ALCIBIADE II
SOMMARIO  

Socrate incontra Alcibiade che si reca al tempio a pregare: bisogna esser molto cauti nella preghiera, per evitare di chiedere qualcosa che si ritiene un bene e invece è un male. Esempio di Edipo. Ma Edipo, obbietta Alcibiade, era impazzito (I 138a-c). Ma, risponde Socrate, se essere pazzo è il contrario di essere assennato, dovremo dire che essere pazzo è identico a essere stolto, dal momento che anche la stoltezza è il contrario dell'assennatezza e non possono esserci due contrari diversi di un'unica cosa (II 138c-139c). Si dovrà allora ammettere che la maggior parte degli uomini essendo stolta è pazza? Come mostra l'analogia con la malattia, la stoltezza è di molte specie e, se è vero che ogni pazzo è stolto, non è vero il contrario (III 139c-140d). La stoltezza identificata con l'ignoranza: Esempio di preghiera imprudente (IV 140d-141c). Altri esempi di preghiere suggerite da ignoranza di che cosa è bene chiedere (V 141c-143a). Ma ci sono casi in cui ignorare il bene, è meglio che credere di conoscerlo (VI 143a-c). Altro esempio per dimostrare questo principio (VII 143e-144c). Nessuna conoscenza giova veramente se è separata dalla conoscenza di ciò che è meglio. (VIII 144d-145c). L'assennatezza non può prescindere, quindi, dalla scienza del bene; e tuttavia peggiore dell'ignoranza è il credere di sapere senza sapere realmente (IX 145c-146d). Anche l'erudizione non giova senza la scienza del bene. Carattere enigmatico .della poesia (X 146d-147e). Alcibiade non sa più cosa chiedere nella sua preghiera e Socrate, allora, ricorda la preghiera assennata dei Lacedemoni che si limitano a chiedere che gli dèi concedano il bene e allontanino il male (XI 147c-148d). La risposta dell'oracolo di Ammone (XII 148d-149c). Più che alla ricchezza e all'abbondanza dei sacrifici e delle offerte, gli dèi guardano all'anima se è pia e giusta (XIII 149c-150d). Conclusione: Alcibiade incorona Socrate (XIV 150d-151e).

TESTO

 [138a] I. SOCRATE. Caro Alcibiade, te ne vai al tempio a pregare il dio? ALCIBIADE. Proprio, caro Socrate. SOCR. Hai un’aria preoccupata e tieni gli occhi per terra, come se andassi meditando qualcosa. ALC. Meditare che cosa, Socrate? SOCR. La più grave meditazione, Alcibiade, al-[b] meno secondo me. Perché, dimmi per Giove, non credi che gli dèi in parte concedano in parte rifiutino quelle cose che noi domandiamo loro nelle nostre preghiere personali e pubbliche, e che ad alcuni elargiscono e ad altri no? ALC. E’ proprio così. SOCR. Dunque non ti pare che ci voglia molta precauzione, affinché non si chiedano in preghiera senza accorgersene grandi mali ritenendoli dei beni, e gli dèi in quel momento si trovino in tale disposizione da concedere ciò che appunto ci si trovi a pregare? Come nel [c] caso di Edipo, che, si racconta, pregò i figli di dividersi l’eredità paterna con la spada e, mentre avrebbe potuto supplicare una qualche liberazione dai suoi mali presenti, egli ne invocò dei nuovi in aggiunta a quelli che aveva, ed ecco, questi si compirono, e ne derivarono molte altre sventure che non è necessario ti esponga una ad una. ALC. Però, Socrate, tu hai parlato d’un uomo folle; perché qual uomo in senno avrebbe osato, a tuo giudizio, di rivolgere una preghiera simile?

