Facci un Dio

Genesi e sviluppo dell'ideologia biblica

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Introduzione alla lettura

Facci un dio è solo in apparenza un saggio che analizza i testi biblici alla ricerca di un filo conduttore che ne spieghi la genesi, l'evoluzione e l'impatto straordinario sulla storia, la cultura e la civiltà. In realtà si tratta di uno studio il cui intento primario consiste nel capire come, nel corso della storia, si organizzano le ideologie sociali, vale a dire quadri o recinti di mentalità capaci di irretire la psicologia e la visione del mondo di infinite generazioni e di interi popoli.

E' evidente che questo intento implica un'opzione laica nei confronti dei testi sacri. Nessun credente potrebbe essere d'accordo sull'identificare la religione con un'ideologia, anche se egli dovesse ammettere che, in ultima analisi, la religione è un insieme di credenze che nel loro complesso rappresentano una visione del mondo che dà ad esso senso e comporta un sistema di valori che orienta il comportamento. Di una visione e di un'interpretazione del mondo però si tratta, e in quanto tale essa può essere affrontata laicamente, prescindendo dalla rivelazione e riconoscendo in essa l'espressione di un bisogno profondamente radicato nella mente umana: il bisogno di un senso totale della realtà che affranchi l'esperienza soggettiva dall'insignificanza che su di essa incombe come una maledizione.

Si danno altre possibilità psicologiche e culturali per fare fronte a questa maledizione, di un animale la cui consapevolezza di essere destinato a morire impedisce di vivere questo destino come naturale. Ci sono, in ordine storico, il riferimento ad un philum transgenerazionale al quale l'individuo appartiene e che è immortale, il rifiuto buddista della catena dell'esistenza che promuove la dissoluzione dell'individuo nella totalità dell'essere, l'accettazione stoica del dolore, della malattia e della morte, il laicismo liberale, che assoggetta la paura alla razionalità, il materialismo storico-dialettico, che riscatta la precarietà individuale in nome di una partecipazione vissuta ad una vicenda il sui fine è la naturalizzazione dell'uomo e l'umanizzazione della natura. Si tratta però di soluzioni che, oltre a richiedere un'attrezzatura culturale piuttosto rilevante, non vanno alla radice del male. Nessuna di esse, come la religione cristiana, che è il frutto maturo della tradizione biblica, ha il potere di trasformare il negativo in positivo, vale a dire di dare al dolore e alla malattia il significato di una prova meritoria e alla morte quello di un passaggio ad un'altra vita eterna.

Non mi sarei comunque impegnato provocatoriamente a scrivere un saggio sulla Bibbia, che mi è costato parecchi anni di studio, di consultazione e di riflessione, solo per ribadire che la religione, nel bene e nel male, è la più potente medicina culturale che l'umanità nel corso della sua storia è riuscita a scoprire contro l'angoscia della precarietà e l'incubo dell'insignificanza dell'individuo e della vita stessa. Sarebbe veramente paradossale se uno psichiatra critico e uno psicoterapeuta non avesse un rispetto profondo e radicale delle debolezze umane. Il fatto è che la lettura dei testi biblici mi ha consentito di scoprire un filo interpretativo più interessante: l'anelito di giustizia che, con infinite contraddizioni, sottende l'Antico Testamento, giunge con i Profeti ad una maturazione drammatica e che in Gesù trova risoluzione nella promessa di un altro mondo, il regno appunto della giustizia. Questi filo interpretativo mi ha portato a pensare che, nel fondo della mente umana, il problema della giustizia sia più importante dell'immortalità, e che esso, posto lo stato di cose esistente nel mondo, abbia promosso il riferimento all'aldilà.

Il fondamento di questa interpretazione è testuale. La religione veterotestamentaria è una religione del mondo, che ignora l'aldilà finchè persiste la speranza che la giustizia possa realizzarsi sulla Terra. Solo lo scacco di quest'aspettativa promuove nei Profeti prima una cupa disperazione e poi l'intuizione di un altro mondo, che Gesù definirà come il paradiso in cui i giusti troveranno pace e gli ingiusti la punizione che meritano.

Un sogno? un'utopia? Certo, dal mio punto di vista. Ma quanto tremendamente espressivi di un anelito e di un bisogno che sottende visceralmente l'esperienza umana e che rappresenta, forse, l'aspetto più profondo e più significativo della mente umana...

Il saggio è stato scritto nel 1999. Ho fatto qualche timido tentativo di promuoverne la pubblicazione, che si è esaurito quando ho preso atto che lavori del genere non hanno praticamente mercato. Ciò non significa ovviamente che non abbiano senso.

Facci un Dio…


"il mito si costituisce attraverso la dispersione della qualità storica delle cose: le cose vi perdono il ricordo della loro fabbricazione"

R. Barthes

Indice

Introduzione

Parte prima. Storia e Testo

1) Storia del popolo ebraico (dalle origini al I° secolo d. C.)

