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Letture nietzschiane

Lettura III

Rovesciare gli idoli. Il tragitto di demistificazione

 

 Non erigerò nuovi idoli; i vecchi possono cominciare ad imparare cosa comporta avere i piedi d'argilla.        Rovesciare gli idoli (il mio termine per «ideali»)  è questo, piuttosto, che attiene al mio mestiere.                                                                                                                                                                                                                                                              Ecce Homo


 

Indice

La decadenza della Civiltà e il vomere della cattiveria
La coazione a ripetere di Nietzsche
Il peso del passato. Nietzsche e la storia
La critica della conoscenza
La critica della coscienza
Coscienza e inconscio nell'ottica della neurobiologia
La critica del libero arbitrio
La coscienza che mistifica
Nietzsche e Freud

 

La decadenza della civiltà e il vomere della cattiveria

Con La nascita della tragedia Nietzsche definisce d’emblée il carattere della sua avventura intellettuale, che associa allo spirito critico e indubbiamente geniale la necessità soggettiva dell’antitesi radicale, dell’essere contro.

Egli , di fatto, scaglia un virulento attacco critico al primo idolo nel quale si è imbattuto: la cultura accademica, che coltiva il mito della classicità “olimpica” e il senso comune, che, sulla scia di esso, si è adagiata nel riferimento ad un’evoluzione progressiva civilizzatrice. Partendo dal coraggio e dalla “sanità” con cui I greci arcaici, prima dell’avvento del socratismo e della razionalità, hanno affrontato i problemi dell’esistenza, egli interpreta la storia dell’Occidente in termini di un processo continuo di decadenza, di una lunga malattia, di una persistente “nevrosi” caratterizzata dalla dittatura della maggioranza e dalla produzione di valori – religiosi morali e civili - il cui unico significato è di addomesticare l'uomo, celandogli la verità sulla sua condizione, assegnandogli, nel Cosmo e sulla terra, un valore e un’importanza che non ha, e illudendolo di avere un destino trascendente.

Nietzsche intende restaurare la “verità” in questi termini:

413.

L'umanità non mostra un'evoluzione verso il meglio; o verso ciò che è più forte, o ciò che è superiore, nel senso in cui ciò oggi si crede: l'europeo del XIX secolo è, nel suo valore, di gran lunga al di sotto dell'europeo del Rinascimento; evoluzione non è per nulla necessariamente elevazione, potenziamento, rafforzamento...

In un altro senso c'è una continua riuscita di singoli casi nei più diversi luoghi della terra e a partire dalle più diverse civiltà, nei quali effettivamente si presenta un tipo superiore: qualcosa che in rapporto alla totalità dell'umanità è una specie di «oltreuomo». Tali casi fortunati di grande riuscita furono sempre possibili e forse saranno sempre possibili.”

“414.

Questo tipo di valore superiore è già esistito abbastanza spesso: ma come un caso fortuito, come un'eccezione, mai come voluto. Piuttosto, proprio esso è stato temuto più di tutti, è stato finora quasi ciò che è da temere: e a partire dalla paura si è voluto, allevato, raggiunto il tipo contrario: l'animale domestico, l'animale da gregge, l'animale dei diritti uguali, il debole animale uomo, il «cristiano»…”

Occorre, secondo Nietzsche, invertire questa tendenza “degenerativa”, che rischia di cristallizzare l’umanità nell’eterna ripetizione della mediocrità. Gli spiriti liberi e superiori, che odiano la mediocrità, devono necessariamente “de-linquere”, essere spietati e cattivi.

“4.

Ciò che serve alla conservazione della specie.

Sino ad oggi sono stati gli spiriti più forti e più cattivi a portare più avanti l'umanità: hanno ripetutamente acceso le passioni addormentate (in tutte le società ordinate la passione dorme), hanno ripetutamente risvegliato il senso del paragone, della contraddizione, del piacere per quanto è nuovo, osato, inesplorato, hanno costretto gli uomini a contrapporre opinioni a opinioni, modelli a modelli. Per lo più con le armi, abbattendo i confini e ferendo le pietà: ma anche con nuove religioni e morali!

In ogni maestro e predicatore del nuovo c'è la stessa cattiveria che rende malfamato ogni conquistatore, per quanto possa sembrare più raffinata, non metta subito in moto i muscoli e così, proprio per questo, non li rende altrettanto malfamati! Il nuovo è comunque in ogni caso cattivo, in quanto intende conquistare qualcosa, rovesciare i vecchi confini e le vecchie pietà; soltanto il vecchio è buono!

I buoni di ogni tempo sono coloro che seppelliscono in profondità i vecchi pensieri e li fanno fruttare, i coltivatori dello spirito. Ma ogni terreno alla fin fine si esaurisce, e deve tornare il vomere della cattiveria.”

Il vomere della cattiveria come arma che dissoda il terreno della cultura che tende ad inaridirsi e ad isterilirsi.

E’ evidente che Nietzsche legge la storia alla luce della sua esperienza e del suo concetto di individuazione eroica. L’umanità, pigra e codarda, ama la malattia, la menzogna, il mito. Solo alcuni suoi rappresentanti amano l’onestà e la verità a tutti i costi:

“227.

L'onestà, posto che sia questa la nostra virtù, quella dalla quale noi spiriti liberi non possiamo liberarci ora vogliamo occuparci di lei con ogni malizia e con ogni amore e non stancarci di «perfezionarci» nella nostra virtù che è l'unica che ci rimanga: e resti pure sospeso il suo splendore come una dorata, azzurra, derisoria luce serotina su questa cultura in declino e la sua pesante e tetra serietà! E se poi, un giorno, la nostra onestà si staccasse e sospirasse e stirasse le braccia e ci trovasse troppo duri e desiderasse qualcosa di meglio, di più facile, di più tenero, come un piacevole vizio: restiamo duri, noi ultimi stoici! e mandiamo in suo soccorso ciò che c'è in noi di diabolico il nostro disgusto per la goffaggine e l'approssimazione, il nostro «nitimur in vetimur» [Pretendiamo sempre ciò che è vietato e desideriamo ciò che ci è vietato. (Ovidio)], la nostra audacia da avventurieri, la nostra curiosità scaltra e raffinata, la nostra più sottile, più simulata e più spirituale volontà di potenza e di superamento del mondo, che si libra e aleggia avidamente intorno a tutti i regni del futuro, veniamo in soccorso del nostro «Dio» con tutti i nostri «diavoli!»”

Per quanto questo schematismo riveli l’incapacità di Nietzsche di sormontare la logica antitetica che sottende il suo pensiero e di giungere ad adottare una logica dialettica, che consente agevolmente di distinguere tra il de-linquere creativo e quello semplicemente brutale, esso non è privo di fondamento.

Avanzando sulla base di tentativi e di errori, l’umanità di fatto ha bisogno di Geni che ne correggano l’evoluzione rivelando quanto c’è di errato in ciò che essa ritiene vero e giusto.

Nietzsche ha dunque ragione quando afferma che spiriti liberi e critici sono sempre esistiti, sia pure come eccezioni. Meno ragione ha nel vivere come un’ingiustizia che grida vendetta il fatto che essi abbiano incontrato e incontrino resistenze di ogni genere da parte dei conservatori, dei tradizionalisti e della gente comune. La cultura umana evolve inesorabilmente sulla base della dialettica tra tradizione e innovazione, che può avere aspetti più o meno conflittuali.

In un libricino smilzo ma denso (L’evoluzione della cultura, Codice Edizioni 2008), Luigi Luca Cavalli Sforza scrive:

“L'evoluzione culturale, nel suo insieme, è determinata dalla somma delle innovazioni e delle scelte o, più esattamente, dall'accettazione o meno di queste innovazioni da parte della società e da quali innovazioni vengono accettate. Vi è quindi un cambiamento continuo che è sempre di natura statistica, dato che è molto improbabile che tutti accettino le stesse scelte. Alcune innovazioni sono più fortunate di altre. La storia della cultura è quindi la storia delle innovazioni: quali sono state proposte, quali hanno avuto fortuna e perché. La motivazione che conduce a creare o accettare un'innovazione è più o meno sempre la stessa: si osserva un bisogno e si cerca di andargli incontro. L'inventore è spesso un personaggio particolare, dotato di creatività e di indipendenza intellettuale, ma ciascuno di noi è potenzialmente un inventore capace di creare qualche novità. Questo inventore occasionale può restare l'unico a utilizzare la sua creazione; più di rado la novità ha fortuna e si diffonde e magari diventa veramente importante nel determinare nuovi sviluppi sociali.

Nel tentativo di ricostruire la storia della cultura è importante anche considerare le motivazioni che spingono di volta in volta ad accettare o a rifiutare un'invenzione. Gli studiosi delle invenzioni hanno trovato che esiste una grande variazione individuale nella tendenza generica ad accettare le novità: da un lato ci sono gli smaniosi di novità, i "pionieri", mentre all'estremo opposto ci sono i più pigri, gli ultimi ad accettare. La tendenza e la velocità di accettazione variano da un individuo all'altro entro questi due estremi, secondo le leggi comuni della variabilità individuale. Ma, naturalmente, l'intensità della motivazione varia anche in base all'oggetto della novità, a quanto se ne ha bisogno e a quanto piace, e risulta pertanto profondamente influenzata anche dai gusti e dalle preferenze personali. Parecchie invenzioni sono di natura tecnologica, ma molte, forse in numero maggiore, sono di natura socioeconomica. Tutte le novità, di qualunque tipo, devono offrire qualche beneficio, almeno all'apparenza, per avere una probabilità non nulla di essere accettate (talvolta l'unico beneficio è quello di essere, appunto, novità). Tuttavia, ogni innovazione non ha solo un beneficio, ma ha sempre anche un costo, che può essere, all'inizio, di difficile valutazione. Ciò crea in alcuni un sentimento di generale sfiducia verso le novità, che tende a rallentarne o impedirne l'accettazione. Esiste tuttavia anche una tendenza opposta che si manifesta con un'attrazione per le novità in quanto nuove. Tra coloro che possiedono una simile tendenza troviamo anche i pionieri.

La storia della cultura ha quindi lo scopo di identificare le innovazioni più importanti in ogni epoca, luogo e situazione in cui sono avvenute, le motivazioni che hanno spinto a proporle e ad accettarle o imporle e la soddisfazione che hanno recato.” (pp. 11-12)

Gli spiriti liberi, vale a dire i Geni, rappresentano l’antidoto contro la possibilità che la cultura ristagni o finisca in un vicolo cieco. La cultura, peraltro, tranne che non si dia un’organizzazione sociale diversa da quella che si è data finora, non può volare troppo in alto, perché serve ad assicurare alla società una certa coesione, e quindi deve tradursi in senso comune. Questo, infine, rappresenta il punto su cui fanno leva gli spiriti liberi per sviluppare nuove idee e nuovi valori.

Nessun periodo, forse, come la seconda metà dell’Ottocento ha posto in luce la dialettica tra grande Cultura e cultura del senso comune. Lo sviluppo industriale ha posto le basi, sia pure a prezzo di sofferenze immani, per l’imborghesimento della società. Ma non è certo un caso che i quattro Grandi Demistificatori di cui ci stiamo interessando sono vissuti e hanno operato tutti nell‘800 (con l’eccezione di Freud che muore nel 1939, ma la cui opera più famosa, L’interpretazione dei sogni, vede la luce nel 1900). La loro comparsa contemporanea non può non sorprendere. Nonostante la diversità dei loro terreni di ricerca e dei loro obiettivi, le loro opere sembrano ricondursi nondimeno ad un principio metodologico comune: confutare le apparenze e andare al di là di esse.

Marx ha enunciato questo principio scrivendo che “se le apparenze coincidessero con le essenze, non si darebbe scienza.” Di fatto tutti i Grandi Demistificatori o, come Darwin, sono scienziati in senso stretto, o - è il caso di Marx, Nietzsche e Freud - indulgono ad attribuire alla loro ricerca un significato scientifico.

Possiamo, per ora, mettere tra parentesi il mistero di questa fioritura di geni demistificanti nel seno di una Civiltà in forte espansione e oltremodo sicura di sé.

Qui interessa rilevare che, tra i quattro, Nietzsche è quello che prende più di tutti gli altri sul serio il suo ruolo di Demistificatore. Egli ritiene, infatti, che tutte le apparenze nelle quali credono gli uomini del suo tempo, vale a dire tutte le soluzioni maturate nel corso della Civiltà occidentale per dare una risposta ai problemi fondamentali dell’esistenza sono radicalmente sbagliate.

La prima soluzione si è avviata nella Grecia antica, dopo il tramonto dello spirito dionisiaco, con la scoperta che l’individuo, essendo dotato di Ragione, può penetrare il velo delle apparenze e pervenire alle essenze: il vero, il bene, il giusto, il bello.

Anche se la preoccupazione della filosofia greca era più di ordine etico che non scientifico, è fuor di dubbio che la fiducia nella Ragione che essa ha prodotto ha influenzato profondamente la civiltà occidentale. E’ con il Rinascimento che tale fiducia viene recuperata e valorizzata come attributo dell’individuo. La nascita della scienza nel ‘600 è una conseguenza di questo recupero. Essa avvia uno sviluppo tecnologico destinato, attraverso la mediazione dell’Illuminismo, a porre le basi per l’avvento della civiltà delle macchine e, con esso, della società borghese, letteralmente infatuata dalle magnifiche sorti e progressive dell’umanità che ne discendono.

