Autobiografia intellettuale

Soggettività e storia sociale. Un itinerario pratico-teorico

Ad eccezione della linguistica e, per alcuni aspetti, della semiotica, i diversi saperi che hanno come oggetto l’uomo e la società non hanno sinora raggiunto lo statuto scientifico cui aspirano. Sempre con maggiore insistenza, nel corso degli ultimi decenni, affascinate dai risultati e dal prestigio delle scienze naturali, esse tentano di accreditarsi in tale senso. Nascono, dalle costole di vecchie facoltà universitarie, com’è già accaduto anni fa per Sociologia, facoltà nuove (Psicologia, Scienze dell’educazione, Scienze dell’informazione) orientate a tagliare i ponti con una tradizione che le inglobava nella vasta area umanistica. In questo fenomeno si potrebbe leggere un progresso sia nel senso di uno svecchiamento culturale sia in quello dell’accettazione di una metodologia più rigorosa. Elementi di progresso ce ne sono, ma inquinati da idiosincrasie e da velleità.

L’idiosincrasia riguarda in misura rilevante le discipline umanistiche (soprattutto la storia e la filosofia) che tradizionalmente hanno avocato a sé lo studio dell’uomo e dei fatti umani, ostacolando pregiudizialmente la nascita di nuovi saperi (come è accaduto per la sociologia nell’700 e per la psicologia nel ‘900). Nulla, se non un estremo bisogno di differenziazione, giustifica l'assenza, nel piano di studi della Facoltà di psicologia, di insegnamenti inerenti la storia e la filosofia.

Le velleità concernono il fatto di ridurre la scienza al metodo sperimentale, e di ritenere di conseguenza che una disciplina, quale che ne sia l’oggetto, può fregiarsi del titolo di scienza se applica ad esso tale metodo. Tale velleità risulta paradossale, e, in taluni casi francamente ridicola, tenendo conto del fatto che l’epistemologia più recente è giunta a criticare quel metodo anche in rapporto alle scienze naturali e che la teoria dei sistemi complessi (cui appartengono indubbiamente i fatti umani sia sociali che individuali) ne postula ormai esplicitamente il superamento.

Gelose dello statuto che si sono arbitrariamente date, le "scienze" umane e sociali esibiscono poi, ciascuna per conto proprio, una vocazione imperialistica che le rende poco o punto comunicative tra di loro, fino all’estremo dell’impermeabilità, e le orienta inesorabilmente verso il riduzionismo.

Di questo processo di riorganizzazione dei saperi sull’uomo, che per ovvie ragioni (l’identità del soggetto indagatore e dell’oggetto indagato, l’appartenenza di entrambi ad un determinato contesto storico) non potrà mai raggiungere il rigore delle scienze naturali, colpisce soprattutto la frattura intervenuta tra la Psicologia, la Storia e la Filosofia. Se si considera il fatto che questa frattura si somma a quella più antica tra la Psichiatria, che ha inteso e intende convalidarsi come branca specialistica della medicina, e i saperi umanistici, non sorprende che, nell’ambito della pratica terapeutica rivolta a rimediare ai disagi psicologici, ci si confronti di volta in volta con il riduzionismo biologico e/o con quello psicologico.

Rimediare a quella frattura non dovrebbe essere difficile, sulla carta. I fatti parlano chiaro. Tutti gli uomini - si può affermare parafransando Gramsci - sono di necessità storici, filosofi e psicologi, in quanto costretti a memorizzare le loro vicende e a collocarle nel flusso della storia, a interpretare e dare senso alla loro personale esperienza, e a dotarsi di una visione del mondo che abbia un minimo di coerenza. Queste esigenze, emozionali e cognitive nel contempo, essenziali perché un soggetto acquisisca consapevolezza della sua identità e prenda posizione nel mondo, sono peraltro terribilmente complesse, e per realizzarsi richiedono un apporto sostanziale: quello, mediato dalle generazioni precedenti, della cultura e della storia sociale, vale a dire delle tradizioni, pregiudizi, convenzioni, consuetudini, valori, codici comportamentali, modi di sentire e di pensare propri del contesto di appartenenza.

Nella realtà, la frattura persiste per due motivi sostanziali. Per un verso le scienze psicologiche, ossessionate dai livelli privati dell’esperienza soggettiva (i vissuti, le interazioni, gli affetti), ritengono che tali livelli godano di una notevole autonomia rispetto al sociale (inteso come sfondo indifferenziato su cui essi si definiscono) e alla storia. Mettendo tra parentesi l’estremismo di alcune correnti psicoanalitiche, come quella kleiniana o bioniana, che riducono l’evoluzione della personalità ad un gioco di fantasmi soggettivi e intersoggettivi del tutto avulso dalla realtà sociale, basta considerare che anche i cognitivisti, dedicandosi a ricostruire i modi in cui un soggetto rappresenta se stesso, la relazione con gli altri, il mondo, sembrano del tutto indifferenti al fatto che l’attività cognitiva individuale implica dei presupposti (spesso inconsci) di ordine ideologico e filosofico che il soggetto attinge dalla visione del mondo propria della cultura di cui partecipa.

Per un altro verso, i diversi saperi che hanno come oggetto l’uomo e i fatti umani comunicano poco e male, e manifestano tutti, anziché una tendenza multidisciplinare, una marcata diffidenza reciproca vincolata alla paura dell’inquinamento metodologico. Il contenzioso tra sociologia e psicologia dura dall’epoca di Comte, che per primo ha contestato la possibilità di capire i fatti sociali partendo dall’individuo e considerando la società come una somma di individui. Storia e psicologia non trovano alcun terreno d’intesa poiché l’una contesta l’anacronismo dell’altra che tenderebbe ad estendere agli uomini d’altri tempi le leggi che ricava dall’osservazione dei contemporanei. La sociologia tende a confinare la storia nell’ambito di un sapere sempre precariamente documentato e interpretato in maniera opinabile, la storia stigmatizza l’uso, da parte della sociologia, di questionari non sempre sorretti da una problematica solida. L’antropologia culturale rivendica il diritto di applicare il suo metodo allo studio dell’uomo attuale, ma viene contestata dalla psicologia e dalla sociologia in nome del fatto che tale metodo non sembra adeguato alla complessità delle società attuali. Persino saperi che hanno lo stesso oggetto, come la pedagogia e la psicologia evolutiva, non riescono a trovare un linguaggio comune. Il tentativo di superare l’impasse creando ex-novo delle scienze composite, interdisciplinari (storia sociale, antropologia storica, psicologia sociale, ecc.) non sembra per ora avere raggiunto alcun risultato.

