Dove va la Psichiatria?


1.

In uno dei seminari del 1985, già pubblicato sul sito, risulta un bilancio critico della psichiatria all'epoca. Lo riporto integralmente perché non tutti i lettori degli articoli indulgono a leggere il materiale pubblicato nell'Archivio in quanto specialistico. Il testo può essere utile a capire quello che è avvenuto in questi quasi venti anni.

"E’ alquanto sconfortante constatare che, dopo anni di contestazione antipsichiatrica, la neopsichiatria sta rapidamente recuperando terreno sul piano del ‘prestigio’ scientifico e agli occhi dell’opinione pubblica. Ciò è dovuto più a fattori estrinseci — e cioè alla domanda che muove dal potere dominante e dal sociale, e si articola nuovamente sotto forma di aspettativa di una soluzione radicale e ‘magica’ del problema del disagio psichico -- che non a fattori intrinseci — e cioè alla validità esplicativa dei paradigmi scientifici neopsichiatrici.

Purtroppo, a livello di coscienza sociale, non sussiste alcun atteggiamento critico riguardo a questo. Né si vede la possibilità che un atteggiamento critico possa prodursi, visto che i mass-media continuano a veicolare un flusso di informazioni che danno per scontato ciò che non è : l’essere ormai vicina la neopsichiatria a clamorose scoperte sulla genesi del disagio psichico, destinate a risolvere una confusione — attestata dal numero delle teorie e delle pratiche organiciste, psicologiste e sociologiste — durata da troppo.

In gran parte si tratta di un battage pubblicitario, le cui motivazioni sono squallide persino se messe a confronto con le motivazioni della psichiatria tradizionale. Questa si arroga, infatti, il compito di difendere la società dalla pericolosità dei malati di mente. Oggi, il progetto, che assimila quello tradizionale, è divenuto più ambizioso.

Laddove non si dà pericolosità sociale di fatto, c’è una pericolosità potenziale; laddove non si dà neppure questa, c’è una pericolosità soggettiva, e cioè una condizione di sofferenza che può mettere l’individuo fuori del circuito della vita; infine, laddove non c’è pericolosità soggettiva, ci può essere pericolosità genetica, e cioè la possibilità di trasmettere ai figli un potenziale che li destinerà ad ammalare.

Controllo, cura e prevenzione appaiono gli elementi fondamentali di un progetto che mira ad assoggettare al potere neopsichiatrico una quota della popolazione valutabile intorno al 30%.

Il significato meramente speculativo di questo progetto, che si ammanta di valenze umanitaristiche, ha un’evidenza tale che non va dimostrata. Se si tiene conto che il progetto coopta anche gli interventi psicoterapici come trattamenti di sostegno, il fronte corporativo degli interessi appare smisurato.

Come far fronte a questo rinascente imperialismo neopsichiatrico è un problema politico, ideologico e culturale.

Ciò che a noi, ora, interessa sono i presupposti scientifici che accreditano il progetto, i paradigmi neopsichiatrici, al fine e di confrontarli con i paradigmi tradizionali e di analizzarne le valenze ideologiche.

Il materiale documentario è costituito dalla letteratura neopsichiatrica pubblicata nel 1985 su riviste internazionali.

Il dato in assoluto più rilevante sembra potersi ricondurre alla tendenza a confermare l’incidenza dei fattori genetici e/o biologici in tutte le manifestazioni di disagio psichico, dalle schizofrenie alle nevrosi. Questa tendenza appare però mascherata ideologicamente: per quanto riguarda le psicosi, dal tentativo di tenere conto della vita di relazione, della socialità inserendo gli eventi biografici in un modello multifattoriale o circolare; per quanto riguarda le nevrosi, viceversa, dal tentativo di invalidare i fattori psicologici e sociali a favore di quelli organici. Considereremo anzitutto questo secondo aspetto, francamente inquietante.

C’è intanto un dato nosografico significativo.

Il campo delle nevrosi sembra essersi ridotto alle forme strutturate: alle sindromi isteriche e a quelle fobico-ossessive. L’ipocondria viene ascritta ora nell’una ora nell’altra e seconda che essa si correli a dei sintomi mimetici di malattie o si configuri come paura immotivata.

