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Sergio Panunzio
Sergio Panunzio (Molfetta, 20 luglio 1886 – Roma, 8 ottobre 1944)
è stato un giurista, politologo, filosofo e giornalista
italiano. Tra i maggiori esponenti del sindacalismo rivoluzionario,
in quanto amico intimo di Benito Mussolini, contribuì in
maniera decisiva al suo passaggio dal neutralismo all'interventismo
nella Grande Guerra. Divenne in seguito uno dei massimi teorici del
fascismo.
Biografia
Nacque a Molfetta da Vito e Giuseppina Poli, in una famiglia
altoborghese, tra le più illustri della città:
«un ambiente familiare intriso tanto di sollecitazioni
all'impegno civile e politico quanto di suggestioni e stimoli
intellettuali».
Il periodo socialista ed il sindacalismo rivoluzionario
Il suo impegno politico nelle file del socialismo iniziò
molto presto, quando ancora frequentava il liceo classico locale,
ove ebbe come maestro il giovane Pantaleo Carabellese.
Nel dibattito interno al socialismo italiano — diviso tra
"riformisti" e "rivoluzionari" — Panunzio si schierò tra i
cosiddetti sindacalisti rivoluzionari, iniziando al contempo a
pubblicare i suoi primi articoli sul settimanale «Avanguardia
Socialista» di Arturo Labriola, quando era ancora studente
dell'Università degli Studi di Napoli. Durante i suoi studi
universitari il contatto con docenti come Francesco Saverio Nitti,
Napoleone Colajanni, Igino Petrone e Giuseppe Salvioli
contribuì alla formazione del suo pensiero socialista. Il suo
percorso intellettuale fu altresì influenzato da Georges
Sorel e Francesco Saverio Merlino, i quali avevano già da
tempo iniziato un processo di revisione del marxismo.
Nel 1907 pubblica il suo primo studio, intitolato Il socialismo
giuridico, in cui teorizza l'opposizione alla borghesia solidarista
ed al sindacato riformista da parte del sindacato operaio, il quale
è destinato a trasformare radicalmente la società. Il
fulcro dell'opera era costituito dalla formulazione di un "diritto
sindacale operaio", spina dorsale di un nuovo "sistema socialista"
fondato non su una base economica, bensì su una base etica,
solidaristica:
« Il socialismo giuridico non sarebbe dunque che
l'applicazione del principio di solidarietà, immanente in
tutto l'universo, nel campo del diritto e della morale: in se stesso
non è una idea astratta balzata ex abrupto dal cervello di
pochi pensatori, ma efflusso e irradiazione ideale di tutta la
materia sociale che vive e freme attorno a noi »
(Sergio Panunzio)
Nel 1908 si laurea in giurisprudenza discutendo una tesi su
L'aristocrazia sociale, ossia sul sindacalismo rivoluzionario,
avendo come relatore Giorgio Arcoleo. Nel 1911 consegue presso lo
stesso ateneo la laurea in filosofia. In questi anni di studi ed
esperienze intellettuali, intensifica altresì il proprio
impegno giornalistico in favore del sindacalismo rivoluzionario,
collaborando — oltreché ad «Avanguardia
Socialista» — a «Il Divenire Sociale» di Enrico
Leone, a «Pagine Libere» di Angelo Oliviero Olivetti e a
«Le Mouvement Socialiste» di Hubert Lagardelle.