Per quanto riguarda l’ambito del disagio psicologico, l’incidenza del riduzionismo è nefasta. Il riduzionismo biologico nega addirittura che il disagio psichico abbia un qualche rapporto causale con l’esperienza soggettiva e sociale. Il riduzionismo psicologico — psicoanalitico, relazionale, cognitivista, ecc. — ritiene che esso possa essere interpretato e spiegato tenendo conto solo dell’esperienza immediata, vissuta del soggetto, della sua storia interiore, delle interazioni familiari, delle dinamiche inconsce e dei moduli cognitivi con i quali esso le dà senso. Il problema è che questi livelli sono tutt’al più comprensivi non esplicativi: utili per stabilire un rapporto di aiuto tra soggetto e terapeuta, ma raramente incisivi sulla struttura conflittuale che sottende il disagio, la quale comporta quasi sempre nodi problematici di ordine filosofico (soggettivo/oggettivo, istintualità/razionalità, caso/necessità, giustizia/ingiustizia, libertà/costrizione, dipendenza/indipendenza, colpa/innocenza, ecc.) il cui ordito rinvia immediatamente alla cultura di appartenenza.

In un ambito, quale quello del disagio psichico, che mette in gioco, talora radicalmente, il destino di singole persone e di gruppi familiari, gli operatori dovrebbero avvertire come drammatico lo scarto tra le competenze di cui dispongono e la realtà umana che, anche a livello esperienziale, è intessuta di una trama complessa di fattori ideologici, storici, filosofici. Posto che questa consapevolezza venga raggiunta e acquisita, rimane il problema di capire cosa farne. Sormontare gli schemi legati agli studi universitari o delle scuole di formazione, inesorabilmente riduzionistici, e acquisire una nuova ottica che li integri in un quadro più aderente alla realtà non è semplice. Più che un bisogno culturale, occorre ritenere tale superamento un’esigenza imposta dalla pratica. Solo su questa base, infatti, sarà possibile recuperare una tensione critica e interdisciplinare che, dagli anni ’80 in poi, si è progressivamente affievolita.

Il mio tragitto culturale e professionale, in virtù di particolari congiunture storiche, è stato segnato da tale tensione. Mi sembra opportuno pertanto ricostruirlo, depurandolo di ciò che non è pertinente ai fini del discorso. La mia formazione psichiatrica e psicoterapeutica è avvenuta a partire dalla seconda metà degli anni ‘60 e si è intrecciata con il clima del ‘68 e la cultura degli anni ‘70. Essa si è, peraltro, innestata su di un tessuto culturale presistente. All’età di 18 anni risale la mia adesione al marxismo, un'adesione critica contrassegnata dal contrasto tra la suggestione della lettura delle opere di Marx, di Engels, di Labriola, di Modolfo, di Gramsci, tutte ispirate da un appassionato umanesimo, e la realtà del socialismo reale che si rifletteva anche nel PCI sotto forma di irrigidimento ideologico e burocraticismo. L’incontro con il marxismo fu decisivo nell’orientarmi a studiare, nonostante l’impegno della facoltà di medicina, la storia, la filosofia, l’economia, la sociologia, l’antropologia culturale.

Il contrasto tra la formazione specialistica (training personale compreso) e la suggestione dei nuovi orizzonti, culturali e politici, che si andavano dischiudendo non poteva essere maggiore. La cultura psichiatrica era ferma al paradigma organicistico. Le uniche aperture a qualcosa di nuovo erano rappresentate, nella letteratura specialistica, dalla Psicopatologia generale di Jaspers e dal Trattato di Psichiatria di Bleuler, l’unico che recepisse la suggestione del pensiero psicodinamico. La psicoanalisi, benché contestata, aveva assunto un grande prestigio sia a livello di cultura che di opinione pubblica, ma rimaneva vincolata a un determinismo psicologico rigidissimo e contesa tra l’istintualismo freudiano e lo spiritualismo junghiano. Ci si sorprendeva, tra amici accomunati dall’essere marxisti e dalla scelta di diventare psichiatri, nel leggere Freud e Jung, del rilievo minimale che essi assegnavano alla storicità dell’esperienza umana, e della loro propensione a parlare della natura umana e delle dinamiche psicologiche in termini universali. Un correttivo, all’interno della psicoanalisi, era legato alle opere di Adler e di Reich, nelle quali si intuiva un qualche sforzo di sormontare il soggettivismo freudiano, e alla scuola culturalista, rappresentata soprattutto da Fromm, tramite il quale si accedeva alle opere della scuola di Francoforte dense di suggestioni nel loro intento di tenere conto dei contributi della psicoanalisi in un contesto discorsivo critico sociologico e filosofico. Ciò che affascinava della psicoanalisi era il suo avere messo in gioco lo statuto della coscienza umana e il suo ingenuo realismo. Ma si intuiva che a tale contestazione mancava qualcosa di essenziale: i nessi tra soggettività e storicità dell’esperienza umana.

Il panorama era dunque piuttosto buio quando scoppiò negli anni ‘70 la lotta antistituzionale. La cultura marxista comportò un attacco frontale alla psicologia, alla psicanalisi e alla psichiatria definite univocamente come scienze borghesi deputate a gestire la devianza, ad indurre l’adattamento normativo e a mantenere l’uomo in uno stato di alienazione. Se ci si chiede, a posteriori quale fosse il caposaldo di tale attacco non sussitono dubbi nell’identificarlo nella concezione borghese dell’individuo come causa sui, responsabile del suo destino e meritevole del suo status (integrato o emarginato). L’attacco si articolò a partire da un recupero dell’antropologia marxiana incentrata sulla definizione dell’uomo come un prodotto sociale e della coscienza come insieme dei rapporti sociali. Anziché essere intese come un programma di ricerca, tali definizioni, che oggi appaiono un nodo complesso di problemi, furono assunte come verità chiare e distinte. Ci si impegnò di conseguenza a dimostrare che la soggettività individuale è null’altro che falsa coscienza determinata per un verso dalle condizioni socio-economiche e per un altro dalle ideologie intese come mere mistificazioni. Non mancarono tentativi di articolare discorsi più complessi come, per esempio, il corposo libro di Ferruccio Rossi-Landi sull’Ideologia, ma caddero nel vuoto perché il clima culturale tendeva verso gli schematismi. In conseguenza di ciò all’eccesso della concezione borghese dell’individuo come ente libero e responsabile del suo destino (nel bene e nel male) si sostituì in breve tempo l’eccesso opposto della concezione della coscienza manipolata e alienata, dell’uomo come automa o burattino. L’uomo a una dimensione di Marcuse, dietro il quale c’era una solida e complessa cultura filosofica, venne male interpretato e assunto come una sorta di manifesto dell’alienazione contemporanea.