Le forme nevrotiche non strutturate — la nevrosi ansiosa e quella depressiva — non vengono più riconosciute. Ansia e depressione non sono più sindromi, bensì sintomi, i quali, benché possano esprimersi nevroticamente, alludono a disfunzioni dei centri emozionali, a disfunzioni, dunque, endogene. Rientrano insomma nell'ambito dei disturbi, un termine eufemistico che fa rifermento alla loro pertinenza biologica. Ciò significa che, benché i sintomi possano riconoscere come cause attivanti le esperienze soggettive e sociali e, quindi, possano riconoscere una comprensibilità psicologica, le loro connotazioni psicopatologiche sono dovute a squilibri dei centri emozionali preesistenti sotto forma di predisposizione. Ciò è confermato dal fatto che gli articoli sull’ansia e la depressione vengono quasi costantemente rubricati come inerenti le psicosi.

C’è tuttavia, a riguardo, una distinzione piuttosto importante da fare. Nella letteratura, infatti, appare evidente un conflitto non tra scuole bensì tra contesti socioculturali. Psichiatri statunitensi, inglesi e tedeschi sembrano inclini a negare una rigida distinzione tra forme biologiche (endogene) e forme psicosociali (nevrotiche), e a proporre un modello multifattoriale o combinatorio (per cui non esisterebbero forme nevrotiche pure), mentre psichiatri scandinavi e, in minor misura, italiani (quei pochi che pubblicano su riviste internazionali) sembrano orientati a mantenere distinte le forme nevrotiche.

Quanto alle forme strutturate, i dati più importanti sono due: la crescita esponenziale delle sindromi fobico-ossessive e il sostanziale insuccesso a lungo termine degli interventi terapeutici sia con i farmaci che con tecniche comportamentiste e relazionali; tali interventi sembrano in grado di conseguire effetti di remissione sintomatica solo transitori.

 La psicoanalisi, la cui durata tende a configurarsi come interminabile, non va al di là di un maggiore adattamento soggettivo al disagio. Essa sembra ormai preda di un complesso di superiorità, smentito dal rapporto tra la profondità del ‘sapere’ cui perviene e i risultati modesti che ne derivano.

L’inefficacia a lungo termine degli interventi psicoterapeutici sembra aver prodotto tre conseguenze: la convalida dell’utilità delle psicoterapie brevi, il più spesso associate a trattamenti farmacologici che conseguono (economicamente) effetti limitati ma tangibili; la tendenza da parte della psicoanalisi a giustificare i suoi insuccessi drammatizzando la genesi delle nevrosi e riconducendola a fasi arcaiche dello sviluppo e ammettendo una qualche predisposizione biologica; il rilancio, da parte della neopsichiatria, di ipotesi organiciste.

In particolare per quanto riguarda le sindromi fobico-ossessive, il numero degli articoli — specie statunitensi - che insistono su fattori biologici sembra in continuo aumento. Non meno numerosi sono gli articoli che accreditano l’ipotesi organicista in maniera indiretta dimostrando ‘sperimentalmente’ l’infondatezza delle ipotesi psicosociologiche in rapporto alle circostanze di vita remote e attuali.

E’ fuori di dubbio, dunque, che la teoria multifattoriale, che implica una vulnerabilità geneticamente determinata, stia invadendo, sia pure con una strategia strisciante, l’ambito dei disturbi ritenuti tradizionalmente psicosociali. Rimandando per ora il discorso critico sul concetto di vulnerabilità, non ci si può esimere da una considerazione inerente le forme nevrotiche.

Non esistono statistiche sull’epidemiologia di queste forme; ma, scorrendo la letteratura, si rimane colpiti dalla prevalenza degli articoli dedicati all’agorafobia.

Viene da pensare che la paura di esporsi da soli al mondo, di affrontare situazioni relazionali anonime, senza il sostegno di una figura familiare, cominci a configurarsi come un vissuto prevalentemente nevrotico. Se si tiene conto che questa paura investe in particolare adolescenti e donne, senza peraltro risparmiare uomini adulti, l’ipotesi biologica sembra una mistificazione clamorosa. Non meno mistificata è di conseguenza l’esclusione sperimentale di fattori psicosociali traumatici remoti o attuali.