II. SOCR. Allora la follia ti sembra l’opposto del senno? [d] ALC. Ma certo. SOCR. Così tu consideri alcuni uomini dissennati e altri in senno? ALC. Sì. SOCR. Dimmi. Esaminiamo chi sono. Perché s’è detto concordemente che ci sono dei dissennati e degli assennati e dei folli. ALC. Sì, d’accordo. SOCR. Ci sono poi anche uomini sani? ALC. Sì. SOCR. Così ve ne sono anche altri, malati? ALC. [139a] Sì. SOCR. Non sono certo le stesse persone. ALC. No. SOCR. Ve ne sono forse degli altri che non si trovano in alcuna di queste due condizioni? ALC. No certo. SOCR. E’ inevitabile dunque che l’uomo sia o sano o malato. ALC. Mi pare. SOCR. Dimmi allora: sulla assennatezza e la dissennatezza hai la stessa opinione? ALC. Come sarebbe? SOCR. Ti chiedo se a tuo parere si possa essere solo assennati o solo dissennati o se ci sia una terza condizione intermedia che renda l’uomo né assennato né dissen-[b] nato. ALC. No, non c’è. SOCR. E’ forza maggiore allora che si sia in una o nell’altra delle due condizioni. ALC. Penso di sì. SOCR. Ebbene, non ricordi di aver ammesso che la follia è l’opposto del senno? ALC. Sì. SOCR. E poi che non si dà una terza condizione intermedia che rende l’uomo né assennato né dissennato? ALC. Sì che l’ho ammesso. SOCR. Bene, è possibile che vi siano due opposti a un oggetto solo? ALC. No, non è possibile. [c] SOCR. E’ possibile dunque che dissennatezza e follia siano la stessa cosa. ALC. Sì, a quanto pare.

III. SOCR. Se dicessimo, caro Alcibiade, che tutti i dissennati sono folli diremmo bene: per esempio quanti dei tuoi coetanei si trovino ad essere dissennati - come sono - e quanti dei tuoi amici più anziani. Perché, dimmi, per Giove, non credi che nella nostra città gli uomini di senno siano pochi, mentre i più sono dissennati che tu chiami folli? ALC. Lo credo. SOCR. Credi tu che, fra tanti pazzi, potremmo menare tranquilla vita di cittadini? E che non saremmo stati già pestati, battuti e maltrattati [d] come sogliono fare i folli, avendo scontato così, già da lungo tempo, la nostra pena? Ma sta attento, beato amico, che le cose non siano così. ALC. Già, come potrebbe essere mai, o Socrate? E’ probabile che la questione non sia come credevo. SOCR. Lo credo anch’io. Ma bisogna considerarla in questo altro modo... ALC. In qual modo dici, Socrate? SOCR. Ascolta. Lo ammettiamo o no che ci sono dei malati? ALC. Certo. SOCR. A tuo [e] parere un malato deve aver necessariamente la podagra, la febbre o l’oftalmia o non ritieni che, senza essere affetto da alcuni di questi mali, possa soffrirne di un altro? Perché molte sono le malattie, e non queste sole. ALC. Sono d’accordo. SOCR. Ora, ti pare che ogni oftalmia sia una malattia? ALC. Sì. SOCR. Forse anche che ogni malattia sia oftalmia? ALC. No, certo. Però non so più bene cosa dire. SOCR. Ma se tu mi presterai la tua attenzione, noi [140a] due studiando la cosa insieme, finiremo per scoprirla. ALC. Sì, ecco la mia attenzione, Socrate, per quanto è in mio potere. SOCR. Dunque ci siamo trovati d’accordo che ogni oftalmia è una malattia, e che ogni malattia non è una oftalmia. ALC. Sì, d’accordo. SOCR. E con ragione, mi sembra. Perché tutti i febbricitanti sono malati, ma non tutti i malati penso sono febbricitanti, o podagrosi o oftalmici. Tuttavia ogni cosa di questo genere è malattia ma [b] differisce, come dicono quelli che chiamiamo medici, nei suoi effetti. Perché non a tutti esse producono gli stessi effetti e nello stesso modo, ma ogni malattia opera secondo la sua proprietà, eppure sono tutte malattie. Per fare un esempio: vi sono degli uomini che sono artigiani, non è vero? ALC. Certo. SOCR. Cioè i calzolai, i carpentieri, gli scultori e mille altre specie che non c’è bisogno di nominare una a una. Ora tutti costoro esercitano, partitamente, [c] una branca dell’artigianato e sono tutti artigiani, ma non sono tutti carpentieri né calzolai né statuari benché formino tutti la categoria degli artigiani. ALC. No certo. SOCR. Nello stesso modo, eccoti, anche gli uomini hanno diversa parte di dissennatezza e noi chiamiamo pazzi coloro che ne possiedono il maggior grado, sciocchi e intronati coloro che ne possiedono un po’ meno. Ma la gente che preferisce usare parole eufemistiche, ne chiama alcuni esal-[d] tati, altri semplicioni, altri ancora innocenti, bambinoni, incoscienti. Se ci pensi un po’ troverai molti altri nomi. E tutto ciò è dissennatezza, ma la differenza è come quella che ci è apparsa per arte e arte, malattia e malattia. Non ti pare? ALC. Sì.