Nonostante questi eccessi, il problema dello statuto della coscienza umana e della soggettività si era posto in pochi decenni due volte, e in entrambi i casi si era trattato di una critica radicale al senso comune, all’ingenuo realismo della coscienza. Rivisitare la psicoanalisi alla luce del marxismo e il marxismo alla luce della psicoanalisi non ebbe effetti immediati. La Teoria della Ragion dialettica di Sartre, che tentò un’integrazione, oltre ad essere di difficile lettura, risultò sostanzialmente un progetto fallimentare, anche se non privo di suggestioni. Nonostante tutto però il germe per una nuova concezione della soggettività era posto.

In molti operatori psichiatrici alternativi, impegnati nella deistituzionalizzazione, e quindi in un’opera rivolta a restituire dignità e senso storico alle esperienze degli internati, maturò la convinzione di dovere associare all’impegno pratico un impegno teorico. Si intuiva infatti che, per quanto l’attacco alle istituzioni e al senso comune fosse stato radicale, o forse proprio per questo, c’era da aspettarsi una restaurazione ideologica. C’era anche, almeno in alcuni, una viva consapevolezza che gli strumenti teorici adottati per smantellare l’istituzione manicomiale non erano adeguati ad affrontare le problematiche del disagio psichico sul territorio, nel vivo del corpo sociale. La realtà istituzionale era oggettiva, tangibile, scandalosa. Si poteva pensare che essa fosse espressione di logiche sistemiche rappresentate anche a livello di socialità quotidiana, di famiglia, di psicologia individuale. Ma, se le cose stavano così (e s’intuiva che stavano così), si trattava di logiche molto più insidiose di quelle manicomiali, intangibili, sommerse, inconsce. Da più parti e ripetutamente si sottolineò l’esigenza di mettere a fuoco i nessi interattivi e reciproci tra soggettività, vita quotidiana e contesto sociostorico. Tali intenti urtarono contro un ostacolo univoco: il difetto di competenze interdisciplinari. L’autonomia dei diversi saperi inerenti l’uomo e la società e i linguaggi specialistici, poco accessibili ai non addetti ai lavori, frustrarono anche gli operatori culturalmente più impegnati. Il Manuale critico di psichiatria di Jervis rappresentò, all’epoca, il tentativo più ambizioso su questo terreno inesplorato. Ma esso risultava tanto efficace nel denunciare la psichiatria tradizionale quanto poco incisivo nel fornire un nuovo paradigma psicopatologico che andasse al di là del rivendicare la significatività esperienziale del disagio psichico.

La pratica psicoterapeutica con giovani e adulti, arricchita dall’esperienza manicomiale, che portai avanti tra mille difficoltà, in un ambiente aspramente ostile (quello romano), sorretto dalla collaborazione di un gruppo di operatori con i quali si stabilì un rapporto di intensa condivisione ideologica e di profonda amicizia, destinata a durare negli anni, mi offriva di continuo suggestioni per andare avanti in un lavoro di ricerca. Agli inizi degli anni ’80, dopo avere dato le dimissioni dall’ospedale psichiatrico, conscio che, con la morte di Franco Basaglia si sarebbe avviata la restaurazione e intuendo nell’aria un clima culturale che rendeva necessaria la teorizzazione, avviai, col gruppo di operatori miei amici e con pochi altri che si aggregarono, un lavoro di ricerca e di formazione destinato a durare nove anni e ad approdare a degli esiti che, a posteriori, sarebbero risultati tali da superare le aspettative originarie.

All’inizio, in conseguenza della pratica sia pubblica che privata, mi era chiaro solo che i conflitti psicodinamici riconoscevano una struttura costante e ripetitiva caratterizzata dall’opposizione irriducibile tra richiami al rispetto di valori sociali interiorizzati coercitivi e una rivendicazione di libertà individuale spesso estremizzata. Le diverse configurazioni psicodinamiche, espresse dai sintomi, dai vissuti e dai comportamenti, sembravano, ai miei occhi, diversificarsi solo per l’intensità del conflitto, per i valori in questione e per l’alleanza (quasi sempre inconscia) dell’io con una delle polarità in conflitto. Rimeditai il tentativo di Freud di un approccio strutturale alla personalità, distinguendo le tre funzioni dell'Es, dell'Io e del Super-io e lo trovai preciso per un verso e inadeguato per un altro. Freud aveva colto con precisione il fatto che, in qualunque conflitto psicodinamico, una parte della mente, che egli definì Super-io, parla, sanziona, colpevolizza e punisce il soggetto in nome della società. Aveva lucidamente colto, insomma, che in ogni conflitto è in gioco un’istanza sociale interiorizzata. Era arrivato anche a capire che il Super-io soggettivo si edifica a partire dall’interazione con il Super-io inconscio dei genitori che veicola valori, tradizioni, modi di sentire e di pensare appartenenti alla società di cui essi fanno parte. Ciononostante, era rimasto fermo al fatto che il Super-io si origina sulla base della paura e della soggezione sociale, e che esso rappresenta dunque un argine imposto alle pulsioni dall’angoscia dell’isolamento e dell’esclusione. In conseguenza di questa interpretazione, l’altra polarità del conflitto non poteva che essere ricondotta univocamente all’ Es, alla pressione delle pulsioni istintuali ribelli ai valori e alle norme sociali, all’anarchia costitutiva della natura umana.

L’intuizione strutturale di Freud appariva inficiata insomma da una concezione pregiudiziale della natura umana, alla quale egli negava ogni predisposizione alla socialità. Ma come è possibile - mi chiedevo sulla scorta dell’antropologia marxista e della lettura di Darwin e dei primatologi - che un animale sociale, che, presumibilmente ha ereditato gran parte del patrimonio genetico dalle scimmie, difetti di un bisogno intrinseco di socialità? Come potrebbe mai realizzarsi l’interiorizzazione dei valori culturali prescindendo da tale bisogno e riconducendola solo alla paura? Come accordare, infine, la socializzazione sulla base dell’angoscia dell’esclusione con il fatto che l’evoluzione dell’infante avviene in un contesto caratterizzato dall’affettività?

