi allora: - Ma sì, Eutidemo, [e] se credi si debba fare così, facciamolo. Tu sai discutere molto meglio di me, che non ho la tecnica di un professionista. Domanda dunque da capo. - Rispondi di nuovo, disse, se ciò che sai, lo sai con qualcosa, oppure no. - Sì, risposi, con l’anima. - Ci risiamo, esclamò: si mette [296a] a rispondere più che non gli si chieda. Non ti chiedo con che cosa, ma se conosci con qualcosa. - Oh sì, dissi, ho risposto più del dovuto per ignoranza. Ma perdonami: ti risponderò con tutta semplicità che quel che conosco lo conosco con qualcosa. - Sempre, chiese, con la stessa cosa, o ora con questa, ora con altra? - Sempre con questa, risposi, quando conosca. - Ancora!, disse, non vuoi proprio smetterla con le aggiunte?- Ma che ci debba trarre in errore quel ‘sempre’? - Noi no!, [b] esclamò, se mai te. Ma rispondi: conosci sempre con questa? - Sempre, risposi, dal momento che si deve eliminare il ‘quando’. - Tu, dunque, conosci sempre con la stessa cosa, e, poiché conosci sempre, certe cose le conosci forse con questa con cui apprendi, altre con altra, o tutto con questa? - Tutto con questa, dissi, ciò che almeno conosco. - Ma via, esclamò, ancora un’aggiunta. - E va bene, dissi, taglierò via quell’‘almeno ciò che conosco’. - No, no! Non tagliar [c] via neppure un ette: non ho bisogno di te. Rispondimi piuttosto: saresti capace di conoscere tutto, se non conoscessi ogni cosa? - Sarebbe un prodigio, risposi. E lui: - Aggiungi ora tutto quello che vuoi, ché hai convenuto di sapere tutto. - Evidente, risposi, dal momento che quel ‘ciò che conosco’ non ha alcun significato; e sia: conosco tutto. - E con questo hai convenuto anche di conoscere sempre con quella stessa cosa con cui conosci, sia "quando" conosci sia altrimenti, a modo tuo, ché hai convenuto, appunto, di conoscere sempre e tutto a un tempo. Evidentemente conoscevi, dunque, anche da pic-[d] colo, appena nato e perfino al momento in cui fosti concepito; e prima ancora d’esser generato, e ancor prima che cielo e terra fossero generati, conoscevi tutto, se da sempre conosci. Sì, per Zeus! - esclamò - di tutto e sempre avrai scienza, qualora io lo voglia.
XXIII. - Fosse che tu lo volessi, dissi, famosissimo Eutidemo, se davvero dici la verità. Ma non mi fido che tu ci riesca, se con te non lo vuole anche tuo fratello, Dionisodoro: così forse... Ma ditemi, aggiunsi: ché per il resto [e] non ho nulla da opporre a voi uomini di sì portentosa sapienza, che io non sappia tutto, dal momento che così dichiarate, va bene, ma ditemi: come, Eutidemo, potrei affermare di saper questo, che gli uomini virtuosi sono ingiusti. Ti prego, dimmi: questo lo so o non lo so? - Certo che lo sai, disse. - Ma cosa?, chiesi. - Che i virtuosi non sono ingiusti. - Sì, dissi, lo sapevo da [297a] tempo. Ma non è questo che chiedo; domando invece: dove ho appreso che i virtuosi sono ingiusti? - In nessun luogo, rispose Dionisodoro. - Allora, dissi, questo non lo so. - Mi mandi in rovina il ragionamento, disse Eutidemo a Dionisodoro, sì che lui apparirà senza scienza, e perciò sapiente e ignorante a un tempo. Dionisodoro arrossì. E io allora dissi: - Ma tu che dici, [b] Eutidemo? Non ti sembra che tuo fratello parli correttamente, lui che sa tutto? - E sono io forse fratello di Eutidemo?, intervenne a colpo Dionisodoro. E io: - Lascia andare, mio buon amico, fino a che Eutidemo non mi abbia insegnato come io sappia che i virtuosi sono ingiusti: non siate avari di questo apprendimento. - Tu sfuggi, Socrate, disse Dionisodoro, ed eviti di rispondere. - Evidente, risposi: valgo tanto meno di uno solo di voi, pensa un po’ se non debbo fuggire dinanzi a due. Sono di [c] gran lunga meno capace di Eracle che non seppe ad un tempo affrontare l’Idra (era una sofista, e quando le si tagliava un capo del ragionamento, con la sua sapienza ne sostituiva molti al posto di quell’uno) e un granchio, altro sofista, venuto dal mare, e, credo, approdato da poco. E come questo lo tormentava da sinistra con parole e con morsi, chiamò in soccorso il nipote Iòleo, che gli [d] dette adeguato aiuto. Ma il mio Iòleo [Pàtrocle], se venisse, porterebbe un rimedio peggiore del male.
