Letture nietzscheane

Lettura V

Ciò che è vivo e ciò che è morto di Nietzsche
Indice
Premessa. Il dramma e la grandezza di Nietzsche
Le forzature ideologiche di Nietzsche
Alla ricerca della libertà
L'alienazione rivisitata
Volontà di potenza e natura umana
Il primato del corpo sulla mente
Coscienza e Inconscio
Nietzsche tra Filosofia e Panantropologia
Nietzsche e il post-modernismo
Premessa. Il dramma e la grandezza di Nietzsche

Nel corso delle conferenze ho cercato di prendere sul serio la citazione riportata come esergo della prima, nella quale Nietzsche stesso sollecita a valutare il suo pensiero e la sua ricerca come una confessione le cui matrici affondano nelle memorie e nell’organizzazione dell’inconscio.

Prendere sul serio tale intuizione porta ad identificare tre nuclei dinamici che sottendono l’impresa di Nietzsche: il sospetto nei confronti di tutte le tradizioni e di tutti i valori ritenuti sacri; la rivendicazione della capacità critica e destruens della mente umana affrancata dall’ipnosi del gregge; la necessità di essere duro e crudele, con se stesso e con gli altri, per portare quella capacità alle estreme conseguenze.

Non è difficile capire, alla luce della biografia di Nietzsche, l’origine e il significato di questi tre nuclei. Il sospetto deriva dalla risoluzione dell’ipnosi mistica in cui egli è vissuto sino alla tarda adolescenza; la rivendicazione della capacità critica della mente dallo sprigionarsi di una genialità rimasta in precedenza intrappolata in una visione del mondo religiosa; la necessità di essere duro e crudele dalla paura di cadere nuovamente nella trappola dell’istinto del gregge e dal rifiuto, conseguente ad essa, di abbandonarsi a qualsivoglia influenza sociale.

Quest’ultimo aspetto è in assoluto il più importante. Esso ha portato infatti Nietzsche sul terreno di un’individuazione eroica, che ha richiesto il sacrificio della sua sensibilità sociale, l’isolamento progressivo e alla fine completo dal mondo e dall’affettività, e l’adozione di una logica interpretativa costantemente antitetica, che implica il rifiuto di qualunque mediazione dialettica tra gli opposti. L'avversione nei confronti della dialettica da parte di Nietzsche è stata rilevata, valorizzata e portata alle estreme conseguenze dai pensatori francesi, soprattutto Foucault e Deleuze, cui si deve la riscoperta di Nietzsche a partire dagli anni '60 del secolo scorso. Scrive per esempio Deleuze: "«Il “sì” di Nietzsche si contrappone al “no” dialettico, l’affermazione si contrappone alla negazione dialettica, la differenza alla contraddizione dialettica, la gioia e il godimento al lavoro dialettico, la leggerezza e la danza alla pesantezza dialettica, la bella irresponsabilità alle responsabilità dialettiche. La sensibilità empirica per la differenza, per la gerarchia, è ciò che essenzialmente fa muovere il concetto più efficacemente e più in profondità di qualsiasi pensiero della contraddizione». Nel suo entusiasmo decostruttivista, Deleuze sembra non rendersi conto che il rifiuto della dialettica in Nietzsche, ma anche in termini generali, non porta ad apprezzare le differenze, ma induce la regressione del pensiero ad una modalità primaria, sempre attiva a livello inconscio, che è per l'appunto quella degli opposti. La logica degli opposti è, per dirla in termini comuni, la logica del bianco e nero. Dotato di un'indubbia genialità, Nietzsche la utilizza in maniera creativa, ma, rifiutando di integrarla con la logica dialettica, egli cade nella trappola di pensare che l'opposto di una banalità debba essere per forza più prossimo alla verità. In conseguenza di questo, egli rovescia le tradizionali opposizioni tra bene e male, tra uomo comune e uomo deviante, ecc. Tale rovesciamento ha un senso. Di fatto, nel corso della storia della nostra civiltà, quelle opposizioni si sono cristallizzate reificando la Norma e respingendo nel cul de sac dell'Abnorme tutti i fenomeni umani con essa contrastanti. il rovesciamento, però, respinge nell'Abnorme tutto ciò che in precedenza si riteneva normale, e crea una nuova antitesi.

L'adozione costante della logica antitetica è il limite del pensiero di Nietzsche. E' il limite della sua indubbia genialità, che tende per ciò costantemente all'eccesso.

Non è azzardato iscrivere la vicenda di Nietzsche nell’ambito di una “patologia” del bisogno di individuazione, che ha cristallizzato il suo modo di sentire e di pensare sul registro dell’Io antitetico. E' inutile però enfatizzare questo aspetto dato che Nietzsche stesso ha riconosciuto nella sua “malattia” la matrice del suo spirito critico e della sua grandezza. Basta identificare nel suo pensiero, oltre che nella sua vicenda umana, gli indizi di una genialità squilibrata e tendente costantemente all’eccesso e tentare di apprezzarne il valore e i limiti.

I contributi imperituri che il funambolo Nietzsche ha donato all’umanità, prima della caduta finale, espressivi della sua genialità, sono facili da elencare:
      - la difficoltà dell’uomo di accettare la sua appartenenza al mondo naturale, e di essere un animale insignificante come gli altri nell’economia dell’universo:
      - il ruolo tranquillizzante e al tempo stesso alienante della morale e della cultura
      - la tendenza della coscienza ad ingannare se stessa e a farsi ingannare
      - la religione come espressione estrema del bisogno di sfuggire alla verità che ingabbia l’uomo nell’orizzonte mondano e nel suo destino personale
      - la critica del libero arbitrio e, di conseguenza, dell'imputabilità e della punibilità
      - la critica della scienza nella sua pretesa di sostituire la religione donando all’uomo nuove certezze assolute
      - la contestazione del progresso borghese e della democrazia come forma più sottile e insidiosa di schiavizzazione dell’essere umano
      - il richiamo all’uomo di dimostrarsi all’altezza della sfida cui è stato chiamato dal caso accettando i suoi limiti e il dolore dell’esistenza senza rinunciare alla sua incoercibile vocazione verso un’autentica felicità, che implica il sì alla vita

Ciascuno di questi contributi, come si è visto nel corso delle letture, può essere sottoposto ad un’analisi critica e discusso in nome di ulteriori dati forniti dalle scienze umane e sociali più recenti. Tale analisi, se consente di recuperare il pensiero di Nietzsche in una dimensione dialettica, estranea alla logica antitetica che egli adotta, nulla toglie ad un’avventura intellettuale e creativa che si può ritenere tra le più straordinarie che mai siano state realizzate da un essere umano.

Di questa avventura, alcuni aspetti, in parte già discussi, meritano di essere approfonditi.

Nonostante Nietzsche abbia rivendicato più volte il suo ruolo di psicologo, che oggi, per la vastità smisurata dei suoi interessi, sarebbe più opportuno definire come di panantropologo, egli ha avuto la “sventura” di essere stato identificato come filosofo e di essere stato interpretato e commentato prevalentemente da filosofi. Pur non avendo letto tutta la letteratura filosofica dedicata a Nietzsche, ne ho letto quanto basta per giungere alla conclusione che essa è, nel suo complesso insoddisfacente. I filosofi della cattedra - genia che Nietzsche ha criticato ferocemente - non possono fare a meno di esporre sistematicamente il suo pensiero, con l’intento segreto di confrontarsi con esso. I filosofi maggiori - per esempio Heidegger, Jaspers, Derrida, ecc. - tendono viceversa ad assimilare Nietzsche al loro sistema di pensiero.

Sfugge ai filosofi per un verso la patologia dell’individuazione che sottende il pensiero di Nietzsche, vale a dire la matrice personale del suo pensiero, e, per un altro, la dimensione panantropologica dello stesso, che, pur rifiutando un’organizzazione sistematica, giunge a definire una visione del mondo che concerne l’origine e il posto dell’uomo nel mondo, la sua natura, il significato dell’interazione tra questa e la cultura, ecc.

Una lettura panantropologica di Nietzsche postula, a mio avviso, oggi più che mai, di valutare le sue ipotesi non già alla luce della storia della filosofia, ma dei dati forniti dalle scienze umane e sociali. Si tratta, ovviamente, di un’impresa alquanto difficile, che, in questa sede, può essere affrontata solo parzialmente per valutare ciò che è vivo e ciò che è morto in Nietzsche.

Alla ricerca della libertà

C’è un paradosso che sottende tutta l’esperienza umana e intellettuale di Nietzsche. Per un verso, infatti, egli, come abbiamo visto nella conferenza precedente, nega che esista il libero arbitrio in nome del fatto che l’organizzazione del comportamento umano è determinata dall’organizzazione gerarchica di motivazioni che agiscono al di sotto della coscienza. Su questo determinismo pressoché assoluto si fonda il sì alla vita, vale a dire l’accettazione consapevole e coraggiosa della casualità, della contraddittorietà e dell’irrazionalità che dominano l’esistenza.

Per un altro verso, però, Nietzsche esalta la libertà al punto da sacrificare ad essa la sua vita e da perseguirla all’insegna di un’individuazione eroica, che lo mette in rotta con il mondo. Che cos’è, in ultima analisi, il Superuomo se non uno spirito libero?

Si potrebbe spiegare questo paradosso ipotizzando che per Nietzsche la libertà esiste solo sotto forma di opposizione nei confronti delle Tradizioni, del senso comune, dei valori morali correnti. Si tratterebbe però di una spiegazione riduttiva.

Torniamo alla citazione posta come esergo della prima lettura. Essa contiene due intuizioni vertiginose. La prima è che la morale, vale a dire il modo di sentire, di pensare e di agire, non solo del filosofo ma di ogni individuo, è sempre oggettivato dal suo comportamento, nel quale confluiscono la coscienza e l’inconscio. La seconda è che il vero essere dell’uomo non coincide quasi mai con ciò che egli pensa di sé poiché dipende da ciò che si agita al di sotto della coscienza.

Si potrebbero condensare queste intuizioni in un messaggio che suonerebbe così: l’uomo è quello che fa e quello che fa è determinato sostanzialmente da motivazioni inconsce.

Nietzsche ritiene - lo si ricava da tutta la sua opera - che queste motivazioni siano di due generi: le une, che verrebbe da definire sovrastrutturali, sono la conseguenza dell’influenza ambientale, dell’educazione, della cultura, le altre, infrastrutturali, sono di ordine naturale.

Su questa base, riesce evidente che per libertà Nietzsche intende un processo di liberazione delle pulsioni naturali, che spingono l’uomo ad affermare e realizzare le sue potenzialità individuali, la sua vocazione ad essere, dalle inibizioni, dalle repressioni e dalle distorsioni prodotte dall’appartenenza culturale.

Il rovesciamento degli idoli che Nietzsche persegue, e cioè la necessità di abbattere tutti i valori che l’istinto del gregge ha prodotto nel tentativo di contenere la volontà di potenza individuale, assume il suo pieno significato solo tenendo conto dell’obiettivo di liberare la natura umana da un’oppressione secolare che le ha impedito di dispiegarsi.

Se teniamo conto che la volontà di potenza di cui parla Nietzsche oggi può essere identificata con il bisogno di opposizione/individuazione, c’è molto di vero nel suo pensiero.

Sarebbe ingenuo, però, ignorare che la libertà cui aspira Nietzsche è un’utopia. Oggi sappiamo, infatti, che, per quanto un individuo possa essere dotato di genialità critica e di capacità introspettive, nel suo tragitto di liberazione dalle influenze culturali alienanti , esso si imbatte in un ostacolo insormontabile. L’influenza, infatti, dell’appartenenza e della cultura sulla mente umana, che coinvolge l’inconscio ancor più della coscienza, è tale che, nel fondo della mente umana, si danno sempre residui “ideologici” che non possono essere mai del tutto estirpati.

Non è ragionevole identificare in questo aspetto, come fa Nietzsche, un male assoluto. Hans G. Gadamer, uno dei filosofi più influenti del Novecento, partendo dal fatto che l’uomo, gettato nella realtà storica con le sue limitate capacità di comprenderne la complessità, non può fare altro, consciamente e inconsciamente, che interpretarla - e l’interpretazione esclude che egli possa arrivare alla verità assoluta - è giunto a riabilitare il concetto di pre-giudizio, che l’Illuminismo razionalistico ha totalmente squalificato. Secondo Gadamer, un tessuto pre-giudiziale è costitutivo della soggettività umana come conseguenza della sua appartenenza storico-culturale. Per pre-giudizio egli intende ciò che gli uomini del passato hanno ritenuto valido e hanno selezionato, dunque la Tradizione culturale. Senza questo patrimonio di sapere, gli uomini dovrebbero ad ogni generazione ricominciare da capo. Essi hanno dunque bisogno di interiorizzare i pre-giudizi per giungere alla consapevolezza di sé e all’attività critica.

Gadamer riconosce che tra i pre-giudizi se ne danno anche di profondamente errati o addirittura aberranti, ma ritiene anche che, se si prescinde dal ritenere che le generazioni passate abbiano sbagliato in tutto, se ne diano di giusti e di profondi.

Una liberazione radicale dai pre-giudizi così intesi, è praticamente impossibile per chiunque. Ciò che l’uomo, e a maggior ragione, lo studioso può fare è mantenere un atteggiamento critico, vale a dire cercare di comprendere quali pre-giudizi o presupposti ideologici guidano il suo modo di pensare, di sentire e di agire.

Con la sua avversione radicale nei confronti dell’influenza sociale, Nietzsche, attraverso il rovesciamento di tutti gli idoli, ha tentato un’impresa impossibile. La sua strenua volontà di affrancarsi da tutti i pre-giudizi lo ha portato fuori misura e non lo ha affrancato affatto da un’ideologia che miete di continuo vittime tra gli intellettuali il cui obiettivo è di afferrare la chiave ultima della condizione umana, che non può prescindere da una teoria inerente la natura umana. Tale ideologia comporta proprio il confondere il personale con l’impersonale, vale a dire ricavare quella teoria dalla propria esperienza soggettiva, conscia e inconscia, che è di ordine storico-culturale.

Si possono fornire indefiniti esempi a riguardo. Ne fornisco uno, significativo del fatto che tutti gli studiosi nel campo delle scienze umane e sociali si stanno orientando verso l’Araba Fenice della panantropologia.

Di recente, un biologo che ha ricevuto nel 1974 il Premio Nobel, ha pubblicato un libro dal titolo singolare: Genetica del peccato originale. L’autore - Christian de Duve - è un biologo che ha scritto negli ultimi anni due libri importanti sull’evoluzionismo: nel 2003 "Come evolve la vita. Dalle molecole alla mente simbolica" e nel 2008 "Alle Origini della Vita".

Ne Il peccato originale, dopo avere illustrato alcuni aspetti rilevanti della storia dell’umanità (la crescita demografica, le guerre e i conflitti perpetui, il deterioramento del pianeta), egli fornisce la seguente “spiegazione” del titolo:

“La selezione naturale, questo motore potentissimo dell'evoluzione, ha privilegiato nei geni dei nostri progenitori tratti che erano immediatamente favorevoli alla loro sopravvivenza e alla loro riproduzione, nelle condizioni vigenti al loro tempo e nel loro ambiente, senza alcun riguardo per le conseguenze future...

La selezione naturale ha privilegiato indistintamente tutte le qualità personali in grado di contribuire al successo immediato degli individui.

I tratti umani conservati dalla selezione naturale si sono rivelati straordinariamente fecondi. Senza pretendere di farne un inventario completo, che è attualmente fuori della nostra portata, vi trovo in particolare un certo numero di proprietà individuali fra cui l'intelligenza, l'inventività, la destrezza, l'ingegnosità e il potere di comunicare, altrettante qualità che dobbiamo al cervello estremamente efficiente da noi acquisito nel corso degli ultimi milioni di anni e che hanno permesso le fantastiche realizzazioni scientifiche e tecnologiche a cui si deve il nostro successo evolutivo.