L’ipotesi di un bisogno di socialità intrinseco alla natura umana, programmato geneticamente, si imponeva. Definire questo bisogno in termini di appartenenza/integrazione sociale sembrava lecito in virtù del fatto che esso promuove dapprima l’acculturazione, l’acquisizione di un’identità culturale che rende il soggetto partecipe di un determinato contesto sociale, e successivamente lo orienta ad assumere ruoli sociali e ad agire comportamenti conformi alla normalità dominante propria del suo contesto. Il culturalismo implicito in questa concezione poteva facilmente essere risolto assumendo gli affetti come una potente strategia adottata dalla natura per rendere l’essere umano educabile, aperto alle influenze del gruppo. L’importanza assegnata dalla psicoanalisi agli affetti poteva essere confermata tenendo conto però che tale valore, fedele al vissuto dei soggetti, non sembrava incompatibile col fatto che essi avessero un significato funzionale, finalizzato a favorire la replicazione culturale.

Ciò posto , l’altra polarità del conflitto non poteva essere ricondotta agli istinti asociali. Doveva esprimersi in essa, per la pressione incoercibile esercitata nei conflitti psicodinamici, un altro bisogno se non più ugualmente potente. Un bisogno atto a scongiurare la soggezione perenne dell’uomo ai valori culturali e a promuovere una personalizzazione che, al limite, poteva tradursi anche in una critica rinnovatrice. Da Jung acquisii il concetto di individuazione, e mi sembrò che esso, depurato della sua connotazione borghese, potesse definire il bisogno in questione, a patto di ammettere che nel corso dell’evoluzione della personalità esso si esprime su di un registro che, fino ad una certa epoca dello sviluppo, è meramente oppositivo.

La psicologia evolutiva riconosceva già le crisi oppositive, e in particolare quella dei tre anni e quella adolescenziale, come momenti importanti dell’affermazione e della differenziazione della personalità. Mi chiesi come mai in queste crisi che talora sopravvengono a ciel sereno, modificando repentinamente l’assetto comportamentale e lo stato d’animo del soggetto nei confronti degli educatori, non si fosse letta l’espressione di una programmazione biologica. Mi chiesi anche se era possibile, posta l’esistenza di questa programmazione, che essa potesse esaurirsi in due fasi così distanziate nel tempo. Una riflessione sui dati di cui disponevo mi indusse ad ipotizzare che il bisogno di opposizione/individuazione, geneticamente programmato, riconoscesse fasi di attivazione periodiche, con una cadenza all’incirca biennale, della durata di due-tre mesi. Nonostante non sia stata effettuata sinora nessuna sperimentazione a riguardo per il semplice fatto che l’ipotesi non ha avuto alcuna diffusione, rimango convinto della sua sostanziale fondatezza.

Esitai non poco a definire bisogni i programmi geneticamente determinati che avevo ipotizzato sottendere l’evoluzione della personalità, e che intuivo come universali ma diversamente distribuiti e combinati nei corredi genetici individuali. All’epoca la teoria dei bisogni era stata ricavata da Agnès Heller, discepola di Lukàcs, dai lavori giovanili di Marx e illustrata in un libro di successo che aveva profondamente influenzato i lettori di sinistra. Ma, seguendo un’interpretazione scolastica di Marx, la Heller riteneva i bisogni radicali (libertà, uguaglianza, giustizia, ecc.) un prodotto della seconda natura umana, vale a dire dell’evoluzione storica. Mi interrogai a lungo su questa teoria e alla fine conclusi, forse influenzato dalla mia cultura neurobiologica, che era impossibile una lettura marxista della storia, evoluta tra infiniti smarrimenti, se non si ammetteva un radicamento di quei bisogni nella natura umana. E non solo di quelli individuati dalla Heller, che facevano riferimento alla tensione verso l’individuo universale di Marx, ma anche degli altri che, privilegiando in assoluto l’esigenza della coesione sociale e, promuovendo di conseguenza l’accettazione della divisione del lavoro, della differenziazione sociale e della gerarchia politico-religiosa, avevano contribuito potentemente a reprimere la vocazione verso un’individualità nettamente differenziata e nel contempo altamente socializzata.

Convalidai pertanto il termine di bisogni per il loro carattere neurobiologicamente programmato assumendoli come equivalenti, a livello psicologico, degli istinti fisiologici, e attribuendo ad essi lo stesso carattere di necessità. Nonostante il termine continui ad essere incomprensibile per alcuni, che lo ritengono troppo fisiologico e poco compatibile con la struttura desiderante umana, e equivocato da altri, che lo riconducono al pensiero della Heller, non ho dubbi che esso definisca in maniera adeguata una realtà psicobiologica sinora misconosciuta.

Giunto a questo punto, e delineato per sommi capi un modello evolutivo della personalità sulla base della teoria dei bisogni intrinseci, mi fu chiaro che i conflitti psicodinamici rappresentavano l’espressione di una scissione del patrimonio di quei due bisogni. Dato che tali bisogni appartengono entrambi alla natura umana, sono programmati geneticamente e predisposti a dar luogo ad un’integrazione tra l’essere sociale dell’uomo e il suo essere dotato di un’identità individuale, non v’era da sorprendersi che i conflitti discendenti dalla loro scissione assumessero un carattere strutturale, che essi cioè opponessero costantemente i doveri sociali e i diritti individuali, la volontà altrui interiorizzata e la volontà propria, le richieste sociali e i desideri di libertà individuali.

Solo dopo qualche tempo risultò chiaro che la scissione dei bisogni, in qualunque fase evolutiva sopravvenga, ne determina l’alienazione reciproca, vale a dire una configurazione fenomenicamente distorta che espropria il soggetto della possibilità di riconoscerli e di usarli. L’arrivare a questa conclusione, condivisa dal gruppo con cui elaboravo settimanalmente i risultati della ricerca, ci pose di fronte al fatto di avere scoperto l’uovo di Colombo, una chiave interpretativa potente che poteva nel contempo consentire una lettura dialettica della storia umana e una decodificazione delle esperienze di disagio fin troppo esplicativa.

Rimaneva da capire perché, se i due bisogni erano entrambi programmati neurobiologicamente, la storia e la psicopatologia, sia pure in maniera diversa, attestavano una sorta di preminenza dinamica del bisogno di appartenenza/integrazione sociale su quello di opposizione /individuazione.

Un dato ulteriore tratto dall’esperienza manicomiale mi aiutò a chiarirmi le idee a riguardo. Gli psicotici cronici tranquilli, espressione estrema del processo di istituzionalizzazione, agivano in ospedale, come automi programmati, comportamenti pienamente conformi alle regole istituzionali. Erano docili, ossequiosi, servili, adeguati nei lavori in cui venivano impiegati abitualmente. Automi peraltro poco o punto comunicativi, che sembravano recuperare una qualche vivacità umana solo allorché, come si diceva in gergo istituzionale, andavano ‘in toppa’, vale a dire ricadevano e, per qualche tempo, manifestavano rabbia e aggressività. Basaglia aveva intuito che l’aggressività all’interno dell’istituzione era un segnale di vitalità che poteva ancora consentire un recupero, ma non spiegava, se non in termini di condizionamento, la singolare psicologia dei cronici tranquilli.