IV. SOCR. Ritorniamo allora indietro al punto di prima. Già al principio della nostra discussione dicemmo di dover esaminare chi fosse assennato e chi dissennato: perché siamo restati d’accordo che ne esistono, non è vero? ALC. Sì, d’accordo. SOCR. E consideri forse assennati quelli che [e] sanno ciò che debbono fare e dire? ALC. Sì. SOCR. Chi invece consideri dissennato? Forse chi non sa né l’una né l’altra cosa? ALC. Proprio loro. SOCR. Perciò, poiché sono ignari dell’una e dell’altra cosa, faranno e diranno, senza accorgersene, le cose che non dovrebbero? ALC. Evidentemente. SOCR. E fra questi uo- [141a] mini, Alcibìade, io ci mettevo anche Edipo: ma troverai anche al giorno d’oggi molte persone che, pur senza essere in preda all’ira come egli era, sono convinti di chiedere nelle loro preghiere dei beni e non delle sventure. Edipo, poi, non pregava per dei beni ma neppure li credeva tali; ma vi sono di quelli per i quali avviene il contrario. Giacché ho l’idea che se il dio che stai recandoti a pregare ti apparisse all’improvviso e ti domandasse, ancor prima che tu gli abbia chiesto qualcosa, se ti piacerebbe divenire signore di Atene, e aggiungesse, posto che tu ritenga ciò cosa da poco e non abbastanza grande: anche di [b] tutti gli Elleni; e vedesse però che tu sei ancora meno soddisfatto senza la signoria dell’intera Europa e ti promettesse anche questo e non solo lo promettesse, ma, seguendo il tuo desiderio, facesse sì che tutti gli uomini oggi stesso sapessero che Alcibiade, figlio di Clinia, è signore, allora ho l’idea che te ne andresti esultante di gioia, come se tu avessi ottenuto i beni più grandi. ALC. Credo bene, Socrate, che chiunque altro lo farebbe se gli [c] capitasse addosso tanta fortuna. SOCR. Però certo al prezzo della vita non vorresti neppure divenire signore di tutte le terre dei Greci e dei barbari. ALC. Lo credo anch’io! E come no, se non avessi poi il tempo per godermeli? SOCR. Che penseresti se invece avessi il tempo per goderteli male e dannosamente? Neppure in questo caso li vorresti? ALC. No, certamente!

V. SOCR. T’accorgi dunque come è rischioso accettare irriflessivamente i doni, o supplicare d’ottenerli, se può [d] capitare in futuro che se ne colga danno o addirittura ci si rimetta la vita. E potremmo ricordare molte persone che avendo bramato la signoria assoluta, dopo i più zelanti sforzi per assicurarsela, con l’idea di fare il proprio bene, persero la vita per insidie della stessa signoria. E sono sicuro che non ti tornano nuovi certi avvenimenti di "ieri e di ier l’altro", quando Archelao signore dei Macedoni fu assassinato dal suo amasio che aspirava alla signoria non meno di quanto Archelao desiderasse lui, e che lo uccise solo per diventare, lui, signore ed [e] uomo felice. Ma, tenuto il potere tre o quattro giorni, anche lui perse la vita per un nuovo complotto. Ma quanti anche dei nostri cittadini, aspiranti al potere di stratego - perché queste cose non le abbiamo ascoltate da altri, [142a] ma le conosciamo di persona - dopo averlo ottenuto, o sono ancor oggi esiliati dalla patria, o sono periti. E anche quelli che sembrano navigarvi perfettamente hanno attraversato continui pericoli e terrori, non solo al campo con l’esercito, ma anche quando ritornarono a casa loro, assediati come furono dagli informatori, e sostennero un assedio non minore di quello dei nemici, a tal punto che alcuni di costoro avrebbero pregato il cielo di essere [b] tutto fuorché comandanti. E se almeno questi pericoli e questi travagli avessero condotto alla nostra utilità, avrebbero avuto qualche ragione, ma capita quasi sempre il contrario. Lo stesso modo di pregare lo troverai nei riguardi dei figli quando c’è chi prega di avere figlioli, e, quando li ha avuti, cade nella più dolorosa ed inumana sciagura. Perché alcuni hanno passato l’intiera vita nella disperazione avendo canaglie consumate come figli, mentre altri che li ebbero ottimi sono stati privati di loro da qualche sven-[c] tura che li ha colpiti, cosicché potrei dirti che sono caduti in una disperazione non minore degli altri e che desidererebbero piuttosto che nessun figlio fosse nato loro. Ma benché questi e molti altri casi del tutto simili siano notissimi, di rado avviene di trovare qualcuno che rifiuti tali doni quando siano offerti, o potendo ottenerli con la preghiera si astenga dal pregare; ma molti uomini non rifiuterebbero né il dono di signorie né quello di comandi mili-[d] tari né quello di molte altre cariche che una volta addosso danneggiano più che aiutare; anzi pregherebbero di ottenerle, se non le hanno. E dopo breve tempo talvolta cantano la ritrattazione deprecando quanto prima avevano invocato. Così non posso dire se gli uomini non siano veramente stolti a "ritenere gli dèi responsabili" quando dicono che "da essi vengono loro i mali" mentre "sono proprio essi stessi che con le loro follie" o stoltezze che dir si voglia "si procurano dolori oltre la loro sorte". E do-[e] vette aver buon senso, Alcibiade, quel poeta che, per quanto posso immaginare, aveva amici scervellati e vedendoli fare e chiedere in preghiera cose che non erano meglio per loro, per quanto lo credessero, compose per tutti costoro una preghiera che dice pressappoco così:

