Invocazione preliminare di Timeo alla divinità. Crizia chiede indulgenza per l'argomento che dovrà trattare: parlare degli uomini agli uomini è più difficile che parlar loro degli dèi (I 106a-108a). Altre considerazione preliminari (II 108a-d). Richiamo alle indicazioni del Timeo: la guerra tra l'Atlantide e le popolazioni di qua delle colonne d'Ercole. L'Atene di allora. Divisione della terra fra gli dèi: Atene toccò ad Atena ed Efesto. Difficoltà di ricostruire la storia di quei tempi (III 108e-110e). Costituzione dell'antica Atene: la classe dei guerrieri. Descrizione geografica dell'antica Attica. Sue condizioni particolarmente favorevoli (IV 110c-111d). Descrizione urbanistica dell'antica Atene e dislocazione delle classi della popolazione (V 111e-112e). Passaggio alla descrizione dell'Atlantide. Perché verranno usati nomi greci anziché barbari (VI 112c-113b). L'Atlantide, dominio di Posidone; la serie dei re di Atlantide; risorse naturali e straordinaria fecondità del suolo (VII 113b-115c). Descrizione urbanistica della capitale e dell'acropoli (VIII 115c-116c). La reggia, i templi, le fonti di acqua fredda e calda, i giardini, i ginnasi, l'ippodromo, le caserme, gli arsenali e gli altri edifici (IX 116c-117e). Descrizione del resto del paese, organizzazione economica e militare (X 117e-119b). Cerimonia del giuramento e del giudizio dei re (XI 119c-120d). Decadenza morale degli abitanti dell'Atlantide e decisione di Zeus di punirli... (XII 120d-121c).
[106a] I. TIMEO. Come volentieri, o Socrate, quasi riposando dopo molta via, mi son ora liberato appieno dal lungo corso del ragionamento! Quel dio poi, che da gran tempo esiste di fatto, ma è nato testé nel discorso, io lo prego che di quanto abbiamo detto bene ci dia salute, e se nostro [b] malgrado abbiamo espresso opinioni insensate intorno alla divinità, ci imponga la pena conforme. Ora la pena giusta è di rendere coerente l’incoerente: affinché dunque nell’avvenire parliamo rettamente intorno alla generazione degli dèi, noi lo preghiamo che ci dia la medicina più compiuta e più buona, la scienza. E dopo questa preghiera commettiamo a Crizia, secondo il convenuto, di seguitare il discorso. CRIZIA. Io accetto, o Timeo. Ma come tu da principio chiedesti venia, dovendo parlare di gravi argomenti, [c] così ora anch’io fo lo stesso, anzi chiedo di ottenerne [107a] di più per le cose che dovranno esser dette. E benché io sappia che questa mia richiesta è molto ambiziosa e più rude del conveniente, pure devo farla. In verità, che tu non abbia parlato bene, qual uomo sensato oserebbe affermarlo? ma io mi sforzerò di mostrare che quanto resta a dire ha bisogno, come più difficile, di maggior venia. Infatti, o Timeo, è più agevole sembrare di parlar bene parlando degli dèi agli uomini che dei mortali a noi, perché l’inespe-[b] rienza e la grande ignoranza degli ascoltatori danno molta facilità a chi sta per parlare di quel ch’essi non sanno. Voi sapete come stiamo riguardo agli dèi, ma affinché io mostri meglio quel che dico, seguite questo mio ragionamento. E necessario che tutti i nostri discorsi siano imitazione e rassomiglianza di qualcosa: ora consideriamo la riproduzione delle immagini dipinte di corpi divini e umani [c] secondo la facilità e la difficoltà a soddisfare il gusto dei riguardanti, e vedremo che la terra, i monti, i fiumi, le selve e tutto il cielo e le cose che sono e si muovono in esso, ci piacciono per poco che alcuno le sappia rappresentare secondo la loro somiglianza: inoltre, non sapendo niente di preciso intorno ad esse, non esaminiamo né scrutiamo [d] le pitture, ma ci basta un adombramento oscuro e fallace. Ma se alcuno tenta rappresentare i nostri corpi, noi, vedendo acutamente per l’attenzione continua e familiare quel ch’è stato trascurato, diveniamo giudici difficili con chi non riproduca per intero tutte le somiglianze. Il medesimo si deve osservare che avviene altresì nei discorsi: noi riguardo alle cose celesti e divine ci contentiamo che siano anche per poco espresse convenientemente, ma consideriamo [e] con rigore le cose mortali e umane. Se dunque, parlando ora senza preparazione, non possiamo dir tutto come si conviene, bisogna perdonarci: perché dobbiamo pensare [108a] che non sono facili le cose mortali, anzi difficili a rappresentarle in maniera probabile. E tutto questo ho detto, o Socrate, volendo ammonirvi e chieder venia non minore, ma maggiore per quanto dovrò esporre. Se dunque vi sembra che io chieda un dono giusto, datelo volentieri.