Se la paura ha le sue radici nell’esperienza microstorica, è evidente infatti che essa parla di un mondo strutturato in maniera tale da terrorizzare coloro che non sentono di avere un adeguato potere su di esso. Di certo, quella paura esprime una debolezza: ma non potrebbe essere solo un’umana debolezza che si confronta con un mondo retto dalla legge del più forte?

Tenendo conto che le ricerche in questione si svolgono presso centri universitari statunitensi di grandi città, viene da chiedersi se non ci sia un rapporto tra l’agorafobia diurna dei singoli pazienti e l’agorafobia sociale e notturna dei cittadini che si rinchiudono tra le pareti domestiche e non osano circolare per la città.

Possiamo ora dedicarci ai lavori sulle psicosi, cominciando dalla psicosi maniaco-depressiva. Un primo dato che colpisce è un ‘rinnovamento’ nosografico: la classica forma sindrome bipolare, con crisi alternativamente depressive e di eccitamento, anche se non rinnegata, viene citata molto di rado. Si preferisce parlare di depressione e mania come di due entità solo occasionalmente correlate. Il motivo di questo cambiamento risulta comprensibile all’esame della letteratura.

Il numero dei lavori dedicati alla depressione risulta infatti esorbitante. Si può pensare che ciò, in gran parte, dipenda dall’aver assimilato praticamente tutte le depressioni ad un modello multifattoriale, che postula in ogni caso una predisposizione genetica. Dato che le depressioni, almeno episodicamente, investono il 20% della popolazione adulta, mentre gli eccitamenti maniacali riguardano solo lo 0,5%, la letteratura rispecchierebbe null’altro che questo squilibrio statistico. Ma non si può escludere, di fatto, che sia avvenuto un qualche cambiamento nella realtà: più precisamente, che le dinamiche che esitano nell’eccitamento siano nel contempo più contenute dalla paura delle conseguenze sociali, virando in depressione, e, per ciò stesso, più drammatiche quando si manifestano.

Questo sembra accreditato da quanto è riportato nella letteratura: gli stati di eccitamento maniacale ‘puro’ tendono a diventare sempre più rari, e sempre più spesso si associano a sintomi deliranti. In altri termini, quando si esprimono sembrano postulare un più elevato grado di destrutturazione rispetto alle forme pure tradizionali.

Forse, basterebbe un minimo di riflessione su questi dati ad invalidare la rigidità del modello biologico, e a correlare la psicopatologia con la storia, ma, nonché riflettere, la neopsichiatria sembra invasata dai suoi pregiudizi ideologici.

Numerose ricerche sono dedicate al rapporto tra episodi distimici ed eventi biografici. La conclusione univoca è che il rapporto o non è significativo o addirittura è invertito rispetto alle ipotesi psicosociologiche, nel senso che è lo stato mentale alterato a determinare eventi che poi risultano traumatici. E’ inutile, forse, sottolineare che in qualche misura queste ricerche sono invalidate dal modo addirittura ridicolo in cui si considerano gli eventi della vita, su un piano meramente èvenementiel e non microstorico.

Ma il punto debole delle ricerche è rappresentato dal fatto che l’endogeno, di cui si parla ad ogni piè sospinto, appare sintomaticamente sottrarsi ad ogni tentativo di illustrazione scientifica.

Ciò che risulta con certezza è che, nel corso delle crisi distimiche, si realizza un qualche squilibrio che riguarda i mediatori neurochimici. Ma, nonostante un impiego di mezzi ragguardevole (e in massima parte erogati dalle industrie farmaceutiche), non sussiste alcuna prova che questi squilibri siano causa e non effetto di disturbi psichici.

Su di un piano epistemologico, l’ipotesi biologica non sembra avere alcun vantaggio sull’ipotesi psicosomatica, secondo la quale sono esigenze proprie del soggetto in una determinata fase della sue esperienza a produrre squilibri funzionali e biochimici che poi possono operare una sorta di ‘trascinamento’. Ancora una volta, si può affermare a pieno titolo che la montagna neopsichiatrica produce il topolino.

