Eutifrone incontra Socrate mentre si reca in tribunale a prender conoscenza dell'accusa mossa, contro di lui, da Meleto, di cui lo stesso Socrate tesse un ironico elogio (I 2a-3a). Tale accusa è di corrompere i giovani e di fabbricare nuovi dei; Eutifrone si presenta come compartecipe di una sorte analoga a quella di Socrate, per quanto riguarda il secondo punto (II 3a-c). Ma, osserva Socrate, altro è il ridicolo di cui Eutifrone dice di essere circondato e altro è una vera e propria accusa e un processo, che solo gli indovini possono sapere come andrà a finire. Bene!, predice Eutifrone (III 3c-e). Anche Eutifrone ha una causa in tribunale: l’accusa di omicidio che egli ha mosso a suo padre per aver lasciato morire un servo. Eutifrone dichiara, tra l'altro, di conoscere profondamente che cosa è santo e cosa non lo è, cosa è pio e cosa empio (IV 3e-5a). Socrate dichiara allora di volersi fare scolaro di Eutifrone per scampare all’accusa di Meleto, ed invita Eutifrone a rispondere a questa domanda: che cosa è il santo e che cosa è il suo contrario? (V 5a-d). Prima definizione di Eutifrone: il santo sta nel comportarsi come mi comporto io, perseguendo l'ingiustizia, e imitando la maniera in cui Zeus si comportò verso Crono e Crono verso Urano. Ma, obbietta Socrate, sono poi vere tutte queste storie? Esistono veramente inimicizie e guerre tra gli dei? (VI 5d-6c). Tuttavia Socrate torna alla sua domanda: egli non ha chiesto un esempio di azione santa, ma che cosa è il santo, cioè quell’idea del santo, per cui tutte le azioni sante sono sante. Seconda definizione di Eutifrone: santo è ciò che è caro agli dei (VII 6c-7a). Critica di Socrate: come si concilia questa definizione con il fatto che sembrano esservi liti e dissensi fra gli dei? E su cosa si producono i dissensi? Non sui numeri, i calcoli e cose del genere, ma sul giusto e l'ingiusto, il buono e il cattivo e simili. Le stesse cose dunque saranno care ad alcuni dei ed ad altri no, cioè saranno sante e non sante (VII 7a-8a). Ulteriore chiarimento di questo concetto (IX 8a-e). Socrate invita Eutifrone a dimostrare che non vi sia dissenso fra gli dei nel ritenere santo ciò che egli sta facendo ed empia l’azione del padre (X 9a-b). Tuttavia Socrate dispensa subito Eutifrone da questa dimostrazione: essa non darebbe ancora la definizione dell'idea del santo. Si torna perciò alla definizione per cui il santo è ciò che tutti gli dei amano (XI 9c-e). Ulteriore obbiezione di Socrate: il santo, perché santo, lo amano gli dei, o perché lo amano gli dei è santo? L’analogia con gli altri casi porta a concludere che il santo è amato dagli dei perché è santo e non che il santo è santo perché è amato dagli dei (XII 9e-10e). Non è dunque vera la precedente definizione di Eutifrone, e, d'altra parte, l'ultima conclusione raggiunta non ci dice ancora che cosa è il santo. Socrate invita Eutifrone a dare una nuova definizione, ma Eutifrone si mostra sconcertato: Socrate è come Dedalo. E Socrate gli viene in soccorso: tutto ciò che è santo è giusto, anche se non tutto ciò che è giusto è santo (XIII 10e-12d). Quindi il santo è parte del giusto. Ma quale arte? Quella che si riferisce alla cura che gli uomini hanno degli dei, risponde Eutifrone, mentre l'altra parte del giusto si riferisce alla cura che gli uomini hanno di loro stessi e delle loro cose (XIV 12d-e).Ogni cura ha per scopo di migliorare ciò di cui si occupa. Ma si può ammettere una cura che si proponga di migliorare gli dèi? No, risponde Eutifrone; aver cura, in questo caso, vuol dire servire gli dei (XV 12e-13d). Ma quale è il fine di questo servizio agli dei? Quello di fare azioni gradite agli dèi, cioè preghiere e sacrifici, risponde Eutifrone (XVI 13d-14b). La santità si riduce così ad una scienza del domandare e del donare agli dei (XVII 14b-d). Ma in questo mercato, obbietta Socrate, cosa doniamo agli dei? non certo cose utili, perché di nulla essi hanno bisogno; e se diciamo che doniamo venerazione e onori, ecc., veniamo a dire che il santo è ciò che è gradito agli dei (XVIII 14d-15b). Ma dire che il santo è ciò che è gradito agli dei è lo stesso che dire che santo è ciò che è caro agli dei, cioè ripetere quella definizione che prima è risultata insostenibile (XIX 15b-c). Socrate propone di riprendere l'esame, ma Eutifrone si sottrae (XX 15c-16a).
[2a] I. EUTIFRONE. Che c’è di nuovo, Socrate che lasci il liceo e ti indugi qui per il portico del Re? Non credo anche a te capiti d’avere una causa davanti al Re come ho io. SOCRATE. Veramente, o Eutifrone, gli Ateniesi non la chiamano causa questa mia, ma accusa. EUT. Che dici? [b] Ti accusa qualcuno, a quel che pare: ché certo non posso credere accusi tu un altro. SOCR. No, affatto. EUT. E dunque un altro accusa te? SOCR. Proprio. EUT. E chi è costui? SOCR. Ma neanch’io lo conosco gran che, o Eutifrone, questo tale. Pare sia uno giovane, e poco conosciuto: lo chiamano, credo, Melèto, ed è del demo di Pitto. Hai in mente un certo Melèto, Pitteo, coi capelli tirati, poca barba, e il naso adunco? EUT. Non l’ho in [c] mente, Socrate. Ma infine, di che cosa ti accusa costui? SOCR. Quale accusa? Oh, che certo non gli fa disonore, mi sembra! In verità, che una persona così giovane abbia conoscenza di cose tanto gravi non è da poco. Di fatti costui, come dice, conosce in qual modo i giovani si corrompono e chi sono quelli che li corrompono. E’ un sapiente! E, accortosi della ignoranza mia, e che io corrompo i giovani suoi coetanei, ecco che viene ad accusarmi dinanzi alla patria come dinanzi alla madre. Ed è il solo, mi pare, che, il suo corso di uomo di stato, lo incominci bene; [d] perché incominciar bene è appunto pigliarsi cura anzi tutto dei giovani, sì che vengano su il meglio che è possibile: allo stesso modo che un buon agricoltore è naturale si renda cura anzi tutto delle piante giovani, e, delle [3a] altre. E così dunque Melèto, prima di tutto, pare vuol spazzar via noi che corrompiamo, come dice, i germogli giovani ; e dopo, non c’è dubbio, si prenderà cura anche dei non giovani, e sarà cagione alla città di moltissimi e grandissimi benefici. Non c’è da aspettarsi meno, naturalmente, da uno che incomincia a codesto modo.