II. SOCRATE. E perché non te lo daremo, o Crizia? Anzi questo stesso sia dato anche ad Ermocrate, che parlerà terzo e che certo fra poco, quando verrà il suo turno, lo [b] chiederà come voi. Affinché dunque prepari un altro esordio e non sia costretto a dire il medesimo, parli pure come chi abbia ottenuto venia per allora. Però ti dico, caro Crizia, l’opinione del teatro: il primo poeta vi fu mirabilmente lodato, sicché ti bisognerà moltissima venia, se vuoi esser capace di compiere la tua parte. ERMOCRATE. [c] Tu, Socrate, mi fai lo stesso avvertimento che a questo. Ma, caro Crizia, uomini ignavi non elevano mai trofei! Bisogna dunque procedere animosamente a dire, ed invocato Apollo e le Muse, mostrare e celebrare come buoni gli antichi cittadini. CRIZ. Posto nell’ultima linea e con un altro dinanzi a te, per questo sei così animoso, o caro Ermocrate! Ma qual sia quest’impresa, essa stessa te lo mostrerà. [d] Però si deve obbedire al tuo monito e incitamento, e oltre gli dèi, che hai detto, invocare gli altri e specialmente Mnemosine. Perché quasi la maggior parte del nostro discorso ritorna interamente a questa dea. E se noi ricorderemo bene e riferiremo gli antichi racconti dei sacerdoti, qui riportati da Solone, io so certo che dimostreremo a questo teatro d’aver compiuto giustamente il nostro dovere. Questo dunque conviene ora fare e non indugiar oltre.
[e] III. Prima di tutto ricordiamo che in complesso sono novemila anni che si dà per avvenuta la guerra tra quelli che abitavano fuor delle colonne d’Ercole e quelli di dentro: e ora bisogna raccontarla. Gli uni, si dice, erano capeggiati da questa città, che compié tutta la guerra: gli altri dai re dell’isola Atlantide che, come dicemmo, era allora maggiore della Libia e dell’Asia, mentre ora, som-[109a] mersa dai terremoti, è fango impraticabile, che impedisce alle nostre navi d’avanzarsi per quel mare. La più parte delle nazioni barbare e i popoli greci di quel tempo appariranno successivamente, come si presenterà l’occasione, nel séguito del mio discorso. Ma degli Ateniesi d’allora e degli avversari, con cui guerreggiarono, è necessario esporre da principio la potenza rispettiva e le forme di governo. E di essi bisogna dare ai nostri la precedenza della narrazione. Gli dèi una volta si divisero i vari luoghi di tutta [b] la terra secondo la sorte, non per contesa: perché non sarebbe ragionevole dire che gli dèi ignorassero quel che spettava a ciascuno di essi, né che sapendolo volessero procurarsi con le contese quel che piuttosto spettava ad altri. Ottenuto così con le sorti della giustizia quant’era loro gradito, popolavano le terre, e dopo averle popolate nutrivano noi, lor possesso e prole, come i pastori il bestiame: però non costringevano i corpi con la forza dei pastori, [c] che traggono al pascolo il bestiame con le percosse, ma, com’è l’uomo un animale docilissimo, dirigendo quasi dalla poppa di una nave, secondo la loro volontà, e adoperando come un timone la persuasione per muovere gli animi, reggevano così tutto il genere mortale. Dunque gli dèi, ottenuto in sorte chi un luogo, chi un altro, li governavano: ma Efesto ed Atena, avendo natura comune, figli com’erano dello stesso padre, ed eguali tendenze per l’amore della sapienza e delle arti, riceverono ambedue, come unica sorte, questa regione, perché propria e adatta [d] alla virtù e all’intelligenza, e fatti buoni gli uomini indigeni ne rivolsero gli animi all’ordine politico. I nomi di costoro si son conservati, ma le opere per la morte dei loro eredi e la lunghezza dei tempi scomparvero. Perché, come si è detto prima, rimaneva sempre superstite la razza montana e illetterata, che aveva udito solo i nomi dei [e] prìncipi della terra e ben poco delle loro opere. E ponevano volentieri questi nomi ai loro figli, ma, ignorando le virtù e le leggi degli antenati, tranne poche tradizioni oscure, e rimanendo essi e i figli per molte generazioni nell’indigenza delle cose necessarie, volgevano l’attenzione a quello di cui mancavano, solo di questo par-[110a] lavano, ed erano incuriosi dei fatti precedenti e antichi. Invero la mitologia e la ricerca delle antichità entrano nelle città insieme con l’ozio, quando vedono che si è già provveduto alle necessità della vita: prima no. Così si son salvati i nomi degli antichi senza le opere. E dico questo per congettura, perché Solone diceva che i sacerdoti raccontavano quell’antica guerra, citando la più parte delle gesta di Cecrope, di Eretteo, di Erittonio, di Erisittono e degli altri, e quante anche se ne ricordano di cia-[b] scun eroe anche prima di Teseo: e così pure delle donne. E anche la figura e la statua della dea, essendo allora comuni le occupazioni di guerra alle donne e agli [c] uomini, così, secondo quel costume, la rappresentavano armata: il che mostra che, associandosi insieme femmine e maschi, possono tutti esercitare in comune la virtù conveniente a ciascun sesso.