La seconda soluzione è maturata in Medio Oriente, ma è attecchita e si è sviluppata in Occidente. Si tratta del Cristianesimo che, in virtù di quell’attecchimento, ha dominato la storia occidentale per più di un millennio. Il Cristianesimo muove dal presupposto che l’esperienza umana è segnata dall’egoismo, dalla sopraffazione, dalla violenza e riconduce gran parte di questi aspetti al male intrinseco alla natura umana, conseguente al peccato originale. Esso riconosce anche che c’è una quota di dolore che incombe sull’esperienze umane indipendente dall’azione degli uomini, la cui massima espressione è la paura di morire.

A questi problemi, il Cristianesimo offre due soluzioni: da una parte la prospettiva di una vita eterna, nella quale trionferà la giustizia, i buoni verranno remunerati e i cattivi puniti; dall’altra parte, il richiamo ad una solidarietà comunitaristica che, valorizzando la pari dignità degli esseri umani come figli di Dio, è devoluta a farsi carico dei poveri, dei deboli, degli svantaggiati in maniera tale da ridurre la loro sofferenza.

Quest’ultimo aspetto, depurato da ogni valenza teologica e patetica, confluisce nel Socialismo ottocentesco e, mutatis mutandis, viene accolto anche da Marx, il cui pensiero sembra rivolto a dimostrare, in un’ottica mondana, la validità del motto evangelico per cui gli ultimi saranno i primi.

Nietzsche ritiene che tutte queste soluzioni, accomunate dal riferimento alla dignità dell’uomo e all’uguaglianza, sono sostanzialmente false e illudano l’uomo, allontanandolo dalla verità sulla sua condizione. Per ciò, egli si impegna in una critica destruens di esse, che pone le basi di una nuova visione del mondo, totalmente disincantata e però non radicalmente pessimistica.

In Ecce Homo si legge:

“L'ultima cosa che io prometterei, sarebbe «correggere» l'umanità. Non erigerò nuovi idoli; i vecchi possono cominciare ad imparare cosa comporta avere i piedi d'argilla. Rovesciare gli idoli (il mio termine per «ideali») è questo, piuttosto, che attiene al mio mestiere.”

L’intento di questa conferenza e della prossima è di ricostruire questo tragitto destruens fino alle estreme conseguenze, che coincidono filosoficamente con il nichilismo positivo e psicologicamente con il crollo finale di Nietzsche.

La coazione a ripetere in Nietzsche

Non è affatto una forzatura correlare la ricerca filosofica di Nietzsche e la sua vicenda personale, interiore e sociale. Tranne che non si accetti l’ipotesi, veramente singolare, di Montinari, il quale sostiene che Nietzsche, ad un certo punto della sua vita, tace perché, avendo esaurito il suo compito, non ha più nulla da dire, è evidente che i due piani sono correlati.

La correlazione, peraltro, è implicita e, per alcuni aspetti, esplicita nell’opera stessa di Nietzsche. Non sottolineerò ulteriormente il trauma originario della perdita della fede, dello smarrimento profondo da esso prodotto e dell’ebbrezza della libertà di pensiero che è divenuta in Nietzsche la “medicina” atta a ripararlo. E’ più importante piuttosto rilevare che la memoria di questo passaggio segna tutta la vicenda personale e intellettuale di Nietzsche, dando ad essa il carattere di una perpetua coazione a ripetere.

La coazione a ripetere è una dinamica scoperta dalla psicoanalisi che permette di comprendere perché alcuni soggetti ripetono indefinitamente comportamenti che mirano a risolvere un conflitto che non si può risolvere proprio in conseguenza di essi. La coazione a ripetere si interpreta ipotizzando che un soggetto tenta di superare un conflitto che affonda le radici nel remoto passato, rimettendosi nelle identiche circostanze che provocarono quell’antica difficoltà, e quindi ripetendo le stesse azioni.

La coazione a ripetere, nonché singoli individui, può riguardare anche un’intera società. Nietzsche coglie lucidamente questo aspetto nel suo tempo, e oggi gli si può dare del tutto ragione. E’ fuori di dubbio che la nostra società, oggi ancora più che nell’Ottocento, è preda di una coazione a ripetere che porta a privilegiare lo sviluppo economico, che pure ha assicurato un indubbio salto di qualità del tenore di vita, come matrice univoca del benessere, nonostante il rapporto inversamente proporzionale tra esso e la “felicità”, riconosciuto da tempo, smentisca questo assunto.

Nietzsche appare, però, del tutto incapace di cogliere e di affrancarsi dalla coazione a ripetere che sottende la sua esperienza. Si tratta di approfondire questo aspetto per capire il valore e il limite del tragitto di demistificazione seguito da Nietzsche.

In ogni esperienza umana c’è una cesura tra l’infanzia e l’età adulta, promossa dall’avvento dell’adolescenza con il suo carico di consapevolezze esistenziali. In alcuni casi, tale cesura fa riferimento alla nostalgia di un’età dell’oro, quella infantile, definitivamente perduta. In altri casi, la risoluzione dell’ipnosi infantile dà luogo invece all’ebbrezza di una libertà di pensiero che prima non c’era. In entrambi i casi, la ricostruzione dell’esperienza del passato non corrisponde alla verità. Nel secondo caso, però, l’ebbrezza sperimentata facilmente si traduce in una sorta di avversione per ciò che l’individuo ha sperimentato in precedenza. In conseguenza di questa avversione, la libertà si esprime sotto forma di una volontà esasperata di sancire la scissione tra il prima e il dopo, vale a dire nella rimozione e nella negazione del passato.

L’esperienza di Nietzsche, riconducibile alla pressione continua esercitata da un Io antitetico fortemente strutturato, ha dato luogo ad una coazione a ripetere che, nel corso degli anni, si è sempre più intensificata.

Rovesciato il primo idolo, il Dio cristiano, egli, infatti, è stato spinto poi a criticare e a demolire tutti gli idoli su cui si fonda la Civiltà occidentale - il valore supremo dell’individuo, la fiducia nella coscienza, la sacralità delle tradizioni e del senso comune, l’etica del lavoro, la democrazia, il ruolo dello Stato, il concetto di progresso, ecc.

Nietzsche, in pratica, è stato costretto a reiterare il trauma originario, promuovendo periodiche immersioni nel malessere profondo prodotto dalla demolizione degli “idoli” e riemergendo da esse con uno stato d’animo quasi euforico per un equilibrio conseguito di livello più elevato rispetto al precedente.

Oltre che un’esigenza dettata dalla sua genialità, la critica destruens di Nietzsche è una sorta di tragitto terapeutico verso la salute: un tragitto che richiede di porre tra parentesi i prezzi che egli paga, che, in Umano, troppo umano vengono definiti in termini di “malattia, solitudine, estraneità, accidia, inattività”, per portare a termine il suo compito: curare e ristabilire se stesso, ma nel contempo, curare l’umanità tutta dalla sua “malattia” (la mistificazione) e portarla quasi di forza nel regno degli spiriti liberi, e dunque umanamente risanati.

Giustamente, nell’introduzione generale alle Opere pubblicate da Newton Compton, F. Desideri sottolinea che nel pensiero di Nietzsche si possono individuare almeno tre aspetti o costanti: “il carattere patetico-sintomatico; 2. quello critico-diagnostico; 3. quello convalescenziale-terapeutico.” (p. 9)

Il primo aspetto consiste nel rilevare, senza remora alcuna, nella cultura e nei comportamenti umani, tutti i segni attestanti che l’umanità è “malata”: essa preferisce l’errore, la mistificazione, l’alienazione rispetto alla verità.

Il secondo aspetto si riconduce allo sforzo di capire perché essa abbia imboccato il vicolo cieco della mistificazione e perché insista a percorrerlo. La risposta, univoca, è che essa ha paura ed è stata potentemente aiutata dalla cultura e dall’organizzazione sociale ad averne sempre più in rapporto alla tragicità della sua condizione esistenziale.

Il terzo aspetto coincide con il togliere via il velo di Maya che mantiene l’umanità in uno stato di patetica ipnosi e indurla a vivere quella condizione con dignità e con la gioia di una liberazione che aggetta su di un futuro che privilegerà coloro che sono in grado di farsene carico.

Il tragitto intellettuale di Nietzsche, come abbiamo visto, nasce dal pathos derivante dalla scoperta della terribile influenzabilità infantile e dalla conseguente perdita della fede, generalizza tale scoperta applicandola all’umanità che, in nome dell’istinto gregario, rimane preda delle influenze sociali, e promuove una liberazione da questo stato alienato e servile pur consapevole del fatto che essa non potrà essere raggiunta dai più.

Proponendo all’umanità questo tragitto, Nietzsche lo realizza anzitutto sulla sua pelle. Ma lo realizza alla luce della scissione del suo essere, che, come abbiamo visto, intuisce ma non riesce a mettere a fuoco e a padroneggiare.

Il peso del passato. Nietzsche e la storia

Basta leggere una delle Considerazioni inattuali (Sull’utilità e il danno della storia per la vita), che preparano la stagione delle grandi opere, per convincersene.

In essa Nietzsche attacca lo storicismo, vale a dire l’orientamento maturato in reazione all’Illuminismo, secondo il quale il presente va spiegato alla luce del passato e la storia consente di individuare nell’indefinita serie di eventi che caratterizzano la vicenda umana un’evoluzione progressiva della Civiltà, quindi un fine verso cui essa tende.

Sono già noti i motivi per cui questo modo di vedere è inaccettabile per Nietzsche. Un anno prima, egli ha scritto questo sconvolgente esordio di un’opera ritenuta a torto minore (Verità e menzogna in senso extramorale):

“In un qualche angolo remoto dell’universo che fiammeggia e si estende in infiniti sistemi solari, c’era una volta un corpo celeste sul quale alcuni animali intelligenti scoprirono la conoscenza. Fu il minuto più tracotante e menzognero della «storia universale»: e tuttavia non si trattò che di un minuto. Dopo pochi sussulti della natura, quel corpo celeste si irrigidì, gli animali intelligenti dovettero morire.

Ecco una favola che qualcuno potrebbe inventare, senza aver però ancora illustrato adeguatamente in che modo penoso, umbratile, fugace, in che modo insensato e arbitrario si sia atteggiato l’intelletto umano nella natura: ci sono state delle eternità, in cui esso non era; e quando nuovamente non sarà più, non sarà successo niente. Per quell’intelletto, infatti, non esiste nessuna missione ulteriore, che conduca al di là della vita dell’uomo.

Esso è umano, e soltanto il suo possessore e produttore può considerarlo con tanto pathos, come se in lui girassero i cardini del mondo. Se fosse per noi possibile comunicare con la zanzara, verremmo a scoprire che anch’essa con lo stesso pathos nuota nell’aria dove si sente come il centro che vola di questo mondo.”

Su questa base, il riferimento alla storia come magistra vitae è ovviamente inaccettabile per Nietzsche. La storia è una successione indefinita di eventi singoli, caotici, contraddittori, nei quali non è dato di identificare alcun senso e tanto meno di riconoscere in essi un qualunque fine.

A posteriori, la critica di Nietzsche non appare priva di fondamento se essa è stata convalidata in pieno Novecento da Karl R. Popper.

In Miseria dello storicismo (Laterza, Roma - Bari, 1969, pp. 13-14) egli scrive:

Il corso della storia umana è fortemente influenzato dal sorgere della conoscenza umana.

2. Noi non possiamo predire, mediante metodi razionali o scientifici, lo sviluppo futuro della conoscenza scientifica. […]

3. Perciò, non possiamo predire il corso futuro della storia umana.

4. Ciò significa che dobbiamo escludere la possibilità di una storia teorica; cioè, di una scienza sociale storica che corrisponda alla fisica teorica. Non vi può essere alcuna teoria scientifica dello sviluppo storico che possa servire di base per la previsione storica.

5. Lo scopo fondamentale dello storicismo è quindi infondato. E lo storicismo crolla. […]

Ma può esserci una legge dell’evoluzione? […]

Io credo che la risposta a questa domanda debba essere "no"…”

Se leggiamo attentamente Sull’utilità e il danno della storia, scopriamo però facilmente che la critica di Nietzsche allo storicismo ha anche un significato soggettivo, inconscio. Leggiamo questa citazione:

“Osserva il gregge che pascola dinnanzi a te: non sa che cosa sia ieri, che cosa sia oggi; salta intorno, mangia, riposa, digerisce, salta di nuovo, e così dal mattino alla sera e giorno dopo giorno, legato brevemente con il suo piacere e con la sua pena al piuolo, per così dire, dell'attimo, e perciò né triste né annoiato. Vedere tutto ciò è molto triste per l'uomo poiché egli si vanta, di fronte all'animale, della sua umanità e tuttavia guarda con invidia la felicità di quello — giacché egli vuole soltanto vivere come l'animale né tediato né addolorato, ma lo vuole invano, perché non lo vuole come l'animale. L'uomo chiese una volta all'animale: Perché mi guardi soltanto, senza parlarmi della tua felicità? L'animale voleva rispondere e dire: La ragione di ciò è che dimentico subito quello che volevo dire — ma dimenticò subito anche questa risposta e tacque: così l'uomo se ne meravigliò.