II. EUT. Vorrei bene, o Socrate, che fosse così; ma ho gran paura che succeda il contrario; perché mi sembra che proprio dal focolare egli incominci a rovinare la città, tentando questo processo contro di te. E, dimmi, che cosa [b] dice fai tu per corrompere i giovani? SOCR. Cose straordinarie, o amico, almeno a sentire lui. Dice ch’io sono un fabbricatore di dèi: e, appunto, di fabbricar nuovi dèi e di non riconoscere gli antichi, questa, dice, è l’accusa. EUT. Capisco, Socrate. Si tratta certo di quel tuo dèmone che dici d’aver sempre con te. E dunque l’accusa è questa, che tu vuoi metter fuori delle novità in cose di religione; e costui viene in tribunale col proposito di calunniarti, sapendo bene che calunnie di codesto genere la gente le [c] crede facilmente. Anche me, quando nell’adunanza parlo di cose di religione e predìco il futuro, la gente mi deride come fossi pazzo; e sì che di quante cose io ho predette non ce n’è stata mai una che poi non si sia avverata. Ma hanno invidia costoro di tutti quelli che sono come me e come te. Non bisogna preoccuparsene, ma affrontarli direttamente.
III. SOCR. O buon Eutifrone, ma l’essere messi in ridicolo non è quello che conta, io direi. Agli Ateniesi, mi pare, non importa molto se credono che uno si distingua per il suo sapere; purché non voglia di codesto suo sapere far da maestro; se però credono che uno, sapiente, voglia [d] far sapienti anche gli altri, allora sì, quello lo prendono in uggia, o sia per invidia, come dici tu, o sia per altra ragione. EUT. Quanto a questo, come la pensino gli Ateniesi riguardo a me, non ho nessuna voglia di sperimentarlo. SOCR. Perché tu, forse, hai l’aria di tale che raramente fa dono di sé, e il proprio sapere non ha voglia di insegnarlo: io invece, per certa mia natura socievole, ho l’aria, temo, di uno che quel che sa lo riversa e profonde a chi si sia; e non solo senza mercede, ma anzi prodigandomi lietamente a chiunque mi voglia ascoltare. Se dunque, come dicevo ora, gli Ateniesi vorranno prendersi gioco di me come tu dici se ne prendono di te, non sarà affatto [e] spiacevole passare un po’ di tempo nel tribunale scherzando e ridendo; se poi faranno sul serio, eh, allora, dove la cosa andrà a finire, non è chiaro a nessuno, fuorché a voi altri indovini. EUT. Ma vedrai, o Socrate, che non succederà nulla; e tu sosterrai la tua causa felicemente, e così io, spere, la mia.
IV. SOCR. Dunque, O Eutifrone, che causa è questa che hai? di altri contro te o di te contro altri? EUT. Di me [4a] contro altri. SOCR. E contro chi? EUT. Contro uno che a dargli addosso mi pigliano per matto. SOCR. O come, dài addosso a uno che vola? EUT. Altro che volare! A farlo apposta, ha parecchi anni su le spalle costui! SOCR. E chi è? EUT. Mio padre. SOCR. Tuo padre? Oh, brav’uomo! EUT. Proprio così. SOCR. E qual è la sua colpa? di che lo accusi? EUT. Di omicidio, o Socrate. SOCR. Per Eracle! Certo, o Eutifrone, difficilmente i più riconosceranno come possa mai codesto essere giusto; né credo che proprio il primo venuto potrebbe intraprendere [b] con giustizia una causa simile, bensì persona che nel sapere sia già avanti parecchio. EUT. Molto avanti sicuramente, o Socrate. SOCR. Ed è uno di casa quello che è stato ucciso da tuo padre, non è vero? Già, si capisce; ché per uno di fuori non accuseresti d’omicidio proprio lui. EUT. E’ curioso, Socrate, che tu creda ci sia differenza se l’ucciso è di fuori o di casa; e non pensi invece che a questo solo s’ha da badare, se chi uccise era nel suo diritto di uccidere oppure no; e, se era nel suo diritto, lasciarlo andare; se non era, fargli causa, quand’anche l’uccisore viva [c] sotto il tuo tetto e mangi alla tua tavola. Perché la contaminazione c’è lo stesso: basta che tu viva insieme col colpevole avendo conoscenza della sua colpa, e non purifichi te medesimo e costui trascinandolo davanti al tribunale. Qui il morto era un mio contadino che lavorava a opra da noi quando avevamo terreni a Násso. Un giorno costui, che avea bevuto troppo, in un impeto d’ira s’azzuffa con uno dei nostri familiari, e lo ammazza. Allora mio padre lo fa legare piedi e mani, e lo butta giù in una fossa; e manda qui uno per sapere dall’esegèta che cosa deve fare. [d] Per tutto questo tempo di quel poveretto incatenato non si dà pensiero, e addirittura lo abbandona a sé: tanto, pensa, era omicida, e non metteva conto preoccuparsene se anche moriva. Che è quello appunto che accadde: perché dalla fame dal freddo e dalle catene, costui morì prima che il messo fosse ritornato dall’esegèta. Ora dunque mio padre e gli altri di casa si lagnano di questo, che per un omicida io accusi di omicidio mio padre, il quale poi, dicono costoro, nemmeno ha ucciso; e se anche, nel peggior caso, avesse ucciso, considerando che l’ucciso era omicida, non bisognava darsi di codest’uomo nessun pensiero. E [e] dicono che per un figliolo accusar d’omicidio il padre è cosa empia. Caro Socrate, costoro non sanno niente di cose di religione, e non distinguono affatto che cosa è il santo e che cosa il non santo. SOCR. E tu, o Eutifrone, credi proprio di conoscere così esattamente come sono ordinate le leggi divine; e ciò che è santo e ciò che non è santo; che, pur ammesso il fatto come lo racconti, non hai nessun timore, chiamando in giudizio tuo padre, di commettere anche tu, per combinazione, cosa empia? EUT. Ma no, Socrate: perché altrimenti nessun utile avrebbe [5a] la gente da me; né in alcuna cosa Eutifrone si distinguerebbe dal volgo degli uomini, se tutte queste cose non le conoscessi profondamente.