I caratteri selezionati comprendevano, però, anche l'egoismo, la cupidigia, l'astuzia, l'aggressività e ogni altra proprietà suscettibile di apportare un beneficio personale immediato, indipendentemente da ogni costo futuro per se stessi o per gli altri. La crisi finanziaria mondiale che si è abbattuta sul nostro mondo come un uragano nell'autunno 2008 illustra in un modo particolarmente drammatico la persistenza di quei caratteri nel mondo attuale. Di contro, la selezione naturale ha favorito assai poco qualità i cui vantaggi non si sarebbero potuti manifestare se non a lungo termine, come la preveggenza, la prudenza, il senso di responsabilità e la saggezza. I frutti di queste qualità sarebbero apparsi per lo più troppo tardi per essere selezionati.

Sul piano collettivo, la selezione naturale ha favorito tratti come la solidarietà, lo spirito di cooperazione, la tolleranza, la compassione, l'altruismo, fino al sacrificio personale per il bene comune, che costituiscono i fondamenti delle società umane. Queste buone disposizioni sono però generalmente limitate ai membri di determinati gruppi dati. La contropartita negativa di questi tratti "buoni" ha compreso un atteggiamento difensivo, la diffidenza, la competitività e l'ostilità verso i membri di altri gruppi: tratti che sono all'origine dei conflitti e delle guerre che hanno caratterizzato l'intera storia dell'umanità fino ai nostri giorni...

La ricerca dell'interesse immediato, sia essa individuale o collettiva, spiega altrettanto bene il nostro sfruttamento irresponsabile delle risorse naturali quanto la nostra assenza di preoccupazione per le conseguenze nefaste delle nostre attività, i cui effetti sono cresciuti oggi fino a minacciare il futuro della nostra specie e quello di buona parte del mondo vivente. Tutto ciò che va oltre il futuro immediato, si tratti della nostra pensione, della nostra speranza di vita, della sorte dei nostri figli e nipoti o della data delle prossime elezioni, per limitarci a citare alcune scadenze familiari, non ci preoccupa.
Tutti questi fatti sono noti e abbondantemente denunciati dai media. Ciò che io, come biologo, ho voluto sottolineare in questo libro, è che essi derivano da tratti innati, iscritti e preservati nei nostri geni dalla selezione naturale. Utili in passato, in una certa fase della nostra evoluzione, questi tratti sono diventati nocivi. Essi costituiscono un fardello naturale che ci assumiamo alla nascita. Questo difetto della natura umana non è sfuggito alla perspicacia dei nostri antenati.

Il peccato originale non è altro che il difetto iscritto nei geni umani dalla selezione naturale
Gli antichi saggi nulla sapevano del DNA e della selezione naturale, ma capivano abbastanza dell'eredità per potere scrivere la storia dell'umanità in termini di generazioni successive risalendo fino ai nostri più remoti progenitori. E sapevano abbastanza della natura umana per essere in grado di scoprirvi un difetto fondamentale, lasciatoci dai nostri avi e trasmesso di generazione in generazione. Essi immaginarono così, per spiegare questa tara ereditaria in termini di nozioni che erano loro familiari, il mito stupefacente del peccato originale, collocato nel contesto nostalgico di un paradiso perduto. E, per non abbandonarsi alla disperazione, inventarono l'idea del riscatto, o meglio dell'atto di redenzione che sarebbe venuto a salvare l'umanità dalla sua caduta. Questo mito ispira ancora oggi le credenze, le speranze e i comportamenti di buona parte dell'umanità. Ecco perché non era del tutto inappropriato indicare il "colpevole", come ho fatto all'inizio di questo capitolo, nella selezione naturale, salvo che per il fatto che non si tratta di colpa nel senso generale del termine. Non c'è nessuna Eva da incolpare, e nessun serpente, ma solo la selezione naturale, che è inevitabilmente cieca, insensibile, priva di preveggenza come di responsabilità...

Meno romantica del racconto della Genesi, la nozione proposta ha il merito di fondarsi sulla realtà. Invece di fare appello all'intervento di un ipotetico redentore che sfugge totalmente al nostro controllo, essa conferisce all'umanità stessa il potere e la responsabilità di cancellare la tara originaria, o quanto meno di contrastarne le conseguenze. Anzi, noi siamo gli unici fra tutti gli esseri viventi sulla Terra a non essere totalmente schiavi della selezione naturale. Grazie al nostro cervello superiore, noi
abbiamo la capacità di riflettere sul futuro e di ragionare, di decidere e di agire alla luce delle nostre previsioni e aspettative, anche contro il nostro interesse immediato se occorre, e a beneficio di un bene futuro. Noi possediamo la facoltà unica di poter agire contro la selezione naturale.” (pp. 171-175)

Tra Natura e Cultura, insomma, dovendo attribuire la “colpa” della nostra condizione, de Duve non ha dubbi: la colpa sta dalla parte della prima.

E’ evidente che egli assume l’uomo che ha sotto gli occhi - l’individuo borghese e addirittura lo speculatore finanziario - come uomo universale, e dà per scontato che l’individuo, come noi lo concepiamo, sia sempre esistito. Si tratta di presupposti ampiamente ideologici che dà come scontati. Non potrebbe essere forse diversamente, dato che egli ha dedicato la sua vita allo studio della cellula e, presumibilmente, come accade a diversi biologi, è portato a pensare che la cellula venga prima dell’organismo.

E’ facile, peraltro, dimostrare che l’intuizione nietzschiana del carattere inesorabilmente personale e inconscio delle teorie che vengono costruite per spiegare la natura umana vale per gran parte degli studiosi che operano nell’ambito delle scienze umane e sociali. Da qualche tempo a questa parte, in conseguenza dello sviluppo di tecniche particolari, la frontiera della ricerca sull’uomo è divenuta lo studio del cervello. La neurobiologia è letteralmente esplosa, ma sono esplosi anche i contrasti tra gli studiosi che si dividono tra neuronali e umorali, dualisti e monisti, cognitivisti e “misteriani”. I contrasti, ovviamente, vengono portati avanti sulla base di argomentazioni scientifiche, ma di fatto essi corrispondono a opzioni ideologiche di fondo - razionalismo/passionalismo, spiritualismo/materialismo, scientismo/antiscientismo, ecc. - dietro ciascuna delle quali si danno modi di sentire e di vedere, che affondano le loro radici nella storia personale degli autori, nella loro ideologia e, da ultimo, nell’inconscio.

Prendere sul serio quell’intuizione e applicarla al pensiero di Nietzsche, come si è visto, non è però affatto semplice. Con la sua pretesa di totale onestà interiore, e nonostante una capacità riflessiva, introspettiva e critica che ha pochi confronti nella storia della cultura, Nietzsche non sfugge al ricatto ideologico della mente umana, che tende comunque a trasformare il personale in impersonale e a velare quanto di soggettivo e di inconscio si dà nell’attività del pensiero.

La sua ricerca della libertà assoluta dalle influenze sociali è esitata pertanto in una serie di splendide intuizioni, ma anche di forzature ideologiche, valer a dire di pre-giudizi nel senso negativo del termine.

Le forzature ideologiche di Nietzsche

Ho ribadito più volte che la catastrofe psicologica sopravvenuta con la perdita di una fede intensamente partecipata fino alla tarda adolescenza è, a mio avviso, l’evento più importante della storia interiore di Nietzsche. Le conseguenze di tale catastrofe sono rese del tutto evidenti dall’ossessione anticristiana che lo ha letteralmente perseguitato, sino ad indurlo (con l’Anticristo e Ecce homo) ad una vera e propria identificazione con Gesù, interpretato come uno “spirito libero”. Ciò nondimeno, come abbiamo visto, Nietzsche è giunto a negare che la religione abbia avuto un qualunque rilievo psicologico nella sua esperienza personale, estendendo tale negazione sino all’infanzia, come se avesse letteralmente rimosso le struggenti testimonianze mistiche affidate agli scritti autobiografici.

A mio avviso, però, più della perdita della fede, sopravvenuta in seguito ad una prepotente spinta adolescenziale verso l'individuazione, sono state le sue conseguenze soggettive a determinare la carriera umana e intellettuale di Nietzsche. Le ho analizzate nel corso della prima Conferenza, per cui mi limito ad elencarle: la fobia di qualsivoglia tipo di influenza sociale, vissuta come contaminante e alienante; il desiderio nostalgico dell’armonia perduta, che si è realizzata in virtù del nichilismo positivo, vale a dire del sì alla vita; lo sprigionarsi di uno spirito critico che, rifiutando ogni trascendenza e non riconoscendo alcun limite, si è posto l’obiettivo di demistificare, sul piano individuale, collettivo e storico-culturale, l’esperienza umana, riconducendola alla nuda verità della sua radicale insignificanza e del suo essere espressione di una sola motivazione impersonale - la volontà di potenza, intesa come affermazione della “forza” dell’individuo contro ogni resistenza che ad essa si oppone.

In queste conseguenze è agevole identificare l’espressione di un’“apertura degli occhi” sulla realtà del mondo e della vita intervenuta traumaticamente a livello adolescenziale e che è stata abreagita non solo accettando il trauma, ma ripetendolo coattivamente nel corso dell’esistenza sotto forma di demolizione di tutti i sistemi di valore su cui si fonda la Civiltà occidentale.

Il tragitto umano e intellettuale di Nietzsche è fin troppo facilmente riconducibile ad una crisi adolescenziale “maligna”, rimasta persistentemente cristallizzata sul registro del Grande Rifiuto nei confronti del mondo e di un’opposizionismo e negativismo viscerali nei confronti di qualsivoglia Norma o Tradizione.

Realizzandosi in un individuo dotato di potenzialità intellettuali indubbiamente geniali, tale processo ha esaltato lo spirito critico e la creatività, ma ha comporta inesorabilmente delle forzature “ideologiche” che in Nietzsche sono del tutto evidenti.

La forzatura di maggiore peso è ricondotta solitamente alla maledizione del Cristianesimo, che conclude l’Anticristo:

“Condanno il cristianesimo, sollevo contro la Chiesa cristiana l'accusa più terribile che abbia mai levato un accusatore. A mio parere essa, la più grande corruzione che si possa immaginare, ha avuto la volontà dell'ultima corruzione possibile. La Chiesa cristiana non ha lasciato nulla di intatto nella sua corruzione, ha reso ogni valore un disvalore, ogni verità una menzogna, ogni integrità una bassezza d'animo. E si osi ancora parlarmi dei suoi benefici «umanitari»! Abolire una condizione di miseria era contrario al suo più profondo vantaggio: ha vissuto sulla miseria, ha creato miserie per fare eterna se stessa...
Per esempio il germe del peccato: fu soltanto la Chiesa ad arricchire l'umanità di tale misera condizione! L' «uguaglianza delle anime davanti a Dio»: questa falsità, questo pretesto di rancunes delle persone abiette, questo concetto esplosivo che infine divenne rivoluzione, idea moderna e principio del declino dell'intero ordine sociale, è dinamite cristiana...
Benefici «umanitari» del cristianesimo! Coltivare dalla humanitas una contraddizione di sé stessi, un'arte di autolesionismo, una volontà di mentire a qualsiasi costo, un'avversione e un disprezzo per ogni istinto buono e onesto! Eccoli i benefici del cristianesimo! Il parassitismo come unica prassi della Chiesa; con il suo ideale di anemia, di «santità» che succhia tutto il sangue, l'amore e la speranza di vita; l'aldilà come volontà di negare ogni realtà: la croce come distintivo di riconoscimento per la cospirazione più lugubre che sia mai esistita, una cospirazione contro il benessere, la bellezza, la buona costruzione, il valore, lo spirito, la bontà d'animo, contro la vita stessa…”

Nonostante un fondo indubbio di verità, tali frasi sono state scritte da un soggetto che presagiva la catastrofe che incombeva nel suo inconscio, e, non essendo in grado di interpretarla, opponeva ad essa come difesa un delirio di onnipotenza.

La necessità di affrancare l’umanità dalla religione non nasce certo con Nietzsche. Da Senofane, che sottolineò il carattere antropomorfico della divinità, sino a Marx, quella necessità si è posta ricorrentemente nella storia della cultura umana, e si è incrementata dopo l’avvento dell’Illuminismo. A differenza di Marx, che ritiene indispensabile l’abbandono della religione affinché gli uomini aprano gli occhi sull’ingiustizia dello stato di cose esistente sulla Terra e si propongano di lottare per sormontarlo, senza abbandonarsi alla fantasia dell’aldilà, Nietzsche ritiene che quell’abbandono sia necessario per consentire all’umanità di giungere ad una consapevolezza definitiva sulla sua condizione che promuova il sì alla vita e riabiliti l’unico scopo che può dare senso alla sua comparsa casuale: il procedere verso l’oltreuomo, il regno degli spiriti liberi.

La convinzione di Marx che la concezione storico-dialettica della realtà potesse porre fine all’alienazione religiosa è risultata oltremodo ingenua. Quella di Nietzsche, oltre che ingenua, è tracotante: egli pensa, infatti, con la sua opera, di aver messo Dio a morte e, in quanto Anticristo, di avere avviato un nuovo ciclo di Civiltà.

Cosa dire a riguardo?

Non è prevedibile, se non in tempi molto lunghi, che la religione - il Cristianesimo, l’Ebraismo, l’Islamismo, il Buddismo, l’Induismo, ecc. - possa essere sradicata dalla cultura umana, e non tanto perché essa, sia pure in forme diverse, fornisce una risposta all’intuizione dell’Infinito che circola nella mente umana e ai problemi ultimi dell’esistenza. Il problema è che ogni religione, laddove è radicata, rappresenta un mito fondativo, vale a dire concorre a dare ad un gruppo, ad un’etnia, ad una nazione o ad un insieme di nazioni un senso di identità.

Per qualunque collettività, non diversamente da quanto accade al singolo individuo, non c’è terrore maggiore della perdita di identità.

Nel 2001, un antropologo - Francesco Remotti - ha scritto un libro il cui titolo è poco equivocabile: Contro l’identità. Il titolo provocatorio fa riferimento al fatto che l'identità, sia a livello individuale che collettivo, è un "tentativo talvolta eroico (e irrinunciabile) di salvazione rispetto all'inesorabilità del flusso e del mutamento" (p. 10) e, per ciò, tende naturalmente a irrigidirsi e a cristallizzarsi fino al punto di chiudersi e misconoscere le connessioni con lo sfondo cui appartiene e con il flusso che permane al fondo di ogni vicenda. L’ossessione identitaria fa capo alla necessità di differenziare l’Io dall’Altro e il Noi da Loro. Essa tende all’irrigidimento perché “rimane incancellabile il sospetto, al fondo persino la certezza, che la propria forma di umanità (la propria identità) non è la sola… Vi è tensione tra identità e alterità: l'identità si costruisce a scapito dell'alterità, riducendo drasticamente le potenzialità alternative; è interesse perciò dell'identità schiacciare, far scomparire dall'orizzonte l'alterità. […] Questo gesto di separazione, di allontanamento, di rifiuto e persino di negazione dell'alterità non giunge mai a un suo totale compimento o realizzazione. L'identità respinge, ma l'alterità riaffiora" (p. 61).

Per andare oltre l'identità, "il primo passo che occorre compiere è esattamente quello di uscire da una logica puramente identitaria ed essere disposti a compromessi e condizioni che inevitabilmente indeboliscono le pretese solitarie, tendenzialmente narcisistiche e autistiche dell'identità. Uscire dalla logica identitaria significa inoltre essere disposti a riconoscere il ruolo formativo, e non semplicemente aggiuntivo o oppositivo, dell'alterità" (p. 99). Quest'uscita, già avviata sul piano della psicologia individuale (laddove si riconosce che "in un certo senso, siamo tutti composti da una molteplicità di "io" e di "sé", e la nozione di un sé come intrinsecamente relazionale è discontinuo è ormai anch'essa un fuoco verso cui si registrano molte convergenze" p. 101), deve avvenire anche per quanto riguarda il "noi".

Il paradosso è che le grandi religioni, che sono universalistiche, hanno tentato alle loro origini di abbattere i “recinti” identitari, riconducendo gli esseri umani alla consapevolezza dell’appartenenza ad una stessa specie e del loro comune destino. Il fatto che il loro radicamento in determinati ambiti geografici abbia contribuito a cristallizzare le Civiltà la dice lunga sul fatto che l’ossessione identitaria ha radici nell’inconscio umano più profonde di quanto si pensi.

Se questo è vero, l’utopia di Nietzsche di un mondo guarito dal morbo religioso, di un universo di spiriti liberi, pacificati dall’elevato grado di realizzazione raggiunta e intenti a coltivare la vita nell’assoluta consapevolezza della sua sostanziale insignificanza, appare veramente come espressione di un genio visionario affetto da un delirio di onnipotenza.