La stessa metafora può essere adottata in rapporto al mostro sacro della psichiatria, la schizofrenia. Anziché darla per scontata, è giusto procedere analiticamente. Anche a questo riguardo, i dati della letteratura, se dicono poco scientificamente, ideologicamente significano più di quanto i 'ricercatori' possono pensare.

Nel complesso, confrontandosi con la realtà di fenomeni psicologici imbrigliati da decenni entro schemi nosografici cartesiani (schizofrenia simplex, ebefrenia, catatonica, paranoide), la neopsichiatria sembra affetta da un singolare disturbo ‘dissociativo’. Da un punto di vista nosografico, essa non può negare alcuni dati di realtà evidenziatisi nel corso di questi anni. La diminuzione critica delle forme catatoniche, l’insorgenza a livello giovanile sempre più precoce con una fenomenologia spesso aspecifica di tipo pseudonevrotico (casi border-line) e l’aumento considerevole di episodi critici di tipo schizofrenico oltre la soglia, tradizionalmente fatidica, dei 40 anni. L’evoluzione della malattia, poi, rispetta gli schemi nosografici tradizionali in un numero statisticamente scarso di casi: esistono forme che abortiscono dopo un singolo episodio anche grave, forme che rapidamente cronicizzano insensibili ad ogni intervento terapeutico, forme che rimangono latenti per molti anni, forme miste (schizoaffettive), forme — addirittura- inapparenti socialmente, ecc. Tutti questi dati, nuovi e sorprendenti per il semplice fatto che l’osservatorio non è più solo quello manicomiale, sembrano per un verso rendere quasi imbarazzante e ‘ingombrante’ la definizione di schizofrenia.

Tant’è che da più parti si propone di farla rientrare nell’ambito più vasto delle psicosi a lunga evoluzione mantenendo degli schemi tradizionali solo due elementi: la natura di malattia e il lungo decorso, per un altro, sollecitando l’adozione di quadri esplicativi meno rigidi rispetto al passato.

E’ questa esigenza che ha promosso l’adozione, e, ormai, l’indiscussa prevalenza del modello multifattoriale e/o circolare, che ammettendo indefinite possibilità di interazione tra fattori biologici e circostanze psicosociali, azzera il paradosso di una malattia dalla fenomenologia e dalla evoluzione multiforme.

Una citazione vale per tutte:

"L’interazione complessa tra diversi fattori biologici e psicosociali fornisce la migliore spiegazione dell’enorme multiformità e della quasi incredibile varietà dell’evoluzione a lungo termine".

Ma questo sforzo di adattamento degli schemi alla realtà rivela la sua matrice ideologica nel fatto che esso concerne solo l’evoluzione e non la natura dell’evento, che è e rimane una malattia biologica, anzi, più crudamente, una malattia cerebrale.

Si giunge, così, al paradosso di sostenere che la psicosi a lungo termine è, nel suo esordio, prevalentemente biologica e nel suo decorso prevalentemente psicosociale!

Rimane comunque il problema di spiegare l’innesco della malattia: a questo punto, la neopsichiatria tira fuori dal cilindro il coniglio (metafora, come si vedrà, da prendere alla lettera). Si ammette, infatti, che lo scatenamento della sindrome dia dovuto all’azione di fattori biologici e, in misura minore, ambientali su di un nucleo premorboso, la "vulnerabilità", che, per effetto di un’inadeguata capacità di elaborare informazioni complesse, si esprime in una scarsa tolleranza agli stress emozionali e cognitivi. L’affiorare della psicosi viene dunque ricondotto ad una predisposizione genetica, vale a dire ad una debolezza costituzionale che rende difficile affrontare la realtà e dare ad essa il giusto senso. Paradossalmente, lo sforzo di aggiustamento degli schemi nosografici si risolve nel riabilitare eufemisticamente il fantasma della "demenza precoce", proiettandolo laddove neppure Kraepelin, ingenuamente vincolato al concetto di normalità premorbosa, avrebbe osato proiettarlo. In altri termini, gli schizofrenici diventerebbero tali perché sarebbero, fin dalla nascita, dei "conigli".