XXIV. - E allora, disse Dionisodoro, rispondimi, dal momento che ti sei esibito con codesto inno: Iòleo era nipote di Eracle più che tuo? - Dionisodoro, dissi, sarà per me molto meglio che ti risponda, altrimenti non smetterai d’interrogarmi, sì, lo so bene, per invidia e per impedire ch’Eutidemo possa insegnarmi quel suo sapere. - Rispondi, disse. - Rispondo, affermai, che Iòleo era [e]nipote di Eracle e, credo, niente affatto mio, ché suo padre non era Patrocle, mio fratello, ma solo uno che gli somiglia un po’ di nome, Ificle, fratello di Eracle. Dunque Patrocle è tuo fratello?, chiese. - Certo, dissi, ma della stessa madre, non dello stesso padre. - Egli, dunque, è e non è tuo fratello. - Dello stesso padre no di sicuro, ottimo amico, dissi, suo padre era infatti Cheredemo, il mio invece Sofronisco. - Ma padre, esclamò, era tanto Sofronisco quanto Cheredemo! - Sì, [298a] dissi, ma l’uno era mio, l’altro suo. - Ma allora, seguitò, Cheredemo era altro dal padre. - Dal mio, sì,! dissi. - Egli era, dunque, un padre essendo diverso da un padre? O tu sei lo stesso di una pietra? - Temo, affermai, che a causa tua io non appaia essere una cosa sola: ad ogni modo non mi sembra. Dunque, aggiunse, sei altro da questa pietra? Altro, senza dubbio. - E allora, proseguì, essendo altro da sasso non sei sasso? ed essendo altro da oro non sei oro? - Esatto! - Anche Cheredemo, dunque, disse, essendo altro da un padre, non è padre. - Evidentemente non è [b] padre, risposi. - E allora, subentrò Eutidemo, se Cheredemo è padre, Sofronisco, di nuovo, essendo altro da un padre non è padre, per cui tu, Socrate, sei assolutamente senza padre. E Ctesippo, prendendo a volo la parola: - Ma al padre vostro, non è capitato lo stesso? Egli è altro da mio padre? - Ce ne vuole!, esclamò Eutidemo. Ma allora, disse, è lo stesso? - Lo stesso sì! Non ne sarei contento ma, Eutidemo, è solo padre mio, o anche di tutti gli uomini? - Di [c] tutti, rispose, o ritieni che uno stesso uomo essendo padre, non sia padre? - In realtà credevo così, affermò Ctesippo. - Come, proseguì, pensavi che una cosa essendo oro non fosse oro? o essendo uomo non fosse uomo? - Attenzione, Eutidemo, disse Ctesippo, che non si debba rispolverare il proverbio "non cuci lino con lino". Stupefacente cosa è quella che dici, se tuo padre è padre di tutti. - Ma è proprio così!, esclamò. - Degli uomini, chiese Ctesippo, o anche dei cavalli e di tutti gli animali? Di tutti rispose. - E madre anche la madre? Anche la madre. - E [d] allora, incalzò, tua madre è madre anche dei ricci di mare? - Anche la tua, disse. - Tu sei, dunque, fratello dei ghiozzi, dei cagnolini e dei porcellini? - Anche tu, affermò. - E allora tu hai un padre che è insieme porco e cane. - Come il tuo, disse. Dionisodoro, allora, riprendendo la parola: - Di ciò, purché tu risponda, sarai sùbito convinto. Dimmi: possiedi un cane? E feroce, rispose Ctesippo. E ha cagnolini? Sì, e identici a lui, rispose. Loro padre è, dunque, il cane? - Senza dubbio: io stesso l’ho [e] visto, disse, coprire la cagna. E non è tuo il cane? - Proprio così, rispose. E’ dunque padre essendo tuo, onde il cane diviene tuo padre e tu fratello dei canini!