Ma egli si meravigliò anche di se stesso, di non poter imparare a dimenticare e di essere sempre attaccato al passato: per quanto lontano egli corra e per quanto velocemente, la catena lo accompagna. È un prodigio: l'attimo, in un lampo, è presente, in un lampo è passato, prima un niente, dopo un niente, ma tuttavia torna come fantasma e turba la pace di un istante successivo. Continuamente si stacca un foglio dal rotolo del tempo, cade, vola via — e improvvisamente rivòla indietro, in grembo all'uomo. Allora l'uomo dice «mi ricordo» e invidia la bestia che dimentica subito e vede ogni attimo morire realmente, sprofondare nella nebbia e nella notte e spegnersi per sempre. Così l'animale vive in modo non storico: é esso nel presente è come un numero, senza che ne resti una strana frazione, non sa fingere, non nasconde nulla e appare in ogni momento esattamente come ciò che è, non può quindi essere altro che sincero. L'uomo, invece, si oppone al peso sempre più grande del passato: questo l'opprime o lo piega da parte, rende più greve il suo cammino come un fardello invisibile e oscuro che egli può apparentemente rinnegare e che nei rapporti con i suoi simili rinnega perfino troppo volentieri, per suscitare la loro invidia…

La più piccola felicità, purché esista ininterrottamente e renda felici, è senza paragone una felicità maggiore di una più grande che si presenti soltanto come episodio, come capriccio, per così dire, come pazza idea, fra malessere, desiderio e privazione. Ma sia nella più piccola felicità che in quella più grande è sempre una cosa che fa diventare felicità la felicità: il poter dimenticare o, con espressione più dotta, il poter sentire, mentre essa dura, in modo non storico. Chi non sa sedersi sulla soglia dell'attimo, dimenticando tutto il passato, chi non sa stare dritto su un punto senza vertigini e paura come una dea della vittoria, non saprà mai che cos'è la felicità e ancora peggio, non farà mai qualcosa che renda felici gli altri.Immaginatevi l'esempio estremo, un uomo che non possedesse affatto la forza di dimenticare, che fosse condannato a vedere ovunque un divenire: un tale uomo non crederebbe più al suo proprio essere, non crederebbe più a se stesso, vedrebbe scorrere ogni cosa l'una dall'altra in un movimento di punti e si perderebbe in questa fiumana del divenire: infine, come vero discepolo di Eraclito, quasi non oserebbe più alzare un dito. Ad ogni azione occorre l'oblìo: come alla vita di tutto ciò che è organico occorre non solo la luce, ma anche l'oscurità. Un uomo che volesse sentire in tutto e per tutto in modo storico, sarebbe simile a colui che fosse costretto ad astenersi dal sonno, o all'animale che dovesse vivere soltanto del suo ruminare e di un sempre ripetuto ruminare. Dunque, è possibile vivere quasi senza ricordare, anzi vivere felicemente, come mostra l'animale; ma è del tutto impossibile vivere in generale senza dimenticare. Ovvero, per spiegarmi ancor più semplicemente sul mio tema: vi è un grado di insonnia, di ruminazione, di senso storico, in cui l'essere vivente viene danneggiato e alla fine va in rovina, sia esso un uomo, un popolo o una civiltà.”

La necessità di dimenticare, di obliare e rimuovere il passato, di immergersi nel presente, di partecipare alla vita sul registro dell’hic et nunc: come non leggere in questo proposito la difesa inconscia che Nietzsche ha opposto al suo passato, una difesa, tra l’altro, che ha promosso la coazione a ripetere destruens di tutti gli idoli?

Il problema Nietzsche è chiaro e si può formulare in questi termini: si può dare credito ad un “Salvatore” che è convissuto con una sofferenza psichica e psicosomatica pressoché perpetua e che, nonostante alcuni brevi periodi di euforia, è finito “pazzo”? Si può credere ad un Diagnosta-Terapeuta fallito nell’applicare a se stesso la formula aurea “medice, cura te ipsum”?

Io ritengo che gli si possa e gli si debba dare credito. Anche se, in conseguenza di una logica costantemente antitetica, il tragitto di demistificazione di Nietzsche va spesso fuori misura, esso rimane una delle più belle imprese intellettuali che si siano mai realizzate: un’impresa che rimane valida anche se si prende atto che l’autore non è scampato egli stesso ad un certo grado di mistificazione. Tale circostanza, che, sia pure in diversa misura, vale per tutti i Grandi Demistificatori, lo umanizza.

La critica della scienza

La coazione a ripetere di Nietzsche si esercita, dall’inizio alla fine, nell’attaccare un ideale, un mito, un sistema di valori convenzionalmente riconosciuto e nel tentare di demolirlo o adottando il metodo genealogico, e dimostrando che le sue origini sono molto meno nobili di quanto si pensi, o confutandolo scetticamente fino a rivelarne l’infondatezza.

Con La nascita della tragedia Nietzsche mette in discussione e, in una certa misura, sovverte il mito della classicità, rivelando che esso ha rimosso del tutto la percezione tragica dell’esistenza che occorre ammettere come una delle matrici del genere tragico.

Subito dopo aver pubblicato La nascita della tragedia, egli scrive un libricino che non vedrà mai la luce - Verità e menzogna in senso extramorale - con il quale tenta di abbattere uno dei capisaldi della civiltà occidentale: la convinzione che l’uomo, in virtù del Linguaggio, della Ragione e della Scienza, possa arrivare alla verità.

L’esordio di Verità e menzogna lascia già capire in quale direzione si orienta il pensiero di Nietzsche in seguito alla perdita della fede:

“In un qualche angolo remoto dell’universo che fiammeggia e si estende in infiniti sistemi solari, c’era una volta un corpo celeste sul quale alcuni animali intelligenti scoprirono la conoscenza. Fu il minuto più tracotante e menzognero della «storia universale»: e tuttavia non si trattò che di un minuto. Dopo pochi sussulti della natura, quel corpo celeste si irrigidì, gli animali intelligenti dovettero morire.

Ecco una favola che qualcuno potrebbe inventare, senza aver però ancora illustrato adeguatamente in che modo penoso, umbratile, fugace, in che modo insensato e arbitrario si sia atteggiato l’intelletto umano nella natura: ci sono state delle eternità, in cui esso non era; e quando nuovamente non sarà più, non sarà successo niente. Per quell’intelletto, infatti, non esiste nessuna missione ulteriore, che conduca al di là della vita dell’uomo.

Esso è umano, e soltanto il suo possessore e produttore può considerarlo con tanto pathos, come se in lui girassero i cardini del mondo. Se fosse per noi possibile comunicare con la zanzara, verremmo a scoprire che anch’essa con lo stesso pathos nuota nell’aria dove si sente come il centro che vola di questo mondo.

Non c’è niente in natura di così spregevole e dappoco che con un piccolo soffio di quella facoltà conoscitiva non si possa gonfiare come un otre; e allo stesso modo in cui qualsiasi facchino vuol avere i suoi ammiratori, anche il più orgoglioso degli uomini, il filosofo, è convinto che da ogni lato gli occhi dell’universo siano puntati telescopicamente sul suo fare e sul suo pensare. E’ degno di nota che a tanto giunga l’intelletto, qualcosa cioè che è concesso proprio solo come strumento ausiliario alle più infelici, alle più fragili, alle più transitorie delle creature, per conservarle un minuto nell’esistenza; giacché esse altrimenti, senza quel supporto, avrebbero tutte le ragioni a volatilizzarsi...

Quella tracotanza legata alla conoscenza e alla sensibilità, nebbia accecante che sta davanti agli occhi e ai sensi degli uomini, li inganna dunque sul valore dell’esistenza, portando in se stessa la valutazione più piena di lusinghe circa la conoscenza. Il suo effetto più generale è l’inganno – ma anche gli effetti più particolari portano con sé qualcosa dello stesso carattere...

Nell’uomo quest’arte della simulazione tocca il suo culmine: qui l’ingannare, l’adulare, il mentire, e il fingere, lo sparlare dietro le spalle, il rappresentare, il vivere in una magnificenza d’accatto, il mascherarsi, le convenzioni che servono a nascondere, il recitare una parte dinanzi agli altri, e a se stessi, in una parola l’incessante svolazzare intorno a quella fiamma che è la vanità, tutto ciò così spesso è la regola e la legge che niente è più inconcepibile del fatto che tra gli uomini possa emergere un impulso onesto e puro verso la verità…

Essi sono profondamente immersi in sogni e illusioni, il loro occhio scivola soltanto sulla superficie delle cose e non vede che «forme», in nessun modo la loro sensibilità conduce al vero, bastandole di ricevere stimoli ossia di giocare un gioco tattile sul dorso delle cose. Inoltre l’uomo durante la notte, per tutta la vita, si lascia ingannare in sogno, senza che il suo sentimento morale glielo impedisca...

Che cosa sa propriamente l’uomo di sé? Davvero sarebbe capace, anche solo una volta, di avere di sé una percezione completa, come se si trovasse in una vetrina illuminata? Non gli tace la natura quasi tutto, anche riguardo al suo stesso corpo, per confinarlo e imprigionarlo in una orgogliosa e illusoria coscienza, lontano dal viluppo delle interiora, dal rapido flusso del sangue, dai nascosti brividi delle fibre? Essa ha gettato via la chiave.”

Scritto a 29 anni, questo folgorante esordio rappresenta il leit-motiv di tutta l’opera di Nietzsche: il nichilismo è già implicito nella visione di un Cosmo vuoto di senso che, casualmente, fa brillare su un remoto  pianeta un barlume di intelligenza e nel riferimento al fatto che gli infelici animali umani ai quali quel barlume è stato dato in dono lo utilizzano per produrre una gabbia di illusioni che consenta loro, almeno apparentemente, di mascherare a se stessi la loro insignificanza.

Nietzsche ha colto prima e meglio di tutti gli altri filosofi o studiosi dell’uomo la tendenza intrinseca alla coscienza umana alla mistificazione, che viene continuamente  corroborata dal circolo vizioso che si dà tra l’esigenza del singolo individuo e quella della società nel suo complesso a produrre valori culturali normativi e normalizzanti, che consentono all’individuo di sentirsi in qualche misura importante, in quanto partecipe di un gruppo dotato di una sua identità culturale, e alla società di rimanere coesa e di riprodursi.

Qual è l’oscuro bisogno che spinge l’uomo a ingannare se stesso e a condividere con gli altri convinzioni infondate, e per alcuni aspetti ridicole, che sono corroborate solo dal consenso collettivo?

A riguardo Nietzsche non ha dubbi. L’uomo ha bisogno di mentire per arginare l’angoscia di essere immerso in una realtà complessa e caotica e, soprattutto, per celare a se stesso la sua reale condizione di essere casuale, complesso, contraddittorio, sostanzialmente irrazionale e, da ultimo, privo di senso nell’economia dell’Universo.

Nel tentativo di dare ordine al caos, l’uomo ha creato il linguaggio, e si è letteralmente perduto in esso, giungendo a pensare che, attraverso di esso, sia possibile giungere alla verità. ma le cose, secondo Nietzsche, non stanno così. Egli scrive:

“Che cos’è una parola? Il riflesso sonoro di uno stimolo nervoso. Ma dedurre dallo stimolo nervoso l’esistenza d’una causa fuori di noi, è già il risultato d’una falsa e indebita applicazione del principio di causalità…

(L’inventore di un linguaggio) connota soltanto le relazioni delle cose con gli uomini, per l’espressione delle quali egli si serve delle più ardite metafore. Uno stimolo nervoso tradotto anzitutto in immagine! Prima metafora.

L’immagine nuovamente riplasmata in un suono! Seconda metafora.”

“Noi crediamo di sapere qualcosa delle cose stesse, quando parliamo di alberi, colori, neve e fiori e tuttavia non disponiamo che di metafore delle cose, che non esprimono in nessun modo le essenze originarie.”

“Ciascun concetto sorge dall’eguagliare il non eguale. Certamente mai una foglia è del tutto eguale a un’altra, e certamente il concetto di foglia è formato attraverso il lasciar cadere queste differenze individuali ossia attraverso la dimenticanza di ciò che distingue, sicché spunta l’idea che nella natura al di là delle foglie ci sia qualcosa come “la foglia”, una sorta di forma originaria, sulla base della quale tutte le foglie sarebbero plasmate, disegnate, sfumate, colorate, graffite, dipinte, ma da mani inesperte, tanto che nessun esemplare possa riuscire corretto e sicuro come riflesso fedele della forma originaria…

La dimenticanza di ciò che è reale e individuale ci dà il concetto così come anche la forma, là dove invece la natura non conosce né forme né concetti, e neppure generi, bensì soltanto una X per noi inattingibile.”