 [143a]

Zeus, Re, ciò che è bene daccelo tu

sia che lo chiediamo o no in preghiera,

ma ciò che è male allontanalo tu

anche se lo chiediamo in preghiera.Quanto a me penso che il poeta dica benissimo ed evitando ogni rischio, ma se tu hai qualcosa da obiettare di’ pure.

VI. ALC. E’ arduo, Socrate, obiettare alle cose dette bene. Anzi sto proprio meditando di quanti mali per gli uomini sia responsabile l’ignoranza quando, come è evidente, noi [b] agiamo e peggio chiediamo in preghiera per noi stessi i massimi mali, senza averne, a causa dell’ignoranza, alcuna coscienza. A ciò nessuno potrebbe crederci; anzi ognuno crederebbe di essere più che capace di pregare chiedendo per se stesso i massimi beni, non certo i massimi mali. Perché quest’ultima evenienza sarebbe uguale a una qualche maledizione, per usare l’espressione giusta, non certo a una preghiera. SOCR. Ma forse, mio ottimo amico, qualcuno che fosse più sapiente di me e di te potrebbe dirci che abbiamo torto a condannare così a casaccio l’ignoranza [c] a meno che non aggiungiamo che per certe cose e per certe persone e in certe circostanze l’ignoranza è un bene come per quegli altri era un male. ALC. Come sarebbe? C’è mai un fatto, una persona o una circostanza qualsiasi per cui sia meglio ignorare che conoscere? SOCR. A me sembra di sì. A te no? ALC. No davvero, per Giove! SOCR. Eppure non affermerò che tu voglia fare contro tua madre quel che si racconta d’Oreste e di Alcmeone [d] e di quanti altri compirono la stessa cosa. ALC. Taci, per Giove, o Socrate. SOCR. Non hai da far tacere, Alcibiade, chi ti dice che non vorresti fare queste cose, ma piuttosto chi dicesse l’opposto, giacché il fatto ti sembra così orrendo che non ti pare nominabile neppure così a caso. Pensi tu che Oreste se per caso fosse stato in senno e avesse saputo qual era per lui il miglior partito da seguire avrebbe mai osato commettere nulla di quel che ha fatto? [e] ALC. No, certo. SOCR. Né alcun altro, credo. ALC. No, davvero. SOCR. Dunque, a quanto sembra, l’ignoranza di ciò che è in ogni caso il meglio e il non saperlo è un male. ALC. Mi sembra. SOCR. Per Oreste e a tutti gli altri? ALC. Sì.

VII. SOCR. Ecco, esaminiamo ancora questo. Se a te, improvvisamente, saltasse in mente, per l’idea che ciò fosse [144a] il meglio da farsi, di prendere un pugnale, andare da Pericle, tuo tutore ed amico, ed alla porta chiedere se è dentro con l’intenzione di uccidere proprio lui e nessun altro; supponiamo che quelli dicano che è dentro - non dico che tu vorresti far questo, ma se ti venisse tale pensiero quale niente impedisce che possa saltare in testa a colui che ignora ciò che in ogni caso sia il meglio, a tal punto da prendere anche il sommo male come il sommo bene; o non ti pare? ALC. Senz’altro. SOCR. Se dunque giunto [b] dentro e vedutolo tu non lo riconoscessi più e lo scambiassi per un altro, oseresti ancora ucciderlo? ALC. No per Giove, credo di no. SOCR. Perché non oseresti uccidere il primo capitato a tiro, ma proprio colui che volevi, non è vero? ALC. Sì. SOCR. Così che se anche tu ripetessi mille volte la cosa ed ogni volta che tu fossi per agire tu non riconoscessi Pericle, non lo assaliresti mai. ALC. No certo. SOCR. Andiamo avanti. Pensi tu che Oreste avrebbe mai assalito sua madre se, allo stesso modo, non l’avesse riconosciuta? ALC. Non credo. SOCR. No, per-[c] ché neppure lui aveva in mente di uccidere la prima donna a tiro o la madre di qualsiasi tizio ma la sua propria madre. ALC. E’ così. SOCR. Dunque, l’ignoranza è meglio per persone che siano in simili condizioni ed abbiano tali propositi. ALC. Evidentemente. SOCR. Vedi dunque che per talune cose e per certe persone in certe circostanze l’ignoranza è un bene e non un male come tu credevi poco fa? ALC. Lo vedo.