XXV E Dionisodoro, senza pigliare fiato, riprendendo sùbito la parola, per non esser prevenuto da Ctesippo, aggiunse: - Ancora una domandina: questo cane, lo picchi? E Ctesippo ridendo: Sì, per gli dèi, non potendo picchiare te, rispose. Tu, dunque, picchi tuo padre, [299a] affermò. - Quanto più giustamente picchierei vostro padre, disse, per essergli saltato in mente di dare i natali a figli così saputi! Ma, certo, Eutidemo, vostro padre, e padre dei cagnolini, deve aver raccolto molti beni da codesta vostra sapienza. - Solo che, amico Ctesippo, non ha bisogno di molti beni, né lui né tu. - Neppure tu, Eutidemo?, chiese. - Nessun uomo! Sì, perché dimmi, Ctesippo; pensi che per un ammalato sia un bene [b] o no bere la medicina, quando ce ne sia bisogno? oppure, quando si vada alla guerra, andarci armato piuttosto che disarmato? - Penso di sì, rispose, anche se immagino che stai per dirne delle belle. - Lo saprai benissimo, disse: ma ora rispondi: poiché sei rimasto d’accordo nel sostenere che per l’uomo bere la medicina è un bene quando ne abbia bisogno, altro non resta che di un tal bene beva quanto più è possibile e che per lui ottima cosa sarà se gli si triti e versi una carrata di elleboro? - Ma sicuro, Eutidemo!, disse Ctesippo, tanto più se chi lo beva sia grosso come la statua di Delfi. - Anche [c],in guerra, seguitò, poiché è bene avere armi, bisogna, dunque, avere quante più aste e quanti più scudi è possibile, ché, appunto, è bene? - Senza dubbio alcuno, esclamò Ctesippo; tu non lo pensi Eutidemo?, o credi che basti una sola asta e un solo scudo? - Penso di sì. - Avresti armato così anche Gerione e Briareo? Ti reputavo di maggior valore, in quanto uomo d’arme, te e questo tuo compagno. Eutidemo rimase in silenzio, ma [d] Dionisodoro, tenendo conto delle risposte date prima da Ctesippo, domandò: - Ti sembra, dunque, un bene possedere anche oro? - Eccome, e molto!, rispose Ctesippo. - Ebbene, non ti sembra che convenga avere sempre ed ovunque le cose buone? - Senza dubbio, disse. - Sei, dunque, d’accordo nel sostenere che anche l’oro è un bene? - D’accordo!, rispose. - Bisogna perciò averne sempre ed ovunque, e soprattutto in se [e] stesso? e al colmo della felicità sarebbe chi avesse tre talenti d’oro nel ventre, un talento nel cranio e uno statere aureo per ciascun occhio? - Non a caso, Eutidemo, disse Ctesippo, si narra che tra gli Sciti, sono ritenuti al colmo della felicità e ottimi quelli che posseggono molto oro nei propri crani, secondo lo stesso giuoco di parole da te usato per il cane, e ancor più degno di meraviglia è che essi perfino bevono nei propri aurei crani e vi guardano dentro, tenendo tra le mani la coppa della propria testa. [300a] - Ma gli Sciti e tutti gli altri, chiese Eutidemo, cosa vedono, le cose che possono vedere o quelle che non possono? - Ciò che possono vedere, certo! - Anche tu?, domandò. Anch’io! - Vedi dunque anche i nostri abiti? - Sì. - E anche questi possono vedere? - Più che naturale, rispose Ctesippo. - E allora?, chiese. - Nulla. Ma tu forse credi che non vedano, ingenuo come sei! Eutidemo, mi sembra che tu dorma a occhi aperti, e, se è possibile non dir nulla parlando, tu faccia proprio questo.
