Psicopatologia e Storia Sociale

Introduzione alla lettura

Il rapporto tra esperienza soggettiva, normale e patologica, e storia sociale rappresenta il filo rosso della ricerca che ho portato avanti nel corso degli anni. Il presupposto di tale ricerca è che non esista e non possa esistere una dimensione a tal punto privata, come è ritenuta solitamente la soggettività, quello che un uomo sente e pensa nel suo intimo, consciamente e inconsciamente, che sia del tutto dissociata e immune rispetto all'esperienza sociale, vale a dire all'immersione nei rapporti interpersonali e nel contesto storico- culturale, che caratterizza la vita di ciascuno dall'inizio alla fine. Tale presupposto è o dovrebbe essere ovvio. Il problema è che, quando si tenta di verificarlo o di fornire prove della siua ovvietà, ci s'imbatte in grandi difficoltà.

La prima è che l'esperienza soggettiva è di fatto vissuta come privata, unica e irripetibile, nonostante si sappia, per esempio, che i pensieri coscienti non possono scorrere e d esprimersi che dentro i canali di pietra della lingua, che è un prodotto della storia sociale. Il vissuto dell'unicità dell'esperienza soggettiva è a tal punto radicato nel senso comune che, in ambito psicoterapeutico, gli ossessivi hanno una vergogna estrema delle fantasie e dei pensieri coatti, che ritengono talvolta a tal punto mostruosi di giungere a ritenere che cose del genere non possano essere mai capitate ad altri. Essi rimangono sorpresi quando vengono a sapere che quei fenomeni accadono a tante altre persone.

Una seconda difficoltà è che la storia sociale è una realtà che non trova riscontro in una disciplina che se ne faccia carico sul piano culturale. E' un fatto che ogni individuo vive in un determinato contesto storico-culturale con il quale interagisce. E' un fatto che tale contesto non è riducibile alle persone con cui egli personalmente interagisce ma comporta anche tradizioni, consuetudini, convenzioni, pregiudizi, lioghi comuni, sistemi di valore che influiscono, più o meno potentemente, sul modo in cui egli sente, pensa e agisce. Quando però si tenta di chiarire i nessi tra esperienza soggettiva e storia sociale, tutto sembra diventare vago, approssimativo e poco significativo.

Più volte, nel corso degli anni, ho pensato di scrivere un saggio su tali nessi, se non altro perché, nel corso delle esperienze psicoterapeutiche, essi, potendo essere analizzati con maggiore attenzione rispetto al quotidiano, risultano in genere più chiari. Ho preso appunti, ho redatto alcuni articoli, ho tentato una stesura definitiva senza rimanere mai soddisfatto. Il saggio che viene proposto in lettura è un saggio in fieri, che forse non porterò mai a termine: una raccolta degli articoli scritti nel corso degli anni con un'introduzione di ordine generale. Esso serve, più che altro, a suggerire un nuovo approccio ai fenomeni di disagio psichico che, saltando le etichette, li riconduca immediatamente ai ruoli sociali. Un ruolo, per esempio l'essere giovane madre in un contesto urbano e in un sistema familiare nuclearizzato, non è la totalità dell'esperienza di una persona. Tra soggetti che condividono questo stesso ruolo di possono dare, per storia personale, carattere, cultura, ideologia, le differenze più varie. Rimane però il fatto che quel ruolo sembra comportare pericoli per la salute mentale che, nel momento in cui si realizzano, fanno affiorare un disagio che sembra annullare le differenze.




Indice

Introduzione

Parte prima

Il disagio infantile

Disturbi della socializzazione e dell’apprendimento infantile

L’anoressia infantile

Il disagio adolescenziale

Il disagio femminile

La depressione delle giovani madri

Gli attacchi di panico

Privilegi e frustrazioni sociali

Nuova e vecchia schiavitù lavorativa

Il darwinismo sociale interiorizzato

Il disagio degli anziani

Parte seconda

Per un progetto di prevenzione




Psicopatologia e storia sociale

INTRODUZIONE

Il modello attualmente dominante in psichiatria è quello multifattoriale. In realtà, non si tratta di un modello scientifico (con questo termine intendendosi una ricostruzione teorica di un qualunque "oggetto" reale che ne spieghi la genesi, la struttura intrinseca e la forma), bensì di un’ipotesi che, adottata universalmente, è diventata già una formula passe-partout, un luogo comune. Esso recita che qualunque esperienza di disagio psicopatologico riconosce tre fattori concausali, concorrenti e interagenti: uno biologico, uno psicologico e uno sociale. Il fattore biologico viene ricondotto univocamente ad una predisposizione di origine genetica, che rende alcuni individui più vulnerabili in rapporto alle circostanze di vita, usuali o occasionali, che richiedono una capacità di adattamento. Il fattore psicologico viene identificato con le interazioni interpersonali (a partire da quelle familiari) e con le modalità cognitive che il soggetto costruisce per interpretare il mondo e per orientarsi in esso. Il fattore sociale, infine, viene riferito a tutte le circostanze sociali - di ordine generico o dovute ad eventi di vita particolari (lutti, separazioni, disoccupazione, sfratti e via dicendo) - che mettono alla prova la capacità individuale di far fronte alle richieste dell'esistenza. Il peso di queste tre variabili è ovviamente diverso da esperienza ad esperienza. Si ammette che ad un estremo si diano persone che ammalano nonostante l’ambiente di sviluppo e le circostanze sociali siano nel complesso favorevoli; all’estremo opposto, che le persone cedano in conseguenza di storie familiari particolarmente disagiate e di circostanze ambientali o eventi di vita sfavorevoli. Nel primo caso, la predisposizione genetica ad ammalare è ritenuta ovvia. Ma anche nel secondo caso la si ammette, perchè, dato lo stesso ambiente e le stesse circostanze di vita, altri individui riescono ad adattarsi.

Sfrondato del suo carattere eclettico, il modello multifattoriale, così come è stato messo a punto negli anni ‘90, postula in ultima analisi che la predisposizione genetica sia il fattore necessario nella genesi delle esperienze di disagio, determinante in alcuni casi o attivato in altri dai fattori concausali psicologici e ambientali. Apparentemente aperto agli apporti di tutte le scienze - dalla neurobiologia alla sociologia - che hanno rapporto con l’uomo, esso non serve ad altro che a riproporre il pregiudizio organicista da cui è nata la psichiatria. Questo pregiudizio ratifica il carattere di specializzazione medica della psichiatria stessa e sancisce il prevalente potere terapeutico degli psichiatri, cui compete la prescrizione di psicofarmaci ritenuti l’unico strumento atto ad incidere sul substrato biologico. Dati gli esiti parziali dei trattamenti psicofarmacologici, lo stesso pregiudizio giustifica l’aspettativa che le ricerche sul genoma umano individuino i geni predisponenti alla malattia mentale in manierat tale da potere intervenire preventivamente su di essi con l’ingegneria genetica.

Il pregiudizio genetico non esclude la partecipazione causale dei fattori psicologici e sociali, ma ne riduce al minimo il peso. Le interazioni familiari patologiche vengono infatti ricondotte a disturbi delle personalità genitoriali dovute alla predisposizione che viene trasmessa ai figli. Le interpretazioni cognitive dei pazienti, che amplificano il disadattamento alla realtà, sono attribuite a disfunzioni emozionali e cognitive di base. Gli eventi negativi di vita - lutti, separazioni, malattie, perdita di lavoro, trasferimenti residenziali e via dicendo - rientrano nella lotteria dell’esistenza. Per quanto non si esclude che i pazienti possano essere sfortunati, ci si attiene sempre al principio per cui quelli stessi eventi risultano meglio tollerati da soggetti non predisposti. L’organizzazione sociale, sia nei suoi assetti istituzionali (famiglia, scuola, ambienti di lavoro, ecc.) che nei suoi aspetti culturali, non viene mai criticata poichè la si considera il prodotto di un processo storico che per i più viene ritenuto positivo.

Il modello multidimensionale neopsichiatrico, insomma, è più realista del re. Sembra aperto sulla carta all’apporto di tutte le scienze umane e sociali, ma il suo nocciolo duro riduce tale apporto a ben poco: a una concausalità che fenotipizza psicopatologicamente una predisposizione assunta come certa. Anche accettando questo presupposto, si sarebbe indotti a pensare che l’analisi dei fattori psicologici e sociali dovrebbe essere considerata importante, sia perchè essi agiscono come fattori scatenanti sia perchè, entro certi limiti, intervenire su di essi, una volta individuati, potrebbe risultare più praticabile nell’immediato rispetto alla prospettiva della manipolazione genetica. Questa infatti, posto che le conoscenze scientifiche la rendano possibile (e si è attualmente mille miglia lontano dall’obbiettivo), dovrà fare i conti con problemi bioetici, culturali e politici di enorme portata. Il problema è che la neo-psichiatria, in ordine al pregiudizio di cui si è parlato, ha ormai identificato nella manipolazione genetica la soluzione totale dei disturbi psichiatrici gravi. In un recente convegno, il portavoce italiano della neopsichiatria, Giovan Battista Cassano, ha affermato con certezza che, nel giro di alcuni decenni, le psicosi saranno risolte dalla genetica e agli psichiatri rimarrà il trattamento dei disturbi della personalità e delle nevrosi da stress.

Il panorama psichiatrico, egemonizzato dal modello multidimensionale, è dunque inquietante. Esso lascia spazio ad un solo spiraglio critico; l’analisi delle sue contraddizioni intrinseche, dalla quale si può pensare di riproporre il problema psichiatrico in termini di dialettica tra biologia e società. Tali contraddizioni, per fortuna, sono implicite nel modello stesso.

Nel campo delle scienze che hanno l’uomo e i fatti umani come oggetto - campo nel quale il confine tra sapere scientifico e ideologia è sempre precario -, un modello che non incontra un’opposizione critica tende infatti inesorabilmente al trionfalismo, fino al punto di presumere di spiegare tutti i fenomeni cui esso si riferisce. Questa tendenza, che per un certo periodo può risultare vincente, espone però il modello in questione al rischio di rivelare le sue contraddizioni e di esasperarle fino al punto che esse stesse rendono necessario un suo superamento.

Ciò è già accaduto con l’antesignano del modello multidimensionale, il rozzo organicismo positivista che ha dominato la psichiatria dalla metà dell’700 sino agli anni sessanta del nostro secolo, e che ha determinato la diffusione dei manicomi e della logica manicomiale. Tale modello assumeva come oggetto di cura la malattia, estraniata dalla concreta esperienza personale e sociale del paziente. In conseguenza di questa estraneazione, la cura si riduceva all’internamento coatto e alla somministrazione di cure biologiche, fisiche e chimiche. La pressoché totale indifferenza nei confronti del paziente come persona dava luogo, nella maggior parte dei casi, a una cronicizzazione della malattia e a una regressione più o meno rilevante della personalità che tendeva alla disgregazione. Colta la disumanità di un trattamento che trascurava del tutto il contesto ambientale e il fattore umano, il movimento antistituzionale ha avuto buon gioco nel dimostrare che un cambiamento delle condizioni oggettive di vita - l’umanizzazione del manicomio prima, la residenza territoriale dei pazienti poi - produceva effetti terapeutici di gran lunga più rilevanti del trattamento manicomiale e farmacologico.

I fautori del modello multidimensionale si guardano bene dal riproporre la pratica dell’internamento manicomiale. Essi ne ripropongono però la logica intrinseca: la medicalizzazione dei fenomeni di disagio psicopatologico, che reifica nuovamente la malattia come fatto eminentemente (se non esclusivamente) biologico, il cui fattore necessario, per quanto non sempre sufficiente, è una predisposizione genetica, e postula che la sua cura si avvalga anzitutto di strumenti biologici (gli psicofarmaci). Le psicoterapie e l’assistenza sociale non sono bandite, come avveniva in passato, bensì tollerate (anche se con scetticismo) e ritenute comunque collaterali al processo terapeutico, essenzialmente medico. Questa tolleranza, più formale che sostanziale, sembra rendere il modello multidimensionale poco o punto attaccabile, in quanto esso non rifiuta di integrarsi con principi e pratiche assistenziali psicologiche o sociali. Ciò cui tiene soprattutto è la natura primariamente biologica dei fenomeni psicopatologici e, di conseguenza, il primato del potere terapeutico della psichiatria intesa come branca specialistica della medicina.

Il punto debole del modello multidimensionale è il suo imperialismo, in gran parte riconducibile al patto di acciaio che esso ha stretto con l’industria psicofarmaceutica, i cui massicci investimenti, più che i progressi scientifici, gli hanno consentito di superare la bufera della contestazione antipsichiatrica e della lotta antistituzionale, e di riorganizzarsi in virtù di un uso spregiudicato dei mass-media, che ha propagandato come verità acquisite scientificamente ipotesi che rimangono da dimostrare, oltre a una serie di vere e proprie falsificazioni. L’imperialismo consiste nell’aver esteso a tutto il campo psicopatologico l’ipotesi della predisposizione costituzionale, sicchè il confine tra grande e piccola psichiatria, tra psicosi e nevrosi, è rimasto meramente clinico: riguarda insomma la diagnosi, non l’eziologia. Le conseguenze di questa estensione sono due. La prima è il misconoscimento della possibilità che si diano disturbi meramente funzionali, psicogeni o sociopsicogeni. La seconda è la generalizzazione del paradigma biologico, che è avvenuta sulla base di un sillogismo. Posto infatti che laddove si dà un sintomo psicopatologico si ammette l’esistenza di un processo causale biologico, tutte le esperienze psicopatologiche sono riconducibili a malattie.

Con questi assunti, inattaccabili in quanto non falsificabili, e fondati peraltro su di un dato di realtà inconfutabile per cui ai fenomeni psichici corrispondono degli eventi biologici, il modello multidimensionale ha posto nondimeno le premesse di una sua inesorabile crisi. Si dà il fatto che, a partire dagli anni ‘80 del secolo scorso in poi, alcune patologie - gli attacchi di panico, le depressioni atipiche, i disturbi del comportamento alimentare, le sidromi border-line, ecc. - hanno riconosciuto, nelle società occidentali, una diffusione epidemiologica che metaforicamente si può definire epidemica. Sono cresciute insomma con una modalità statisticamente esponenziale, che appare del tutto inspiegabile partendo dall’ipotesi dell’eredità costituzionale. O si ammette infatti che tale eredità dipende in larga misura, per quanto riguarda la sua fenotipizzazione clinica, dal contesto socio-culturale (ma, in tal caso, si può opporre l’ipotesi che, dato un contesto adeguato, quell’eredità potrebbe non esprimersi, e dunque che la causalità dei fenomeni psicopatologici è sempre e comunque contestuale); oppure, per tener fermo il postulato della predisposizione, occorre arrampicarsi letteralmente sugli specchi. E’ quanto ha tentato di fare la neopsichiatria. Anzitutto contestando fino ad epoca recente l’aumento epidemiologico del disagio psichico e riconducendolo ad una minore difficoltà dei pazienti di ricorrere agli psichiatri, e dunque alla rivelazione sociale di un fenomeno dapprima sommerso. Di fronte ai dati statistici inconfutabili, essa è stata poi costretta ad articolare delle ipotesi compatibili con la predisposizione genetica francamente ridicole. L’aumento degli attacchi di panico con agorafobia, che investe in misura rilevante soggetti femminili, è stato spiegato in rapporto a cambiamenti sociali che, richiedendo a un numero sempre maggiore di donne di abbandonare il loro tradizionale ruolo domestico, rivela una vulnerabilità all’esposizione sociale confermata, nel suo fondamento ereditario, dal fatto che spesso le madri delle pazienti soffrono di attacchi di panico. L’aumento delle depressioni, con una disinvoltura scientifica singolare, è stato ricondotto all’aumento della prolificità dei depressi dovuto al miglioramento indotto dalle cure antidepressive! I disturbi del comportamento alimentare adolescenziale vengono ricondotti ad influenze culturali che agiscono solo su soggetti geneticamente predisposti.

L’incidenza epidemiologicamente costante delle psicosi sembra, in un’ottica critica, lo scoglio più duro da superare. Ma, anche a questo riguardo, non mancano dati significativi. L’esordio della schizofrenia, per esempio, si va di sicuro precocizzando, se è vero che un numero crescente di diagnosi riguardano soggetti dai 14 ai 18 anni. Le depressioni maggiori sono in lieve ma costante aumento. Gli episodi di eccitamento maniacale si manifestano per la prima volta dopo i quarant’anni in una misura maggiore rispetto al passato. Si può ritenere che questi dati siano riconducibili a delle modalità diagnostiche più fini e a una accresciuta domanda di cure psichiatriche. Ma si può anche avanzare il dubbio che essi siano indiziari di cambiamenti psicopatologici significativi sotto il profilo epidemiologico, e non interpretabili su base genetica.

E’ vero che cogliere queste contraddizioni non significa molto. Intanto perchè il modello neoorganicista è stato acquisito dall’opinione pubblica in misura rilevante, sicchè la critica ad esso può risultare uno sterile esercizio di dialettica scientifica destinato a rimanere chiuso all’interno del campo degli addetti ai lavori. In secondo luogo, poichè, al di là della critica destruens, occorre opporre ad esso un altro modello, necessariamente più comprensivo, e dunque tale da dare il giusto valore agli aspetti biologici. Ci si può chiedere donde debba muovere questo modello. La risposta può essere ricavata proprio dal dato che confuta l’ipotesi neo-organicista: dalle patologie il cui aumento esponenziale pone il problema di capire che cosa sta avvenendo nel terreno in cui esse attecchiscono e che le alimenta, il contesto socio-storico. Si può pensare che tale risposta, riguardando solo tali patologie, non possa avere alcun significato in rapporto allo zoccolo duro della psichiatria, le psicosi. Ma non è così: prendere atto che alcuni fenomeni psicopatologici, ricondotti univocamente alla predisposizione genetica, fluttuano in rapporto a cambiamenti sociali e culturali non può non avere conseguenze su tutta la psicopatologia. Nessuno oggi infatti, anche per la schizofrenia e i disturbi dell’umore, può sostenere l’ipotesi di un determinismo genetico in senso stretto. Anche le psicosi dunque sono fenotipizzazioni di determinati genotipi. Si pone dunque il problema di definire in senso rigoroso, laddove esiste, una predisposizione che non può più essere considerata unicamente aperta allo sviluppo morboso.

Non si stenta a capire perchè l’epidemiologia delle ‘nuove’ patologie assume un significato epistemologicamente importante. Il loro aumento, infatti, come rende improponibile il riferimento ad una predisposizione genetica in senso proprio, così impedisce o sconsiglia di cercare chiavi esplicative di tipo psicogenetico o microsistemico. Per quanto ogni esperienza di disagio psicologico riconosce indubbiamente delle dinamiche soggettive e si inquadra immediatamente in un contesto significativo familiare, il riferimento alla psicogenesi o alla genesi interattiva urta contro la difficoltà di capire come possa essersi prodotta, a livelli locali, una disfunzione di portata così ampia da dare alle patologie in questione un carattere epidemico. E’ obbligatorio pensare che esistano delle matrici sociogenetiche. Ma, arrivato a questo punto, il discorso rischia di impantanarsi. In primo luogo, perchè, nonostante la teoria dei sistemi complessi sia ormai universalmente accettata come modello epistemologico, la sua applicazione alla società è ostacolata dal fatto che la reazione al sociologismo degli anni ‘70 ha prodotto, sulla scorta di Popper, il riferimento alla società come somma di individui. In secondo luogo, perchè la diversità della scala su cui si realizzano i fenomeni sociali e le esperienze soggettive sembra ancora incolmabile. Il primo ostacolo è di ordine ideologico, e dunque facilmente sormontabile in nome del principio per cui qualunque sistema è più delle parti che lo compongono. Ciò significa che ogni sistema postula la definizione dei rapporti interattivi e reciproci tra le parti e il tutto. Il secondo ostacolo è più serio, poichè esso si fonda sulla carenza per un verso di una teoria sociologica comprensiva della psicologia individuale e per un altro di una teoria psicologica comprensiva del ruolo che i fattori sociali svolgono nella strutturazione della personalità.

Il disagio psicopatologico investe singoli soggetti appartenenti ad un contesto microsociale; pone in gioco - non appena si trascende l’ottica della malattia come evento individuale - la storia personale, quella interiore e quella sociale, che si intreccia con la storia della famiglia di appartenenza, delle parentele acquisite, delle istituzioni, scolastiche e/o lavorative, con cui il soggetto ha interagito e interagisce, dei gruppi spontanei, amicali, o organizzati che egli frequenta. Il microsociale non é un mondo chiuso. Esso comunica in maniere molteplici con il macrosociale, con l’ambiente - di paese o urbano - in cui il soggetto risiede, il quale a sua volta appartiene a un contesto più ampio, ad una nazione con una sua storia e una sua identità culturale. Attraverso l’appartenenza nazionale, infine, ogni soggetto partecipa di una civiltà, e della sua storia secolare.

Questo gioco di scatole cinesi, che pone in rapporto ogni singola esperienza soggettiva con la storia sociale totale, ha un’incredibile complessità. La pertinenza della storia totale sociale con l’esperienza di ogni singolo soggetto può essere facilmente comprovata. Basta riferirsi all’indice che la restituisce immediatamente: il linguaggio. Da tempo, i linguisti distinguono la langue, il patrimonio linguistico oggettivato per esempio da un dizionario, da la parole, l’uso cioè che ne fa ogni singolo individuo. La langue é indubbiamente un prodotto sociale, ma un po’ particolare. In quanto patrimonio comune, collettivo, esso trascende le singole individualità, non appartiene a nessuno in particolare, e nessuno lo possiede totalmente. Come prodotto culturale, la langue ha il suo corrispettivo naturale nell’atmosfera a cui ciascuno attinge, ma di cui nessuno può appropriarsi. La spontaneità con cui parliamo, tal che ciascuno sente la lingua come sua, ci confonde un po’ le idee. Ci impedisce, per esempio, di capire che il pensiero personale, dovendo scorrere nei canali di pietra dei codici linguistici, di codici dunque sociali, ne é inesorabilmente condizionato. Noi pensiamo come individui ma anche inesorabilmente come enti sociali. Quanto del nostro pensiero é individuale, quanto sociale é un problema arduo da dirimere.

Ci si può chiedere se ciò che vale per il linguaggio, vale anche per gli altri aspetti dell’esperienza soggettiva. Per quanto riguarda i comportamenti, non si danno problemi. Ormai é noto che ogni società ha i suoi codici comportamentali normativi, che presiedono di continuo la valutazione, consapevole e inconsapevole, che ogni soggetto fa del suo modo di porsi nel mondo. Come per il linguaggio, anche i codici comportamentali normativi sono un prodotto sociale. Più misterioso addirittura, se si tiene conto che, tranne per quanto concerne le leggi, essi non sono oggettivati, si trasmettono per tradizione orale e spesso non sono neppure esplicitati. Ogni società, in qualche misura, é ritualizzata, nel senso che i suoi membri si attengono in genere a dei codici comportamentali che non sempre sono in grado neppure di definire.

Scarsi dubbi sussistono anche in rapporto all’attività cognitiva. Per essa sembrano valere gli stessi principi del linguaggio, col quale è intimamente correlata. L’interpretazione cognitiva del mondo riconosce di sicuro degli aspetti specifici inerenti il singolo individuo, ma essa si dà e non può darsi che a partire da un tessuto comune di credenze, convinzioni, pregiudizi, luoghi comuni, miti condivisi socialmente.

E per quanto riguarda il sentire, cioè la vita emozionale soggettiva, in cui si individua solitamente il privato per eccellenza? Il discorso é complesso ma non insondabile. C’é un bagaglio emozionale comune a tutti gli uomini nello spazio e nel tempo. Ma l’esperienza soggettiva non é mai o quasi mai espressione diretta delle emozioni. Il sentire implica una elaborazione cognitiva, consapevole o inconsapevole, delle emozioni; e questa elaborazione dipende essa stessa da codici culturali propri di un determinato contesto. L’emozionalità, insomma, é universale, ma il modo in cui ciascun soggetto sente, accede o non accede alle emozioni, é fortemente condizionato dall’ambiente sociale.