V. SOCR. O meraviglioso Eutifrone! Dunque per me il partito migliore è diventare tuo scolaro; e, prima che si discuta la causa che ho con Melèto, fare a costui appunto questa proposta, e dirgli così: che io, come già nel passato feci sempre gran conto di conoscere le cose divine, così ora, poiché egli sostiene che in queste cose divine mi sono reso colpevole di introdurre con tanta leggerezza delle novità, ecco che ho voluto essere tuo scolaro; e gli direi: "Se tu, [b] o Melèto, sei d’accordo con me che Eutifrone in questa materia è uomo sapiente, ebbene, devi giudicare che anch’io penso rettamente e non mi devi far causa; se invece non è così, allora, prima che a me, il processo lo devi fare a lui che è mio maestro, come a quello che corrompe [non i giovani, ma] i vecchi, me e il padre suo: me, in quanto m’istruisce, suo padre, in quanto pretende correggerlo e vuole che sia punito"; e se non mi darà retta e non desisterà dall’accusa, o non quereli te invece di me, allora questa stessa proposta che gli avevo fatto prima gliela ripeterò in tribunale. EUT. Davvero, o Socrate, che se venisse voglia a colui di sostenere una lite contro di me, [c] saprei ben io, credo, trovare il suo punto debole, e tra noi due il conto da saldare in tribunale ricadrebbe molto prima sopra di lui che sopra di me. SOCR. Anch’io lo credo, caro amico; e appunto per questo ho gran desiderio di diventare tuo scolaro: sapendo bene che mentre di te persino questo Melèto, non che un altro qualunque, nemmeno pare si avveda, di me invece s’è avvisto sùbito, e mi ha sùbito conosciuto così a fondo che mi accusa di empietà. Ora dunque dimmi che cos’è quello che or ora affermavi di conoscere così sicuramente: che cosa è che chiami il pio e che cosa l’empio, sia riguardo all’omicidio sia riguardo ad altre azioni. Non è il santo, come tale, [d] identico sempre a se stesso in tutte le azioni? e non è a sua volta il non santo il contrario di tutto ciò che è santo, ma identico sempre anche questo, come tale, a se stesso; cosicché viene ad avere - tutto ciò, dico, che è per essere non santo - una sua forma unica relativamente alla stia non santità? EUT. Senza dubbio, o Socrate.
VI. SOCR. Via dunque, che cosa dici che sono il santo e il non santo? EUT. Dico che il santo è quello che faccio ora io: se uno commette ingiustizia rendendosi colpevole o di omicidio o di sacrilegio o di altro reato simile, trascinarlo in giudizio, sia pure costui tuo padre o tua madre o [e] chiunque altro; non trascinarlo in giudizio non è santo. E bada, Socrate, che io ho una grande riprova che la legge è così, che cioè non si deve concedere remissione alcuna a chi commette empietà, chiunque esso sia; come già ebbi a dire anche ad altri per provare appunto che solo operando in questo modo si opera rettamente. E la prova è questa: credono pure gli uomini che Zeus sia l’ottimo degli dèi e il più giusto; e anche sono d’accordo nel credere che egli [6a] incatenò il padre suo Crono perché contro giustizia si era divorato i propri figlioli; e che a sua volta Crono mutilò il padre suo Urano per altre ragioni simili. Ebbene, costoro si adirano ora contro dì me perché chiamo in giudizio mio padre che ha commesso ingiustizia; e così vengono a trovarsi in contraddizione con se medesimi giudicando in contrario modo degli dèi e di me. SOCR. Ah sì, proprio questa, o Eutifrone, ha da essere la ragione per cui io sono citato in tribunale, che quando uno mi racconta intorno agli dèi di tali storie, io non le posso mandare giù; eccolo qui il punto, si vede chiaro, dove diranno che io sono colpevole. Ora dunque se anche a te, che di [b] cose di religione sei così dotto, queste storie paiono vere, tanto più, è chiaro, dovranno parer vere anche a me e a persone come me. E in realtà, che cosa potremmo dire in contrario noi che di tali cose confessiamo apertamente di non saper niente? Ma dimmi, per Zeus protettore dell’amicizia, davvero tu ritieni che queste faccende siano andate così? EUT. Non solo, o Socrate, ma anche altre più meravigliose di queste che la gente non conosce! SOCR. E dunque credi tu che veramente tra gli dèi ci siano guerre e inimicizie terribili, e battaglie, e altre discordie molte di questo genere, quali i poeti ci raccontano, e i nostri bravi pittori ci raffigurano nei templi, [c] e di cui è tutto istoriato anche il peplo che nelle Grandi Panatenèe si porta in processione su nell’Acropoli? Queste cose dobbiamo dire che siano proprio vere, o Eutifrone? EUT. E non basta, caro Socrate: ma, come ti dicevo poco prima, altre ancora e molte, se vuoi, te ne posso raccontare di queste storie intorno agli dèi; che a sentirle, so bene, resterai di sasso.