La concezione panunziana del sindacato quale organo e fonte di
diritto — non eusarentesi quindi in mero organismo economico o
tecnico della produzione — fu approfondita nel 1909, allorché
vide la luce la sua seconda opera, La persistenza del diritto, in
cui egli «coniugava i princìpi della sua formazione
positivistica con una ispirazione filosofica
volontaristica»[8]. Panunzio prendeva quindi le mosse
affrontando il problema del rapporto tra sindacalismo e anarchismo:
la differenza tra i due movimenti risiedeva — a detta dell'autore —
sul ruolo dell'autorità (fondata sul diritto) che, negata
dall'anarchismo, non era invece trascurata dal sindacalismo:
« Il sindacalismo è d'accordo con l'anarchia nella
critica e nella tendenza distruttiva dello Stato politico attuale,
ma non porta alle ultime conseguenze le sue premesse
antiautoritarie, che hanno un riferimento tutto contingente allo
Stato presente. Il sindacalismo, per essere precisi, è
antistatale per definizione e consenso unanime, ma non è
antiautoritario. Le premesse antiautoritarie dell'anarchia hanno
invece un valore assoluto e perentorio riferendosi esse ad ogni
forma di organizzazione sociale e politica. Il sindacalismo non
è dunque antiautoritario »
(Sergio Panunzio)
In sostanza, Panunzio sosteneva l'importanza fondamentale del
diritto (ancorché non "statale", ma "operaio") per il
sindacalismo e la futura società, dall'autore vagheggiata
come un regime sindacalista federale sostenuto dall'autogoverno dei
gruppi sindacali, riuniti in una Confederazione, così da
formare quella che l'autore stesso chiama «una vera grande
Repubblica sociale del Lavoro», retta da una
«sovranità politica sindacale».
Nel 1910, fu poi dato alle stampe Sindacalismo e Medio Evo, in cui
l'autore indicava al sindacalismo operaio il modello dei Comuni
italiani medievali, esempio paradigmatico di autonomia, la quale
doveva essere perseguita anche dai sindacati contemporanei.
Dopo un periodo difficile, dovuto a problemi familiari ma anche a un
ripensamento delle sue teorie politiche, nel 1912, grazie
all'interessamento di Nitti, abbandonò l'attività di
avvocato, inadeguata per mantenere la famiglia (aiutava
principalmente — raramente pagato — i suoi compagni di partito),
divenendo docente di pedagogia e morale presso la Regia scuola
normale di Casale Monferrato. Nello stesso anno pubblicò
inoltre la sua importante opera Il Diritto e l'Autorità, in
cui erano messe a frutto le sue rielaborazioni teoriche: oltre al
passaggio da un orizzonte positivistico a una concezione filosofica
neocriticistica, egli ripensava lo Stato non più quale organo
della coazione, ma quale depositario della necessaria
autorità. Il 1912 è un anno per lui importante anche
perché, con la fine della guerra libica, iniziò a
prender corpo la svolta "nazionale" del suo pensiero.
Dopo aver insegnato per un anno a Casale Monferrato e un altro a
Urbino, nel 1914 passò alla Regia scuola normale
"Giosuè Carducci" di Ferrara, ove insegnò sino al
1924, conseguendo al contempo la libera docenza presso
l'Università di Napoli (l'anno successivo gli fu trasferita
nell'ateneo bolognese). È di quegli anni — poco prima
dell'entrata dell'Italia nella Grande Guerra — l'inizio di stretti
rapporti politici e intellettuali con Benito Mussolini, direttore
dell'«Avanti!» e leader dell'ala rivoluzionaria del
Partito Socialista. Panunzio iniziò dunque una regolare e
intensa collaborazione al quindicinale «Utopia», appena
fondato dal futuro capo del fascismo per far esprimere le voci
più rivoluzionarie, eterodosse ed "eretiche" dell'ambiente
socialistico italiano. In questo periodo Panunzio comprende il
potenziale rivoluzionario che il conflitto europeo poteva esprimere,
sicché manifesterà sempre più esplicitamente il
suo appoggio all'interventismo, che era invece inviso al Partito
Socialista:
« Io sono fermamente convinto che solo dalla presente guerra,
e quanto più questa sarà acuta e lunga,
scatterà rivoluzionariamente il socialismo in Europa. Altro
che assentarsi, piegarsi le braccia, e contemplare i tronconi morti
delle verità astratte! (...). Alle guerre esterne dovranno
succedere le interne, le prime devono preparare le seconde, e tutte
insieme la grande luminosa giornata del socialismo, che sarà
la soluzione e la purificazione ideale di queste giornate livide e