[b] XXVI. E Dionisodoro: - E perché, non è possibile stando in silenzio parlare? - Assolutamente no!, rispose Ctesippo. - E neppure parlando stare in silenzio? Tanto meno!, disse. - Ma quando tu dici ‘pietre legni’, ‘ferri’ non dici cose che stanno in silenzio? No certo, replicò Ctesippo, se vado in giro per le fucine; si dice anzi che là i ferri se uno li tocchi gridino e stridano forte: in virtù della tua sapienza ti è rimasto celato che in questo non hai detto proprio niente. Ma dimostrami il caso opposto, come cioè può tacere ciò che parla. Mi sembrava che Ctesippo fosse preoccupato [c] di far bella figura con il suo amato. - Quando stai in silenzio, chiese Eutidemo, non taci tutto? - Sì, rispose. - Taci, dunque, anche le cose che parlano? se queste fan parte del tutto? - E come?, chiese Ctesippo, non tace tutto? - Eh no!, esclamò Eutidemo. - Ma allora, mio caro, tutto parla? - Le cose che parlano sì! - Ma io, proseguì, non chiedo questo, ma se tutte le cose stanno in silenzio o parlano. - Né l’una cosa né l’altra, [d] e l’una e l’altra insieme, disse Dionisodoro afferrando la parola: so bene che a tale risposta non avrai nulla da opporre. Ctesippo allora, che al suo solito era scoppiato in una gran risata, esclamò: - Eutidemo, tuo fratello ha posto l’argomento sì da poter dare due risposte: egli è così perduto e disfatto. Clinia, lietissimo, si mise a ridere, sì che Ctesippo si fece dieci volte tanto. Quell’accidente di Ctesippo, ascoltando, aveva, mi sembra, saputo cogliere il loro segreto, ché una simile capacità nessun altro oggi la possiede.
[e] XXVII. Ma perché, Clinia, dissi, ridi di cose tanto serie e belle - E tu, Socrate, incalzò Dionisodoro, hai mai veduto una cosa bella? - Sì Dionisodoro, risposi, e molte. - E altre dal bello, chiese, o facenti una sola [301a] cosa con il bello? Mi accorsi d’essermi cacciato in un problema, e pensai ch’era giusto, avendoci voluto metter bocca, ma, comunque, risposi: - Altre, senza dubbio, dal bello preso in sé, per quanto in ciascuna sia presente un certo qual bello. - Ma allora, aggiunse, se ti venisse incontro un bue, tu saresti un bue? e poiché ora io ti sono vicino, sei Dionisodoro? - Sta zitto!, esclamai.- Ma in quale modo, disse, il diverso può essere diverso per il fatto che un diverso è presente a un diverso? [b] - E rimani indeciso su questo?, dissi io, che già tentavo d’imitare la tecnica dei due, per il desiderio che avevo d’esser sapiente come loro. - E come non restare indeciso, affermò, io e tutti su di una cosa che non è? - Ma che vai dicendo, Dionisodoro?, dissi, non è bello il bello e brutto il brutto? - Certo, se così mi sembra, rispose. - E ti sembra? - Senz’altro!, esclamò. - Anche l’identico, dunque, è identico e il diverso diverso? poiché è indubbio che il diverso non e identico; e io [c] che ritenevo che neppure un ragazzo potesse trovarsi in difficoltà su questo, che cioè il diverso è diverso! Ma tu, Dionisodoro, non a caso hai messo tra parentesi ciò, poiché, del resto, mi sembra che, come gli artigiani a ciascuno dei quali conviene fare il proprio lavoro, anche voi facciate perfettamente il vostro, che consiste nell’arte della dialettica. - E tu sai, disse, cosa convenga a ciascun artigiano? Innanzi tutto a chi conviene lavorare il ferro, lo sai? - Certo! al fabbro. - E far le stoviglie? - Al ceramista. - E scannare, scuoiare, e, spezzettata la carne, farla lessa o arrosto? - Al cuoco, dissi. -Chi, dunque, faccia ciò che gli è proprio, farà bene?, chiese. [d] - Benissimo. - E allora, come tu stesso dici, conviene spezzare il cuoco e scuoiarlo? L’hai ammesso, no? - L’ho ammesso, risposi, ma sii indulgente con me. - E’ dunque evidente, concluse, che se uno, scannato il cuoco e spezzettatane la carne, lo faccia lesso o arrosto, farà ciò che è bene faccia; e se uno fucini il fabbro e con un ceramista plasmi stoviglie, anche costui compirà ciò che è bene faccia.