Se si tiene conto di tutto ciò, non si stenta a capire che il disagio psicopatologico, per quanto si declini su di un registro soggettivo, intersoggettivo o microsociale, non può essere analizzato senza tener conto dei nessi tra soggettività individuale e storia sociale totale. Nella sua genericità, questo assunto non pone o non dovrebbe porre problemi. I problemi vengono fuori nel momento in cui ci si chiede se i rapporti tra soggettività e storia sociale, posto che sia possibile individuarli, hanno un significato causale, se cioè quello che si ricava dall’analisi di quei rapporti entra in qualche modo e in quale modo con la genesi, la dinamica e la struttura del disagio stesso. Rispondere in astratto non ha senso. Occorre fare riferimento a delle esperienze concrete di disagio e verificare in quale misura il riferimento alla storia sociale possa risultare esplicativo dei sintomi, dei vissuti e dei comportamenti psicopatologici. Prima di procedere su questa strada, é però opportuno capire come quel riferimento possa essere utilizzato.

Quando in psicopatologia si parla di fattori sociali, solitamente non si fa riferimento alla storia bensì al contesto sociale. E’ implicito che ogni contesto ha una storia, ma la sua attualità viene ritenuta in genere di gran lunga più importante dell’evoluzione che lo ha prodotto. Ciò è dovuto al fatto che il contesto sociale é percettibile e per alcuni aspetti quantificabile (per esempio in termini di residenza abitativa, di reddito, ecc.), mentre la storia sociale é impercettibile, e va ricostruita. Ma cosa si intende per storia sociale? Nella maniera più semplice si può intendere tutto ciò che è un prodotto della vita associativa, della cooperazione sociale: i beni di consumo e quelli durevoli, le tecniche, i saperi (arte, filosofia, scienza), il linguaggio, la religione, le istituzioni, i valori culturali, le ideologie, i costumi, le tradizioni, le credenze, i pregiudizi, le superstizioni, ecc. Il patrimonio - materiale e spirituale - della cultura, la sua trasmissione transgenerazionale, i cambiamenti che intervengono nel corso dello sviluppo storico rappresentano nel loro complesso la storia sociale. Ciò detto, alcuni problemi si pongono come preliminari al fine di indagare il rapporto tra storia sociale e soggettività (normale e psicopatologica). Anzitutto v’è da chiedersi se quel patrimonio riconosce una qualche organizzazione, se é strutturato. L’ipotesi oggi più accreditata ritiene che ogni società riconosca una struttura caratterizzata da piani o livelli diversi: quello economico, quello sociale, quello mentale. Il piano economico concerne la produzione dei beni, la loro circolazione, la distribuzione delle risorse economiche, il consumo, ecc. Il piano sociale comprende in senso lato le istituzioni, sia macrosociali (come per esempio lo Stato) sia microsociali (come la famiglia). Il piano mentale, o più precisamente della "mentalità", comprende tutti i sistemi di valori culturali, consci e inconsci, che nel loro complesso integrano le visioni del mondo proprie di una determinata società e sulla cui base ogni individuo costruisce la propria personale visione del mondo. Questi diversi piani si differenziano per due aspetti fondamentali: il grado di superficialità o di profondità, riferito alla coscienza sociale e individuale, e le modalità di scorrimento, più o meno lente. Il piano economico è il più superficiale e il più fluttuante, quello sociale sta al di sotto del piano economico ed evolve in tempi medi, quello mentale è il più profondo - in gran parte configura l’inconscio sociale - ed ha un’inerzia del tutto particolare.

E’ evidente che ciascuno di questi piani ha una sua incidenza psicopatologica. Non si può minimizzare il peso delle condizioni economiche: la disoccupazione e la sottoccupazione, la povertà assoluta o relativa, le difficoltà alloggiative ecc. possono produrre direttamente effetti squassanti sotto il profilo psicologico. Quanto al piano sociale, l’incidenza psicopatologica dell’organizzazione familiare, dell’istituzione scolare, degli ambienti di lavoro e, in senso lato, della qualità della vita, è fuori di dubbio. Cionondimeno, il primato dei fattori mentali nella produzione di situazioni psicopatologiche è inconfutabile. Le esperienze di disagio, infatti, si realizzano ad ogni livello della scala sociale, e le forme in cui il disagio si esprime sono pressappoco identiche nonostante la diversità degli individui.

Per fattori mentali vanno intesi tutti i sistemi di valore presenti e attivi nel patrimonio culturale proprio di una società. Il rapporto tra questo patrimonio e la soggettività individuale è socialmente mediato. La trasmissione dei valori culturali avviene in virtù dell’educazione. Questo aspetto è già di per sé altamente problematico. Intanto perché quella trasmissione si realizza attraverso la comunicazione cosciente non meno che attraverso modalità di comunicazione inconscia; in secondo luogo, poiché ciò che viene trasmesso coscientemente è vissuto dagli educatori come indispensabile ai fini dell’adattamento e dell’integrazione sociale. Ma se ci si chiede quale sia il grado di consapevolezza che essi hanno del significato storico dei valori che trasmettono, ci si sorprende spesso a constatare che è piuttosto basso. Al di là dei valori trasmessi, c’è da considerare che la vita sociale ne produce continuamente nuovi, che si integrano con quelli tradizionali o si giustappongono ad essi o li sostituiscono. Questi valori vengono appresi nel corso dell’interazione sociale, e il loro potere è direttamente proporzionale al grado di consenso sociale di cui godono.

Il patrimonio culturale proprio di ogni società si riorganizza di continuo sia in conseguenza del fatto che ogni generazione che lo riceve lo elabora sia in conseguenza dei cambiamenti della struttura sociale. Il rapporto tra questi cambiamenti e la mentalità, vale a dire le ideologie che nel contempo li esprimono e li interpretano con l’intento costante di naturalizzarli, di togliere ad essi il carattere storico che hanno - e dunque il carattere di una possibilità tra tante che si è realizzata - e di restituirli alle coscienze come una necessità, è un rapporto dinamico, fonte di infinite contraddizioni e conflitti. Ogni struttura sociale tende a giustificare se stessa, a normalizzarsi e a conservarsi. Ma questa tendenza, che si riflette nelle ideologie, comporta spesso, per effetto della naturalizzazione, la necessità che i membri sociali si adattino a condizioni di vita che sono al limite della plasticità adattiva o la eccedono. Ciò accade con una tale apparente naturalezza che le coscienze individuali e sociali sono sistematicamente ingannate. Non si rendono conto, in breve, del fatto che quanto ad esse viene richiesto, in nome dell’adattamento, è più di quanto possano tollerare. E’ questo scarto, tra la storia, la struttura sociale e i livelli di coscienza soggettivi, che fonda la possibilità di un’esplorazione dei rapporti tra psicopatologia e storia sociale.

L’esplorazione di tale scarto e la sua pertinenza in rapporto ai fenomeni psicopatologici è l’oggetto del saggio. Trattandosi di un approccio sostanzialmente nuovo, storicamente imparentato con i tentativi degli anni ‘70 di dare alla psicopatologia uno statuto sociologico, ma differenziato da questi per l’importanza accordata all’inconscio sociale e individuale, non c’è da aspettarsi una trattazione esauriente. L’importante, per ora, è mettere a fuoco una metodologia di ricerca, e visualizzare l’ottica nuova in cui appare l’oggetto della ricerca.

In ordine alle finalità che persegue, il saggio risulta organizzato in due parti. Nella prima si analizzano alcune situazioni psicopatologiche che appaiono correlabili a cambiamenti intervenuti negli ultimi decenni a livello sociale e culturale e si tenta di analizzare tali correlazioni. Nella seconda si avanzano alcune ipotesi in materia di prevenzione del disagio psichico.

PARTE PRIMA

I. Il disagio psichico infantile

La società - è un assioma - non può ammalare. Sarebbe più giusto, forse, affermare che essa non ha coscienza del suo stato quale che sia, e tende in genere a identificarlo con la sua capacità di riprodursi, assunta univocamente come segno di buona salute. In realtà, che una società funzioni e si riproduca non dice gran che se si prescinde dalla qualità della vita che essa assicura a tutti i suoi membri. Assumendo la felicità degli individui come indizio dello stato del sistema sociale cui partecipano, è evidente che, nella storia remota, recente e attuale, poche società possono vantarsi di avere assicurato ai loro membri un’esistenza tollerabile. Da questo punto di vista, il disagio pichico, nella sua universalità spazio-temporale, si confonde con le forme molteplici di infelicità che hanno segnato il tragitto dell’umanità dai suoi esordi ai giorni nostri.

Qualcuno sostiene che il mondo attuale, soprattutto per quanto concerne le società occidentali, ha raggiunto livelli di benessere oggettivo e soggettivo del tutto sconosciute in passato. Si tratta di un punto di vista rispettabile, ma che non sembra andare molto al di là della superficie. Il benessere oggettivo è un dato di realtà quantificabile, per quanto distribuito in maniera sostanzialmente ancora molto eterogea. Il benessere soggettivo è inferito da quello oggettivo come una sua naturale conseguenza. Pochi dati confortano questa inferenza, e molti la confutano. Tra questi ultimi, uno dei più rilevanti è il disagio infantile.

Uno dei miti contemporanei, tenacemente radicato nella coscienza degli educatori e presente in tutti gli spazi istituzionali deputati all’allevamento dei bambini, verte sulla qualità delle cure fornite, sulle opportunità offerte, sull’attenzione posta nell’assicurare uno sviluppo adeguato alle caratteristiche individuali, sul grado di libertà concesso, elevato in nome del riconoscimento della pari dignità con gli adulti. Non manca, di certo, a livello di coscienza sociale. il riferimento a zone di ombra. Si sa che esistono plaghe, distribuite a livello geografico e sociale, di arretratezza, laddove la condizione infantile è drammaticamente esposta sia al rischio che all’abbandono di fatto, affettivo e educativo, e alla violenza, sia psicologica che fisica. Si riconosce che l’organizzazione della famiglia nucleare, con i genitori impegnati entrambi nella produzione del reddito, riduce drasticamente il tempo di interazione tra adulti e bambini. Comincia anche a farsi strada l’idea che l’internamento asilare e scolare, sempre più spesso a tempo pieno, corrisponda più a esigenze di organizzazione sociale che non ai bisogni autentici dei bambini, costretti a socializzare in spazi sovraffollati, acusticamente inquinati e pervasi da una crescente aggressività. Ma, per quanto inquietanti, tali fenomeni non sembrano incidere sulla convinzione che, ripagati dalla qualità dei rapporti con i genitori, dal consumismo e dalle opportunità di sviluppo che gli vengono offerte, i bambini di oggi siano privilegiati rispetto al passato e ai loro coetanei delle aree sottosviluppate.

Di fatto, il cambiamento avvenuto nel corso della storia nella percezione dei bambini come persone e non come cose o piante, è, come ha sottolineato giustamente P. Ariès, un cambiamento di mentalità epocale (almeno nel contesto della storia della civiltà occidentale). Quella percezione si è poi ulteriormente arricchita dei contributi delle scienze psicologiche, dalla psicoanalisi al cognitivismo, organizzandosi sotto forma di modello pedagogico praticato con un certo grado di consapevolezza. Contestare questo progresso sarebbe un non senso. Occorre riconoscere però che un qualunque modello pedagogico, in quanto presiede a un aspetto specifico della riproduzione sociale, la formazione di uomini, non può essere valutato in astratto, in nome cioè della sua coerenza e della sua razionalità, bensì in concreto: in rapporto, insomma, se ci si consente una brutalità terminologica, al prodotto. E’ questo il livello fenomenico indiziario di quanto di fatto accade nella realtà al di là della percezione illusionale, mitica delle coscienze.

Quiando ci si pone a questo livello, i trionfalismi cadono rapidamente. Si dà, nelle società evolute, uno scarto crescente tra la dedizione degli educatori, alla quale corrisponde l’aspettativa di una evoluzione lineare, equilibrata, serena, se non addirittura visibilmente felice, degli educandi, e la realtà da questi vissuta, che si esprime negli stati di animo, nei comportamenti e, non di rado, in sintomi franchei di disagio psichico. Benché non vadano drammatizzate, le statistiche non possono essere minimizzate. La quota dei bambini difficili da educare, in gran parte riconducibile alla categoria dei bambini iperattivi, è in crescente aumento, come pure quella dei bambini affetti da un interminabile serie di disturbi psicosomatici - dalle infezioni troppo frequenti alle allergie - e comportamentali - dalle difficoltà alimentari ai difetti di apprendimento. Crescente è anche la quota dei bambini che manifestano disturbi propriamente psicologici: tics, yurbedel linguaggio e dell’apprendimento, stati di ansia, incubi notturni, fobie più o meno strutturate, depressioni. Da sole, queste ultime, secondo le statistiche più recenti, investono il 6% della popolazione infantile. Sommando tutti gli addendi, non si va lontano dal vero affermando che, oggi, il 15-20% dei bambini sono preda di una qualche sofferenza psichica.

Tale dato diventa ancor più inquietante se ad esso si aggiungono i dati che concernono le condizioni psicologiche degli educatori e in particolare dei familiari.

E’ singolare che, nel nostro sistema, incline a valutare la razionalità di ogni processo produttivo in termini di rapporto costi/benefici, la produzione degli uomini sia sfuggita ad una siffatta valutazione. Assumendo tale produzione come un aspetto specifico di ogni sistema sociale, che riconosce come dato comune a tutte le società solo la riproduzione biologica, è ovvio che esso richiede criteri valutativi più complessi, comprensivi delle numerose variabili che concorrono a realizzarlo. L’indifferenza degli esperti - psicologi evolutivi, pedagogisti, pediatri, sociologi - per questo aspetto è sorprendente, e non può essere da noi rimediata. E’ importante però riferire un dato grezzo che sottolinea la necessità di affrontarlo come problema. Tale dato concerne il peso psicologico e psicosomatico dell’allevamento, che va sommato all’altro, ben noto, del crescente impegno economico. Da numerosi indizi è possibile ricavare la conclusione che quel peso risulta ormai normalmente al limite dello stress, e non di rado, episodicamente o stabilmente, lo trascende. Gli stati di esaurimento degli educatori sono andati incontro, negli ultimi anni, ad una crescita esponenziale. E’ vero che non è sempre agevole definire un rapporto di causalità tra il disagio psichico e il ruolo educativo, poiché quest’ultimo è solitamente uno dei ruoli agìto dalle persone nel contesto di una vita sociale che si è globalmente complessificata. Ma si dà il fatto che i problemi legati all’educazione dei figli o all’insegnamento affiorano molto spesso tra quelli patogeneticamente indiziari in caso di crisi adulte, e, se talora vengono minimizzati dagli interessati, ciò dipende spesso dalla vergogna di confessare vissuti di insofferenza, nei confronti dei figli, giudicati contro natura. Per quanto grezzo, il dato cui si è fatto cenno merita un’attenta valutazione.

Intanto, nella misura in cui è possibile, esso va decompattato. La psicopatologia degli educatori è, infatti, eterogenea. Ponendo tra parentesi le situazioni di disagio psichico preesistenti l'assunzione del ruolo educativo, alcune considerazioni di ordine generale si impongono. Si è detto che il peso medio dell’allevamento sembra lambire costantemente il confine dello stress. Una quota consistente di situazioni di disagio, episodiche o croniche, sono da ricondursi senz’altro al superamento di tale confine, e si realizzano in virtù di una sintomatologia che, nel complesso, appare sovrapponibile alla sindrome burn-out, originariamente individuata in operatori sociali dediti a gravosi compiti assistenziali. L’evoluzione di questa sintomatologia dipende in larga misura dalla possibilità che l’educatore ha di sottrarsi, almeno temporaneamente, al proprio ruolo e di farsi vicariare. Possibilità concessa di diritto (per malattia, ferie, congedi, aggiornamento, ecc.) agli insegnanti, la quale, per quanto concerne i genitori, si realizza solo in virtù di una disponibilità parentale o di un aiuto prezzolato. In difetto di qualunque aiuto, la sintomatologia tende a incrementarsi, a cronicizzare e talvolta a evolvere verso una nevrosi conclamata. Il mistero della maggiore incidenza statistica di stati depressivi e/o ansiosi a livello femminile adulto è, almeno in parte, riconducibile alla ricorrenza con cui il ruolo materno non risulta vicariabile.

A questa patologia tipo burn-out, occorre aggiungere situazioni di disagio più specifiche, legate a problemi particolari e a fasce di età. Dovrebbe essere noto che, nel corso della sua storia, fino ad epoca recente, la società ha sempre privilegiato un assetto comunitario, incentrato sul gruppo di parentela. Tale assetto comportava, tra l’altro, il vantaggio che il peso dell’allevamento poteva facilmente essere distribuito su più persone. La nascita della famiglia nucleare si può ritenere, per questo aspetto, un cambiamento epocale. Ma, almeno per quanto concerne l’allevamento, tale struttura si configura come una sperimentazione a vicolo cieco, poiché essa comporta un rapporto di scarsità tra le risorse degli educatori e i bisogni dei bambini.

Creando un essere come l’infante, totalmente bisognoso e lungamente dipendente, la natura, il cui modello di riferimento è stato il gruppo dei primati, non prevedeva presumibilmente di sottoporre alla prova dell’allevamento solo un membro - la madre - assistita più o meno validamente dal partner. La cultura e l’organizzazione sociale hanno prodotto siffatta situazione. Le scienze psicologiche, con la loro cieca insistenza sul rapporto diadico madre-bambino, aperto all’intervento del padre, come condizione ottimale di allevamento, hanno fatto il resto. I rapporti diadici, che comportano nelle fasi primarie un impegno a tempo pieno della madre, sono a tal punto patogeni che essi determinano l’affiorare nella madre di sintomi entro il sesto mese. Si tratta in genere di depressioni apatiche, che riducono di gran lunga l’efficienza della madre e determinano un disinvestimento affettivo. Ma, in non pochi casi, insorgono fantasie parassitarie di far male al bambino che hanno conseguenze psicologicamente devastanti, anche perché la loro mostruosità induce a non parlarne con alcuno.

Se le fasi primarie, solitamente in virtù di qualche aiuto parentale, vengono superate senza danni psicologici, un ulteriore periodo critico si realizza in rapporto alla deambulazione e al periodo esplorativo che ad essa segue. Anche in questo caso, promuovendo un arredamento della casa a misura degli adulti e inducendo di solito una rimozione dell’inesorabilità della fase vandalica, la cultura ha realizzato una trappola micidiale. E’ evidente che i genitori maggiormente amanti dell’ordine e della pulizia sono quelli che più facilmente crollano sotto il peso del vandalismo esplorativo, che, data la situazione logistica, non può esser vissuto nel suo autentico significato. Ma la prova è durissima per tutti e non di rado inaugura crolli psicologici.

Al di là del secondo/terzo anno, i problemi potenzialmente patogeni sono diversi. Sempre più spesso, oggi, data la percentuale crescente dei bambini iperattivi, essi si configurano come oggettivi. Il comportamento iperattivo, che solitamente si protrae negli anni, è tanto incolpevole quanto incoercibile. L’arginamento da parte degli educatori, necessario ma dall’esito momentaneo, è logorante al punto che il crollo psicologico è inevitabile, e si configura talvolta sotto forma di apatia e rassegnazione, talaltra sotto forma di una crescente insofferenza nei confronti del figlio che determina atteggiamenti repressivi e aggressivi. Per la sua incidenza statistica, il dramma dei bambini iperattivi merita un’attenzione maggiore rispetto a quella corrente, che tende in genere a sdrammatizzare una situazione al limite dell’invivibilità e a ignorare il fatto che la carriera di questi bambini, che non possono rimuovere le memorie del loro essere insopportabili, approda spesso, in epoca adolescenziale o giovanile, in esperienze psicopatologiche o devianti.

Fortunati, dunque, i genitori, pochi a dire il vero, ai quali la sorte concede di allevare i cosiddetti bambini d’oro, quelli che non danno mai problemi e non pesano affatto? Fortunati, di certo, poiché non corrono rischi di esaurimento, e ricavano spesso dai figli, solitamente eccellenti nello studio, molte gratificazioni. Ma si può ignorare che, ancora più di quelli difficili, i bambini d’oro incappano, in misura considerevole, dall’adolescenza in poi, in un’esperienza di disagio psichico, che fa pagare, e talora a caro prezzo, ai genitori le gratificazioni precedenti?

Tra questi due estremi si danno i bambini normali bambini che, per definizione, non danno molti problemi agli educatori. Ma la normalità, oggi, sembra comportare comunque un peso educativo rilevante, poiché tali bambini esibiscono bisogni e atteggiamenti molto diversi rispetto alle generazioni precedenti. Sono in genere, e ovviamente senza colpa alcuna, avidi di cure e assillanti con le loro perpetue richieste di attenzioni e di beni di consumo; tendono ad assumere facilmente, e con una preoccupante naturalezza, atteggiamenti tirannici nei confronti dei familiari; intrattengono con i fratelli un rapporto quasi sempre animato da competitività e aggressività. Nonostante un’apparente e sconcertante sicurezza, che spesso li fa apparire come padroni del mondo, sono anche labili emotivamente, poiché basta una qualunque frustrazione a indurre rabbia, scoramento, depressione. Hanno, infine, una percezione della vita e del loro futuro sostanzialmente illusionale, fondata su aspettative onnipotenti. Circostanza che, in non pochi casi, fa sì che l’apertura degli occhi sullo stato di cose esistente, che sopravviene inevitabilmente con l’adolescenza, risulti spesso traumatica.

Tra disagio dei bambini e disagio degli educatori si dà evidentemente un rapporto interattivo. Ma, ponendo tra parentesi le infinite combinazioni che si realizzano a livello familiare e che privilegiano, causalmente, l’uno o l’altro fattore, è il disagio nel suo complesso che va spiegato.

Per tentare di interpretare lo scarto tra le risorse - economiche, culturali e affettive - investite nel processo educativo contemporaneo, quantitativamente imponenti rispetto al passato, e i risultati, nel complesso mediocri quando non deficitari, occorre guardarsi anzitutto dai luoghi comuni. Se ne danno molteplici a riguardo: i bambini avrebbero tutto e tutti a disposizione, e pertanto sarebbero viziati, incapaci di tollerare le frustrazioni e condizionati ad assumere le loro aspettative come diritti che gli adulti devono soddisfare; i genitori sarebbero tendenzialmente incompetenti, impreparati ad affrontare un compito delicato che richiede, oltre alla disponibilità affettiva, un bagaglio di conoscenze tecniche, psicologiche soprattutto, che essi non possono ricavare dal buon senso; i mass-media, deputati in massima parte a proporre ai bambini miti di onnipotenza, avrebbero assunto un’incidenza tale da catturare l’immaginario infantile rendendolo poco permeabile al principio della realtà. La matrice comune a queste critiche è il riferimento alla crisi dei valori che travaglia le società occidentali .

C’è del vero, come accade sempre, in questi luoghi comuni, ma la loro sterilità si ricava dal fatto di non comportare alcuna soluzione. I bambini frustrati si deprimono e sviluppano un senso di inferiorità nei confronti degli altri che hanno tutto; i genitori che si rivolgono agli esperti ricevono, per lo più, buoni consigli poco o punto agibili; i mass-media sono pervasivi e, posto che gli educatori possano filtrarne i messaggi, questi si diffondono comunque attraverso il tam-tam dei comportamenti imitativi. La scuola, infine, che dovrebbe rappresentare il volano del processo educativo, non sembra avere alcun potere di formazione critica delle coscienze, limitandosi a tentare di immettere in esse dei buoni principi, inficiati di retorica.

L’analisi che proponiamo verte su tre punti: l’ingabbiamento normativo e istituzionale dei bambini; l’ingabbiamento ideologico degli educatori; le contraddizioni tra i valori incompatibili che sottendono il modo di produzione antropologico.