paurose, macchiate di misfatti e di infamie »
(Sergio Panunzio)
Quest'articolo di Panunzio, apparso sul quotidiano ufficiale del
Partito Socialista, suscitò una grave polemica, sicché
Mussolini dovette rispondere sul numero del giorno dopo. Tuttavia la
replica di Mussolini, il quale si stava convincendo
dell'opportunità dell'intervento, fu «debole, sfocata,
piattamente dottrinaria, per nulla all'altezza del miglior Mussolini
polemista». Infatti,
« al momento di questa polemica, Mussolini era
psicologicamente già fuori del socialismo ufficiale ed
è indubbio che le argomentazioni di Panunzio, sia per il loro
spessore teorico sia perché provenienti da un uomo di cui
egli aveva grande considerazione intellettuale, furono probabilmente
l'elemento decisivo che lo spinse a compiere il grande passo, il
«voltafaccia» dal neutralismo assoluto all'interventismo
»
(Francesco Perfetti)
La Grande Guerra
All'entrata dell'Italia nel conflitto mondiale, si arruolò
volontario come quasi tutti gli interventisti "di sinistra" (come
Filippo Corridoni e Mussolini); tuttavia, in quanto emofiliaco, fu
immediatamente congedato, sicché dovette concentrarsi sulla
lotta propagandistica e pubblicistica, soprattutto sulle colonne del
«Popolo d'Italia» (i cui articoli erano sovente
concordati con lo stesso Mussolini[19]), in favore della guerra
italiana, ritenuta dal Panunzio una guerra non «di difesa e
conservazione, ma di acquisto e di conquista; non una guerra ma una
rivoluzione». Una guerra anche popolare, come avevano
dimostrato le grandi mobilitazioni del «maggio radioso»,
in contrapposizione alle posizioni conservatrici di Antonio Salandra
e della classe dirigente liberale. Anche da un punto di vista
più propriamente militante, Panunzio si impegnò nel
ruolo di membro del direttivo del neonato fascio nazionale di
Ferrara (marzo 1916), il quale diede vita altresì al giornale
«Il Fascio».
Oltre all'analisi politica e all'impegno giornalistico, Panunzio
lavorò anche a una sistematizzazione filosofico-giuridica
delle sue idee riguardo al conflitto, con le opere Il concetto della
guerra giusta (1917), Principio e diritto di nazionalità
(dello stesso anno ma pubblicato solo nel 1933 in Popolo, Nazione,
Stato), La Lega delle nazioni e Introduzione alla Società
delle Nazioni (del 1918, ma pubblicati entrambi nel 1920). Nel primo
saggio, egli sosteneva l'utilità e la legittimità di
una guerra anche offensiva, purché essa fosse il mezzo per il
conseguimento di un fine più grande, ossia la giustizia e la
creazione di nuovi equilibri più giusti ed equanimi. Nella
seconda, invece, individuava nel principio di nazionalità la
nuova idea-forza della società che sarebbe scaturita dalla
guerra, una volta conclusa. Molto importante è inoltre la
terza opera (La Lega delle nazioni), poiché in essa è
sviluppato per la prima volta il concetto di «sindacalismo
nazionale»:
« La Nazione deve circoscriversi, determinarsi, articolarsi,
vivere nelle classi, e nelle corporazioni distinte, e risultare
«organicamente» dalle concrete organizzazioni sociali, e
non dal polverio individuale; ed essa esige, dove le
nazionalità non si siano ancora affermate, e dove esse non
ancora funzionino storicamente, solide e robuste connessioni di
interessi e aggruppamenti di classi, a patto, però, che le
classi, e le corporazioni trovino, a loro volta, la loro più
compiuta esistenza, destinazione e realtà nella Nazione. Ecco
la «reciprocanza» dei due termini, Sindacato e Nazione,
e la sintesi organica tra Sindacalismo e Nazionalismo, e
cioè: Sindacalismo Nazionale »
(Sergio Panunzio])
Dalla fine del conflitto alla Marcia su Roma
Terminata la guerra, Panunzio partecipò attivamente al
dibattito interno alla sinistra interventista, intervenendo in
particolare su «Il Rinnovamento», quindicinale
recentemente creato e diretto da Alceste De Ambris. Il suo scritto
più importante, che ebbe notevoli conseguenze, apparve il 15
marzo 1919: in questo, Panunzio sosteneva l'organizzazione di tutta
la popolazione in classi produttive, le quali dovevano essere a loro
volta distribuite in corporazioni, a cui doveva essere demandata
l'amministrazione degli interessi sociali; affermava altresì
la necessità di creare un Parlamento tecnico-economico da
affiancare al Parlamento politico[24]. In tale testo programmatico
