NECESSITA' E PRATICABILITA' DELLA PREVENZIONE PSICHIATRICA

La necessità e l’urgenza della prevenzione psichiatrica sono attestate da varie ragioni.

La prima è l'incidenza statistica dei fenomeni di disagio psichico, che rende irrealizzabile una rete di assistenza territoriale adeguata sul territorio nazionale. I dati epidemiologici sono inequivocabili. La schizofrenia colpisce l'1% della popolazione, la psicosi maniaco-depressiva lo 0,5-0,8%. Le forme atipiche, al limite tra nevrosi e psicosi, che spesso virano verso queste ultime, sono in aumento. Ciò significa che le percentuali riportate, ritenute canoniche da sempre, dovranno essere a breve ritoccate a livello decimale. Le nevrosi conclamate - in particolare le depressioni e gli attacchi di panico - sono andate incontro, da vent'anni a questa parte, ad un incremento esponenziale e ineteressano ormai una quota della popolazione rilevante (dal 5 al 10% a seconda delle statistiche). Le nevrosi somatiformi e le malattie psicosomatiche hanno una diffusione enorme: si calcola che quasi la metà dei pazienti che si rivolgono ai medici di base ne siano affetti. Se a ciò si aggiunge la precocizzazione del disagio psichico, che ormai coinvolge massicciamente la popolazione adolescenziale, il quadro epidemiologico risultante configura un problema sociologico di tale portata da rendere insensato qualunque progetto di intervento che non privilegi la prevenzione rispetto alla cura e alla riabilitazione.

La seconda ragione è di ordine economico, e concerne non solo i vincoli del bilancio sanitario, che rendono imprevedibili aumenti consistenti di stanziamenti per l'assistenza psichiatrica, bensì soprattutto lo spreco di risorse lavorative e di capitale umano prodotte dalle esperienze di disagio psichico. Si tratta di due diversi problemi. Lo spreco di risorse lavorative è riconducibile all'invalidità temporanea prodotta dalle cosiddette forme minori di disagio psichico, e in particolare dalle depressioni e dalle sindromi di attacchi di panico. La quantificazione economica del danno prodotto all’economia familiare e a quella nazionale da queste forme, che sono in aumento, non è agevole. Ma, anche tenendo conto solo delle assenze per malattie psichiche dei dipendenti pubblici, e pur considerando che la metà delle certificazioni può essere di comodo, il dato è assolutamente inquietante. Il secondo problema è legato al disagio adolescenziale e giovanile, che incide in un’epoca della vita di formazione, e, quando non pregiudica del tutto le possibilità di inserimento lavorativo, costringe le persone, superato il disagio, ad accettare prospettive di vita che sono molto al di sotto delle loro potenzialità.

Una terza ragione fa capo al ben noto assioma secondo cui prevenire è meglio che curare. Per affrancare questo assioma dalla banalità retorica, bisogna chiarire ciò che si intende per prevenzione.

1. I diversi modelli di prevenzione

La migliore prevenzione possibile (se si prescinde dall’ipotesi del determinismo genetico) consisterebbe nell’offrire a tutti gli esseri umani adeguate opportunità di sviluppo, muovendo dal presupposto che qualunque corredo genetico è predisposto contemporaneamente alla salute e alla malattia, e che quest’ultimo pericolo può essere scongiurato da un'interazione con l'ambiente atta a dar luogo ad un pieno dispiegamento di quelle potenzialità. Al di là del fascino che esercita questa formula canonica, occorre riconoscere che, per renderla operativa, difettano ancora, oltre che la volontà politica e le condizioni socio-economiche e culturali minimali, molti dati conoscitivi. Ancora poco si sa delle potenzialità genetiche, meno ancora di come valutare l’ambiente culturale sotto il profilo dell’adeguatezza o inadeguatezza. Non è possibile fare sperimentazioni, perchè esse potrebbero comportare dei danni eticamente riprovevoli. Occorre dunque ascrivere quella formula nel libro dei sogni? Un'alternativa c'è. Basta considerare che la storia sociale, nella sua totalità che giunge alla contemporaneità, non è altro che un’ininterrotta sperimentazione sulle possibili interazioni tra il corredo genetico umano e l’ambiente culturale prodotto dall’uomo. Si potrebbe (e si dovrebbe) dunque rivolgersi alla realtà sociale e ricavare, dalle esperienze di disagio psichico, tutti gli indizi che esse offrono riguardo a situazioni interattive disfunzionali ai fini di un dispiegamento delle potenzialità proprie di ogni individuo. Il primo passo verso la prevenzione dovrebbe essere l’istituzione di un archivio (nazionale) di casi clinici esplorati sino al livello che pone in luce la causalità interattiva tra quelle potenzialità, l’ambiente culturale e la storia sociale. Purtroppo una raccolta di dati significativi epidemiologici è più facile a dirsi che a farsi. Occorrerebbe infatti un protocollo, una scheda che la consentisse, e riducesse al minimo l'arbitrio degli osservatori partecipi, vale a dire degli operatori psichiatrici. Ma quale commissione di esperti potrebbe giungere a sanare i conflitti ideologici tuttora aspri tra organicisti e psicosociogenetisti?