Riflettendo su questo problema mi fu chiaro che, quali che fossero state le loro crisi nel corso degli anni, essi, in conseguenza dell’istituzionalizzazione, erano divenuti incarnazioni viventi del Super-io. Il manicomio, istituzione superegoica per eccellenza, dunque non faceva altro che rafforzare e stabilizzare una componente strutturale della personalità preesistente, che doveva avere avuto un ruolo non insignificante nel promuovere le crisi. Solo qualche anno dopo trovai conferma di ciò in un libro di G. Benedetti, che scriveva che lo sfacelo psicotico della personalità è in realtà uno sfacelo dell’identità individuale che dà spazio e rilievo ad una funzione superegoica inquietantemente resistente. Da ciò ricavai l’idea che il bisogno di appartenenza/integrazione sociale è filogeneticamente primario e più forte del bisogno di opposizione/individuazione, la cui realizzazione è fortemente dipendente dal contesto culturale. La cosa non era sorprendente più di tanto tenendo conto del carattere prevalentemente sociale del processo di antropogenesi e dell’importanza, per ogni gruppo umano, della cultura intesa come prodotto collettivo da conservare e da replicare.

Attraverso il Super-io, considerato come espressione di un bisogno di socialità radicalmente umano sul quale esso si edifica interiorizzando (e interpretando) i valori culturali consci e inconsci trasmessi dall’ambiente, il modello psicopatologico strutturale si apriva naturalmente alla storia sociale. I valori interiorizzati infatti sono veicolati dal gruppo di appartenenza, dai genitori e dagli educatori, ma non sono da essi prodotti. Da dove vengono dunque e da dove traggono il loro straordinario potere?

Fu verso la metà degli anni ‘80 che, coltivando studi disparati, mi imbattei in un sapere già datato che mi avrebbe aiutato non poco. L’opera di Lévi-Strauss mi offrì la distinzione tra culture fredde, sostanzialmente quelle preistoriche e primitive, rimaste vincolate ad un culto delle tradizioni a tal punto ossequioso da impedire ogni evoluzione, e culture calde, quelle storiche, caratterizzate dall’evoluzione e da una progressiva affermazione dell’individualità. In filigrana dunque la storia delle culture offriva una formidabile conferma alla teoria dei bisogni intrinseci.

Mi imbattei infine nella nuova storia francese e appresi che la scuola che l’aveva prodotta, ispirandosi a Marx e superandolo, aveva valorizzato, per la prima volta nell’ambito delle discipline storiche, i fenomeni mentali. Il riferimento a Marx non era sorprendente. Riconducendo la storia umana alla lotta di classe, Marx aveva implicitamente contestato la storia tradizionale incentrata sulla sfilata dei Capi e dei Re, sulle guerre e sulle lotte per il potere, rivendicando per le masse oppresse, anelanti alla giustizia, rimaste fino allora nell’ombra della storia, un ruolo importante, decisivo. Egli stesso, ricostruendo le vicende degli operai all’epoca della prima industrializzazione, aveva dato corpo e sangue, purtroppo di vittime, ad un processo solitamente ricostruito come un mero progresso tecnologico.

Gli storici francesi, insofferenti essi stessi della storia tradizionale, politica, événémentiel avevano raccolto l’intuizione di Marx portandola alle estreme conseguenze. Esplorando vari periodi storici, e in particolare il Medio Evo, essi, al di là degli eventi, della demografia e delle strutture economiche, si erano chiesti come vivevano gli uomini in carne ed ossa, come pensavano, cosa sentivano, come praticavano gli affetti, come concepivano la vita e la morte, ecc. Un lento lavoro documentario e un sottile esercizio interpretativo li avevano mesi di fronte ad una verità inconfutabile, quella per cui, in tutto simili a noi dal punto di vista biologico, quegli uomini però pensavano, sentivano, definivano se stessi e le loro relazioni diversamente da noi. La loro psicologia si articolava all’interno di una visione del mondo che non poteva definirsi ideologica nel senso peggiorativo marxiano (di inganno prodotto dai ceti colti e dominanti per indurre nei subjecti l’accettazione dello stato di cose esistente) poiché in essa erano irretiti anche i ceti dominanti che l’avevano prodotta. Quella visione del mondo funzionava come una prigione o un recinto mentale totalizzante. Per definire tale visione del mondo gli storici francesi usavano il termine "mentalità". Essi la definivano inoltre costitutiva di ogni struttura sociale, interagente con i fenomeni economici e con quelli sociali propri di essa, ma più profonda, a più lento o lentissimo scorrimento, e per molti aspetti inconscia.

L’esistenza di un inconscio sociale, vale a dire di un patrimonio di valori, tradizioni, consuetudini, costumi, pregiudizi, miti, rappresentazioni, ecc. depositato sia pure in maniera diversa nelle coscienze (e nell’inconscio) di tutti i membri di una società, era già stata intuita da numerosi sociologi (tra i quali Durkheim) e da Freud. La rivoluzione epistemologica dei nuovi storici francesi consisteva nell’aver dato a quella nozione, sfumata, appena suggestiva, una caratterizzazione precisa e un’importanza nuova. Duby, uno dei più importanti tra di essi, non ha esitato a identificare le mentalità con le ideologie intese come visioni del mondo, e ad attribuire ad esse la caratteristica di essere totalizzanti, deformanti, concorrenti e stabilizzatrici. Tenere conto delle mentalità e delle loro interazioni con le strutture materiali (economiche e demografiche) illuminava molti aspetti della storia e della società che il marxismo ortodosso non riusciva a spiegare. Ciò nonostante Marx stesso, definendo il capitalista come un uomo schiacciato egli stesso nell’ingranaggio del sistema borghese, avesse sfiorato il significato reale dell’ideologia: di una visone del mondo prodotta dagli uomini stessi che infine giunge ad irretirli.