VII. SOCR. Non me ne meraviglierei. Ma me le conterai a tuo comodo un’altra volta. Ora vedi di dirmi più chiaro [d] quello che ti domandai poco fa; perché con quella tua prima risposta, amico mio, non mi hai istruito abbastanza. Io ti domandavo che cosa è il santo, e tu mi hai detto solamente che è santo ciò che stai facendo tu ora, accusando d’omicidio tuo padre. EUT. E dicevo la verità, o Socrate. SOCR. Può darsi: ma certo, o Eutifrone, molte altre azioni ancora tu dici che sono sante. EUT. Molte altre, senza dubbio. SOCR. Ebbene, tu ricordi che non di questo io ti pregavo, di indicarmi una o due delle molte azioni che diciamo sante; bensì di farmi capire che cosa è in se stessa quella tale idea del santo per cui tutte le azioni sante sono sante. Dicevi, mi pare, che per un’idea unica le azioni [e] non sante non sono sante, e le sante sono sante; o non ti ricordi? EUT. Sì, mi ricordo. SOCR. E allora insegnami bene questa idea in sé quale è; affinché io, avendola sempre davanti agli occhi e servendomene come di modello, quell’azione che le assomigli, di quante o tu o altri possiate compiere, questa io dica che è santa; quella che non le assomigli, dica che non è. EUT. Se vuoi così, o Socrate, sta bene, ti risponderò così. SOCR. Bravo, proprio così voglio. EUT. Ecco qua dunque: ciò che è [7a] caro agli dèi è santo, ciò che non è caro non è santo. SOCR. Benissimo, o Eutifrone: proprio com’io volevo tu mi rispondessi, così ora mi hai risposto. Se poi con verità, questo non so ancora; ma certissimamente saprai bene dimostrarmi tu che è vero quello che dici. EUT. Senza dubbio.
VIII. SOCR. O via, esaminiamo quello che stiamo dicendo. La cosa cara agli dèi è santa, l’uomo caro agli dèi è santo; la cosa in odio agli dèi non è santa, l’uomo in odio agli dèi non è santo. Non sono la stessa cosa il santo e il non santo, ma anzi, tutto l’opposto l’uno dell’altro: non è così? EUT. Proprio così. SOCR. Ed è stato detto [b] bene, ti pare? EUT. Mi pare, o Socrate. SOCR. E che gli dèi sono in lite fra loro, e che ci sono tra loro dissensi e inimicizie degli uni contro gli altri, non è stato detto anche questo, o Eutifrone? EUT. Sì, è stato detto. SOCR. E dimmi, brav’uomo, su quali cose può essere il dissenso quando produce inimicizia e collere? Vediamo bene questo punto. Se ci fosse dissenso fra me e te intorno a un numero, per esempio, quale di due serie di oggetti è più numerosa, che forse questo dissenso ci farebbe nemici e irosi l’uno contro l’altro; oppure, fatto il conto, almeno [c] su codesta questione, ci troveremmo sùbito d’accordo? EUT. Certamente. SOCR. E se il dissenso fosse quale di due oggetti è più grande e quale più piccolo, non cadrebbe sùbito anche questo dissenso, appena prese le misure? EUT. E’ così. SOCR. E anche, dopo averli pesati, sapremmo pur decidere, credo, quale di due oggetti è più pesante, quale più leggero: o no? EUT. E come no? SOCR. E allora, quali sono i punti e quali i giudizi per cui, essendoci dissenso fra noi e non potendo giungere a un accordo, diventeremmo irosi e nemici gli uni contro gli altri? Forse [d] non ti vengono a mente ora, ma te li dirò io: considera se non siano il giusto e l’ingiusto, il bello e il brutto, il buono e il cattivo. Non sono questi i punti per i quali, quando ci sia dissenso e non si possa venire a un giudizio soddisfacente, accade talora che diventiamo nemici gli uni degli altri, e io e tu e tutti gli uomini in generale? EUT. Sì, o Socrate, questo è il dissenso, e su questi punti. SOCR. Orbene, Eutifrone, gli dèi, se è vero che hanno tra loro qualche dissenso, non l’avranno appunto su questioni di questo genere? EUT. Necessariamente. SOCR. E dunque, [e] mio bravo Eutifrone, secondo il tuo ragionamento, chi degli dèi giudica giusta una cosa e chi un’altra, e chi bella e chi brutta, e chi buona e chi cattiva: ché di certo non avrebbero liti fra loro se non dissentissero su questi giudizi. Non è così? EUT. Dici bene. SOCR. Dimmi ora, quelle azioni che ognuno degli dèi reputi belle e buone e giuste, codeste azioni non le amano essi anche, e le contrarie le odiano? EUT. Precisamente. SOCR. Ma le medesime cose, lo dici tu, alcuni reputano giuste, altri ingiuste; e [8a] appunto perché disputano intorno a queste, sono in lite e in guerra fra loro. Non è così? EUT. Sì. SOCR. E dunque, è evidente, le stesse cose gli dèi odiano e amano; che quanto dire odiose agli dèi e care agli dèi saranno le stesse cose. EUT. E’ chiaro. SOCR. E cioè le stesse cose saranno sante e non sante, o Eutifrone, secondo il tuo ragionamento. EUT. Pare.
IX. SOCR. Ma allora tu non rispondi, ammirevole amico, a quello che t’ho domandato: perché io non ti domandavo che cosa può essere al tempo stesso e santo e non santo; mentre, a quanto pare, quello stesso che sia caro agli dèi può anch’essere odioso a li dèi. Cosicché, per esempio, o Eutifrone, riguardo a quello che stai facendo tu ora che [b] vuoi punire tuo padre, nessuna meraviglia se tu, operando in codesto modo, farai cosa gradita a Zeus ma odiosa a Crono e a Urano, gradita a Efesto ma odiosa a Era; e se c’è anche altri fra gli dei che dissentano l’un l’altro su codesta tua azione, per costoro sarà lo stesso. EUT. Se non che io credo, o Socrate, che su questo punto fra nessuno degli dei potrà mai essere dissenso, che cioè non debba pagare sua pena chi ha ucciso ingiustamente. SOCR. O come, Eutifrone? Ma hai sentito mai tu fino a ora tra [c] gli uomini mettere in dubbio che chi abbia ucciso ingiustamente o altra ingiustizia abbia commesso non debba essere punito? EUT. Veramente non la finiscono mai gli uomini con queste loro dispute, dovunque siano, e specialmente nei tribunali. E quelli che più ribalderie hanno commesso fanno di tutto e dicono di tutto per sfuggire alla giustizia. SOCR. Ma questa gente, o Eutifrone, confessano anche di aver commesso ingiustizia, e, pur confessando ciò, affermano che non devono essere puniti? EUT. Questo no, è vero. SOCR. E allora non proprio tutto essi dicono e fanno: e questo, per esempio, io credo, non hanno il coraggio di sostenere e nemmeno di mettere in [d] discussione, che avendo commesso ingiustizia non debbano pagarne la pena; piuttosto, credo, negheranno di aver commesso ingiustizia. O no? EUT. Dici bene. SOCR. Non è codesto dunque il punto su cui discutono, che chi ha commesso ingiustizia non deve pagarne la pena; bensì, mi pare, quest’altro, chi ha commesso ingiustizia, e che cosa ha fatto, e quando. EUT. Dici bene. SOCR. O allora, non è precisamente quel che succede anche fra gli dèi, se è vero, come tu affermi, che sono in discordia tra loro sul giusto e su l’ingiusto, e l’uno dice dell’altro che ha commesso ingiustizia, e l’altro, dice di no? Perché in verità, o mirabile amico, non c’è nessuno, né uomo né dio, [e] il quale osi sostenere che chi ha commesso ingiustizia non debba essere punito. EUT. Sì, o Socrate, in sostanza è vero quello che dici. SOCR. Ma appunto sul valore di singole azioni, o Eutifrone, disputano coloro che disputano, siano uomini, siano dèi - se pur è vero che disputano gli dèi; e appunto dissentendo sul valore di una data azione, gli uni affermano che fu compiuta secondo giustizia, gli altri contro giustizia. Non è così? EUT. Proprio così.