Sarebbe già molto giungere ad una forma di autentico pluralismo, vale a dire di rispetto tra credenti e non credenti su tutta la faccia del Pianeta. Purtroppo, siamo oltremodo lontani da questo traguardo. I credenti, sia pure in forme diverse, continuano ad essere, sia pure in forme diverse, intolleranti nei confronti degli atei, e molti di questi li ripagano con la stessa moneta.

La forzatura ideologica di maggior peso operata da Nietzsche, però, come accennavo non è da identificarsi nella maledizione della Religione, bensì nel suo disprezzo senza limiti nei confronti del senso comune e dell’uomo comune. Oltre a quelle già riportate, leggiamo le seguenti citazioni:

“Nella natura non c'è creatura più vuota e ripugnante dell'uomo che è sfuggito al suo genio e ora volge di soppiatto lo sguardo a destra e a sinistra, indietro e ovunque. Un tale uomo alla fine non lo si può neppure attaccare: è solo esteriorità senza nucleo, un marcio costume, pitturato e rigonfio, un fantasma agghindato che non può ispirare paura e tanto meno compassione. E se a ragione si dice del pigro che ammazza il tempo, allora ci si deve preoccupare sul serio che un tempo che pone la propria salvezza nelle opinioni pubbliche, e cioè nelle pigrizie private, sia ucciso una buona volta: venga, intendo dire, cancellato dalla storia della vera liberazione della vita.” (CI 3)

“Per l’uomo comune, ordinario, il valore della vita si fonda unicamente sul fatto che egli si considera più importante del resto del mondo. La grande mancanza di fantasia da cui è affetto fa si che egli non possa sentirsi compenetrato in altri esseri, e partecipi dunque il meno possibile al loro destino e alla loro sofferenza. Chi invece potesse veramente prendervi parte, dovrebbe disperare del valore della vita; se riuscisse ad accogliere in sé e a sentire l’intera coscienza dell’umanità, proromperebbe in una bestemmia contro l’esistenza - perché nel complesso l’umanità non ha mete e di conseguenza l’uomo, considerando il suo intero decorso, non può trarne consolazione o appiglio, ma disperazione.

Se, in tutto quel che fa, guarda alla estrema mancanza di scopo dell’umanità, il suo operare assume ai suoi occhi il carattere dello spreco. Ma sentirsi - come umanità, e non solo come individuo - sprecati, come vediamo sprecati dalla natura i singoli fiori, è un sentimento al di sopra di ogni sentimento. Ma chi ne è capace?” (UTU)

“Gli uomini della vita mancata. - Taluni sono di una stoffa tale che alla società è permesso fare di loro questa o quella cosa: in tutte le circostanze essi si troveranno bene, e non dovranno lagnarsi di una vita mancata.” (AU)

La mediocrità dell’uomo comune, vale a dire del soggetto la cui ossessione di essere normale lo induce a privilegiare l’appartenenza e l’integrazione sociale rispetto all’individuazione, vale a dire allo sforzo di prendere posizione in rapporto al mondo e di operare scelte significative di vita, è un dato di fatto che abbiamo ancora oggi sotto gli occhi.
Il problema è come interpretare questa realtà. Ebbro del suo acume intellettuale, Nietzsche la analizza colpevolizzando gli esseri umani, accusandoli di essere pigri, codardi, neghittosi, accidiosi, da ultimo ridicoli con la loro pretesa di avere un Io:

“La maggior parte degli uomini, qualsiasi cosa possano dire e pensare del loro «egoismo», nonostante ciò, in tutta la loro vita, non fanno niente per il loro ego, ma soltanto per il fantasma dell'ego, che si è formato, su di essi, nella mente delle persone del loro ambiente e che si è loro trasmesso, - in conseguenza di ciò, tutti insieme vivono in una nebbia di opinioni impersonali, semipersonali e di valutazioni arbitrarie, quasi poetiche, ognuno nella testa di un altro, e questa testa sempre in altre teste: uno strano mondo di fantasmi, che in tutto questo sa darsi un aspetto così sobrio! Questa nebbia di opinioni e di abitudini cresce e vive quasi indipendentemente dagli uomini che essa avvolge; in essa si trova l'enorme influsso dei giudizi generali su «l'uomo» - tutti questi uomini sconosciuti a se stessi credono all'esangue entità astratta di «uomo», cioè a una finzione; e ogni cambiamento che viene introdotto in questa astrazione attraverso i giudizi di singoli potenti (come principi e filosofi) influisce straordinariamente in irrazionale misura sulla grande maggioranza, - tutto ciò per il motivo che ogni singolo in questa maggioranza non può contrapporre alcun ego reale, a lui accessibile e da lui conosciuto a fondo, a quella pallida finzione universale e, così, non può annullarla.” (AU)

C’è una verità di fondo che Nietzsche coglie nella società borghese del suo tempo con cui interagisce. Tale verità concerne il fatto che l’uomo che pensa di avere raggiunto una piena individualità e una completa padronanza razionale di sé e dà al suo ego un’estrema importanza è un essere quant’altri mai manipolato e alienato.

E’ in riferimento a questo uomo che Nietzsche parla dell’umanità come una specie mal riuscita. Se poniamo da parte la tensione estrema con cui egli ha tentato di differenziarsi radicalmente da tale modello, finendo con l’incarnare il tipo opposto dell’essere mal riuscito – quello del genio visionario malato ed emarginato -, possiamo renderci conto della misura in cui la “diagnosi” di Nietzsche abbia influito sulle riflessioni successive sull’alienazione umana.


L’alienazione rivisitata

Lo svuotamento di senso dell’esistenza non è stato introdotto nella filosofia da Nietzsche, ma da Marx, che lo ritiene una conseguenza inesorabile del Capitalismo sia a livello di classi popolari che di classi agiate, le une oppresse dal lavoro e dall’aspirazione ad una vita migliore in termini consumistici, le altre affondate in un benessere che le rende sterilmente compulsive.

Richiamandosi esplicitamente a Marx, ma dando rilevo al pensiero di Nietzsche e tentando di recupera quello di Freud in un’ottica potenzialemnte rivoluzionaria, H. Marcuse pubblica nel 1955 Eros e Civiltà e nel 1964 L’uomo ad una dimensione. Entrambi rappresentano una critica alla civiltà industriale che rievoca il pensiero di Nietzsche.
In Eros e civiltà, per esempio, Marcuse afferma:

« ... il fine della vita, anzichè essere quello di godere e far godere il nostro stare al mondo, a titolo di liberi soggetti-oggetti libidici, è storicamente divenuto il lavoro e la fatica, che gli individui hanno finito per accettare come qualcosa di "naturale",o come la "giusta" punizione per qualche colpa commessa, "introiettando" in tal modo la repressione, secondo il principio della cosiddetta "autorepressione dell'individuo represso".»

Tuttavia - secondo Marcuse - la civiltà della prestazione non è riuscita a far tacere completamente l'impulso primordiale verso il piacere, la cui memoria è conservata nell'inconscio e nelle sue fantasie: «La fantasia ha una funzione d'importanza decisiva nella struttura psichica totale: essa collega gli strati più profondi dell'inconscio con i prodotti più alti della coscienza (arte), il sogno con la realtà; conserva gli archetipi della specie, le idee eterne ma represse della memoria collettiva e individuale, le immagini represse e ostracizzate della libertà.»

Ne L’uomo ad una dimensione, poi, Marcuse parte addirittura implicitamente dal presupposto nietzschiano della critica della coscienza integrandolo con l’apporto di Marx.
Secondo Marcuse, la coscienza è semplicemente il modo in cui le persone si rapportano alla realtà con un loro modo di sentire, di pensare e di agire. La possibilità che essa sia vera o falsa, vale a dire fedele ai dati reali esperiti o più o meno mistificata rispetto ad essi, dipende dal fatto che il suo statuto non è di ordine primariamente ed esclusivamente psicologico. Certo, ogni soggetto ha una sua esperienza della realtà, ma perché questa esperienza si integri fino a dar luogo ad un livello di coscienza, vale a dire ad una certa visione del mondo, occorre un a priori che è dato, semplicemente, dalla società e dalla cultura col suo carico di valori, tradizioni, pregiudizi, luoghi comuni, ecc. La coscienza è dunque, per il processo stesso che la fonda, una dimensione ideologica, ritagliata sullo sfondo di un mondo storico, nella quale il soggetto riversa le sue potenzialità nella misura in cui essa può accoglierle.

Ciò spiega la distinzione tra coscienza e mente, la quale ultima contiene vari aspetti della realtà esperiti ma non integrati (rimossi dunque) e una quota di potenzialità inespresse e frustrate. Si tratta dunque di una definizione sociologica e psicoanalitica della coscienza, che sottolinea, per un verso, la partecipazione del sociale alla sua integrazione e alla selezione delle informazioni, e, per un altro, quanto ci può essere in essa di vero ma, nel contempo, precluso dall'assetto cosciente. Entrambe le definizioni traggono senso dal riconoscere la radicale storicità dell'esperienza soggettiva: l'ambiente socio-storico non solo informa la coscienza ma la forma anche in maniera tale che essa è sollecitata a riconoscere qualcosa, a misconoscere qualcos'altro e, soprattutto, a negare e a rimuovere gli effetti di disordine e di frustrazione che l'ambiente produce in rapporto al capitale dei bisogni autentici depositati nella natura umana.

Ciò che interessa Marcuse non è, però, lo statuto e l'organizzazione della coscienza come dato universale dell'esperienza umana, che è un'astrazione, bensì il modo in cui funziona effettivamente la coscienza nell'ambito di un contesto storico specifico, quello della società industriale avanzata.

La tesi di fondo di Marcuse è che la coscienza del cittadino medio occidentale è caratterizzata da un tratto specifico, la falsificazione, in nome della quale essa si sente libera senza esserlo, in virtù del fatto che scambia come propri bisogni i bisogni imposti dal sistema socio-economico (definiti impropriamente bisogni sociali):

"In questa società l'apparato produttivo tende a diventare totalitario nella misura in cui determina non solo le occupazioni, le abilità e gli atteggiamenti socialmente richiesti, ma anche i bisogni e le aspirazioni individuali." (p. 9)

"L'apparato impone le sue esigenze economiche e politiche, in vista della sua difesa e dell'espansione, sul tempo di lavoro come sul tempo libero, sulla cultura materiale come su quella intellettuale. In virtù del modo in cui ha organizzato la propria base tecnologica, la società industriale contemporanea tende ad essere totalitaria." (p. 17)

Il controllo sulle coscienze è assicurato dall'interiorizzazione dei falsi bisogni, vale a dire da bisogni propri del sistema che vengono interiorizzati, vissuti e perseguiti come bisogni individuali:

"E' possibile distinguere tra bisogni veri e bisogni falsi. I bisogni "falsi" sono quelli che vengono sovrimposti all'individuo da interessi sociali particolari cui preme la sua repressione: sono i bisogni che perpetuano la fatica, l'aggressività, la miseria e l'ingiustizia… La maggior parte dei bisogni che oggi prevalgono, il bisogno di rilassarsi, di divertirsi, di comportarsi e di consumare in accordo con gli annunci pubblicitari, di amare e odiare ciò che altri amano e odiano, appartengono a questa categoria di falsi bisogni." (p. 19)

Il paradosso del sistema industriale avanzato consiste proprio nell'avere creato le condizioni oggettive per la liberazione degli autentici bisogni umani (lo Stato del benessere), ma nel dovere reprimere ogni istanza di liberazione, attraverso l'imposizione di falsi bisogni, per perpetuare se stesso:

"Con tutta la sua razionalità, lo Stato del benessere è uno stato in cui regna l'illibertà, poiché la sua amministrazione totalmente accentrata impone una restrizione sistematica su a) il tempo libero "tecnicamente" disponibile; b) la quantità e la qualità di beni e servizi "tecnicamente" disponibili per i bisogni vitali dell'individuo: c) l'intelligenza (cosciente e inconscia) capace di comprendere e realizzare le possibilità di autodeterminazione." (p. 62)

"La sua promessa suprema è una vita sempre più confortevole per un numero sempre più grande di persone, le quali, in senso stretto, non sanno immaginare un universo di discorso e di azione qualitativamente differente, poiché la capacità di manipolare e di contenere l'immaginazione e lo sforzo sovversivi è parte integrante della società data." (p. 18)

L'uomo a una dimensione (la “bestia nera” di Nietzsche) è per l'appunto il soggetto che, avendo accettato la razionalità del reale, non ha più la percezione del possibile, non vive più lo scarto tra ciò che è e ciò che dovrebbe essere, sia in riferimento alla realtà che a se stesso. Questa definizione non implica in alcun modo l'equivoco in cui caddero i critici conservatori e non pochi sessantottini secondo il quale l'uomo unidimesionale è una marionetta, un burattino, un automa. Egli è un uomo in carne ed ossa, spesso in buona fede, che sente e pensa e si sforza anche di capire qualcosa e di dare significato alla propria vita e al mondo. L'attività cognitiva non viene dunque negata. Il problema è che essa finisce sistematicamente nei canali di pietra ideologici di ciò che si deve pensare e sentire e di come si deve agire.

Il paradosso di un sistema sociale che crea, con la sua ricchezza, le premesse di una liberazione radicale dell'uomo e stabilisce poi, attraverso l'interiorizzazione di falsi bisogni, un dominio pressoché totale sulla coscienza, è il leit-motiv del saggio. Esso viene svolto su due piani.

Da una parte, Marcuse cerca di dimostrare che il sistema capitalistico, mirando a soddisfare le sue esigenze, che sono quelle di uno sviluppo illimitato, non può che identificare quelle con i bisogni individuali e infine imporle:

"Nelle zone più altamente sviluppate della società contemporanea, il trapianto dei bisogni sociali nei bisogni individuali è così efficace che la differenza tra i due sembra essere puramente teorica. E' mai possibile tracciare una vera distinzione tra i mezzi di comunicazione di massa come strumenti di informazione e di divertimento, e come agenti di manipolazione e d'indottrinamento? Tra l'automobile come jattura e come comodità? Tra gli orrori e i comodi dell'architettura funzionale? Tra il lavoro che serve alla difesa nazionale e quello che giova soprattutto ai profitti delle società per azioni?" (p.22)

Dall'altra parte, Marcuse analizza gli effetti dell'interiorizzazione dei bisogni del sistema a livello di coscienza e di soggettività, laddove essi, sotto forma di falsi bisogni, giungono a sostituire quelli propri dell'individuo e della natura umana. Tali effetti coincidono con la falsa coscienza, vale a dire con una coscienza felice che accetta la realtà così com'essa è, la vive come una realtà razionale, anzi l'unica possibile, e si preclude l'accesso ad una più profonda comprensione dei fatti. In altre parole nega l'irrazionalità intrinseca alla civiltà industriale, che pone le premesse per la liberazione dell'uomo dal bisogno ma poi di fatto la ostacola, e rimuove le istanze di liberazione che premono a livello inconscio.

L’ascendenza nietzschiana del pensiero di Marcuse è indubbia, e conferma che tra l’antropologia marxiana e quella nietzschiana non c’è incompatibilità assoluta, per quanto i presupposti di partenza siano del tutto diversi,

In un’ottica liberal-progressista, che implica una risposta a Marcuse, nel 1984 lo storico Cristopher Lasch, dopo aver avviato con La cultura del Narcisismo (1981) il discorso sulla condizione psicosociologica contemporanea, pubblica L’Io minimo. Il titolo è pregnante. L’io minimo è un io in stato di assedio, che si contrae e si ripiega su se stesso non per motivi egoistici, ma perché è terrorizzato dall’incertezza del presente e dall’incubo del futuro. E’ un io, insomma, il cui interesse primario è la difesa della sua identità e della sua sopravvivenza psichica, un io incerto dei propri contorni, che aspira a riprodurre il mondo a sua immagine e a fondersi con esso, un io infine dolorosamente consapevole della tensione tra le sue aspirazioni illimitate e la sua limitatezza, tra l’originario presagio di immortalità e il suo stato mortale, tra unità e separazione.