2) Struttura e formazione della Bibbia

Parte seconda. La religione veterotestamentaria

1) Il Divino Proprietario

2) La religione dei Patriarchi

3) La religione di Mosè

4) Il Dio degli Eserciti

5) Il Dio dei Re

6) La religione dei Profeti

7) La religione della restaurazione e del declino

Parte terza. La religione di Gesù

1)Il contesto storico e culturale

2) I Vangeli

3) Profezie veterotestamentarie

4) Genealogia

5) La personalità di Gesù

6) La predicazione di Gesù

Parte quarta. Nascita del Cristianesimo

1) Il conflitto giudeo - cristiano

2) La religione paolina

Conclusioni

Appendici

1) L’interpretazione ecclesiale

2) Le intepretazioni non confessionali

Bibliografia

Introduzione

L’universalità nello spazio e nel tempo del fenomeno religioso, vale a dire di credenze e di riti i più diversi che definiscono e regolano il rapporto tra l’uomo e il sacro, è un dato di fatto inconfutabile, la cui interpretazione è controversa.

I credenti lo adducono come prova di un’intuizione, profondamente radicata nell’anima umana, alla quale corrisponderebbe una realtà ontologica sovrannaturale da cui gli uomini, in un modo o nell’altro, si riconoscono dipendenti e con cui vogliono mantenersi in relazione. Da questo punto di vista, l’aspetto soggettivo - il "sentimento" religioso — si pone come più importante di quello oggettivo, rappresentato dalle credenze e dai riti.

I laici, viceversa, lo assumono come indiziario di bisogni, consci e inconsci, riconducibili genericamente all'esigenza di sopperire ai limiti della condizione umana, finita e precaria. Originariamente sociali, deputati cioè a favorire la coesione culturale del gruppo e ad accrescere il suo potere sulle forze misteriose che governano il mondo, tali bisogni hanno assunto progressivamente una configurazione individuale, ponendo in primo piano il problema della felicità e della salvezza del singolo. Per quanto eterogenei nelle loro multiformi espressioni, essi riconoscerebbero come comune denominatore l'estraniazione dei prodotti culturali - le credenze religiose - dai produttori.

L’interpretazione dei credenti ha come limite la straordinaria eterogeneità dei fenomeni religiosi, la loro evoluzione inconfutabilmente progressiva - dall'animismo al monoteismo -, e la difficoltà di ridurre le differenze teologiche tra le grandi religioni attualmente esistenti, nonostante esse facciano riferimento ad una rivelazione divina.

L’interpretazione laica, viceversa, molto più a suo agio nell'interpretare l’eterogeneità dei fenomeni religiosi e la loro evoluzione, viene ad urtare contro l’universalità della categoria del sacro, che sembra porsi come una misteriosa forma a priori mentale. Se non è difficile, infatti, ricondurne le origini alla percezione animistica del mondo degli uomini primitivi, è problematico capire la sua tenace persistenza nel corso della storia.

Sul piano filosofico, le due interpretazioni si equivalgono. Non è dunque per caso che la Chiesa propone, privilegia e accetta questo terreno di confronto, laddove essa sa di potere opporre alle argomentazioni razionali dei laici il richiamo al ‘mistero’ insondabile del mondo e dell’uomo cui solo la religione fornirebbe una risposta compiuta.

In questo saggio, la cui opzione laica è bene sia presente preliminarmente al lettore, prescinderemo dall’approccio filosofico a favore di un approccio psicosociostorico. Per quanto universale, infatti, il fenomeno religioso si declina, nello spazio e nel tempo, sotto forma di un insieme di credenze e di pratiche rituali che hanno, per ogni gruppo, popolo o civiltà, una caratterizzazione sufficientemente precisa, e riconoscono una genesi e un’evoluzione storica che consente di distinguerle da tutti gli altri aspetti della cultura (economia, politica, diritto, morale, filosofia, letteratura, arte, scienza, ecc.) con le quali risultano intrecciate. In quanto appartenenti alla storia e alla sfera della cultura, e in quanto partecipate da una collettività, etnica o interetnica, le religioni possono essere assunte come ideologie sociali, posto che per ideologia s'intenda, alla maniera di Althusser, "un sistema (che possiede una propria logica e un proprio rigore) di rappresentazioni (immagini, miti, idee o concetti a seconda dei casi) dotato di un'esistenza e di un ruolo storico in seno a una data società". Questa definizione, di per sè, non esclude la possibilità che una religione sia il frutto di una rivelazione divina, vale a dire di un apprendimento. Tale possibilità va comprovata però per esclusione. Solo se l'insieme delle credenze proprie di una determinata religione non può essere in alcun modo spiegato in termini di produzione culturale, si può ammettere che esso sia il frutto di una rivelazione.