Date queste caratteristiche, non risultava sorprendente che l’interiorizzazione dei sistemi di valore culturali a livello soggettivo, mediata dall’interazione con il gruppo di appartenenza, potesse essere differenziata e contraddittoria. In ogni società, e in ogni tempo, le mentalità governano il modo di sentire e di pensare delle persone, la percezione che hanno di sè e degli altri, il registro delle relazioni interpersonali, gli affetti, la definizione dei diritti e dei doveri, il modo di concepire la vita, la morte, l’al di là, il rapporto con il corpo e la sessualità, l’immaginario stesso. Rispetto alle altre, la nostra società, come risultò immediatamente chiaro, era (ed è) caratterizzata dal fatto, estremamente importante sotto il profilo psicopatologico, di albergare due visioni del mondo incompatibili tra di loro — quella religiosa, altruistica e comunitaristica, e quella borghese, egoistica e individualistica — che convivevano (e convivono) senza che l’una riesca a prevalere sull’altra.

Alla luce di questi concetti, il problema della soggettività umana poteva essere ripreso e formulato in maniera più precisa rispetto al passato. Ogni uomo è tributario della mentalità della società cui appartiene, rappresentata sia a livello inconscio che cosciente. Ciò non significa che egli sia un manichino agitato da forze oscure, bensì solo che la sua libertà di pensare e di sentire riconosce un limite invalicabile o solo eccezionalmente valicabile. Rappresentati a livello superegoico, i valori propri della mentalità agiscono richiamando incessantemente il soggetto alla normalità da essi definita. Il bisogno di opposizione/individuazione li mette in gioco solitamente per adattarli alla vocazione ad essere propria del soggetto, eccezionalmente per sormontarli in nome di nuovi valori intuiti come possibili. La scissione dei bisogni e dei sistemi di valore costruiti su di essi risultava infine la matrice dei conflitti psicodinamici, espressioni di un’interazione tra natura e cultura mediata dalla soggettività, prodotta dall’interazione con l’ambiente e ricca, inevitabilmente, di significati storico-sociali.

I problemi teorici, a questo punto, si potevano ritenere risolti. Ogni soggettività, nelle pieghe profonde del suo essere, intrattiene, attraverso il Super-io un rapporto più o meno conflittuale con l’esperienza delle generazioni passate, trasmessa da quella immediatamente precedente, e quindi con la storia sociale. Il conflitto psicopatologico attesterebbe, da questo punto di vista, una protesta contro quell’esperienza avvertita visceralmente come poco o punto compatibile con la propria vocazione ad essere.In realtà ne rimanevano ancora due.

Il primo consisteva nel valutare le vicissitudini del bisogno di opposizione/individuazione frustrato. Fino ad una certa epoca della ricerca, caratterizzata dal rilievo assegnato alla funzione superegoica, e nonostante il concetto acquisito di alienazione dei bisogni scissi, mi sembrava ingenuamente che il bisogno di opposizione frustrato, pur assumendo una configurazione fenomenica distorta, esaurisse il suo ruolo dinamico nell’arginare e nel sabotare il potere superegoico. Solo lentamente, e penso in rapporto ad una trasformazione sociale e culturale avviatasi nella metà degli anni ’80, mi resi conto che esso poteva assumere la configurazione di un ideale dell’io antitetico rispetto a quello superegoico, vale a dire di un sistema di valori, di un modello di vita di segno radicalmente opposto. Riflettendo su alcune esperienze psicopatologiche giovanili, che prefiguravano l’avvento della cosiddetta onnipotenza narcisistica degli anni ’90, compresi che gli ideali dell’io antitetici col loro riferimento al mito della forza, alla fobia delle emozioni positive intese come espressioni di debolezza, all’esaltazione dell’immagine e dello status e alla rivendicazione di una libertà senza limite, erano null’altro che il prodotto di una ideologia borghese e liberistica che si stava imponendo a livello di inconscio sociale e si stava liberando dai vincoli della religione. Un’attenta rilettura di Nietzsche mi chiarì che egli, precorrendo i tempi e impegnandosi in una demolizione critica e distruttiva degli ideali superegoici di matrice religiosa (e piccolo borghese), aveva anticipato senza sapere quegli ideali, non considerando in quale misura essi, liberando l’uomo dalle catene dell’alienazione religiosa, potevano mortificare il bisogno di appartenenza/integrazione sociale sul quale esse avevano fatto presa.

Da allora capii che l’esercizio della terapia sarebbe consistito nell’aiutare alcune persone a fuoriuscire dalla gabbia superegoica e ad affermare la loro vocazione individuale ad essere, e altre a rientrare nella loro pelle di esseri sociali e spesso sensibili e a conviverci senza sentirsene handicappati. Non ho motivo di pensare che, ancora per un lungo tempo, l’esercizio psicoterapeutico, nell’attesa che la cultura e il mondo sociale si aprano al riconoscimento dei bisogni intrinseci propri della natura umana e si predispongano a fornire a ogni soggetto le opportunità per realizzarli e integrarli, possa prescindere da uno di questi obbiettivi.

L’altro problema imponeva di valutare più attentamente il ruolo delle relazioni interpersonali e degli affetti. Perché non ammettere, come inclinavano a fare gli psicoanalisti e gli psicoterapeuti, che dei problemi potessero derivare semplicemente da un difetto di sintonizzazione affettiva, da carenze, da maltrattamenti: da disfunzioni insomma locali, che ponevano in gioco solo l’inadeguatezza dei genitori o distorsioni interpretative dei figli?

Due esperienze riuscirono illuminanti. La prima mi pose a confronto con un padre disperato, funzionario di un Ministero, che aveva sistematicamente picchiato (a freddo: rientrando in casa e sulla scorta del resoconto della moglie) i figli, spingendoli tutti e tre a deviare (due erano tossicodipendenti, un terzo stava in carcere come fiancheggiatore dei terroristi). L’uomo mi disse che, nato in un paese del Lazio, era stato trattato egli stesso a cinghiate dal padre contadino. A quel trattamento peraltro egli attribuiva il merito di avere dominato la sua natura selvaggia e di avergli consentito di fare una brillante carriera, nonostante frequenti episodi di irascibilità. Egli si era ripromesso di avere con i figli un comportamento severo ma non violento. Ma si era reso ben presto conto che i figli avevano ereditato la sua stessa natura: erano tutti e tre oppositivi, ribelli e sfidanti. Rientrando in casa, egli si limitava a rimproverarli delle loro malefatte, ma, di fronte alla loro protervia di negarle e di non chiedere scusa, pensava freddamente che, se avesse avallato la loro tendenza ribelle, sarebbe stato responsabile del loro futuro comportamento criminale. Li picchiava insomma per estirpare il germe maligno che aveva trasmesso loro con il suo sangue. Li picchiava — confessò — con la morte nel cuore sentendo sulla sua stessa pelle le percosse che impartiva loro. L’uomo insomma aveva agito da ‘buon padre’ tentando di salvare i figli da un pericolo ricostruito, a partire da comportamenti semplicemente oppositivi, alla luce di una teoria della natura umana non molto diversa da quella adottata da Freud. Aveva agito in conseguenza di un’ideologia mortificando i suoi affetti. Questa esperienza mi confermò quello che, nella pratica, avevo già intuito: la condizione alienata degli educatori per cui essi non sanno quasi mai quello che fanno, il modello pedagogico cui si ispirano e gli obbiettivi che perseguono.