Come è sopravvenuta questa trasformazione? Lasch risponde facendo riferimento al crollo dei valori tradizionali, al venire meno del senso della comunità, alla difficoltà sempre più rilevante di stabilire affetti e, da ultimo, con la cattura nell’ideologia del benessere, che il sistema alimenta offrendo alla tensione verso l’Infinito che sottende l’anima umana il miraggio di una compiuta soddisfazione attraverso gli oggetti di consumo. Via via che questo miraggio si rivela deludente, l’io è spinto sempre più a ripiegarsi su se stesso e a difendersi dal senso di vuoto che avverte, a cui non possono porre più rimedio i suoi infiniti desideri (i falsi bisogni marcusiani).

Secondo Lasch, dunque, la crisi dei valori auspicata da Nietzsche si è compiutamente realizzata, ma la sua conseguenza non è affatto positiva. Quello nel quale viviamo non è affatto un universo di spiriti liberi, aperti all’avventura della vita, bensì di soggetti impauriti e insicuri riguardo al presente e al futuro, dolorosamente consapevoli tra l’altro dell’abisso che vi è tra le aspirazioni e i limiti umani, ma, proprio per questo, inclini a chiudersi nel loro “bunker” egoistico.

Nella misura in cui si è realizzata, dunque, la soluzione nietzschiana del nichilismo non funziona.

Il problema è che quella soluzione è di ordine strettamente individuale, e comporta il misconoscimento che gli esseri umani vivono in società e hanno bisogno di un quadro di valori che medi le esigenze collettive e quelle individuali. Ma è proprio questa mediazione del tutto estranea al pensiero di Nietzsche, che attribuisce all’uomo solo il bisogno di individuazione e pensa, tra l’altro, che esso possa realizzarsi solo in virtù di un conflitto costante con il mondo cui si appartiene.

E’ inutile e ingeneroso sottolineare ulteriormente che il funambolo Zarathustra-Dioniso-Cristo non ce l’ha fatta a rimanere in equilibrio sulla fune della solitudine sospesa sull’abisso da sormontare per transitare dall’uomo all’oltreuomo. I motivi di tale caduta sono molteplici. Non da ultimo, occorre considerare l’enfasi eccessiva sulla volontà di potenza.

Volontà di potenza e Natura umana

La teoria della Natura umana di Nietzsche si può ricostruire facendo riferimento per un verso all’istinto del gregge e per un altro alla volontà di potenza.

L’istinto del gregge in Nietzsche non ha nulla a che vedere con un bisogno sociale primario, che egli nega. Esso esprime semplicemente il condizionamento che il gruppo opera sull’individuo sfruttando la sua debolezza di entrare in conflitto con i più e di trovarsi isolato. E’ la matrice insomma della morale, del come si deve vivere all’interno di un determinato contesto socio-storico:

“La collettività sta con i suoi membri in quel rapporto di base così importante che è quello del creditore verso i suoi debitori. Si vive in una comunità, si gode dei vantaggi di una collettività (oh, quali vantaggi! oggi talvolta li sottovalutiamo), si abita protetti, al riparo, in pace e nella fiducia, senza preoccupazioni per quello che riguarda certi danneggiamenti e atti di ostilità, ai quali è esposto l'uomo al di fuori, colui che è «escluso»” (GM)

L’istinto del gregge esprime solo dunque la paura della rappresaglia sociale che inesorabilmente investe chi, non intendendo pagare il suo debito, vale a dire attenersi al tu devi socialmente imposto, si pone come insolvente, danneggiatore, delinquente:

“La comunità, il creditore ingannato, si farà pagare come meglio potrà, ci si può contare.
Si tratta qui, per lo meno, del danno immediato, che il danneggiatore ha provocato: a prescindere da ciò, colui che delinque è soprattutto colui che «viola», che rompe un patto o viene meno alla parola data contro il tutto, in relazione a tutti i beni e le piacevolezze della vita comunitaria, cui egli ha partecipato fino a quel momento.
Il delinquente è un debitore che non solo non ripaga i vantaggi e gli anticipi di cui ha goduto, ma che passa addirittura a vie di fatto col suo creditore: dal che deriva, ovviamente, che a partire da quel momento non solo egli perderà tutti questi beni e vantaggi, ma gli verrà fatto anche ricordare che importanza hanno questi beni.
L'ira del creditore danneggiato, della collettività, lo restituisce allo stato selvaggio e assolutamente fuori legge dal quale era stato fino a quel momento protetto: lo respinge dal suo seno e da questo momento ogni specie di ostilità può essere esercitata contro di lui.” (GM)

Il rapporto tra l’individuo e la società si pone, dunque, in Nietzsche in termini di aut-aut: o quegli si assoggetta a pagare il suo debito, venendo a far parte del gregge, o viene
sanzionato, escluso, perseguitato.

Per quanto si possa riconoscere nell’appartenenza sociale un pericolo costante di normalizzazione e di omologazione, sembra che a Nietzsche sfugga del tutto un dato elementare: il primato del gruppo sull’individuo è dovuto meno alla “violenza” che esso esercita che non al fatto che l’essere umano viene al mondo in una condizione di radicale insufficienza, dipendenza e immaturità. A Nietzsche, la cui concezione dell’uomo è marcatamente adultomorfa, questo dato dà fastidio, perché rievoca in lui l’originaria condizione infantile di bambino e adolescente ligio alle regole e timorato. Ma le cose stanno così.

Il bisogno di appartenenza riconosce la sua matrice primaria nel fatto che l’infante ha bisogno di un rapporto affettivo e culturale con il mondo adulto per acquisire consapevolezza di se stesso e per apprendere i rudimenti che lo predispongono ad assumere, lentamente, i ruoli sociali che definiscono la sua personalità adulta.

Oggi sappiamo che tale bisogno è sotteso dall’empatia, vale a dire dalla necessità del bambino di sintonizzarsi affettivamente in rapporto agli adulti. Sappiamo anche che la sua condizione di prematurità e di inermità evoca negli adulti stessi un moto naturale di empatia, che si traduce in cura, protezione, tenerezza, conforto, ecc.

Almeno sotto il profilo affettivo, dunque, la socialità non è affatto persecutoria, bensì indispensabile all’assunzione da parte del bambino di caratteristiche umane. Certo, la socialità comporta inesorabilmente in fase evolutiva l’interiorizzazione dei valori trasmessi dalla famiglia, dagli educatori e dalla società. Se si considera questo un male, è un male inevitabile: è la conseguenza del critico allentarsi degli istinti sopravvenuto in rapporto con la comparsa della specie umana. L’allentamento degli istinti, posto in luce a analizzato da A. Gehlen, ha reso l’essere umano bisognoso di cultura più di ogni altro animale.

Preda di un bisogno di individuazione antitetico all’appartenenza, e dunque orientato verso una mitica autosufficienza, Nietzsche non può tenere conto di questo dato e, dunque, drammatizza la dipendenza culturale dell’individuo dal gruppo, in conseguenza della quale egli giunge ad interiorizzare i valori culturali e morali dominanti con il loro carico di contraddizioni, fraintendimenti, pregiudizi, ipocrisie, falsità, ecc.

E’ per questo che egli parla dell’individuo sociale come un essere inesorabilmente corrotto:

“Definisco corrotto un animale, una specie, un individuo quando perde i propri istinti, quando sceglie e preferisce ciò che gli è dannoso. Una storia dei «sentimenti più elevati», degli «ideali dell'umanità» - ed è possibile che finisca necessariamente per narrarla - quasi costituirebbe anche una spiegazione del perché l'uomo sia così corrotto. Considero la vita stessa un istinto di crescita, di durata, di accumulo di forze e di potenza: dove la volontà di potenza vien meno, là è il declino. Affermo che questa volontà manca in tutti i valori supremi dell'umanità, che sotto i nomi più santi regnano valori di declino, valori nichilistici.” (AC)

In questa citazione, riesce evidente che la corruzione significa sostanzialmente una repressione della volontà di potenza, vale a dire dell’unico istinto che Nietzsche riconosce come intrinseco alla natura umana.

La definizione della volontà di potenza non è mai sufficientemente chiara nell’opera nitzscheana. Sicuramente essa è distinta dalla volontà schopenahueriana. Questa infatti fa riferimento alla cieca e insensata bramosia degli esseri viventi, che li destina inesorabilmente al dolore. In Nietzsche, invece, la volontà di potenza è un attributo dell’individualità, una spinta motivazionale che, pur essendo in sé e per sé impersonale (in quanto “istinto di crescita, di durata, di accumulo di forze”), se riesce ad agire in opposizione all’istinto del gregge, porta l’individuo ad aprirsi alla vita, a cercare la novità, l’avventura, il rischio e persino il dolore, e a trovare in questa sfida il senso della sua esistenza.

La volontà di potenza nietzscheana è una spinta motivazionale verso un’individuazione eroica, che promuove l’affermazione di sé anche contro gli altri, le convenzioni, il senso comune. E’ paradossalmente la rivendicazione di una libertà totale che coincide con l’accettazione del fato, del proprio destino nella misura in cui esso muove dalle viscere del corpo e della mente.

L’antitesi che Nietzsche pone tra istinto del gregge e volontà di potenza ha un grande significato solo se essa viene interpretata in termini dialettici.

Il bisogno di individuazione, di fatto, oggi si può assumere come corrispondente ad una programmazione biologica, rappresentata secondo uno spettro di intensità in tutti i corredi genetici individuali. Esso, però, non potrebbe realizzarsi se non in opposizione a modi di sentire, di pensare e di agire proposti o prescritti culturalmente e interiorizzati.

Altrove ho scritto che l’interiorizzazione della cultura di appartenenza e l’individuazione possono essere omologati al processo alimentare. Dato il suo essere carente e bisognoso (che riguarda il corpo non meno che la mente), il soggetto non potrebbe sussistere se non introiettasse “oggetti” (cibo, valori) che provengono dal mondo esterno. Al tempo stesso, perché l’introiezione funzioni, è necessario che gli “oggetti” vadano incontro ad un processo di digestione che ne consente l’assimilazione, vale a dire l’appropriazione da parte del soggetto stesso. Il cibo si trasforma in carne, ossa, sangue, ecc., vale a dire nei tessuti che specificano l’individualità biologica. I valori culturali, se vengono elaborati e assimilati per effetto del bisogno di individuazione, diventano modi di sentire, di pensare e di agire che il soggetto avverte come espressivi della sua vocazione ad essere.

L’antitesi che Nietzsche pone tra istinto del gregge e individuazione ha un significato storico. Di fatto, ancora oggi, nella maggioranza delle persone, i valori culturali acquisiti dall’ambiente rimangono introiettati, realizzando quella singolare struttura di personalità che David Riesman in La folla solitaria (il Mulino, Bologna 1999) ha definito autodiretta, intendendo con ciò che i giudizi sociali introiettati funzionano come una sorta di pilota automatico del comportamento individuale. Questa nuova condizione si può ritenere più insidiosa rispetto a quella che l’ha preceduta, la quale, per influenza della Religione e della comunità, determinava una personalità eterodiretta, guidata cioè direttamente da Dio o dagli occhi della gente.

Nietzsche ritiene giustamente che l’autodirezione, e a maggior ragione l’eterodirezione rappresentino penose rinunce che i soggetti operano in rapporto al loro dovere di pensare criticamente e di essere in disaccordo con le scelte culturali operate dalla società.
Nella misura in cui, però, demonizza l’istinto gregario, riconoscendo in esso solo un ostacolo sulla via dell’individuazione e dello strutturarsi di una personalità autonoma, guidata cioè da un sistema di valori assimilato, egli misconosce il fatto che è solo l’interiorizzazione dei valori culturali prodotta dall’appartenza a promuovere l’individuazione.

Questo significa che la personalità dell’essere umano comporta necessariamente aspetti eterodiretti, autodiretti e autonomi. La combinazione e il peso specifico di tali aspetti possono senz’altro consentire di differenziare uno spettro che riconosce come estremi l’uomo comune (o se si vuole banale) prevalentemente etero- e autodiretto e l’uomo differenziato e originale, prevalentemente autonomo.

Il mito nietzscheano di uno spirito totalmente libero e autonomo è privo di fondamento, perché l’individuazione si realizza e non può realizzarsi che come un ordito su di una trama prodotta dall’appartenenza socio-culturale.

Laddove un individuo, come è accaduto a Nietzsche, ritiene di avere raggiunto una condizione di libertà totale nel sentire, nel pensare e nell’agire, per quanto egli possa essere differenziato, originale e geniale, ciò significa solo che rimuove gli aspetti etero- e autodiretti della sua personalità.

Per quanto riguarda Nietzsche, questo aspetto può essere comprovato biograficamente. Egli, infatti, dopo le dimissioni dall’Università, ha in pratica troncato i ponti con il mondo, girovagando di continuo e coltivando orgogliosamente la sua libertà di pensiero. Questa libertà però si è tradotta nello scrivere e nel pubblicare libri. Certo, egli li pubblicava indirizzandoli agli spiriti liberi e aspettando che questi, riconoscendosi nel suo pensiero, avviassero la rivoluzione destinata a portare l’umanità sulla via dell’Oltreuomo. Ciò nondimeno, egli ha accusato pesantemente il colpo dello scarso successo conseguito in vita (o meglio sino al momento in cui è precipitato nella follia).

Questo colpo non è stato forse insignificante nel precipitare la crisi. Negli ultimi lavori e nei biglietti della follia è assolutamente evidente che Nietzsche compensa la frustrazione con un delirio di onnipotenza il cui significato è trasparente: tutti sanno e hanno preso atto della sua grandezza e della sua straordinarietà, tutti riconoscono che egli è il pensatore più geniale che sia mai esistito, il quale ha radicalmente cambiato il corso della storia umana. Tutti, non solo gli spiriti liberi.

Certo, il delirio di onnipotenza si associa al desiderio di essere riconosciuto come il genio che ha cambiato il corso della storia: insomma come dominatore del mondo. Ma è il mondo nella sua totalità il referente del delirio, tanto è vero quello che scrive Marx laddove dice che l’uomo è un animale a tal punto sociale che può isolarsi solo in società.

Il primato del corpo sulla mente

Se l’enfatizzazione del bisogno di individuazione viene mortificata dal suo porsi in antitesi radicale rispetto al bisogno di appartenenza, un merito indubbio di Nietzsche consiste nell’avere recuperato la dimensione del Corpo come primaria rispetto alla Mente, correggendo l’errore di Cartesio, che ha scisso il legame tra le due dimensioni assegnando la prima al regno della materia e la seconda a quella dello spirito.

Ne La gaia scienza si legge:

“Dietro i più alti giudizi di valore dai quali fino ad ora è stata guidata la storia del pensiero sono nascosti fraintendimenti della costituzione fisica, sia del singolo, sia dei ceti o addirittura delle razze.
Tutte le ardite follie della metafisica, in particolare le sue risposte alla domanda sul valore dell’esistenza, si possono sempre considerare sintomi di determinati corpi; e se globalmente a tali affermazioni o negazioni del corpo non si può attribuire nemmeno un briciolo di significato, esse pur tuttavia forniscono allo storico e allo psicologo tanti preziosi suggerimenti in quanto sono, come abbiamo detto, sintomi del corpo, del suo riuscire e fallire, della sua pienezza, potenza, autodominio nella storia, ma anche dei suoi impedimenti, stanchezze, impoverimenti, del suo presentimento della fine, della sua volontà di finire.
Io continuo ad aspettarmi che un medico filosofico nel senso non comune del termine ― ovvero che si dedichi al problema della salute globale di popolo, tempo, razza, umanità ― abbia finalmente il coraggio di portare alle sue estreme conseguenze il mio dubbio e di osare questa affermazione: fino ad oggi, tutto il filosofare non è stato «verità», ma qualcos’altro, diciamo salute, futuro, crescita, potenza, vita..”

Se Nietzsche ritiene che il corpo, con i suoi diversi stati, influisca anche sull’attività filosofica, vale a dire su di un’attività intellettuale che sembra lontana dalla fisiologia propriamente intesa, è evidente che egli assegna alla dimensione somatica un valore importante. Questo aspetto non è sorprendente se si tiene conto della sua concezione pulsionale, ma, di certo, sembra azzardato.

In realtà, via via che le neuroscienze approdano ad una visione monistica dell’essere umano, per cui corpo e mente sono intimamente intrecciate e interagenti tra loro, la concezione di Nietzsche trova un consenso progressivo.