[d] VIII. SOCR. Ecco se vuoi continuare a esaminare ciò che segue forse la cosa potrebbe apparirti strana. ALC. Cosa, Socrate? SOCR. Questo, per essere brevi, che probabilmente il possesso di molte scienze, quando non sia accompagnato dalla scienza di ciò che è in ogni caso il meglio, poche volte è utile e il più delle volte danneggia. Esamina il problema così: non credi inevitabile che quando ci accingiamo a fare o a dire qualcosa si debba innanzitutto o essere convinti di sapere o sapere realmente ciò che ci [e] accingiamo senza esitazione a dire o a fare? ALC. Mi pare di sì. SOCR. Cosicché i politici ogni qualvolta s’alzano a parlare chi della guerra e della pace, chi della costruzione delle mura e dell’armamento dei porti, ci consigliano o perché sanno o perché sono convinti di sapere. In una parola tutto quanto la nostra città fa verso altre città o per [145a] sé, tutto lo fa sempre dietro consiglio di politici. ALC. Verissimo. SOCR. Attento al seguito. ALC. Se posso. SOCR. Ci sono quelli che chiami assennati e quelli dissennati. ALC. Sì. SOCR. Chiami dissennati i più ed assennati i meno? ALC. Sì. SOCR. E hai in vista qualche ragione per chiamare così gli uni e gli altri? ALC. Sì. [b] SOCR. Lo chiami forse assennato chi sappia consigliare senza però sapere se ciò che consiglia è meglio e quando sia meglio? ALC. Certamente no. SOCR. E neppure uno credo, che sappia tutto della guerra senza sapere quando sia meglio e per quanto tempo? E’ vero? ALC. Sì. SOCR. Quindi, neppure uno che sappia infliggere morte agli altri, né uno che sappia confiscare ricchezze, e cacciare la gente in esilio, senza sapere quando sia meglio e con chi sia meglio. [c] ALC. Certamente no. SOCR. Uno invece che conosca un po’ queste cose, quando la scienza di ciò che sia in ogni caso il meglio gli sta alle costole - questa scienza che del resto è anche quella dell’utile - è vero?... ALC. Sì. SOCR. Assennato, finalmente lo chiameremo, e consigliere soddisfacente per la città e per se stesso; ma a chi non è come lui daremo nome opposto. Non ti pare? ALC. sì.