Assumere le religioni come ideologie sociali impone metodologicamente di analizzarle, anzitutto, in rapporto ai contesti geografici e storici all’interno dei quali esse si originano, attecchiscono ed evolvono e di tenere conto, oltre che dell’organizzazione socio-economica, dei fattori psicologici, individuali e collettivi, in virtù dei quali sono elaborate, vissute e praticate. I due aspetti sono entrambi importanti ma, come vedremo, il loro peso reciproco nella produzione ideologica non è affatto semplice da definire, nè è sempre lo stesso nel corso del tempo.

Il titolo del saggio, il cui significato è piuttosto metodologico che provocatorio, com'è attestato dalla citazione di Barthes, anticipa le conclusioni cui perviene un’analisi ideologica della religione biblica documentata dai testi. Esso fa riferimento ad un episodio esemplare che la Tradizione squalifica come espressione di una rozza religiosità idolatrica che la rivelazione dell’unico, vero Dio, invisibile e trascendente, avrebbe sormontato. Analizzato sotto il profilo ideologico, l’episodio appare, invece, denso di significati e offre la chiave interpretativa di ogni produzione religiosa.

Il contesto nel quale si realizza (cfr. Esodo, 32, 1 - 6) è quello di un insieme di tribù eterogenee - di Ebrei e di ‘forestieri’ - sottrattesi da poco con la fuga al dominio egiziano. La fuga, promossa dalla durezza del regime schiavistico egiziano, è stata organizzata e guidata da un singolare personaggio, Mosè, ebreo per nascita ma educato alla corte del faraone, che, in esilio per un fatto di sangue, si è presentato agli oppressi in nome di un Dio dal nome sino allora sconosciuto - Jahvè - , promettendo a coloro che l'avrebbero seguito di condurli alla conquista della terra di Canaan. Tale promessa, incentrata sull'identificazione di Jahvè col Dio dei Padri che gli Ebrei hanno continuato a coltivare, mira a riabilitare un mito - quello della Terra promessa - che, dall’epoca dei Patriarchi, fa parte della loro tradizione. Per i 'forestieri' che si aggregano in numero imprecisato agli Ebrei, essa ovviamente non significa altro che sottrarsi al duro regime egiziano.

Il rapporto dei profughi con Mosè è ancora precario. La fuga si è realizzata e la rappresaglia degli egiziani è stata sventata, ma in virtù dell’inoltrarsi in un territorio inospitale e desertico che impone, ad un insieme raccogliticcio di tribù, abituate da secoli a dipendere dal regime egiziano, di adattarsi ad una vita nomadica e di riorganizzarsi sul piano economico, sociale e culturale.

Lo stato d’animo dei profughi è ambivalente: l’esultanza per la riconquistata libertà è temperata dalla nostalgia del regime di sussistenza di cui godevano in regime di schiavitù e dalla precarietà della situazione in cui si trovano. Consapevole di questo stato d’animo, che comporta una qualche diffidenza nei suoi confronti, Mosè ha condotto il popolo al Monte Sinai, luogo abituale di culto del Dio in nome del quale si è presentato, per accreditarsi come unico suo rappresentante e intermediario. Salito sul monte per ricevere da Jahvè le leggi indispensabili a dare un minimo di coesione a quella che è nulla più che una masnada raccogliticcia di vari gruppi etnici, dopo quaranta giorni non è ancora tornato. I profughi, dando per scontato che debba essergli accaduto qualcosa, si ritrovano dunque smarriti, senza una guida. Evidentemente Jahvè non è ancora il loro Dio, ma il Dio di Mosè.

Trattandosi di tribù non avvezze a riconoscere un capo politico unico, il loro bisogno non è quello di sostituire Mosè bensì di 'darsi' un Dio. Quest'oscura necessità fa capo al fatto che, nell’Antichità, un popolo senza un 'suo' Dio è privo di protezione in un duplice senso: esposto, per un verso, ai rischi indefiniti del caso e, per un altro, alla potenza delle divinità dei popoli con cui viene a contatto. Il bisogno religioso fa dunque riferimento ad un ordine che trascende la natura, da cui l'uomo dipende e con cui può in qualche misura comunicare attraverso i riti per propiziarselo e scongiurare il male. La religione rappresenta la mediazione tra un determinato gruppo sociale e il Sacro. Si tratta però di una mediazione che deve fare conti con una competizione universale. Tutti i gruppi - tribali, etnici e nazionali - sono, infatti, impegnati a stabilire un rapporto privilegiato col Sacro attraverso i loro dei. La necessità di 'darsi' un Dio è imprescindibile di conseguenza dalla speranza che il proprio Dio sia più forte di quello di altri gruppi. Ciò spiega i frequenti cambiamenti gerarchici che avvengono all'interno dei pantheon politeistici.