[9a] X. SOCR. Orsù, amico Eutifrone, istruisci anche me, ch’io diventi più dotto: e dimmi che prova hai per dimostrare che tutti gli dèi reputano morto ingiustamente quel tale che, lavorando a opra e divenuto omicida e poi incatenato dal padrone dell’ucciso, tutt’a un tratto per il tormento delle catene viene a morire prima che colui che lo aveva incatenato sapesse dagli esegèti che cosa ne doveva fare; e mostrami infine che per tale uomo è giusto che il figlio perséguiti in tribunale e accusi d’omicidio il proprio padre. Vedi di chiarirmi bene questo punto, che tutti [b] quanti gli dèi, senza eccezione, reputano giusta l’azione di codesto figlio; e, se riuscirai a dimostrarmelo convenientemente, io non cesserò più di lodare la tua sapienza. EUT. Forse non è cosa da poco, o Socrate; quantunque io sia in grado di dimostrartelo con perfetta chiarezza. SOCR. Capisco: tu mi credi di testa più dura dei tuoi giudici; perché ai tuoi giudici, non c’è dubbio, saprai dimostrare ch’è ingiusta l’azione di tuo padre, e che perciò gli dèi la disapprovano tutti quanti. EUT. Sì, e con molta chiarezza, o Socrate: purché ascoltino le mie parole.
[c] XI. SOCR. Certo ti ascolteranno, se sentono che parli bene. Se non che, mentre parlavi, mi è venuto questo pensiero; e ho. detto fra me: "Se Eutifrone riuscirà a provarmi, sia pure nel modo più evidente, che tutti gli dèi reputano ingiusta quella tale morte, ebbene, che cosa avrò imparato io in più da Eutifrone sul punto richiesto, che cosa è il santo e che cosa il non santo? Sarà odiosa agli dèi, a quel che lui dice, l’azione di suo padre; ma non per questo, l’abbiamo visto or ora, si è definito che cosa è ‘santo e che cosa non è santo, essendoci risultato chiarissimo che ciò ch’è odioso agli dèi è anche caro agli dèi". Cosicché io ti dispenso, o Eutifrone, da codesto; e, se ti [d] piace così, ritengano pure ingiusta tutti gli dèi l’azione di tuo padre e l’abbiano pure in odio tutti quanti. Ma allora noi dobbiamo raddrizzare la nostra definizione e dire così: qualunque cosa. tutti gli dèi odiano non è santa, qualunque cosa amano è santa: e quella che taluni amano e altri odiano, codesta non è né santa né non santa, oppure santa e non santa al tempo stesso. Vuoi tu dunque che si definisca così, ora, il santo e il non santo? EUT. Che cosa ce lo impedisce, o Socrate? SOCR. A me in verità niente lo impedisce, o Eutifrone; vedi tu piuttosto se la cosa ti torna, e se, movendo da questa premessa, riuscirai così facilmente a insegnarmi quello che mi promettesti. EUT. Ma io, per [e] me, direi che questo è il santo, ciò che tutti gli dèi amano; e il contrario di questo, ciò che tutti gli dèi odiano, non santo. SOCR. Ebbene, o Eutifrone, vogliamo noi riesaminare da capo se s’è detto bene, o vogliamo lasciar stare; e senz’altro dir bravo a noi stessi e a chi si sia, solo che uno ci venga a dire che la tal cosa è così, e ammettere che è così? O vogliamo esaminare se realmente chi dice in questo modo dice qualche cosa e che cosa? EUT. Esaminiamo pure. Io credo però che questa volta, come si è detto, si sia detto bene.
XII. SOCR. Lo vedremo meglio sùbito, o amico. Rifletti [10a] un momento su questo: il santo, perché santo lo amano gli dèi, o perché lo amano gli dèi è santo? EUT. Non capisco che cosa vuoi dire, o Socrate. SOCR. Mi proverò a essere più chiaro. Noi diciamo di una cosa che è portata e che porta, che è condotta e che conduce, che è veduta e che vede. Ora, in tutte queste e simili espressioni, tu capisci che i due termini sono diversi l’uno dall’altro, e in che sono diversi? EUT. Sì, mi par di capire. SOCR. E non anche diciamo di una cosa che è amata, e diversa da questa è la cosa che ama? EUT. E come no? SOCR. [b] Dimmi ora, la cosa portata, perché si porta è portata o per altra ragione? EUT. No, per questo. SOCR. E, parimenti la cosa condotta perché si conduce, la cosa veduta perché si vede: non è così? EUT. Proprio così. SOCR. Dunque una cosa non perché è veduta si vede, ma al contrario perché si vede è veduta; e così, non perché è condotta si conduce, ma perché si conduce è condotta; e non perché è portata si porta, ma perché si porta è portata. [c] chiaro, ora, o Eutifrone, che cosa io voglio dire? Voglio dir questo, che se una cosa si genera o patisce alcun che, non perché è generata si genera, ma perché si genera è generata; e così non perché è paziente patisce, ma perché patisce è paziente. O non convieni in questo? EUT. Sì, convengo. SOCR. Ebbene, anche l’amato non è cosa che è generata o che patisce alcun che da altra cosa? EUT. Sì certo. SOCR. E allora non si addice anche alla cosa amata quello stesso che agli esempi precedenti, che cioè non perché amata si ama da coloro che l’amano, ma perché si ama è amata? EUT. Necessariamente. SOCR. E dunque che cosa vogliamo dire del santo, o Eutifrone? Non lo [d] amano, come tu dici, tutti gli dèi? EUT. Sì. SOCR. E lo amano per ciò che è santo, o per altra ragione? EUT. No, perché è santo. SOCR. Dunque perché è santo lo amano, e non già perché lo amano è santo. EUT. Così pare. SOCR. Ma naturalmente, questo santo, per ciò che gli dèi lo amano, è amato, e quindi caro agli dèi. EUT. E come no? SOCR. Dunque non è vero, o Eutifrone, che ciò ch’è caro agli dèi sia santo; e nemmeno, come dici tu, che ciò che è santo sia caro agli dèi: c’è differenza tra una cosa e l’altra. EUT. O come dici, Socrate? SOCR. [e] Perché s’è convenuto che il santo per ciò si ama in quanto è santo, non già che è santo perché si ama. Non è così? EUT. Sì.