E’ vano consultare gli articoli per ricavarne delle definizioni — di "vulnerabilita" e di "stress" — meno generiche: i concetti coincidono né più né meno col senso comune. Gli ‘stress’ sono le normali difficoltà che si incontrano nelle fasi evolutive della personalità; vulnerabili, di conseguenza, sono coloro che non riescono a tollerale e a dare ad esse senso.

In conseguenza di quest'approccio grossolano, non sorprende che tutte le ricerche — tranne, ovviamente, quelle sul decorso, che tengono conto delle circostanze ambientali ma in quanto prodotto, in massima parte, della malattia — siano rivolte a tradurre la ‘vulnerabilità’ in termini biochimici, istochimici e neutropatologici. Non ha alcun interesse, per l’economia del nostro discorso, soffermarsi su questi dati, che sono, nel complesso, insignificanti. Nulla può rendere l’inconcludenza delle ricerche biologiche meglio dei patetici tentativi di applicare alla schizofrenia le ipotesi cui la medicina fa riferimento per risolvere il mistero di malattie ad etiologia ignota (come, per es, il cancro): l’ipotesi virale e quella autoimmune!

In breve, ciò significa che la neopsichiatria procede letteralmente alla cieca.

Al di là di quanto si è detto, appare importante svolgere ulteriori considerazioni critiche, soprattutto per quanto riguarda la progettualità latente della neopsichiatria. Un dato, infatti, che non risulta in letteratura, ma che sarebbe ingenuo ignorare, è la sostanziale impotenza di una scienza dalle ambizioni sconfinate ma i cui strumenti appaiono sempre meno adeguati a realizzare quelle ambizioni. La persistente assimilazione della psichiatria all’ambito medico continua, infatti, ad alimentare il progetto di una soluzione finale del problema psichiatrico.

La lenta ma irreversibile perdita del prestigio delle istituzioni manicomiali fa sì che all’ambizione della psichiatria si sommi un’aspettativa crescente del potere e dell’opinione pubblica. Questo dato di cose è reso paradossale dal fatto che gli strumenti d'intervento terapeutico non sembrano affatto potenziarsi, bensì ristagnare.

Dal punto di vista psicofarmacologico, il prontuario appare sostanzialmente fermo da parecchi anni. Eccezion fatta per alcuni antidepressivi nuovi, i cui vantaggi si riducono nel minor numero di effetti collaterali prodotti, gli psicofarmaci che continuano ad essere utilizzati sono quelli ormai ‘storici’: fenotiazine (Largactil, ecc.) butirrofenoni (Serenase, ecc.); triciclici (Anafranil, ecc.); benzodiazepine (Valium, ecc.).

L’approntamento di fenotiazine ad effetto prolungato (Moditen, ecc.) e l’uso a tappeto del Litio sono valsi solo a mimare un potere profilattico smentito (nonostante le mistificazioni) dalle statistiche. Il tentativo di riabilitare l’elettroshok e la psicochirurgia appare addirittura patetico, oltre che drammatico e ‘demenziale’.

All’orizzonte delle ricerche, inoltre, non si profila nulla di nuovo in assoluto.

E’ a questa sostanziale impotenza che va correlata la drammatizzazione di cui abbiamo cercato di fornire le prove. Ma non nel senso che essa serva a giustificare l’impotenza — verità inconfutabile per quanto parziale -, quanto nel senso di preparare la via ad una soluzione finale di cui nessuno parla, ma che è nell’aria.

L’insistenza con cui una predisposizione genetica viene ammessa praticamente per ogni forma di disagio psichico è un indizio di un progetto che si sta delineando.

Si sono avviati ormai da alcuni anni negli Stati Uniti delle ricerche il cui scopo è quello di diagnosticare la predisposizione genetica. Per quanto agghiacciante, è quasi inevitabile pensare che sperimentazioni di prevenzione chimica aprano la via al ricorso a metodi di ingegneria genetica, che si prevede di utilizzare quando la tecnica sia sufficientemente matura. Chi obiettasse che questa tragica previsione si esaurisce in un processo alle intenzioni, non dovrebbe far altro che interpretare in maniera diversa i dati offerti dalla letteratura.