Affermare che oggi i bambini dispongono di una libertà reale di gran lunga inferiore rispetto al passato sembra un’eresia. Purtroppo le cose stanno così. La perdita di libertà è da ricondursi ad una strutturazione dei campi educativi estremamente rigida sotto il profilo normativo, sia da un punto di vista fisico che psicologico. Si consideri anzitutto il fatto che lo sviluppo fisico avviene, in media, sotto lo stretto controllo dei pediatri, come se, anziché di un processo fisiologico, si trattasse di una condizione sempre prossima alla malattia. Qui non sono in gioco, ovviamente, le vaccinazioni e gli interventi medici in senso proprio, bensì la medicalizzazione della dieta, dell’igiene e del comportamento. Nel nome di regole applicate come prescrizioni mediche, i bambini sono ostacolati nella definizione dei gusti alimentari, frenati nella loro incoercibile tendenza a sporcarsi pur di esplorare il mondo, rigidamente protetti dall’esposizione ai fattori climatici (soprattutto al freddo). A ciò occorre aggiungere la riduzione, propria dei centri urbani, degli spazi vitali, tale che, se si eccettuano le frequentazioni dei giardini pubblici, gran parte dell’esperienza precoce dei bambini si svolge tra le mura domestiche, in ambienti cioè strutturati a misura degli adulti e delle convenzioni sociali borghesi. Si quantifichi il numero dei messaggi inibenti il comportamento che investono in media un bambino nella sua fase esplorativa domestica, e si riconoscerà che l’impatto con la civiltà avviene sotto il segno della repressione. Impatto ritenuto, peraltro, necessario in virtù del fatto che il bambino, se non viene istituzionalizzato precocemente a livello asilare, deve essere preparato, sul piano del repertorio comportamentale, alla socializzazione, alla frequentazione della scuola materna. Come ha rilevato Ariès, non si può non rimanere sorpresi del fatto che una reclusione di massa, funzionale ad una nuova organizzazione sociale, incentrata sulla famiglia nucleare, sia stata scambiata e continui ad essere ideologizzata come rispondente ai bisogni infantili. Quale vantaggio può ricavare un bambino nell’essere chiuso in un’istituzione gran parte del giorno, e immerso in un contesto affollato e tremendamente rumoroso, costretto a misurare quotidianamente se stesso sul registro di un’interazione sociale tendenzialmente competitiva, e a non poter ritagliare se non modestamente una rete di rapporti personali incentrati sull’affinità e sulla simpatia? Di certo, il vantaggio relativo di interagire comunque con persone e di essere affrancato dalla schiavitù televisiva. Vantaggio modesto, se si considera l’incidenza delle malattie psicosomatiche in virtù delle quali i bambini rivendicano la loro libertà e le memorie spesso claustrofobiche che alcuni ricavano dalla frequentazione della scuola materna.

Con la scolarizzazione elementare, i problemi, in genere, aumentano. Non tanto perché, inevitabilmente, aumenta la coercizione motoria, sia pure limitata a poche ore, bensì perché i bambini entrano nella rete delle aspettative e delle aspirazioni sociali degli adulti: dei genitori, ormai cronicamente preda dei miti sociali dello status e del successo; e degli insegnanti, la cui condizione nel complesso frustrante si associa ad un bisogno estremo di gratificazioni. Questa rete, esasperata di recente dall’entrata in vigore della riforma elementare, si va infittendo. La conseguenza è che i pochi bambini recettivi per sensibilità vengono ad essere letteralmente catturati e resi schiavi dell’obbligo di rispondere a quelle aspettative; i più rapidamente si demotivano e manifestano nei confronti dello studio atteggiamenti opposizionistici e negativistici spesso destinati a durare. I primi pagano un prezzo elevato alla paura di tradire le aspettative adulte; i secondi finiscono col nutrire sensi di colpa riferiti al tradimento realizzato. La scissione della popolazione scolastica in queste due categorie, che si è resa sempre più evidente nel corso degli ultimi anni, è un indizio inequivocabile di una pressione normativa che, incrementandosi, ha prodotto effetti univocamente paradossali. Ma non basta. Per quanto lo studio, in sé e per sé, assunto come dovere i cui fini sono comunque vantaggiosi indipendentemente dalla motivazione con cui viene realizzato (e quindi indipendentemente dai programmi e dagli stili di insegnamento che solo di rado riconoscono come obiettivo primario il promuovere quella motivazione), rappresenti l’ossessione educativa universale, essa non è la sola, essendo stato acquisito il principio per cui la scuola di per sé non basta a formare. Per non perdere terreno in un contesto di civiltà laica, alla Chiesa non basta l’obbligo dell’insegnamento religioso nelle scuole. Essa impone, nel periodo delle elementari, due anni di catechismo a coloro che intendono acquisire il diritto di comunicarsi (o, più concretamente, di non rinunciare ad una festa notoriamente ricca di doni). All’insegna infine del motto mens sana in corpore sano, c’è da considerare la necessità, ineludibile, di praticare almeno uno sport. Gli ambienti educativi sportivi risentono di tutte le contraddizioni proprie della scuola, alle quali ne aggiungono altre. Si tratta in genere di ambienti il cui intento primario non è certo quello di arricchire la cultura della corporeità, bensì di selezionare i bambini alla ricerca del campioncino. Tale ricerca avviene in virtù di un’opera di spremitura che non di rado rasenta il sadismo, e si realizza con la connivenza pressoché costante dei genitori, speranzosi tutti in partenza che il proprio figlio possa farcela. L’Olimpo dei calciatori, dei nuotatori, dei tennisti esercita un’attrazione tale da impedire di prendere atto che la pratica sportiva realizza, nel complesso, un’infernale costrizione finché i risultati non risultano scoraggianti. Nel qual caso si concede ai ragazzi di continuare a coltivare lo sport come un hobby, senza rendersi conto che ciò spesso avviene all’insegna della delusione e del fallimento. Occorre infine far cenno ad altre pratiche di apprendimento ritenute necessarie ai fini della formazione, anche se si tratta di pratiche la cui diffusione è limitata dalle possibilità economiche delle famiglie. Si tratta ovviamente della danza classica per le ragazze, della musica (in primis, il pianoforte) e delle lingue.

Si configuri, alla luce di quanto detto, l’organizzazione della vita di un bambino medio, che, secondo il mito pedagogico, dispone di tutto. Aprendo gli occhi sull’ideologia che sottende tale organizzazione, e che fa capo ad una concezione produttivistica del tempo imprescindibile dal mito del successo sociale, non si stenterà, forse, a capire la condizione psicologica reale dei bambini. Condizione di fatto emotivamente coercitiva quante altre mai nel corso della storia, che essi vivono senza alcuna possibilità di confronto e di critica. Condizione che, nella sua universalità, e ponendo dunque tra parentesi le variabili proprie dei singoli contesti familiari, rende compiutamente ragione del crescente disagio psicologico infantile, attraverso il quale si esprime una protesta viscerale che richiederebbe di essere recepita, e che invece viene banalizzata in nome dei luoghi comuni citati all’inizio. Ma quale è infine la difficoltà che impedisce agli educatori di affrancarsi dall’ipnosi del mito pedagogico e di vedere ciò che hanno sotto gli occhi?

La riproduzione antropologica avviene, univocamente, nel contesto di una struttura sociale che per molteplici aspetti la influenza, secondo nessi che non sono sempre evidenti. Come ormai è acquisito in conseguenza del modello messo a punto dagli storici che si rifanno alla corrente delle Annales, ogni struttura sociale comporta vari livelli di organizzazione che interagiscono perpetuamente tra di loro, embricandosi. Livelli che scorrono nel tempo con una velocità di flusso massima alla superficie, ove si dà l’organizzazione dei fenomeni economici, media al di sotto della superficie, ove si danno le istituzioni, e minima in profondità, laddove si organizzano le mentalità, le ideologie sociali. Se si considera il fatto che il processo educativo mira a produrre cittadini capaci di integrarsi nel tessuto produttivo, di partecipare alla vita sociale istituzionalizzata e di orientare i propri comportamenti alla luce di un sistema di valori culturali, risulta ovvio che esso sia estremamente ricettivo nei confronti di tutti i livelli della struttura sociale. Purtroppo, questa ricezione, il più spesso confusa e quasi mai critica, rappresenta il nodo problematico. Consideriamone alcuni aspetti, anche a rischio di qualche ripetizione.

I cambiamenti strutturali avvenuti a livello di organizzazione familiare, anzitutto, hanno sinora provocato più svantaggi che vantaggi. Ciò è vero anche per le famiglie allargate e cooperative il cui contributo, nel diminuire il peso dell’allevamento dei bambini, rimane prezioso. Ma la crescita dei bisogni e dei diritti individuali ha praticamente compromesso un equilibrio che in passato si fondava sulla gerarchia delle classi di età e sul riconoscimento del valore primario dei legami di sangue rispetto a quelli acquisiti. Non mancano, di certo, gruppi familiari ancora totalmente immersi nel mito dell’armonia - mito oggi più che mai mistificante - ma, nel complesso, le famiglie allargate albergano tensioni interpersonali molto forti, sia per quanto concerne il conflitto tra persone appartenenti a generazioni diverse che per quanto riguarda quello, assolutamente incompreso, tra primato dei legami di sangue e primato dei legami acquisiti. E’ superfluo sottolineare l’incidenza di queste tensioni, siano esse latenti o manifeste, a livello educativo. Le famiglie nucleari, che rappresentano l’espressione del riconoscimento ideologico del primato dei vincoli acquisiti, del rapporto di coppia rispetto ai gruppi di appartenenza, risolvono il problema delle interferenze micro-sociali, ma ne aprono altri praticamente insolubili. Il peso dell’allevamento anche di un solo figlio, estremamente coercitivo nei primi anni di vita, diventa il più spesso rapidamente insostenibile, e dà luogo a vissuti di insofferenza tra i partners, ciascuno dei quali richiede all’altro una maggiore partecipazione, che infine ricadono inesorabilmente sui bambini, i quali giungono a sentire il loro essere di peso. Tali vissuti assumono intensità di vario genere e danno luogo a configurazioni comportamentali dipendenti dal modo in cui i genitori li vivono. Non di rado, quando essi sono colpevolizzati, il comportamento genitoriale, riparativo e di copertura, si attesta sul registro dell’iperprotezione, di un’incessante dedizione al ruolo. Ma non meno spesso, essi producono atteggiamenti, più o meno rilevanti, di rifiuto e di ritiro emozionale dal rapporto. Un difetto di cure totale è oltremodo raro: ma l’efficienza nell’erogazione di cure in regime di disinvestimento emozionale e all’insegna dell’insofferenza rappresenta, come noto, per i bambini una miscela ad effetto psicologico tossico. La configurazione comportamentale genitoriale più frequente nelle famiglie nucleari realizza un compromesso tra le due circostanze descritte, e si dispiega dunque sul piano dell’alternanza tra atteggiamenti riparativi e atteggiamenti di rifiuto o di intolleranza. Configurazione, dunque, tipicamente isterica, che determina quasi sempre nei bambini una scissione tra una rivendicazione di dipendenza, che talora si protrae all’infinito, e una tensione verso l’indipendenza precoce e cieca.

Alla trappola della struttura familiare, se ne associano altre di carattere ideologico. La più pericolosa è sorprendentemente il prodotto delle scienze psicologiche, in primis della psicoanalisi. Per promuovere una sensibilizzazione pedagogica, si è infatti adottata, da parte di tali scienze, l’arma peggiore: la costruzione del fantasma del bambino come esserino infinitamente bisognoso di cure e attenzioni in quanto estremamente vulnerabile sotto il profilo psicologico. E’ lecito parlare di un fantasma poiché se è inconfutabile che la vita emozionale del bambino è molto più intensa, drammatica e squilibrata di quanto appare in superficie, non è affatto vero che essa si svolge nel segno di una precarietà tale per cui basterebbe un trauma psicologico anche di modesta entità a segnare l’esperienza ulteriore: in breve, a porre le premesse di un disagio psichico. Lo squilibrio emozionale infantile non è tanto l’espressione di una tremenda vulnerabilità quanto di un processo evolutivo che la postula e procede, a salti, anche in virtù di essa. Quel fantasma, infatti, trascura del tutto che l’evoluzione della personalità infantile avviene parallelamente allo sviluppo delle strutture cerebrali, e che questo sviluppo, che comporta fasi critiche di dilatazione della vita emozionale che solo successivamente vengono integrate a livello cognitivo e comportamentale, riconosce lo squilibrio come indispensabile requisito. L’incidenza educativa di questo fantasma è restituita genericamente dai livelli di ansia genitoriale incentrati, più o meno ossessivamente, sulla paura di sbagliare e di danneggiare il figlio. In particolare, poi, occorre rilevare che esso ha concorso a riproporre l’assoluta necessità, ai fini di uno sviluppo sano e armonioso dell’infante, di un rapporto diadico madre-bambino il più intimo e partecipe possibile, inducendo molte madri, negli ultimi anni, a cimentarsi in un’impresa che, come si è già detto, quando avviene sul registro dell’isolamento nucleare, è inesorabilmente nevrotizzante per la madre e molto spesso perniciosa per il bambino, che ne ricava un condizionamento a dipendere.

Ma il fantasma in questione, che assegna allo squilibrio emozionale il significato di una malattia che può guarire in conseguenza di una totale dedizione genitoriale, ha prodotto un’altra conseguenza negativa di straordinaria importanza: l’ideologia in virtù della quale una cura ottimale non può dar luogo che ad uno sviluppo lineare, caratterizzato da un equilibrio precocemente raggiunto che si mantiene e si arricchisce nel tempo, risultando immune da regressioni e squilibri. Il bambino stereotipizzato da questa ideologia è il bambino sano, sereno, spigliato, comunicativo, socializzato e adeguatamente interattivo. Niente di male, se non che questo stereotipo, che, nella migliore delle ipotesi, si realizza per alcuni aspetti solo nel corso delle fasi evolutive di equilibrio che seguono a quelle di squilibrio e ne anticipano altre, non coincide con il modello programmato dalla natura. Non si stenterebbe a capire questo se si tenesse conto che un processo di crescita lineare renderebbe incomprensibile il lungo periodo di tempo programmato per lo sviluppo della personalità umana.

Ma quali sono gli effetti a livello di contesto educativo di quell’ideologia? Ne citiamo tre. Le fasi di squilibrio che si presentano nel corso dell’evoluzione danno luogo ad un’intensa attivazione dell’ansia genitoriale, che si rivolge a cercarne le cause in errori commessi o in una qualche incomprensione dei bisogni del figlio. Si tratta di un errore interpretativo che, non di rado, porta ad adottare soluzioni che sono rimedi peggiore del male: per esempio, caratteristicamente, ad incrementare le pressioni educative nelle fasi di opposizione, che rendono i bambini ininfluenzabili o addirittura negativisti. Laddove, in risposta alle aspettative genitoriali, il comportamento del bambino si attiene al modello della crescita lineare, reprimendo gli squilibri, si realizza una condizione mistificata, che placa le ansie genitoriali, ma, sia essa vissuta o meno dal bambino nel segno della costrizione e della paura di deludere, pone le premesse di uno sviluppo animato, a livello inconscio, da una conflittualità destinata ad affiorare ulteriormente. Non si può, infine, non considerare la triste condizione dei bambini iperdotati, il più spesso introversivi, il cui sviluppo, in virtù di un’emozionalità più ricca e intensa in rapporto alla media, se sfugge alla trappola della mistificazione, i cui effetti ulteriori sono quasi sempre di ordine psicopatologico, non può non apparire per più aspetti abnorme. Motivo questo per cui i genitori, sollecitati spesso dagli educatori scolastici, si impegnano in una disastrosa, nonché impossibile, opera di socializzazione forzata.

La dedizione dei genitori, indubbiamente maggiore rispetto al passato ma poco produttiva in conseguenza delle circostanze di cui si è parlato e quasi sempre associata a livelli di ansia elevati, determina, infine, come effetto inevitabile la loro aspettativa, conscia e inconscia, di essere ricambiati: effetto che si riverbera nei figli, in misura direttamente proporzionale alla loro sensibilità, sotto forma di indebitamento, conscio e inconscio. In questo aspetto si può, forse, riconoscere la trappola più insidiosa e inafferrabile che incombe, oggi, sul processo educativo. Trappola che, tra l’altro, sottolinea la funzione della famiglia, rilevata da Reich, di agenzia sociale, ma ne evidenzia anche la sua ricettività nei confronti dei miti propri del nostro sistema e, in particolare, dell’aspirazione all’ascesa sociale. L’aspettativa pressoché universale dei genitori verte infatti sulla realizzazione dei figli. Ma è una realizzazione univocamente riferita allo status socio-economico, letteralmente preda dei ruoli professionali - dal calciatore al tennista, dall’avvocato, all’ingegnere, al commercialista, dall’imprenditore al manager - che, nell’immaginario collettivo, configurano il mondo dei VIP. Niente di male, anche qui, se non per il fatto che quei ruoli risultano nel complesso tremendamente riduttivi rispetto alle potenzialità rappresentate nel corredo genetico della specie umana. Ma la presa fascinosa che essi esercitano a livello di aspettative genitoriali è tale da porre spesso i processi educativi sul piano di investimenti costosi, sia sotto il profilo emozionale che economico, ai quali deve corrispondere un guadagno.

II. Disturbi della socializzazione e dell’apprendimento infantile

Sullo sfondo del disagio infantile particolare importanza assumono i disturbi della socializzazione scolare e dell’apprendimento. E’ importante partire dai primi che sono meno noti dei secondi.

Per disturbi della socializzazione scolare si intendono tutti i disturbi sintomatici o comportamentali che si manifestano in stretto rapporto con la frequentazione dell’asilo e della scuola elementare. Si tratta di manifestazione eterogenee che vanno dall’angoscia di separazione all’isolamento, dai disturbi del comportamento alimentare all’insonnia, dai tics ai sintomi psicosomatici più vari, dall’iperattività psicomotoria alla depressione. La loro quantificazione non è semplice, ma, stando alle ultime statistiche, pare che esse investano non meno di due bambini su dieci.

E’ evidente che i disturbi della socializzazione non possono essere analizzati prescindendo dai rapporti familiari, e che essi, in virtù della separazione dalle figure genitoriali, possono rivelare delle difficoltà a monte. Sembra che in particolare i bambini che sono investiti da un atteggiamento educativo familiare iperprotettivo o pseudoautonomizzante presentino tali disturbi in misura maggiore rispetto alla media. Ciò non sorprende se si tiene conto che gli uni, con l’inserimento asilare, si sentono repentinamente ad un’interazione sociale troppo ricca di stimoli per dare luogo ad un adattamento, mentre gli altri sono spinti a rivendicare, con i disturbi, delle cure e delle attenzioni solitamente carenti.

Ma attribuire univocamente alle famiglie l’impreparazione dei figli ad affrontare i problemi della socializzazione scolare è riduttivo e fuorviante. Per una quota almeno di bambini infatti tale socializzazione è psicologicamente traumatica in sè e per sè. Occorre tenere conto, per capire questo aspetto, che, quali che siano i loro meriti, gli asili e la scuola rappresentano comunque delle istituzioni totali nelle quali i bambini vengono internati in nome di esigenze che sono preliminarmente proprie dell’organizzazione sociale che non loro. Non si può mettere ovviamente in dubbio che i bambini abbiano un bisogno di socializzare intenso. Ma, intanto, tale bisogno non è rappresentato in tutti allo stesso modo e non si presenta con gli stessi tempi. In secondo luogo va considerato il fatto che esso non sempre coincide con le risposte offerte dall’ambiente scolare.

Riguardo al primo punto, la pratica psicoterapeutica ha accumulato un numero considerevole di dati che attestano, rievocativamente, un impatto terribilmente traumatico con l’asilo e la scuola. Ciò riguarda in particolare i bambini iperdotati, siano essi introversivi o estroversivi. Nei primi il bisogno di socialità si presenta più tardivamente rispetto alla media e assume fin dall’inizio un carattere intensivo e selettivo. Il ritardo rispetto alla media, che attesta un piano di sviluppo evolutivo fondato su tempi diversi, fa sì che esso raramente è presente prima di cinque-sei anni. L’inserimento precoce di questi bambini nelle strutture asilari viene vissuto di solito come una violenza, che incrementa delle tendenze all’isolamento già proprie della personalità. La possibilità di limitare i danni di questo trauma da socializzazione forzata è vincolata allo stabilirsi di rapporti, con gli insegnanti o i coetanei, duali e significativi. Ma, come l’isolamento, anche questa modalità di relazione viene di solito contrastata a livello asilare, in quanto ritenuta incompatibile col modello corrente di socializzazione che implica una capacità indifferenziata di public relations. In conseguenza di ciò, essi vengono identificati, dagli insegnanti e dai familiari, come bambini che hanno dei problemi psicologici e sottoposti ad un trattamento socializzante spesso vissuto come un’ulteriore violenza. Ai bambini iperdotati introversivi, insomma, viene riservato, in assoluta buona fede, un trattamento omologabile a quello che un tempo era riservato ai mancini. E la conseguenza è di animare nel loro intimo una rabbia precoce e un’ostilità sociale indifferenziata che, quando non dà immediatamente disturbi, può detrminare conseguenze psicopatologiche a distanza.

I bambini iperdotati estroversivi sono animati da un’ansia libertaria che viene poiù o meno profondamente mortificata dall’inserimento asilare. Essi si sentono ingabbiati sia fisicamente che psicologicamente e reagiscono all’ingabbiamento con un’accentuazione marcata della loro irrequietezza, che talora raggiunge i livelli dell’iperattività, e con comportamenti che sono solitamente aggressivi.

Indipendentemente da queste due categorie, c’è da considerare che, per tanti aspetti, l’ambiente asilare e scolare può incidere negativamente sull’evoluzione della personalità infantile in conseguenza di caratteristiche istituzionali costanti, tra le quali sembrano assumere un particolare rilievo il rapporto carenziale con figure adulte, l’inquinamento acustico e la condizione di stress degli operatori. Quest’ultima merita una particolare attenzione. Il rapporto tra insegnanti e bambini, che è di uno a venticinque, sembra funzionale ad un puro compito di custodia e del tutto inadatto a degli intenti educativi. Tale rapporto determina negli operatori una situazione di stress che si traduce o in un atteggiamento permissivista, preoccupato solo di tutelare l’integrità fisica dei bambini, e che spesso chiude gli occhi sulle violenze fisiche e psichiche operate da alcuni a danno degli altri, o in un atteggiamento repressivo che incute soggezione e blocca i comportamenti spontanei infantili.

Il problema dei disturbi dell’apprendimento, che sta assumendo una configurazione epidemica, merita attenzione soprattutto in rapporto al fatto che la frequentazione della scuola investe ormai un arco rilevante della fase evolutiva e che, male interpretati e male affrontati, quei disturbi possono concorrere potentemente ad alterare i rapporti con i familiari e l’immagine di sè detrminando una carriera di vita che non di rado giunge a produrre manifestazioni psicopatologiche.

Mettendo tra parentesi, in quanto non pertinenti, i disturbi dell’apprendimento dovuti ad una patologia neurologica, il discorso va articolato in termini generali. C’è da considerare anzitutto il fatto che, di recente, lo studio ha assunto un significato univoco di strumento di inserimento e di realizzazione sociale e come tale viene proposto dai familiari e dagli insegnanti fin dall’inizio, quando ancora il problema dell’inserimento sociale e dello status non fa parte dell’orizzonte infantile. Questo fatto, in sè e per sè non grave, lo diventa nella misura in cui, con la sua univocità, trascura che lo studio corrisponde anzitutto al bisogno di sapere proprio dell’infante che si esprime precocemente, ben prima dell’avvio della scolarizzazione, sotto forma di bisogno esplorativo del mondo e di curiosità. Se si tenesse conto di questo aspetto si privilegerebbe a livello didattico l’aspetto motivazionale, si cercherebbe in tutti i modi di perseguire come obbiettivo primario dell’insegnamento quello di far provare, con modi e tempi diversi, il piacere profondo che deriva dal sapere. In nome del fatto che lo studio è uno strumento di inserimento e di qualificazione sociale, viceversa, esso viene presentato come un dovere che mette a prova l’intelligenza, la forza di carattere e la volontà. La reazione infantile a questa sfida irrazionale è in genere la demotivazione e il disgusto. E’ una triste verità quella per cui, a livello scolastico, i quattro quinti della popolazione portano avanti lo studio senza alcuna partecipazione emotiva e senza interesse.

Su questo sfondo, i disturbi dell’apprendimento in senso proprio si stagliano come concernenti due categorie di bambini. Negli uni essi rivelano una protesta inconscia nei confronti di un interesse genitoriale che non viene vissuto come riferito alla persona ma solo alle sue prestazioni intellettive. Quasi sempre equivocata, tale protesta dà luogo ad un interessamento specifico, rivolto esclusivamente alla risoluzione del problema, che si realizza o attraverso il coinvolgimento diretto dei genitori o attraverso un aiuto sul piano delle ripetizioni. E’ superfluo aggiungere che, per questa via, si giunge di solito all’aggravamento e alla cronicizzazione del problema stesso. L’altra categoria di bambini manifesta, attraverso i disturbi dell’apprendimento, un opposizionismo inconscio nei confronti di aspettative genitoriali e degli insegnanti troppo elevate. Il vissuto sottostante l’opposizionismo fa riferimento al sentirsi sfruttati, manipolati, usati al fine di soddisfare quelle aspettative narcicistiche.