XIII. SOCR. E s’è pur convenuto che ciò che è caro agli dèi perché gli dèi lo amano, per ciò appunto che gli dèi lo amano è caro agli dèi, e non già perché è caro agli dèi, gli dèi lo amano. EUT. Dici bene. SOCR. Ora, se fossero la medesima cosa, o amico Eutifrone, ciò che è caro agli dèi e ciò che è santo, ne seguirebbe che, da una parte, dato che il santo era amato per il suo essere santo, anche ciò che è caro agli dèi sarebbe amato per il suo essere [11a] caro agli dèi; e dall’altra, dato che ciò che è caro agli dèi era caro agli dèi per il suo essere amato dagli dèi, anche il santo sarebbe santo per il suo essere amato dagli dèi. Se non che tu vedi ora che santo e caro agli dèi sono due cose opposte, in quanto al tutto diverse l’una dall’altra: e infatti l’una, il caro agli dèi, in quanto si ama è tale che è amato; e l’altra, il santo, in quanto è tale da essere amato, per questo si ama. E così, o Eutifrone, mentre io ti domando che cosa è il santo, non pare tu abbia intenzione di chiarirmi la sua vera essenza, ma solo di dirmi un suo accidente, qualche cosa che a codesto santo accade, come è appunto [b] il suo essere amato da tutti gli dèi: ma che cosa sia il santo in sé, questo non me lo hai anche detto. Se dunque non ti dispiace, non tenermi all’oscuro, ma dimmi un’altra volta, da capo, che cosa è in sé questo santo: o sia esso amato dagli dèi o qualunque altro caso gli accada; perché non è questo il punto su cui ci troveremo discordi. Dimmi, dunque, da bravo: che cosa è il santo e che cosa il non santo? EUT. Ma io non so proprio come fare, o Socrate, a dirti quello che ho in mente: perché, qualunque definizione ci mettiamo avanti, ci gira sempre dattorno, e non c’è verso che voglia star ferma nel punto dove la mettiamo. SOCR. Le cose che tu dici, o Eutifrone, rassomigliano molto alle figure di quel mio antico progenitore che fu Dèdalo: e, [c] se codeste definizioni le dicessi e ponessi io, forse avresti ragione di burlarti di me, quasi che anche a me, per la parentela che ho con costui, le mie statue di parole scappassero via e mai volessero restar ferme dove uno le mette. Se non che questa volta sei tu che le poni codeste definizioni, e perciò altra baia ti bisogna: ché proprio a te non vogliono star ferme, come tu stesso riconosci. EUT. No, caro Socrate: pare a me che d’altra baia non abbiano bisogno le cose dette; perché questo lor girare attorno e non star mai ferme nello stesso luogo, non sono io che ce lo [d] metto ma tu; e proprio tu mi sembri quel tale Dèdalo. Se dipendesse da me, guarda, resterebbero ferme così. SOCR. E allora vuol dire, caro amico, che di quel mio nobile progenitore io sono divenuto nell’arte più bravo assai; tanto che colui solamente le statue sue faceva che non stessero ferme; e invece io, a quanto pare, oltre le mie, non fo star ferme neanche quelle degli altri. E poi il più bello dell’arte mia è questo, che mio malgrado sono bravo, perché io, per me, a patto che i miei ragionamenti rimanessero fermi e fossero ben piantati senza più muoversi, sarei disposto a rinunziare non solo alla bravura di Dèdalo, [e] ma anche alle ricchezze di Tàntalo per giunta. Ma lasciamo stare codesto; e siccome tu m’hai l’aria di essere un po’ scansafatiche, verrò io stesso in tuo soccorso perché tu m’istruisca su ciò che è il santo. E non ti stancare troppo, presto. Orsù, vedi se non ti par necessario che tutto ciò ch’è santo sia giusto. EUT. Sì, mi pare. SOCR. E dimmi, [12a] anche ti pare che tutto ciò che è giusto sia santo; o piuttosto che ciò che è santo sia tutto giusto, ma non tutto sia santo quello ch’è giusto, bensì parte di esso giusto sia santo, parte no? EUT. Non riesco a tener dietro, o Socrate, al tuo ragionamento. SOCR. E sì che più giovane idi me sei, non meno che più sapiente. Il guaio è che tu, te lo ripeto, con codesta tua gran ricchezza di sapere, fai il signore e scansi ogni fatica. Ma via, benedett’uomo, sfòrzati un poco: ché in fondo neanche dovrebbe esser difficile capire quello che dico. Io dico il contrario di quel che disse il poeta quando cantò,
A Zeus che tutto fece e l’universo
[b] generò, dire ingiuria egli non vuole:
perché dov’è paura anche è vergogna.