“Che cos’è dunque la verità? Un esercito mobile di metafore, metonimie, antropomorfismi, in breve una somma di relazioni umane, che sono state sublimate, tradotte, abbellite poeticamente e retoricamente, e che per lunga consuetudine sembrano a un popolo salde, canoniche e vincolanti: le verità sono illusioni, delle quali si è dimenticato che appunto non sono che illusioni, metafore, che si sono consumate e hanno perduto di forza, monete che hanno perduto la loro immagine e che quindi vengono prese in considerazione soltanto come metallo, non più come monete.

Noi continuiamo a non sapere da dove scaturisca l’impulso alla verità: giacché noi finora abbiamo preso atto del dovere, che la società impone per esistere, di essere sinceri, e cioè di usare le metafore secondo le consuetudini; il che significa, da un punto di vista morale: noi abbiamo preso atto del dovere di mentire secondo una salda convenzione, di mentire cioè tutti insieme in uno stile vincolante per tutti.”

En passant, non è fuori luogo rilevare che la critica al linguaggio di Nietzsche è stata recepita, mutatis mutandis, dalla disciplina che studia la funzione dei segni linguistici. Nel suo Trattato di semiotica generale (Bompiani, Milano 1975), U. Eco scrive: “La semiotica ha a che fare con qualsiasi cosa possa essere assunto come segno. E’ segno ogni cosa che possa essere assunto come un sostituto significante di qualcosa d’altro. Questo qualcosa d’altro non deve necessariamente esistere, né deve sussistere di fatto nel momento in cui il segno sta in luogo di esso. In tal senso, la semiotica, in principio, è la disciplina che studia tutto ciò che può essere usato per mentire.  Se qualcosa non può essere usato per mentire, allora non può neppure essere usato per dire la verità: di fatto non può essere utilizzato per dire nulla.” (p. 17)

C’è un’eco nietzschiana in questa definizione paradossale, che accetta il fatto che il segno è menzognero perché sta al posto di qualcos’altro: è l’immagine acustica non già di una cosa, ma della sua rappresentazione psichica. Il mondo - e Nietzsche lo intuisce prima ancora di conoscere Schopenhauer - non si dà all’uomo che sotto forma di rappresentazione, vale a dire di interpretazione di una realtà che, in sé e per sé, rimane sconosciuta. L’uso di segni linguistici è ingannevole perché esso porta a pensare che il linguaggio definisca un rapporto tra il significante (la forma fisica dei segni) e le cose.

Su questo inganno si fonda l’ingenuo realismo della coscienza degli uomini comuni. La scienza muove dall'esigenza di andare al di là delle apparenze percettive. Essa costruisce una rete di concetti attraverso i quali tende a catturare la verità. Ma si tratta di una rete che soddisfa l’esigenza umana di fingere di sapere senza capire, inficiata dal fatto che essa crea rapporti di casualità laddove si dà solo una correlazione.

All’astrazione legata alla razionalità e al linguaggio Nietzsche contrappone la capacità intuitiva di manipolare creativamente i simboli (l’arte, dunque), che implica la consapevolezza di “giocare” con la realtà sovrapponendo ad essa una trama illusionale che non è scambiata però per verità oggettiva.

Esemplifichiamo il discorso sulla scorta del pensiero di Nietzsche.

Di fronte ad un paesaggio, un soggetto sperimenta uno stato d’animo estatico riferito alla bellezza e all’armonia della natura. In realtà questo stato d’animo è la proiezione di un’esigenza soggettiva su di una realtà dinamica, perpetuamente cangiante e caotica. Basta guardare le cose più da vicino per demistificare tale proiezione: le piante si aggrovigliano e lottano perpetuamente tra loro, le loro foglie sono smangiucchiate dagli insetti, questi svolazzano all’impazzata cercando cibo e prede, ecc.

Un botanico osserva le cose con un occhio attento per sconfiggere la tendenza dell’occhio ad unificare e armonizzare i dettagli. L’attenzione al particolare gli consente di identificare una nuova pianta, alla quale egli dà un nome. In virtù di questa la pianta esce dall’anonimato e viene classificata. Ma cosa dice il suo nome scientifico se non che essa è stata riconosciuta dall’uomo come distinta da tutte le altre, cosa dice del suo essere in sé e per sé?

Un pittore rappresenta lo stesso paesaggio su di una tela di modiche dimensioni. A seconda del suo stile, quel paesaggio può risultare armonioso come all’occhio dell’uomo comune, vibrante e caotico, disarmonico, inquietante o, addirittura, trasformato astrattamente in qualcos’altro che ne impedisce l’identificazione.

Quale di queste tre modalità di rapportarsi alla realtà si può ritenere più fedele alla sua indefinita complessità? Nietzsche non ha alcun dubbio che sia l’arte, la quale procede sulla base dell’intuizione, che è una modalità conoscitiva più profonda rispetto all’intelletto: una modalità, peraltro, che non pretende di costringere la realtà dentro schemi fissi, ma ne accetta la caoticità, la varietà fenomenica, la contraddittorietà e cerca di esprimerla con i mezzi concessi all’uomo più che di catturarla e di assoggettarla a leggi.

La Ragione, dunque, non è affatto la via regia della verità: essa anzi utilizza il linguaggio e costruisce concetti per tenere l’uomo al riparo da essa. L’affermazione storica della razionalità, che caratterizza la storia del mondo occidentale, non è dunque un progresso, ma una regressione, una decadenza.

Se si riconduce il pensiero di Nietzsche alla sua epoca, fortemente contrassegnata dall’ascesa del Positivismo, se ne intende meglio la funzione storica.

Il Positivismo recupera la fiducia illuministica nella Ragione, ma l’aggancia allo sviluppo rigoglioso delle Scienze, alle quali esso affida il compito di definire leggi causali dei fenomeni sia naturali che sociali, e ritiene che, sulla base dello sviluppo scientifico e tecnologico, si apriranno davanti all’umanità le porte di un futuro radioso, di un progresso illimitato.

L’ottimismo positivista è in gran parte espressione della fiducia che la borghesia industriale ha nella sua capacità di guidare il mondo verso la terra promessa del benessere e della felicità.

E’ assolutamente evidente il motivo per cui Nietzsche, con la sua concezione tragica dell’esistenza, identifica in quell’ottimismo dogmatico un ulteriore segno di decadenza della civiltà. La sua polemica antipositivistica però è ben più radicale, in quanto egli non contesta solo il trionfalismo delle Scienze, ma anche il loro valore conoscitivo. Egli scrive:

“Cos’è per noi in generale una legge di natura? In sé non ci è nota, bensì soltanto nella sua relazione con altre leggi di natura, le quali a loro volta ci sono note soltanto come relazioni. Tutte queste relazioni dunque non fanno che rimandare le une alle altre, mentre le loro essenze in tutto e per tutto risultano a noi incomprensibili; soltanto ciò che noi vi aggiungiamo, il tempo, lo spazio, dunque i rapporti di successione e i numeri, ci sono realmente noti.

Tutto ciò che di prodigioso noi ammiriamo nelle leggi di natura ed esige da noi spiegazione e potrebbe portarci a diffidare dell’idealismo, sta proprio tutto e soltanto nel rigore matematico e nell'insuperabilità delle rappresentazioni spaziali e temporali.

Queste siamo noi a produrle in noi stessi e da noi stessi con quella necessità con cui il ragno tesse la tela; se noi siamo costretti a concepire tutte le cose soltanto sotto queste forme, allora non c’è da meravigliarsi, che noi in tutte le cose propriamente percepiamo soltanto queste forme: tutte infatti devono portare in sé le leggi del numero e il numero è proprio la cosa più prodigiosa delle cose.”

Scritte nel 1873, queste affermazioni, all’epoca del tutto controcorrente, hanno anticipato la crisi delle scienze che è sopravvenuta, con la fisica quantistica, nel Novecento. Oggi nessuno studioso crede più che le Scienze diano accesso a verità oggettive. Esse sono interpretazioni dei fenomeni naturali fornite adottando le logiche proprie della mente umana, che possono avere corrispondenze parziali con ciò che accade fuori dell’uomo. Esse peraltro riguardano solo i sistemi lineari, quelli nei quali valgono le relazioni di causa-effetto. Ma tali sistemi, deterministici, rappresentano solo un’infima porzione della realtà che in gran parte è rappresentata da sistemi complessi, indeterministici e probabilistici.

Nietzsche, dunque, ha le sue ragioni nell’attaccare il Positivismo e la sua fiducia che la realtà fosse composta solo di sistemi lineari le cui leggi sarebbero state scoperte. Egli ha intuito che, nella sua indefinita complessità, la realtà in toto è irriducibile a qualsivoglia tentativo di ingabbiarla in una griglia di spiegazioni scientifiche.

Anche se il tramonto del Positivismo e dello scientismo non si può attribuire a Nietzsche, bensì ad un’evoluzione interna alla scienza stessa, che riconosce come momenti fondamentali la teoria della relatività einsteiniana, la teoria quantistica e la teoria dei sistemi complessi, non si può non riconoscere che, con le sue critiche, egli ha precorso tale evoluzione.

La critica della coscienza

Nel 1878, con la pubblicazione del primo e del secondo libro di Umano, troppo umano, si avvia un decennio di prodigiosa creatività. Nel 1879 viene alla luce il terzo libro di Umano, troppo umano (Opinioni e sentenze diverse), nel 1880 il quarto (Il viandante e la sua ombra). Seguono Aurora (1881) e La gaia scienza (1882). Tra il 1883 e il 1885, Nietzsche pubblica la prima, la seconda, la terza e la quarta parte di Così parlò Zarathustra, che egli giudica il libro “più profondo che sia mai stato scritto”. Al 1886 risalgono Al di là del bene e del male e le dense prefazioni alle ristampe de La nascita della tragedia, Umano, troppo umano, Aurora, La gaia scienza. Nel 1887 vengono alla luce il quinto libro de La gaia scienza e La genealogia della morale. Il 1888 è l’anno cruciale. Nietzsche pubblica Il crepuscolo degli idoli, L’Anticristo, Ecce homo, e prende febbrilmente appunti per La volontà di potenza che, nei suoi intenti, dovrebbe promuovere una rivoluzione culturale incentrata sulla trasmutazione di tutti i valori, vale a dire sull’avvento dell’universo degli spiriti liberi. Il libro non vedrà mai la luce. Il 3 gennaio, a Torino, Nietzsche manifesta i sintomi di una psicosi dissociativa che lo immergerà in una condizione di totale regressione e destrutturazione psichica, destinata a durare sino alla fine (25 agosto 1900).

In un decennio, dunque, Nietzsche assume il ruolo del maestro del sospetto e del dubbio sistematico che demolisce i fondamenti della civiltà occidentale: l’eccezionalità dell’uomo nell’ordine naturale, l’unità e la consapevolezza dell’io cosciente, l’uguaglianza tra gli esseri umani, la fondatezza del senso comune, l’importanza del costume e della tradizione, il valore civilizzante dello Stato, la distinzione morale tra bene e male, l’esistenza di Dio e di un ordine trascendente fondato sulla sua volontà.

Prima di seguire Nietzsche nella sua discesa agli inferi del nichilismo, occorre tenere conto che quasi tutte le opere citate rinnovano anche stilisticamente la tradizione filosofica. Esse, infatti, sono scritte sotto forma di aforismi talora lunghi, talaltra molto brevi. A riguardo Nietzsche scrive in Umano, troppo umano:

"127.

Contro chi biasima la brevità.  Una cosa detta succintamente può essere il frutto e il raccolto di un lungo pensare: ma il lettore, che in questo campo è un novellino e non vi ha ancora riflettuto, in ogni cosa detta con brevità vede un certo che di embrionale, non senza un cenno di biasimo per l'autore il quale, insieme con il resto, gli ha servito una vivanda simile, non finita di crescere, non matura."

"128.

Contro i miopi.  Pensate forse che debba essere opera frammentaria, perché ve la si dà (e la si deve dare) a pezzi?"

Perché il pensiero di Nietzsche si deve dare a pezzi? Perché la sua mente lavora intensamente e contemporaneamente su tutte le tematiche cui si è fatto cenno, e accumula intuizioni frammentarie che si ribellano ad una sistemazione organica. E’ come se Nietzsche rifiutasse di polarizzare il pensiero su di una sola tematica alla volta. La sua opera è, pertanto, polifonica e, presumibilmente, molto più fedele alla logica della creatività  inconscia rispetto alla tradizione filosofica. Ciò significa che Nietzsche pensa e scrive anzitutto per sé.

Un’analisi del suo pensiero deve ovviamente seguire il tragitto inverso, vale a dire ricomporre i frammenti in un quadro unitario. La cosa non è semplice perché, eccezion fatta per Umano, troppo umano, i cui due primi libri sono divisi in sezioni tematiche, tutti gli altri saggi  apparentemente affastellano pensieri diversi la cui successione solo talvolta sembra fare riferimento ad una stessa tematica.

Per sopperire a questo apparente disordine ho realizzato, con la collaborazione della dott.ssa Lisa Cecchi, un’antologia tematica che ritengo preziosa e che consiglio di leggere a chi non intende sobbarcarsi alla fatica della lettura di tutti i testi nietzschiani.

L’antologia semplifica il compito di seguire il tragitto critico di Nietzsche.