Costruire un idolo con le proprie mani e identificare in esso il proprio Dio non ha il rozzo significato che i Profeti assegneranno all’idolatria. L’idolo non è in sè e per sè Dio, bensì il simbolo ostensibile del Sacro col quale esso permette, attraverso il culto e i riti, di comunicare, cercando d'influenzarlo a proprio favore. Che l’idolo assuma una determinata forma (animale o antropomorfica) o un nome particolare, che esso tenda inesorabilmente a moltiplicarsi, rappresentando il significante di un significato esteso e totalizzante - per l’appunto, il Sacro - , nulla toglie al carattere radicalmente umano della motivazione da cui prende origine: la necessità di un gruppo umano di non sentirsi abbandonato ai capricci del caso e della contingenza e di giungere a disporre, attraverso la mediazione dei culti e dei riti, di un qualche potere sul proprio destino.

I profughi hanno dato credito a Mosè e al suo Dio. Se Mosè, com'essi giungono a pensare, è morto, è evidente che Jahvè non è particolarmente potente. E' necessario dunque sostituirlo con un altro Dio. Non è insignificante, in rapporto al brano in questione, tenere conto che essi si rivolgono ad Aronne, fratello di Mosè. Ciò significa che essi attribuiscono un qualche potere magico al clan che ha organizzato la fuga dall'Egitto. Ancor più significativo è il fatto che essi gli chiedono di fabbricare, con gli ori di cui si spogliano, un vitello, vale a dire un simbolo religioso affine ad un Dio del pantheon egiziano. Fuggiti dall'Egitto, essi, evidentemente, conservano memoria della potenza e della magnificenza della civiltà egiziana.

L’episodio biblico ci restituisce dunque, di là dell'apparente rozzezza di un comportamento che attribuisce poteri divini ad un pezzo di materia lavorato da mani umane, l’ideologia religiosa propria dell’Antichità, incentrata sulla convinzione universale dell'esistenza del Sacro, sulla necessità di comunicare con esso per volgerlo a proprio favore e sul culto magico degli idoli vissuti come simboli ostensibili del Sacro stesso.

Sullo sfondo di quest'ideologia, che è la matrice di ogni fenomeno religioso, si definisce, nel contesto della storia ebraica, l'esigenza di una ristrutturazione ideologica destinata a identificare il Sacro con un Dio unico, personale, dotato di volontà propria, che rappresenta la Legge che gli uomini devono riconoscere e rispettare. Si tratta di una rivoluzione culturale che riduce il potere degli uomini di influenzare il Sacro e li subordina al rispetto della Legge, dal quale discende il favore di Dio nei loro confronti. Il salto di qualità concettuale che tale rivoluzione comporta, che esiterà a distanza di secoli in una teologia raffinata, per quanto contraddittoria (com'è proprio di ogni ideologia religiosa), originariamente è funzionale solo a sancire la centralizzazione del culto religioso e il potere della classe sacerdotale.

Analizzeremo con cura le circostanze che promuovono questa rivoluzione. Per ora, è importante ribadire che la nuova ideologia fa capo alla stessa istanza di regolazione del rapporto dell’uomo col Sacro che sottende l’idolatria. Il bisogno religioso è, dunque, sempre lo stesso. Ciò che cambia ideologicamente è la concettualizzazione del Sacro e delle leggi che governano il rapporto dell'uomo con esso. Il cambiamento ideologico è però imprescindibile da un processo di riorganizzazione sociale che lo promuove. L’analisi ideologica mira ad illuminare le circostanze oggettive e soggettive che hanno determinato tale cambiamento.

Si tratta di un cambiamento di fondamentale importanza perchè esso trasforma l'alienazione relativa propria dell'idolatria, che ancora comporta la possibilità dell'uomo di influenzare il Sacro, per esempio sostituendo una divinità caduta in disgrazia con un'altra ritenuta più potente, in un'alienazione assoluta, che lo subordina alla volontà di un unico Dio, alla Legge che esso pone e al potere sacerdotale. In virtù degli ideologi biblici, il bisogno di darsi un Dio giunge, attraverso un secolare lavorio mentale, all'astrazione teologica, in virtù della quale Dio preesiste all’uomo e lo trascende, ponendosi, infine, come Essere personale ed eterno che rappresenta il presupposto dell’ex - sistere.