Ora io non sono niente d’accordo con questo poeta: vuoi che ti dica in che cosa? EUT. Sì, anzi. SOCR. A me non pare che "dove è paura anche è vergogna": molte persone si vede bene che di malattie povertà e altre simili miserie innumerevoli hanno paura; ma che di codesti mali di cui hanno paura abbiano anche vergogna non si vede affatto. Non ti pare anche a te? EUT. Certo. SOCR. Al contrario, dove è vergogna ivi anche è paura: e difatti, chiunque prova pudore e vergogna di qualche sua azione, non ha [c] anche paura e sgomento della mala fama che da codesta azione può derivargli? EUT. Senza dubbio. SOCR. Dunque non sta bene dire "perché dove è paura anche è vergogna", bensì che dove è vergogna ivi anche è paura. Non è vero, insomma, che dove è paura ivi sia sempre vergogna: perché paura abbraccia di più, mi pare, che vergogna; anzi vergogna è parte di paura, allo stesso modo che il dispari è parte del numero; cosicché non dovunque è numero ivi è anche dispari, ma dove è dispari ivi anche è numero. Mi segui ora? EUT. Benissimo. SOCR . Ebbene, la stessa cosa a un di presso volevo dire anche prima, quando ti domandavo se dove è il giusto ivi sia anche il santo; o piuttosto se, dove è il santo, ivi sia, sì, anche il [d] giusto, ma non dove è il giusto ivi sia in ogni caso anche il santo, perché il santo è parte del giusto. Vogliamo dire così, o ti’ pare che la cosa stia diversamente? EUT. No, così: mi pare tu dica bene.
XIV. SOCR. Sta attento ora a quello che segue. Se il santo è parte del giusto, ci bisognerà ritrovare, credo, qual è questa parte del giusto che diciamo santo. Così, se tu mi interrogassi su qualcuna delle cose dette ora, per esempio, quale parte del numero è il pari e che numero precisamente esso è, io risponderei che è pari quel qualunque numero che non sia scalèno ma isòscele. Non ti pare? EUT. Sì, certo. SOCR. Pròvati ora anche tu, [e] nello stesso modo, a insegnarmi qual è quella parte del giusto che diciamo santo; cosicché anche a Melèto io possa dire che non mi faccia più ingiustizia né mi accusi di empietà, visto che da te ho imparato oramai così bene quali azioni sono pie e sante e quali no. EUT. E sia: questa mi pare, o Socrate, la parte del giusto ch’è pia e santa, quella che si riferisce alla cura che gli uomini hanno degli dèi; l’altra che rimane è quella che si riferisce alla cura che gli uomini hanno delle cose loro.
XV. SOCR. Sì: pare anche a me tu dica bene, o Euti- [13a] frone. Ma ho bisogno tuttavia di un piccolo schiarimento, perché non capisco bene che specie di cura è questa che tu dici. Non vorrai già dire, credo, che quali sono le cure che si hanno per le altre cose, tale sia anche la cura che si ha per gli dèi. E noi l’adoperiamo comunemente questa parola; per esempio, diciamo così: non uno qualunque è capace d’aver cura dei cavalli, ma solo il cavallaro, non è vero? EUT. Verissimo. SOCR. Infatti è l’arte del cavallaro che ha cura de’ cavalli. EUT. Sì. SOCR. E anche dei cani non uno qualunque è capace d’aver cura, ma solo l’allevatore di cani. EUT. Così. SOCR. Infatti è l’arte dell’allevatore di cani che ha cura de’ cani. EUT. [b] Sì. SOCR. Ed è l’arte del bovaro che ha cura de’ bovi. EUT. Benissimo. SOCR. E dunque, Eutifrone, santità e pietà è avere cura degli dèi? così dici? EUT. Sì. SOCR. E dimmi, ogni sorta di cura non tende a produrre il medesimo effetto? Questo, per esempio, ch’ella riesca bene e a giovamento dell’oggetto che è curato: così tu vedi che i cavalli, quando son curati dall’arte del cavallaro, ne hanno giovamento e vengono su più belli. Non ti pare? EUT. Sì. SOCR. E così i cani dall’arte dell’allevatore di cani, [c] e i bovi dall’arte del bovaro, e tutte le altre cose allo stesso modo. O forse credi abbia da riuscire a danno, questa cura, di colui che è curato? EUT. Ma no di certo. SOCR. Dunque a vantaggio? EUT. E come no? SOCR. E allora anche la santità, poiché è cura degli dèi, è di vantaggio agli dèi e fa gli dèi migliori? e tu ammetterai questo, che, quando fai un’azione santa, rendi migliore qualcuno degli dèi? EUT. Ma neanche per sogno! SOCR. E neanch’io, o Eutifrone, credo tu voglia dir questo. Ci corre di molto, anzi. Ma appunto per ciò ti domandavo [d] come la intendi questa cura degli dèi; non potendo credere tu la intenda a codesto modo. EUT. E hai ragione, o Socrate; difatti non la intendo così. SOCR. Sta bene, ma allora che specie di cura degli dèi potrà essere la santità? EUT. Quella cura, o Socrate, che hanno i servi verso i padroni. SOCR. Capisco: sarebbe, secondo te, un modo di servire agli dèi. EUT. Precisamente.
XVI. SOCR. Ora, mi sapresti dire l’arte di servire ai medici a qual fine serve? non credi alla sanità? EUT. Sì, alla sanità SOCR. E l’arte di servire ai costruttori di [e] navi a quale fine serve? EUT. Chiaro, Socrate, a costruir navi. SOCR. E l’arte di servire ai costruttori di case a costruir case? EUT. Sì. SOCR. O dimmi dunque, brav’uomo: l’arte di servire agli dèi a quale fine potrà servire? Di certo lo sai, tu che in cose di religione dici essere istruito assai più di qualunque altro. EUT. E dico la verità, o Socrate. SOCR. Dimmi, dunque, qual è mai quel fine sopra tutti bellissimo che gli dèi conseguono valendosi del servizio nostro? EUT. Sono molti e belli, o Socrate, codesti fini. SOCR. Certo, anche dei generali, [14a] o amico, si può dire così; ma insomma il fine principale che costoro si propongono potresti pur dirmelo senza difficoltà, è conseguir vittoria nella guerra. O no? EUT. E come no? SOCR. E così molti fini e belli si propongono, credo, anche gli agricoltori; ma comunque il fine principale dell’opera loro è di ricavare il nutrimento dalla terra. EUT. Appunto. SOCR. Dimmi, dunque, de’ molti fini e belli che conseguono gli dèi, il fine dell’opera loro quale è? EUT. Te lo dissi anche poco fa, o Socrate, che è cosa [b] malagevole assai rendersi conto esattamente di tutti questi particolari come stanno. Questo solo, in generale, ti i posso dire, che se uno è capace di dire e di fare, con preghiere e con sacrifici, azioni gradite agli dèi, codesto è il: santo, che è ciò che conserva le case private e il comun bene delle città; e il contrario di ciò ch’è gradito agli dèi, codesto è l’empio, che tutto travolge e tutto manda in rovina.