La demistificazione prende avvio dal confutare la cornice naturale dell’Universo che l’uomo ha mitologizzato per dare importanza a se stesso:

“L'ordinamento astrale in cui noi viviamo è un'eccezione; questo ordinamento e la durata approssimativa che esso determina ha a sua volta permesso l'eccezione delle eccezioni: la costituzione dell'organico.

La caratteristica globale del mondo è invece, per l'eternità, il caos, non nel senso che manchi la necessità, ma nel senso che mancano ordine, struttura, forma, bellezza, saggezza, ovvero le nostre umanità estetiche. A giudicare dalla nostra ragione, i tiri mancati sono di gran lunga la regola, le eccezioni non sono lo scopo segreto e tutto il meccanismo ripete in eterno il suo motivo, che non può essere definito melodia e infine la stessa definizione di «tiri mancati» è già un'umanizzazione biasimevole.

Ma come possiamo biasimare o lodare l'universo! Guardiamoci dall'attribuirgli mancanza di cuore o irragionevolezza o i loro contrari: non è né perfetto né bello né nobile; non vuole diventare niente di tutto ciò; non mira assolutamente a imitare l'umano! Nessuno dei nostri giudizi estetici o morali può coglierlo! Non possiede neppure l'istinto di conservazione, né altri istinti; non conosce legge alcuna.” (GS)

Se l’Universo è caotico, la presenza in esso, contingente e caduca, del vivente, uomo compreso, non aggiunge alcun significato ad esso:

“Critica degli animali.

Temo che gli animali vedano nell'uomo un loro pari che abbia perduto in modo estremamente pericoloso il sano intelletto animale, - è infatti un animale folle, un animale che ride, un animale che piange, un animale infelice.” (GS)

“49.

Il nuovo sentimento fondamentale: la nostra definitiva caducità.  Una volta si cercava di giungere al sentimento della magnificenza e signoria dell'uomo, additando alla sua origine divina: questa adesso è divenuta una via proibita, poiché alla sua porta, insieme ad altre orribili bestie, sta la scimmia e piena di comprensione digrigna i denti come per dire: non oltre in questa direzione! Così ora si tenta la direzione opposta: la strada verso cui si dirige l'umanità deve servire a dimostrare la sua magnificenza e signoria e la sua affinità con Dio. Ah!, anche così non serve a niente. Alla fine di questa strada sta l'urna funeraria dell'ultimo uomo e dell'ultimo becchino (con l'iscrizione: «nihil humani a me alienum puto»). Per quanto in alto possa svilupparsi l'umanità  e forse alla fine si ritroverà più in basso di quanto non fosse all'inizio  non si darà per lei alcun trapasso in un ordine superiore, allo stesso modo come la formica e la forfecchia al termine della loro «vita terrena» non si innalzano all'affinità con Dio e all'eternità.

Il divenire trascina dietro di sé ciò che è stato: perché mai in questa eterna commedia dovrebbe esistere un'eccezione per un qualsiasi piccolo astro e ancora per una piccola specie vivente in esso! Smettiamola con questi sentimentalismi!” (AU)

Nietzsche evidentemente conosce Darwin, ma non direttamente, bensì attraverso H. Spencer, che gli viene segnalato dall’amico Paul Rée. Come si è detto nel corso delle letture darwiniane, Spencer si può ritenere il precursore dell’Intelligent Design, nella misura in cui applica il principio dell’evoluzionismo a tutti i livelli della realtà, dalla cosmologia alla sociologia e alla psicologia, identificando nell’organizzazione della realtà a livelli sempre più elevati un progresso. Il pensiero spenceriano, marcatamente ottimistico e “mistico”,  è incompatibile con la teoria del caos cosmico di Nietzsche e ancor più con la sua interpretazione dell’evoluzione storica come decadenza.

Non meraviglia pertanto che egli scriva:

"Ciò che mi sorprende nel contemplare i grandi destini dell'uomo è di vedere davanti ai miei occhi sempre il contrario di ciò che oggi vede o vuol vedere Darwin con la sua scuola."

Il contrario, ovviamente, fa riferimento alla progressiva affermazione dei deboli sui forti:

“14.

AntiDarwin.  Per quanto riguarda la famosa «lotta per la vita», per ora essa mi sembra più asserita che dimostrata. Avviene, ma come eccezione; l'aspetto complessivo della vita non è lo stato di bisogno, lo stato di fame, bensì la ricchezza, l'opulenza, persino l'assurda dissipazione  dove si lotta, si lotta per la potenza... Non si deve scambiare Malthus con la natura.  Ma posto che questa lotta esista  e in effetti, essa avviene , essa ha purtroppo un esito contrario a quel che si augura la scuola di Darwin, a quel che forse sarebbe lecito augurarsi con essa: ossia a sfavore dei forti, dei privilegiati, delle felici eccezioni. Le specie non crescono nella perfezione: i deboli hanno continuamente la meglio sui forti  ciò avviene perché essi sono in gran numero, sono anche più accorti…” (CI)

Anche quando Lou Salomé cerca di coinvolgerlo nel nascente darwinismo sociale, Nietzsche rimane fermo nel suo giudizio: la selezione auspicata dal darwinismo sociale, infatti, nulla ha a che vedere con la selezione degli spiriti liberi.

Valutando Darwin attraverso Spencer, Nietzsche ne fraintende il pensiero, al quale è del tutto estraneo il concetto di progresso.

E’ probabile, però, che se anche Nietzsche avesse letto le opere di Darwin, il suo giudizio sarebbe stato ugualmente negativo per due motivi. Il primo è che Darwin attribuisce all’uomo uno spiccato istinto sociale fondato sulla simpatia, che promuove l’organizzazione sociale sulla base della solidarietà (sia pure riferita al gruppo di appartenenza). Il secondo è che egli, anche se cerca di mantenere un nesso di continuità tra le funzioni psichiche animali e quelle umane, attribuisce un valore fondamentale alla razionalità e all’autoconsapevolezza umana, vale a dire all’io cosciente, libero e responsabile.

Nell’ottica di Nietzsche l’importanza che l’uomo assegna alla coscienza è del tutto infondata:

“La coscienza è l'ultimo e più tardo gradino di sviluppo dell'organico e quindi anche il meno finito e vigoroso. Dalla coscienza derivano innumerevoli errori che fanno sì che un animale, un uomo vadano in malora prima di quanto non sarebbe necessario…

Se non fosse tanto più potente, il vincolo conservatore degli istinti non potrebbe fungere da regolatore: i loro giudizi rovesciati, il loro fantasticare ad occhi aperti, la loro superficialità e creduloneria, in breve proprio la loro coscienza manderebbe l'umanità in malora: o meglio, senza tutto ciò essa non esisterebbe più da tempo!

Prima di formarsi e giungere a maturazione, una funzione costituisce un pericolo per l'organismo: è un bene che sia tiranneggiata così a lungo e abilmente! Così la coscienza subisce un'abile tirannia ― e nemmeno un po' per orgoglio!

Si pensa che sia questo il nucleo dell'uomo, quanto in lui c'è di duraturo, eterno, ultimo, originario? Si ritiene la coscienza una grandezza assolutamente data! Le negate ogni possibilità di crescita, di intermittenza! La considerate una «unità dell'organismo»! ― Questa ridicola sopravvalutazione e disconoscimento della coscienza si rivela però estremamente utile, perché ha impedito una formazione troppo veloce della stessa. Poiché credevano di avere già una coscienza, gli uomini si sono dati poca pena di acquisirla: e anche adesso le cose non stanno diversamente! Per gli occhi umani, incorporare la sapienza e renderla istintiva continua ad essere un compito sempre nuovo e appena affiorante, un compito visto soltanto da coloro che hanno compreso che finora abbiamo incorporato soltanto i nostri errori e che tutta la nostra coscienza si riferisce a errori!” (GS)

Ma, se le cose stanno così, com’è possibile che la coscienza sia comparsa? La risposta di Nietzsche è oltremodo interessante:

“Il problema della coscienza (più esattamente del prendere coscienza di sé) ci si presenta soltanto quando cominciamo a comprendere quanto possiamo farne a meno: a questo inizio di comprensione ci conducono oggi la fisiologia e la storia degli animali (che hanno avuto bisogno di due secoli per riafferrare il sospetto che già era balenato a Leibnitz). Potremmo infatti pensare, sentire, volere, ricordare, potremmo persino «agire», in ogni senso della parola: eppure non c'è bisogno che tutto ciò «affiori alla coscienza», come si dice figurativamente. Tutta la vita sarebbe possibile anche se non ci si guardasse, per così dire, allo specchio: e certamente anche la nostra vita pensante, senziente, volente, per quanto ciò possa suonare offensivo per un filosofo di epoche precedenti.

A che serve, orbene, la coscienza, se per la cosa principale si rivela superflua? A me sembra, se si vuol prestare ascolto alla mia risposta a questa domanda e alla sua supposizione forse bizzarra, che la finezza e la forza della coscienza siano sempre in rapporto con l'abilità comunicativa di un uomo (o animale) e che l'abilità comunicativa a sua volta sia in rapporto col bisogno di comunicare: senza intendere quest'ultima cosa come se l'uomo, che è un maestro nel comunicare e nel rendere comprensibili i suoi bisogni, dovesse anche per i suoi bisogni fare perlopiù assegnamento sugli altri. Eppure mi pare che le cose stiano proprio così, per intere razze e catene di generazioni: laddove il bisogno e la necessità abbiano lungamente costretto gli uomini ad aprirsi, a esercitare una rapida e raffinata comprensione reciproca, l'energia e l'arte di comunicare si sono poi rivelate sovrabbondanti, come un patrimonio che sia stato accumulato gradualmente e non aspetti altro se non un erede che lo dissipi (questi eredi sono i cosiddetti artisti, e con loro gli oratori, i predicatori, gli scrittori, tutti uomini che giungono sempre alla fine di una lunga catena, ogni volta «nati in ritardo», nel senso migliore della parola, e, come abbiamo detto, dissipatori di natura).

Posto che quest'osservazione sia giusta, posso procedere alla supposizione che la coscienza si sia sviluppata soltanto sotto la pressione del bisogno di comunicazione, - che inizialmente la sua utilità fosse limitata ai rapporti tra uomo e uomo (in particolare tra chi comandava e chi ubbidiva) e che si sia sviluppata anche in rapporto al grado di questa utilità. La coscienza è in realtà soltanto una rete di comunicazione tra uomo e uomo, e si è dovuta sviluppare soltanto in quanto tale: se fosse stato un eremita o un animale da preda, l'uomo non ne avrebbe avuto bisogno. Il fatto che le nostre azioni, pensieri, sentimenti, movimenti - o quanto meno parte di essi - pervengano alla nostra coscienza, è la conseguenza di una terribile «necessità» che ha lungamente governato l'uomo: egli aveva bisogno, essendo l'animale più esposto ai pericoli, di aiuto e protezione; aveva bisogno dei suoi pari; doveva esprimere la sua necessità e farsi capire: per tutto questo aveva in primo luogo bisogno della «coscienza», cioè di «sapere» egli stesso che cosa gli manca, qual è il suo stato d'animo, di «sapere» che cosa pensa.

Lo ripetiamo ancora una volta: l'uomo, come ogni creatura vivente, pensa di continuo, ma non lo sa: il pensiero che diviene cosciente è soltanto una minima parte, la più superficiale, la peggiore: perché soltanto questo pensiero cosciente si realizza in parole, cioè in segni comunicativi che rivelano l'origine della stessa comunicazione. In breve, l'evoluzione della lingua e l'evoluzione della coscienza (non la ragione, ma soltanto il suo prendere coscienza di sé) vanno di pari passo.

Si aggiunga che a fungere da ponte fra uomo e uomo non c'è soltanto la lingua, ma anche lo sguardo, la pressione, i gesti: il prendere coscienza delle nostre impressioni sensoriali, la forza di poterle fissare e di collocarle, per così dire, fuori di noi, sono aumentate proporzionalmente alla necessità di trasmetterle ad altri per mezzo di segni.

Il mio pensiero è quindi evidentemente questo: che la coscienza non appartiene tanto all'esistenza individuale dell'uomo quanto agli elementi di comunità e di gregge presenti nella sua natura; che, come ne consegue, essa si è sviluppata soltanto in riferimento all'utilità della comunità e del gregge e che quindi ciascuno di noi, pur con la migliore buona volontà di capirsi il più individualmente possibile, di «conoscere se stesso», porterà sempre alla propria coscienza soltanto i suoi elementi non individuali, quello che in lui c'è di «medio»; che il nostro stesso pensiero è costantemente adeguato alla maggioranza dal carattere stesso della coscienza - da quel genio della specie che in essa opera - e ritradotto nella prospettiva del gregge.

Le nostre azioni sono in fondo tutte incomparabilmente personali, uniche, illimitatamente individuali, non c'è dubbio; ma non appena le traduciamo nella coscienza, non lo sembrano più... Questo è il vero fenomenalismo e prospettivismo, come lo intendo io: la natura della coscienza animale comporta che il mondo di cui dobbiamo prendere coscienza sia soltanto un mondo superficiale, di segni, un mondo generalizzato e volgarizzato; - che tutto ciò di cui prendiamo coscienza divenga proprio per questo altrettanto piatto, privo di spessore, relativamente stupido, generale, segno, segno distintivo del gregge; che a ogni coscienza sia legata una grande, fondamentale corruzione, falsificazione, superficializzazione e generalizzazione.