[e] XXVIII. - Oh Poseidone!, dissi, sei oramai giunto a porre il fastigio dell’edificio della tua sapienza! Ma riuscirò mai ad acquisirla sì che divenga cosa mia propria? - E la riconosceresti, Socrate, disse, come cosa divenuta tua? - Se lo vuoi, certamente sì, risposi. - Ma tu, incalzò, credi davvero di conoscere le cose tue? - Senza dubbio, a meno che tu non dica altrimenti, poiché bisogna prendere le mosse da te e finire con Eutidemo. - E allora, seguitò, ritieni esser tue quelle cose di cui hai il [302a] governo a tuo piacimento e che puoi usare come vuoi? Ad esempio, buoi e pecore, ritieni essere tuoi nel senso che li puoi vendere e donare, o sacrificare a qualsivoglia dio ti piaccia? mentre ritieni cose non tue quelle di cui non puoi disporre in tal modo? Ed io (ritenendo che da queste domande sarebbe scaturita chissà mai quale bellezza, desideroso a un tempo di sentirla sùbito), risposi: - E’ così, senza dubbio: solo quelle cose sono mie. - E che?, disse, non chiami animali quelli che hanno un’anima? [b] - Sì, risposi. - E sei d’accordo nell’affermare che, tra gli animali, tuoi sono solo quelli dei quali puoi fare tutto ciò di cui or ora parlavo? - D’accordo. Ed egli, molto finemente fingendo, rimase silenzioso, come andasse pensando a cosa grande, e poi: - Dimmi, cominciò, o Socrate, hai uno Zeus patrio? Ed io, sospettando che il discorso andasse a finire dove in realtà cascò, cercavo di sfuggire a un avvolgimento senza via di uscita, e mi dibattevo in qua e in là come chi sia preso in una rete: - No, Dionisodoro, non l’ho, risposi. - Sei, dunque, un infelice uomo, né sei Ateniese, se non hai né patrii dèi né [c] sacri riti né altro di bello e di buono. - Lascia stare Dionisodoro, esclamai, taci e non insegnarmi così crudamente! anche io ho altari miei e sacri riti domestici e patrii, e tutte le cose di questo genere che hanno gli altri Ateniesi. - Gli altri Ateniesi non hanno dunque, chiese, uno Zeus patrio? - Tale denominazione, risposi, non è in uso né presso gli Ioni, né tra coloro che sono andati via [d] da questa città, né tra noi; noi abbiamo invece un Apollo patrio, poiché discendiamo da Ione. Zeus, presso di noi, non è detto patrio, ma domestico e fratrio, come Atena, detta appunto fratria. - E così sia, disse Dionisodoro: tu hai, dunque, sembra, un Apollo, uno Zeus e una Atena. - Certo!, risposi. - Codesti, dunque, sarebbero i tuoi dèi?, domandò. - Progenitori e signori, risposi. - Ma tuoi, ad ogni modo, disse. Non hai convenuto che sono tuoi? - L’ho ammesso, risposi, ma che ne può venire? - E tali dèi sono anche animali?, chiese; poiché sei [e] anche rimasto d’accordo nel sostenere che tutti gli esseri animati sono animali. O codesti dèi non hanno anima? - Certo che l’hanno, dissi. - E perciò sono anche animali? - Animali, risposi. - E non sei anche rimasto d’accordo nel sostenere che tuoi sono tutti quegli animali che hai il potere di donare, vendere, a qualsiasi dio tu voglia? - L’ho concesso!, esclamai, non c’è ritrattazione per me, Eutidemo. - Sù via, allora, [303a] riprese, dimmi sùbito: Poiché sei d’accordo nel sostenere che Zeus e gli altri dèi sono tuoi, sarà pure in tuo potere venderli, donarli o servirtene a tuo piacere, come gli altri animali? E io, Crotone, quasi colpito in pieno petto da quelle parole, rimasi senza voce; ma Ctesippo come per venirmi in aiuto, esclamò: Càspita, Eracle! Bel ragionamento! E Dionisodoro: Allora, disse, Eracle è càspita, o càspita Eracle ? E Ctesippo, di rimando: - Oh Poseidone, che terribili argomenti! Mi ritiro, sono imbattibili!