era chiaramente abbozzato il futuro corporativismo fascista, tanto
che l'amico Mussolini, nel discorso pronunciato a Piazza San
Sepolcro (alla fondazione cioè del fascismo), riprese le tesi
di Panunzio per il programma dei Fasci Italiani di Combattimento:
« L'attuale rappresentanza politica non ci può bastare;
vogliamo una rappresentanza diretta dei singoli interessi,
perché io, come cittadino, posso votare secondo le mie idee,
come professionista devo poter votare secondo le mie qualità
professionali. Si potrebbe dire contro questo programma che si
ritorna verso le corporazioni. Non importa. Si tratta di costituire
dei Consigli di categoria che integrino la rappresentanza
sinceramente politica »
(Benito Mussolini)
A Ferrara, Panunzio assistì alla nascista del fascismo locale
(e delle squadre d'azione), intrattenendo rapporti di amicizia con
Italo Balbo (che sarebbero durati per tutta la vita) e Dino Grandi
(che era stato suo allievo), pur non aderendo ufficialmente al
movimento, a causa dei rapporti di quest'ultimo — per lui ambigui —
con gli agrari. Risale a quel periodo, infatti, la pubblicazione
delle due opere Diritto, forza e violenza e Lo Stato di diritto. Nel
primo, riprendendo la tesi delle Réflexions sur la violence
di Georges Sorel, l'autore precisava il suo discorso distinguendo
una violenza "morale", "razionale", "rivoluzionaria", la quale
doveva essere il mezzo per l'affermazione di un nuovo diritto
(veicolo, dunque, di uno ius condendum), da una violenza invece
gratuita e immorale. Nel secondo volume, Panunzio criticava — da un
punto di vista neokantiano — il concetto hegeliano di Stato etico,
lasciando intravvedere tuttavia margini di sviluppo per una visione
totalitaria dello Stato.
A seguito dell'uscita dei fascisti dalla UIL e della conseguente
creazione della Confederazione nazionale delle Corporazioni
sindacali ad opera di Edmondo Rossoni, Panunzio collaborò al
settimanale ufficiale della Confederazione, cioè «Il
Lavoro d'Italia», vergando un importante articolo sul primo
numero, nel quale ribadiva le sue tesi sul sindacalismo nazionale.
Dopo essersi speso invano, con l'aiuto di Balbo, per una
conciliazione tra Mussolini e Gabriele D'Annunzio, appoggiò
la politica pacificatrice di Mussolini, sostenne la «svolta a
destra» del PNF (cioè per un ristabilimento
dell'autorità dello Stato) e caldeggiò — con la caduta
del primo Governo Facta — la costituzione di un governo di
"pacificazione" che riunisse fascisti, socialisti e popolari
(prospettiva ritenuta possibile da Mussolini stesso), scrivendo un
importante articolo che individuava nel capo del fascismo l'unico in
grado di stabilizzare e pacificare il Paese:
« Benito Mussolini — uno dei pochi uomini politici,
checché si dica in contrario, che abbia l'italia — ha molti
nemici e anche molti adulatori. L'uomo non è ancora bene
conosciuto. Chi scrive (...) può affermare con piena
sincerità e obbiettività che la storia recentissima
dell'Italia è legata al nome di Mussolini. L'intervento
dell'Italia in guerra è legato al nome di Mussolini. La
salvezza dell'Italia dalla dissoluzione bolscevica è legata a
B. Mussolini. Questi sono fatti. Il resto è politica che
passa: dettaglio, episodio. (...) Anche prima di Caporetto, anche
dopo Caporetto, Mussolini (è vero o non è vero?) disse
dall'altra parte: tregua. Non fu, maledettamente, ascoltato. La fine
della lotta ormai è un fatto compiuto. Eccedere più
che delitto è sproposito grave. Ed ecco perché un
Ministero in cui entrino le due parti in lotta — per la salvezza e
la grandezza dello Stato — è un minimo di necessità e
di sincerità »
(Sergio Panunzio)
Tuttavia, con il reincarico di Facta e il seguente sciopero generale
del 1º agosto indetto dall'Alleanza del Lavoro (il cosiddetto
«sciopero legalitario»), il 4 agosto Panunzio scrisse a
Mussolini mostrando la sua delusione nei confronti dei socialisti
confederali, ritenendo quindi impossibile una convergenza d'intenti
con il PSI e reputando ormai sempre più necessaria una svolta
a destra:
« Anch'io pensavo unirci con i confederali che «senza
sottintesi siano per lo Stato». Dopo lo sciopero un ultimo
equivoco è finito. Bisogna mirare a destra. Diciamolo, con o
senza elezioni. Confido in te e nel Fascismo, per quanto il
difficile, dal lato politico, viene proprio ora »
(Sergio Panunzio)
Di lì a breve, il fascismo salì al potere.