IV. Abitavano dunque allora in questa regione le altre classi di cittadini occupate nei mestieri e nel chiedere il vitto alla terra, ma la classe militare, che fin da principio uomini divini avevano separata dalle altre, abitava in disparte, fornita di tutte le cose necessarie al vitto e all’educazione dei figli. Niuno di questi guerrieri possedeva nulla [d] di proprio, ma stimava tutto essere ad essi tutti comune, né oltre al vitto sufficiente credeva d’accettare alcuna cosa dagli altri cittadini, ed esercitava tutte le occupazioni descritte ieri, che sono quelle dei guardiani della repubblica, come noi li abbiamo concepiti. E così pure della nostra terra si diceva probabilmente e veramente che allora avesse i limiti determinati presso l’Istmo e nel restante continente fino alla sommità del Citerone e del Parnete, e che scendesse [e] a destra fino all’Oropia e a sinistra verso il mare fino all’Asopo, e che tutto il mondo fosse superato in fertilità dalla nostra regione, e che perciò questa potesse allora nutrire un grande esercito di perieci. Ed è grande argomento della sua fecondità che quanto resta ora di essa può contendere con qualsiasi terra nel produrre frutti d’ogni specie e [111a] buoni e nel fornire buon pascolo a tutti gli animali. Tale era allora, oltre alla bellezza, la sua fertilità. Come dunque questo è credibile e per quale indizio questa terra si può dir giustamente il residuo di quella d’allora? Essa si estende tutta dal continente per molto tratto nel mare come un promontorio: il ricetto del mare la circonda profondamente da ogni parte. Accadute dunque molte e grandi inondazioni per novemila anni (tanti ne son corsi da quel tempo fino ad ora), la terra, che in questi tempi e avveni-[b] menti scendeva dalle alture, non si ammassò come altrove in monticelli degni di menzione, ma sempre scorrendo scomparve nel profondo del mare: pertanto, come avviene nelle piccole isole, son rimaste in confronto di quelle d’allora quest’ossa quasi di corpo infermo, essendo colata via la terra grassa e molle e restato solo il corpo magro della terra. Ma allora ch’era intatta, aveva come monti [c] alte colline, e le pianure ora dette di Felleo erano piene di terra grassa, e sui monti v’era molta selva, di cui ancora restano segni manifesti. E dei monti ve ne sono ora che porgono nutrimento soltanto alle api, ma non è moltissimo tempo che vi furori tagliati alberi per coprire i più grandi edifizi, e questi tetti ancora sussistono. V’erano [d] anche molte alte piante coltivate e vasti pascoli per il bestiame. E ogni anno si raccoglieva l’acqua del cielo, né, come ora, si perdeva quella che dalla secca terra fluisce nel mare, ma la terra, ricevutane molta, la conservava nel suo seno, e la riportava nelle cavità argillacee, e dalle alture la diffondeva nelle valli, formando in ogni luogo larghi gorghi di fonti e di fiumi, dei quali presso le antiche sorgenti son rimaste ancora sacri indizi, che attestano la verità delle mie parole.