Prevenire significa letteralmente intervenire in anticipo rispetto al manifestarsi di una fenomenologia clinica. La possibilità della prevenzione si fonda dunque sull’assunto implicito che le cause del disagio siano attive prima del definirsi di un quadro clinico e che esse possano essere identificate allo stato latente. Il problema che spiega la difficoltà cui si è fatto cenno è da ricondurre al disaccordo pressoché totale che ancora vige in ambito psichiatrico sulle cause del disagio. E’ evidente che se si dà un peso preminente ai fattori genetici, prevenire significa identificare i markers biochimici che segnalano la predisposizione ad ammalare e intervenire con adeguate cure farmacologiche. Se, viceversa, si dà un significato preminente ai fattori soggettivi, individuali, prevenire si traduce nell’identificazione dei soggetti a rischio attraverso la pratica a tappeto dei tests psicologici. Se si adotta un punto di vista relazionale, microsistemico, la prevenzione postula l’identificazione delle famiglie a rischio, vale a dire delle famiglie che adottano moduli comunicativi destinati, a lungo andare, a indurre la patologia di uno dei membri. Se, infine, si valorizzano causalmente i fattori sociologici, l’aspetto più importante ai fini della prevenzione è la definizione statistica delle situazioni o degli eventi di vita - tipo lutti, separazioni, perdita di lavoro, sfratti, ecc. - che significativamente precedono i fenomeni clinici. Pur trattandosi di approcci teorici radicalmente diversi al problema, nulla vieta di tentare di integrarli in un progetto di prevenzione allargato all’intero corpo sociale. Se si tenta di farlo, però, il progetto che vien fuori è però un po’ mostruoso. Non è possibile sottoporre ad esami biochimici tutta la popolazione, nè somministrare tests a tutti gli studenti, nè operare uno screening relazionale di tutte le famiglie. Quanto agli eventi di vita dotati di potenzialità psicopatologiche, le tabelle statistiche sono poco significative. Alcuni (come i lutti, le malattie, gli incidenti invalidanti) fanno parte della lotteria della vita, altri (come la disoccupazione, la perdita del posto di lavoro, gli sfratti) fanno capo all’organizzazione sociale complessiva della nostra società, sulla quale è sempre più difficile intervenire a ragione della crisi e dell’attacco in atto al Welfare State.

E’ evidente dunque che c’è un nodo teorico da sciogliere per definire e realizzare un progetto di prevenzione. Ma non lo si può sciogliere a tavolino, ideologicamente, perchè i diversi approcci presenti nel campo della psichiatria difendono ciascuno i propri assunti di fondo con un vigore un po’ cieco che impedisce una valutazione oggettiva. Cosa fare dunque? Ciò che a noi sembra opportuno è di affrontare il problema alla radice, individuando anzitutto gli ostacoli che si oppongono alla definizione di un progetto preventivo pilota.

2. Gli ostacoli alla prevenzione

Diversi fattori concorrono a mantenere una situazione di impotenza progettuale in tema di prevenzione del disagio psichico: alcuni esterni alla psichiatria, altri interni.

I fattori esterni sono sinteticamente riconducibili a:

1) la scarsa sensibilità politica al problema dovuta essenzialmente a una valutazione poco attenta non tanto dei costi esistenziali quanto socio-economici del disagio psichico. Quando i politici affrontano i problemi psichiatrici lo fanno sempre a partire da un punto di vista umanitaristico, sostanzialmente patetico, che coglie in quei problemi soprattutto l'aspetto delle sofferenze da lenire dei pazienti e delle famiglie. Sarebbe meglio che adottassero un punto di vista più concreto.