L’attribuzione a Dio di una volontà personale e di una potenza creatrice, del tutto estraneo all’idolatria, pone però il problema inquietante di spiegare perchè il mondo è imperfetto, perchè esiste il male e perchè, infine, l’uomo inclina ad esso. Confrontandosi con questi problemi, la teologia biblica si aggroviglia in contraddizioni che il messaggio di Gesù non risolve. Il Dio di Gesù - un Dio misericordioso e paterno alla cui volontà l’uomo deve abbandonarsi totalmente - è null'altro che la quintessenza del pensiero profetico, vale a dire di un pensiero astratto, metafisico, che oppone alla persistente tentazione idolatrica del popolo ebraico un monoteismo radicale. Per spiegare però l’origine e la persistenza del male sulla terra, Gesù deve mutuare dal pensiero profetico anche ciò che in esso vi è di più caduco: l’esistenza un misterioso avversario di Dio - Satana - che seduce e travia le anime umane e la cui sconfitta definitiva, necessaria a sancire la maggiore potenza di Dio del bene rispetto a quello del male, non può avvenire che nell’aldilà. Il problema del male, che l'idolatria riconduce ad un incessante lotta tra le varie divinità, nella quale si riflette la competizione tra tribù, gruppi etnici e popoli, giunge così a porsi come lotta tra l'unico, vero Dio e gli altri dei, che vengono degradati e accomunati nella categoria del Demonio (Belzebù, che etimologicamente significa il Dio sconfitto).

La produzione ideologica di un Dio unico corrisponde, dunque, a modi diversi di interpretare il bisogno religioso, influenzati dalle circostanze storico sociali, da congiunture critiche, dagli stati d’animo individuali e collettivi e dall’astrazione concettuale. L’analisi che condurremo dei testi biblici tenterà di documentare questo assunto.

Lo studio delle ideologie alla luce della storia sociale rappresenta una frontiera scoperta solo di recente dagli studiosi. L’oggetto in questione, vale a dire i recinti mentali di lunga durata che influenzano il modo di pensare, di sentire e di agire di un gruppo etnico, di una nazione o di un’intera civiltà, coincide, grosso modo, con la sovrastruttura identificata da Marx come costituiva di ogni società. Rispetto a Marx, però, la nuova metodologia comporta due importanti cambiamenti.

Il primo consiste nel considerare il rapporto tra infrastruttura socio - economica e sovrastruttura culturale come interattivo e reciproco, e dunque non deterministico nè in un verso nè in un altro. Bandito il determinismo economico, in quanto espressione di un rozzo materialismo, e quello culturale, in quanto espressione di un astratto idealismo, tale rapporto implica uno spettro molto ampio di possibilità interattive che vanno indagate in riferimento ad una determinata società o civiltà, e che possono mutare nel corso del tempo.

Il secondo cambiamento è da identificare nell’assunzione dell’ideologia come un insieme di tradizioni, credenze, idee, pregiudizi, miti, norme comportamentali, valori morali, modi di sentire depositati in gran parte a livello di inconscio sociale che, trasmettendosi di generazione in generazione, si riverberano, in varia misura, nella psicologia individuale dei soggetti. Il radicamento delle ideologie a livello di inconscio sociale assicura ad esse una lunga durata perchè determina un progressivo affrancamento dalle matrici socio - storiche che le hanno prodotte e le corrobora della forza propria delle tradizioni. Tale radicamento esprime l’influenza nella cultura umana dei morti sui vivi.

Questi cambiamenti portano a pensare che la riproduzione sociale è un processo estremamente complesso nel quale i fenomeni mentali, individuali e collettivi, consci e inconsci, svolgono un ruolo assolutamente rilevante.

Il superamento del pensiero di Marx nello spirito di Marx è evidente nello sforzo di G. Duby di definire le caratteristiche proprie delle ideologie sociali. Le ideologie sono sistemi completi e totalizzanti "dal momento che pretendono di offrire della società, del suo passato, del suo presente, del suo futuro, una rappresentazione di insieme integrata alla totalità di una visione del mondo". Rassicuranti per un verso, le ideologie "sono, altrettanto naturalmente, deformanti. L'immagine che esse offrono dell'organizzazione sociale si costruisce su di un incastro coerente di inflessioni, di slittamenti, di deformazioni, su di una prospettiva, su un gioco di chiaroscuri che tende a velare certe articolazioni proiettando tutta la luce su altre, per meglio servire interessi particolari". Dato che, però, al di là di un certo livello di complessità, ogni società ha un'articolazione diversificata, ne consegue la coesistenza di "molteplici sistemi di rappresentazione che, naturalmente, sono concorrenti. Queste opposizioni in parte sono formali, e corrispondono all'esistenza di molteplici livelli di cultura. Esse riflettono soprattutto antagonismi che nascono talvolta dalla giustapposizione di etnie separate, ma che sono sempre determinati dalla disposizione dei rapporti di potere. Un certo numero di tratti comuni avvicinano queste ideologie, dal momento che le relazioni vissute di cui offrono l'immagine sono le stesse, e si costruiscono in seno allo stesso insieme culturale e si esprimono negli stessi linguaggi. Tuttavia di solito le une si presentano come le immagini rovesciate delle altre, a cui si contrappongono". Totalizzanti, deformanti, concorrenti, le ideologie hanno anche una funzione stabilizzatrice del sistema. Questa inclinazione alla stabilità "deriva dal fatto che le rappresentazioni ideologiche pertecipano alla pesantezza insita in tutti i sistemi di valori, la cui ossatura è fatta di tradizioni. La rigidità dei diversi organi di educazione, la permanenza formale degli strumenti linguistici, la potenza dei miti, l'istintiva reticenza nei confronti dell'innovazione che si radica nel più profondo dei meccanismi della vita ostacolano la possibilità che esse si modifichino sensibilmente nel corso del processo che le trasmette ad ogni nuova generazione. La paura del futuro fa sÏ che le ideologie si appoggino naturalmente alle forze di conservazione, di cui ci si accorge che sono predominanti nella maggior parte degli ambienti culturali che si giustappongono e si compenetrano in seno al corpo sociale... Più solidamente e più comunemente, il conservatorismo si appoggia sulla stessa gerarchia sociale... Si può pensare che la resistenza al cambiamento non è mai ancorata più saldamente che tra i membri di ogni tipo di clero, attaccati più di chiunque altro alla salvaguardia dei concetti, delle credenze e delle regole morali che costituiscono l'unico sostegno della potenza di cui essi godono e dei privilegi che sono loro riconosciuti". Le ideologie, infine, hanno un'efficacia pratica. Infatti "nelle culture di cui si può scrivere la storia, tutti i sistemi ideologici si fondano su di una visione di questa storia, basando su una memoria dei tempi trascorsi, oggettiva o mitica, il progetto di un avvenire che dovrebbe vedere l'avvento di una società più perfetta". In questo senso contribuiscono ad animare il movimento della storia. Ma nel corso di questo movimento esse stesse si trasformano per adattarsi ai cambiamenti sociali e politici che intervengono e subendo l'influenza delle altre culture.