La seconda riguardò una ragazza di 14 anni, chiusa in una corazza di anestetica durezza e di mutismo, che aveva tentato già due volte il suicidio sostenendo che i suoi la rifiutavano e la volevano morta. A 16 anni era ancora viva e si era ammorbidita, ma insisteva lucidamente nel rivendicare la fondatezza delle sue intuizioni. Furono i genitori, imbarazzatissimi, a fornire la chiave di soluzione. La figlia era stata concepita prima del matrimonio, nel paese di residenza di entrambi meridionale. Lo scandalo a livello delle famiglie, entrambe perbeniste, era stato enorme. Il matrimonio riparatore fu preparato in gran fretta, in un clima di reciproca ostilità (i parenti di lei accusavano il marito di avere tradito la loro fiducia, i parenti di lui accusavano la moglie di non avere opposto resistenza). Il marito abbandonò l’università e entrò in banca come impiegato. La famiglia, per sottrarsi alle voci del paese, si trasferì a Roma. La ragazza nacque sotto una cattiva stella. Figlia della colpa, la madre si asteneva dal prenderla in braccio avendo paura di contagiarla e strofinava di continuo il suo corpo con l’alcool. Il padre era sempre incupito e frustrato. I genitori litigavano spesso scambiandosi oscure accuse e rivolgendo alla figlia degli sguardi dai quali lei ricavava la convinzione di essere causa della loro infelicità. Le intuizioni della ragazza erano fondate. Non sapendo come erano andate le cose (i genitori erano giunti a falsificare la data del matrimonio), non poteva di certo interpretare l’astio che avvertiva nei suoi confronti, dovuto ad una congiuntura culturale.

Questi due episodi mi aprirono gli occhi sull’incidenza della mentalità nella vita privata e nella pratica degli affetti. La realtà è che gli uomini leggono i fatti della vita con gli occhiali ideologici di cui dispongono, senza sapere di averli e quindi prendendo per buone le loro interpretazioni, tanto più se esse hanno il carattere dell’immediatezza, e agiscono di conseguenza. La coscienza umana è normalmente alienata in conseguenza della sua partecipazione ad un determinato contesto socio-storico e culturale. Laddove si dà un conflitto psicopatologico, tale alienazione è drammatizzata dal fatto che le spinte verso la disalienazione e l’autenticità, la realizzazione integrata dei bisogni intrinseci, assumono una configurazione estremizzata, antisociale che le rende disfunzionali.

La ricerca, commentata ed elaborata col gruppo di collaboratori-amici, era giunta a termine nel ‘90. Decisi, sulla scorta di un materiale scritto accumulato nel corso degli anni, di mettere sulla carta le linee essenziali e le conclusioni. Il progetto prevedeva tre saggi: uno teorico, introduttivo, uno di psicopatologia e uno di terapia. Il primo (La politica del Super-io), di lettura non agevole, è stato pubblicato da Armando nel 1992. Devo la pubblicazione all’intercessione del Prof. Leonardo Ancona che, nonostante la diversa ideologia, ha dimostrato nei miei confronti e nei confronti del mio lavoro un’apertura inconsueta nell’ambiente accademico.

A distanza di oltre dieci anni, dopo che le residue copie del saggio sono andate al macero, avendo riacquistato la proprietà dell'opera, ho provveduto a riscriverla quasi integralmente. La nuova stesura, il cui titolo (Appartenenza e Individuazione. Il dramma della doppia natura umana) contiene già l'essenza concettuale del saggio, è stata vivamente apprezzata dagli amici che l'hanno letta, alcuni dei quali l'hanno definita un "gioiello" scientifico.

Gli altri due saggi (Psicopatologia strutturale e dialettica, Prassi terapeutica dialettica), benché compiuti e di grande interesse, non sono mai stati pubblicati a stampa. Sull'onda della riscrittura de La Politica del Super-Io, penso che li sottoporrò, nel corso dei prossimi anni, ad analogo trattamento.

Nel ’94, portando a conclusione una riflessione durata venticinque anni su Marx, ho scritto un’antologia commentata delle sue opere pubblicata da Armando (Il mondo stregato 1995). E’ il lavoro al quale tengo di più in assoluto, poiché il debito personale nei confronti di Marx è inestimabile. Purtroppo il testo, adattato dall’editore (un po’ proditoriamente) per le scuole superiori è alquanto infedele rispetto all’originale, molto più ricco e articolato, e sul quale continuo a lavorare sperando di poterlo pubblicare nuovamente in una versione integrale.

Mi sono posto poi il problema della formazione delle coscienze giovanili, facendo leva sulla costatazione che l’ordinamento degli studi, dalle elementari alle superiori, esclude del tutto le scienze umane e sociali e la neurobiologia. Quasi per gioco ho scritto un libricino per i giovani nel quale, con uno stile sorprendentemente semplice e ironico, ho cercato di riversare tutto ciò che di questo sapere, filtrato dalla mia soggettività e dalla mia cultura, ritengo essenziale ai fini di una consapevolezza critica. E’ superfluo aggiungere che gran parte del libro è dedicato a demistificare l’ingenuo realismo della coscienza umana e gli inganni ideologici in cui essa cade in conseguenza della sua storicità. Il libro (ABRACADABRA) è stato pubblicato nel 2000 dall’editore FabioCroce.

Nel 2001 l'editore Franco Angeli accettò di pubblicare un libro sulla schizofrenia (Miseria della neopsichiatria) che rappresenta in un certo senso il mio testamento intellettuale come psichiatra. In esso la contestazione del determinismo biologico è radicale, ma si associa alla proposta di una nuova interpretazione della schizofrenia incentrata sulla teoria dei bisogni.