L'impegno politico e culturale durante il fascismo
Una volta costituito il governo fascista, Panunzio strinse legami
sempre più stretti con il movimento mussoliniano, ottenendo
la tessera del PNF (su iniziativa dell'amico Italo Balbo) il 5
giugno 1923, e assumendo la carica di deputato nel 1924. Nello
stesso anno divenne membro del Direttorio nazionale provissorio del
PNF, che lasciò dopo neanche un mese in quanto chiamato alla
carica di sottosegretario del neonato Ministero delle Comunicazioni
(diretto al tempo da Costanzo Ciano).
In questo periodo, inizia a interrogarsi — assieme ai massimi
teorici fascisti — sulla vera natura ed essenza del fascismo, per il
quale coniò la definizione di «conservazione
rivoluzionaria», che sosterrà per tutta la sua vita:
« Il Fascismo non è unicamente conservazione, né
unicamente rivoluzione, ma è nello stesso tempo — beninteso
sotto due aspetti differenti — una cosa e l'altra. Se mi è
lecito servirmi d'una frase che non è una frase vuota di
senso, ma una concezione dialettica, io dirò che il Fascismo
è una grande «conservazione rivoluzionaria».
(...) Quel che costituisce la superba originalità della
«rivoluzione italiana», ciò che la fa grandemente
superiore alla rivoluzione francese e alla rivoluzione russa,
è che, ricordandosi e approfittando degli insegnamenti di
Vico, di Burke, di Cuoco e di tutta la critica storica della
Rivoluzione dell'89, essa ha conservato il passato, realizzato il
presente e orientato tutto verso l'avvenire, nei limiti della
condizionalità e dell'attualità storiche. Per certi
aspetti il Fascismo è ultraconservatore: ad esempio, nella
restaurazione dei valori famigliari, religiosi, autoritari,
giuridici, attaccati e distrutti dalla cultura enciclopedica,
illuministica, che si è trapiantata arbitrariamente, anche
nell'ideologia del proletariato, vale a dire nel socialismo
democratico, che è il più grande responsabile della
corruzione contemporanea. Per altri aspetti, il Fascismo è
innovatore, e a un punto tale che i conservatori ne sono spaventati,
come per esempio per la sua orientazione verso lo «Stato
sindacale» e per la sua demolozione dello «Stato
parlamentare» »
(Sergio Panunzio)
Partecipò inoltre attivamente al dibattito incentrato
sull'edificazione dello «Stato nuovo», fornendo
importanti spunti, alcuni dei quali avranno un seguito
costituzionale, come ad esempio il "sindacato unico obbligatorio",
l'attribuzione della personalità giuridica (istituzionale,
non civile) ai sindacati, o l'istituzione di una Magistratura del
Lavoro che si ponesse quale arbitro nelle controversie tra capitale
e lavoro. Fornì anche, al contempo, le basi teoriche del
futuro Stato sindacale (poi corporativo):
« La nuova sintesi è l'unità dello Stato e del
Sindacato, dello Statismo e del Sindacalismo. È lo Stato il
punto di approdo e lo sbocco, superata la prima fase negativa, del
Sindacalismo »
(Sergio Panunzio)
È di questi tempi altresì l'evoluzione del pensiero
panunziano riguardo a una concezione organicistica dello Stato,
attraverso una critica serrata dello Stato democratico-parlamentare,
uno «Stato meccanico, livellatore, astratto» (sorretto
dal «principio meccanico della eguaglianza e cioè il
suffragio universale»), che doveva portare a uno «Stato
organico, gerarchico», fondato su un sistema
sindacal-corporativo, giacché «chi è organizzato
pesa, chi non è organizzato non pesa». In quest'ottica
deve essere considerata, infatti, la definizione panunziana del
fascismo quale «concezione totale della vita».