III. L’anoressia infantile

Il discorso generale sulla condizione infantile, tutt’altro che felice, nonostante gli stereotipi degli spots pubblicitari, può essere applicato sul campo in rapporto ad un dato epidemiologico piuttosto recente, che va definito sconvolgente per due aspetti: in sè e per sè, per la sua drammaticità, e per la forza di impatto che esso ha in rapporto a schemi interpretativi di matrice psicodinamica che risultano, nella loro formulazione originaria, del tutto inadeguati a spiegarlo. Il dato in questione è la frequenza crescente con cui, nel corso della seconda infanzia, si definiscono esperienze anoressiche. Questo fenomeno si definisce sullo sfondo dei disturbi del comportamento alimentare infantile che, sotto forma di inappetenza e/o di bulimia, sono molto più frequenti che in passato. Cionondimeno, esso si staglia su questo sfondo per la sua inequivocabile specificità.

Fino a qualche tempo fa, si poteva tranquillamente consigliare ai genitori di bambini inappetenti di recedere dai loro sforzi di correggere il comportamento alimentare dei figli. Laddove il consiglio, di liberalizzare il rapporto del bambino col cibo, veniva recepito, il miglioramento comportamentale era assicurato. In molti casi, la strategia risulta ancora efficace. Ma occorre essere molto più prudenti, perchè, da qualche tempo a questa parte, alcuni bambini, inappetenti o meno, diventano anoressici. Affidati a se stessi, in pratica, si lasciano morire di fame.

Per molti aspetti, l’anoressia infantile è epistemologicamente sconvolgente. Intanto, perchè essa sembra distribuita tra i sessi in una maniera molto più equilibrata rispetto alla nota forma adolescenziale. Il triste primato femminile, insomma, è conteso dai maschi. In secondo luogo, poichè la precoce insorgenza contesta il riferimento consueto alla spinta adolescenziale che drammatizza soggettivamente il tema della separazione dalle figure genitoriali, soprattutto dalla figura materna. L’anoressia infantile si realizza in un’epoca in cui il bisogno di dipendenza psicologico del bambino è ancora naturalmente piuttosto spiccato. In terzo luogo, i riferimenti al rifiuto di crescere, in particolare per quanto concerne i problemi legati all’identità sessuale e alle trasformazioni corporee, risultano ovviamente impropri. Ciò significa che, se gli schemi interpretativi tradizionali possono ancora ritenersi validi per le anoressie adolescenziali, l’anoressia infantile, nonostante l’identica fenomenologia, se ne differenzia per molti aspetti, fino al punto di lasciar pensare che si tratti di qualcos’altro.

L’adolescente anoressico afferma confusamente i diritti della sua volontà in opposizione a quella altrui (reale e/o interiorizzata). E’ consapevole del carattere sfidante del suo comportamento e, spesso, dà ad esso un’intelaiatura ideologica di tipo estetico, igienico o morale. Il bambino anoressico rifiuta semplicemente il cibo, e si lascia morire. E’ evidente che egli protesta contro qualcosa, ma non lo sa e non è in grado di motivare in alcun modo il suo comportamento. Si tratta dunque di una protesta inconscia, viscerale, radicale, non dovuta ad una spinta evolutiva fisiologica. Se si prescinde dall’ipotesi genetica, che è stata regolarmente avanzata, e che sembra suffragata dall’incomprensibilità del comportamento, c’è da chiedersi dove quella protesta affondi le sue radici.

Un dato indiziario è fornito dalla carriera dei bambini che sviluppano l’anoressia. Si tratta, nella stragrande maggioranza, di bambini d’oro, di precoce e viva intelligenza e di spiccata sensibilità emozionale, un po’ più maturi rispetto alla media, tendenzialmente introversivi, e che si applicano allo studio con ottimi risultati. Date queste caratteristiche, il disturbo anoressico si configura come un fulmine a ciel sereno e sconvolge le famiglie, che si trovano repentinamente di fronte ad un dramma dagli esiti imprevedibili.

Si è già detto che i bambini d’oro, proprio per l’assenza comportamentale delle turbolenze periodiche che sono proprie della fase evolutiva, andrebbero considerati bambini a rischio psicopatologico. In passato, però, tale rischio, quando si realizzava, si manifestava a partire dall’adolescenza in poi. L’esperienza dei bambini anoressici attesta che il rischio si è precocizzato ed appare come una rottura repentina del piano comportamentale. L’analisi dei contesti familiari pone in luce, nei membri adulti, tratti più o meno marcati di perfezionismo e un’ipercontrollo emozionale spesso sotteso da un’ansia di elevato livello. Ma valorizzare questi dati al fine di spiegare l’insorgenza dell’anoressia infantile sembra poco ragionevole. L’anoressia è una forma viscerale di protesta contro un regime di vita oppressivo, sottesa da una tale disperazione che il bambino, inconsapevolmente, vede la liberazione nella morte. Si tratta insomma di una forma larvata di suicidio del tutto irriducibile alle esperienze infantili suicidiarie, nelle quali, in rapporto a famiglie spesso disastrate o a condizioni oggettive di vita intollerabili, la disperazione è cosciente e la liberazione dalla vita in qualche misura decisa. E’ il carattere viscerale della protesta anoressica che merita una spiegazione, prescindendo dal riferimento a famiglie pedagogicamente infanticide.

I bambini anoressici sono la punta di un iceberg, il cui corpo è rappresentato dai bambini inconsapevolmente sfruttati dalle istituzioni pedagogiche. Si tratta in gran parte di bambini sfruttabili, in quanto dotati di potenzialità emozionali e intellettive superiori alla media. Lo sfruttamento non è nè intenzionale nè programmato. Le aspettative genitoriali, dei parenti, degli insegnanti vengono da tali bambini recepite e realizzate con una tale naturalezza che sembra quasi non costare lor sforzo alcuno. Sicchè non è sorprendente che più la risposta è eccellente, più le aspettative crescono e si radicalizzano. A livello di vissuto interiore, alla naturalezza corrisponde uno sforzo tremendo di essere adeguati, una paura costante di non risultare all’altezza e di deludere, il terrore di crollare repentinamente per l’eccessiva tensione perfezionistica. Si tratta dunque di un’esperienza di schiavitù psicologica totale. E non è affatto sorprendente che, su questo sfondo, alcuni bambini cedono, e, senza saperlo, vedono nella morte la liberazione.

E’ un triste paradosso della storia che mentre in passato, e in altre società attualmente, i bambini venivano e vengono a morte per fame, schiavi del bisogno, in Occidente alcuni bambini, privilegiati dalla natura e dalla storia, si destinino a morire di fame per affrancarsi dal peso insostenibile del sentirsi in debito per l’entità almeno quantitativa in cui i loro bisogni sono soddisfatti e per il carattere inconsciamente coercitivo delle prestazioni che vengono loro richieste dai creditori.

IV. Il disagio adolescenziale

E’ ormai universalmente ammesso che il disagio psicologico adolescenziale si va precocizzando e diffondendo epidemiologicamente. La precocizzazione è attestata dal fatto che sempre più di frequente sindromi strutturate si manifestano, criticamente o in forma strisciante, in soggetti di tredici-quattordici anni. Anche gli episodi psicotici acuti che in passato esplodevano tra i 18 e i 22 anni, tendono a presentarsi con frequenza crescente tra i 15 e i 17. La diffusione epidemiologica del disagio, secondo le più recenti statistiche (peraltro poco concordanti tra loro), sembra riguardare il 10-15% della popolazione adolescenziale. Si tratta, se non della punta, di una parte solo del corpo dell’iceberg. Nella ricostruzione di numerose storie di soggetti che manifestano una sintomatologia franca tra i venti e i venticinque anni è possibile reperire anamnesticamente vissuti e indizi sintomatici e comportamentali, spesso sottovalutati dai soggetti stessi e dai parenti, che attestano una lunga incubazione del disagio.

L’entità del problema e la sua potenziale drammaticità, riconducibile per un verso al fatto che un numero crescente di adolescenti si trova ad essere invalidato talora per anni in un periodo decisivo per la socializzazione e la formazione scolastica, e per un altro alla possibilità che alcune esperienze esitino, in conseguenza di maldestri trattamenti soprattutto psicofarmacologici, in una forma nuova di precoce cronicità psichiatrica che pone un terribile problema alle famiglie e alle strutture assistenziali, spiegano l’interesse crescente da parte degli operatori per il disagio psichico adolescenziale, il fiorire di convegni sullo stesso, e l’istituirsi di servizi pubblici e privati che tentano di rispondere a questa nuova domanda sociale. Ma in che termini si pone questa domanda?

E’ un luogo comune, condiviso dalla psicologia evolutiva, che l’adolescenza è l’epoca della ribellione e del malessere. Ciò che sorprende oggi è la frequenza sempre maggiore con cui le crisi adolescenziali o abortiscono in virtù di un salto adultomorfo, che trasforma un bambino in un essere apparentemente sicuro di sé, o si traducono, più o meno repentinamente, in un disagio psichico conclamato. Nel primo caso, si struttura un falso sé destinato, nel corso degli anni, a dare luogo da una caratteropatia o ad esitare in una crisi. Per quanto riguarda il disagio psichico conclamato, che investe soggetti dai 12 ai 18 anni, non è azzardato affermare che esso sembra iscriversi nell’ambito di due configurazioni psicodinamiche caratterizzate dall’avere una corrispondenza immediata con la conflittualità propria dell’adolescenza: le ribellioni inibite e quelle agite. Le ribellioni inibite si esprimono sotto forma di attacchi di panico, angosce ipocondriache, fobie del più vario genere, sindromi ossessive ritualizzate, crisi di depersonalizzazione, depressioni, deliri persecutori, di colpa e di possessione. Le ribellioni agite si esprimono sotto forma di disordini comportamentali (aggressivi e/o erotici) con una spiccata impronta trasgressiva, sindromi narcisistiche, anoressia e bulimia, stati di subeccitamento o di eccitamento maniacali, deliri di onnipotenza e deliri mistici.

Anche questa distinzione, come tutti i tentativi di classificazione, lascia il tempo che trova. Intanto perché si danno di frequente viraggi dalle ribellioni inibite a quelle agite e viceversa, e, in secondo luogo, perché il superamento dell’ottica nosografica costringe ad utilizzare termini che, in gran parte, appartengono alla tradizione psicodinamica e sono logorati dall’uso. Per sormontare questa confusione occorre affrontare il problema alla radice: chiedersi in altri termini, poiché si parla di ribellioni, a chi o a cosa si ribellano gli adolescenti, e, poiché si parla di inibizioni e di disinibizioni, cos’è che inibisce e cosa disinibisce.

Purtroppo i livelli di coscienza degli adolescenti non sono di grande aiuto: alcuni riconoscono di stare male e chiedono di essere liberati dall’incubo di morire, di impazzire o di commettere atti antisociali, altri sottolinenano la loro inadeguatezza, l’insicurezza, le difficoltà di relazione con gli altri; alcuni ce l’hanno a morte con i genitori, con coloro che li perseguitano, con Dio o con il demonio, altri giustificano razionalisticamente i loro comportamenti e negano di stare male; alcuni individuano cause occasionali del loro disagio (un insuccesso scolastico, una delusione d’amore, un incidente, ecc.), altri fanno riferimento ad un’infanzia disagiata, a traumi affettivi, a maltrattamenti subiti. Solo alcuni hanno una percezione viva e netta delle loro rabbie, ma, tendendo a giustificarle, negano di nutrire sensi di colpa. Coloro viceversa che hanno una percezione dei sensi di colpa, tendendo ad accreditarle, negano di nutrire rabbia. Nulla più dei livelli di coscienza degli adolescenti disagiati pongono di fronte alla realtà inquietante di un mondo che, con i suoi cambiamenti economici, sociali e culturali a tutti i livelli, micro- e macrosistemici, si pone come un rebus sempre più difficile da decifrare e, nel contempo, non provvede in alcun modo a dotare coloro che partecipano ad esso di strumenti minimali di decodificazione.

Non è difficile porre ordine in questa confusione di vissuti, peraltro comprensibile. Le ribellioni, siano esse inibite o agite, sono riconducibili ad un vissuto ricorrente, presistente l’avvento del disagio psichico: un vissuto intollerabile di oppressione, di coercizione, di limitazione della libertà personale e della vocazione ad essere, associato costantemente ad una rabbia infinita. Tale vissuto solo di rado è cosciente e rievocabile; più spesso occorre lavorare non poco per indurre una presa di coscienza. Si tratta di un vissuto sorprendente che in sé e per sé non spiega nulla. Solo in alcuni casi, e non sempre nei più drammatici, infatti è possibile ricostruire un contesto familiare e ambientale oggettivamente definibile come oppressivo e coercitivo. L’interpretazione di questo vissuto è essenziale ai fini della comprensione psicodinamica del disagio psichico. Ma si tratta di un’impresa problematica. Come spiegare infatti l’entità del disagio adolescenziale e giovanile attuale, in un contesto sociale liberale e liberalizzato, a confronto con quello del passato, di sicuro minore, in un contesto patriarcale e repressivo? La risposta ci porta nel cuore del problema.

Mutatis mutandis, per gli adolescenti vale lo stesso discorso fatto per i bambini. Il fatto che essi oggi godano di privilegi (in termini di cure, beni, libertà) incommensurabilmente maggiori rispetto al passato è una verità parziale. In passato le aspettative familiari, sociali e soggettive erano di gran lunga più modeste rispetto a quelle attuali. Erano aspettative normative inderogabili, in quanto imposte repressivamente, ma imponevano ai soggetti solo il rispetto dell’ordine gerarchico, della legge e delle convenzioni sociali, dell’onore familiare e del ruolo assegnato dalla nascita. La rigida coercizione della vocazione ad essere individuale, in un contesto socio-culturale che, essendo incentrato sui vincoli e sui doveri parentali, né la riconosceva né dava spazio ad essa, ha fatto anche in passato delle vittime. Ma, per quanto possa apparire sorprendente, tale coercizione è poca cosa a confronto della pressione normativa cui sono sottoposti oggi i bambini, gli adolescenti e i giovani: dalle famiglie che aspirano, tramite loro, ad un salto di qualità dello status sociale, dalla società che propone la vita nei termini di una lotta per sopravvivere, e dalla stessa cultura giovanile infatuata dal mito della forza, dell’adeguatezza, della padronanza di sé, dell’onnipotenza narcisistica. I privilegi di oggi sono soggettivamente pagati a caro prezzo, almeno da parte di alcuni, in termini di indebitamento, perfezionismo, ansia competitiva, necessità di dimostrarsi forti e normali, ecc. Non si va lontano dal vero contrapponendo alla cultura sostanzialmente repressiva del passato una cultura attuale molto più insidiosa che si potrebbe definire aspirativa o risucchiante poiché si fonda su miraggi sociali e/o morali che, alimentati dalle famiglie, dai mass-media e dai giovani stessi, li catturano e li alienano.

Gran parte della confusione sulla condizione adolescenziale e giovanile attuale discendono dall’ignorare il peso delle aspettative che gravano su di essi e che provenendo da più fronti (la famiglia, la società, i coetanei) risultano spesso contraddittorie tra di loro. Se si tiene conto del fatto che queste aspettative, rifratte dalla sensibilità personale in misura più o meno rilevante, vengono interiorizzate e che dunque gli adolescenti oggi sono letteralmente risucchiati da richieste prima ambientali, consce e inconsce, e poi interiori, di cui sono più o meno consapevoli, il vissuto di oppressione, la cui intensità induce talora a pensare che siano vissuti in un lager, trova immediatamente una spiegazione. La libertà di cui godono è apparente e formale. I codici normativi da cui sono investiti, che sommano a tradizioni remote valori di recente produzione, sono di fatto, oltre che contraddittori, terribilmente coercitivi. E lo sono in maniera insidiosa perché non appaiono quasi mai coercitivi.

Con buona pace dei cognitivisti, che ritengono lo sviluppo della personalità un processo prevalentemente autopoietico, e di alcuni recenti indirizzi psicologici che minimizzano l’influenza familiare e amplificano arbitrariamente quella dei coetanei e dei mass-media, occorre riconoscere che l’infrastruttura della personalità è riconducibile ancora oggi all’interiorizzazione dei valori culturali proposti dall’ambiente con cui il soggetto interagisce.

La pertinenza di questa concettualizzazione in rapporto al disagio adolescenziale e giovanile è intuitiva. L’adolescenza è il grande snodo dell’evoluzione della personalità, il periodo in cui i doveri interiorizzati precocemente entrano naturalmente in conflitto con le istanze di differenziazione e di libertà personale che vengono esse stesse da lontano ma che, nel suo corso, si intensificano criticamente. E’ il periodo in cui le tensioni tra i bisogni intrinseci accumulate in precedenza possono risolversi ma anche produrre un conflitto strutturale. E’ questo carattere naturalmente ‘nevrotico’ dell’adolescenza, che sempre più spesso dà luogo ad una fuga in avanti o alla caduta in uno stato di crisi psicologica, ad assegnare al disagio adolescenziale un significato psicopatologico di straordinaria importanza teorica poiché esso, in virtù di un’incubazione i cui tempi si riducono progressivamente, lascia trasparire e rende quasi evidenti le matrici del conflitto.

La psicopatologia adolescenziale e giovanile, in maniera più evidente rispetto a quella adulta, pone di fronte a due realtà: l’una caratterizzata dalla volontà inconsapevole di restare pateticamente fedeli a un sistema di valori interiorizzati che, per il loro rigore o la loro astrattezza, impediscono al bisogno di opposizione/individuazione di dispiegarsi e, frustrandolo, finiscono con l’alienarlo, vale a dire col renderlo rabbioso e anarchico; l’altra dalla volontà inconsapevole di spogliarsi del tutto di quei valori sostituendoli con un altro sistema che, per essersi definito sul registro dell’antitesi, è esso stesso alienato, vale a dire tradisce e distorce gli autentici bisogni di libertà e di autenticità del soggetto, costringendolo a indurirsi, a insensibilizzarsi e a incattivirsi.

Qual’è l’humus socioculturale che consente di spiegare il disagio adolescenziale e giovanile? Nessun ambito del disagio psichico anagraficamente definito – infantile, adolescenziale, giovanile, adulto, senile – può essere affrontato senza una riflessione sul fatto che non solo la scansione delle stagioni della vita ma anche i codici normativi che definiscono il comportamento che si ritiene adeguato per ciascuna di esse e i ruoli asegnati dipendono dal contesto storico-culturale. Per prendere atto di questo assunto, di cui spesso non si tiene conto, in rapporto alla fascia di età che ci interessa, basta considerare alcuni dati elementari, giuridici, come, per esempio, la fluttuazione dell’obbligo scolastico, la definizione, conseguente a questo, di un limite di età al di sotto del quale non è consentito svolgere un’attività lavorativa, il cambiamento dell’accesso alla pienezza dei diritti civili (il raggiungimento della maggiore età che contrassegna anche il venir meno della patria potestà), la definizione dell’imputabilità penale, ecc. Al di là di questi dati di ordine giuridico occorre poi considerare i cambiamenti culturali che assumono un valore di consuetudini. La libertà comportamentale degli adolescenti, soprattutto per quanto riguarda la possibilità di muoversi al di fuori del controllo parentale, è aumentata di gran misura rispetto al passato. Molti adolescenti passano il sabato sera fuori casa, parecchi trascorrono le vacanze tra coetanei. Le frequentazioni eterosessuali, anche con alcune remore, sono ammessi o comunque tollerati. Si riconosce agli adolescenti lo statuto di consumatori di beni non primari in conseguenza del quale, in molte famiglie, una quota del reddito viene investita nelle spese voluttuarie e nelle ‘paghette’. Il rapporto con gli adulti, nella maggioranza dei casi, risulta affrancato dalla soggezione del passato ed è caratterizzato da un’interazione comunicativa più franca, precocemente paritaria (com’è attestato dall’uso del tu inconcepibile appena qualche decennio fa). L’accesso alle informazioni, attraverso i mass-media e Internet, è forse fin troppo ricco, come pure lo scambio comunicativo all’interno dei gruppi giovanili, il cui esito è la produzione di un linguaggio e di una cultura autonoma, e spesso in opposizione rispetto a quella degli adulti.

Gli effetti psicosociologici di questi cambiamenti sono diversamente valutati dagli esperti e dall’opinione pubblica. C’è chi sottolinea i rischi legati all’eccessiva libertà e al venir meno del controllo sociale, all’atteggiamento permissivistico delle famiglie e alla loro tendenza a viziare i figli; chi viceversa, pur non negando alcune contraddizioni, vede nella situazione attuale una fase di transizione verso una maggiore maturità, flessibilità psicologica e apertura al mondo.

Prescindendo da giudizi di valore occorre ammettere che non appare agevole cogliere i nessi tra i cambiamenti socioculturali cui si è fatto cenno e il crescente disagio psichico adolescenziale. Ciò dipende forse dal fatto che i cambiamenti in questione avvengono alla superficie della struttura sociale, mentre è probabile che qualcosa di più complesso stia avvenendo al di sotto di essa. Ma per quali vie accedere alle falde profonde della struttura sociale, laddove si originano e si organizzano i codici normativi culturali in virtù di un perenne conflitto tra vecchi e nuovi valori? Un indizio che gode del pregio di essere evidente merita attenzione.

Esso è costituito dal fatto che, come la sua metafora stagionale - la primavera -, l’adolescenza come periodo evolutivo di lunga durata, necessariamente travagliato, contraddittorio, ricco di slanci e di ricadute, di aperture e di chiusure affettive e cognitive, di dubbi e di certezze assolute, di tensioni edonistiche e spirituali nel contempo, tende a scomparire.

Sempre più di frequente infatti le crisi adolescenziali si configurano o come un repentino balzo in avanti comportamentale che trasforma quasi magicamente un bambino in un soggetto terribilmente (e temibilmente) sicuro di sé, ostile alla classe degli adulti, tendenzialmente estroversivo, che odia la solitudine e non ama porsi problemi (con la conseguenza di agire spesso comportamenti sociali caratterizzati da una scarsa sensibilità nei confronti degli altri) o, in una minoranza di casi, come il mantenersi e l’incrementarsi di un assetto comportamentale fin troppo maturo e serio, definitosi quasi sempre sin dall’infanzia.

Si tratta in entrambi i casi di un salto dalla condizione infantile all’adultomorfismo, contrassegnata dalla necessità di apparire più grandi di quanto di fatto si è. La differenza, di non poco rilievo, è che nel primo caso il modello adultomorfo è ispirato dalla necessità di sentirsi confermati dal gruppo coetaneo, nel secondo dalla necessità di continuare ad essere confermati dagli adulti: nel primo la soggezione agli adulti, intesa come segno di infantilismo, è aborrita; nel secondo essa viene ad essere privilegiata mentre è aborrito il modello dei coetanei. In termini analitici si può parlare per un verso di un adultomorfismo antitetico, per segnalare il suo carattere manifestamente oppositivo alla cultura e alle preoccupazioni dei grandi (genitori, insegnanti, ecc.), per un altro di un adultomorfismo superegoico, per segnalare la soggezione (spesso inconscia) ai valori interiorizzati nel corso dell’infanzia.

Il rilievo psicopatologico di questa mutazione, che esprime due terribili coercizioni normative – l’apparire forzatamente adeguati al modello estroversivo dominante tra i giovani e il non poter tradire le aspettative interiorizzate degli adulti - è abbastanza semplice da definire. Le due tipologie individuate sono entrambe potenzialmente conflittuali: la prima infatti privilegia in assoluto il bisogno di individuazione e, per assicurare ad esso una realizzazione prematura, per l’appunto adultomorfa, frustra il bisogno di appartenenza sociale, rappresentato nella personalità dai valori tradizionali trasmessi dalle istituzioni educative; la seconda privilegia in assoluto il bisogno di appartenenza sociale e, in nome delle aspettative degli adulti, frustra il bisogno di individuazione. Su questo sfondo si definisce la psicopatologia adolescenziale secondo due modalità fondamentali. Alcuni adolescenti appartenenti alla prima tipologia sono indotti infatti dalla pressione dei valori superegoici ad accentuare il loro adultomorfismo antitetico: a indurirsi caratterialmente e comportamentalmente, a insensibilizzarsi, e ad assumere spesso degli atteggiamenti marcatamente egoistici e cinici, finendo con il maturare degli intensi sensi di colpa che prima o poi sono destinati ad esplodere. Alcuni adolescenti appartenenti alla seconda tipologia sono indotti dalla pressione del bisogno di opposizione/individuazione frustrato ad irrigidire il loro adultomorfismo superegoico imponendosi una disciplina di vita, solitamente incentrata sullo studio e sulla coltivazione di valori elevati, che finisce con l’animare nel loro intimo una rabbia anarchica destinata ad implodere o ad esplodere. Si danno anche - e sono sempre più frequenti - casi di adolescenti che virano repentinamente dall’una all’altra tipologia per uno smottamento interiore che tende a risolvere il conflitto senza produrre immediatamente sintomi. Ma, dato che il rimedio risulta solitamente se non peggiore del male un male esso stesso, anche costoro vivono in una condizione di precarietà psicologica.