E’, comunque, nostra convinzione che, pur di non rinunciare ai suoi paradigmi, che la realtà clinica sta mandando in crisi, la neopsichiatria, come è avvenuto in passato per la psichiatria manicomiale, non esiterà ad imboccare il vicolo cieco della violenza sul corredo genetico, rivelando così il suo vero volto: quello di una scienza decisa a provvedere ad una selezione naturale degli uomini che l’evoluzione ha malauguratamente trascurato, lasciando sopravvivere ceppi di esseri umani vulnerabili.

La conclusione di questa rassegna critica — orientata da presupposti ideologici tanto evidenti da non dover essere esplicitati — è, in breve, che il lupo perde il pelo ma non il vizio.

La neopsichiatria, nonostante tenti di confermare il suo statuto di scienza che evolve, aggiornandosi e aprendo i suoi paradigmi a istanze nuove, rimane vincolata al progetto da cui essa è nata: la soluzione finale del problema della malattia mentale.

Questo progetto, nonostante un lento abbandono della logica segregazionista manicomiale, appare oggi, per gli strumenti nuovi che può adottare, più minaccioso che mai. In questo senso — un senso definito, che non dovrebbe prestarsi ad alcun equivoco — è lecito affermare che chi adotta una concezione antropologica incentrata sulla pari dignità degli esseri umani, non può non definire il proprio atteggiamento che in termini antipsichiatrici. Da questo punto di vista, il riconoscimento (ovvio) dei fatti psicopatologici non ha nulla a che vedere con la critica di una scienza che, perseguendo i suoi obiettivi, apparentemente umanitaristici ma in realtà terribilmente riduzionisti e megalomanici, di fatto perseguita gli uomini.

Un’obiezione alla quale vale la pena di rispondere anticipatamente concerne il carattere selettivo della rassegna, e cioè il fatto che essa sopravvaluta tutto ciò che, nel campo psichiatrico, si muove prescindendo da presupposti biologici, e cioè, in pratica, gli orientamenti teorico-pratici psicosociali.

A questi orientamenti sarà opportuno dedicare ulteriormente una riflessione critica. Per ora, basterà dire che essi, nel complesso, sembrano aver perduto ogni capacità di opposizione nei confronti del potere neopsichiatrico: anzi, strumentalmente, e cioè a fini speculativi, accettano il ruolo subordinato — di interventi di sostegno non risolutivi — che ad essi è stato ufficialmente riconosciuto. Accettano cioè di spartirsi la torta, nella certezza che questo diritto sarà riconosciuto anche nel futuro.

Ancora una volta — e per concludere — non può non sorprendere l’effetto dissociativo che la schizofrenia induce negli esperti che ne parlano."

2.

A distanza di venti anni, il trend neopsichiatrico segnalato nel 1985 si è radicalizzato, riuscendo nell'intento di catturare e irretire l'opinione pubblica. Il radicalismo neopsichiatrico, che è giunto ormai ad un atteggiamento derisorio nei confronti di qualunque modello alternativo psicodinamico, psicosomatico e psicosociologico, si fonda su tre presupposti correlati tra loro: l'enfatizzazione delle scoperte neurobiologiche, un'organizzazione nosografica sempre più organicistica e un orientamento terapeutico incentrato sui farmaci, che assegna alla psicoterapia e alla riabilitazione una funzione di mero sostegno.