Questa concettualizzazione rende indubbiamente la metodologia di analisi delle ideologie sociali molto più flessibile rispetto all’originaria impostazione marxiana, incapace di spiegare il problema per cui allo stesso modo di produzione possono corrispondere sovrastrutture culturali le più varie, ma anche molto più complessa. Mentre infatti l’infrastruttura socio - economica di una società, anche remota, si può ricavare da un numero ridotto di dati, l’analisi di un’ideologia sociale richiede una documentazione la più ampia possibile di ordine geografico, storico, economico, politico, burocratico, giuridico, letterario, filosofico, artistico, religioso. Essa postula inoltre di ricostruire, a partire da questa documentazione, la psicologia individuale e collettiva propria della società in questione, e di valutare in quale misura essa corrisponde a meccanismi psichici universali o è determinata storicamente.

Una difficoltà ulteriore è legata al fatto che le ideologie sociali, in misura paradossalmente proporzionale al loro peso specifico, solo raramente, come sottolinea Duby, costituiscono "nella loro totalità, l'oggetto di un'espressione deliberata". Anche quando esse vengono comunicate volontariamente in forma dottrinaria, la loro immagine rimane comunque frammentaria poichè aspetti importanti della vita sociale che hanno contribuito a produrle, rimangono dissimulate. Ciò significa che, anche disponendo di una vasta documentazione, le ideologie sociali, per giungere a coglierne pienamente il significato, vanno ricostruite indiziariamente.

Quest’ultimo aspetto è di particolare importanza per quanto concerne le religioni. L’insieme delle credenze su cui si fondano, infatti, sono quasi sempre affidate ad una documentazione che, tra testi originali, esegesi e commenti, è eccessiva piuttosto che carente. Nonostante ciò, l’analisi ideologica risulta solitamente difficilissima perchè lo scarto tra il carattere astratto, mitologico e simbolico, delle credenze religiose e la realtà sociale a partire dalla quale si definiscono e nella quale attecchiscono appare sempre rilevante. Presente in tutte le religioni, questo scarto è massimo nelle grandi religioni storiche, la cui dottrina raggiunge di solito livelli estremi di astrazione.

Posto ciò, c’è da chiedersi se l’intento del saggio di affrontare i testi biblici sul piano dell’analisi ideologica al fine di fornirne una lettura e un’interpretazione che prescinde sia dall’ottica confessionale, che li ritiene ispirati da Dio, sia da quella razionalista, che vede in essi l’espressione di una mistificazione ideologica, sia ragionevole e perseguibile.

Data la distanza storica che ci separa dagli eventi in questione, la carenza di documenti - scritti o archeologici - estranei alla Bibbia, l’intento religioso dei redattori finali dei testi, la carenza di indizi sociologici, la difficoltà di ricostruire, a partire dal presente, la psicologia individuale e collettiva dell’epoca, l’impresa appare ardua.

La religione biblica si è originata nel seno di un popolo che, per lunghi secoli, è stato politicamente, e dunque storicamente, insignificante. Riguardo a questo lungo periodo disponiamo di una documentazione che, tranne alcuni accenni di incerta interpretazione presenti in alcuni testi scoperti dall’archeologia, si riduce alla Bibbia. Ma i testi biblici in questione sono stati redatti a distanza di secoli dagli eventi che narrano, sulla base dunque di una secolare tradizione orale di cui nulla sappiamo. Essi sono stati inoltre reinterpretati e rimaneggiati tardivamente alla luce di quanto accaduto successivamente.