II progredire della coscienza è inoltre un pericolo…

Noi «sappiamo» (o crediamo o immaginiamo) esattamente quel tanto che può essere utile nell'interesse del gregge degli uomini, della specie; e persino quel che andiamo definendo «utilità» è in ultima analisi soltanto un atto di fede, di immaginazione e forse proprio quella funestissima stoltezza che un giorno ci manderà in malora.” (GS)

Per valutare il carattere rivoluzionario ed eversivo di affermazioni del genere, occorre ricondursi agli sviluppi che esse hanno avuto sulla riflessione filosofica e scientifica ulteriore sulla coscienza.

Nel 1976,  uno psicologo canadese - Julian Jaynes - pubblica Il crollo della mente bicamerale e la nascita della coscienza nel quale sostiene che l’acquisizione da parte degli esseri umani dell’autoconsapevolezza è intervenuta tardivamente nella storia della specie, e che in precedenza gli esseri umani vivevano sotto l’influenza di voci (degli dei, dei capi, dell’opinione pubblica) che regolavano il loro comportamento automaticamente. Al di là di questa ipotesi, suggestiva ma azzardata, Jaynes, in un denso articolo del 1986 (La coscienza e le voci della mente), analizza ciò che la coscienza non è - “non è l'intera attività mentale, non è necessaria per le sensazioni e le percezioni, non è una copia dell'esperienza, non è necessaria per l'apprendimento né per il pensiero e il ragionamento; la sua ubicazione, infine, è del tutto arbitraria e funzionale” - sicché. è lecito “concepire l'esistenza di esseri umani che, in un passato remoto, abbiano fatto più o meno tutto quello che facciamo noi – parlare, comprendere, percepire, risolvere problemi – essendo però privi di coscienza.”

Senza saperlo, Jaynes ripercorre le tracce di Nietzsche, il quale peraltro va ancora più a fondo nella sua analisi ipotizzando un mondo di istinti e di motivazioni sottostanti la coscienza:

“Dopo aver letto abbastanza a lungo i filosofi tra le righe e averli tenuti d'occhio mi dico che dobbiamo considerare ancora come attività dell'istinto la gran parte del pensiero cosciente, persino nel caso del pensiero filosofico; dobbiamo trasformare qui il nostro modo di vedere, come si è fatto a proposito dell'ereditarietà e dell'«innatismo». Come l'atto della nascita ha poca importanza nel processo e nel progresso dell'ereditarietà, altrettanto poco l'«essere cosciente» può essere contrapposto, in un qualche modo decisivo, all'elemento istintivo,  la parte maggiore del pensiero cosciente di un filosofo è guidata segretamente dai suoi istinti e costretta in binari fissi. Anche dietro ogni logica e l'apparente dispotismo dei suoi movimenti stanno giudizi di valore, detto con maggiore chiarezza, esigenze fisiologiche per il mantenimento di un determinato tipo di vita. Per esempio, che il determinato abbia più valore dell'indeterminato, che l'apparenza abbia meno valore della «verità»: tali valutazioni, pur con tutta l'importanza normativa che hanno per noi, potrebbero essere tuttavia soltanto valutazioni pregiudiziali, un determinato tipo di niaiserie, quale può essere appunto necessaria per la conservazione di esseri come noi. Ammesso, cioè che non proprio l'uomo sia la «misura delle cose»...” (ABM)

“Nell'immane molteplicità di ciò che accade all'interno di un organismo, la parte di cui diventiamo coscienti è un semplice cantuccio; e quel poco di «virtù», di «disinteresse» e di finzioni affini viene smentito in modo del tutto radicale dal restante accadere totale. Faremo bene a studiare il nostro organismo nella sua completa immoralità…”

“Le funzioni animali in linea di principio sono milioni di volte più essenziali di tutti gli stati belli e le altitudini della coscienza: questi ultimi sono un eccesso, non dovendo essere strumenti per quelle funzioni animali.” (VP)

“Sostengo la fenomenicità anche per il mondo interiore: tutto ciò che ci diventa cosciente è completamente costruito a bella posta, semplificato, schematizzato, spiegato  il processo effettuale della «percezione» interna, l'unificazione causale di pensieri, sentimenti, desideri, come quella di soggetto e oggetto, sono per noi del tutto nascosti  e probabilmente pura immaginazione.” (VP)

“E’ essenziale che non ci si sbagli sul ruolo della «coscienza»: è la nostra relazione con il «mondo esteriore» che l'ha sviluppata. Al contrario la direzione, cioè la cura e la previdenza per l'armonia delle funzioni corporee non fa parte della nostra coscienza; altrettanto poco l'immagazzinamento spirituale: che si dia per questo un'istanza suprema, non si può dubitare: una sorta di comitato direttivo, nel quale i vari desideri principali fanno valere la propria voce e la propria potenza. «Piacere», «dispiacere» sono cenni provenienti da questa sfera... così la volizione. Così le idee.” (VP)

Coscienza e inconscio nell’ottica neurobiologica

Oggi si può sostenere che Nietzsche abbia avuto un’intuizione prodigiosa, che ha precorso la psicoanalisi e le neuroscienze contemporanee. Egli ha scoperto che gran parte dell’agire umano non riconosce la sua matrice nella coscienza, ma nell’inconscio. Il suo pensiero si può ritenere anche più profondo di quello di Freud, che considerava l’inconscio come la sede del rimosso, vale a dire il contenitore dei contenuti psichici allontanati dalla coscienza perché spiacevoli, imbarazzanti, ecc. Secondo Nietzsche l’uomo agisce sulla base di spinte istintive, che si manifestano attraverso la coscienza e il comportamento, e che quella si limita, tutt’al più, a giustificare.

Se si tiene conto che gli istinti cui fa riferimento Nietzsche equivalgono a spinte motivazionali sottratte al controllo della coscienza, si può comprendere meglio il valore delle sue intuizioni.

Oggi giorno quasi tutti i neuroscienziati sono d’accordo con il fatto che la coscienza controlla non più del 5% dell’attività mentale, che si svolge al di fuori e al di sotto di essa.

Ne Il Sé sinaptico, J. Le Doux scrive:

"Nella teoria contemporanea della personalità, come in filosofia, la nozione di Sé si riferisce tipicamente al Sé conscio, nel senso che esso possiede autoconoscenza, autorappresentazione e autostima; è consapevole di Sé, autocritico; avverte l'importanza della persona; s'impegna nella realizzazione delle proprie potenzialità… Nonostante questa lunga tradizione di enfasi sul Sé in quanto entità conscia, il Sé di cui siamo consapevoli, o di cui possiamo essere consapevoli, non rappresenta la totalità di ciò cui si riferisce il termine Sé… Le cose che consciamente sappiamo su chi o cosa siamo costituiscono gli aspetti espliciti del Sé. Questi costituiscono il tipo di realtà cui ci riferiamo con il termine autoconsapevole e quanto definiamo autorappresentazione; sono quelli di cui si interessano gli psicologi del Sé. Gli aspetti impliciti del Sé, di contro, sono tutti gli altri aspetti di ciò che siamo e che non sono immediatamente disponibili alla coscienza, o perché sono per loro natura inaccessibili, oppure perché sono accessibili ma non disponibili in un particolare momento" (pp. 38-39).

"Il fatto che tutti gli aspetti del Sé non siano generalmente evidenti simultaneamente, e che aspetti differenti possano anche rivelarsi contraddittori, può dare l'impressione di costituire un problema disperatamente complesso. Tuttavia, ciò significa semplicemente che componenti diverse del Sé riflettono il funzionamento di differenti sistemi cerebrali, che possono essere sincronici oppure no. Mentre la memoria esplicita è mediata da un unico sistema, esiste una varietà di differenti sistemi cerebrali che memorizzano l'informazione in modo implicito, consentendo la coesistenza di diversi aspetti del Sé" (pp. 44-45).

"Molto di ciò che noi umani facciamo è influenzato da processi che esulano dalla consapevolezza. La coscienza è importante, ma lo sono altrettanto i processi sottostanti di tipo cognitivo, emozionale e motivazionale che sono all'opera inconsciamente" (p. 360).

Nonostante controlli solo il 5% dell’attività mentale, i neuroscienziati ritengono comunque che la coscienza sia importante, perché, se è assolutamente vero che essa galleggia letteralmente su di un universo di memorie, emozioni, pensieri, motivazioni, si può ammettere comunque che essa eserciti un’azione di coordinazione e di guida delle spinte motivazionali, che essa dunque disponga di ciò che si definisce libero arbitrio.

A riguardo ho scritto:

“E’ un assioma della psicoanalisi che dietro ogni comportamento si dà una motivazione o, per dire meglio, un insieme di motivazioni. Questo concetto è di importanza fondamentale. Se infatti si prende atto che il cervello è depositario di indefinite motivazioni, solo alcune delle quali sono coscienti, non si stenta a capire che, per essere minimamente coerente, un qualunque comportamento richiede che tali motivazioni, spesso diverse, si organizzino gerarchicamente perché una di esse possa infine, sia pure relativamente, prevalere.

Il problema della libertà umana è posto in maniera corretta nel momento in cui ci si chiede come avviene questa organizzazione gerarchica. Il determinismo neurogenetico postula che sia il cervello a provvedere a gerarchizzare le motivazioni; l’indeterminismo che sia l’io.

Tenendo conto che le motivazioni in questione sono in parte consce e in parte inconsce, riesce immediatamente evidente che le due ipotesi non si contraddicono, rappresentando gli estremi di uno spettro indefinito, che va da un determinismo motivazionale inconscio, che si realizza saltando il potere di controllo dell’io, a un indeterminismo cosciente che implica una scelta tra alternative consapevolmente vissute e valutate.

Eccezion fatta per alcuni residui istintuali, che nell’uomo hanno scarso rilievo, il determinismo motivazionale inconscio è agito dalle strutture neuronali, ma solo nella misura in cui la carica emozionale delle motivazioni le attiva.

L’indeterminismo cosciente non va però sopravvalutato, poiché nulla prova che le motivazioni cui l’io fa riferimento esauriscono l’insieme delle motivazioni inerenti la scelta, né che esse siano le più importanti.

La critica del libero arbitrio

All’interno dello spettro cui ho fatto riferimento, la libertà intesa in senso proprio, come scelta volontaria tra alternative consapevolmente valutate, esiste ma si riduce a ben poco. Al di là di essa, però, non si dà un determinismo neurogenetico, bensì un determinismo motivazionale che fa capo ad un patrimonio di ricordi, emozioni e spinte comportamentali che agiscono al di fuori della sfera dell’io. Tale patrimonio è in gran parte appreso, anche se l’apprendimento non implica solo un’influenza ambientale, ma anche un modo di significare (emotivamente e cognitivamente) le informazioni che può avere matrici genetiche.”

E’ difficile minimizzare l’importanza del problema del libero arbitrio. Nietzsche nega radicalmente che esso esista e presume che ogni comportamento umano corrisponde a criteri di necessità, vale a dire a ciò che un soggetto, in una determinata circostanza, non può non fare. Egli riprende da Schopenhauer il problema del “posso volere ciò che voglio” e risponde negativamente. Gran parte dei neuroscienziati, oggi, non riescono a condividere il radicalismo nietzscheano, che però ancora si pone come problema.

Un esperimento psicologico tra i più famosi, realizzato agli inizi del ‘900 da Benjamin Libet, dà la misura di questa incombenza. In Ma io chi sono? (Garzanti 2009), il filosofo Richard David Precht lo riassume così:

“Benjamin Libet nacque nel 1916 a Chicago e studiò fisiologia. In realtà non aveva la formazione di un esperto di  neurofisiologia cerebrale, ma era normale che fosse così poiché negli anni Trenta non era facile studiare nello specifico questa materia. Già da giovane, Libet si era interessa alla questione se fosse possibile misurare scientificamente i processi che si creano nella coscienza. Alla fine degli anni Cinquanta, osò fare dei test su alcuni pazienti sotto anestesia locale ricoverati nel reparto neurochirurgico del Mount Zion Hospital di San Francisco. Le cavie erano sdraiate nella sala operatoria, alcune con il cervello scoperto. Libet attaccò dei cavi ai loro cervelli, sollecitandoli con leggeri impulsi elettrici. Poté così osservare precisamente come e quando i pazienti reagivano. Il risultato fu spettacolare: da una sollecitazione della corteccia fino a un sussulto dei pazienti passava più di mezzo secondo. Nel 1964, quando suoi esperimenti suscitarono scalpore in Vaticano, Libet non conosceva ancora i risultati degli esperimenti di due suoi colleghi. Anch'essi avevano rilevato un ritardo. Dall'intenzione di muovere la mano fino al movimento reale passa quasi un secondo. Queste misurazioni accesero la curiosità di Libet: un secondo di scarto tra l'intenzione e l'azione, questo dato faceva a pugni con il buon senso. Chi vuole prendere in mano una tazza di tè, lo fa subito. A cosa è dovuta allora la differenza di un secondo misurata negli esperimenti?

