LIMITI E PROSPETTIVE DI UN PROGETTO DI PROMOZIONE DELLA SALUTE MENTALE

Per promuovere la salute mentale, occorrerebbe anzitutto mettersi d’accordo su cosa è la salute mentale stessa (e, ovviamente, la malattia). Secondo una vulgata ormai corrente, la salute mentale è espressa dalle capacità di adattamento ai problemi che, nelle diverse età della vita, l’individuo si trova ad affrontare. Da questo punto di vista, si tratta di uno status individuale, dovuto in parte a circostanze - biologiche e sociali - casualmente favorevoli, in parte ai meriti dell’individuo. Complementarmente, la malattia è una condizione di disadattamento alle richieste della vita dovuta ad una vulnerabilità costituzionale, all’adozione di moduli cognitivi e comportamentale errati e a circostanze di vita particolarmente stressanti. Il peso di questi diversi fattori varia da caso a caso, ma i sostenitori di questo approccio assumono la vulnerabilità costituzionale come fattore necessario per quanto non necessariamente sufficiente. Non sorprende pertanto che le loro proposte preventive, pur non prescindendo dalla necessità di qualche cambiamento sociale (in pratica, dalla riduzione dello stress della vita quotidiana), vertano essenzialmente sullo screening genetico, sulla diagnosi della predisposizione e sull’intervento farmacologico precoce, anche prima dell’insorgenza dei sintomi. La logica che sottende questo approccio è di tipo statistico. Preso atto del fatto che, con rare eccezioni dovute alla lotteria della vita, le condizioni di stress sono distribuite a livello sociale in modo alquanto uniforme, si ritiene che null’altro che la vulnerabilità possa spiegare il cedimento psichico.

Si può ragionevolmente ritenere questo approccio non solo sterile (e pericoloso per quanto riguarda le prospettive legate all’ingegneria genetica) nell’ottica della prevenzione, ma addirittura nocivo, iatrogenetico. Esso infatti determina: la deresponsabilizzazione dei curanti in rapporto agli esiti del trattamento, che possono essere sempre attribuiti a fattori biologici incoercibili; l’alimentarsi nei pazienti e nelle famiglie di aspettative univocamente farmacologiche, con la messa tra parentesi di nodi problematici soggettivi, intersoggettivi e interattivi; la diffusione di una cultura incentrata sul darwinismo sociale, che assegna univocamente merito agli integrati e squalifica i disadattati; la definizione di una politica sanitaria psichiatrica sempre più vincolata al punto di vista medico e sempre più incline a delegare ai medici i problemi della salute mentale. Un primo momento importante del progetto di prevenzione della salute mentale è dunque vincolato al superamento del modello multifattoriale neo-organicistico, che ha restaurato l’assolutismo del potere medico nell’ambito dell’assistenza psichiatrica, e alla riduzione dei danni iatrogenetici da esso prodotti. Non si tratta di un problema meramente teorico, di ordine scientifico, bensì di un problema socio-culturale. La propaganda neo-organicista, avallata e sostenuta dall’industria farmaceutica, si è avvalsa con spregiudicatezza dei mass-media a partire dagli inizi degli anni ‘80, ed è giunta a far presa sull’opinione pubblica. Diffusa a livello sociale è ormai la convinzione che il disagio psichico, in tutte le sue espressioni, sia da ricondurre anzitutto a una predisposizione genetica e a disturbi biochimici, e che ciò sia stato dimostrato scientificamente. Questa convinzione determina, da parte dei familiari dei pazienti, una richiesta sempre più pressante di interventi psicofarmacologici; nei pazienti, lo sviluppo sempre più frequente di un atteggiamento farmacofilico o farmacofobico; da parte degli psichiatri, una tendenza sistematica a prescrivere dosaggi terapeutici massimali e ad usare cocktails farmacologici i più disparati.

 

E’ un fatto che la psichiatria critica, nonostante sia fortemente rappresentata a livello di operatori psichiatrici, ha abbassato la guardia a a partire dai primi anni ‘80. Ciò non è avvenuto sul piano della prassi, laddove le energie profuse nelle pratiche assistenziali alternative al modello medico sono state immense, bensì a livello di organizzazione teorica di quelle pratiche e dei dati da esse fornite. La convinzione di poter sconfiggere l’avversario sul campo, a livello territoriale, è stata nefasta, poichè ha trascurato il fatto che l’assistenza psichiatrica si realizza su di uno sfondo sociale, quello appunto dell’opinione pubblica, che non è neutrale, e che quello sfondo influenza in qualche misura l’emergenza e la definizione del disagio stesso. In più, l’assistenza territoriale alternativa, impegnata nella gestione del quotidiano, ha progressivamente perduto la prospettiva storico-sociale che era sua propria negli anni ‘70, rendendosi incapace di analizzare le trasformazioni epidemiologiche e fenomenologiche del disagio psichico. La diffusione delle depressioni, degli attacchi di panico, dei disturbi del comportamento alimentare, delle crisi psicopatologiche adolescenziali è stata accettata come un fatto con cui confrontarsi, piuttosto che come un indizio di nessi tra storia sociale e esperienza individuale da approfondire e su cui far luce.