[b] XXIX. E qui, amico Crotone, nessuno dei presenti ci fu che non esaltasse oltre misura quel discorso e quei due, e poco ci mancò che per il gran ridere, batter di mani, schizzar di gioia, non scoppiassero. Se a ciascuno dei discorsi precedenti avevano sempre strepitosamente applaudito i soli innamorati di Eutidemo, a questo punto poco ci mancò che perfino le colonne del Liceo applaudissero i due e fossero tutte gioia. Io stesso mi ritrovai in una tale [c] disposizione d’animo da convenire di non avere mai conosciuto uomini tanto bravi, e totalmente soggiogato da quella loro competenza, mi trovai a intesserne le lodi e ad esaltarli, dicendo: - Oh voi beati, per codesta vostra mirabolante natura, che vi ha permesso di condurre a termine tanto grande opera in modo così breve e in poco tempo! I vostri discorsi, Eutidemo e Dionisodoro, hanno, certo, molte altre bellezze, ma tra queste la più splendida [d] è che non avete alcun interesse per la maggior parte degli uomini, e per i più venerabili e famosi, ma solo per coloro che sono simili a voi. In realtà, so bene che codesti discorsi possono esser gustati solo da pochi e simili a voi, mentre tutti gli altri li ignorano a tal punto che, ne sono pienamente informato, si vergognerebbero di confutare con simili discorsi gli altri, più che d’esserne confutati essi medesimi. Ma ciò che di più umano e civile c’è ancora nei vostri discorsi è che quando sostenete che nulla è bello o buono, o bianco e così via, e perfino che nulla è altro da [e] altro, semplicemente cucite la bocca delle persone, come dite voi stessi; solo che cucite non solo l’altrui bocca, ma, sembra, anche la vostra, e ciò è molto gentile e toglie ogni odiosità ai vostri discorsi. Il punto culminante è, però, questo, infine, che la vostra arte è tale, e trovata con tanta abilità, da poter essere appresa da tutti in pochissimo tempo. Personalmente me ne sono reso conto stando attento a Ctesippo, come egli, appunto in un baleno, si [304a] sia messo in grado di imitarvi. Senza dubbio il bello della vostra opera è che si trasmette in breve tempo: ma non cosa opportuna è il discutere dinanzi alla gente; anzi, credetemi, guardatevi bene dal parlare in pubblico, sì che molti non imparino rapidamente le vostre tecniche senza neppure rendervene grazie. Soprattutto, dunque, discutete solo tra voi due, e, se no, se pur dinanzi a qualcuno, a chi solo vi dia quattrini. Se siete gente di senno, lo stesso [b] consiglio darete anche ai vostri seguaci: non discutere mai con altri, se non tra di voi e con loro. Sì, Eutidemo, il raro è prezioso; nulla costa, invece, l’acqua, pur essendo ottima come dice Pindaro. Sù via - esclamai - accoglieteci tra i vostri, me e il nostro Clinia!