Di medici filosofici sui generis, di fatto, ne sono sopravvenuti parecchi in seguito all’avvento della neurobiologia. Anche la storia delle Neuroscienze, però, si è inaugurata pagando un tributo all’opposizione tra Ragione ed Emozione, che ha percorso con alterne vicende tutta la storia della riflessione dell’uomo sull’uomo partendo dalla distinzione, nata con la cultura greca, tra apollineo e dionisiaco.

Nel 1983, agli albori delle ricerche neuroscientifiche, J.-P. Changeux pubblica un libro diventato rapidamente famoso (L’Uomo neuronale, Feltrinelli, Milano) la cui tesi di fondo è radicalmente computazionale:

“La macchina cerebrale possiede la proprietà di effettuare calcoli sugli oggetti mentali. Essa li evoca, li combina, e in tal modo crea nuovi concetti, nuove ipotesi per paragonarle tra loro. Funziona come simulatore.” (p. 160)

In aperta antitesi al pensiero di Changeux, nel 1988, J. D. Vincent, dà alle stampe Biologia delle passioni (Einaudi, Torino), che valorizza il ruolo delle emozioni consce e inconsce:

“Accanto al cervello neuronico... esiste un vero e proprio cervello umorale che modifica continuamente e in tutte le sue strutture il funzionamento del primo...; un cervello indeterminato e vaporoso, responsabile della parte affettiva e passionale dell'individuo.” (p. 87).

In virtù della progressiva egemonia conseguita dal Cognitivismo, il cervello “vaporoso” di Vincent è finito nel dimenticatoio, finché i limiti della teoria computazionale non sono divenuti del tutto evidenti. In conseguenza di questo, l’antitesi tra Ragione ed Emozione è progressivamente sfumata in nome del riconoscimento della relativa autonomia dei moduli cognitivi e dei sistemi emozionali, che si integrano funzionalmente nell’esperienza soggettiva.

La presa d’atto dell’importanza delle emozioni e dei sentimenti nell’organizzazione mentale umana è ormai avanzata al punto che si ammette che solo un approfondimento scientifico di questo mondo “vaporoso”, e in gran parte inconscio, più che quello dell’attività dei moduli cognitivi, possa permettere di elaborare una teoria integrata della coscienza e della mente umana.

Il più famoso medico filosofico preconizzato da Nietzsche è indubbiamente Antonio Damasio, che ha scritto un’importante trilogia sul problema del rapporto tra esperienza somatica e esperienza mentale.

Con L'errore di Cartesio (Adelphi, Milano 1995), egli confuta il tentativo cartesiano di separare res extensa e res cogitans, vale a dire di affermare il primato della mente sul corpo. Alla luce degli studi contemporanei, la razionalità non appare affatto indipendente dai meccanismi di regolazione biologica dell’organismo, tra i quali le emozioni e i sentimenti svolgono un ruolo particolare perché sono in grado di condizionare fortemente, e talvolta, inconsapevolmente, gli stati d’animo, i pensieri e le decisioni.

In Emozione e coscienza (Adelphi, Milano 2000), affrontando il tema della coscienza dalla duplice prospettiva dell'analisi a livello neurofisiologico e delle relative corrispondenze sul piano psicologico, Damasio ribadisce l’importanza dei meccanismi automatici di regolazione dell’omeostasi biologica e rileva il ruolo centrale a tal fine delle emozioni, le quali modificano di continuo lo stato del corpo. La rappresentazione di questo stato a livello della corteccia si traduce in un sentimento cosciente, vale a dire nella definizione di un Sè capace di sentire, di ricordare e di narrare la sua esperienza.

Con Alla ricerca di Spinoza - un commosso omaggio al filosofo olandese che per primo ha superato l’errore di Cartesio, Damasio, intuendo lo stretto legame esistente tra la mente e il corpo, porta a compimento la sua ricerca elaborando una teoria elegante e coerente delle emozioni e dei sentimenti.

Il pensiero di Damasio muove dal presupposto che l’organismo umano, in quanto prodotto dell’evoluzione, ha ereditato molteplici meccanismi di regolazione omeostatici, che, nel loro complesso, possono essere rappresentati da una struttura ad albero ai quali se ne sono aggiunti di nuovi. Partendo dal basso e procedendo verso l’alto, egli ipotizza i seguenti livelli di regolazione: il processo del metabolismo; comportamenti normalmente associati all'idea del piacere (e della gratificazione) o del dolore (e della punizione); al livello immediatamente superiore: impulsi e motivazioni (fame, sete, sesso, curiosità e esplorazione, gioco; più in alto ancora: le emozioni vere e proprie; in cima i sentimenti che generano la coscienza.

Nell’ottica di Damasio, la coscienza, con tutti i suoi complessi fenomeni, è fortemente dipendente dagli stati del corpo che vengono continuamente rappresentati a livello di mappe cerebrali. Egli scrive

“Il sentimento, nel senso più stretto e rigoroso del termine, è l'idea che il corpo sia in un certo modo. In questa definizione si può sostituire «idea» con «pensiero» e « percezione». Se guardiamo al di là dell'oggetto che ha causato il sentimento - e i pensieri e la modalità di pensiero conseguenti - vediamo precisarsi il suo nucleo: i contenuti del sentimento consistono nella rappresentazione di un particolare stato del corpo.
Gli stessi commenti sarebbero pienamente applicabili ai sentimenti di tristezza e di qualsiasi altra emozione, come pure ai sentimenti degli appetiti e di qualunque sequenza di reazioni regolatrici abbia luogo nell'organismo. I sentimenti, nell'accezione adottata in questo libro, non insorgono solo dalle emozioni vere e proprie, ma da qualsiasi insieme di reazioni omeostatiche, e traducono nel linguaggio della mente lo stato vitale in cui versa l'organismo.” (p. 106)

“I sentimenti sono percezioni, e io propongo che la loro percezione trovi il necessario supporto nelle mappe cerebrali del corpo. Una certa variazione del piacere o del dolore è un contenuto costante di quella percezione che chiamiamo sentimento...
La mia ipotesi, allora, presentata sotto forma di definizione provvisoria, è che un sentimento sia la percezione di un certo stato del corpo, unita alla percezione di una particolare modalità di pensiero nonché di pensieri con particolari contenuti. I sentimenti emergono quando il semplice accumulo dei dettagli registrati nelle mappe raggiunge un certo stadio...” (p. 108)

“Per come la vedo io, l'origine delle percezioni che costituiscono l'essenza del sentimento è chiara: c'è un oggetto generale - il corpo - costituito di molte parti continuamente registrate in molteplici strutture cerebrali. Chiari sono anche i contenuti di quelle percezioni: i diversi stati del corpo descritti dalle mappe cerebrali, scelti in un'ampia gamma di possibilità... Lo stato particolare di quelle componenti del corpo, così come è ritratto nelle mappe cerebrali, è un contenuto delle percezioni che costituiscono i sentimenti. I substrati immediati dei sentimenti sono dunque le mappe di miriadi di aspetti di stati corporei diversi, nelle regioni del cervello deputate all'elaborazione sensoriale, designate a ricevere segnali afferenti da tutto il corpo.” (p. 109-110)

“In breve, il contenuto essenziale dei sentimenti è la mappa di un particolare stato corporeo; il substrato dei sentimenti è l'insieme delle configurazioni neurali corrispondenti allo stato del corpo e dalle quali può emergere un'immagine mentale di quello stato. Essenzialmente, un sentimento è un'idea - un'idea del corpo e, in particolare, un'idea di un certo aspetto del corpo, del suo interno, indeterminate circostanze. Il sentimento di un'emozione è l'idea del corpo nel momento in cui esso è perturbato dall'emozione.” (p. 111)

“I sentimenti sono percezioni e in quanto tali, per certi versi, paragonabili ad altre percezioni. Le percezioni visive reali, per esempio, corrispondono a oggetti del mondo esterno, le cui caratteristiche fisiche colpiscono la nostra retina e modificano temporaneamente le configurazioni delle mappe sensoriali nel sistema visivo. Anche nel caso dei sentimenti, all'origine del processo c'è un oggetto le cui caratteristiche fisiche innescano una catena di segnali che attraversano le mappe cerebrali nelle quali l'oggetto stesso è rappresentato. Proprio come nella percezione visiva, parte del fenomeno è dovuta all'oggetto, e parte all'interpretazione che ne dà il cervello. Tuttavia quel che è diverso - e non si tratta di una differenza banale - è che nel caso dei sentimenti gli oggetti e gli eventi all'origine del processo si trovano all'interno del corpo, e non all'esterno. Può darsi che i sentimenti siano processi mentali come qualsiasi altra percezione, ma i loro oggetti, rappresentati nelle mappe, sono comunque parti e stati dell'organismo in cui essi insorgono.” (p. 113)

La concordanza tra le ipotesi di Damasio e quelle di Nietzsche, per il quale gli stati d’animo sono espressivi dello stato corporeo, è assolutamente rilevante.

C’è concordanza, però, anche su di un aspetto criticabile: il solipsismo per cui corpo e mente rappresentano una sorta di monade. Damasio prende in considerazione le emozioni sociali, ma esclusivamente come fattori di regolazione dei rapporti interpersonali e della vita di relazione sociale.

Nietzsche probabilmente è stato spinto a valorizzare il corpo non solo dalla sua avversione nei confronti di ogni sorta di idealismo, ma anche dall’avere riconosciuto in esso una dimensione naturalmente individuata e, in quanto tale, sottratta all’influenza sociale. Si tratta di un errore. L’equilibrio del corpo dipende di sicuro da meccanismi automatici di regolazione omeostatica, ma questi non sono affatto immuni dal risentire positivamente o negativamente dalla relazione che, fin dalla nascita, l’individuo intrattiene con il mondo sociale.

Le prove a riguardo sono molteplici. La più efficace, a mio avviso, è legata al fenomeno dell’ospitalismo indagato da R. Spitz, il quale ha accertato che, in alcuni brefotrofi, ove i bambini erano accuditi in maniera ineccepibile sotto il profilo alimentare ed igienico, ma asettica, in quanto non supportata da scambi affettivi con i care-takeers, alcuni di essi morivano nonostante la normalità di tutti gli indici fisiologici.

Nietzsche li avrebbe giudicati presumibilmente deboli e malriusciti. Oggi questa debolezza, indubbia e universale, può essere ricondotta alla condizione neotenica dell’uomo, che lo rende non solo in fase evolutiva ma per sempre dipendente, anche nei suoi equilibri psicosomatici, dalla relazione con l’Altro.

La neotenia è la debolezza e la forza dell’uomo. Per il primo aspetto, essa vincola l’uomo, i suoi bisogni e il suo stesso corpo, all’Altro. Per il secondo aspetto, mantenendo un’elevata plasticità cerebrale, essa può promuovere anche lo spirito critico e in alcuni individui, come Nietzsche, la genialità.

L’adultomorfismo in cui Nietzsche si è rifugiato è, dunque, un vicolo cieco. Il coraggio eroico con cui lo ha percorso gli va riconosciuto, ma, al di là dei contributi preziosi che egli ha fornito alla cultura, se la sua vicenda ha un senso, il senso è questo: l’intelligenza umana è assolutamente e infinitamente libera, ma il suo “cuore” non lo è mai. E, se è vero che il “cuore”, vale a dire la sfera dei bisogni, dei desideri, delle emozioni, è intimamente e reciprocamente correlata al corpo, non lo è meno che esso, nella sua matrice più profonda, vibra in relazione all’Altro.

Coscienza e Inconscio

Ne La scoperta dell’inconscio (Bollati Boringhieri, Torino 1976), Henri F. Ellenberger dedica a Nietzsche un denso paragrafo dal quale risultano chiare sia le sue intuizioni precorritrici sull’inconscio sia l’influenza che tali intuizioni hanno avuto su Freud, Adler e Jung.

Egli scrive:

“Negli aspetti positivi, Nietzsche è importante sia per i suoi concetti psicologici sia per quelli filosofici. La novità dei primi è stata riconosciuta, in ritardo, soprattutto ad opera di Ludwig Klages, Karl Jaspers e Alwin Mittasch. Klages si spinge fino al punto di affermare che Nietzsche è il vero fondatore della psicologia moderna. Thomas Mann riteneva che Nietzsche fosse "il più grande critico e psicologo della morale noto alla storia della mente umana". Anche le sue idee sulla criminalità e sulle pene, come è stato mostrato, sono caratterizzate da una grande originalità di pensiero e conservano un notevole interesse dal punto di vista della criminologia moderna.

Alwin Mittasch ha mostrato il collegamento tra le idee psicologiche di Nietzsche e le scoperte contemporanee sull'energia psichica. Nietzsche trasferì nel campo della psicologia il principio di Robert Mayer sulla conservazione e sulla trasformazione dell'energia. Nello stesso modo in cui l'energia fisica può rimanere accumulata e quiescente sotto forma d'energia potenziale oppure può entrare in azione e produrre lavoro meccanico, così Nietzsche fornì un'immagine del modo con cui "una quantità d'energia (psichica) accumulata" poteva attendere fino al momento di venire utilizzata, e del modo con cui a volte una piccola causa "innescante" poteva liberare una notevole scarica o esplosione d'energia psichica. L'energia mentale poteva anche venire accumulata volontariamente in previsione di una futura utilizzazione a un livello superiore. Poteva anche venire trasferita da una pulsione all'altra. Ciò portò Nietzsche a considerare la mente umana come un sistema di pulsioni, e alla fine a considerare le emozioni come un "complesso di rappresentazioni inconsce e di stati della volontà".

Ludwig Klages ha mostrato come Nietzsche fosse un importante esponente di una tendenza che dominava negli anni 1880, cioè la tendenza alla psicologia che "demistifica" o "smaschera", la stessa sviluppata da Dostoevskij e da Ibsen in altre direzioni. L'interesse di Nietzsche era rivolto a svelare come l'uomo sia un essere che inganna sé stesso e che nello stesso tempo inganna continuamente i propri simili. "In occasione di tutto quello che un uomo rende manifesto, si può domandare: che cosa nasconderà? da che cosa deve distogliere lo sguardo? quale pregiudizio deve suscitare? E poi ancora: fino a che punto giunge la sottigliezza di questa dissimulazione? E, così facendo, in che cosa costui s'inganna?" Poiché l'uomo mente a sé stesso più ancora che agli altri, lo psicologo deve trarre le proprie conclusioni dal significato effettivo di un certo comportamento, piuttosto che dalle parole in sé o dagli atti in sé. Ad esempio, l'insegnamento del Vangelo: "Chi si umilia sarà esaltato", deve tradursi così: "Chi si abbassa vuol essere innalzato [391.

Inoltre, quelli che l'uomo crede essere i suoi veri sentimenti e le sue vere convinzioni spesso non sono altro che i resti di convinzioni, o di semplici affermazioni, dei suoi genitori o dei suoi antenati. In tal modo viviamo tanto della follia quanto della saggezza dei nostri antenati. Gli sforzi di Nietzsche per mostrare che ogni possibile tipo di sentimento, di opinione, di atteggiamento, di condotta, di virtù affonda le proprie radici nell'autoinganno o nella menzogna inconscia furono inesauribili. Per questo "ciascuno è agli antipodi di sé stesso"; l'inconscio è la parte essenziale dell'individuo, e la coscienza è solo una specie di formula dell'inconscio, una formula scritta in linguaggio simbolico: "...un più o meno fantastico commento di un testo inconscio, forse inconoscibile, e tuttavia sentito."

Nietzsche concepiva l'inconscio come una zona di pensieri confusi, di emozioni, di pulsioni, e nello stesso tempo come una zona in cui si ripetevano gli stadi precedenti dell'individuo e della specie. L'oscurità, il disordine, la mancanza di coerenza che caratterizzano le nostre rappresentazioni nei sogni ricordano la condizione della psiche umana nei suoi stadi più primitivi. Le allucinazioni dei sogni ci ricordano le allucinazioni collettive che colpivano intere comunità di uomini primitivi. "Dunque: nel sonno e nel sogno, espletiamo ancora una volta il compito (Pensum: il 'penso') dell'umanità primitiva" Ii sogno è la ripetizione di frammenti appartenenti sia alla nostra preistoria sia alla preistoria dell'umanità. Ciò è altrettanto valido per le esplosioni di passione sfrenata quanto per la follia .