[e] V. Così dunque era disposta per natura la restante regione, e la coltivavano, com’è conveniente, veri agricoltori, dediti al loro mestiere, amanti del bene, dotati di belle qualità e possessori d’una terra ottima e copiosissima d’acqua e favorita da clima molto ben temperato. E la città era [112a] così abitata in quel tempo: anzitutto l’Acropoli non era allora come adesso, perché in una sola notte piogge torrenziali, avendola liquefatta d’intorno, la spogliarono di tutta la terra, in mezzo a terremoti e ad un’enorme inondazione, che fu la terza innanzi al diluvio di Deucalione. Ma prima in altro tempo si estendeva per grandezza fino all’Eridano e all’Ilisso, e comprendeva la Pnice, e aveva per limite il Licabetto dal lato opposto alla Pnice, ed era tutta zollosa e piana di sopra, tranne pochi luoghi. Le parti esteriori, sotto i suoi fianchi, erano abitate dagli operai e dagli agri-[b] coltori, che coltivavano i campi vicini. Le parti superiori le aveva occupate la classe militare per sé presso il tempio d’Atena e d’Efesto, dopo averle circondate d’una sola cinta, come l’orto d’una sola famiglia: essa abitava le parti settentrionali dell’Acropoli in case comuni, avendovi preparate le sale, dove l’inverno pranzavano tutt’insieme, [c] e quant’altro richiedeva la vita in comune per gli edifizi dei guerrieri e dei sacerdoti, ma senz’oro né argento: perché in nessun luogo adoperavano questi metalli, ma, cercando una via di mezzo tra il fasto e la sordidezza, costruivano modeste abitazioni, dov’essi e i figli dei figli invecchiavano, e che sempre tramandavano ad altri lor somiglianti. Nell’estate lasciavano liberi i loro giardini, i ginnasi e le sale, dove pranzavano in comune, e occupavano invece le parti meridionali dell’Acropoli. V’era una sola fonte in quel luogo dov’è ora l’Acropoli, ed estintasi per i terre-[d] moti, ne son rimasti ora pochi rivoli all’intorno, ma allora forniva acqua abbondante a tutti ed era d’egual temperatura d’inverno e d’estate. Essi dunque abitavano a questo modo, custodi dei loro cittadini e capitani senza contrasto degli altri Greci, e curavano, per quanto era possibile, di rimanere in ogni tempo la stessa moltitudine d’uomini e di donne, capace di guerreggiare e allora del [e] numero di circa ventimila.
VI. Tali dunque essendo questi uomini e amministrando sempre in tal modo la loro città e la Grecia secondo giustizia, erano molto stimati in tutta Europa ed Asia, per la bellezza dei corpi e per ogni virtù d’animo, e celebrati più di quanti vivevano allora. Ma ora diremo quali fossero fin da principio le condizioni dei loro antagonisti per comunicarle a voi, o amici, se non ci verrà meno la memoria [113a] di quel che udimmo da fanciulli. Ma prima del discorso occorre una breve spiegazione, affinché non vi meravigliate, udendo spesso nomi greci di uomini barbari. Ve ne dirò il motivo. Solone, meditando di servirsi di quella narrazione per il suo carme, volle conoscere il significato dei nomi e trovò che quegli Egiziani, che primi scrissero questa storia, li avevano tradotti nella loro lingua: ed egli a sua volta, [b] preso il significato dei singoli nomi, li riferì traducendoli nella nostra lingua. Questi manoscritti erano presso il nonno e ora sono in casa mia, e quand’ero fanciullo li studiai diligentemente. Se dunque udirete questi nomi, che ho detto, non ve ne meravigliate, perché ne sapete il motivo. Quella lunga narrazione cominciava allora press’a poco così.
VII. Come si è detto prima, gli dèi si divisero a sorte tutta la terra, ottenendo chi grandi, chi piccole parti, e vi [c] stabilirono per sé templi e sacrifizi. Così anche Poseidone, avendo sortito l’isola Atlantide, collocò in un luogo dell’isola i figli avuti da donna mortale. Questo era il luogo: presso il mare, ma nel mezzo dell’isola, v’era una pianura, che si dice essere stata la più bella di tutte le pianure e abbastanza feconda. Presso la pianura, nel mezzo, a distanza di circa cinquanta stadi, v’era un monte basso da ogni parte. [d] Vi abitava uno di quegli uomini, che colà da principio erano nati dalla terra, un certo Evenore, con la moglie Leucippe. Essi