Occorre chiedersi quali siano le cause socioculturali che hanno prodotto la scomparsa dell’adolescenza come essa è stata descritta nei libri di psicologia evolutiva sino agli anni ‘70. Il discorso, ovviamente complesso, non può essere qui affrontato che sinteticamente .

Occorre considerare almeno tre aspetti: l’ibridazione di valori avvenuta a livello di mentalità, vale a dire di inconscio sociale, in seguito al venir meno della cultura patriarcale e all’avvento della cultura borghese, l’organizzazione della famiglia e delle istituzioni pedagogiche che sono divenute agenzie di riproduzione antropologica inconsciamente orientate a sfruttare il ‘capitale’ ad esse affidato, e la socializzazione adolescenziale stessa, prodotto della liberalizzazione dei costumi, che, in virtù di una fitta interazione tra coetanei, promuove una cultura relativamente autonoma che esalta, senza rendersene conto, il modello antropologico borghese e lo porta alle estreme conseguenze.

Il primo aspetto può essere appena accennato. Nonostante l’avvento al potere della borghesia risalga ormai a quasi due secoli, la cultura borghese solo lentamente è divenuta un fenomeno di massa scalzando le tradizioni popolari e contadine e entrando in conflitto con le tradizioni religiose. I tratti differenziali propri di quella cultura sono l’esaltazione dell’individuo come causa sui, l’assunzione dello status sociale che egli consegue come espressione del suo merito, e la sollecitazione a competere, a mettersi a confronto e a misurarsi. Rispetto ai vincoli posti all’affermazione dell’individuo dalle culture precedenti, che facevano discendere il suo status e il suo destino dalla nascita, si tratta di un indubbio progresso. Ma il modello borghese, che muove dalla concezione della vita come lotta per sopravvivere, è un modello marcatamente adultomorfo, implicitamente aggressivo che, al di sotto delle apparenze, postula un qualche grado di insensibilizzazione sociale. La sua espressione più propria è il darwinismo sociale, che trasferisce a livello di società la legge della selezione naturale e individua nella debolezza, comunque intesa, un difetto e una colpa.

La sostanziale spietatezza di questo modello ha sollecitato una parte della cultura borghese, quella illuminata, a tentare di smussarlo innestando su di esso valori universali – i diritti umani – che comportano la pari dignità tra gli individui e la necessità conseguente di tutelare i più deboli. Ma si tratta di un’ibridazione culturale dovuta al fatto che, all’epoca del suo avvento, la borghesia ha dovuto fare i conti col potere religioso al quale ha dovuto concedere un qualche riconoscimento. La matrice della società borghese era e rimane l’egoismo individualistico, amorale e asociale entro i limiti della legalità, che comporta l’assunzione del socius come rivale.

Funzionale al mantenimento del sistema economico che esso ha prodotto, il modello borghese che, alla superficie della struttura sociale, è stato smussato dai compromessi col liberalesimo filosofico e con il socialismo, ha lentamente permeato l’inconscio sociale, ha investito i rapporti interpersonali ed è giunto infine a radicarsi nella soggettività, inducendo l’accettazione della legge del più forte come naturale, e, in coseguenza di questo, la fobia di ogni forma di debolezza e un vissuto universalmente persecutorio.

Il ruolo egemone del modello borghese non ha inattivato però tutte le tradizioni precedenti, troppo profondamente radicate nell’inconscio sociale per essere estirpate. Ciò è vero sia per le tradizioni gerarchiche patriarcali, sia per quelle religiose, tendenzialmente egualitarie e comunitaristiche. Sia le une che le altre anzi di recente si sono rafforzate: le prime in virtù di un bisogno diffuso di ordine che stigmatizza, anche a livello giovanile, gli eccessi e le conseguenze negative della libertà; le seconde in conseguenza del bisogno di reagire all’atomismo individualistico borghese e di contrapporre, alla spietata legge del più forte, la legge dell’amore evangelico.

Nessuno ha la possibilità di decifrare ciò che avviene a livello d’inconscio sociale. Ciò che è certo è che tale livello influenza profondamente il modo di sentire, di vedere e di agire degli esseri umani, indipendentemente dalla consapevolezza che questi hanno di tale influenza. Non è azzardato dunque pensare che i campi educativi, attraversati dalla confluenza di questi diversi valori, sono sostanzialmente confusivi. Il principio di autorità, l’ugualitarismo comunitaristico, l’individualismo borghese si rifrangono nei vari campi - familiari e scolastici - secondo uno spettro di possibilità che comporta, in misura diversa, la compresenza di questi valori che vengono ad essere interiorizzati. Il principio di autorità, del resto, a livello pedagogico è assicurato dalla percezione onnipotente, magica e idealizzata che i bambini hanno universalmente delle figure adulte, ed esso, che assicura la trasmissione dei valori culturali tra le generazioni in virtù di una sorta di ipnosi infantile, non è che apparentemente inattivato dalla familiarità e dall’intimità tra i bambini e gli adulti. Per quanto riguarda gli altri due aspetti, si tratta di due catechismi che vengono regolarmente impartiti. Per fare un solo esempio basta pensare alla scuola. Nell’ora di religione si tenta di imprimere nelle anime infantili, con la paura di un’autorità suprema che vede tutto e punisce i peccatori, i valori dell’amore del prossimo, della solidarietà e dell’uguaglianza. Questi stessi valori, sia pure in una versione, che traduce l’amore per il prossimo in rispetto e la solidarieta nel riconoscimento dei diritti umani, sono promossi da molti insegnanti e sono espressi nei libri di testo. Ma la scuola nel suo complesso, deputata a produrre cittadini capaci di inserirsi nel contesto di una società borghese, alimenta la competitività, si disinteressa dei più deboli, che vengono spesso ridicolizzati in pubblico, sollecitando le famiglie ad aiutare i figli nello studio sostiene, senza saperlo, il classismo e i privilegi di nascita, seleziona darwinisticamente i più adatti.

Per quanto concerne l’organizzazione della famiglia, che richiederebbe un lungo discorso, si considereranno solo alcuni aspetti. Per lungo tempo attestata sul registro della riproduzione di sussistenza, la famiglia si sta lentamente trasformando (senza saperlo) in un’istituzione capitalistica. Ciò significa che l’investimento dei genitori nell’allevamento dei figli, in termini, se non di tempo, di affetto, di attenzione,di cultura, di denaro (nonostante alcune dicerie che non tengono conto del passato allorchè i figli erano tirati su come piante) è aumentato sia quantitativamente che qualitativamente. Ma questo investimento non ha prodotto sinora buoni risultati: per un verso perchè il modello pedagogico di riferimento, sotteso da un’universale fobia della devianza, mira a produrre il cittadino medio, quietamente integrato nella società, e mortifica più o meno profondamente il bisogno, soprattutto adolescenziale, di differenziazione e di originalità; per un altro perchè esso si associa costantemente a delle aspettative elevate di essere ricambiati e si traduce, nei figli, in un vissuto di indebitamento che, se riconosciuto, li rende schiavi di quelle aspettative e, se negato, li spinge ad agire in opposizione ad esse.

Occorre tener conto inoltre che le aspettative genitoriali risentono della confusione tra sistemi di valore di cui si è parlato poc’anzi. Esse sono univoche nello scongiurare che i figli facciano una brutta fine, che divengano devianti. E già questa preoccupazione, che cresce con il crescere della devianza, laddove diventa ossessiva basta da sola ad operare come una previsione che si avvera. Ma per quanto riguarda il resto, esse sono più o meno contraddittorie. I principi che vengono impartiti infatti risultano funzionali sia al buon vivere civile (sia esso fondato su valori religiosi o sul rispetto sociale) sia alla necessità di cavarsela nella lotta per la sopravvivenza senza andare troppo per il sottile. Ciò in nome del fatto che, se la fobia della devianza ha raggiunto un livello critico, la fobia dell’esclusione, vale a dire che i figli, senza deviare, si ritrovino ad essere socialmente emarginati, non le è da meno.

Il terzo fattore è un dato sociologicamente del tutto nuovo: la produzione relativamente autonoma (in quanto influenzata dai mass-media) di una cultura adolescenziale e giovanile fortemente incentrata sull’adultomorfismo estroversivo. Il modello di riferimento degli adolescenti e dei giovani, da essi stesso prodotto, e inconsapevolmente tributario del modello borghese radicale (quello originario che identificava nell’imprenditore una sorta di rivoluzionario amante dell’azzardo, dell’innovazione, del progresso, e che solo lentamente si è trasformato nel modello piccolo-borghese incentrato sulla sicurezza), impone la spigliatezza sociale, l’intraprendenza sessuale, la fobia della debolezza (intesa come insicurezza, dubbio, soggezione nei confronti dell’autorità, tendenza ad abbandonarsi alle emozioni), la padronanza di sè, il culto dell’immagine, la tendenza a sfidare le paure, ecc. Adottato dai più questo modello rende gli adolescenti tendenzialmente narcisisti, egocentrici, edonisti, poco sensibili ai bisogni altrui, inclini a prendere in giro chi rivela una qualunque debolezza e, nel loro intimo, costantemente angosciati dalla paura di crollare e di rivelare la loro inadeguatezza. Coloro che non riescono ad aderire a questo modello, in quanto solitamente introversivi, tendono viceversa ad oscillare tra un sentimento di superiorità e uno di inferiorità rispetto agli altri, ad isolarsi e ad essere rifiutati, a coltivare valori elevati intellettuali e morali e a nutrire un intimo disprezzo, sotteso di invidia, nei confronti degli altri.

V. La depressione delle giovani madri

Si è fatto cenno, in precedenza, alla diffusione di una sindrome da stress tra gli educatori. L’argomento richiederebbe per essere specificata un’analisi molto lunga e dettagliata. Ci limiteremo ad approfondire un solo aspetto psicopatologico, epistemologicamente esemplare e drammatico.

La patologia in questione concerne le depressioni che sopravvengono nelle giovani madri nel corso dei primi anni dell’allevamento. Si tratta ovviamente di situazioni eterogenee, di diversa gravità, che vanno dalla depressione frusta (quello che comunemente si definisce esaurimento) alla depressione conclamata, spesso con segni di vitalizzazione (insonnia, inappetenza) e un’ansia spiccata. Il fattore comune a tutte queste condizioni è il senso di colpa. Di qualunque grado sia, la depressione riduce la disponibilità della madre nei confronti del bambino, e la riduce sia praticamente (per quanto concerne la capacità di erogare cure) che affettivamente. Non c’è difficoltà a capire che il venir meno al dovere assistenziale possa far sentire in colpa essendo il referente delle cure un essere oggettivamente bisognoso. A ciò occorre aggiungere il sentirsi esposta ad un rimprovero sociale implicito o esplicito, perché la depressione interviene spesso nel corso dell’allevamento di un solo figlio, e non mancano mai madri, zie e nonne che rievocano la loro capacità di star dietro a una nidiata di figli.

Da un punto di vista fenomenologico, si tratta in genere di una situazione di particolare gravità anche laddove la sintomatologia appare sfumata. Le madri fanno il possibile per minimizzare ciò che di fatto provano: il rifiuto viscerale del figlio. Non appena comprendono che il contesto comunicativo è tale da porle al riparo dall’essere giudicate madri snaturate (accusa che è già presente nel loro intimo), di solito ammettono che di ciò si tratta, che al di sotto della depressione c’è la fantasia di non volerne più sapere di quell’esserino che toglie loro il respiro con i suoi bisogni. Se appena questa pista dei vissuti viene battuta senza remore, ci si ritrova di fronte, molto frequentemente, a fantasie sconcertanti. Si tratta di fantasie parassitarie, di pensieri o coazioni che attraversano le menti delle madri, e contro le quali, temendone la realizzazione, esse lottano strenuamente. Fantasie definite il più spesso pazzesche e vissute come sintomi di una disfunzione molto grave, di solito una malattia mentale. Si tratta infatti di fantasie di eliminazione del figlio, che assumono spesso connotazioni agghiaccianti (strangolamento, squartamento, defenestrazione, ecc.), aggravate dal fatto di concernere un essere vulnerabile e indifeso.

Cosa induce a pensare che si tratti di una patologia che affonda le sue radici nella storia sociale oltre che nella storia personale? Intanto, la frequenza. Laddove si realizzano condizioni tali per cui la madre si ritrova sola col figlio gran parte del giorno, e costretta a condividere con lui la totalità della propria esperienza, è estremamente probabile che, nel giro di alcuni mesi, al massimo entro l’anno, affiori una depressione. E, inoltre, il paradosso per cui i soggetti più a rischio non sono solo donne già gravate di problemi nevrotici, quanto piuttosto madri amorevoli, efficienti (o iperefficienti), la cui dedizione all’allevamento è consapevole, partecipe e, fino all’affiorare dei disturbi, totale. Il problema consiste nello spiegare come sia possibile che, a questo livello, la normalità si trasformi più o meno repentinamente in patologia.

Per spiegare tale patologia in termini di storia sociale, occorre tener conto di tre fattori concorrenti: i cambiamenti intervenuti nell’organizzazione della famiglia, il modo del tutto nuovo in cui il bambino viene vissuto dagli educatori, i modelli ottimali di allevamento proposti dalle scienze psicologiche e avallati dalla Chiesa. Avendoli già analizzati in precedenza, non torneremo su di essi. Si tratta qui piuttosto di vedere in concreto, sulla base di un esempio immaginario, come essi agiscono.

Dunque una giovane madre si trova ad affrontare l’allevamento di un figlio. L’isolamento sociale può essere dovuto a due fattori: alla carenza di sostegni parentali o al rifiuto da parte della madre di utilizzarli, ritenendo naturale di voler fare da sola. La dedizione materna é segnata dalla percezione del bambino come essere vulnerabile, che richiede un’attenzione continua per non disintegrarsi e disperarsi. Questa percezione ansiogena obbliga la madre a decifrare tutte le richieste del bambino e ad essere pronta a rispondere. Essa inoltre, via via che si instaura un rapporto significativo, impedisce alla madre di separarsi dal suo bambino, con il quale ha un rapporto comunicativo privilegiato. Anche se la disponibilità del partner é significativa, non allenta mai la tensione del rapporto poiché la madre comunque si sente responsabile diretta del benessere del figlio. Che cosa accade in questa situazione, che sembra realizzare condizioni di sperimentazione dei limiti delle capacità umane di tollerare la costrizione interpersonale, di rinunciare a un minimo di libertà, e di praticare la virtù del sacrificio totale di sé a favore dell’altro? Accade che, più o meno rapidamente, quasi sempre a livello inconsapevole, il rapporto diadico si configura come una gabbia soffocante e il bambino come un persecutore. L’incapacità della madre di dare un senso umano, e non patologico, ai segnali molteplici che attestano il suo disagio, determina poi una strategia perdente. Per soffocare tali segnali, la madre si impegna sempre di più nel rapporto col bambino. E’ ovvio che questa strategia non può fare altro che incrementare il disagio stesso e portarlo alle estreme conseguenze: la nevrotizzazione e l’affiorare dei sintomi.

Il problema é che se i sintomi che affiorano rientrano nell’ambito della stanchezza e del nervosismo da stress, essi possono essere confessati. Ma allorché - ed é molto più frequente di quanto si pensi - assumono una configurazione drammatica, sotto forma di fantasie e di coazioni a far male al bambino, risultano inconfessabili, poiché la madre si sente snaturata, se non addirittura pazza, e, in riferimento all’ideologia dominante della diade madre-bambino, si sente unica nella sua mostruosità. E’ incredibile a quali livelli di sofferenza soggettiva possa giungere una situazione del genere. E come essa, in casi oltremodo rari, determini un passaggio all’atto. Ma sono proprio questi casi, che finiscono in cronaca nera, ad incidere profondamente a livello psicologico, poiché, colti come espressione di una follia criminale contro natura e non come punte di un iceberg il cui corpo é rappresentato dall’universo delle giovani madri, essi determinano un’estrema resistenza nel confessare un bisogno di aiuto. Quasi tutte le donne che vivono questo dramma sono infatti convinte che rivolgersi ad un esperto sancirà una diagnosi fatale e un internamento.La sintomatologia delle depressioni delle giovani madri ha delle caratteristiche singolari che vanno rilevate. Solo raramente essa infatti risolve radicalmente il problema dando luogo ad una condizione che impedisce di fatto alla madre di accudire i figli e la mette praticamente in sciopero. Per quanto infatti attentato dall’opposizionismo inconscio nei confronti di una eccessiva costrizione, il dovere materno, con il suo carico di responsabilità e di sensi di colpa, raramente si allenta. La colpevolizzazione per le inadempienze dovute ai momenti depressivi dà luogo infatti ad un tentativo di compenso che si traduce periodicamente in un’iperprotezione riparativa. Il rapporto si configura perciò caratteristicamente come ambivalente, contrassegnato da atteggiamenti di cura ossessivi e da atteggiamenti di distacco e di rifiuto, con conseguenze facilmente immaginabili a livello di evoluzione della personalità filiale incapace di dare senso a questa ambivalenza. Già frequenti infatti in precedenza, per via dell’iperprotezione legata al modello pedagogico di riferimento diadico, i disturbi infantili, in particolare per quanto riguarda il sonno, l’alimentazione e l’attività motoria, tendono ad incrementarsi con la conseguenza di colpevolizzare per un verso e di estenuare per un altro la madre. Quando non viene colto nella sua drammaticità, questo circolo vizioso può, in un certo numero di casi, fare affiorare delle fantasie suicidarie che, all’estremo, coinvolgono anche il figlio che la madre non intende abbandonare.

VI. Il disagio femminile

Analizzate in rapporto al sesso, le statistiche inerenti l’epidemiologia del disagio psichico pongono univocamente di fronte al fatto che la popolazione femminile ne è coinvolta in una misura due o tre volte superiore a quella maschile. Se si pongono tra parentesi le ipotesi genetiche che fanno riferimento alla naturale precarietà dell’equilibrio emozionale delle donne dovuta ai loro particolari assetti ormonali, questo tributo implica l’incidenza di fattori socioculturali e ambientali.

Il disagio femminile coinvolge tutte le fasce di età e tutti i ruoli sociali. Le adolescenti sono affette in particolare dai disturbi del comportamento alimentare e dagli attacchi di panico. Le donne giovani sono falcidiate da difficoltà affettive e sessuali nella relazione con l’uomo. Le casalinghe soffrono di emicranie ricorrenti, angosce ipocondriache, depressioni cicliche più o meno mascherate, disturbi ossessivi (in particolare rupofobici). Le donne che svolgono un doppio lavoro, domestico e extradomestico, sono sempre al limite dello stress, convivono spesso con una depressione frustra e incappano di frequente in attacchi di panico. Tenendo conto della sua diffusione, sembra veramente che il disagio femminile affondi le sue radici in un malessere epocale di non facile analisi.

Un fattore esplicativo di carattere generale riguarda la carriera di vita femminile nel suo complesso che continua ad essere gravata da lacci e lacciuoli di ogni genere. Se le donne sempre più di frequente sfuggono alla nascita al rifiuto che in passato le accoglieva, e sempre meno spesso devono confrontarsi con il privilegio accordato dai genitori ai fratelli maschi, difficilmente si ritrovano a vivere un’esperienza paritaria. Solo alle bambine in genere si insegnano i lavori domestici, solo ad esse si richiede precocemente da parte delle madri una collaborazione. Le adolescenti sono assoggettate a limiti nell’esercizio della loro libertà molto più rilevanti di quelli posti ai maschi. La loro vita affettiva e sessuale deve costantemente realizzarsi nel rispetto di forme la cui trasgressione le espone a duri giudizi sociali, espliciti e impliciti. Lo spettro della solitudine e dello zitellaggio impone loro di perseguire la sistemazione matrimoniale molto più precocemente rispetto agli uomini. La soglia dei trent’anni che per costoro ormai è una soglia minimale per rinunciare allo scapolaggio, per le donne è una soglia massimale e inquietante al di là della quale si configura lo spettro della solitudine, della sterilità e della perdita del potere attrattivo. Il matrimonio le pone quasi sempre di fronte alla necessità di farsi carico dei doveri domestici e dei bisogni di cura e di affidamento degli uomini, che peraltro non vengono mai espressi come tali bensì come privilegi. L’isolamento domestico delle casalinghe, con le frustrazioni che esso produce, è pagato spesso al prezzo di un ristagno o di una regressione culturale che induce sempre più spesso, oltre al consumo di teleromanzi e di mediocri riviste, l’abuso di alcool. L’attività lavorativa viceversa le espone all’assalto, sempre meno rifiutato, della seduzione maschile. Da ultimo, c’è da considerare l’impegno richiesto sul piano dell’assistenza agli anziani della famiglia, sia della propria che eventualmente di quella del marito, resa più onerosa dalla nuclearizzazione dei gruppi familiari e dalla psicologia degli anziani che, rispetto al passato, sono in genere molto più esigenti e egoisti.

Queste circostanze, che sommano alle ‘ingiustizie’ genetiche (le mestruazioni, il parto, l’allattamento, il decadimento fisico più precoce rispetto all’uomo, ecc.) le ingiustizie legate alla cultura maschilista, spiegano solo in parte la rabbia smisurata che pervade oggi le esperienze femminili e che si esprime in forme diverse di disagio. Le spiegano nella misura in cui la rabbia, colpevolizzata, dà luogo a depressioni, angosce ipocondriache, attacchi di panico, sindromi ossessive, mortificazioni di ogni genere, oppure si esprime attraverso comportamenti aggressivi e maltrattanti nei confronti del partner e dei figli. Ma rimane da capire perché essa non venga quasi mai utilizzata nella ridefinizione del proprio ruolo, dei rapporti interpersonali e di un progetto di vita incentrato sui bisogni personali. Problema inquietante perché esso non investe solo la quota di popolazione femminile che, benchè investita da confuse istanze di cambiamento, rimane attestata coscientemente sul rispetto più o meno rigoroso delle tradizioni culturali, ma anche quella consapevolmente e talora pervicacemente orientata verso il cambiamento alla luce dei nuovi valori prodotti dal femminismo.

Tale problema va ricondotto ad una maledizione di antica data che i cambiamenti culturali non hanno rimosso: la condanna di dovere comunque dipendere da qualcuno (la famiglia originaria, l’uomo, il marito, lo psicologo, al limite il sacerdote) che trova il suo fondamento ultimo non già in un’imposizione sociale bensì nella convinzione, profondamente radicata a livello soggettivo, della propria insufficienza ontologica. L’identità femminile ancora oggi è vissuta come funzione di una relazione, come un essere con o un essere per qualcuno. I bisogni di indipendenza, alimentati dalla cultura femminista e dal progresso sociale, non sembrano avere inciso su questo aspetto: essi anzi lo hanno esasperato.

Il conflitto tra una dipendenza coercitiva ma mal vissuta e un’indipendenza intensamente desiderata ma impossibile è riscontrabile in quasi tutte le forme di disagio femminile, anche se esso si esprime in maniera diversa. La dipendenza coercitiva dalla famiglia originaria, riferita sia ai doveri imposti alle figlie che alle limitazioni della libertà, nella misura in cui viene posta in gioco da fantasie spesso inconsce di fuga e di scioglimento dei legami, determina gli attacchi di panico adolescenziali e i disordini del comportamento alimentare. Lo spostamento della dipendenza nel rapporto con il partner maschile produce non pochi problemi. Ad un estremo si danno le esperienze di soggetti femminili che, sotto la spinta di un incessante bisogno di relazione con l’uomo che copre la dipendenza, si sperimentano di continuo in rapporti duali che finiscono regolarmente male. L’esito si realizza o in virtù di un aggrappamento fusionale all’uomo che ne induce la fuga o di un bisogno di controllo e di dominio sul partner maschile che, nel caso questi si ribelli, dà luogo ad un’escalation conflittuale simmetrica che esita nello scioglimento del rapporto, nel caso, viceversa, di un’accondiscendenza maschile, determina un disinvestimento sentimentale. All’estremo opposto si danno le esperienze di soggetti femminili che accettano una relazione duratura, spesso matrimoniale, ma che, con una consapevolezza più o meno rilevante, si ribellano alla dipendenza secondo modalità varie che vanno dal rifiuto della sessualità alla depressione frustra o conclamata, all’ipocondria e all’aggressività isterica.