XXX. Dopo esserci scambiate queste parole e poche altre, ce ne andammo. Tu, dunque, guarda un po’ ora di venire con noi da quei due: si dichiarano capaci d’insegnare [c] a chi voglia pagare, senza porre limiti né di natura né di età, sì che chiunque possa agevolmente acquisire la loro scienza: peraltro (e questo t’interessa di più ascoltare), dicono che non impediscono di arricchirsi. CRIT. Socrate, senza dubbio alcuno, sono anch’io di quelli che amano ascoltare e che volentieri imparerebbero qualcosa; solo che anch’io rischio d’esser uno di quelli che non somigliano a Eutidemo, quanto piuttosto a coloro cui tu stesso accennavi, a coloro cioè che preferiscono essere con-[d] futati invece di confutare con argomenti di quella specie. Senza dubbio mi sembra ridicolo da parte mia rimproverarti, ma ugualmente desidero riferirti ciò che mi è capitato di udire. Sappi che uno di quelli, che venivano via dalla vostra seduta, mi si avvicinò mentre passeggiavo (un uomo in fama di gran sapiente, uno dei grandi nel comporre discorsi per i tribunali) e - Crotone, disse, non ascolti nulla di quello che dicono quei sapienti? - No, per Zeus, risposi, con tutta quella massa di gente non sono riuscito ad avvicinarmi tanto da poter sentire. - Eppure, esclamò, erano cose degne di essere ascoltate. - Perché?, domandai. - Per sentire discutere uomini [e] che oggi sono tra i più sapienti in simili discorsi. E io: - A te, che n’è sembrato? - Cosa altro mai, disse, se non d’avere ascoltato cose che in genere si ascoltano da simili chiacchieroni, che dedicano un indegno studio ad argomenti assolutamente indegni? All’incirca egli si espresse in questi termini. E io: - Ma la filosofia, replicai, è argomento attraente. - Attraente?, disse, ma [305a] via, non vale assolutamente nulla. Se tu fossi stato presente ora, penso che ti saresti vergognato, e non poco, per il tuo compagno, tanto fu assurdo il suo sproposito dì volersi affidare a uomini che non dànno alcuna importanza a quel che dicono e che capziosamente si attaccano ad ogni frase. E sì che, come dicevo, essi oggi vanno per la maggiore. In realtà, caro Crotone, questo loro lavoro preso in sé e gli uomini che intorno ad esso spendono il tempo in discussioni, sono delle nullità e son ridicoli. Personalmente, Socrate, ritengo che costui non avesse ragione di biasimare quel lavoro preso a sé, né, se vi sono, altri [b] che lo denigrano; ma il discutere pubblicamente con simili persone, questo mi sembra ch’egli facesse bene a biasimare.
XXXI. SOCR. Meravigliosi uomini, Crotone, sono costoro! Solo che io non so ancora cosa debbo dirne. Ma da dove viene colui che ti si è avvicinato e disprezzava la filosofia? Uno di quei tali abilissimi nei dibattiti giudiziari, un oratore, o uno di quelli che mandano in tribunale l’oratore, un compositore di quei discorsi di cui poi gli oratori si servono nel dibattito? CRIT. Oratore sul serio no, per Zeus, [c] né credo che sia mai salito in tribunale; ma, per Zeus, si dice che sia competentissimo in queste cose e abilissimo e componga abilissimi discorsi. SOCR. Sì sì, ho capito! Proprio di questi volevo ora parlare. Costoro, Crotone, sono tra quelli che Prodico definiva limitrofi tra il filosofo e il politico, e che ritengono d’essere i più sapienti di tutti e che, oltre ad esserlo, tali sono anche nell’opinione della [d] maggioranza. Solo quelli che si occupano di filosofia restano a impedire loro che tale fama divenga universale. Essi, dunque, pensano che, una volta gettato il maggior discredito sui filosofi, possano senza contrasti ottenere presso tutti il premio della vittoria nella reputazione del sapere. In verità ritengono d’essere i più dotti, ma anche pensano che quando vengono còlti in privati discorsi con persone del séguito di Eutidemo, n’escano con le ossa rotte. Pensano, insomma, d’essere assai sapienti (e con una qual certa ragione, ché ritengono di occuparsi con misura di filosofia e, con