generarono una sola figlia, Clito. Quando la fanciulla fu in età da marito, la madre e il padre morirono, e Poseidone, preso d’amore, giacque con essa: e per ben fortificare il colle, in cui quella abitava, lo spezzò d’ogni intorno, e vi pose alternativamente cinte minori e maggiori di mare e di terra, due di terra e tre di mare, che quasi descrisse in cerchio dal centro dell’isola, ponendole ad egual [e] distanza per ogni parte, cosicché non vi fosse accesso per gli uomini: perché a quel tempo non v’erano ancora navi né navigazione. Egli, come dio, ornò facilmente la nuova isola formata nel mezzo: vi derivò dal suolo due sorgenti d’acqua, l’una che scorreva calda, l’altra fredda, e fe’ produrre alla terra nutrimento svariato e sufficiente. Avendo procreato cinque coppie di figli maschi, gli allevò e, divisa tutta l’isola Atlantide in dieci parti, diè al primo [114a] dei figli più grandi la materna abitazione e il possesso circostante, ch’era il più grande e il più bello, e lo fece re degli altri: stabilì come sovrani anche gli altri fratelli, e a ciascuno diè l’impero di molti uomini e di molta terra. E impose i nomi a tutti, e prima al più grande e re, dal quale tutta l’isola e il mare, detto Atlantico, ebbe il nome, perché quello che allora regnò per il primo fu chiamato [b] Atlante. Il suo gemello e nato dopo di lui, a cui era toccata l’estrema parte dell’isola verso le colonne d’Ercole, presso quella regione che ora in quel tratto è detta Gadirica, ebbe il nome greco di Eumelo, che nella loro lingua si dice Gadiro: e dal suo nome poté denominarsi quella contrada. Quelli del secondo parto, li chiamò l’uno Anfere, l’altro Evemone; quelli del terzo, il primo nato Mnesco, quello nato dopo Autoctono; quelli del quarto, il primo Elasippo, [c] l’alto Mestore: a quelli del quinto, al primo fu posto nome Azae, al secondo Diaprepe. Tutti questi e i loro discendenti per molte generazioni vi abitarono, dominando su molte altre isole di quel mare, e inoltre imperando alle genti di qua, come anche prima fu detto, fino all’Egitto [d] e alla Tirrenia. La stirpe di Atlante fu numerosa e onorata, e tramandando sempre il re più vecchio il regno al maggiore dei figli, lo conservarono per molte generazioni, e possedevano tanta copia di ricchezza, quanta non ne fu mai per l’innanzi in alcuna dominazione di re, né mai facilmente sarà nell’avvenire, e avevano accumulato tutto quello che nella città e nella rimanente regione occorreva accumulare. Molte cose in grazia della loro potenza venivano ad essi dal di fuori, moltissime ne forniva l’isola stessa [e] per le necessità della vita, e in primo luogo tutte le sostanze solide e fusibili, che si scavano dalle miniere: e quel metallo che ora solo si nomina, allora era più che un nome, l’oricalco, che in molti luoghi dell’isola si scavava dalla terra, ed era a quel tempo il più prezioso dopo l’oro. E quanto appresta la selva all’opera dei legnaiuoli, tutto produceva l’isola in abbondanza, e così nutriva a sufficienza animali mansueti e selvaggi. V’era in essa anche grandissima quantità di elefanti: perché per gli altri animali, quanti pascolano nelle paludi, nei laghi e nei fiumi, e quanti sui [115a] monti e sui campi, per tutti v’era pascolo abbondante, e così anche per quest’animale, ch’è il più grande e il più vorace. Inoltre quanti profumi la terra ora fornisce di radici o d’erba o di legna o di succhi stillati dai fiori o dai frutti, tutti questi allora produceva e forniva bene. Così i frutti molli o duri, che ci servono di nutrimento, e quelli [b] che usiamo inoltre per cibo e che chiamiamo legumi, e i frutti legnosi, che ci danno bevande, alimenti e unguenti, e i frutti scorzuti che, usati per gioco e diletto, difficilmente si ripongono, e quelli che come eccitanti contro la sazietà poniamo nelle seconde mense per compiacere allo stomaco stanco, tutti questi frutti quella sacra isola, che allora stava sotto il sole, produceva belli e meravigliosi e infiniti di numero. Prendendo dunque tutte queste cose dalla terra, [c] costruirono templi, regge, porti, arsenali, e abbellirono la rimanente regione in quest’ordine.