Tutta la riflessione teorica politico-giuridica di questo periodo fu
riassunta e sistematizzata nel suo volume, pubblicato nel 1925, Lo
Stato fascista, il quale accese grandi dibattiti in ambiente
fascista, tanto che l'autore ebbe modo di confrontarsi su questi
temi — spesso polemicamente — con importanti personalità
intellettuali come Carlo Costamagna, Giovanni Gentile e Carlo
Curcio.
In virtù di queste premesse teoriche e operative,
appoggiò Mussolini durante la crisi causata dal delitto
Matteotti, al fine di incrementare il processo di riforma statuale
avviato dal fascismo, che si sarebbe di lì a poco
concretizzato nelle leggi fascistissime volute da Alfredo Rocco e,
soprattutto, nella Legge n. 563 del 3 aprile 1926, che
istituzionalizzò i sindacati, e nella redazione della Carta
del Lavoro, il documento fondamentale della politica economica e
sociale fascista.
Terminata l'esperienza di governo, si dedicò
all'insegnamento: dopo aver vinto nel 1921 il concorso per un posto
da professore straordinario in filosofia del diritto presso
l'Università degli Studi di Ferrara, divenne ordinario e si
trasferì, nel 1925, all'Università degli Studi di
Perugia, di cui fu Rettore nell'anno accademico 1926-1927. L'anno
seguente fu invece chiamato a insegnare dottrina dello Stato presso
la Facoltà di Scienze Politiche dell'Università degli
Studi di Roma, cattedra che detenne sino alla morte. Non appena
insediatosi nell'ateneo romano, fu incaricato dal Duce di
organizzare, in qualità di Commissario del Governo, la
neonata Facoltà Fascista di Scienze Politiche di Perugia, che
doveva essere la «Oxford italiana» e
«fascista». In tale veste, chiamò a insegnare a
Perugia docenti quali Paolo Orano, Robert Michels, Angelo Oliviero
Olivetti, Maurizio Maraviglia e Francesco Coppola.
Malgrado gli impegni accademici, Panunzio continuò a
sostenere l'edificazione dell'ordinamento sindacale corporativo del
nuovo Stato fascista attraverso i suoi articoli giornalistici,
partecipando agli intensi dibattiti degli anni trenta sulla
legislazione corporativa. Più precisamente, egli si situava
in quell'ala sindacalista del fascismo che, nella nuova struttura
statuale, perorava un potenziamento dei sindacati all'interno del
sistema corporativo, affinché essi potessero intervenire
più decisamente nella direzione economica del Paese.
In questo periodo, grazie a opere teoriche fondamentali, Panunzio
sistematizzò e definì organicamente il suo pensiero.
In sostanza, lo Stato fascista, che è sindacale e
corporativo, si contrappone allo «Stato atomistico ed
individualistico del liberismo». Inoltre la Stato fascista
è caratterizzato dalla sua
«ecclesiasticità» (o religiosità), intesa
come «unione di anime», al contrario dello Stato
liberal-parlamentare «indifferente, ateo e agnostico».
Il giurista molfettese introdusse anche il concetto di funzione
corporativa in quanto quarta funzione dello Stato (dopo le tre
canoniche: esecutiva, legislativa e giurisdizionale), proprio per
fornire il necessario fondamento giuridico ai cambiamenti
costituzionali in atto, con la creazione dello Stato corporativo. Lo
Stato fascista, infine, si configura come uno Stato totalitario,
«promanando direttamente e immediatamente da una rivoluzione
ed essendo formalmente uno "Stato rivoluzionario"».