L’accesso alla storia del popolo ebraico, che coincide con la conquista della Palestina, non migliora di molto il patrimonio documentario. Israele, anche nel periodo del suo massimo fulgore, sotto David e Salomone, è stata sempre una potenza minore nello scacchiere medio - orientale dominato dall’Egitto, dall’Assiria, da Babilonia. L’importanza annessa dagli Ebrei alla loro storia - la storia di un popolo eletto da Dio e destinato a trionfare su tutti gli altri popoli - non riconosce di conseguenza che modesti riscontri esterni.

A maggior ragione, questo scarto vale dopo la fine dei regni alla quale segue una progressiva decadenza che pone gli Ebrei sotto il protettorato assiro prima, seleucida poi e infine romano.

La stessa vicenda storica di Gesù, ampiamente documentata dai vangeli, e destinata ad influenzare profondamente la storia successiva, è appena accennata in testi non biblici.

A queste difficoltà, che sconsiglierebbero un’analisi ideologica della religione biblica, vanno opposte almeno due circostanze particolari che la incentivano.

La prima è che la religione biblica è andata incontro, nel corso del tempo, a molteplici cambiamenti ideologici strutturali di grande portata, esitati nella definitiva separazione del Giudaismo e del Cristianesimo. Tali cambiamenti evocano immediatamente il riferimento a circostanze sociali e storiche critiche che li hanno promossi e che hanno trovato in essi soluzione. Per quanto tali circostanze siano non sempre facili da ricostruire, i testi non possono non rifletterle e, in qualche misura, lasciarle trasparire.

La seconda circostanza verte sull’indefinita ricchezza indiziaria della Bibbia, che è un libro unico nel suo genere, nel quale i contenuti religiosi, la mitologia, l’epopea, il folklore, la liturgia, la narrazione storica, la biografia, il diritto, la morale, il conflitto sociale, l’aneddoto, la tradizione si mescolano e si intrecciano di continuo. Vedremo, successivamente, come e perchè l’interpretazione che ne fornisce la Tradizione ecclesiale, nella sua suggestiva semplicità che consente di porgerla ai bambini della scuola materna e nella sua intrinseca complessità che pone infiniti problemi a teologi, filosofi, storici delle religioni, ecc., è facilmente invalidabile. Questa invalidazione, però, che nega il carattere rivelato della religione biblica, non fa altro che aumentare il mistero della genesi e dell’evoluzione di un’ideologia sociale che è giunta, attraverso varie vicissitudini, a radicarsi profondamente nell’immaginario collettivo del mondo e ad animarlo di una percezione della realtà e della vicenda umana che trascende l’orizzonte temporale

Occorre considerare, infine, un aspetto del tutto particolare che basta da solo a giustificare il saggio. In conseguenza delle loro origini, che fanno capo ad una tradizione orale secolare, e della loro evoluzione, che segue passo dopo passo le vicende e le vicissitudini di un popolo, i testi biblici rappresentano uno straordinario documento storico che consente di leggere, in controluce, la dialettica propria del Mondo Antico. In esso, infatti, si fondono e si confondono di continuo istanze sociali radicalmente conservatrici, che ratificano il potere delle classi dominanti, e istanze sociali che muovono dall’aspirazione profondamente radicata nei cuori umani di un mondo giusto, affrancato dalla miseria e dall’oppressione. Che questa aspirazione si sia sempre espressa, nella Bibbia, in riferimento ad un passato comunitaristico e solidaristico, forse miticamente elaborato, e che abbia assunto, presso il popolo ebreo e presso le primitive comunità cristiane, una configurazione religiosa, non toglie ad essa un significato che trascende il piano religioso e tocca evidentemente una corda sensibile dell’anima umana.

Non essendo scritto da uno specialista e non rivolgendosi agli specialisti, il saggio prescinde dal presumere da parte del lettore una conoscenza profonda della storia del popolo ebraico e dei testi biblici. Per sopperire a tale eventuale lacuna si è ritenuto opportuno abbondare nelle citazioni testuali, anche a rischio di rendere la lettura meno agevole. Nella parte prima del saggio sono inoltre fornite preliminarmente un insieme di informazioni essenziali sulla storia del popolo ebraico, alcuni aspetti della quale vengono approfonditi nei capitoli successivi, e sulla struttura e la formazione della Bibbia. Due appendici sono dedicate rispettivamente all’interpretazione tradizionale che la Chiesa fornisce dei testi sacri e alle interpretazioni non confessionali degli stessi che si sono succedute nel corso del tempo.