Il libro, com'era prevedibile, non ha avuto alcun successo, per quanto l'Editore ne tenga da parte ancora un certo numero di copie. Esso ha segnato la rottura definitiva dei ponti anche con l'ala progressista della psichiatria italiana, che si definisce basagliana ma ormai è priva di qualunque tensione critica e teorica. La rottura è stata dovuta al fatto che il libro, che quasi nessuno ha letto, è stato nondimeno considerato troppo antipsichiatrico. Tenendo conto del maltrattamento cui sono sottoposti i giovani diagnosticati schizofrenici anche nei centri territoriali gestiti dagli psichiatri progressisti, non vedo come, a riguardo di una malattia che essi concorrono a determinare e a rendere fatale, non si possa essere antipsichiatri. Ciò non significa negare la realtà clinica di un disagio psicologico grave, bensì solo prendere atto che la trasformazione di tale disagio in schizofrenia è un effetto iatrogenetico, vale a dire la conseguenza di un trattamento del tutto errato.

Nel 2003, presso Fabio Croce, è uscito Star Male di Testa, che, sulla base dei presupposti messi a fuoco in Abracadabra, e adottando lo stesso stile divulgativo, analizza i fenomeni di disagio psicopatologico sulla base del criterio per cui essi hanno sempre e comunque significati comprensibili. Certo, la comprensibilità in questione non è immediatamente evidente e, per essere apprezzata, richiede l'adozione di strumenti culturali appena un po' sofisticati. Per dirla con marx, se l'apparenza delle cose coincidesse con l'essenza, la riflessione scientifica non avrebbe senso. Non è un caso che il saggio batte sempre sullo stesso tasto: la neopsichiatria è una falsa scienza, poiché essa si limita alle apparenze.

Nel 2005, infine, dopo lunghi anni di riflessione, mi sono deciso a scrivere un saggio sull'introversione, pubblicato da Franco Angeli (Sei introverso? Manuale per capire ed accettare valori e limiti dell'introversione propria e altrui), il cui intento era quello di fondare una Lega che promuovesse la tutela dei bambini e dei ragazzi introversi i quali, dall'interazione con l'ambiente sociale, ricavano danni che spesso esitano in un disagio psichico.

La Lega per la Tutela dei Diritti degli Introversi (LIDI) di fatto è stata istituita come Associazione Onlus nel 2006 e ha avviato le sue attività con un concorso notevole di Soci. Sull'onda di questa partecipazione, nel 2007 il Saggio, arricchito in alcune sue parti, è stato ristampato con il titolo originale (Timido, docile, ardente...).

La fondazione della Lega è presumibilmente l'ultima battaglia nella quale mi impegnerò, augurandomi che altri intendano raccogliere il testimone di un'impresa - la critica di un mondo che non è fatto a misura d'uomo e di una sedicente scienza, la psichiatria, che specula sui danni che esso produce - che, nel corso degli anni, è divenuta logorante.

Dato il relativo successo del saggio sull'introversione, la cui seconda edizione ha un titolo diverso (Timido, docile, ardente…), l'Editore ha consentito a pubblicare Abracadabra, che, rielaborato nel corso degli anni, rappresenta una "summa" di quanto sono riuscito a capire dell'uomo e dei fatti umani. La nuova edizione ha richiesto anche un nuovo titolo: Abbecedario di Scienze umane e sociali. Scritto con l'intento di introdurre nelle scuole una nuova disciplina - la panantropologia -, che consenta ai ragazzi e ai giovani di acquisire alcuni degli strumenti indispensabili a capire qualcosa della loro condizione di esseri appartenenti ad una lunga storia biologica e culturale, il libro per ora ha avuto una diffusione minima.

Nelle poche scuole superiori ove esso è stato letto per iniziativa di alcuni docenti che mi stimano, il suo impatto è stato molto incisivo.

Nel 2008, con l'intento di illustrare le premesse storiche e filosofiche della panantropologia, ho avviato un ciclo di conferenze su quelli che ho definito i Grandi Demistificatori: Darwin, Marx, Nietzsche e Freud. Ho dedicato a ciascuno di essi cinque conferenze, dalle quali ho ricavato dei saggi.

Per non correre il rischio di questuare presso gli editori, ho fondato, con la dott.ssa Lisa Cecchi, mia validissima collaboratrice, una minuscola casa editrice di e-book (http://www.nilalienum.com/) che ha pubblicato finora diverse opere:

Il mondo stregato e il suo disincanto. Antologia del Capitale di Marx

Nietzsche. Il terapeuta malato

Diario di un antipsichiatra

Freud. Il rivoluzionario conservatore

Star Male di Testa

La mente pericolosa

Il mostro di belle speranze.

Viaggio nel "cuore" della mente umana

Adolescenza maligna

Il Gesù dei non credenti

Cassetta degli attrezzi per la manutenzione della mente (con annessi e connessi)

Il dramma del perfezionismo sociale e morale

Sono in corso di pubblicazione:

Manuale di Psicopatologia struttural-dialettica. Teoria, clinica, terapia.

Una nuova concezione della schizofrenia

Microstorie dall'universo psicopatologico

La mente pericolosa è un saggio che muove dal pensiero gramsciano per giungere a definire un progetto formativo atto a produrre coscienze critiche attrezzate per rimanere tali per tutta la vita. Il saggio è nato da un'impresa che, con la collaborazione della dott.ssa Lisa Cecchi, mi ha impegnato per quasi tre anni: una nuova edizione dei Quaderni del carcere con infinite note riguardanti personaggi storici, politici e culturali, eventi, movimenti, correnti:

http://www.nilalienum.com/Mappa/Gramscinew.html.

L’essermi dedicato alla divulgazione attesta (dolorosamente) che la mia ricerca si è esaurita. Essa continua a vivere nella pratica terapeutica quotidiana mia e degli amici, quasi tutti impegnati nelle strutture pubbliche, che mi hanno seguito nel corso degli anni, e a cui, sia sul piano umano che su quello teorico, devo più di quanto si possa esprimere a parole. Al di fuori di questa ristretta cerchia, la teoria struttural-dialettica trova solo rari riscontri. La sua cornice ideologica, la concettualizzazione, il linguaggio adottato risultano talora suggestivi, talaltra incomprensibili (o indigeribili) per gli addetti ai lavori. Non è un paradosso che, oltre al gruppo dei collaboratori, la teoria sia apprezzata, capita e interiorizzata da non pochi pazienti, e coltivata da ex-pazienti. Che questo sia un effetto transferale è contestato dal fatto che, almeno per alcuni, esso perdura da anni, ben al di là della fine dell’esperienza terapeutica.

Se è vero, come sostengono gli economisti, che la moneta buona scaccia quella cattiva, il mercato deciderà del valore della ricerca e della teoria struttural-dialettica. Purtroppo però, per ora, il mercato psichiatrico è caratterizzato dal corso forzoso quando non addirittura da monete false.