L'uomo stesso, concluse Libet, non si accorgeva di qui secondo. Nel 1979 iniziò un nuovo studio, divenuto celebre come «esperimento di Libet», che rese il suo ideatore famoso in tutto il mondo. Libet fece accomodare una paziente su una poltroncina e le disse di guardare un grande orologio.  Non si trattava di un orologio normale, ma di un punto verde che ruotava rapidamente intorno a un disco rotondo.

Poi Libet prese due cavi. Uno lo attaccò a un polso della paziente, collegandolo a un misuratore elettrico. L'altro lo fissò ad un elmetto dotato di un altro misuratore elettrico posto sulla testa della paziente. Invitò poi quest'ultima a guardare il punto verde e le disse: «Quando vuole, scelga lei, decida di muovere il polso. Ma si ricordi dove si trova il punto verde quando prende questa decisione». La paziente fece come Libet aveva detto. Decise di muovere il polso tenendo a mente la posizione del punto verde. Libet le chiese dove si trovava in quel momento e annotò la risposta. Tutto esaltato, guardò poi i suoi due misuratori. Il cambio di tensione registrato dall'elettrodo fissato al polso gli indicò l'istante preciso del movimento della mano. Gli elettrodi attaccati alla testa gli mostrarono, a livello del cervello, la disponibilità ad agire. Qual era stata dunque la sequenza temporale? Prima si era fatto sentire l'elettrodo sulla testa, mezzo secondo più tardi c'era stato il momento indicato dalla paziente, con riferimento all'orologio, come attimo della sua decisione, e più o meno 0,2 secondi più tardi la mano si era mossa. Libet era eccitatissimo. La paziente si era decisa mezzo secondo prima di essere a conoscenza della propria decisione. Il riflesso  preconscio di volere o di fare qualcosa è più rapido dell'azione consapevole. Si può dunque dire che il cervello fa scattare dei processi volitivi prima ancora che l'uomo si renda conto di questa volontà? E se è così, questo dato non sancisce al tempo stesso la fine dell'idea filosofica del «libero arbitrio»?” (148-149)

La negazione del “libero arbitrio” ha, nel pensiero di Nietzsche, un significato che si potrebbe definire strategico. E’ sul libero arbitrio infatti che si fondano infatti le leggi, che fanno capo alla responsabilità personale, e i sistemi morali, che implicano la capacità di distinguere tra bene e male. Prima ancora di porre in discussione questi ultimi, Nietzsche, negando il libero arbitrio, ne invalida la loro pertinenza. Se anche si desse la possibilità di definire ciò che è bene e ciò che è male, il determinismo comportamentale, che discende dal fatto che l’uomo è spinto ad agire da impulsi profondi che sfuggono del tutto al suo controllo, renderebbe impossibile definire un uomo buono e un altro cattivo.

Ma, secondo Nietzsche, neppure quella possibilità sussiste.

La coscienza che mistifica

Come si è visto, Nietzsche avanza la “supposizione che la coscienza si sia sviluppata soltanto sotto la pressione del bisogno di comunicazione, - che inizialmente la sua utilità fosse limitata ai rapporti tra uomo e uomo (in particolare tra chi comandava e chi ubbidiva) e che si sia sviluppata anche in rapporto al grado di questa utilità.”

Anche questa ipotesi si può ritenere straordinaria, tanto più se si considera il fatto che ancora oggi le neuroscienze, che pure hanno assunto il problema della coscienza come centrale, non sono riuscite ancora a recepirla. In un articolo dedicata all’ottica miope delle neuroscienze contemporanee, ho scritto a riguardo:

“C'è un difetto di fondo nelle neuroscienze quando esse affrontano il problema delle funzioni psichiche superiori: quello di considerarle espressive dell'attività di un cervello isolato. Si tratta di un difetto sorprendente se si tiene conto del fatto che molti neuroscienziati sono convinti che il salto dall'attività mentale degli animali superiori a quella umana sia dovuta al linguaggio. Certo, ogni uomo è dotato della capacità di apprendere una lingua e di usarla per esprimere i suoi contenuti psichici, casomai anche creativamente. Ma questa potenzialità in tanto si realizza e consente di parlare in quanto il soggetto è immerso in un ambiente sociale. Abbandonato a se stesso, un infante non sviluppa alcuna funzione psichica superiore rispetto agli animali.

Si dirà: il linguaggio è trasmesso attraverso la catena delle generazioni, ma all'inizio qualcuno deve averlo "inventato". E' ovvio, ma l'invenzione non è riconducibile ad un uomo ma ad un gruppo di uomini. Il linguaggio è una convenzione sociale, postula l'accordo di più persone nell'assegnare ad un determinato significante un determinato significato. Il linguaggio è dunque una funzione che emerge non solo dalla complessità strutturale di un organo ma anche in conseguenza di un'esperienza sociale.

Sembra una banalità, e invece è un nodo di fondo epistemologico. Un cervello isolato, quello a cui fanno riferimento i neuroscienziati per risolvere il problema delle funzioni psichiche superiori, è un'astrazione: non esiste, e se esistesse sarebbe un cervello dotato di potenzialità inespresse e, forse, atrofizzate. Un cervello strutturalmente umano, ma funzionalmente infraumano.

Il misteri della coscienza, del linguaggio, del pensiero, delle emozioni, della memoria non potranno mai essere risolti prescindendo dall'esperienza sociale e da quella culturale.”

Le origini sociali della coscienza rappresentano, però, per Nietzsche la causa del fatto che, già tendente per conto suo alla mistificazione (sulla base della presunta unità e padronanza dell’io), si cala costantemente in una rete di inganni promossi dall’interazione sociale.

La tendenza della coscienza umana ad ingannarsi ha secondo Nietzsche tre matrici. La prima è da ricondurre al fatto che essa si rapporta ai contenuti del mondo interiore così come fa con quelli del mondo esterno: prendendoli immediatamente per buoni:

“113.

Sostengo la fenomenicità anche per il mondo interiore: tutto ciò che ci diventa cosciente è completamente costruito a bella posta, semplificato, schematizzato, spiegato  il processo effettuale della «percezione» interna, l'unificazione causale di pensieri, sentimenti, desideri, come quella di soggetto e oggetto, sono per noi del tutto nascosti  e probabilmente pura immaginazione. Questo «apparente mondo interiore» è trattato proprio con le medesime forme e procedure del mondo «esterno». Non ci scontriamo mai con «fatti»: piacere e dispiacere sono fenomeni intellettuali tardi e derivati...

La «causalità» ci sfugge; supporre un immediato collegamento causale fra pensieri, come fa la logica  è frutto della più grossolana e semplicistica osservazione. Fra due pensieri giocano il loro gioco anche tutte le possibili affezioni: ma i movimenti sono troppo repentini, non li riconosciamo, li neghiamo...

Non si verifica mai un «pensare» come lo presuppongono i teorici della conoscenza: questo è una finzione affatto arbitraria, conseguita con l'isolamento dal processo di un unico elemento e con la sottrazione di tutti i rimanenti, una costruzione artificiosa volta a permettere la comprensione…” (ABM)

La seconda matrice è la tendenza alla semplificazione:

“O sancta simplicitas! In quale strana semplificazione e falsificazione vive l'uomo! Non si finisce mai di meravigliarsi quando si è assistito ad un tale prodigio! Come abbiamo reso chiaro e libero e facile e semplice tutto quanto ci circonda! Come abbiamo saputo dare a noi stessi un lasciapassare per tutto ciò che è superficiale e al nostro pensiero una divina avidità di salti spavaldi e di paralogismi!  come abbiamo imparato fin dall'inizio a conservarci la nostra ignoranza, per godere di una libertà, una sicurezza, una imprudenza, una risolutezza, una serenità di vita appena concepibili, per godere della vita! E solo su questo fondo di ignoranza ormai saldo e granitico ha potuto erigersi finora la scienza; la volontà di sapere sulla base di una volontà molto più potente, della volontà di non sapere, di incertezza, di non-verità! Non come suo contrario, ma  come suo perfezionamento!” (ABM)

“La forza dello spirito nell'appropriarsi di ciò che gli è estraneo si manifesta in una vigorosa tendenza a rendere il nuovo uguale al vecchio, a semplificare il molteplice, a ignorare o spingere da parte ciò che è completamente contraddittorio: esattamente come essa sottolinea arbitrariamente e con maggior forza determinati tratti e linee in ciò che le è estraneo, in ogni frammento di «mondo esterno» e li mette in evidenza e li falsifica a proprio vantaggio. Facendo ciò essa tende a incorporare nuove «esperienze», a inserire nuove cose in vecchi ordini  dunque alla crescita; o più precisamente, alla sensazione della crescita, alla sensazione della forza aumentata.” (ABM)

“L'uomo, un animale complesso, menzognero, artificioso e impenetrabile, estraneo agli altri animali meno per la sua forza che per l'astuzia e l'accortezza, ha inventato la buona coscienza, per godere, per una volta, la semplicità della propria anima.” (ABM)

In terzo luogo, Nietzsche intuisce prima di Freud l’esistenza della repressione e della rimozione:

“Esiste un'umiltà disdicevole e niente affatto rara per cui chi la possiede non sarà mai capace di diventare un seguace della conoscenza. Ovvero: nel preciso istante in cui una persona di questo tipo percepisce qualcosa di sorprendente, volta le spalle e si dice: «Ti sei ingannato! Dov'erano mai i tuoi sensi! Questa non può essere la verità!» e quindi, invece di guardare e ascoltare più attentamente, corre via da quella cosa sorprendente più alla svelta che può, cercando di cacciarsela di testa. Il suo canone interiore recita, infatti: «Non voglio vedere niente che contraddica l'opinione comune sulle cose! Sono forse fatto per scoprire nuove verità? Quelle vecchie sono anche troppe».”  (GS)

“Chi ha guardato profondamente nel mondo indovina bene quale saggezza vi sia, nella superficialità degli uomini. L'istinto di conservazione insegna loro ad essere mutevoli, leggeri e falsi” (ABM)

“La forma più comune di menzogna è quella che si fa a sé stessi: mentire agli altri è relativamente eccezionale. Ora questo non voler vedere ciò che si vede, questo non voler vedere qualcosa così come si vede, costituisce la condizione primaria di tutti coloro che appartengono in qualche modo a questo o quel partito: l'uomo di partito è necessariamente un bugiardo.” (AC)

“Io definisco menzogna il non voler vedere certe cose che si vedono, il non voler vedere qualcosa così come si vede: se la menzogna abbia luogo davanti a dei testimoni o meno è del tutto irrilevante.”

I motivi per cui la coscienza umana tende ad ingannarsi sono stati già accennati. In Schopenhauer come educatore, Nietzsche li esprime in forma sintetica e oserei dire perfetta:

“5.

Noi tutti sappiamo, in singoli momenti, che le più vaste imprese della nostra vita vengono realizzate solo per sfuggire al nostro vero compito, e che volentieri nasconderemmo da qualche parte la nostra testa, come se, così, la nostra coscienza dai cento occhi non potesse coglierci; che, frettolosamente, doniamo il nostro cuore allo Stato, al guadagno, alla socievolezza o alla scienza soltanto per non possederlo più, e che ci abbandoniamo al pesante lavoro quotidiano con più impeto e sconsideratezza di quanto non sia necessario per vivere: perché ci sembra più necessario non giungere alla riflessione. Generale è la fretta perché ciascuno è in fuga da se stesso, generale è anche il pavido nascondere questa fretta, perché si vorrebbe apparire contenti e ingannare gli osservatori più acuti circa la propria miseria; generale il bisogno di nuove sonanti parole, adornata delle quali la vita dovrebbe ricevere un po' di clamore e solennità. Ognuno di noi conosce quella particolare condizione in cui, improvvisamente, ricordi spiacevoli si affollano e noi ci sforziamo, con gesti e suoni violenti, di scacciarli dalla mente: ma i gesti e i suoni della vita comune lasciano indovinare che noi tutti ci troviamo sempre in una condizione del genere, nel timore del ricordo e dell'interiorizzazione.

Ma cos'è che ci aggredisce così spesso, quale zanzara non ci lascia dormire? Intorno a noi c'è un'atmosfera spettrale, ogni attimo della vita vuol dirci qualcosa, ma noi non vogliamo ascoltare queste voci di fantasmi. Temiamo, quando siamo soli e in silenzio, che qualcosa ci venga bisbigliato all'orecchio e così odiamo il silenzio e ci stordiamo con la vita in società. Di tanto in tanto, come ho detto, capiamo tutto questo e ci meravigliamo molto di tutta la vertiginosa paura e furia, di tutta la condizione di sogno della nostra vita, che sembra aver orrore del risveglio e che sogna con tanta più vivacità e inquietudine quanto più si avvicina a questo risveglio. Ma allo stesso tempo sentiamo di essere troppo deboli per sopportare a lungo quei momenti del più profondo raccoglimento e di non essere mai quegli uomini, verso cui tutta la natura tende per la sua redenzione; già è molto se, in qualche modo, riusciamo a emergere un po' con la testa e ci accorgiamo in quale corrente siamo profondamente immersi.”