Tanto Klages quanto Jaspers hanno mostrato la grande importanza delle teorie nietzschiane sulle pulsioni, sulle loro relazioni mutue, sui loro conflitti, sulle loro metamorfosi. Nelle sue prime opere Nietzsche parlava del bisogno di piacere e del bisogno di lotta, della pulsione sessuale e della pulsione ad associarsi, e anche della pulsione alla conoscenza e alla verità. Gradualmente egli giunse ad attribuire la predominanza a una sola pulsione fondamentale, la volontà di potenza. Soprattutto, Nietzsche descrisse il destino delle pulsioni: le loro compensazioni illusorie e le loro scariche sostitutive, le loro sublimazioni, le loro inibizioni, il loro volgersi contro l'individuo, senza tuttavia dimenticare la possibilità del loro controllo cosciente.

Il concetto di sublimazione non era nuovo; esso fu applicato da Nietzsche tanto alle pulsioni sessuali quanto a quelle di aggressione. Egli considerava la sublimazione come il risultato di un'inibizione o di un processo intellettuale, e pensava che fosse una manifestazione molto diffusa. "Buone azioni sono cattive azioni sublimate." Anche nella loro forma più altamente sublimata, le pulsioni conservano la loro importanza: "Grado e specie di sessualità in un uomo si estendono sino all'ultimo vertice del suo spirito."

Con il nome di inibizione (Hemmung) Nietzsche descrive ciò che oggi è chiamato rimozione, e applica tale concetto alla percezione e alla memoria. "Dimenticare non è una semplice vis inertiae... ma piuttosto una facoltà attiva, positiva nel senso più rigoroso, d'inibizione." "Io ho fatto questo dice la mia memoria. Io non posso aver fatto questo dice il mio orgoglio, e resta irremovibile. Alla fine, è la memoria ad arrendersi."
Per quanto riguarda il volgersi delle pulsioni contro l'individuo stesso, questo concetto fornisce la chiave di molti altri concetti fondamentali di Nietzsche: risentimento, coscienza morale, origine della civiltà.

La parola "risentimento" comprendeva ogni tipo di sentimenti di rancore, di disprezzo, d'invidia, di animosità, di gelosia, e di odio; Nietzsche la usò con un nuovo significato. Quando i sentimenti di questo tipo sono inibiti, diventando così inconsci per il soggetto, essi si manifestano in forma mascherata, soprattutto in forma di morale falsa. La morale cristiana affermava Nietzsche costituiva una forma raffinata di risentimento; essa era la morale di taluni schiavi che erano incapaci di ribellarsi apertamente contro i loro oppressori e che quindi avevano scelto una via traversa per ribellarsi: questa dava loro un senso di superiorità, ottenuta umiliando i nemici. Il comandamento cristiano: "Ama il tuo nemico" costituisce per Nietzsche un modo sottile per portare il proprio nemico all'esasperazione; esso costituisce dunque una forma crudelissima di rivincita. Il concetto nietzschiano di risentimento sarebbe poi stato accolto, con modificazioni e con ulteriori sviluppi, da Max Scheler e da Marañon.

La teoria di Nietzsche sull'origine della coscienza morale gli fu ispirata dall'amico Paul Rée, che affermava che la coscienza aveva origine dall'impossibilità di scaricare le pulsioni aggressive dell'uomo: un'impossibilità che comparve in un dato periodo storico. Nella Genealogia della morale Nietzsche, come Rée, raffigurò l'uomo primitivo come una "belva feroce", un "animale predatore", "la magnifica divagante bionda bestia avida di preda e di vittoria". Ma con la costituzione della società umana, le pulsioni dell'uomo selvaggio e libero non poterono più scaricarsi verso l'esterno e perciò dovettero volgersi verso l'interno. Questa fu anche l'origine del senso di colpa, che a sua volta fu la prima radice della coscienza morale nell'umanità. Nell'individuo, il processo è imposto dall'azione dei comandamenti morali e delle inibizioni di ogni tipo. "Il contenuto della nostra coscienza è tutto ciò che negli anni dell'infanzia ci fu regolarmente richiesto senza motivo da parte di persone che veneravamo o temevamo... La credenza nell'autorità è la fonte della coscienza: questa non è dunque la voce di Dio nel petto dell'uomo, bensì la voce di alcuni uomini nell'uomo."Inoltre, l'individuo ha in sé opinioni e sentimenti di ogni tipo, che derivano dai genitori e dagli antenati ma che egli crede suoi. "Nel figlio diventa convinzione quel che nel padre era ancora menzogna." Non solo i padri ma anche le madri determinano la condotta dell'individuo. "Ognuno porta in sé un'immagine della donna derivata dalla madre: da essa ognuno viene determinato a rispettare o a disprezzare le donne in genere, o a essere generalmente indifferente verso di loro."

Nietzsche spiega l'origine della civiltà nello stesso modo in cui spiega l'origine della coscienza: da una rinuncia alla gratificazione delle pulsioni. In ciò si può riconoscere la vecchia teoria di Diderot e dei suoi seguaci. La civiltà è identificata con una malattia e con una sofferenza dell'umanità, perché essa è: "... la conseguenza di una violenta separazione dal suo passato d'animale, ... di una dichiarazione di guerra contro gli antichi istinti, sui quali fino allora riposava la sua forza, il suo piacere e la sua terribilità".” (pp. 319-322)

La sintesi di Ellenberger richiede di essere approfondita.

Il merito enorme e imperituro di Nietzsche non sta tanto nella scoperta dell’inconscio bensì nella acuta focalizzazione della tendenza spontanea della coscienza ad ingannare se stessa e ad essere ingannata. Sia la mistificazione soggettiva che quella culturale avrebbero, secondo Nietzsche, lo stesso significato: quello di consentire all’uomo di stare al riparo dalla verità che egli alberga, vale a dire di essere non solo un animale malriuscito e miserevole, tanto più perché dotato della consapevolezza intuitiva della sua miseria, ma di essere, nel suo fondo, null’altro che un predatore aggressivo, impietoso con i deboli, amante della crudeltà che, per sopravvivere socialmente, deve accettare la domesticazione e la civilizzazione.

Il passaggio dall’originaria condizione barbarica all’aggregazione di gruppo e statale viene ricostruito in questi termini da Nietzsche:

“Questi semianimali felicemente adattati alla vita selvaggia, alla guerra, al nomadismo, all'avventura all'improvviso videro tutti i loro istinti svalutati e «scardinati». Dovettero allora camminare sulle gambe e «sorreggersi», mentre prima erano stati portati dall'acqua: una pesantezza tremenda li affliggeva. Si sentivano incapaci delle operazioni più elementari, per questo mondo nuovo e sconosciuto non possedevano più le loro antiche guide, gli istinti regolatori, inconsciamente incapaci di fallire erano ridotti, poveri infelici, a pensare, a dedurre, a calcolare, a combinare cause ed effetti, ridotti alla loro «coscienza», al più miserevole e ingannevole dei loro organi!

Credo che mai sulla terra ci sia stato un tal senso di miseria, un tale plumbeo disagio mentre quegli istinti antichi non avevano certo cessato improvvisamente di manifestare le loro esigenze! Solo che soddisfarle era difficile e solo raramente possibile: in sostanza essi dovettero trovarsi nuove e quasi sotterranee soddisfazioni.

Tutti gli istinti che non si scaricano all'esterno, si rivolgono all'interno questo è quella che io chiamo interiorizzazione dell'uomo: solo così si sviluppa nell'uomo quella cosa che più tardi riceverà il nome di «anima».

Tutto il mondo interiore, agli inizi sottile come se fosse teso tra due strati epiteliali, si è espanso e spalancato, ha guadagnato profondità, larghezza, altezza, tanto quanto le possibilità dell'uomo di scaricarsi all'esterno sono state impedite. Quei bastioni terribili con cui l'organizzazione statale si proteggeva contro gli antichi istinti della libertà - le pene sono fatte soprattutto di questi bastioni - fecero sì che tutti quegli istinti dell'uomo libero e randagio, regredendo, si rivolgessero contro l'uomo stesso. L'inimicizia, la crudeltà, il piacere della persecuzione, dell'attacco, delle mutazioni, della distruzione tutto quello che si rivolta contro i possessori di tali istinti: questa è l'origine della «cattiva coscienza».

L'uomo che in mancanza di nemici esterni e resistenze, costretto nelle oppressive strettoie e regolarità di costumi, dilaniava impaziente se stesso, si perseguitava, si torturava, si punzecchiava, si maltrattava, questo animale che si butta contro le sbarre della sua gabbia ferendosi, che vogliono «domare», questo essere privato di qualcosa, divorato dalla nostalgia del deserto, che ha dovuto fare di sé un'avventura, una camera di tortura, una giungla malsicura e piena di pericoli questo dissennato, questo prigioniero disperato e sitibondo di desiderio, diventò l'inventore della «cattiva coscienza».” (GM)
Nonostante Nietzsche abbia intuito che la natura primitiva e selvaggia dell’uomo contiene un bisogno di affermazione che, se convogliato nel canale dell’individuazione, può essere “sublimato” e oggettivarsi in forme altamente positive e creative attraverso la filosofia, la scienza, l’arte, ecc., è fuor di dubbio che l’inconscio nietzschiano è caotico, ridondante e pulsionale. Questa concezione è stata fatta propria da Freud, che ha mutuato da Nietzsche anche il termine Es, ed è stata accolta anche da Jung che l’ha definita Ombra.

La difficoltà di superare tale concezione è legata al fatto che essa sembra l’unica atta a giustificare la potenza dei meccanismi di mistificazione, che Freud ha ulteriormente illuminato e descritto. Se l’uomo non avesse una paura profonda del suo essere inconscio, perché mai sarebbe costretto ad ingannare se stesso?

Oggi si può rispondere a questo interrogativo facendo riferimento a una serie di dati forniti dalla biologia evoluzionistica postdarwiniana, dalla neurobiologia e dalla teoria struttural-dialettica.

Intanto, la distinzione tra coscienza razionale (o presunta tale) e Inconscio pulsionale non sembra avere più molto senso. L’uomo, come già si è detto, nasce sulla base di un critico allentamento dei meccanismi di regolazione istintivi. Ciò significa che l’inconscio non è pulsionale, ma ridondante di emozioni, fantasie, pensieri, desideri. Caotico e complesso, di certo, ma non barbarico, perché, dato il ruolo che l’empatia svolge nel corso dello sviluppo della personalità, l’inconscio umano sembra strutturarsi sulla base della relazione tra Io e Altro. La dotazione di un istinto sociale potente al punto di governare gran parte dell’esperienza umana sia a livello reale che interiore è al di fuori di ogni dubbio.

In secondo luogo, proprio in quanto modellato dall’intersoggettività, l’inconscio sembra depositario dei due bisogni intrinseci cui si è fatto più volte riferimento: il bisogno di appartenenza/integrazione sociale e il bisogno di opposizione/individuazione. In tensione dialettica tra di loro, tali bisogni non sono necessariamente antitetici: una situazione di equilibrio soggettivo postula una dinamica che comporta la soddisfazione dell’uno e dell’altro a seconda delle diverse circostanze di vita.

Tanto è vero questo che, se all’epoca di Nietzsche e di Freud, le esigenze sociali postulavano una notevole repressione del bisogno di individuazione, attualmente il modello normativo dominante postula spesso la repressione del bisogno di appartenenza, della sensibilità sociale e dell’empatia. Questa repressione, specie se si realizza in soggetti dotati di grande empatia, produce spesso una sintomatologia non meno penosa di quella prodotta in passato dalla repressione del bisogno di individuazione. Come interpretare tale circostanza se non facendo riferimento al fatto che l’inconscio è programmato ed attratto da una situazione di equilibrio dinamico tra i bisogni, vale a dire da una situazione che postula doveri sociali e diritti individuali?

Anziché barbarico, l’inconscio appare paradossalmente umano, troppo umano, radicalmente antropomorfico.

Ma, se questo è vero, perché la coscienza umana è indotta sistematicamente alla mistificazione?

Presumibilmente i motivi sono due. Il primo è di ordine psicobiologico. La ridondanza inconscia è inquietante perché essa implica l’esistenza di indefiniti stati di coscienza e addirittura di molteplici soggettività in contraddizione tra loro. L’uomo tende sistematicamente a sacrificare questa ricchezza in nome dell’esigenza suprema di unità, coesione e continuità nel tempo dell’Io. Tale sacrificio non è in assoluto necessario: la ridondanza è anche la matrice dell’evoluzione personale, del cambiamento, della creatività, all’insegna di una integrazione dialettica tra i bisogni intrinseci. Ma sfruttare tale ricchezza richiede un impegno che mediamente gli esseri umani non sono inclini a realizzare, tanto più se essi sono indotti dall’ambiente a normalizzarsi e non ad individuarsi.

Il secondo motivo è di ordine storico-culturale. Nietzsche ha validamente contestato la concezione dell’io borghese padrone di se stesso, razionale ed autonomo. Egli riteneva che l’io fosse dominato e condizionato da pulsioni e motivazioni inconsce del tutto sottratte al suo controllo. Non solo la psicoanalisi ma anche la psicologia e la neurobiologia contemporanee confermano la fondatezza di questa intuizione.

Ma se, come risulta dalla pratica e dalla teoria struttural- dialettica, l’inconscio ha una configurazione antropomorfica tale che le emozioni, le fantasie e i contenuti di pensiero sembrano letteralmente irretiti dalla relazione tra Io e Altro (reale e rappresentato interiormente), la necessità della mistificazione sembra riconducibile alla difficoltà degli esseri umani, immersi in una cultura individualistica, di accettare il primato del sociale interiorizzato a livello inconscio.

Tale primato, costitutivo della struttura profonda della personalità umana, non è insormontabile. L’individuazione è il processo in virtù del quale l’io, riconoscendo quel primato, può giungere ad affermare la sua libertà e la sua indipendenza.

L’ossessione dell’individuazione, come si è visto, è stata centrale nell’esperienza umana di Nietzsche e nella sua produzione intellettuale. Egli però l’ha sempre vissuta in antitesi radicale rispetto all’appartenenza sociale e, probabilmente, ne ha pagato duramente le conseguenze.

Nietzsche tra Filosofia e Panantropologia

Nietzsche ha più volte ribadito la sua distanza dalla tradizione filosofica e la sua volontà di fondare una nuova disciplina chiama Psicologia. Di cosa si tratti risulta chiaro dalle seguenti citazioni:

“Il noto è l'abituale, e l'abituale è difficilissimo da «conoscere», cioè da vedere come problema da considerare estraneo, lontano, «fuori di noi»... La grande sicurezza delle scienze naturali in rapporto alla psicologia e alla critica degli elementi della coscienza - scienze innaturali, si dovrebbe quasi dire - è fondata proprio sul fatto che scelgono quale loro oggetto l'estraneo: mentre volere scegliere quale oggetto il non-estraneo è quasi contraddittorio e assurdo.” (GS)

“Tutta quanta la psicologia è rimasta impigliata fino ad oggi in pregiudizi e timori morali; essa non ha osato scendere nel profondo. Considerarla, come io la considero, quale morfologia e teoria evolutiva della volontà di potenza, come io la concepisco: ‑ è un punto che finora nessuno ha neppure sfiorato con il pensiero: per quanto almeno è consentito riconoscere, in ciò che è stato scritto fino ad ora, un sintomo di ciò che fino ad ora è stato taciuto.” (ABM)

“Mai prima d'ora si è dischiuso a viaggiatori temerari e ad avventurieri un più profondo mondo della conoscenza: e lo psicologo, che in tal modo «compie il sacrificio» che non è il sacrificio dell'intelletto, al contrario! avrà almeno il diritto di pretendere che la psicologia venga nuovamente riconosciuta come signora delle scienze, per il servizio e la preparazione della quale le altre scienze esistono. Poiché la psicologia è ormai di nuovo la via che conduce ai problemi fondamentali.” (ABM)

E’ evidente che la Psicologia di cui parla Nietzsche è un sapere che assume l’introspezione, l’osservazione e l’interpretazione dei fatti umani come unica possibilità di dare una risposta ai problemi fondamentali dell’esistenza. Tenendo conto del fatto che oggi tale sapere, al di là della genialità intuitiva di Nietzsche, deve integrare anche gli apporti della genetica, della neurobiologia, della psicoanalisi, della sociologia, dell’antropologia culturale, ecc., non sembra azzardato parlare di panantropologia e assumere Nietzsche tra i suoi precursori, tenendo conto, tra l’altro, dell’interesse sempre vivo che egli ha manifestato nei confronti delle scienze naturali (di cui era critico).