Non si può trascurare, a questo riguardo, il ruolo svolto dai psicoterapeuti, dagli psicoanalisti e in generale dalle scienze psicodinamiche. Un ruolo indubbiamente alternativo rispetto al modello neo-organicista, e quindi meno nocivo, ma del tutto refrattario al problema della prevenzione. I motivi sono ovvii: l’estensione del mercato è una manna per una corporazione eterogenea fortemente rappresentata a livello pubblico, ma la cui aspirazione neppure tanto segreta è la pratica privata. Essa, che si sente già minacciata dalla crisi economica in corso, non può avere alcun interesse per la prevenzione, poichè questa, se efficace, si tradurrebbe in un’ulteriore contrazione della domanda.

I limiti inerenti un progetto di prevenzione psichiatrica, ponendo tra parentesi il problema della sua attuabilità in rapporto alla causalità del disagio psichico, sono dunque tre: l’influenza del potere medico neo-organicista e delle industrie farmaceutiche, l’adesione dell’opinione pubblica a questo modello, e la sostanziale passività della corporazione degli psicoterapeuti. A questi limiti, interni al campo psichiatrico, vanno aggiunti quelli esterni: la sottovalutazione del problema del disagio psichico a livello politico, il difetto di una qualunque rappresentanza sociale dei disagiati, la scarsità delle risorse assistenziali sanitarie, la crisi dello Stato sociale, ecc.

Considerati questi limiti, un progetto di prevenzione non può essere articolato che su obiettivi a breve, a medio e a lungo termine.

A breve termine, occorre

1) intervenire a livello mass-mediologico, denunciando, sulla scia della metodologia critica adottata da Steven Rose e dai suoi collaboratori, l’inganno perpetrato dalla neo-psichiatria ai danni dell’opinione pubblica. Sarebbe in particolare opportuno, da parte di tutti coloro che non aderiscono al modello neo-psichiatrico, fondare una rivista a diffusione nazionale, rivolta non solo agli operatori ma anche al pubblico, incentrata su una disamina seria e aggiornata dei problemi inerenti la salute mentale e il disagio psichico.

2) trasformare la pratica assistenziale in una pratica teorica, vale a dire ricavare da essa, adottando un protocollo adeguato, dei dati clinici, psicologici, psicodinamici, interattivi, culturali, sociologici e sociostorici che possano permettere un’elaborazione atta a fare affiorare comparativamente eventi, circostanze, momenti ricorrenti di probabile significato casuale.e

3) utilizzare questi dati per individuare alcune situazioni a rischio, formulare, riguardo a queste, un progetto di prevenzione mirata e controllare nel tempo i risultati di tale progetto.

Per non lasciare nel vago il discorso, mi si consenta di fornire almeno un’ indicazione concreta tratta dalla pratica personale. Una situazione di rischio è riconducibile ai figli d’oro, vale a dire a quei figli che nel corso della loro evluzione non danno mai alcun problema, appaiono precocemente maturi e totalmente rispondenti alle aspettative degli educatori. Questa categoria è facilmente individuabile perchè coincide, con rare eccezioni, con quella degli studenti che forniscono eccellenti prestazioni scolastiche. Assumerla come una categoria a rischio si impone in virtù del fatto che, tra coloro che a livello adolescenziale e giovanile sviluppano un disagio psichico, essa appare rappresentata in una misura statistica estremamente rilevante. Intervenire a questo livello non è affatto difficile. Basterebbe identificare i figli d’oro che vivono in un regime di terrore interiore legato alla paura di deludere le aspettative degli educatori e di essere disconfermati. Un intervento su queste situazioni ridurrebbe di gran lunga le catastrofi psicopatologiche che intervengono, a partire dall’adolescenza, sotto forma di nevrosi ossessiva, di insabbiamento pre-psicotico o di repentini viraggi verso la devianza.