Non è facile capire il significato di un disagio di tale portata. Tenendo conto dell’universalità del bisogno di relazione duale, la tendenza femminile a lottare, più spesso inconsciamente, contro la dipendenza, a non accettarla e a drammatizzarala, può essere facilmente scambiata come l’espressione di una cultura femminista che ha finito con l’indurre collettivamente una percezione persecutoria dell’uomo. E’ fuor di dubbio che in alcune esperienze femminili tale cultura abbia inciso e incida, com’è attestato dal fatto che, nel corso dell’analisi, si mette a fuoco una diffidenza radicale nei confronti dell’uomo vissuto univocamente come inaffidabile e/o prepotente. Ma l’entità del disagio eccede di gran lunga questa spiegazione.

Per giungere ad una spiegazione più valida occorre tenere conto di uno scarto critico tra l’evoluzione sociale e quadri di mentalità di lunga durata che impregnano la psicologia maschile e femminile. A livello sociale la parità tra uomo e donna è ormai riconosciuta giuridicamente e ciò implica l’attribuzione all’uomo e alla donna degli stessi diritti. Nella pratica, sia a livello pubblico che privato, familiare, la parità, come noto, è ben lungi dall’essere realizzata. Ma non è certo la quota di ingiustizie ancora presenti nella struttura sociale, benchè importanti, a permettere di comprendere un disagio che pervade gran parte delle esperienze femminili. Occorre piuttosto considerare dei tratti propri della psicologia maschile e femminile, culturalmente determinati, che sembrano incidere prevalentemente a livello inconscio.

Per quanto riguarda la psicologia maschile, si dà una contraddizione di fondo tra i privilegi dovuti ad un’antica tradizione in virtù dei quali l’uomo pretende un maggior potere rispetto alla donna e un bisogno di affidamento, particolarmente evidente in Italia per effetto dell’atteggiamento sostanzialmente iperprotettivo delle madri nei confronti dei figli maschi, in conseguenza del quale egli tende a pretendere di essere accudito. Riguardo al primo aspetto, basta considerare il diverso valore che l’uomo assegna ai suoi tradimenti, che vengono giustificati, e ai tradimenti della donna, che vengono drammatizzati. Il secondo aspetto è più inquietante. La pretesa dell’uomo di essere accudito, e quindi l’investimento simbolico della donna come madre, si fonda infatti su di una sorta di handicap o di analfabetismo culturale ancora estremamente diffuso che viene regolarmente misconosciuto. Tale analfabetismo concerne il linguaggio della vita quotidiana, il minimo di competenze domestiche necessarie per badare a se stessi: il pulire e tenere in ordine l’ambiente, la preparazione del cibo, il lavare e lo stirare i panni, ecc.

In conseguenza di questa contraddizione l’uomo si pone nel rapporto con la donna nel contempo con un atteggiamento tendenzialemnet, anche se inconsapevolmente, prepotente e bisognoso, come un gigante dai piedi di argilla.

A livello di psicologia femminile, le contraddizioni sono molteplici. Per un verso infatti le donne hanno acquisito dalla tradizione una definizione del proprio essere come naturalmente dipendente, radicalmente bisognoso della conferma maschile e, dunque, ontologicamente insussistente al di fuori della relazione significativa con l’uomo. Ciò promuove, nella relazione con l’uomo, l’assunzione di un atteggiamento complementare, il regredire in una condizione di dipendenza e il porsi in una condizione di disponibilità, di accondiscendenza, talora di servilismo. Ma, nel contempo, esse, quasi sempre inconsciamente, si ribellano a questa dipendenza. La ribellione assume due configurazioni costanti. La prima si traduce in un malessere più o meno profondo, sotteso da una depressione frusta che talora si acutizza, dall’angoscia ipocondriaca, da iinumerevoli sintomi psicosopatici, dagli attacchi di panico. Tale malessere, esplorato analiticamente, rivela fantasie incessanti di attacchi al legame che non solo non accedono alla coscienza, essendo incompatibili con la dipendenza, ma danno luogo ad un bisogno crescente di sostegno e di conferma maschile. La seconda configurazione è invece caratterizzata da una vera e propria guerra senza quartiere al maschio che si manifesta peraltro secondo varie modalità. Talora essa si traduce in una strategia di conquista che, col suo realizzarsi, determina una completa perdita di interesse per il partner. Tale modalità comporta una prova di forza, atta a rimediare alla dipendenza, che implica il vissuto per cui chi, nel rapporto, innamorandosi rivela la sua debolezza deve essere punito, eliminato. Altre volte la guerra si traduce in un dominio costante esercitato sull’altro che azzera la sua libertà e lo pone in una condizione di subordinazione. Tale configurazione sembra denotare un’assenza di dipendenza dal rapporto. Il dominio infatti, talora, assume una valenza prepotente, aggressiva e sfidante. Ma tale valenza persiste finchè l’altro accetta la subordinazione. Se egli si ribella e propone la chiusura del rapporto, l’angoscia dell’abbandono si ripresenta con caratteristiche drammatiche.

Tutto ciò porta a pensare che il condizionamento culturale che porta molte donne a viversi come insufficienti ontologicamente e bisognose coercitivamente della relazione con un partner maschile sia incompatibile ormai con il mito dell’indipendenza e soprattutto della forza che pervade la nostra cultura.

Il malessere femminile è, da ultimo, un travaglio di parto che oppone, nelle pieghe della soggettività, ad un antico modo di vedere, incentrato sulla naturale dipendenza femminile, che stenta a morire, un nuovo modo di vedere, incentrato sull’indipendenza, che stenta a nascere.

VII. Attacchi di panico

La sintomatologia degli attacchi di panico è eterogenea, al punto che in base ad essa si sono distinte varie categorie nosografiche (l’attacco di panico puro e semplice, l’attacco di panico agorafobico e/o claustrofobico, la fobia semplice, la nevrosi ossessivo-compulsiva, ecc.). C’è un dato che accomuna queste varie categorie? C’è, anche se va estrapolato dai sintomi e dai vissuti con una certa finezza. Tale dato è riconducibile al fatto che, laddove si dà l’attacco di panico, il soggetto vive l’imminente realizzarsi di un pericolo terrificante. Se si decifra tale pericolo, ci si ritrova di fronte costantemente alla paura di morire, alla paura di perdere il controllo sulla propria identità e di impazzire, e alla paura di agire, sotto forma di raptus, comportamenti antisociali più o meno gravi (dallo scoppiare a ridere nel corso di un funerale all’uccidere gratuitamente qualcuno e via dicendo). Paure assurde e immotivate, tant’è che non si realizzano mai, anche se ad ogni attacco di panico corrisponde il vissuto soggettivo di star lì lì per morire, impazzire o commettere un qualche crimine. L’imminente realizzazione di un pericolo che pone in gioco la sopravvivenza fisica, l’identità personale e la libertà individuale rappresenta l’aspetto fenomenologico che permette di comprendere psicologicamente l’attacco di panico. Ma la sindrome da attacchi di panico pone in luce costantemente anche un altro vissuto di interesse. Dall’epoca della prima crisi, il soggetto vive in uno stato d’allarme più o meno intenso. Di solito, tale stato d’allarme viene ricondotto alla paura che l’attacco di panico si ripresenti e che il pericolo, scongiurato, si realizzi. Quest’ansia previsionale fa capo, a ben vedere, all’assoluta convinzione soggettiva che quel pericolo debba realizzarsi; implica insomma una sorta di fatalità. Che senso ha questa aspettativa priva di ogni speranza?

Per arrivare a rispondere a questo quesito, occorre approfondire il piano fenomenologico dei vissuti. Il pericolo temuto, come si è detto, è eterogeneo, ma è evidente che esso si riconduce ad un fattore univoco. Tale fattore è l’esclusione definitiva e irreversibile dalla vita sociale, che si declina sul registro del venir meno fisicamente o dell’essere internati in manicomio o dell’essere incarcerati. Se si tiene conto di questo, appare evidente che queste tre forme di esclusione corrispondono né più né meno alle condanne sociali cui, storicamente, sono stati sottoposti i devianti. Ciò che sorprende è che esse mantengano la loro attualità, nonostante il contesto socio-storico nel quale si realizzano gli attacchi di panico possa non prevederle più tutte come strumenti di repressione. In Italia, per esempio, il codice penale esclude la pena di morte, e quello civile l’internamento manicomiale. Perché dunque, a livello di alcune esperienze soggettive, quelle pene rimangono in vigore? Occorrerebbe appena un po’ di buon senso a capire che, nella dinamica degli attacchi di panico, la tensione claustrofobica, la quale determina un’avversione radicale nei confronti di ogni vincolo interpersonale, dal livello dei legami privati affettivi a quello del rapporto con il mondo nella sua totalità, attiva, a livello inconscio, una paura ad essa complementare: l’angoscia dell’isolamento totale, dell’infinita solitudine, del vuoto cosmico. Per questo aspetto, gli attacchi di panico mettono in luce il bisogno radicale, proprio della natura umana e di ogni soggetto, di un legame con il mondo sociale, e risultano facilmente decifrabili come espressione di un conflitto tra l’invivibilità soggettiva e la necessità primaria di tale legame. Ma, al di là della paura del vuoto cosmico, negli attacchi di panico si definisce anche un’aspettativa catastrofica - di morire, impazzire o finire in carcere - che assume chiaramente un significato punitivo. Da dove viene e come si può interpretare questo vissuto?

La risposta è meno complessa di quanto si ritenga comunemente. Morire, essere internati o chiusi in carcere rappresentano le tre forme di esclusione sociale adottate, in tempi e modi diversi, dalle varie culture per sancire il primato della collettività sui diritti individuali. Il loro presentarsi a livello soggettivo attesta un conflitto inconscio tra il soggetto e il gruppo di appartenenza la cui colpevolizzazione riabilita minacciosamente il primato del sociale interiorizzato sull’individuo e lo costringe a riconoscere la necessità del legame sociale. L’attacco di panico è dunque nel contempo l’espiazione e la riparazione di una colpa specifica, identificabile genericamente in una rabbia, di solito inconscia, che comporta la scissione del legame. Ma come è possibile che la rabbia evochi una rappresaglia inconscia incentrata sull’esclusione sociale?

E’ evidente che è in gioco una logica che si può definire superstiziosa, nel senso che fa riferimento ad un ordine che trascende il soggetto, che va rispettato e il cui mantenimento si fonda su di un’autorità che lo pone e ha il potere di mantenerlo o di ristabilirlo repressivamente. Se si prescinde dal ritenere quell’ordine come mistico (interpretazione cui indulgono alcuni ossessivi suggestionati dalle filosofie orientali), non si danno che due poteri che trascendono l’individuo: la società e Dio. Nelle sindromi da attacco di panico, occorre pertanto ammettere un rapporto di totale soggezione dell’individuo a uno di questi poteri (o a entrambi); un rapporto che implica un conflitto insanabile per cui l’individuo vive nell’attesa che quei poteri eseguano la condanna che é già stata pronunciata. E dalla condanna é facile ricavare il fatto che il soggetto deve aver commesso delle colpe irreparabili. E’ il carattere irreparabile delle colpe che consente di comprendere perché la catastrofe possa essere solo rimandata, ma non definitivamente scongiurata. Per motivi di giustizia, essa deve realizzarsi.

Nella sindrome da attacchi di panico, é dunque in gioco un complesso tessuto fantasmatico che ha però una sua logica, incentrata sul conflitto tra l’individuo come parte e una totalità che lo trascende, sia essa la società o un Essere Supremo. E’ evidente che quel tessuto fantasmatico affonda le sue radici nella vita interiore del soggetto e che il tribunale che ha emesso la condanna é un tribunale soggettivo. Ma i codici alla luce di quali la condanna è stata formulata, per quanto possano essere condivisi coscientemente dal soggetto, non sono mai prodotti dallo stesso: hanno sempre una evidente matrice socio-culturale. La logica che sottende gli attacchi di panico rende ridicolo ricondurre gli stessi ad una semplice sregolazione biologica delle strutture che regolano l’ansia. Bisognerebbe, a tal fine, attribuire alla biologia una finezza cognitiva che essa non ha. Ma cosa impedisce di ricondurre quella logica a eventi meramente privati, a vicissitudini individuali, a conflitti soggettivi o tutt’al più intersoggettivi? Cos’è che induce a pensare che negli attacchi di panico entrino in gioco, e con un ruolo causale significativo, fattori storico-sociali?

Tre circostanze appaiono significative: la diffusione epidemiologica degli attacchi di panico, la distribuzione secondo il sesso, e ciò che si ricava costantemente nel corso dell’analisi di esperienze di soggetti affetti da attacchi di panico. Quanto al primo aspetto, a quanto già detto, occorre aggiungere una considerazione che può apparire ovvia. In tutte le società, il rapporto del singolo individuo con l’ordine sociale si é posto in termini di soggezione dell’individuo a norme, regole e valori ritenute funzionali al mantenimento dell’equilibrio sistemico. Tale soggezione ha riconosciuto sempre forme specifiche di controllo: i valori religiosi, le leggi dello stato e la convivenza civile. Nelle società occidentali, che ci interessano, la libertà individuale é stata enfatizzata come un diritto assoluto esercitabile arbitrariamente nei confini delle leggi. L’individuo occidentale tende dunque a sentirsi più libero di quanto si siano sentiti in passato altri esseri umani e di quanto di fatto sono liberi esseri umani che attualmente partecipano di altri sistemi culturali e politici. Cionondimeno, il carattere competitivo proprio delle società occidentali comporta il fatto che la vita sociale si svolge su di un registro che é quello del bellum omnium contra omnes, e postula una quota di aggressività che viene, anche dai psicologi, ritenuta normale ai fini dell’adattamento. La competitività fa pagare a caro prezzo i vantaggi della libertà individuale. L’individuo é sì libero ma nel contempo costretto ad affermare i suoi diritti attraverso la lotta. E’ costretto insomma ad accettare regole del gioco che sono proprie del sistema culturale di cui partecipa. Se partiamo dal presupposto che la lotta per sopravvivere in sé e per sé dovrebbe comportare la cooperazione sociale, e che invece essa, nei paesi occidentali, comporta di fatto il socius come rivale, non si stenta a capire che il bellum omnium contra omnes possa indurre sempre più frequentemente, e in misura direttamente proporzionale all’asprezza della esperienza sociale, reazioni consapevoli e inconsapevoli di rabbia, di rifiuto e di odio sociale. La socialità competitiva é di fatto una socialità intrinsecamente persecutoria, e il fatto che in soggetti sempre più numerosi si attivi la fantasia di sciogliere tutti i vincoli sociali o nella forma dell’eliminazione degli altri o nella forma della fuga dal mondo, non sorprende più di tanto. L’orizzonte sociale però rimane come l’orizzonte ultimo dell’esperienza umana. Sì che la fantasia di scioglimento di tutti i vincoli sociali non può non ricadere nell’ambito di un processo di colpevolizzazione interiore, tale per cui il soggetto può sentirsi esposto alle rappresaglie della società che egli intimamente attacca o alle rappresaglie di un Essere Supremo che presiede al funzionamento della società.

Non cambia molto il discorso se si tiene conto che, in alcune esperienze contrassegnate dagli attacchi di panico, il modo di relazionarsi del soggetto appare caratterizzato, anzichè dalla competitività, dall’accondiscendenza alle aspettative altrui, che può arrivare all’estremo del servilismo e del sacrificio. In tali casi, infatti, la soggezione all’ordine sociale, sottesa dalla paura dell’esclusione, rappresenta la matrice psicologica di una ribellione, il più spesso inconsapevole, orientata a rivendicare la libertà personale del soggetto sotto forma di misconoscimento di tutti i vincoli e i doveri sociali.

Ci si può chiedere giustamente come e perchè questa logica competitiva sia giunta a impregnare, al di là della vita pubblica, al di là della sfera del cittadino, anche la vita privata, i rapporti familiari, gli affetti. Il discorso a questo punto diventa complesso e non può essere esaurito. Basta dire che l’affettività nel suo complesso, nel corso degli ultimi decenni, si è andata sempre più complicando per via di una logica ad essa estranea: la logica del potere. Tale logica ha un’immediata comprensibilità, nel senso che essa, che mira a far sì che l’individuo mantenga una sua volontà individuale differenziata dall’altro con cui è in rapporto, mira a scongiurare il fantasma intollerabile per ogni essere umano di finire preda della volontà altrui. Ma, via via che questa logica si è venuta esasperando, per via del fatto che la nostra società, formalmente incentrata sui diritti individuale, in realtà è una delle società più manipolatorie che siano mai esistite, essa, a livello individuale, è divenuta ossessiva. L’affermazione della volontà individuale, che viene sempre più avvertita come minacciata dalla volontà altrui, necessariamente, e nonostante gli intenti difensivi, si traduce in una tendenza sistematica, che diventa reciproca, alla sopraffazione. Se ciò non appare evidente immediatamente, è perchè la lotta per assicurarsi il potere, e al limite il dominio completo sulla volontà altrui, avviene molto spesso su di un registro inconscio, ed è mascherata dall’affettività che spesso è autentica.

Quanto al secondo dato, il fatto che la sindrome da attacchi di panico colpisca al 70% il sesso femminile, lascia pensare che, nonostante il mito della libertà individuale, le donne paghino sull’altare dell’organizzazione sociale un prezzo più rilevante rispetto agli uomini. Ciò é vero sia per quanto riguarda il fatto che la libertà femminile, formalmente riconosciuta, é di fatto limitata da tradizioni ancora molto vive (per esempio nell’ambito della morale sessuale) e da circostanze attuali che ne riducono l’esercizio pratico (per esempio l’esposizione alla violenza sessuale), sia per quanto riguarda il ruolo che la donna ha assunto nei sistemi occidentali che tende sempre più frequentemente a sommare ai suoi tradizionali doveri domestici i doveri lavorativi, realizzando una condizione di schiavizzazione totale sconosciuta in passato. Per questo aspetto, che fantasie eversive di ogni genere (dall’anarchia sessuale all’abbandono dei ruoli) scorrano nell’inconscio femminile, e possano essere colpevolizzate, non sorprende più di tanto.

Il terzo fattore é ovviamente il più complesso, poiché postula di dare credito ai dati che affiorano nel corso di trattamenti psicoterapeutici, vale a dire di considerarli generalizzabili. Se questo credito viene accordato, occorre considerare il fatto che le esperienze caratterizzate da attacchi di panico pongono sempre di fronte a un mondo interiore pervaso da emozioni di rabbia, di odio e di vendetta per un verso, che nel loro complesso si possono definire antisociali, e per un altro da catastrofici sensi di colpa. Nonostante la varietà delle esperienze individuali, insomma, gli attacchi di panico sono univocamente riconducibili ad una matrice conflittuale strutturata che comporta una scissione irriducibile tra emozioni antisociali e emozioni sociali. Che tale conflitto si origini il più spesso all’interno di contesti microsociali (famiglia, scuola, ambienti di lavoro, ecc.) e che esso investa legami interpersonali vissuti come coercitivi e insopportabili, e quindi da eliminare, è un fatto inoppugnabile. Ma indurre da esso che gli attacchi di panico sono l’espressione di una disfunzione microsistemica è riduttivo. Intanto perchè le emozioni antisociali, per la loro intensità e cecità, sembrano poco o punto comprensibili in rapporto a quei contesti, anche se si mettono a fuoco le contraddizioni più o meno gravi che li caratterizzano. E, in secondo luogo, poiché esse non comportano, a livello di fantasia, mai solo lo scioglimento definitivo dei vincoli interpersonali significativi, bensì una cieca avversione nei confronti della socialità tout-court e di ciò che ne rappresenta il fondamento soggettivo: la tendenza all’identificazione con l’altro. La fantasia di affrancamento dalla schiavitù interpersonale, espressiva spesso di un modo di relazionarsi del soggetto incentrato su questa tendenza e sulla disponibilità sacrificale che essa determina, implica sempre la fantasia di estirpare il "male" alla radice. E, dato che il male viene individuato nella "sensibilità" soggettiva, in una ricca emozionalità sociale che rende preda delle aspettative e dei bisogni altrui, estirparlo significa né più né meno aspirare ad una trasformazione radicale del proprio essere sul registro dell’insensibilità, dell’anestesia, dell’indifferenza e della durezza di carattere. E’ importante considerare che il grado di questa trasformazione è direttamente proporzionale al grado di "sensibilità" sociale. Questo paradosso permette di comprendere come mai nella storia interiore di soggetti dotati di una ricca emozionalità prendano corpo fantasie antisociali particolarmente brutali e agghiaccianti, che rappresentano ovviamente un rimedio peggiore del male, poiché attivano i sensi di colpa.

Che significato ha questo assurdo progetto di trasformazione malvagia che sottende tutte le esperienze segnate da attacchi di panico, rappresentandone dunque la "chiave" univoca? In se per se, si tratta di un progetto il cui significato ultimo è adattivo al mondo così com’è, che individua in un’eccessiva sensibilità sociale un fattore di disadattamento e di perpetuo dolore. Ma ciò fa capo ad una visione del mondo persecutoria meramente privata o a uno stato di cose realmente esistente? Se si fa riferimento ai cambiamenti avvenuti nel corso della storia sociale e alla definitiva (per ora) affermazione di un modello normativo incentrato sull’individuo che deve affermare se stesso e competere con gli altri su un registro che postula un certo grado di egoismo, di indifferenza sociale e di aggressività - modello le cui origini vanno ricondotte all’affermarsi dell’economia e della cultura borghese -, non si stenta a capire che il fondamento di quella visione del mondo è reale, e che in un mondo siffatto chi è dotato di una ricca emozionalità sociale può sentirsi né più né meno come un vaso di coccio tra vasi di ferro. Il problema per cui questa percezione di se e del mondo evoca poi fantasie di soluzione che ricadono sempre all’interno di quel modello stesso e lo esasperano, pone in luce la difficoltà dei soggetti di trascendere gli orizzonti normativi propri del contesto storico-sociale in cui si svolge la loro esperienza.

VIII. Privilegi e rivendicazioni

Uno tra gli aspetti più rilevanti della storia sociale di ogni tempo é la stratificazione, vale a dire la disuguale distribuzione delle risorse e dei ruoli tra i vari membri di una società. Il fatto é inconfutabile, ma, se si tenta di analizzarlo, riesce più complesso di quanto in genere si pensi. Intanto il concetto stesso di risorse va chiarito. Di solito, specialmente nella nostra società, esso viene identificato banalmente con il denaro. In realtà, le risorse di cui dispone una società sono riconducibili al patrimonio culturale accumulato dalle precedenti generazioni nel corso dello sviluppo storico, che ogni società eredita, usa, accresce o dilapida. Tale patrimonio collettivo, di per sè, non riconosce alcun proprietario. In nome di cosa essa viene ad essere distribuita tra i vari membri della società? In nome del potere, che, per l’appunto, si può definire il diritto che ogni individuo ha di accedere ad esso e di fruirne.

Il concetto di potere è complesso, poichè condensa tre diversi aspetti: le opportunità, vale a dire le risorse materiali e culturali, che l’ambiente mette a disposizione dell’individuo (particolarmente nelle fasi evolutive); le potenzialità dell’individuo, che si esprimono nell’uso che fa di tali risorse; i ruoli e lo status sociale che consegue nel corso della vita.

Qual’é il rapporto tra queste diverse componenti? Si danno a riguardo due ipotesi: la prima naturalistica, la seconda culturalista. Secondo l’ipotesi naturalistica, le società umane si sono organizzate a partire da una legge che é riscontrabile in tutti gli animali sociali: la legge della gerarchia, che comporta un confronto tra gli individui e la definizione di un ruolo dominante e di uno subordinato. Secondo tale ipotesi, il potere sociale esprime né più né meno il valore dell’individuo derivato dal confronto e dalla competizione con gli altri. I problemi, da questo punto di vista, non verrebbero tanto dalla diversità naturale tra gli esseri umani, quanto dalla difficoltà specie-specifica di accettare, da parte dei subordinati, la disuguaglianza, la loro inferiorità. L’impostazione naturalistica comporta conseguenze politiche diverse. Ad un estremo, essa si traduce nel cosiddetto darwinismo sociale, vale a dire nella proposta di un’organizzazione sociale che riduca al minimo indispensabile la tutela dei "deboli" da parte dello Stato assistenziale e favorisca la "libera" competizione tra gli individui, al fine di assecondare la selezione naturale. All’estremo opposto, essa recepisce, in nome di principi umanitaristici, le ragioni dei "deboli", che non hanno colpa della loro inferiorità sancita dal caso genetico, e assicura loro un minimo di tutela a patto che essi riconoscano la loro inferiorità e rinuncino a rivendicare diritti egualitari.