Sul piano neurobiologico, di fatto, non è avvenuta alcuna scoperta fondamentale. Né per i disturbi ansiosi né per quelli dell'umore né per la schizofrenia è stato possibile identificare una costellazione genetica predisponente o causale specifica e un meccanismo biochimico patogenetico incontrovertibile. Allorché i neopsichiatri affermano pubblicamente che è stata dimostrata la causa organica dell'ansia o della depressione o del delirio, mentono (alcuni - i baroni - in mala fede, altri confondendo un insieme di indizi come prova). La documentazione neuroradiologica del malfunzionamento cerebrale è inoppugnabile ed efficace propagandisticamente, ma essa non dimostra alcunché. E' ovvio che uno stato di sofferenza psichica non può non avere un correlato funzionale a livello cerebrale. Solo uno spiritualista fuori del tempo può pensare che la mente ha una sua dimensione autonoma rispetto al cervello. Rimane però da dimostrare che il malfunzionamento cerebrale, in gran parte riconducibile ad un'iperattivazione dei centri emozionali profondi rispetto alla corteccia, sia la causa e non piuttosto l'effetto della sofferenza, e che tra l'uno e l'altra non si dia un'interazione reciproca il cui primum movens potrebbe essere di natura psicodinamica.

In ordine al principio (falso) per cui la causalità organica della malattia mentale sarebbe stata univocamente dimostrata, la nosografia ha in pratica eliminata il confine, perdurante dall'Ottocento, tra nevrosi e psicosi. Caduti in disuso questi termini, che implicavano rispettivamente una causalità prevalentemente psicogena o prevalentemente biologica, essi sono stati soppiantati dal riferimento al disturbo. Questa nuova terminologia è sottilmente ambigua. Nell'accezione comune, disturbo sta per una malfunzionamento di un apparato: è insomma un termine descrittivo. Nell'accezione neopsichiatrica, esso viceversa fa riferimento ad una malattia cerebrale di natura genetica e biochimica. L'ambiguità del termine è molto utile sotto il profilo comunicativo. Esso permette al neopsichiatra di dire al paziente che egli è affetto da un disturbo di ansia o dell'umore non evocando alcuna resistenza. Egli infatti intende dire che il paziente ha un cervello cronicamente malato, ma questi recepisce il messaggio nell'accezione comune che coincide con la sua esperienza vissuta. Le resistenze di fatto intervengono solo quando, in condizioni particolarmente gravi, il neopsichiatra fa riferimento ad un disturbo dissociativo. Si tratta di un eufemismo per non pronunciare il termine schizofrenia, ma esso viene colto immediatamente come tale e rifiutato. Invano: l'ostinazione con cui lo schizofrenico bega di essere pazzo è infatti considerato un sintomo patognomonico della malattia mentale grave.

La gabbia ideologica neopsichiatrica, che può essere facilmente smantellata in tutti i suoi aspetti, ha una sola arma a suo favore: la scoperta di nuovi psicofarmaci la cui eccezionale incidenza terapeutica confermerebbe l'assunto della natura biologica della malattia mentale. Anche questa scoperta va tarata e criticata. Essa riguarda gli antidepressivi e i neurolettici di seconda generazione. Dopo l'entusiasmo seguito al loro lancio pubblicitario sul mercato, i risultati, vagliati con un metodo scientifico, sono molto meno rilevanti delle aspettative e delle promesse.

Per quanto riguarda gli antidepressivi, l'80% di casi risolti che caratterizzava le prime statistiche è venuto rapidamente meno. Il 25% delle depressioni non risponde agli psicofarmaci. Il 50% è caratterizzato da un miglioramento che non incide su di un nucleo psicopatologico che deteriora la qualità della vita.

Per quanto concerne i nuovi neurolettici, la loro efficacia terapeutica non è superiore rispetto a quelli tradizionali. E' fuor di dubbio che gli effetti collaterali sono globalmente minori. Uno di essi, però, vale a dire l'aumento ponderale sembra nettamente maggiore. In prospettiva, poi, la possibilità che essi diano, dopo anni, effetti discinetici è tutt'altro che remota.

La seconda rivoluzione psicofarmacologica, insomma, non ha mantenuto le promesse con cui è stata inaugurata.

Che significa tutto questo? Né più né meno che la neopsichiatra è in un vicolo cieco dal quale potrebbe uscire solo se accettasse di mettere in discussione i presupposti biologici su cui si fonda. Ciò comporterebbe però una concezione funzionalistica della mente e un'integrazione tra la neurobiologia, la psicopatologia e la psicodinamica che non sembrano minimamente profilarsi all'orizzonte.

Settembre 2004