IX. SOCR. E come lo chiami chi sappia cavalcare o tirare l’arco, oppure fare il pugilato e la lotta o qualcun altro degli esercizi sportivi o infine qualcosa altro di quelle atti-[d] vità che noi conosciamo attraverso una tecnica, come lo chiami, ripeto chi sappia cos’è il meglio secondo detta tecnica? Forse non chiami cavallerizzo chi sa il meglio secondo l’arte ippica? ALC. Sì. SOCR. E pugile se lo sa nel pugilato e flautista nella musica del flauto, e così via analogamente a ciascuna arte. O non è così? ALC. Sì, è così. SOCR. Credi tu che se uno è un po’ esperto di queste arti sia necessariamente anche uomo assennato, o diremo [e] che ci corre un bel po’? ALC. Ci corre parecchio, per Giove. SOCR. E che razza di stato pensi che sia quello composto da bravi arcieri e flautisti e poi da atleti e dai rappresentanti delle altre arti, e in mezzo a questi vi siano mescolati quelli che abbiamo nominato poco fa, esperti solo nell’arte della guerra e in quella di mettere a morte, e inoltre anche gli oratori, gonfi di tronfiezza politica, e tutti questi siano privi della scienza di ciò che è il meglio, e senza una persona che conosca quando e [146a] verso chi sarebbe meglio servirsi di ciascuno di loro? ALC. E’ uno stato da poco, o Socrate. SOCR. Lo penseresti sì, credo, vedendo che ciascuno di loro è pieno di ambizione e che assegna la massima parte della vita dello stato a ciò "in cui egli riesce più forte di se stesso" a ciò, voglio dire, che è il meglio secondo la sua arte; mentre poi erra mille volte su ciò che è il meglio per la città e per se stesso, com’è naturale, perché senza usare la mente si affida all’opinione. In queste condizioni non saremmo forse nel giusto a dire che questo stato è pieno di confusione e anarchia?[b] ALC. Giusto, per Giove. SOCR. Dunque ci era sembrato necessario che si debba innanzitutto o essere convinti di sapere o sapere realmente ciò che ci accingiamo senza esitazione a fare o a dire. ALC. Sì. SOCR. E che, se si farà ciò che si sa o si crede di sapere, ma si accompagnerà anche la scienza dell’utile, noi faremo anche il bene sia [c] della città che di noi stessi. ALC. E come no? SOCR. Ma che se si farà l’opposto di ciò non si farà il bene né della città né di noi stessi. ALC. Certamente no. SOCR. E dimmi, sei dello stesso parere anche ora? o no? ALC. Dello stesso parere. SOCR. E non dicevi che tu chiami dissennati i più e assennati i meno? ALC. Sì. SOCR. Concludendo possiamo dire che i più non colgono nel segno del meglio perché mille volte agiscono senza mente, ma fi-[d] dandosi dell’opinione. ALC. Possiamo dirlo. SOCR. Dunque per i più è vantaggioso né sapere né credere di sapere se è vero che saranno più spinti a fare ciò che sappiano o credano di sapere e, ciò facendo, a trarre più danno che utile. ALC. E’ verissimo.

X. SOCR. Vedi dunque se ciò che dicevo: che proba-[e] bilmente il possesso di molte scienze, quando non sia accompagnato dalla scienza di ciò che è il meglio sempre in ogni caso, poche volte è utile e il più delle volte danneggia, vedi se non è chiaro che avevo realmente ragione. ALC. Se non allora, certamente adesso, o Socrate. SOCR. Così bisogna che la città o l’anima, che voglia vivere rettamente, si tenga stretta a questa scienza, proprio come il malato si tiene stretto al medico e il passeggero che voglia navigare [147a] senza rischi al pilota. Perché senza questa scienza, quanto più forte e più favorevole il vento della fortuna spiri all’acquisto della ricchezza o alla forza del corpo o a qualsiasi altra di queste cose, tanto più grandi sono gli errori che inevitabilmente, a quanto pare, ne risultano. E chi per altro possiede la cosiddetta erudizione enciclopedica e politecnica, ma sia privo di questa scienza e sia menato di volta in volta da ciascuna di queste altre conoscenze, non si troverà giustamente e senza metafora in gran tempesta come chi sia fra i flutti del mare senza pilota, col rischio [b] di perire ad ogni istante? Cosicché anche qui mi sovviene la parola del poeta che a proposito di qualcuno dice criticandolo: "molte cose sapea, ma tutte male". ALC. Perché mai ti sovviene questo verso del poeta, o Socrate? Perché, quanto a me, mi sembra detto senza alcuna ragione. SOCR. E come con ragione! Ma è enigmatico, mio ottimo amico, questo poeta, come quasi tutti gli altri lo sono un poco. Perché per sua natura tutta la poesia è enig-[c] matica e non è del primo venuto riconoscerne il senso. Ed oltre ad essere così per natura, se è colta da un uomo geloso, tendente non a mostrarci bensì a nasconderci quanto più è possibile la sua sapienza, allora è estremamente difficile capire che cosa ciascuno di costoro intenda mai. Perché tu certo non crederai che il più divino e il più sapiente dei poeti, Omero, ignori che non è possibile saper male - e [d] infatti è lui a dire che Margite sapeva molte cose ma tutte male -; tuttavia fa l’ambiguo dicendo ‘male’ invece di ‘un male’ e ‘sapeva’ invece di ‘sapere’. Redatto così è fuori metro, ma ciò che voleva dire è questo: che ‘sapeva molte cose ma era un male per lui saperle tutte quante’. Ed è chiaro che se era un male per lui il sapere molte cose, egli doveva essere un buono a nulla, almeno se dobbiamo credere ai discorsi che si sono fatti finora. ALC. A me [e] sembra che dobbiamo, o Socrate. Certo mi sarebbe difficile credere ad altri discorsi, se non credessi a questi. SOCR. Ed hai ragione. ALC. Sì, te lo ripeto.