L’ipotesi naturalistica non sembra molto in accordo con i dati ricavati dallo studio di molte comunità primitive, presso le quali l’uguaglianza dei membri é un principio tacitamente riconosciuto (senza bisogno di una Carta dei diritti dell’uomo), e cionondimeno si dà una gerarchia. La più comune é la gerarchia per classi di età (che attribuisce maggior potere agli anziani). Ma, solitamente all’interno della classe degli anziani, si dà un leader riconosciuto da tutto il gruppo. Il leader ha veramente in genere capacità superiori agli altri, ma il suo potere si fonda sul prestigio, sul riconoscimento sociale, sul fatto insomma che gli altri membri convalidano la sua superiorità. La gerarchia naturale, presente negli animali superiori e nelle comunità umane primitive, è tale in quanto esclude sia l’autoinvestitura sia la trasmissione del potere individuale agli eredi sia la conservazione del potere acquisito a tempo indeterminato, che sono invece i meccanismi fondamentali dell’ordinamento sociale delle societé storiche, sino alle nostre.

La seconda ipotesi, per l’appunto, verte sul fatto che in società complesse, in società storiche caratterizzate dall’aggregazione di gruppi molteplici, il riconoscimento diretto della superiorità di alcuni rispetto ad altri non é possibile. Come viene dunque acquisito e distribuito il potere? Non per delega ma per autoattribuzione. Il fondamento dell’autoattribuzione é la capacità militare: il ricorso alla forza per proteggere i membri della società da attacchi esterni e per mantenere all’interno l’ordinamento gerarchico. Questa ipotesi é accreditata dal fatto che, sino in epoca recente, il potere é stato detenuto dalla casta militare, non dai filosofi né dagli scienziati né dagli artisti. L’ipotesi culturalista fa della legge del più forte la matrice della stratificazione sociale. La storia conferma puntualmente questa ipotesi. Alla quale occorre aggiungere, però, che, fin dai suoi esordi, il potere gerarchico ha tentato sempre di sublimarsi, di ammantarsi di un aureola atta a celarne il fondamento violento. Tale aureola è l’investitura divina del potere.

Come stanno le cose presso di noi? Sono alquanto confuse. Primo perché i militari non detengono più immediatamente il potere (salvo i colpi di stato), ma lo esercitano nel nome dei ceti dominanti. Secondo, perché la nostra società si ispira a principi liberali che riconoscono l’uguaglianza dei cittadini e il diritto di ciascuno di ascendere nella scala sociale sulla base del merito personale. La meritocrazia sembra riproporre la logica della stratificazione sociale su di una base naturalistica: sulla base di una competizione ad armi pari che seleziona i migliori. Venute meno le caste e gli ordini nobiliari - i privilegi di sangue -, l’individuo é libero di mettersi alla prova e infine consegue un grado di potere espressivo delle sue capacità personali. Tutto sembra risolto sulla carta. Il problema é che le differenze che vengono fuori dalla competizione sociale nel sistema liberale sono - in termini di risorse acquisite - tali da far pensare che gli uomini appartengano a specie diverse (tra il più ricco e il più povero si dà, in termini di censo, un rapporto incommensurabile). In secondo luogo, quelle differenze sembrano ancora pesantemente condizionate dalle opportunità di sviluppo che vengono offerte agli individui, a partire dallo status della famiglia originaria. Basta far riferimento alle carriere scolastiche e vien fuori che, esclusa l’ereditarietà del Q.I, l’appartenenza familiare é determinante (con eccezioni che confermano la regola, e che statisticamente sono incompatibili con il principio meritocratico). Taluno pensa che la meritocrazia sia un principio tendenziale, destinato a realizzarsi lentamente, e che, date le basi di partenza storica della società democratica, identificabili nell’ordinamento gerarchico sulla base del ‘sangue’, non c’è da sorprendersi delle disparità ancora esistenti. Ma si danno molti indizi che questa visione edulcorata dei sistemi liberal-democratici sia poco realistica. Due in particolare vanno sottolineati. Da una parte, le classi privilegiate tendono a difendere con ogni mezzo i privilegi acquisiti attraverso l’occupazione del potere e la trasmissione ereditaria dei privilegi stessi. Da un’altra parte, c’è da considerare il fatto che il capitalismo è riuscito nell’intento di indurre ad identificare il valore individuale con lo status e la ricchezza. E questa identificazione comporta una vergogna sociale che attanaglia tutte le classi meno abbienti e una spinta verso l’ascesa sociale ‘maniacale’. Chi ha tende ad avere sempre di più, chi non ha tende ad omologarsi pur di avere.

Nel cuore umano, almeno in alcuni, il sentimento dell’uguaglianza e della giustizia non si piega all’ideologia meritocratica. E’ un guaio, sia per coloro che, svantaggiati sul nastro di partenza sociale, non ce la fanno mai ad adattarsi ad avere un potere minore rispetto a quello che intuitivamente sentono che avrebbero potuto conseguire date altre circostanze ambientali, sia per coloro che, privilegiati in maniera più o meno rilevante, ne ricavano paradossalmente dei problemi. Vale la pena documentare entrambi questi aspetti, partendo dal meno noto.

Nascere privilegiati é per taluni un fattore di rischio. Si danno varie circostanze. Talora che il privilegio non meritato debba essere pagato dall’individuo é implicito nel tipo di educazione che viene impartito; talaltra corrisponde a un vissuto di indebitamento, che viene indotto dagli educatori, in nome del quale il soggetto, per sdebitarsi, non ha altro modo che rispondere in maniera ottimale alle loro aspettative, quali che siano; talaltra ancora il privilegio, mal vissuto dagli stessi genitori, quasi sempre per via del conflitto con dei valori religiosi, deve essere in una qualche misura rinunciato.

La prima circostanza é ormai a dire il vero piuttosto rara. Uno studioso di storia sociale l’ha individuata nell’educazione cui venivano sottoposti in passato gli eredi al trono d’Inghilterra, cui era toccata la sorte di assumere un giorno un potere di vita e di morte su tutti i sudditi. Per prepararli a tale onore, erano affidati a pedagogisti che oggi definiremmo sadici, che li tormentavano giorno e notte e gli infliggevano, per qualunque errore, pene corporali severe e non di rado autenticamente crudeli. Un regime educativo al di là del limite della sopportazione umana. Tant’è che qualche erede é impazzito prima di ascendere al trono e qualche altro dopo (Giorgio III). Quelli che non impazzivano manifestavano con una certa frequenza nell’esercizio del potere non poche bizzarrie e una tendenza ad incrudelire sui sudditi. Acqua passata, di certo. Ma la storia sociale ha uno scorrimento sotterraneo (inconscio) che spesso le cose le fa scomparire nella forma originaria e le fa comparire sotto altre che non vengono colte dalle coscienze. I danni fatti, fino a qualche tempo fa, dalle terribili benché accreditate istitutrici tedesche e inglesi a carico di rampolli della nobiltà e dell’alta borghesia sono ancora quantificabili: esemplari di questo scempio se ne trova più d’uno nelle cliniche svizzere. E i collegi svizzeri - per restare in tema - non devono la loro fama ancora oggi al fatto che le persone abbienti investono un bel pezzetto del loro patrimonio per fare tormentare i figli in nome della buona educazione?

La seconda circostanza é parecchio attuale. Gran parte dei genitori usa oggi far leva sull’indebitamento per ottenere che i figli rispondano alle loro aspettative. Dato il benessere, il nodo scorsoio (che, ovviamente, cattura gli esseri emotivamente più dotati) sta diventando un dramma rispetto a prima, quando in genere il debito si riduceva al fatto di essere stati messi al mondo. Fino ad un certo livello della scala sociale, il tasto batte sui sacrifici, sulle rinunce genitoriali. Al di là di un certo livello, batte sul fatto che se uno, avendo avuto tutto dalla sorte, non si dà da fare, é una carogna doppia: nei confronti di quelli che prima di lui si son dati da fare e dei coetanei che hanno avuto molto meno.

La terza circostanza é, sotto il profilo della storia sociale, la più singolare. Si realizza infatti sulla base di una condensazione di valori culturali incompatibili. La storia della cruna dell’ago la sanno tutti, ma é incredibile quante famiglie di tradizione cattolica e di condizione agiata non la prendono sul serio. O meglio, la prendono sul serio, ma pensano che, dando al lavoro il significato di una virtù sociale, per la cruna alla fin fine si riesca a passare. Tanto più se il denaro, pure prodotto a più non posso, non viene utilizzato per fare la bella vita, e il lusso - ch’è roba da parvenus - viene disprezzato.

Il dramma di chi convive con l’intuizione di essere stato svantaggiato ingiustamente dalla sorte e dalla struttura sociale, nascendo e vivendo in condizioni oggettive non adatte ad assicurare il pieno sviluppo delle potenzialità individuali, è reperibile in molteplici esperienze psicopatologiche. I livelli di coscienza a riguardo sono però molto diversi, e vanno da una rabbia e un odio sociale indifferenziati a un orientamento ipercritico e contestatario.

E’ un paradosso, uno dei tanti della psichiatria contemporanea, il non saper leggere le vicende umane in un’ottica che prescinda dall’eredità genetica e dai rapporti interpersonali affettivi: in un’ottica che valorizzi la storia sociale. Questo paradosso diventa più rilevante laddove i dati, che di per sé implicano questa prospettiva, vengono utilizzati per negarla. Così a chi tenta di rilevare, per dar credito all’importanza dei fattori sociali, che l’appartenenza a classi meno abbienti coincide con un maggior numero di esperienze di disagio e con un decorso meno favorevole rispetto alle altre classi, gli organicisti oppongono che le malattie comunque si producono ad ogni livello della scala sociale. il che dimostrerebbe il valore concausale dell’ambiente. Sarebbe più ragionevole demistificare il problema: riconoscere che trappole che possono mandare fuori giri le persone se ne danno ovunque.

IX. Il darwinismo sociale interiorizzato.

L’affermazione del liberalesimo, che ha fluidificato la scala sociale, è indubbiamente sul piano sociale e politico un progresso rispetto alla rigidità della gerarchia fondata sui privilegi di sangue. Ma, nonostante l’affanno con cui i suoi sostenitori mirano a distinguerlo dal liberismo, la distinzione regge più a livello ideologico che reale. I valori del liberalesimo si fondano su di una concezione dell’individuo ritenuto dotato di una realtà sua propria, indipendente dalla vita sociale, e di un egoismo connaturato. La società è concepita come un insieme di individui che, per evitare il bellum omnium contra omnes, riconoscono i reciproci diritti e elevandoli a legge e delegandone la realizzazione al potere trascendente dello Stato determinano una situazione che consente a ciascuno di perseguire i suoi interessi privati nel rispetto di quelli altrui. La società liberale accetta pertanto e promuove la competizione, vincolandola però al riconoscimento dei pari diritti di coloro che competono. Il problema è che i principi liberali non nascono nel cielo astratto delle idee, bensì nel corso dello sviluppo storico, e tendono a regolare, prima ancora che la vita civile quella economica. A questo livello, si determina immediatamente una contraddizione. Il principio della concorrenza economica esclude, almeno formalmente, il ricorso a strumenti illeciti, lesivi dei pari diritti del rivale, ma non esclude affatto che il più forte elimini dal mercato il più debole. Sul piano economico insomma il liberalesimo si traduce in liberismo, nel diritto del più forte, nel darwinismo sociale.

Sugli altri piani della vita sociale, al diritto del più forte si sono opposti per molto tempo vincoli religiosi, morali e soprattutto affettivi. Ma, come ha previsto Marx, questi vincoli, in quanto ostacolanti lo sviluppo del sistema economico basato sulla concorrenza, sono stati lentamente erosi. L’indizio sociale più evidente di questa inesorabile erosione è, come si è già accennato, il definirsi della famiglia nucleare sullo sfondo della comunità e della famiglia allargata. Ciò che Marx non poteva prevedere era che questa erosione giungesse alla radice della soggettività, e si traducesse in una fobia della debolezza tale da connotare la relazione come univocamente minacciosa. Su questa base ogni relazione, anche di significato affettivo, si fonda sulla preoccupazione costante di mantenere rispetto all’altro un potere maggiore, che scongiuri l’eliminazione. Dato che questa preoccupazione è praticamente universale, non si stenta a capire perchè, oggi, le relazioni private si svolgono su di un registro, esplicito o implicito, di guerra.

La tradizione psicoanalitica attribuisce all’uomo un vissuto relazionale primario di tipo persecutorio. C’è da chiedersi dunque quali prove, tratte dall’analisi delle relazioni attuali, consentano di confutare questo assunto, che immediatamente sembra comprovato. La prima è questa. Un vissuto persecutorio comporta la paura di cader preda dell’altro in conseguenza della propria debolezza e di essere maltattati. Ma ciò che appare oggi assolutamente rilevante è che i soggetti, per quanto nutrano quella paura, ritengono che il maltrattamento è, nonchè inevitabile, sostanzialmente giusto e meritato. La debolezza insomma viene concepita come una colpa o un difetto le cui conseguenze ricadono nell’ambito della responsabilità di chi è debole. Non solo il soggetto, dunque, ma chiunque si ritrovi in una condizione di debolezza relazionale deve aspettarsi di essere attaccato.

C’è un altra prova decisiva. La paura persecutoria, dal suo insorgere all’età di otto mesi in poi, è attivata dall’estraneità dell’altro. Ciò che sta avvenendo negli ultimi anni attesta invece che essa si intensifica in misura direttamente proporzionale al grado di intimità relazionale che si instaura tra due soggetti. Il significato di questo paradosso va ricondotto al fatto che l’intimità relazionale si fonda sull’investimento affettivo che, in sè e per sè, porta ad abbandonarsi alla relazione, ad avere fiducia nell’altro. Se l’investimento affettivo produce la paura persecutoria, è evidente che esso viene vissuto come espressione di debolezza, come una irrazionale perdita di difese. Ciò significa che, alla luce della legge del più forte, gli affetti stessi, in quanto possono indurre a prescindere da essa, sono vissuti fobicamente.

Non sembra che finora ci si sia resi conto dell’incidenza psicosociologica di quella legge, di come essa si sia interiorizzata nelle singole individualità e di come sia vissuta, consapevolmente e più spesso inconsapevolmente, nei termini di una legge di natura ovvia e inconfutabile. A livello psicopatologico, laddove i cambiamenti culturali e ideologici si esprimono di solito con un certo anticipo rispetto alla coscienza sociale, la paura dell’affettività come debolezza e la convinzione che chi si ritrova in una condizione di debolezza non possa che essere attaccato (e di fatto debba esserlo) spesso rappresentano gli aspetti fondamentali delle esperienze.

Immediatamente, il dato si rende evidente a livello di relazioni affettive tra uomo e donna. Un numero notevole di persone, soprattutto di donne, che si rivolgono alla psicoterapia lamentano una difficoltà più o meno seria di relazionarsi o di portare avanti una relazione. Se appena si va al di là della fenomenologia di superficie, che pone ovviamente di fronte alle situazioni le più diverse, ci si imbatte costantemente in una diffidenza radicale. Si tratta di una diffidenza resa singolare dal fatto che essa riguarda l’altro non meno che sè, di una diffidenza che non cede ad alcuna prova d’amore, anzi tende a raggiungere l’acme quando l’altro ha un atteggiamento costantemente confermativo. Se si segue questa pista, cogliendo in essa un significato che per la sua costanza trascende la trama dell’esperienza soggettuva, si giunge sempre a cogliere il senso della diffidenza. Con i suoi atteggiamenti d’amore, l’altro è vissuto come un abile e talora perfido stratega che sta cercando di indurre il soggetto all’abbandono, alla perdita di ogni difesa per sferrargli poi il colpo finale, per abbandonarlo. Se però quegli atteggiamenti, per la loro costanza e la loro durata, sono poco o punto dubitabili, avviene di solito un cambiamento sorprendente. Il soggetto comincia a vedere l’altro come un debole che si è abbandonato fiduciosamente ai suoi sentimenti, e sperimenta più o meno repentinamente un disinteresse che non di rado esita nell’abbandono. Che cos’è che libera magicamente il soggetto da una dipendenza d’amore spesso anosa, vissuta tormentosamente per via della diffidenza? Non sembra che si possano fare altre ipotesi se non quella che, nel momento in cui l’altro è colto come un amante indifeso per l’intensità stessa dei suoi sentimenti, egli giunge a rientra nella categoria dei deboli e, in quanto tale, va punito.

La fobia dell’affettività spiega anche il numero rilevante di soggetti, prevalentemente ma non esclusivamente femminili, la cui storia relazionale è contrassegnata da valenze masochistiche, o nel senso che il soggetto si lega immaginariamente a partner inaccessibili o nel senso che esso intrattiene realmente rapporti nei quali è costretto a subire le violenze di più varia natura. In questi casi, la necessità della legge del più forte si traduce nel fatto che il soggetto, sentendosi egli debole in virtù dei suoi affetti, delega all’altro il compito di fare giustizia. I rapporti masochistici hanno insomma molto spesso un significato inconscio rieducativo, nel senso che il soggetto li vive tollerando le sofferenze che ne ricava nell’apsettativa che queste sofferenze lo aiutino infine ad estirpare la debolezza di cui si ritiene affetto. Tanto questo è vero che non di rado, allorchè la cura funziona facendo accumulare una rabbia cieca che alla fine pone in secondo ordine gli affetti, il soggetto si sente autorizzato ad agire egli come un giustiziere.

Il darwinismo sociale interiorizzato si esprime anche nell’ambito della vita di relazione nel suo complesso. Molti giovani oggi, al di là dell’adolescenza, si induriscono caratterialmente, e si orientano ad usare questa forza acquisita a danno dei più deboli. Tale orientamento è alla base di numerosi casi di violenza giovanile che colpiscono particolarmente l’opinione pubblica e talora arrivano agli onori della cronaca. Sempre più di frequente andare incontro a questa trasformaione accade anche a soggetti dotati di una particolare sensibilità emozionale, che, proprio in conseguenza di questo, hanno avuto una carriera sociale spesso frustrante e segnata da piccoli o grandi prepotenze. In tali casi, l’indurimento è meramente comportamentale e si fonda su una sorta di anestesia affettiva e morale che, alla lunga, salta venendo ad essere sostituita o da una depressione da sensi di colpa o o da una sindrome di attacchi di panico.

L’espressione più drammatica dell’interiorizzazione del darwinismo sociale si realizza comunque negli spazi domestici ed è riconducibile ai giovani psicotici che compensano i loro vissuti sociali persecutori, di inadeguatezza e di vulnerabilità, che li tengono fuori del mondo, con atteggiamenti tirannici e non di rado sadici nei confronti dei parenti che vivono con loro. Ci si può chiedere perchè mai non basti il riferimento alla malattia a spiegare tali comportamenti e si debba tener conto di un fattore ideologico. Il motivo è semplice. Tanto è vero che il comportamento domestico realizza la legge del più forte interiorizzata che i soggetti, non appena si trovano di fronte ad un’autorità dotata ai loro occhi di una qualche forza - si tratti di medici o di rappresentanti delle forze dell’ordine - la riconoscono e si sottomettono ad essa, reintegrando spesso sorprendentemente un comportamento adeguato. Non c’è alcuna perfidia in questa tattica, che spesso rende incredibili le lagnanze parentali. La legge del più forte non comporta eccezioni.

X. Nuova e vecchia schiavitù lavorativa

Molteplici sono le situazioni di rischio psicopatologico legate all’attività lavorativa. Una prima situazione è da ricondurre alle prospettive di lavoro a livello giovanile. Di solito, questo problema viene identificato con lo spettro e con la realtà della disoccupazione, della sottoccupazione, della dipendenza protratta dalla famiglia, ecc. E’ difficile minimizzare questi aspetti e la loro incidenza psicologica. Ma un problema che di solito non viene rilevato, e che a noi appare più importante, concerne l’ambivalenza diffusissima tra i giovani riguardo al lavoro. Tale ambivalenza è restituita pienamente da due diverse situazioni. La prima è più diffusa a livello di provincia che di città. Di fatto, nelle province, in relazione ad un tessuto produttivo diverso rispetto ai centri urbani, l’inserimento lavorativo, a livello agricolo o edile o nell’attività familiare, non è molto difficile. Questa prospettiva, certa e scontata, demotiva la frequentazione scolastica (e, en passant, anche l’impegno degli insegnanti). Si realizza di solito una vera e propria smania dell’adolescente per liberarsi dell’obbligo scolastico e per cominciare a lavorare. Gli effetti del lavoro precoce - soprattutto per quanto concerne la disponibilità di denaro in un regime di dipendenza familiare che, tranne rari casi, lo rende del tutto fruibile per i bisogni personali - sono esaltanti e caratterizzati da un marcato consumismo (motorino, abbigliamento, divertimento, ecc.). Ma essi si esauriscono nel giro di pochi anni e, particolarmente, quando il giovane si apre alla prospettiva della vita adulta. Allora, le prospettive di solito limitate di incremento dei guadagni, la qualità del lavoro sostanzialmente strumentale, la necessità di mettere su famiglia e di provvedere al suo mantenimento, e il difetto di orizzonti e strumenti culturali realizzano un’inversione di tendenza psicologica, che in molti casi coincide con uno svuotamento di senso dell’esistenza e con l’approdo all’ideologia dello sballo (discoteca, alcool, droga).

La seconda situazione, tipicamente urbana, è omologabile, ma per alcuni aspetti più seria. Anche in città, l’aspirazione precoce al lavoro produce l’abbandono della scuola esaurito l’obbligo. Ma quell’aspirazione rimane spesso sospesa in aria, e dà luogo per alcuni anni ad un ‘bivacco’ sociale noioso e frustrante, con il rischio di un’adesione all’ideologia dello sballo. Dopo alcuni anni, del tutto inutilizzati sotto il profilo della preparazione culturale e professionale, la possibilità di un inserimento lavorativo qualunque si pone nel contempo come un desiderio e come un incubo. La propettiva è infatti quella di un lavoro alienato, privo di interesse, produttore di un reddito mediocre.Tale prospettiva associa alla necessità di autonomizzarsi e di mettere su famiglia il significato negativo di un sacrificio vita natural durante praticamente senza senso. E’ inutile dire che la depressione strisciante che ne consegue è acutizzata dalla disparità sociale e dal confronto con modelli e stili di vita abbienti e consumistici.

L’inserimento lavorativo però non risolve tutti i problemi, e questo può essere comprovato a due diversi livelli della scala sociale: a livello di dipendenti privati e a livello di libere professioni.

La crisi recessiva che ha colpito i paesi industrializzati dal 1991 al 1993 ha dato luogo, negli ambienti di lavoro privati, ad una ristrutturazione psicologicamente poco tollerabile. L’ideologia della qualità totale e della flessibilità copre una realtà poco o punto corrispondente ai bisogni umani. Di fatto, la ristrutturazione è avvenuta all’insegna del principio per cui per dare il massimo in termini produttivi i dipendenti devono vivere la loro condizione lavorativa come perennemente precaria. I licenziamenti hanno agito come una frusta sul rendimento dei ‘fortunati’ che hanno conservato il posto di lavoro. Ma in tutte le aziende, anche in quelle ampiamente in attivo, si è istaurato un clima che fa incombere perennemente la minaccia di ulteriori licenziamenti. La produttività di fatto è aumentata ma il prezzo che i dipendenti pagano in termini di stress è enorme. A ciò occorre aggiungere l’adozione, da parte dei managers, di sottili strategie psicologiche, la più insidiosa delle quali è fondata sugli incentivi. Gli incentivi di avanzamenti di carriera sono specchietti per allodole. In nome di essi, si richiede ai dipendenti di dar prova di totale dedizione alle esigenze aziendali (per esempio di superare di gran lunga il tetto degli straordinari): in pratica di accettare di essere sfruttati. Solo quando la delusione delle aspettative li porta sull’orlo della disperazione, essi vengono premiati. Ma ciò significa solo dover continuare a correre senza remore dietro il miraggio di nuovi incentivi. Non si va lontano dal vero definendo tale strategia terroristica, e non occorre molta fantasia per capire le sue conseguenze psicopatologiche. A ciò si aggiunga il fatto che tali conseguenze - psichiche e psicosomatiche - devono spesso essere celate all’azienda, poichè, in caso di certificazione psichiatrica, scatta immediatamente lo stigma della inaffidabilità.