VIII. Anzitutto le cinte di mare, che stavano intorno all’antica metropoli, le congiunsero con ponti, formando una via tra il di fuori e la reggia. Avevano eretto sùbito fin da principio la reggia in questa sede del dio e degli antenati, e i re, ricevendola l’uno dall’altro, vieppiù l’ador-[d] navano, e ciascuno cercava di superare sempre, per quant’era possibile, il predecessore, finché si formò un’abitazione stupenda a vedere per la grandezza e la bellezza delle opere. Infatti, cominciando dal mare, condussero fino all’ultima cinta una fossa larga tre pletri, profonda cento piedi, lunga cinquanta stadi, e con essa diedero accesso alle navi dal mare fino a quella cinta, come in un porto, allargandone la bocca in modo che potessero entrarvi le navi più grandi. E le cinte di terra, che separavano quelle [e] di mare, le perforarono lungo i ponti tanto che potesse passarvi una trireme per volta, e le ricopersero con tetti di modo che la navigazione si compisse di sotto: perché gli orli delle cinte terrestri si elevavano abbastanza sopra il mare. Ma la più grande delle cinte, con la quale comunicava il mare, era larga tre stadi, e quella successiva di terra era eguale ad essa: delle due cinte seguenti, la marittima era larga due stadi, la terrestre era eguale alla marittima [116a] precedente: infine d’uno stadio era quella che circondava l’isola nel mezzo. L’isola, in cui stava la reggia, aveva il diametro di cinque stadi. Questa d’ogni intorno e le cinte e il ponte largo un pletro li rivestirono da una parte e dall’altra con un muro di pietra, imponendo torri e porte sui ponti lungo tutti i passaggi del mare. E d’ogni intorno sotto l’isola, ch’era nel mezzo, e sotto le cinte di fuori e di dentro tagliarono delle pietre, alcune bianche, altre nere, altre rosse, [b] e così scavarono nell’interno dell’isola due bacini profondi con la stessa roccia per copertura. E degli edifizi, alcuni ne formarono semplici, altri per diletto con varia mescolanza di pietre, dando a ciascuno la sua giocondità naturale. E rivestirono di bronzo, a guisa di vernice, tutto il percorso del muro della cinta esteriore, e spalmarono di stagno liquefatto quello della cinta interiore, e d’ori-[c] calco dai riflessi ignei quello della stessa acropoli.
IX. Ma la reggia nell’interno dell’acropoli fu costruita così. Nel mezzo il tempio sacro a Clito e a Poseidone vi era stato lasciato inaccessibile, circondato d’una muraglia aurea: in questo tempio avevano da principio generato e messo alla luce la stirpe dei dieci regoli, colà ogni anno da parte di tutti i dieci regni si compivano a ciascuno di [d] essi i sacrifizi ordinari. Il tempio di Poseidone era lungo uno stadio, largo tre pletri, d’altezza proporzionata a queste dimensioni, e con qualcosa di barbarico nell’aspetto. Rivestirono d’argento tutto il tempio al di fuori fuorché gli acroteri, e d’oro gli acroteri: nell’interno la volta si vedeva tutta d’avorio ed era screziata d’oro e d’oricalco, e tutto il resto delle pareti, delle colonne e del pavimento lo ricopersero d’oricalco. Vi collocarono statue d’oro, e il dio [e] ritto sul carro, auriga di sei cavalli alati, tanto grande che toccava con la testa la volta, e cento Nereidi all’intorno sopra delfini: perché allora credevano ch’egli ne avesse tante. E v’erano molte altre statue dedicate da privati. Di fuori intorno al tempio stavano le immagini auree di tutti, delle donne e d’ogni discendente dei dieci re, e molte altre grandi offerte di re e di privati o delle stesse città o di quelle straniere, a cui imperavano. L’altare per la gran-[117a] dezza e per l’arte conveniva a questo apparato, e similmente la reggia era conforme alla grandezza dell’impero e all’ornamento del tempio. Avevano due fonti, l’una fredda e l’altra calda, molto copiose e adatte mirabilmente ad ogni uso per il diletto e la virtù delle acque. E vi stabilirono intorno case e piantagioni d’alberi, che amano l’umidità, [b] e anche vasche, quali a cielo scoperto, quali invernali e coperte per i bagni caldi, da una parte quelle del re, da un’altra quelle dei cittadini, altrove quelle delle donne, altrove ancora quelle dei cavalli e delle altre bestie da soma, dando a ciascuna l’ornamento adatto. L’acqua corrente la conducevano nel bosco di Poseidone, che per la fecondità della terra aveva alberi d’ogni genere, di bellezza e altezza meravigliosa, e parte ne derivavano nelle cinte esteriori mediante canali lungo i ponti. Ivi erano stati costruiti [c] molti templi consacrati a molte divinità, molti giardini e ginnasi, alcuni per gli uomini, altri per i cavalli in disparte in ciascuna delle due cinte che formavano come delle isole: e oltre gli altri v’era nel mezzo della maggiore delle isole un ippodromo scelto per essi, largo uno stadio, e nella sua lunghezza per tutto il giro dell’isola era lasciato alla gara dei cavalli. Intorno a questo, dall’una parte e dall’altra [d] v’erano caserme destinate alla moltitudine degli armati: ai più fedeli era stato assegnato il presidio nella cinta più piccola e più vicina all’acropoli, ma ai più insigni di tutti per fede erano state date abitazioni dentro l’acropoli presso gli stessi re. Gli arsenali erano pieni di triremi e di tutti gli apparecchi necessari alle triremi, tutti in buon ordine. E così era disposta l’abitazione dei re. Ma di là dai tre porti esteriori cominciava dal mare un muro circolare, [e] distante per ogni parte cinquanta stadi dalla più grande cinta e dal più grande porto, e ritornava nello stesso punto presso la bocca della fossa situata verso il mare. Tutto questo luogo conteneva molte e frequenti abitazioni, e il canale e il porto più grande eran pieni di navigli e di mercanti che venivano da ogni parte del mondo e sollevavano giorno e notte clamore e tumulto vario e strepito per il loro gran numero.