Con l'istituzione delle corporazioni (attraverso la Legge n. 164 del
5 febbraio 1934) e la creazione della Camera dei Fasci e delle
Corporazioni (Legge n. 129 del 19 gennaio 1939), Panunzio redasse la
Teoria Generale dello Stato Fascista, che rappresenta la summa del
suo pensiero in materia di ordinamento sindacale corporativo: in
questo, egli sosteneva la funzione attiva e propulsiva del
sindacato, al fine di evitare un'involuzione burocratica delle
corporazioni; sosteneva altresì il suo concetto di economia
mista — la quale all'intervento pubblico affiancasse una sana
iniziativa privata — «ordinata, subordinata, armonizzata,
ridotta all'unità, ossia unificata dallo Stato, in quanto il
pluralismo economico e la pluralità delle forme economiche
sono un momento ed una determinazione organica del monismo
giuridico-politico dello Stato».
Nel 1937, partecipò, con notevole peso specifico, alla
riforma del Codice di procedura civile e del Codice civile. Riguardo
a quest'ultimo, in particolare, il suo contributo fu decisivo,
soprattutto per il terzo (Della proprietà) e quinto (Del
lavoro) libro: fu lui ad ottenere che un intero libro fosse dedicato
al lavoro; volle che la Carta del Lavoro fosse posta a base del
codice; definì un più circostanziato concetto di
proprietà, in cui se ne enfatizzava la "funzione sociale".
Morì a Roma, in piena guerra, l'8 ottobre 1944.
L'archivio di Sergio Panunzio è stato digitalizzato ed
è attualmente disponibile alla ricerca presso la Fondazione
Ugo Spirito in Roma.
Opere
Il socialismo giuridico, Libreria Moderna, Genova
1907.
La Persistenza del Diritto (Discutendo di
Sindacalismo e di Anarchismo), Editrice Abruzzese, Pescara 1909.
Sindacalismo e Medio Evo, Partenopea, Napoli
1910.
Il diritto e l'autorità: contributo alla
concezione filosofica del diritto, UTET, Torino 1912.
Il concetto della guerra giusta, Colitti,
Campobasso 1917.
La lega delle nazioni, Taddei, Ferrara 1920.
Introduzione alla Società delle Nazioni,
Taddei, Ferrara 1920.
Diritto, forza e violenza: lineamenti di una
teoria della violenza, con prefazione di R. Mondolfo, Cappelli,
Bologna 1921.
Lo stato di diritto, Taddei, Ferrara 1921.
Italo Balbo, Imperia Ed., Milano 1923.
Stato nazionale e sindacati, Imperia Ed., Milano
1924.
Che cos'è il fascismo, Alpes, Milano 1924.
Lo Stato fascista, Cappelli, Bologna 1925.
Il sentimento dello Stato, Libreria del Littorio,
Roma 1929.
Il concetto della dittatura rivoluzionaria,
Forlì 1930.
Stato e diritto: l'unità dello stato e la
pluralità degli ordinamenti giuridici, Società
tipografica modenese, Modena 1931.
Leggi costituzionali del Regime, Sindacato
nazionale fascista avvocati e procuratori, Roma 1932.
Popolo, Nazione, Stato (esame giuridico), La
Nuova Italia, Firenze 1933.
I sindacati e l'organizzazione economica
dell'impero, Istituto Poligrafico dello Stato, Roma 1938.
Sulla natura giuridica dell'Impero italiano
d'Etiopia, Istituto Poligrafico dello Stato, Roma 1938.
L'organizzazione sindacale e l'economia
dell'Impero, Istituto Poligrafico dello Stato, Roma 1939.
La Camera dei fasci e delle corporazioni,
Stabilimento arti grafiche Trinacria, Roma 1939.
Teoria generale dello Stato fascista, 2ª ed.
ampliata ed aggiornata, CEDAM, Padova 1939.
Spagna nazionalsindacalista, Bietti, Milano 1942.
Motivi e metodo della codificazione fascista,
Giuffrè, Milano 1943.