XVII. SOCR. In verità, o Eutifrone, su questo punto capitale che ti domandavo, assai più brevemente avresti potuto rispondermi, solo che tu avessi voluto; ma tu non hai proprio nessuna voglia di istruirmi, si vede bene; e [c] anche ora che eri lì per farlo, ecco, ti sei rivoltato. Che se invece tu m’avessi risposto, saprei già benissimo a quest’ora da te che cos’è la santità. Del resto l’amante deve pur andar dietro all’amato dovunque costui lo conduca. Via dunque, da capo, che cosa dici che è il santo e che cosa la santità? non è una certa scienza di pregare e far sacrifici? EUT. Sì. SOCR. E far sacrifici non è un donare agli dèi, e pregare un chiedere agli dèi? EUT. Proprio così, Socrate. SOCR. Dunque, stando a quello che dici, [d] santità sarebbe scienza del domandare e donare agli dèi. EUT. Tu hai capito perfettamente, o Socrate, ciò che volevo dire. SOCR. Sì, amico mio: perché io sono così desideroso del tuo sapere, e con tanta attenzione ti ascolto, che neppure una sillaba mi può cadere a terra di quello che dici. Dimmi dunque, che cos’è questo nostro servire agli dèi? Dici che è un chiedere e donare a loro? EUT. Sì.
XVIII. SOCR. E allora, il giusto modo di chiedere agli dèi non sarà un chieder loro quello che da loro abbiamo bisogno? EUT. E che altro ha da essere? SOCR. E così pure, il giusto modo di donare agli dèi non sarà un [e] ricambiar loro cose di cui per avventura abbiano bisogno essi da noi? ché certo non avrebbe senso far doni quando si diano a uno cose di cui quello non abbia bisogno. EUT. Dici bene, o Socrate. SOCR. Cosicché, o Eutifrone, sarà una specie di mercatura questa santità, degli dèi e degli uomini fra di loro. EUT. Sia pure una mercatura, se così ti piace chiamarla. SOCR. No, a me non piace affatto se non è la verità. Ma dimmi, che vantaggio possono avere gli dèi dei doni che ricevono da noi? Ciò che dànno essi, questo è chiaro a ognuno; perché non c’è bene per [15a] noi che non ci venga da loro: ma dei doni che ricevono essi da noi che vantaggio hanno? O vuoi dire che tanto siamo da più di loro in questo commercio che noi abbiamo da loro ogni bene e da noi loro nessuno? EUT. Ma tu pensi veramente, o Socrate, che gli dèi abbiano utilità da questi doni che ricevono da noi? SOCR. O allora dimmi tu, o Eutifrone, che specie di doni sono questi che noi facciamo agli dèi? EUT. Che altro credi se non venerazione, onori, e, come dicevo or ora, cose gradite? SOCR. [b] Dunque, o Eutifrone, il santo è ciò che è gradito agli dèi; ma non è agli dèi giovevole, e neppure caro. EUT. Ma sì, io dico, anzi, più caro di qualunque altra cosa. SOCR. Questo dunque, a quanto pare, torna a essere il santo, ciò che è caro agli dèi. EUT. Precisamente.
XIX. SOCR. E tu ti meravigli, ragionando in questo modo, se i tuoi ragionamenti - lo vedi bene! - non stanno fermi, e anzi se ne vanno a spasso: e te la pigli con me, e dici che sono io il Dèdalo che li fo camminare; mentre sei tu, molto più bravo di Dèdalo, che addirittura li fai girare tutt’in tondo. O non t’accorgi che così il ragionamento, dopo averci fatto un bel giro torno torno, ci è ritornato [c] un’altra volta al punto di prima? Devi pur ricordare che nel nostro ragionamento precedente ciò ch’è santo e ciò che è caro agli dèi non ci apparvero la medesima cosa, ma diversi l’uno dall’altro: o non te ne ricordi più? EUT. Sì, me ne ricordo. SOCR. E dunque non capisci ora che dici santo ciò che è caro agli dèi? E questo è forse altra cosa dal caro agli dèi? O no? EUT. Ma certo, è la stessa. SOCR. Dunque, o noi si ragionava male un momento fa oppure, se si ragionava bene allora, ragioniamo male ora. EUT. Pare.
XX. SOCR. E allora riesaminiamo da capo che cos’è il santo. Perché io, per quanto è in me, finché non l’ho im- [d] parato, non mi lascio sgomentare. E tu non ti infastidire di me; e invece sta bene attento ora più che puoi, e dimmi la verità. Tu la conosci la verità, se mai alcun altro la conosce a questo mondo; e, come Proteo, non bisogna lasciarti scappare se prima non hai parlato. Che se tu non avessi una conoscenza precisa di ciò ch’è santo e non santo, io sono certo che non ti saresti mai risoluto, per quel contadino, ad accusare d’omicidio il tuo vecchio padre; e anzi, dinanzi agli dèi avresti avuto paura di affrontare il rischio di un’azione che fosse così scellerata, e dinanzi agli uomini avresti avuto vergogna. Ora invece io so bene che [e] tu sei persuaso di conoscere perfettamente ciò ch’è santo e ciò che non è. Dimmelo dunque, o mio ottimo Eutifrone, e non mi nascondere il tuo pensiero. EUT. Un’altra volta, o Socrate; ora ho fretta di andare in un luogo, ed è l’ora ch’io vada. SOCR. Oh, che fai, amico mio! Una grande speranza io avevo, e tu te ne vai e me la fai perdere! Avrei appreso da te che cosa sono il santo e il non santo; e così mi sarei liberato dall’accusa di Melèto, dimostrandogli [16a] che ormai, grazie a Eutifrone, in cose di religione sono divenuto dotto e non fo più come prima, per ignoranza, l’improvvisatore e l’inventore di nuove divinità; e avrei vissuto, per il resto di mia vita, una vita migliore.