Non si può non tenere conto delle conseguenze che la ristrutturazione del sistema capitalistico, articolata sulla diminuzione dell’offerta di lavoro e su di una domanda sempre più selettiva di qualificazione, ha avuto sul numero di lavoratori, in genere poco qualificati, che si sono trovati espulsi dal ciclo produttivo in una fascia di età, dai quarant’anni in sù, che comporta scarsissime possibilità di reinserimento. Dopo l’ombrello protettivo offerto dall’assegno di mobilità, essi si sono ritrovati praticamente senza reddito e senza prospettive. Trattandosi in genere di soggetti che, col loro lavoro, mantenevano delle famiglie, il dramma personale è divenuto in molti casi un dramma sociale, solo raramente vicariato dal reddito prodotto dal coniuge o dai figli. L’esclusione dal sistema produttivo, l’umiliazione soggettiva, l’impotenza, il bisogno hanno rappresentato per parecchi di costoro una miscela psicologicamente tossica che si è tradotta raramente in suicidi ma molto più spesso in depressioni più o meno franche sottese da una rabbia sociale molto intensa.

I lavoratori autonomi sono esposti a rischi psicopatologici in rapporto a due diverse circostanze. Alcuni, come i piccoli commercianti, in conseguenza dei processi di incessante ristrutturazione del mercato, che tende a privilegiare catene distributive e centri commerciali dotati di grandi capitali e di grandi impianti, vivono una condizione di perenne precarietà, consapevoli del fatto che la loro clientela può vanificarsi da un anno all’altro. Tale precarietà coincide quasi sempre con uno stato di allarme più o meno somatizzato. Il numero crescente dei fallimenti, particolarmente nei grandi centri urbani, determina costantemente depressioni la cui entità dipende dalla possibilità di progettare e realizzare un’altra attività.

I liberi professionisti, la cui condizione economica in media è abbastanza rassicurante, non sono affatto immuni dai rischi psicopatologici. Nonostante i guadagni infatti essi (e in particolare alcune categorie come gli avvocati, i commercialisti, i medici) fanno una vita da cani, lavorando dalle dieci alle dodici ore al giorno. Si pensa di solito che ciò sia dovuto ad una inesauribile sete di denaro. E’ vero solo in parte. A livello di libere professioni si è di fatto istaurata una mentalità che postula una dedizione totale al lavoro al fine di scongiurare la temuta catastrofe della perdita della clientela. E’ incredibile in quale misura persone sostanzialmente garantite vivano una perenne angoscia di precarietà, oggettivamente ingiustificata, che si traduce in sintomi psicosomatici di ogni genere, che vengono spesso curati con l’abuso di tabacco, alcool, psicofarmaci e droghe (in particolare la cocaina).

Sia a livello pubblico che privato, il lavoro occupa gran parte della vita e, per le diverse situazioni di stress che esso determina, esso ingombra l’orizzonte esistenziale determinando degli effetti negativi sia a livello familiare, laddove si scaricano gli stress accumulati nel corso dell’attività lavorativa, sia a livello personale. Sempre più di frequente infatti l’impegno lavorativo produce forme di compenso regressive soprattutto sotto forma di ricerca di facili distrazioni, di relax, che confliggono con la necessità di coltivare se stessi, di leggere, di riflettere, di studiare e di partecipare alla vita sociale sul registro culturale e politico. Il lavoro, in ultima analisi, non è solo una causa di alienazione, ma concorre potentemente nel nostro mondo ad indurre un ripiegamento nel privato e nell’egoismo borghese, appena compensato dalla finalità che esso sempre più spesso assume riferita al bene comune familiare.

XI. Il disagio degli anziani

Nonostante l’aumento della sopravvivenza e una qualità oggettiva di vita superiore rispetto al passato, gli anziani, in una misura rilevante, hanno pagato e pagano psicopatologicamente il prezzo di radicali mutamenti dell’organizzazione sociale e familiare e di mutamenti non meno rilevanti avvenuti nella loro psicologia.

Per quanto riguarda il primo aspetto occorre considerare due fattori. Il primo è da ricondurre alla nuclearizzazione delle famiglie che ha prodotto il fenomeno per cui, sempre più spesso, gli anziani si ritrovano a vivere isolati rispetto alle famiglie dei figli. L’isolamento, talora accentuato dal risiedere in città diverse o in diversi quartieri, ha determinato una perdita del loro ruolo tradizionale di persone che, per la loro esperienza e la loro saggezza, conservavano un certo primato all’interno della famiglia allargata. Accade ancora oggi che tale ruolo venga recuperato nell’aiuto che essi forniscono all’allevamento dei nipoti e nella gestione di incombenze domestiche dalle quali i figli e i loro partners sono distolti dal lavoro. Ma anche nei casi in cui ciò avviene, l’ossessione della privacy e la rivendicazione di autonomia delle coppie filiali è tale dal limitare il contributo degli anziani a un livello strumentale, servile. L’affidamento dei nipoti infatti sempre più spesso si associa all’avvertimento di non dovere interferire nella loro educazione e a una vera e propria ossessione di una nocività educativa.

In molti casi, sia la distanza fisica che conflitti interpersonali fanno sì che gli anziani si trovino sempre più spesso esclusi dal loro ruolo tradizionale e affidati a se stessi. Questo problema, già rilevante per via del fatto che essi sono stati culturalmente condizionati a esaurire la loro esperienza nell’ottica della dedizione alla famiglia, è esasperato dall’allungamento dei tempi di sopravvivenza che, in seguito alla pensione, li pone di fronte ad un lungo periodo da progettare incentrandolo sui bisogni personali. In tali casi, il senso di inutilità produttiva, che non esisteva sino a qualche decennio fa a livello contadino, si somma all’inutilità sociale e concorre a determinare esperienze depressive di ogni genere. Anche a questo livello, la popolazione femminile, condizionata a definire se stessa nei termini dell’essere per qualcuno, paga un tributo più rilevante rispetto a quella maschile.

All’estremo opposto, si danno esperienze, più rare, caratterizzate dalla rivendicazione di volere pensare solo a se stessi e dalla tendenza conseguente a rifiutare di prestarsi all’aiuto richiesto dai figli e, in particolare, all’allevamento dei nipoti. Questa scelta è meno pericolosa psicologicamente di quella analizzata in precedenza. Ma essa va ricondotta ad un cambiamento di mentalità che ha i suoi rischi. Non di rado infatti il rifiuto di accettare un ruolo di servizio si associa, nei confronti dei figli, alla rivendicazione di un credito che induce gli anziani a privilegiare i bisogni propri rispetto a quelli dei familiari.

Su questo cambiamento non si è riflettuto abbastanza. L’allungamento della sopravvivenza ha determinato, in una quota rilevante di anziani, un attaccamento alla vita che, fondato sulla percezione di una prospettiva temporale comunque ridotta e imprevedibile, li ha trasformati sorprendentemente in esseri egoisti, ripiegati sulla cura ossessiva della propria salute e poco sensibili ai bisogni altrui. L’osservatorio privilegiato di questo cambiamento è l’ospedale. fino a qualche decennio fa il ricovero di un anziano era accolto con sollievo dagli operatori medici e infermieristici in conseguenza della consapevolezza che la psicologia della terza età era caratterizzata dal sentirsi di peso e dal non volere disturbare gli altri. Da alcuni anni a questa parte, viceversa, il ricovero di un anziano è temuto per via delle pretese che esso comporta, la più frequente delle quali è l’attaccarsi giorno e notte insistentemente al campanello per futili motivi.

Questo stesso cambiamento incide anche nel rapporto con i familiari. Alcuni anziani, certi che non vivranno molto e che i figli si godranno ciò che ad essi verrà lasciato in eredità, sviluppano di conseguenza la pretesa di essere al centro dell’attenzione filiale e sembrano avere perduto ogni remora. Per questi motivi, mai come in questo periodo gli anziani sono stati investiti da un’ostilità familiare sotterranea, che talora giunge ad essere esplicitata.

A tutto ciò occorre aggiungere il dato reale per cui, a differenza del passato, il contributo economico degli anziani alle famiglie dei figli è spesso essenziale, per cui i conflitti, siano essi legati alla rivendicazione della privacy siano essi dovuti all’egoismo degli anziani, non sono affrontati e danno luogo a dinamiche inconsce e comunicative spesso patologiche.

Un cenno a parte merita infine la condizione vedovile che, spesso, in conseguenza della nuclearizzazione delle famiglie, destina gli anziani a vivere da soli e naturalmente induce scompensi psichici di ogni genere. Ma, paradossalmente, tali scompensi sembrano colpire in una misura assolutamente più rilevante i vedovi che non le vedove. Ciò comprova che i bisogni di accudimento maschili sono di gran lunga più coercitivi della presunta dipendenza femminile.




PARTE SECONDA

Per un progetto di prevenzione psichiatrica

Le problematiche che abbiamo affrontato nella prima parte, cercando di illustrare il rapporto tra psicopatologia e storia sociale, investono tutte le fasce di età e fanno capo a mutamenti avvenuti nell’organizzazione sociale, nella definizione dei ruoli, nella mentalità collettiva e nella psicologia individuale. Se ciò è vero, un progetto di prevenzione psichiatrica serio dovrebbe articolarsi come ambiziosamente rivolto a promuovere una serie di cambiamenti economici, sociali, culturali che nel loro complesso configurerebbero una rivoluzione di vasta portata. Sulla carta tale progetto non è impossibile da definire, ma, data l’assenza di un referente atto a farsene carico, lascerebbe il tempo che trova. Nè la società nel suo complesso infatti nè la psichiatria nè la cultura e le forze politiche sembrano in grado di prendere coscienza dei prezzi che gli esseri umani pagano all’interno di un sistema evoluto ma non più attento ai bisogni umani di quelli che lo hanno preceduto. C’è anzi, soprattutto da parte della neopsichiatria una tendenza crescente a considerare il disagio psichico come un evento precipuamente individuale che rivela una vulnerabilità genetica allo stress. La possibilità che esso, pure esprimendosi a livello individuale, comporti delle matrici sociologiche e culturali patogenetiche è esclusa pregiudizialmente in conseguenza del luogo comune per cui, se ciò fosse vero, tutte le persone che interagiscono con quelle matrici dovrebbero ammalare. Si tratta di una logica mediocre, omologabile a quella di un ecologo che definisse inquinato solo un ambiente che provocasse il cancro in tutti i soggetti.

Il problema primario di un progetto di prevenzione è di creare un referente. Un referente privilegiato è ovviamente la coscienza sociale che, da alcuni anni a questa parte, si è letteralmente ottusa sul piano critico per effetto dell’incidenza della propaganda neo-psichiatrica. Ciò significa produrre un materiale informativo (o contro-informativo) che sia documentato, accessibile e fruibile. Ma è ingenuo pensare, data la mole dei problemi, che la coscienza sociale possa giungere a dotarsi di un’attrezzatura critica tanto potente da indurre una diversa lettura della realtà sociale e interpersonale se non avvengono cambiamenti rilevanti della struttura sociale. Un referente indispensabile è dunque il potere politico e amministrativo sia sul piano nazionale che locale. Per evitare che il rapporto degli operatori col potere si riduca, come è accaduto spesso negli ultimi anni, ad una richiesta di aumento degli organici dei servizi pubblici e dei fondi finanziari, e quindi ad un’ipertrofia dei servizi con tutti i rischi di burocratizzazione e di clientelismo che ciò comporta, appare necessario che tale rapporto avvenga sulla base di un’analisi critica dei dati che impongono di procedere a cambiamenti della realtà sociale a diversi livelli. A tale fine sarebbe necessario anzitutto raccogliere una documentazione clinica atta a convalidare la ricorrenza nelle diverse esperienze psicopatologiche di circostanze familiari, sociali e culturali individuabili e di significato patogenetico. La raccolta di tale documentazione dovrebbe essere affidata ai servizi pubblici (senza escludere pregiudizialmente la partecipazione degli operatori privati) e avvalersi di un protocollo ispirato ad un modello psicopatologico psico-socio-storico. In appendice si riporta una bozza di un possibile protocollo.

Posto che ciò sia possibile, occorre interrogarsi non già sui dettagli di un progetto destinato a maturare lentamente, bensì sulle aree tematiche sulle quali esso può essere costruito.

Un libro degli anni ‘70 le individuava fin dal titolo nella famiglia, nella scuola, nel lavoro. E’ fuori di dubbio che ancora oggi sono questi gli ambienti di socializzazione quotidiana che incidono sull’evoluzione della personalità e sugli equilibri psichici. Queste aree tematiche devono però essere oggi affrontate con un interesse rivolto alla loro natura istituzionale, che implica continui tentativi di adattamento all’evoluzione della società nel suo complesso, non meno che alle ideologie consapevoli e inconsapevoli che le pervadono e sulla base delle quali si definiscono comunicazioni patologiche e interazioni conflittuali di ogni genere.

Nella prima parte si sono offerti già spunti di riflessione molteplici sui cambiamenti avvenuti nell’organizzazione della famiglia, della scuola e dell’ambiente di lavoro e sui loro effetti psicopatologici. Si tratta ora, sulla base di tali riflessioni, di chiedersi se esse siano utilizzabili ai fini della prevenzione e eventualmente come.

Un primo momento importante, di ordine culturale, consiste nel promuovere una presa di coscienza, sociale e politica, che assuma la produzione antropologica come un aspetto centrale della riproduzione sociale. Per produzione antropologica si intende il fatto che, ogni corredo genetico riconoscendo una norma di reazione, vale a dire un insieme di possibili manifestazioni fenotipiche in rapporto a diversi ambienti, l’assunzione di un’identità psicologica e comportamentale non può prescindere dalle opportunità offerte dall’ambiente e dalle tecniche sociali adottate per promuovere la normalità. Per quanto si possa valorizzare il corredo genetico e la responsabilità individuale, non v’è dubbio che la carriera di ogni soggetto è potentemente influenzata dall’interazione con l’ambiente. In gran parte un progetto di prevenzione deve dunque puntare su cambiamenti ambientali di ordine culturale, sociale e economico.

Analizziamo ora i cambiamenti che sembrano in assoluto più importanti ai fini della prevenzione e concretamente realizzabili.

Il primo riguarda indubbiamente la famiglia. Nell’impossibilità attuale di arginare sia il processo di nuclearizzazione della stessa sia la tendenza alla chiusura nella privacy, che esclude qualunque forma di controllo sociale, occorre prendere atto che entrambe queste dimensioni sono potenzialmente patogene sia perchè rendono inadeguate ai compiti educativi le risorse familiari sia perchè i conflitti che eventualmente si generano, sottratti al feed-back sociale, si aggravano e diventano spesso irrimediabili. Sembra dunque importante considerare la famiglia nucleare, in misura direttamente proprozionale alla sua nuclearizzazione, un gruppo comunque bisognoso di aiuto e a rischio psicopatologico. Ciò significa predisporre e promuovere una rete pubblica di servizi di aiuto (dallo baby-sitteraggio all’intervento di educatori, asistenti sociali, psicologi, ecc.) che possa essere fruita liberamente nella misura in cui ce n’è bisogno e senza remore pregiudiziali. Alcuni servizi, come i centri materno-infantili e i consultori familiari, già esistono, ma il loro intervento si limita in gran parte all’assistenza ambulatoriale. I nuovi servizi dovrebbero essere dotati della capacità di intervenire a livello domestico e strutturati in modo da essere acquisiti a livello di coscienza sociale come servizi di aiuto e non necessariamente terapeutici. Questo ruolo di aiuto potrebbe anche consentire di infrangere la barriera della privacy domestica e insaturare un nuovo feed-back sociale atto a sostituire quello tradizionale, che si va estinguendo, fondato sulla rete parentale e sulla comunità di paese o di quartiere.

La costituzione di questi servizi è imprescindibile da una nuova cultura, fondata sulla diffusione sociale del diritto di famiglia, che radichi nei genitori la convinzione che il loro ruolo di educatori non è un diritto biologico bensì un affidamento dei figli che lo Stato opera nei loro confronti in rapporto al quale esso ha il dovere di vigilare e non solo di intervenire in casi estremi di violenza. La liberalizzazione del sistema sociale non può essere intesa come estesa alla produzione antropologica e perchè i bambini hanno diritto ad una tutela comunitaria, in quanto cittadini e non solo figli, e perchè i danni che si realizzano anche inconsapevolmente nel corso delle fasi evolutive richiedono poi, se assumono una configurazione psicopatologica, un rilevante sacrificio sociale.

Un intervento molto importante, sia a livello familiare che scolastico, di ordine culturale, si riferisce alla necessità di indurre il riconoscimento della diversità genetica tra i bambini. Ciò sembra fondamentale soprattutto per quanto riguarda i bambini iperdotati che sono, per la loro stessa costituzione psicologica, difficili da educare. Gli insuccessi e i fallimenti a riguardo di famiglia attrezzate culturalmente e attente dovrebbero essere sufficienti a convincere che si tratta di un problema che non può essere affidato ai genitori. occorrerebbe indurre il riconoscimento che i bambini iperdotati hanno le loro modalità e i loro tempi di sviluppo diversi rispetto alla media dei bambini e che, per la loro capacità empatica, richiedono una particolare attenzione da parte degli educatori. In particolare si può aggiungere che il modello pedagogico corrente, fondato sul principio di chiedere il massimo per avere almeno il minimo, è particolarmente pericoloso per questi bambini che si fanno carico alla lettera delle aspettative degli adulti e incappano, con una sconcertante frequenza, in forme di perfezionismo o di opposizionismo negativistico.

La scuola è un’istituzione sulla quale è molto difficile intervenire per una serie di motivi, ma è anche un osservatorio preventivo di infinita importanza. Purtroppo, le cose da cambiare, dai programmi agli atteggiamenti degli insegnanti, sono tali e tante da scoraggiare. Quello che si può fare nell’immediato, in sostituzione del servizio psicologico che non funziona, è di proporre per ogni scuola un’équipe di monitoraggio, costituita da operatori sociali, che, senza entrare nel merito della didattica, si limiti a rilevare le interazioni, i comportamenti, le situazioni di gruppo, gli indizi sintomatici di un disagio. Tale équipe dovrebbe adottare la metodologia dell’osservazione partecipe. I dati raccolti potrebbero essere utilizzati sia per promuovere interventi diretti dell’équipe su situazioni di gruppo o individuali sia per coinvolgere e attivare altri servizi pubblici (il servizio materno-infantile, il consultorio familiare, il servizio di salute mentale). L’utilità di un’équipe di monitoraggio va riferita al fatto che essa, presentandosi come équipe di sostegno all’attività didattica e educativa, potrebbe inserirsi nel tessuto della scuola e diminuire il pregiudizio ancora forte contro l’intervento specialistico. Si tratterebbe però di far passare l’idea che la scuola non è nè può essere un’istituzione autosufficiente, e che, mentre l’autonomia didattica è insindacabile (anche se ci sarebbe molto da discutere), la sua funzione educativa richiede un consistente aiuto da parte di operatori dotati di strumenti psicosociali che difettano agli insegnanti.

L’équipe di monitoraggio potrebbe anche essere incaricata, per le sue competenze, di introdurre nelle scuole l’insegnamento dei vari saperi che rientrano nell’ambito delle scienze umane e sociali (dall’antropologia culturale alla psicoanalisi), di condurre dei gruppi di interazione con gli studenti e di coordinare periodicamente l’assemblea delle famiglie degli alunni.

Sempre nell’ambito della scuola andrebbe affrontato un problema di vitale importanza sotto il profilo educativo e preventivo. Nonostante infatti i lunghi dibattiti sulla condizione feminile, rimane viva nelle famiglie una tradizione, che si è solo ammorbidita nel corso degli ultimi anni, per cui quello che si può definire il linguaggio della vita quotidiana, vale a dire la capacità di accudire se stessi e l’ambiente domestico, continua ad essere insegnato solo alle bambine. Si è già detto che questa tradizione, che vota le donne all’accudimento dell’uomo, della casa e dei figli, e che, in nome di presunti privilegi, lascia l’uomo in una condizione di sostanziale analfabetismo, si riverbera potentemente nelle difficoltà di rapporto tra uomo e donna, soprattutto a livello familiare. Una proposta ricolta a introdurre nell’ordinamento scolastico l’economia domestica estesa sia ai bambini che alle bambine è stata fatta di recente dal Ministro dell’Istruzione Pubblica. Si tratterebbe di riprenderla e di realizzarla tenendo conto che, se realizzato, questo progetto potrebbe produrre una rivoluzione culturale nei rapporti tra uomo e donna molto più rapidamente dei cambiamenti sociali che stanno intervenendo molto lentamente.

Il problema degli adolescenti, per l’incidenza notevole dei disturbi psicopatologici in questa fascia di età, va affrontato con realismo. C’è una condizione di fatto, legata alla libertà (almeno apparente) di cui essi godono e alla loro tendenza a produrre una cultura autonoma rispetto a quella dei grandi, che li rende scarsamente accessibili sul piano comunicativo e refrattari a gran parte dei messaggi che provengono dal mondo degli adulti. Estendere alla loro fascia di età il monitoraggio nelle scuole è possibile, e in alcuni casi in via di realizzazione. Ma non v’è dubbio che tale intervento, per quanto utile, non vale ad indurre una diversa cultura che sia critica nei confronti dei modelli comportamentali che vengono ad essi proposti a spron battuto dai mass media e che loro stessi alimentano ideologicamente.

Teoricamente, l’istituzione di centri sociali per gli adolescenti polifunzionali, all’interno dei quali sia possibile praticare una vita di relazione aperta e nel contempo partecipare ad attività integrative di quelle scolastiche, come per esempio quelle teatrali o musicali, orientate a rimuovere una passività e un nihilismo che spesso porta a forme diverse di devianza, sarebbe un’ottima iniziativa. Ma, tranne che a volere utilizzare le strutture scolastiche, affrontando una serie infinita di problemi, l’investimento richiesto da tale progetto sembra poco compatibile con gli attuali orientamenti politici e i problemi di gestione dei centri in questione oltremodo complessi.

Realisticamente, sembra che un intervento preventivo a livello adolescenziuale debba nell’immediato utilizzare degli strumenti culturali, vale a dire sia opuscoli o libri dedicati ai giovani e scritti con un linguaggio adeguato dedicati a temi di ordine generale o specifico (per esempio agli attacchi di panico, ai disturbidel comportamento alimentare, ecc.) sia riviste telematiche o siti Internet ricchi di contenuti e di materiali.

Quanto mai è importante che, a livello di fascia adolescenziale, i servizi di salute mentale non si limitino ad erogare prestazioni ma documentino con attenzione i casi seguiti al fine di accumulare un materiale documentario che potrà essere utilizzato ulteriormente. Uno dei possibili usi è legato alle strutture di auto-aiuto, che dovranno avvalersi sia del contributo di ex-pazienti che di operatori esperti nel campo.

Il lavoro, dalla disoccupazione alla sottoccupazione alle dinamiche ambientali di significato psicopatologico, è una frontiera che, per la sua eterogeneità sembra quasi impossibile affrontare in un’ottica preventiva. Qualcosa però si può fare. Anzitutto sembra necessario stabilire un legame organico da parte dei Servizi di Salute Mentale con le forze sindacali, che vanno ancora oggi ritenute depositarie di un sapere e di dati a riguardo estremamente interessanti. Tale legame potrebbe essere arricchito dalla collaborazione con i servizi di igiene già attivi o che si vanno definendo nelle A.S.L. Definiti questi rapporti si tratterebbe di renderli operativi. Ciò significherebbe, da parte dei sindacati e dei servizi di Igiene, trasmettere ai servizi di Salute mentale tutti i dati che essi ritengono di competenza, e da parte di questi ultimi, trasmettere i dati che richiedono un’attivazione dei primi.

Contemporaneamente sarebbe importante inserirsi attivamente nel dibattito che si è da poco avviato sulla patologia psichica da lavoro, che riecheggia in una nuova forma i temi dell’alienazione marxiana, e cercare di portarlo avanti con una documentazione che impedisca al dibattito stesso di arenarsi sulle secche della curiosità o, peggio ancora, della denuncia di situazioni locali o personali. La realtà è che i processi di ristrutturazione del sistema capitalistico, avviatisi da una decina d'anni a questa parte, nonostante avvengano all'insegna di una modernizzazione ritenuta indispensabile a mantenere nei paesi occidentali il tenore di vita acquisito e a favorire lo sviluppo dei paesi non industrializzati, stanno producendo fenomeni di sfruttamento lavorativo che non investono più solo la classe operaia, ma coinvolgono pesantemente anche il ceto impiegatizio. La pretesa delle aziende nei confronti dei dipendenti, implicita e esplicita, è di una totale dedizione alla causa comune, identificata con lo sviluppo aziendale. L'adesione dei dipendenti a queste pretese avviene obtorto collo, sotto la minaccia di una precarietà perpetua. Dei prezzi psichici e psicosomatici che da ciò derivano si è parlato.