XI. SOCR. Sù dunque, per Giove! Perché vedi certamente quanto grande e di qual natura sia la difficoltà della quale anche tu, penso, partecipi; e con questi tuoi continui mutamenti, su e giù senza tregua, ciò che ti sembra più [148a] certo, eccolo già lasciato da parte, e non pensi più come prima - cosicché se ancora il dio verso cui stai andando ti apparisse e ti chiedesse prima che tu gli rivolga qualsiasi preghiera se ti piacerebbe ottenere qualcosa di ciò che si diceva prima, oppure ti concedesse di dire il tuo desiderio, che cosa credi mai che prenderesti delle cose offerte dal dio o cosa pregheresti tu stesso d’ottenere per cogliere nel segno? ALC. No, per gli dèi, quanto a me, io non saprei, così, dirti nulla, o Socrate. Ma è una bella presunzione, mi pare, e in realtà ci vuole molta prudenza per non cor-[b] rere il rischio di chiedere dei mali ma senza accorgersene, con la convinzione che siano dei beni, e dopo poco tempo, come tu dicevi, dovere cantare la ritrattazione respingendo il voto per cui prima s’è pregato. SOCR. Non è dunque con una conoscenza più profonda della nostra che il poeta a cui accennavo all’inizio chiedeva al dio di allontanare il male anche da quelli che lo chiedevano in preghiera? ALC. Mi par di sì. SOCR. Anche gli Spartani, sia per imitazione di questo poeta sia per averla pen-[c] sata così essi stessi, pregano sempre sia in privato che in pubblico in una forma simile, chiedendo che gli dèi concedano loro, sopra ogni altro bene, le cose nobili e belle e nessuno potrebbe udire uno Spartano pregare una parola di più. Perciò fino ad oggi essi hanno la fortuna dalla loro non meno di alcun’altra gente: e se pure capitò loro che non tutto riuscì fortunato, ciò non dipende dalla loro pre-[d] ghiera ma perché sta agli dèi, credo, di concedere ciò che uno chiede in preghiera o l’opposto.

XII. Ma ti voglio anche raccontare un altro caso che ho udito una volta da alcuni vecchi. Ateniesi e Spartani erano in guerra e la nostra città subiva rovesci di fortuna, qualunque battaglia avvenisse per mare e per terra, e non le riusciva mai di vincere. Gli Ateniesi irritatissimi per il corso degli avvenimenti non sapendo per quale via d’uscita do-[e] vessero liberarsi dalla catastrofe presente, deliberarono e ritennero che il miglior partito fosse di inviare delegati all’oracolo di Ammone e di consultarlo: ed oltre ad altre cose chiedergli per quale ragione mai gli dèi dessero la vittoria agli Spartani di preferenza che a loro. "Noi facciamo, dicevano, i sacrifici più frequenti e più ricchi di tutti i Greci, noi abbiamo i loro templi adorni di offerte come nessun altro popolo ha, ogni anno abbiamo dato in [149a] onore agli dèi le processioni più sontuose e solenni e abbiamo speso da soli quanto non spendono i Greci tutti insieme. Ma gli Spartani - dicevano - non si sono mai e poi mai presi la cura di alcune di queste cose, ma si comportano in modo così indifferente verso gli dèi da non sacrificare loro se non animali storpiati e da onorarli in tutto il resto con non poca povertà in confronto nostro, benché di ricchezze ne abbiano non meno della nostra città." Ed ecco che, come essi ebbero detto questo e domandato che dovessero fare per trovare il modo di liberarsi dalle presenti sciagure, nulla rispose di ciò il profeta - evidente-[b] mente il dio non glielo permetteva - ma chiamato a sé il messo disse: "Questo dice Ammone agli Ateniesi. Dice che egli preferisce la devozione discreta dei Lacedemoni a tutte le cerimonie sacre dei Greci". Questo disse, non una parola di più. Con questa "devozione discreta" a mio parere il dio non altro indicava che il loro modo di pregare, che, ad essere sinceri, differisce non poco dagli altri. Guarda [c] tutti gli altri Greci, chi offre buoi dalle corna dorate, chi offre doni in voto agli dèi, e così pregano chiedendo ciò che lor capita, talvolta beni, talvolta mali, e gli dèi, benché li odano dire follie, non possono respingere queste processioni e sacrifici sontuosi. Invece penso che ci voglia una grande prudenza e bisogni pensare bene a ciò che si deve dire e non dire.