misura, di politica, secondo un ragionamento vero-[e] simile) e di partecipare della filosofia e della politica per quanto conviene, e, mantenendosi fuori dai pericoli e dalle competizioni, cogliere i frutti del sapere. CRIT. E allora? Ti sembra, Socrate, che dicano qualcosa? ché il loro ragionamento ha una certa qual sembianza di plausibilità. SOCR. Così è, Crotone: sembianza di plausibilità [306a] più che verità. Oh no non è facile convincerli che tanto gli uomini quanto tutte le cose che stiano in mezzo tra due, e accada loro di partecipare di ambedue, quante si compongano di una cattiva e di una buona, finiscono col divenire migliori dell’una, peggiori dell’altra, mentre quante si compongano di cose buone, non relativamente allo stesso fine, divengono peggiori d’ambedue rispetto al fine a cui serve ciascuna delle. due di cui partecipano; e che, invece, solo quante si compongono di due cose cattive non intese [b] allo stesso fine, stando nel mezzo, solo queste sono migliori di ciascuna di quelle due, d’entrambe le quali partecipano. Se dunque la filosofia è cosa buona e altrettanto la prassi politica, ciascuna volta ad un fine diverso, e costoro, partecipando d’ambedue, stanno nel mezzo, non dicono nulla, ché sono molto inferiori ai filosofi e ai politici; se invece l’una è buona, l’altra cattiva, sono migliori degli uni e peggiori degli altri; se ambedue, infine, fossero cattive, in questo caso, e solo in questo, direbbero qualcosa di vero. Ebbene, io non, penso ch’essi si trovino d’accordo nell’ammettere né che filosofia e politica siano [c] ambedue cattive, né che l’una sia cattiva e l’altra buona. In realtà essi, partecipando di tutt’e due, sono inferiori ai filosofi e ai politici, relativamente a quello specifico fine per cui filosofia e politica sono valutate: terzi essi sono in verità, anche se cercano di apparire primi! Dobbiamo dunque perdonarli in nome di questo loro desiderio e non arrabbiarci, ma stimarli per quello che sono: sì, perché bisogna pure amare chiunque dica una cosa, quale che sia, che dimostri intelligenza e coraggiosamente si dedichi ad [d] attuarla.
XXXII. CRIT. Anch’io, Socrate, come sempre ti ripeto, sono in gran dubbio su quale decisione prendere per i miei figliuoli. L’uno è ancora assai giovane e piccolo, ma Critobulo ha già l’età e ha bisogno di qualcuno che gli sia di aiuto. Eh sì! quando sono con te, mi viene in mente che sia stata una pazzia d’avere tanto penato in tante altre [e] cose per i miei figliuoli: la scelta della moglie, sì che nascessero da madre nobilissima, i beni patrimoniali, sì che siano quanto è possibile ricchi; e trascurare poi la loro educazione. Solo che quando poi volgo gli occhi su qualcuno di quelli che si vantano di educare gli uomini, mi spavento, ed esaminandoli uno a uno mi convinco che, a dirti il vero, sono tutti un po’ strambi; ecco perché non [307a] so risolvermi a indirizzare il mio ragazzo alla filosofia. SOCR. Amico Crotone, non sai che in ogni professione gli inetti, coloro che non valgono nulla sono molti, mentre poche sono le persone serie e di gran valore? Dimmi: la ginnastica non ti sembra sia bella, e così la crematistica, la retorica, la strategia? CRIT. Senza dubbio bellissime! SOCR. Ebbene! Non vedi come in ciascuna di tali arti i [b] più, all’opera, siano ridicoli? CRIT. Sì, per Zeus, dici proprio la verità! SOCR. E per tale ragione vorrai tu stesso fuggire tutte le professioni e far sì che tuo figlio non ne intraprenda alcuna? CRIT. Socrate, sarebbe ingiusto. SOCR. E allora, Crotone, non fare ciò che non è bene, ma manda a farsi benedire tutti coloro che professano filosofia, buoni o cattivi, e dopo avere esaminato con precisione e bene la cosa in quanto tale, se ti sembra di [c] nessun valore, distogli allora da essa tutti e non i soli tuoi figli; se ti sembra, invece, quale io penso che sia, seguila e, secondo il detto, coltivala coraggiosamente, tu, e, con te, i tuoi figliuoli.