Ciò nonostante, il destino di Nietzsche finora è stato quello di essere annoverato tra i filosofi e di essere stato addirittura egemonizzato dai filosofi, gran parte dei quali, sulla scia di Heidegger, si affannano a risolvere problemi - come quello se Nietzsche mette a morte la metafisica o è l’ultimo dei metafisici - che, sinceramente, al di fuori della filosofia, hanno ben scarso valore ai fini di una panantropologia.

Che sia possibile un uso diverso del pensiero di Nietzsche è agevole da provare.

Nel suo monumentale lavoro, pubblicato poco prima della morte - La struttura della teoria dell’evoluzione (Codice edizioni, Torino 2003) -, Gould riconosce che Nietzsche, in Genealogia della morale, introducendo la distinzione tra l’origine storica dall’utilità attuale ha colto un aspetto fondamentale della metodologia storica che, applicato all’evoluzionismo, consente di sormontare l’ideologia adattamentista:

“Nietzsche definisce la necessità di distinguere l'origine storica dall'utilità attuale come "il punto di vista principale della metodologia storica" (trad. it. p. 68). "Per ogni tipo di storia non esiste alcun principio più importante" aggiunge, poco prima di presentare la sua dichiarazione più esplicita sul problema generale (trad. it. p. 66): "Il principio, cioè, che la causa genetica di una cosa e la sua finale utilità, nonché la sua effettiva utilizzazione e inserimento in un sistema di fini, sono fatti toto caelo disgiunti l'uno dall'altro; che qualche cosa d'esistente, venuta in qualche modo a realizzarsi, è sempre nuovamente interpretata da una potenza a essa superiore in vista di nuovi propositi, nuovamente sequestrata, manipolata e adattata a nuove utilità".

Per risolvere il suo particolare problema, Nietzsche ha bisogno di operare questa separazione perché desidera collocare l'origine della punizione nella manifestazione quasi inevitabile di una primaria volontà di potenza. Ma se commettiamo l'errore di equiparare un'utilità moderna accettata ed efficace (nella deterrenza o nella risoluzione del debito, ad esempio) con la ragione dell'origine, non capiremo mai la genealogia della morale. Ancora una volta, e contrariamente al frainteso comune, Nietzsche non vuole richiamarsi all'origine storica come a una fonte di convalida. Al contrario, sostiene che dobbiamo comprendere le ragioni dell'origine, se vogliamo analizzare la fonte e la forza della motivazione sottostante (qualunque sia la sua utilità attuale), e avere così una comprensione migliore delle nostre azioni e della nostra natura.

In un passo affascinante, Nietzsche utilizza poi l'esempio biologico dell'occhio e della mano per sostenere la propria idea specifica di punizione e per introdurre una graduatoria relativa, in cui l'adattamento dell'utilità attuale è considerato come un'impronta secondaria su una fonte originale più fondamentale:

Per bene che si sia compresa l'utilità di un qualsiasi organo fisiologico (o anche di un'istituzione giuridica, di un costume sociale, di un uso politico, di una determinata forma nelle arti o nel culto religioso), non è perciò stesso ancora compreso nulla relativamente alla sua origine: comunque ciò possa suonare molesto e sgradevole [...]. Da tempo immemorabile, infatti, si è creduto dì comprendere nello scopo comprovabile, nell'utilità di una cosa, di una forma, di un'istituzione, anche il suo fondamento d'origine, e così l'occhio sarebbe stato fatto per vedere, la mano per afferrare. Così ci si è figurata la pena come fosse stata inventata per castigare. Ma tutti gli scopi, tutte le utilità sono unicamente indizi del fatto che una volontà di potenza ha imposto la sua signoria su qualcosa di meno potente (ibid.).

Altri due aspetti della straordinaria analisi di Nietzsche mostrano come avesse compreso compiutamente questo principio chiave della spiegazione storica con tutte le sue implicazioni di ampia portata, ciascuna delle quali riveste uguale importanza nella biologia evoluzionistica. In primo luogo, egli riconosce (come fece Darwin) che svincolare l'utilità attuale dall'origine storica determina il campo della contingenza e dell'imprevedibilità nella storia: infatti se qualche organo, durante la sua storia, subisce una serie di singolari cambiamenti nella sua funzione, allora non possiamo né predirne il prossimo utilizzo a partire da un valore corrente né lavorare comodamente a ritroso per chiarire le ragioni sottostanti all'origine di quel tratto. Si noti, nel passo seguente, come Nietzsche si riferisca alla catena di utilità secondarie come ad "adattamenti"; come egli specifichi che i passi nella sequenza delle utilità si susseguano "a caso" (nel senso proposto da Eble, 1999, di essere slegati, e impredicibili da, stati precedenti, e non nel senso strettamente matematico); e come egli riconosca chiaramente il significato di questo principio per fugare ogni speranza di poter interpretare una storia filetica come "progresso verso una meta", un'altra somiglianza quasi sovrannaturale con la concezione di Darwin del significato della contingenza nell'evoluzione:

L'intera storia di una "cosa", di un organo, di un uso può essere in tal modo un'ininterrotta catena di segni che accenna a sempre nuove interpretazioni e riassestamenti, le cui cause non hanno neppure bisogno di essere in connessione tra loro, anzi talvolta si susseguono e si alternano in guisa meramente casuale. "Evoluzione" di una "cosa", di un uso, di un organo, quindi, è tutt'altro che il suo progressus verso una meta, e ancor meno un progressus logico e di brevissima durata, raggiunto con un minimo dispendio di forza e di beni bensì il susseguirsi di processi di assoggettamento pretesi su tale cosa, più o meno spinti in profondità, più o meno indipendenti uno dall'altro (trad. it. pp. 6667).
In secondo luogo, Nietzsche promulga un ordine di importanza, fornendo ragioni per considerare l'origine come primaria in senso più che puramente temporale e le utilità attuali come serie di "adattamenti" (sua descrizione) secondari con uno statuto solo transitorio e minore influenza (rispetto alla forza duratura dell'origine primaria) su ogni condizione futura. Non difenderei questa graduatoria per applicarla alla teoria evoluzionistica, se non altro perché la "volontà di potenza" formativa di Nietzsche identifica una forza persistente che deve influenzare anche ogni adattamento successivo, mentre il contesto originale di un carattere fenotipico evoluto non ha bisogno di esercitare una simile presa continuativa sulla storia. Però, apprezzo il punto di vista di Nietzsche che può essere tradotto in termini evoluzionistici come fonte originaria di vincolo. La ragione originaria continua a esercitare una presa sulla storia mediante il vincolo strutturale che incanala gli utilizzi posteriori.” (pp. 1518-1520)

L’intuizione di Nietzsche viene, in breve, utilizzata da Gould per corroborare l’ipotesi secondo la quale l’uso attuale di un organo non necessariamente deve essere ricondotto alla selezione. Esso, infatti, può essere ricondotto alla presenza nell’organo stesso di strutture e potenzialità funzionali non riconducibili ad una selezione adattiva,. che solo successivamente alla loro origine possono eventualmente, essere utilizzate.

Per definire tali potenzialità Gould usa il termine di exaptation. E’ difficile non capire che il concetto di exaptation dà un fondamento scientifico all’esuberanza, alla ricchezza e all’opulenza di cui parla più volte Nietzsche come espressione propria della vita: esuberanza che, in alcuni soggetti iperdotati, coincide con un orientamento iperadattivo, per esempio con una passione compulsiva per la conoscenza o un elevato grado di creatività.

Gould, che si limita a valorizzare il principio metodologico enunciato da Nietzsche in rapporto alle discipline storiche, non coglie questo aspetto. Ma esso ha un’importanza del tutto particolare. Sulla base dell’exaptation, infatti, il concetto di Superuomo può essere riformulato, togliendo ad esso il significato assoluto di superiorità di alcuni individui rispetto alla massa che esso ha in Nietzsche.

Il fatto che il cervello umano sia ridondante di potenzialità esattate che, presumibilmente, sono state finora utilizzate solo parzialmente, può fare pensare che tutti gli esseri umani sono in qualche misura iperdotati (anche se alcuni lo sono di sicuro più di altri), e che quindi, almeno sulla carta, il superamento dell’alienazione normativa, che Nietzsche ha denunciato, sia ancora possibile.

L’uso che Gould fa del pensiero di Nietzsche, ricavandone un principio essenziale per una disciplina storica come l’evoluzionismo, è molto più profondo di quello che ne hanno fatto e ne fanno molti filosofi.

E’ vero che, da qualche tempo, i filosofi stessi cercano di rilanciare la loro disciplina in un’ottica meno angusta e più aperta all’interazione con le scienze.

In un libro recente (Ma io chi sono, Milano, Garzanti 2010), R. Precht - un filosofo tedesco - cerca di coniugare la tradizione filosofica con la psicologia e la neurobiologia per rispondere alle tre domande su cui si è da sempre esercitata la filosofia: che cosa posso sapere? che cosa devo fare? che cosa posso sperare? Non è sorprendente che il primo capitolo sia dedicato a Nietzsche. Vi si legge:

“La grandezza di Nietzsche fu nella sua critica, tanto spietata quanto vivace. Come nessun filosofo prima di lui, evidenziò in modo appassionato la presunzione e l'ignoranza con cui l'uomo giudicava il mondo circostante secondo la logica e la verità della propria specie, quella umana. Gli «animali intelligenti» credono di possedere uno status esclusivo. Nietzsche invece difese con veemenza la tesi secondo cui l'uomo è davvero un animale, condizione, questa, che ne determina anche il pensiero: attraverso impulsi e istinti, attraverso la sua volontà primitiva, attraverso le sue limitate possibilità conoscitive. Di conseguenza, la maggior parte dei filosofi occidentali aveva torto quando concepiva l'uomo come qualcosa di eccezionale, come una sorta di computer dell'autocoscienza ad altissima prestazione.

Può infatti l'uomo conoscere davvero sé stesso e la realtà oggettiva? Ha veramente questa capacità? La maggior parte dei filosofi non ne aveva mai dubitato. Altri non si erano nemmeno posti il problema. Avevano dato per scontato che il pensiero umano fosse di per sé una sorta di pensiero universale. In effetti, non consideravano l'uomo un animale intelligente, ma un essere di livello superiore. Avevano sistematicamente negato l'eredità proveniente dal regno animale, un'eredità che però continuava a osservarli con lo stesso ghigno inequivocabile: la mattina, nello specchio, quando si facevano la barba, e dopo il lavoro, quando si infilavano sotto il piumone. Uno dopo l'altro, questi filosofi avevano scavato un profondo fossato tra uomo e animale. L'intelletto e l'intelligenza umani, la capacità di pensare e di giudicare, erano l'unico criterio salvifico per giudicare la natura animata. E condannarono ciò che era «soltanto» fisico e corporale come qualcosa di assolutamente secondario.

Per essere certi che le loro idee sublimi sulla propria natura fossero giuste, i filosofi dovevano supporre che Dio avesse provvisto l'uomo di un apparato conoscitivo impeccabile. Grazie a esso potevano leggere nel «libro della natura» la verità sul mondo.

Ma se era vero che Dio era morto, anche questo apparato non doveva essere messo molto meglio. Esso, infatti, non poteva che essere un prodotto della natura e, quindi, come tutto ciò che esiste in natura, un po' imperfetto. Questa convinzione Nietzsche l'aveva mutuata da Arthur Schopenhauer: «Dopo tutto siamo degli esseri puramente temporali, finiti, transitori, onirici, che volano via come ombre». E cosa se ne farebbero esseri del genere di un «intelletto che captasse dei rapporti infiniti, eterni, assoluti»?...

Lo sguardo spietato di Nietzsche sulla filosofia e sulla religione ha dimostrato quanto sia forzata la maggior parte delle definizioni che l'uomo dà di sé stesso. (Il fatto che lui in prima persona abbia a sua volta attuato delle forzature è tutto un altro discorso.) La coscienza umana non fu plasmata dall'impellente domanda: «Cos'è la verità?». Più importante fu senz'altro il quesito: «Cos'è meglio per la mia sopravvivenza?». Tutto ciò che non contribuiva a risolvere questa problematica aveva pare poche possibilità di incidere in maniera determinante sull'evoluzione della specie umana...”

Dissacrando la religione, che comporta l’accesso da parte dell’uomo ad una verità assoluta rivelata, criticando una tradizione filosofica che assegna alla ragione il compito di pervenire alla verità, contestando la scienza positivistica che, alla sua epoca, intende far proprio questo obiettivo fallito dalla filosofia, Nietzsche ha segnato per sempre i limiti del sapere umano sulla Natura e sull’Uomo.

Nessuno ormai tra i filosofi e gli scienziati pensa di poter pervenire ad una verità assoluta. La complessità della realtà, dal livello cosmico a quello del cervello umano, è tale che in essa si danno isole di determinismo, per le quali valgono leggi lineari di causa-effetto, immerse in un mare di indeterminismo, per il quale valgono solo leggi probabilistiche. In breve, la causalità concerne un numero infinitesimale di fenomeni, mentre la casualità governa tutti gli altri.

Le intuizioni di Nietzsche sui limiti del sapere umano sono dunque del tutto fondate. Purtroppo, esse sono state e sono male utilizzate dai filosofi (oltre ovviamente che dai teologi) per portare avanti una polemica antiscientista, vale a dire per sostenere, con una non malcelata soddisfazione, che anche le scienze sono costruzioni concettuali che nulla hanno a che vedere con la “cosa in sé”.

L’affermazione è senz’altro vera in linea di principio. Occorre tenere conto che se essa, all’epoca di Nietzsche, aveva un significato storico in rapporto al trionfalismo positivistico, oggi non lo ha più. La scienza ormai prescinde, per merito di Nietzsche ma anche di una sua evoluzione autocritica, dal porsi come obiettivo la verità assoluta della “cosa in sé”. Essa si limita a formulare modelli e ad interrogare sperimentalmente (ove possibile) la realtà per verificare quale di essi sia più pertinente, vale a dire più approssimato rispetto alla verità.

La citazione di Precht, pur tratta da un libro per molti aspetti notevole, è significativa del cattivo uso che i filosofi, nonostante gli sforzi di rinnovamento, fanno di Nietzsche. Precht deriva implicitamente dal fatto che Nietzsche ritiene l’uomo un animale come gli altri la sua adesione al darwinismo adattivo.

In realtà, come abbiamo visto, per quanto non abbia una conoscenza di prima mano del pensiero di Darwin, Nietzsche contesta l’ideologia adattamentista in nome del fatto che “l'aspetto complessivo della vita non è lo stato di bisogno, lo stato di fame, bensì la ricchezza, l'opulenza, persino l'assurda dissipazione dove si lotta, si lotta per la potenza…” (CI). Egli ammette insomma, nell’uomo, una spinta istintiva e motivazionale che va al di là dell’adattamento.

Questo messaggio, però, come abbiamo visto, è stato raccolto da Gould e non dai filosofi.

Se si intende valorizzare il pensiero di Nietzsche, occorre prescindere dal fatto che la sua critica radicale ha umiliato e tolto definitivamente valore alla scienza. Il suo contributo, di fatto, l’ha resa umile e consapevole dei suoi limiti, che non ne impediscono, però, il progresso. Popper, un filosofo della scienza tutt'altro che ostile a Nietzsche, ha scritto: “Nella scienza possiamo tendere alla verità e lo facciamo. La verità è il valore fondamentale. Quel che non possiamo raggiungere è la certezza. Ad essa dobbiamo rinunciare.”

Nietzsche e il post-modernismo

Nietzsche ha cessato di pensare e di scrivere nel 1889. Ciò nondimeno, ne Le filosofie del Novecento, scritta da G. Fornero e S. Tassinari (Bruno Mondadori, Milano 2002), a lui è dedicato il primo capitolo il cui titolo è La crisi delle certezze. Il posto d’onore è dovuto al fatto che l’influenza filosofica di Nietzsche è aumentata di continuo dopo la sua morte, ed è cresciuta pressoché senza sosta nel corso del Novecento sino ad esitare nel Nichilismo e nel Post-modernismo.