XIII. E anche in Omero troverai altri esempi simili a questi. Egli dice che i Troiani, nel piantare il loro campo, [d] "agli immortali ecatombi perfette facevano" e che "i venti della pianura" portavano "fin dentro al cielo il grasso odor delle vittime"

dolce, che i beati non si spartivano

né desideravano. Perché molto

aveano in odio Ilio la sacra e Priamo

[e] e il popolo suo, esperto di lancia. 

Sicché ai Troiani non erano di alcuna utilità i sacrifici e le offerte, così in odio agli dèi. Perché io non credo che gli dèi siano tali che si possano corrompere con i doni come un volgare usuraio; ed è un ben sciocco argomento il nostro se crediamo in quel modo di superare gli Spartani. Anche perché sarebbe inconcepibile che gli dèi guardassero ai nostri doni e sacrifici, ma non all’anima, se uno è pio e giusto. A questo, credo, guardano molto di più che alle [150a] nostre processioni e sacrifici sontuosi, che ogni anno sia privati che città possono offrire con estrema facilità, anche se colpevoli molte volte contro gli dèi e molte volte contro gli uomini. Ma gli dèi, inaccessibili ai doni, disprezzano tutte queste cose, come dice il dio, e il suo profeta. Ed è probabile che gli dèi e gli uomini che abbiano giudizio tengano soprattutto in onore la giustizia e il senno; che [b] assennati e giusti non siano altri se non coloro che sanno che cosa è doveroso fare e dire sia in riguardo agli dèi che in riguardo agli uomini. E mi piacerebbe chiederti che pensi di ciò. ALC. Ma nulla penso, o Socrate, diversamente da te, e dal dio. Vedi, non sarebbe possibile ch’io votassi contro te e il dio. SOCR. Ma non ricordi d’aver detto che [c] eri in grande imbarazzo per il rischio di pregare e chiedere, senza accorgertene, dei mali, convinto che fossero beni? ALC. Sì, lo ricordo. SOCR. Come vedi dunque non è senza rischio che vai a pregare il dio, che non ti capiti che a udire le tue parole blasfeme egli rifiuti questo tuo sacrificio e tu non abbia a goderti qualcosa di diverso. A me pare che la miglior cosa sarebbe di prendere tempo giacché penso che frattanto - conosco il tuo carattere "esaltato" per usare l’espressione più bella a definire la tua stoltezza - non vorrai servirti della preghiera spartana. Così è necessario aspettare fino a che non si è imparato [d] come ci si debba comportare con gli dèi e con gli uomini.

XIV. ALC. Ma quando sarà questo momento o Socrate? E chi me lo insegnerà? Sarei felicissimo credo di conoscere quest’uomo. SOCR. E’ colui al quale stai a cuore. E come Omero fa che Atena tolga la nebbia dagli occhi di Diomede, "affinché riconosca e l’uomo e il dio" così, credo, anche a te costui dovrà cominciare a togliere dall’anima la nebbia [e] che ora c’è, e poi dovrà mostrarti il modo attraverso il quale tu possa conoscere e il male e il bene. Ora ho l’impressione che non ce la faresti. ALC. Mi tolga la nebbia o altro, se vuole, io sono pronto a non disubbidire nessuno dei suoi ordini, chiunque sia mai quell’uomo, se potrò di-[151a] venire migliore. SOCR. Straordinaria è anche la cura che egli ha di te. ALC. Dunque fino a quel momento mi sembra meglio ch’io rimandi anche la mia preghiera. SOCR. Hai ragione: rinviare è più sicuro che esporsi a tanto pericolo. ALC. Ma che sto a fare, Socrate? Ma sì, questa corona qui, dal momento che mi hai ben consigliato, la [b] porrò sul tuo capo. E agli dèi offriremo corona e tutto quanto è costume quando io veda venuto quel giorno. E giungerà presto se essi vorranno. SOCR. Sia. Accetto questo come sarei felice di accettare da te qualunque altro dono. E come anche Creonte, in Euripide, quando scorge Tiresia con le corone, saputo che le ha ottenute in onore alla sua arte, come primizia del bottino, dice:

Sono per me presagio le corone

tue vittoriose. Perché in gran tempesta

siamo, come tu vedi;[c] così anch’io giudico un buon presagio questa tua decisione. E non sono, temo, in minor tempesta di quella di Creonte, e vorrei anch’io uscir vittorioso, sui tuoi amanti.