L’analisi concerne esclusivamente i testi canonici, vale a dire ritenuti ispirati dalla Chiesa, la cui stesura si esaurisce entro il primo secolo d. C. Gli svolgimenti successivi della religione cristiana sono, per ovvi motivi, di straordinario interesse ma, ai fini della presente analisi, possono essere messi tra parentesi in quanto essi vengono assunti dalle varie Chiese cristiane (Cattolica, Protestante, Ortodossa) come realizzazioni della Rivelazione esauritasi con l’Apocalisse di Giovanni. Le differenze teologiche, dottrinarie, istituzionali e rituali che sussistono tra di esse pongono ovviamente in dubbio l’assunto. Non entreremo, però, nel merito di questa questione.

Prescinderemo anche da sottili disquisizioni filologiche che, pure, in rapporto ai testi in questione, sono importanti, assumendo pertanto come verosimili le conclusioni cui è arrivata la filologia critica soprattutto per quanto concerne l’uso di diversi documenti nella stesura dell’Antico Testamento e il problema della redazione dei vangeli, in quanto esse sono accolte, sia pure con alcune riserve, dalla Chiesa Cattolica. Non utilizzeremo invece i dati della critica radicale che tende a dimostrare che il Nuovo Testamento è una colossale mistificazione perpetrata dagli Apostoli e dai discepoli di Gesù per celare le origini giudaiche del Cristianesimo e differenziarlo irreversibilmente dal Giudaismo. Si tratta di una scelta metodologica.

L’analisi delle ideologie sociali deve ormai prescindere dal riferimento alla mistificazione perpetrata intenzionalmente al fine di ingannare. Ciò non significa che, nella costruzione dell'ideologia biblica, non si diano in alcun modo mistificazioni. Tranne alcuni casi, però, che cercheremo di evidenziare, gli ideologi biblici in genere non fanno altro che interpretare selettivamente i dati di cui dispongono, valorizzandone alcuni e minimizzandone altri. Fondandosi su presupposti religiosi intimamente partecipati, la loro attività interpretativa non è critica e non tiene conto della concreta realtà storica. Coloro che aderiscono alle interpretazioni ideologiche, inoltre, non sono vittime inconsapevoli d’un inganno perchè l’adesione implica anche qualche bisogno che viene ad essere soddisfatto. La produzione delle ideologie sociali implica, oltre che un insieme di circostanze storico - sociali e culturali, complessi meccanismi mentali, individuali e collettivi, che trascendono il livello delle coscienze.

Se questo è vero, non è meno vero che, per quanto le ideologie sociali non sono nè potrebbero essere interpretazioni fedeli della realtà sociale, esse, per quanto astratte, non possono mai espungere del tutto le contraddizioni reali che tentano di risolvere. Il grado di mistificazione inconsapevole che comportano contiene in sè gli elementi attraverso i quali si può risalire a quelle contraddizioni e analizzarle.

Assumeremo dunque i testi biblici come un prodotto culturale da decodificare prescindendo dall’attribuire intenti ingannevoli a coloro che li hanno prodotti. Questo criterio, oltre che ai testi originari, va esteso anche alle traduzioni, che tentano di ridurre ulteriormente le contraddizioni presenti in essi. Utilizzeremo pertanto, per la nostra analisi, la versione integrale della Bibbia curata dalla Conferenza Episcopale Italiana, nella quale questo intento è evidente. Basta fornire un solo esempio a riguardo, importante, peraltro, perchè riguarda la denominazione di Dio. Nel testo originario tale denominazione utilizza numerosi termini. Nella versione C. E. I., solo Signore e Padre, usati nel Nuovo Testamento, sono tradotti letteralmente, mentre tutti gli altri sono tradotti univocamente col termine Dio. Non si tratta di certo di un arbitrio, bensì di un piccolo accorgimento che consente di evitare di dovere spiegare il frequente cambiamento della denominazione nel Genesi (che induce immediatamente in chiunque il dubbio che essi siano il frutto del montaggio di documenti diversi), di evitare l’imbarazzo per cui Jahvè comunica il suo nome per la prima volta a Mosè, mentre esso è già utilizzato in precedenza, e di attenuare la cesura linguistica tra il Dio di Mosè (Jahvè) e il Dio di Gesù (Signore e Padre). Tranne che nell’analisi dei primi capitoli del Genesi, che richiede di tenerne conto, accetteremo senza remore tale arbitrio.

Anche l’ordinamento dei testi nella versione C. E. I., seguendo peraltro la tradizione, ha un carattere singolare. Laddove infatti, come per i Profeti e le lettere di S. Paolo, il criterio cronologico potrebbe risultare importante ai fini di una lettura storica, esso viene trascurato per motivi che non sono chiariti, ma si presume che siano da ricondurre al privilegio accordato ai contenuti religiosi. Ai fini dell’analisi, quando risulterà necessario, utilizzeremo il criterio cronologico.