L’assistenza territoriale costa indubbiamente meno, per unità di assistito, rispetto a quella dell’ex-ospedale psichiatrico e delle case di cura private. Ma l’offerta dell’assistenza territoriale determina, per ovvie ragioni, un aumento della domanda di cura. Se a ciò si aggiunge il fatto che alcune sindromi (attacchi di panico, depressioni, disturbi del comportamento alimentare, crisi di identità adolescenziali) stanno andando incontro da alcuni anni ad un aumento statistico assoluto, non ci vuole molto a capire che i costi dell’assistenza sono destinati ad aumentare di continuo, fino ad un limite critico. Le risorse economiche che possono essere investite nell'assistenza psichiatrica, essendo limitate da vincoli di bilancio, non potranno mai essere adeguate alla domanda sociale di cura. Anzichè cercare soluzioni abborracciate, come i tickets, sarebbe opportuno investire una quota di quelle risorse in un progetto di prevenzione rivolto a incidere su quella domanda.

2) una scarsa domanda sociale di prevenzione, conseguente alla privatizzazione del disagio stesso.

Sorprendentemente, all’aumento della domanda sociale di cure non corrisponde un aumento proprozionale della domanda sociale di prevenzione. Si può dire anzi che quest’ultima domanda è praticamente inesistente. Concorrono a questo paradosso vari fattori il più importante dei quali è la tendenza alla privatizzazione, soggettiva e familiare, del disagio, dovuta essenzialmente alla vergogna sociale. Tentare di risolvere questo problema inducendo nell'opinione pubblica la convinzione che la malattia mentale è una malattia come le altre lascia il tempo che trova. Primo, perchè la gente è ancora in grado di distinguere il fegato dal cervello, e attribuisce un diverso significato alla malattia dell'uno e dell'altro. Secondo, perchè quell'assunto promuove la necessità di una diagnosi precoce, non di una prevenzione (almeno finchè la pratica dello screening genetico e biochimico rimarrà in alto mare).

Occorre prendere atto della persistenza del pregiudizio sociale riguardo a qualunque forma di disagio psichico, ed avere ben chiaro che il superamento di tale pregiudizio non può avvenire in conseguenza di una naturalizzazione del disagio stesso, bensì solo per effetto di un nuovo paradigma che gli restituisca la dignità di un'occorrenza individuale densa di significati sociali.

3) la crisi dello stato sociale, che orienta l’investimento delle risorse a favore di categorie disagiate più rappresentate.

Pur prescindendo dalla possibilità, tutt'altro che remota, che lo stato sociale venga ridotto a erogare il minimo indispensabile di assistenza, sul modello di quello statunitense, è fuor di dubbio che la redistribuzione necessaria della spesa sociale non potrà privilegiare i soggetti affetti da disagio psichico rispetto ai giovani e ai disoccupati. E' inoltre importante riconoscere che il concetto stesso di spesa sociale sta inesorabilmente cambiando, e tende a privilegiare gli investimenti produttivi rispetto a quelli assistenzialistici. Ciò significa che l'umanitarismo sta perdendo terreno rispetto alla valorizzazione del capitale umano. Criticabile per alcuni aspetti, che potrebbero comportare, per esempio, l'indifferenza dello Stato nei confronti della categoria degli handicappati fisici gravi, questo cambiamento potrebbe essere accolto a livello psichiatrico come una sfida salutare. La prevenzione infatti tende anzitutto a salvaguardare il capitale umano.

I fattori interni alla psichiatria sono sinteticamente riconducibili:

1) al dominio ormai pressochè incontrastato del modello psicopatologico multidimensionale.

Secondo tale modello, la salute mentale è espressa dalle capacità di adattamento ai problemi che, nelle diverse età della vita, l’individuo si trova ad affrontare. Da questo punto di vista, si tratta di uno status individuale, dovuto in parte a circostanze - biologiche e sociali - casualmente favorevoli, in parte ai meriti dell’individuo. Complementarmente, la malattia è una condizione di disadattamento alle richieste della vita dovuta ad una vulnerabilità costituzionale, all’adozione di moduli cognitivi e comportamentale errati e a circostanze di vita particolarmente stressanti. Il peso di questi diversi fattori varia da caso a caso, ma i sostenitori del modello multidimensionale assumono la vulnerabilità costituzionale come fattore necessario per quanto non necessariamente sufficiente: ripropongono, in altri termini, il presupposto di fondo dell'organicismo mascherandolo. Non sorprende pertanto che le loro proposte preventive, pur non prescindendo dalla necessità di qualche cambiamento sociale (in pratica, dalla riduzione dello stress della vita quotidiana), vertano essenzialmente sullo screening genetico, sulla diagnosi della predisposizione e sull’intervento farmacologico precoce, anche prima dell’insorgenza dei sintomi.