X. Dunque ora ho riferito press’a poco quanto allora si diceva della città e dell’antica abitazione, ma occorre che [118a] tentiamo di ricordare qual fosse la natura della restante regione e il suo ordinamento. Si diceva primamente che tutto il luogo fosse molto alto e scosceso dalla parte del mare, e tutt’intorno una pianura circondasse la città, e questa pianura, cinta in giro da monti discendenti fino al mare, fosse liscia e uniforme e tutta oblunga, di tremila [b] stadi da una parte e di duemila dal mare fino al centro. Questo tratto di tutta l’isola era volto a mezzodì e riparato dai venti del settentrione. I monti che lo cingevano si diceva che superassero per numero, grandezza e bellezza tutti quelli ora esistenti, e chiudevano tra loro molti villaggi, ricchi d’abitanti, e fiumi e laghi e prati, che fornivano nutrimento sufficiente a tutti gli animali domestici e selvaggi, e selva copiosa e svariata, che porgeva materiale abbondante a tutti i lavori in generale e a ciascuno in particolare. [c] Così dunque questo piano era stato fatto da natura e dall’opera di molti re in molto tempo. Era esso un quadrangolo per la maggior parte retto e oblungo, e dove veniva meno, lo rendeva diritto una fossa scavata all’intorno. Non è credibile quel ch’è stato tramandato sulla profondità e larghezza e lunghezza di questa fossa, che cioè, come opera umana, avesse oltre al restante lavoro tali dimensioni; però bisogna dire quel che abbiamo udito. Era stata scavata alla profondità di un pletro con larghezza d’uno stadio in ogni punto, ed essendo condotta per tutta la pianura ne [d] conseguiva che avesse la lunghezza di diecimila stadi. Riceveva i corsi d’acqua, che scendevano dalle montagne, e girando intorno alla pianura raggiungeva d’ambo le parti la città, donde andava a versarsi nel mare. Dalla parte superiore di questa fossa canali larghi circa cento piedi, dopo aver tagliato in linea retta il piano, ritornavano ad essa presso il mare, e distavano cento stadi gli uni dagli [e] altri. Per essa trasportavano i materiali dai monti nella città e gli altri prodotti delle stagioni su navi, perché scavando trasversalmente passaggi navigabili avevano messo in comunicazione i canali tra loro e con la città. E due volte all’anno raccoglievano i frutti della terra, giovandosi d’inverno delle pioggie e bagnando d’estate i prodotti della terra con le acque dei canali. In quanto alla moltitudine degli uomini che nel piano erano utili alla guerra, era stato stabilito che ogni divisione presentasse un capo, e la gran-[119a] dezza d’ogni divisione era di cento stadi, e tutte le divisioni erano sessantamila. Ma il numero dei montanari e di quelli della restante regione si diceva che fosse infinito, e secondo le località e i villaggi furon distribuiti tutti in queste divisioni e aggregati ai loro capi. Era stabilito che ogni capo fornisse per la guerra la sesta parte d’un carro [b] di guerra fino a formarne diecimila, e due cavalli con i cavalieri, e inoltre una coppia di cavalli senza carro, che avevano un combattente armato di piccolo scudo e un auriga oltre il cavaliere di ciascun cavallo, e poi due opliti, due arcieri e due frombolieri, tre armati alla leggera, tre scagliatori di pietre e tre di giavellotti, e quattro marinai per riempire mille e duecento navi. Tale era l’ordinamento delle forze militari nella provincia del re supremo: in ciascuna delle altre nove era diverso, ma sarebbe lungo riferirlo.