A medio termine, la prevenzione dovrebbe articolarsi sulla socializzazione di un patrimonio culturale che attualmente rimane proprietà privata degli esperti. Si fa riferimento al patrimonio che, a partire dall’700, si è sviluppato nell’ambito delle scienze umane e sociali (antropologia, sociologia, psicologia generale e sociale, psicoanalisi, ecc.) e nel quale oggi giorno si può inserire a pieno titolo la neurobiologia. Quali che siano le lacune e le contraddizioni intrinseche a tale patrimonio, è innegabile che esso ha profondamente rinnovato la visione che l’uomo ha di se stesso e della propria condizione. Non si vede alcun motivo che giustifichi l’esclusione di tale patrimonio dai programmi scolastici impedendo a gran parte dei cittadini di accedere ad esso.

Ci si può chiedere in quale senso questa socializzazione del sapere potrebbe rappresentare un valido strumento di prevenzione. E’ assurdo di fatto pensare che la cultura, la quale spesso viene utilizzata per razionalizzare, possa dissolvere i conflitti che si determinano nell’interazione tra i soggetti e il loro contesto. Ma non è affatto irragionevole pensare che un’attrezzatura culturale critica potrebbe depotenziare quei conflitti ed impedire che essi imbocchino tragitti psicopatologici a vicolo cieco. Mi si consenta di fare due esempi.

L’esplosione epidemiologica degli attacchi di panico attesta che, nella nostra società, un numero crescente di persone sviluppano fantasie di attacco nei confronti dei legami familiari e sociali e di fuga dal mondo. Dato che tali fantasie si attivano nei contesti più vari, è impossibile individuare una categoria sociale a rischio (per quanto la maggior incidenza a livello femminile sia un indizio non trascurabile). Ma ci si chiede in quale misura l’intervento terapeutico potrebbe risultare agevolato se le persone sapessero che la frustrazione di bisogni psicogenetici (come ad esempio la libertà individuale, il senso di giustizia, ecc.) dà luogo inconsciamente a reazioni rivendicative di rabbia che si infinitizzano, affiorando alla coscienza sotto forma di vendetta, scissione dei legami oppressivi, desiderio radicale di cambiar vita (anche a prezzo di morire o di impazzire...).

Il secondo esempio concerne lo scoglio che quasi sempre si oppone agli interventi psicoterapeutici quando è in gioco un delirio: il cosiddetto difetto di coscienza di malattia. Tale difetto viene assunto solitamente come sintomo del processo morboso. Ma, a ben vedere, esso non è null’altro che il riproporsi, a un diverso livello, del realismo ingenuo della coscienza di cui sono ‘affetti’ quasi tutti i cittadini che appartengono ad uno stesso contesto socio-culturale. Tale realismo porta a credere ciecamente ai propri occhi, alle orecchie, ecc. e ad ignorare che il mondo così come lo vediamo è in gran misura il prodotto del mondo interno. Ci si può chiedere dubitativamente se il difetto di coscienza di malattia si porrebbe negli stessi termini in cui noi lo conosciamo in un mondo nel quale i soggetti sapessero che il mondo interno ha una realtà sua propria che struttura i dati che provengono dall’esterno, ma può anche produrli (come è attestato dai sogni).

L’obiettivo a lungo termine è socio-politico. Di solito, esso si riassume nella formula per cui la migliore prevenzione del disagio mentale consiste nell’offrire a tutti coloro che vengono al mondo adeguate opportunità di sviluppo. Il limite di questa formula è che difettano molti elementi atti a definire quali siano le potenzialità individuali e quali, di conseguenza, le migliori opportunità di sviluppo. Per non rimanere abbagliati da una formula impraticabile, essa va tradotta in un linguaggio concreto. Le opportunità di sviluppo, genericamente parlando, sono le risorse affettive, economiche e culturali che una società mette a disposizione dei cittadini. La messa a disposizione di tali risorse è necessaria per quanto non sufficiente ad assicurare l’integrazione di una personalità capace di affrontare la vita, poichè una variabile non insignificante è l’uso che il soggetto ne fa. Mentre, però, quest’ultimo aspetto attiene l’ambito della responsabilità personale, la messa a disposizione è un atto di giustizia sociale. Se si considera lo stato della nostra società, non si può non rilevare che si è ben lontani dal realizzare tale giustizia. Ciò va inteso in senso non univoco. Il patrimonio affettivo, economico e culturale è distribuito a pelle di leopardo, con contraddizioni che questa metafora non permette di rappresentare. Raro è il caso di soggetti deprivati affettivamente, economicamente e culturalmente. Frequenti sono invece i casi in cui un privilegio viene pagato col difetto di un altro: per esempio, in alcune famiglie ricche la disponibilità economica coincide con carenti rapporti affettivi; in famiglie poco abbienti, la viva affettività corrisponde a scarsi strumenti di stimolazione culturale. E’ un problema politico realizzare una distribuzione equa della ricchezza sociale. E’ sommamente importante che questa ricchezza venga considerata nelle varie voci (affettività, economia, cultura) che la rendono umanamente fruibile.