In un lucido saggio (Il nichilismo, Laterza, Bari 1999), Franco Volpi, dopo aver ricostruito la storia del pensiero nichilista, riconoscendo il ruolo centrale di Nietzsche nel porlo al centro della riflessione filosofica novecentesca, giunge alle seguenti conclusioni

“Sono svanite la forza vincolante delle norme morali e la possibilità che esse trovino disponibilità ad essere accettate e applicate… I riferimenti tradizionali - i miti, gli dèi, le trascendenze, i valori - sono stati erosi dal disincanto del mondo. La razionalizzazione scientifico-tecnica ha prodotto l'indecidibilità delle scelte ultime sul piano della sola ragione. Il risultato è il politeismo dei valori e l'isostenia delle decisioni, la stessa stupidità delle prescrizioni e la stessa inutilità delle proibizioni. Nel mondo governato dalla scienza e dalla tecnica l'efficacia degli imperativi morali sembra pari a quella di freni di bicicletta montati su un jumbo jet (Beck, 1988: 194). Sotto la calotta d'acciaio del nichilismo non v'è più virtù o morale possibile.

Il fatto è che il paradigma perduto è stato sostituito da uno nuovo che impone i propri imperativi a ogni condotta e comportamento umano. È il paradigma tecnico-scientifico. La scienza e la tecnica - che raccorciano lo spazio e velocizzano il tempo, che alleviano il dolore e allungano la vita, che mobilitano e sfruttano le risorse del pianeta - forniscono una guida assai più efficace e coercitiva dell'agire di quanto non possa fare la morale. Impongono obbligazioni che vincolano più di tutte le morali scritte nella storia dell'umanità, rendendo superfluo, d'ora in avanti, ogni altro imperativo. La scienza e la tecnica organizzano la vita sul pianeta con l'ineluttabilità di uno spostamento geologico. Al loro cospetto l'etica e la morale hanno ormai la bellezza di fossili rari.

L'uomo contemporaneo non ha alternative: qualsiasi cosa pensi o faccia, è già comunque sottomesso alla coercizione della «tecnoscienza». Ciò nonostante egli si culla ancora nell'attitudine edificante dell'umanesimo tradizionale e dei suoi ideali, che appaiono però impotenti rispetto alla realtà della tecnoscienza e che producono, tutt'al più, un'evasione e una compensazione…

La domanda che a questo punto si impone è se il nichilismo sia davvero - come riteneva Heidegger - un approdo inevitabile del razionalismo occidentale, una sorta di inveramento essenziale del potere distruttivo della razionalità nata con i Greci, o se esso non sia piuttosto - come pensava Husserl - un tradimento dell'originaria idea di ragione, un imbarbarimento e un impoverimento di quel logos, che con Socrate, Platone e Aristotele aveva saputo imporsi sul nichilismo di un Gorgia. Questo dilemma ha tormentato il pensiero contemporaneo - lo testimonia la polemica in merito alla «critica totale della ragione» intercorsa tra due suoi esponenti di spicco, Apel e Derrida - e, se mai si potrà dirimerlo, per farlo appare comunque indispensabile una distanza storica che ancora non abbiamo maturato…

Ma - ci si chiede - se è vero che il nichilismo comincia là dove cessa la volontà di autoingannarci, possiamo allora trasformare l'esperienza che ne abbiamo fatto in un insegnamento, ovvero in un vigoroso invito alla lucidità del pensiero e alla radicalità del domandare - in un'epoca in cui gli altari abbandonati vengono abitati da demoni?
Jean Dubuffet ha scritto che «soltanto il nichilismo è costruttivo» perché è «l'unico cammino che porta l'uomo a stabilirsi nella chimera» (Dubuffet, 1969:80). La provocazione di questo artista e teorico dell'avanguardia, anche senza essere condivisa, aiuta a vedere che il nichilismo ci ha trasmesso effettivamente un insegnamento corrosivo e inquietante ma al tempo stesso profondo e coerente.

Ci ha insegnato che noi non abbiamo più una prospettiva privilegiata - non la religione né il mito, non l'arte né la metafisica, non la politica né la morale e nemmeno la scienza - in grado di parlare per tutte le altre, che non disponiamo più di un punto archimedeo facendo leva sul quale potremmo di nuovo dare un nome all'intero. È questo il senso più profondo della terminologia negativa - «perdita del centro», «svalutazione dei valori», «crisi di senso» - che il nichilismo ha fatto fiorire e che evidentemente esprime la crisi d'autodescrizione del nostro tempo.

Il nichilismo ci ha dato la consapevolezza che noi moderni siamo senza radici, che stiamo navigando a vista negli arcipelaghi della vita, del mondo, della storia: perché nel disincanto non v'è più bussola che orienti; non vi sono più rotte, percorsi, misurazioni pregresse utilizzabili, né mete prestabilite a cui approdare.

Il nichilismo ha corroso le verità e indebolito le religioni; ma ha anche dissolto i dogmatismi e fatto cadere le ideologie, insegnandoci così a mantenere quella ragionevole prudenza del pensiero, quel paradigma di pensiero obliquo e prudente, che ci rende capaci di navigare a vista tra gli scogli del mare della precarietà, nella traversata del divenire, nella transizione da una cultura all'altra, nella negoziazione tra un gruppo di interessi e un altro.

Dopo la caduta delle trascendenze e l'entrata nel mondo moderno della tecnica e delle masse, dopo la corruzione del regno della legittimità e il passaggio a quello della convenzione, la sola condotta raccomandabile è operare con le convenzioni senza credervi troppo, il solo atteggiamento non ingenuo è la rinuncia a una sovradeterminazione ideologica e morale dei nostri comportamenti. La nostra è una filosofia di Penelope che disfa incessantemente la sua tela perché non sa se Ulisse ritornerà.” (p. 115 -117)

Le conclusioni di Volpi possono essere condivise, ma con una riserva: esse implicano che la tela di Penelope del sapere umano sia inesorabilmente deputata ai filosofi-tessitori.
I filosofi di fatto sono quelli che più di tutti gli altri studiosi hanno utilizzato Nietzsche per diminuire la portata della crescita esponenziale delle scienze nel Novecento.

E’ questo il senso complessivo del Postmodernismo, di cui Fornero e Tassinari (Filosofie del Novecento, Bruno Mondadori, Milano 2002) danno la seguente caratterizzazione:

“Alla base di ogni filosofia postmoderna vi è una specifica interpretazione della modernità, sulla quale concordano, almeno in linea generale, i suoi principali teorici. Schematicamente, secondo i postmoderni, la modernità (cioè il periodo che va, grosso modo, da Cartesio a Nietzsche) sarebbe caratterizzata da alcune direttrici fondamentali, ossia dalla tendenza:

a) a credere in visioni onnicomprensive del mondo (idealismo, marxismo ecc.) capaci di fornire "legittimazioni" filosofiche al conoscere e all'agire;

b) a pensare in termini di "novità" e "superamento", ossia a identificare ciò che è "nuovo" con ciò che è "migliore" e ciò che è "trascorso" con ciò che è "superato". Credenza che dà luogo a quel tipico fenomeno che è la "moda" (termine che ha la stessa radice di "moderno");

c) a concepire la storia in termini di "emancipazione", ossia come percorso "progressivo" di cui gli intellettuali conoscono i fini (la libertà, l'eguaglianza, il benessere ecc.) e i mezzi idonei a realizzarli (la diffusione dei lumi, la rivoluzione proletaria, le conquiste della tecnoscienza ecc.);

d) a concepire l'uomo come "dominatore" della natura e ad esaltare la scienza, con la conseguente riduzione della realtà a "oggetto" omologabile e formalizzabile secondo criteri di tipo ipotetico-sperimentale. Idea che comporta una parallela identificazione della ragione con la ragione scientifica;

e) a pensare secondo le categorie di "unità" e "totalità", in modo da subordinare la folla eterogenea degli eventi e dei saperi a "gerarchie forti", mettenti capo a un unico "centro" e a un unico orizzonte globale di senso (ontologico, storico, gnoseologico ecc.). Tendenza che si accompagna a quell'uniformazione coatta della particolarità e della diversità che fa tutt'uno con la ragione-dominio dell'Occidente e con la sua vocazione "terroristica" (Lyotard) e "violenta" (Vattimo).

A queste idee-madri della modernità i postmoderni contrappongono una costellazione teorica che, pur non potendo venir ridotta a un semplice capovolgimento dialettico del moderno, costituisce pur sempre un'alternativa rispetto a esso, ovvero:

a) la sfiducia nei macrosaperi onnicomprensivi e legittimanti e la proposta di forme "deboli" (Vattimo) o "instabili" (Lyotard) di razionalità, basate sulla convinzione dell'inesistenza di fondamenti ultimi e unitari del sapere e dell'agire. Sfiducia che, in concreto, si traduce in un congedo dai movimenti culturali dominanti degli anni sessanta e settanta, ossia dallo strutturalismo, dalla psicoanalisi e dal marxismo, accomunati da un monismo teorico e metodologico proteso alla ricerca di un fondamento unico dei fenomeni;

b) il rifiuto dell'enfasi del "nuovo" e della categoria avanguardista di "superamento". Tant'è che il postmoderno, più che come l'ultima avanguardia, intende essere la fine di tutte le avanguardie e dell'arrogante pretesa "moderna" di fare piazza pulita del passato;

c) la rinuncia a concepire la storia alla stregua di un processo universale o necessario, in grado di fungere da piattaforma "garantita" dell'umanità verso l'emancipazione e il progresso.
Rinuncia che si accompagna all'elaborazione di una sorta di "pensiero senza redenzione", ossia a una sfiducia programmatica nei confronti di ogni terapia "salvifica" (politica, esistenziale, artistica ecc.) finalizzata al raggiungimento di una condizione umana "trasparente" e dialetticamente "riconciliata" con se stessa;

d) il rifiuto di identificare la ragione con la ragione tecnico-scientifica e di concepire l'uomo come padrone incontrastato della natura e dell'ambiente. Diniego che connette la sensibilità postmoderna all'ecologismo, inteso come movimento di reazione agli effetti distruttivi del dominio tecnologico sulla natura e ricerca di una nuova cultura dell'abitare;

e) il privilegiamento del paradigma della molteplicità rispetto al paradigma dell'unità, ossia la consapevolezza che «il mondo non è uno, ma molti». Consapevolezza che fa tutt'uno con la tesi della natura storico-localistica (o "etnica") delle credenze e che si traduce in una difesa programmatica della plurivocità e della differenza, accompagnata da una serie di pratiche culturali di rottura, quali la frammentazione, la regionalizzazione, la dissociazione, la decanonizzazione, l'ibridazione, la carnevalizzazione ecc. tese a far valere i diritti del molteplice, del particolare, del diverso, del difforme, dell'incommensurabile. Tutte pratiche e situazioni che, a differenza di quanto accadeva nelle cosiddette "filosofie della crisi" della prima metà del Novecento, non vengono tuttavia prospettate e in ciò risiede una delle maggiori novità del postmoderno con un senso di nostalgia o di rimpianto per l'intero perduto, ma come un fatto positivo, ovvero come un segno della raggiunta maturità dell'uomo contemporaneo. Come simboli di questo "mondo a frammenti", i postmoderni scelgono figure quali il labirinto (incarnazione tipica dell'inesistenza di mappe o fili conduttori certi), Orfeo (il mitico semidio che continua a cantare anche dopo la morte per smembramento) o la torre di Babele, emblema, quest'ultima, della proliferazione dei linguaggi e di un mondo irrimediabilmente diversificato e sconnesso, in cui cessa di avere senso il tentativo tradizionale di trovare un «meta-vocabolario che in qualche maniera tenga conto di tutti i vocabolari possibili, di tutti i modi possibili di giudicare e sentire».”

In un certo senso, i pensatori post-modernisti non accolgono solo il nichilismo di Nietzsche, ma anche la sua qualificazione positiva. L’apertura alla novità, alla diversità, al pluralismo dei saperi, al relativismo, che inaugura la possibilità di percorrere i tragitti di sapere più vari nell’ambito di un universo simbolico infinito, sembra quasi restituire al nichilismo una dimensione esuberante e festosa.

Penso, però, che i pensatori post-moderni abbiano ecceduto non già nell’assumere Nietzsche come loro precursore (genealogia inoppugnabile), ma nel ricavare dal suo pensiero una sorta di orientamento relativistico e contestualistico che, preso atto della pluralità delle culture e dei punti di vista, postula di sospendere ogni giudizio su di essi.

E’ difficile non cogliere nel pensiero post-modernista una sorta di riscatto della filosofia rispetto alla scienza. I filosofi rivendicano alla loro disciplina di aver coltivato da sempre l’apertura alla novità, alla diversità e alla pluralità dei saperi, e, in conseguenza di questo, stigmatizzano il presunto dogmatismo della scienza.

L’avversione dichiarata di Nietzsche per ogni forma di pensiero sistematico e totalizzante, che i postmodernisti hanno assunto come un Vangelo, è indubbia. Ma c’è da chiedersi se tale avversione implichi necessariamente la rinuncia a costruire, con cautela e senza alcuna pretesa di ingabbiare la realtà, un modello atto ad interpretare e a comprendere l’uomo, la sua singolare strutturazione mentale e i fatti che da essa discendono.

In particolare, per quanto riguarda questi ultimi, c’è da chiedersi se non sia possibile interpretarli sulla base della doppia natura umana, vale a dire della dotazione di un bisogno primario e potente di appartenenza/integrazione sociale, che dà ad ogni cultura e ad ogni sistema di valori che la caratterizzano, un significato prevalente di riduzione della diversità che sussiste tra i singoli individui, al fine di promuovere un’organizzazione sociale dotata di una certa coesione e della capacità di riprodursi attraverso le generazioni, e di un bisogno altrettanto potente, benché secondario, di opposizione/individuazione che, con il suo animarsi, promuove in alcuni individui la spinta a criticare la cultura di appartenenza nel tentativo di impedire una cristallizzazione conservatrice e di introdurre in essa elementi di novità e di rinnovamento.

Io ritengo che questo sia possibile.

Ho già accennato al fatto che, pur partendo da presupposti del tutto diversi, l'antropologia di Marx e quella di Nietzsche non sono del tutto incompatibili. Entrambi gli autori fanno riferimento ad un Uomo Nuovo che dovrà essere partorito dalla Storia. Marx ritiene che questo parto, destinato a sancire la fuoriuscita della specie umana dalla sua preistoria, debba coinvolgere tutti gli esseri umani nella misura in cui, sormontando l'alienazione, essi scoprono nella ricchezza economica, scientifica, teconologica e culturale che essi hanno prodotto l'espressione delle straordinarie potenzialità della loro natura. Nietzsche, viceversa, ritiene che il parto possa e debba riguardare solo gli spiriti liberi in quanto capaci di affrontare la sfida dell'esistenza senza timori, patetismi e neghittosità. Se si considera che il radicalismo di Nietzsche riconosce come sua matrice l'intuizione della potenza del bisogno di opposizione/individuazione che egli ha sperimentato in rpima persona, letteralemente nella carne, non è affatto azzardato pensare che l'Uomo nuovo possa essere concepito come un soggetto nietzschianamente individuato e marxianamente socializzato.

L’analisi del pensiero di Nietzsche alla luce dei dati forniti dalle scienze umane e sociali, che ho tentato di svolgere in queste Conferenze, pone di fronte al fatto che alcune sue intuizioni - in particolare lo statuto mistificato della coscienza, la tendenza degli esseri umani verso la normalizzazione e l’omologazione, l’effetto catturante dei quadri mentali di lunga durata - risultano non solo convalidate, ma potenziate e arricchite. Altre - come il riferimento all’istinto del gregge, l’ossessione antiugualitaristica, la necessità che l’individuazione si realizzi sempre sotto forma di contrapposizione antitetica ed eroica rispetto al mondo - sembrano invece criticabili se non addirittura caduche.

Ritengo che il futuro del pensiero di Nietzsche riposi sul fatto che tale analisi possa essere ulteriormente approfondita, scorporandolo dalla filosofia e inserendolo nella cornice della panantropologia. In questa cornice, fin da ora egli risulta come il più profondo, inquieto e inquietante teorico che si sia mai dato del bisogno di individuazione e del rapporto intrinsecamente, ma non, com’egli pensa, fatalmente e univocamente, conflittuale tra esso e il bisogno di appartenenza.