[c] XI. Le magistrature e le cariche erano state così ordinate da principio. Ciascuno dei dieci re nella sua provincia e città sovrastava agli uomini e al maggior numero delle leggi, punendo e uccidendo chiunque egli volesse. Ma il governo generale e i rapporti fra i re erano regolati secondo gli ordini di Poseidone, come li avevan tramandati ad essi la legge e le lettere scritte dai primi re sopra una colonna [d] di oricalco, ch’era posta nel centro dell’isola dentro il tempio di Poseidone. Ivi si radunavano alternativamente ogni cinque e ogni sei anni, dando lo stesso turno al numero pari e al dispari, e radunati discutevano gl’interessi comuni e ricercavano se alcuno avesse trasgredito la legge e lo giudicavano. E quando dovevano giudicare, prima si davano tra loro questa fede: dopo aver lasciati liberi dei tori nel [e] tempio di Poseidone, i dieci re lasciati soli pregavano il dio di scegliere la vittima che gli fosse gradita, e si mettevano a cacciarla senza ferro, ma con legni e lacci, e quello dei tori che avessero preso, lo conducevano verso la colonna e lo sacrificavano sulla sommità di questa sopra le lettere. Nella colonna oltre le leggi v’era un giuramento che imprecava grandi maledizioni ai disobbedienti. Quando dunque, dopo aver compiuto il sacrifizio secondo le loro leggi, ave-[120a] vano consacrato tutte le membra del toro, versavano in una coppa una goccia di sangue ciascuno, e purificata la colonna gettavano il resto nel fuoco. Di poi attingevano con tazze d’oro dalla coppa e, libando sul fuoco, giuravano di giudicare secondo le leggi scritte sulla colonna e di punire chi per l’innanzi avesse trasgredito le leggi e di non trasgredirle volontariamente nell’avvenire e di non gover-[b] nare essi stessi e di non obbedire a chi governasse, se non in conformità delle leggi del padre. Così pregava ciascuno di essi per sé e per la sua stirpe, e dopo aver bevuto dedicavano la tazza nel tempio del dio e attendevano al pasto e alle altre cose necessarie. Venuta la tenebra e consumato il fuoco del sacrifizio, tutti indossavano le più belle vesti azzurre, e sedevano in terra presso le ceneri del sacrifizio, e di notte, spento tutto il fuoco nel tempio, eran [c] giudicati e giudicavano, se alcuno avesse accusato un altro d’aver violato le leggi. Reso il giudizio, al ritorno della luce lo scrivevano su una tavola d’oro, e lo dedicavano come ricordo insieme con le vestì. E avevano molte altre leggi particolari intorno alle attribuzioni di ciascun re, e sopra tutto di non combattersi mai tra loro e d’aiutarsi tutti, se mai alcuno, di essi tentasse scacciare in qualche città la stirpe regia, e di deliberare in comune, come i loro antenati, [d] quel che credessero opportuno intorno alla guerra e alle altre faccende, lasciando il comando supremo alla stirpe atlantica. Né il re poteva condannare a morte alcuno dei suoi parenti senza il consenso di più della metà dei dieci re.
XII. Tanta e tale era allora in que’ luoghi questa potenza, che il dio, secondo la tradizione, raccolse e diresse contro il nostro paese per il seguente motivo. Durante molte generazioni, finché bastò ad essi la natura divina, que-[e] gli uomini furono obbedienti alle leggi e animati amichevolmente verso il nume della loro schiatta. Perché nutrivano sentimenti sinceri e in tutto grandi, usavano moderazione e saviezza in tutti i casi occorrenti e nei loro rapporti: però disprezzando tutto, fuorché la virtù, consideravano poco le cose presenti e sopportavano pazientemente come un fardello la mole dell’oro e degli altri possessi. E non già si [121a] lasciavano inebriare dal lusso, né, perduto il dominio di sé per la ricchezza, andavano in rovina, ma nella loro saviezza acutamente osservavano che tutte queste cose s’accrescono per l’amicizia comune con la virtù, mentre, se si ricercano con troppo zelo e ardore, esse periscono e così pure la virtù. Finché dunque ragionarono così e conservarono la natura divina, s’accrebbe ad essi tutto quello che prima abbiamo enumerato. Ma quando l’essenza divina, [b] mescolatasi spesso con molta natura mortale, in essi fu estinta, e la natura mortale prevalse, allora, non potendo sopportare la prosperità presente, degenerarono, e a quelli che sapevano vedere apparvero turpi per aver perduto le più belle delle cose più preziose; ma quelli, che non sapevano vedere la vera vita rispetto alla felicità, allora specialmente li giudicarono bellissimi e beati, mentr’eran pieni d’ingiusta albagia e prepotenza. Ma Giove, il dio degli dèi, che governa secondo le leggi, avendo compreso, come quello che sa vedere queste cose, la degenerazione d’una stirpe già [c] buona, pensò di punirli, affinché castigati divenissero migliori; e convocò tutti gli dèi nella loro più augusta sede, ch’è nel centro di tutto l’universo e vede tutto quello che ha sortito di nascere; e convocatili disse...