La tendenza della coscienza a lasciarsi ingannare, a farsi influenzare dall’ambiente sociale - aspetto su cui torneremo ulteriormente - si riconduce alla trasmissione di convinzioni, opinioni, valori, ecc. di padre in figlio:

“Ogni convinzione ha la sua storia, le sue forme originarie, i suoi tentativi, i suoi errori: diviene convinzione dopo che non è stata tale per lungo tempo e dopo che per un periodo ancora più lungo è stata tale a stento. Come? La menzogna non potrebbe trovarsi sotto tale forma embrionale di convinzione? Talvolta è necessario solo un cambiamento di persone: per il figlio diventa convinzione ciò che per il padre era ancora menzogna. Io definisco menzogna il non voler vedere certe cose che si vedono, il non voler vedere qualcosa così come si vede: se la menzogna abbia luogo davanti a dei testimoni o meno è del tutto irrilevante.” (AC)

Nietzsche e Freud

Tenendo conto di affermazioni del genere, non è sorprendente che Nietzsche sia stato considerato un precursore di Freud e della psicoanalisi.

Di fatto, il problema di chi ha “scoperto” l’inconscio nell’ambito della storia dell’Occidente è ancora aperto. Si fa riferimento, di volta in volta, a Spinoza, Schopenhauer, Nietzsche, Freud.

L’influenza di Nietzsche su Freud è al di là di ogni possibile dubbio. Freud legge Nietzsche sin dalla giovinezza, e mantiene un costante interesse per la sua opera. La tendenza della coscienza umana alla rimozione (a non voler vedere ciò che si ha sotto gli occhi) come pure alla sublimazione (a trasformare in qualcosa di elevato ciò che ha origini istintuali) sono di sicuro derivati nietzscheani.

Anche la teoria delle pulsioni di Freud si può ritenere intimamente affine alla volontà di potenza di Nietzsche. Si dà però a riguardo una rilevante differenza. Le pulsioni di Freud infatti sono un’eredità animalesca incompatibile con la vita civile, per cui esse vanno contenute e represse dalla civiltà. Nietzsche, viceversa, ritiene che la volontà di potenza sia la parte più sana, più vitale, più dionisiaca della natura umana.

Se la scoperta dell’inconscio da parte di Freud, dunque, non si può ritenere originale, rimane pur sempre vero che, al di là di essa, egli ha assunto l’inconscio come un oggetto scientifico e ha illustrato i meccanismi difensivi che consentono alla coscienza di mantenere uno statuto mistificato con una profondità e una precisione molto maggiore rispetto a Nietzsche.

Occorre, peraltro, fare un’osservazione importante. La scoperta dell’inconscio è una cosa, la definizione della sua natura e della sua struttura un’altra. Sia Nietzsche che Freud non hanno dubbi sul fatto che esso, nella sua essenza, rappresenti l’espressione di un’eredità animale, e che quindi sia sostanzialmente il depositario di una bagaglio istintuale (pure diversamente qualificato), che nell’uomo ha acquisito un’intensità del tutto particolare.

Alla luce di ciò che oggi si sa della natura umana e del cervello, si può ritenere questo assunto fondamentalmente errato. L’uomo nasce, infatti, sulla base della neotenia, che prolunga in maniera rilevante la fase evolutiva della personalità e residua nell’adulto sotto forma di plasticità cerebrale. Nella misura in cui la neotenia comporta un’apertura all’apprendimento di gran lunga superiore ad ogni altro animale, essa ha dato luogo ad un critico allentamento del patrimonio istintuale, al punto che, come scrive Gehlen, l’uomo è l’essere carente e sprovvisto per eccellenza di moduli comportamentali automatici.

La neotenia, peraltro, coincide anche con la comparsa di un’empatia di grande intensità, fondamentale al fine di definire uno stretto e duraturo legame del bambino con il mondo degli adulti, funzionale a promuovere la trasmissione della cultura.

Il quadro dell’uomo, come emerge oggi dalle neuroscienze e dagli studi di psicologia evolutiva, è profondamente diverso da quello descritto da Nietzsche e da Freud, che, a posteriori, appare fortemente influenzato da un’epoca storica contrassegnata dal darwinismo sociale e dall’Imperialismo.

Ciò nondimeno, se i presupposti ideologici che sottendono la concezione di Nietzsche e di Freud dell’inconscio - vale a dire il riferimento all’esistenza rispettivamente della volontà di potenza o delle pulsioni  - oggi non sono convalidabili, la scoperta della tendenza costante della coscienza umana alla mistificazione rimane del tutto valida.

Il problema, ovviamente, è come interpretarla. Nietzsche ha del tutto ragione laddove afferma che la coscienza si inganna e si lascia ingannare dalla cultura perché l’uomo ha bisogno di tenersi al riparo dalla consapevolezza della sua dimensione esistenziale, che è quella di un essere vulnerabile, precario, finito e destinato a finire, quindi oggettivamente del tutto insignificante nell’economia dell’Universo.

Per spiegare la tendenza alla mistificazione della coscienza umana il riferimento ai contenuti esistenziali ansiogeni, però, non basta.

In una Conferenza (Mistificazione e Demistificazione) ho scritto:

“La teoria della rimozione - scrive Freud - è la pietra angolare su cui poggia tutto l'edificio della psicanalisi. In quanto processo psichico universale la rimozione sarebbe all’origine della costituzione dell’inconscio come campo separato dalla coscienza.

A Freud va il merito indubbio di avere scoperto, oltre alla rimozione, un certo numero di meccanismi che mantengono l’Io al riparo da alcuni aspetti di sé che egli non tollera, non vuole riconoscere, di cui ha paura o ritiene poco o punto compatibili con l’immagine cosciente che ha di sé. La storia della psicoanalisi ne ha aggiunto degli altri. Attualmente i trattati di psicoanalisi riportano come meccanismi difensivi i seguenti (in ordine alfabetico):

Annullamento retroattivo, Conversione, Conversione nell’opposto, Diniego (della realtà), Formazione reattiva, Idealizzazione, Identificazione, Identificazione con l’aggressore, Identificazione proiettiva, Introiezione, Isolamento, Negazione, Preclusione, Proiezione, Razionalizzazione, Regressione, Repressione, Riflessione sulla propria persona, Riparazione, Scissione dell’Io, Scissione dell’oggetto, Spostamento.

Non è opportuno inoltraci in un’analisi tecnica di questi meccanismi. Basterà dire che i più importanti, in quanto facilmente reperibili in ogni esperienza soggettiva, sono la rimozione, la proiezione, la conversione, la negazione e la razionalizzazione. La rimozione mantiene i contenuti psichici “sgradevoli” nel “cestino” dell’inconscio, la proiezione li sposta nell’ambiente esterno, la conversione li esprime attraverso il corpo. Quando ciò non basta, il soggetto, se si trova di fronte ad un contenuto psichico o ad un comportamento incompatibile con l’immagine che ha di sé, può semplicemente negare che gli appartenga o razionalizzarlo, giustificandolo in qualche modo...

Posto, dunque, che i meccanismi difensivi esistono indubbiamente, c’è ancora oggi da chiedersi da cosa l’uomo ha bisogno di difendersi.

Una prima risposta di ordine generale, del tutto estranea al pensiero freudiano, è che l’uomo si difende dall’inquietudine dovuta alla complessità del suo essere e del mondo, dall’intuizione di convivere con un flusso ridondante di pensieri ed emozioni, dai dubbi perpetui su un’identità sottesa da parti diverse e contraddittorie tra loro; in altri termini, si difende dalla percezione di una caoticità che non ha nulla a che vedere con le pulsioni, essendo riconducibile alla struttura stessa del cervello e della mente.

L’Io cosciente ha un bisogno radicale di unità, di coesione e di continuità nel tempo, che è stato definito giustamente “coazione alla sintesi”. In nome di questo bisogno unitario, che concorre a dare un senso di stabilità all’identità personale, ogni soggetto è letteralmente costretto a sovrapporre alla sua realtà interiore, che comporta parti diverse e in qualche misura scisse, un’immagine almeno minimamente coerente, che lo tranquillizza e soprattutto lo fa sentire “normale”.

La mistificazione sarebbe anzitutto l’espressione universale del bisogno di un soggetto di assimilare la propria immagine ad un modello normativo socialmente convalidato.

In questa ottica, riesce chiaro che un certo grado di mistificazione è fisiologico nel corso dell’evoluzione della personalità allorché il soggetto deve rispondere alle aspettative sociali dei genitori e degli educatori.

Nella tarda adolescenza e al di là della fase evolutiva dovrebbe avviarsi un processo lento e graduale di demistificazione o autenticazione. Per motivi sociali, culturali e soggettivi, tale processo, però, che richiede determinati strumenti cognitivi e una grande fatica, raramente si realizza.

Ciò significa che, in linea generale, lo scarto tra l’immagine che l’Io ha di sé e la sua personalità profonda è sempre piuttosto rilevante, e compensato dall’immagine sociale che si attesta sul registro della normalità apparente.

Se le cose stanno così, è difficile non arrivare immediatamente alla conclusione che i meccanismi di difesa sono più attivi laddove, a livello cosciente, la complessità non affiora, le contraddizioni sono represse, proiettate, negate, annullate, ecc. e i dubbi esistenziali sembrano non avere alcun peso: nei cosiddetti “normali”, insomma.

Saldamente attestato sulla difesa della normalità, nonostante abbia fornito egli stesso criteri tali da vanificare il rigido confine tra normalità e “anormalità”, Freud non è mai giunto ad una conclusione del genere, che, dopo Fromm e l’antipsichiatria, invece sembra imporsi.

L’antologia della normalità “folle”, in quanto fondata prevalentemente su meccanismi di mistificazione, potrebbe effettivamente occupare un’intera enciclopedia.

La scissione tra buono e cattivo, apprezzabile e spregevole, normale e anormale (o deviante), noi e loro, associata alla proiezione, è la matrice dell’etnocentrismo, del razzismo, della xenofobia, del pregiudizio verso i malati di mente e i piccoli criminali, che comporta la proiezione su tutti gli estranei e i diversi di tutte le parti negative di sé.

La messa in atto sottende la vita di molte persone la cui frenetica iperattività, portata avanti per il bene della famiglia, serve ad impedire al soggetto di stare un minuto solo con se stesso.

La rimozione fa sì che le persone si sentono in media buone e sensibili, perché rimuovono e negano le conseguenze dei loro comportamenti a carico degli altri. Confondono, in media, la sensibilità con la suscettibilità narcisistica, che li porta a reagire emotivamente con violenza a comportamenti subiti che essi agiscono tranquillamente a carico degli altri.

La negazione induce numerosi soggetti a sostenere di non avere detto e fatto ciò che hanno detto e hanno fatto, a protestare di essere stato fraintesi o a giustificare con le più varie motivazioni (spesso prive di fondamento) i loro comportamenti.

La formazione reattiva trasforma in individui ipercontrollati, compiti e socialmente inappuntabili, soggetti che nell’ambito della privacy domestica sono impulsivi, irascibili, aggressivi e talora sadici.

La “normale follia” oscilla, insomma, tra inganno e mistificazione.

I “normali” utilizzano i meccanismi di difesa per mantenere, ai loro occhi e a quelli degli altri, un’immagine di sé, che spesso è scollata dai loro comportamenti. Lo fanno solitamente in buona fede, sollecitati da esigenze soggettive ma anche dalla pressione normativa del gruppo, realizzando, in genere, quel modello di personalità che Fromm ha definito strutturalmente deficitaria: integrata nella società, in qualche misura efficiente nell’adempimento dei ruoli, ma anche rattrappita dal non uso di potenzialità evolutive.

I meccanismi di difesa che essi adottano sono tutti ego-sintonici, vale a dire soddisfano l’esigenza dell’Io di pensare di essere quello che desidera essere e che, molto spesso, corrisponde ai codici normativi vigenti nella società. Le difese concorrono a mantenere un livello spesso elevato di autostima, di sicurezza, di spigliatezza, di convinzione nel proprio valore che, di fatto, è poco giustificato.”

Questa interpretazione, se contesta l’ipotesi della volontà di potenza di Nietzsche come pulsione primaria, lasciando pensare che nell’inconscio umano il bisogno più profondamente radicato sia quello di appartenere ad un sistema sociale e di essere riconosciuto dagli altri, appare più adeguata di qualunque altra a valorizzare il tragitto di demistificazione di Nietzsche che, al di là della critica della coscienza e della volontà libera, verte sulla profonda influenza che la società esercita sull’individuo facendo leva sull’istinto gregario. Quella influenza, infatti, come si ricorderà, Nietzsche l’ha sperimentata drammaticamente nel corso della sua infanzia e della sua adolescenza.

Il suo disprezzo nei confronti dell’istinto gregario è in gran parte una conseguenza di quella esperienza. Ciò nondimeno, la critica di Nietzsche alla cultura normalizzate e omologante appare ancora oggi densa di significato.

Essa ha rappresentato e rappresenta il fondamento di una rivoluzione culturale destinata a portare l'uomo a convivere criticamente con una coscienza che funziona, spontaneamente e per effetto del senso comune, come una fabbrica di certezze.