Il credito scientifico del modello multidimensionale è molto scarso. Un'analisi critica delle ricerche neurobiologiche svolte negli ultimi quindici anni, in larga parte sovvenzionate dall'industria farmaceutica, pone in luce il fatto che delle prove presunte della causalità primariamente biologica del disagio psichico neppure una è convalidabile. Tutte le ricerche adottano d'altro canto un modello epistemologico ridicolo, quello della correlazione per cui il difetto o l'eccesso di un indice biochimico associato ad una condizione di disagio viene assunto come fattore potenzialmente causale.

Il problema è che ciò che importa ai ricercatori, e alle industrie farmaceutiche che li finanziano, non è la scienza, ma l'impatto di informazioni suggestive (del tipo: scoperto il gene della depressione) sull'opinione pubblica. La propaganda neo-organicista di fatto si è avvalsa con spregiudicatezza dei mass-media a partire dagli inizi degli anni ‘80. Diffusa a livello sociale è ormai la convinzione che il disagio psichico, in tutte le sue espressioni, sia da ricondurre anzitutto a una predisposizione genetica e a disturbi biochimici, e che ciò sia stato dimostrato scientificamente.

Il modello multidimensionale si può pertanto ritenere non solo sterile (e pericoloso per quanto riguarda le prospettive legate all’ingegneria genetica) nell’ottica della prevenzione, ma addirittura nocivo, iatrogenetico. Esso infatti determina: la deresponsabilizzazione dei curanti in rapporto agli esiti del trattamento, che possono essere sempre attribuiti a fattori biologici incoercibili; l’alimentarsi nei pazienti e nelle famiglie di aspettative univocamente farmacologiche, con la messa tra parentesi di nodi problematici soggettivi, intersoggettivi e interattivi; la diffusione di una cultura incentrata sul darwinismo sociale, che assegna univocamente merito agli integrati e squalifica i disadattati; la definizione di una politica sanitaria psichiatrica sempre più vincolata al punto di vista medico e sempre più incline a delegare ai medici i problemi della salute mentale.

2) all'interesse convergente della corporazione psichiatrica e di quella psicoterapeutica, sia a livello pubblico che privato, al mantenimento di una domanda di cure elevata.

E’ superfluo soffermarsi sui fini speculativi che perseguono le case di cura private.

Non si può trascurare, invece, il ruolo svolto dai psicoterapeuti, dagli psicoanalisti e in generale dalle scienze psicodinamiche. Un ruolo indubbiamente alternativo rispetto al modello neo-organicista, e quindi meno nocivo, ma del tutto refrattario al problema della prevenzione. I motivi sono ovvii: l’estensione del mercato è una manna per una corporazione eterogenea fortemente rappresentata a livello pubblico, ma la cui aspirazione neppure tanto segreta è la pratica privata. Essa, che si sente già minacciata dalla crisi economica in corso, non può avere alcun interesse per la prevenzione, poichè questa, se efficace, si tradurrebbe in un’ulteriore contrazione della domanda.

3) alla carenza di dati tratti dalla pratica assistenziale e terapeutica atti a formulare un progetto di prevenzione.

Non si tratta di una carenza assoluta. Esistono numerosi osservatori epidemiologici che elaborano statisticamente dati inerenti il disagio psichico. Ma i dati raccolti sono piuttosto bruti sia quando l’ottica è centrata sull’ereditarietà sia quando è centrata sulle circostanze sociali e sugli eventi di vita. Difettano dati significativi, vale a dire dati ricostruiti in rapporto a microstorie soggettive e familiari che consentano di cogliere, sullo sfondo della storia sociale, momenti di particolare interesse psicodinamico e/o interattivo. Dati molteplici che consentano anche, attraverso l’analisi comparativa, di oggettivare quei momenti come causali o concausali, e di assumerli quindi come indici di prevedibilità. E’ ovvio che un progetto di prevenzione, se può prescindere da una teoria condivisa del disagio psichico, non può avviarsi senza l’individuazione di alcuni indici sui quali sia possibile un intervento concreto.