Letture nietzschiane

Lettura I

Il genio antitetico. Psicobiografia di Nietzsche

Sigle delle Opere

Tutte le citazioni sono tratte da Nietzsche. Opere complete, Newton Compton, Roma 1981.

Le abbreviazioni usate per le singole opere sono le seguenti:

  1. 1854-1868 La mia vita (SA)

  1. 1872 La nascita della tragedia (NT)

  1. 1873 La filosofia nell’età tragica dei Greci (FTG)

  1. 1873 Verità e menzogna in senso extramorale (VM)

  1. 1873 David Strauss. L’uomo di fede e lo scrittore. Considerazioni inattuali I (DSI1)

  1. 1874 Sull’utilità e il danno della storia per la vita. Considerazioni inattuali II (UDSI2)

  1. 1874 Schopenhauer come educatore. Considerazioni inattuali III (SEI3)

  1. 1876 Richard Wagner a Bayreuth. Considerazioni inattuali IV (RWI4)

  1. 1878 Umano, troppo umano. Un libro per spiriti liberi (UTU)

  1. 1879 Opinioni e sentenze diverse (UTU)

  1. 1880 Il viandante e la sua ombra (UTU)

  1. 1881 Aurora (AUR)

  1. 1882 La gaia scienza (GS)

  1. 1883 Così parlò Zarathustra (prima e seconda parte) (ZAR)

  1. 1884 Così parlò Zarathustra (terza parte) (ZAR)

  1. 1885 Così parlò Zarathustra (quarta parte) (ZAR)

  1. 1886 Al di là del bene e del male (ABM)

  1. 1887 La genealogia della morale (GM)

  1. 1888 Il crepuscolo degli idoli (CI)

  1. 1888 L’Anticristo (AC)

  1. 1888 Ecce Homo (EH)

  1. 1888 Il caso Wagner

  1. 1888 Nietzsche contro Wagner (NW)

  1. postuma La volontà di potenza (VP)



Poco per volta mi è venuto in chiaro che cosa è stata finora ogni grande filosofia

cioè il confessarsi del suo autore; e una specie di mémoires non volute e improvvise…

Nel filosofo non c'è assolutamente nulla d'impersonale;

e in particolare la sua morale offre una testimonianza decisa e decisiva di chi egli è e cioè

in quale ordine gerarchico si collocano gli uni rispetto agli altri gli impulsi più profondi della sua natura.

                                                                              (Al di là del bene e del male)

 

Indice

Introduzione
1. Marx e Nietzsche
2. Diversità genetica e uguaglianza umana
3. Lo sfondo storico-culturale
4. Il sublime e lo “scellerato”
5. Genialità e psicopatologia
6. Il disagio psichico e psicosomatico di Nietzsche
7. Psicobiografia dinamica (1)
8. Psicobiografia dinamica (2)

Introduzione

Una lettura contemporanea di un autore complesso e controverso come Nietzsche, la cui opera - come vedremo - oscilla di continuo tra genialità, azzardo filosofico e provocazione ha senso solo se, mettendo tra parentesi la fin troppo abbondante letteratura che lo riguarda, adotta un punto di vista almeno relativamente nuovo e, ovviamente, non arbitrario.

Il punto di vista che adotterò muove dal prendere sul serio, più di quanto sia stato fatto finora, la citazione riportata in exergo, con la quale Nietzsche stesso sollecita a interpretare il suo pensiero come una lunga confessione le cui matrici dinamiche affondano nell’inconscio.

Assumere alla lettera l’intuizione di Nietzsche significa riconoscere immediatamente che la sua lunga e travagliata riflessione sull’uomo - che riguarda il suo posto nel cosmo, la sua appartenenza all’ordine naturale, la dotazione di pulsioni discendenti dalla sua animalità, il ruolo della coscienza e dell’inconscio, il significato dell'io e la sua capacità di arrivare alla verità, l’influenza dell’ambiente sulla personalità, l’origine e il significato dei valori culturali e morali, ecc. - è incentrata, dall’inizio alla fine, su un problema universale che dipende dalla struttura dell’apparato mentale umano: il rapporto tra Io e Altro o meglio tra appartenenza e individuazione, doveri sociali e diritti individuali, volontà altrui e volontà propria, adesione al senso comune e ricerca di un modo di sentire, di pensare e di agire personale, necessità (o fato nel linguaggio nietzscheano), e libertà individuale.

Tale rapporto, per motivi che dipendono dalla storia interiore più che dalla riflessione filosofica, si pone in Nietzsche in termini irriducibilmente conflittuali. L’antitesi tra appartenenza e individuazione è radicale al punto che la prima, con la sua capacità di influenzare e utilizzare l'istinto del gregge presente in gran parte degli esseri umani, si configura come una dimensione univocamente alienante, mistificante e (claustro)fobica, tal che l'unica salvezza rispetto al pericolo di rimanere schiavi delle tradizioni, del senso comune e della cultura corrente è un processo di individuazione eroica che pone l'uomo di fronte alla verità nuda e cruda inerente la sua condizione: l'essere egli un animale casuale e inessenziale nell'economia dell'Universo, malato nella misura in cui cerca in ogni modo di dare un senso “trascendente” alla sua esistenza, sostanzialmente debole e malriuscito, il cui unico riscatto consiste nel contrapporre al nichilismo implicito in quella verità il sì alla vita, vale a dire l'accettazione della volontà di potenza che la sottende.

Se la chiave del pensiero nietzschiano è il conflitto irriducibile tra appartenenza e individuazione, non sembra azzardato tentare di analizzare il pensiero di Nietzsche in un’ottica panantropologica, utilizzando anzitutto il modello psicoanalitico struttural-dialettico, che nasce, per l’appunto dalla constatazione della doppia natura dell’uomo - essere radicalmente sociale dotato di una pulsione verso l’individuazione. Nella misura in cui, poi, la riflessione di Nietzsche sulla condizione umana si pone come una riflessione a tutto campo, le cui conclusioni trascendono la sua esperienza personale e si pongono come verità universali, esse vanno valutate alla luce degli sviluppi più recenti delle scienze umane e sociali (genetica, neurobiologia, psicologia, sociologia, storia sociale, ecc.).

Per avviare questa analisi, che io ritengo più proficua di quella tradizionale che, assumendo Nietzsche come filosofo, urta sempre contro le indefinite contraddizioni che caratterizzano il suo pensiero, occorre giustificare preliminarmente il titolo della Conferenza. Tutti i geni sono necessariamente, in misura più o meno rilevante, in contrasto con il sapere acquisito e il senso comune. Nietzsche, però, è il genio antitetico per eccellenza.

La aggettivazione non va riferita solo al significato corrente del termine, che implica appunto l’essere in contrasto, ma a quello che esso ha assunto nella cornice della teoria della personalità struttural-dialettica, laddove essa fa riferimento ad una substruttura o funzione psichica - l’Io antitetico, appunto - che, in opposizione alle influenze sociali reali e interiorizzate, promuove la rivendicazione della libertà, dell’indipendenza, della sovranità dell’Io e assegna ad esso il diritto di sentire, di pensare, di agire in maniera originale, prescindendo, cioè, da come si deve sentire, pensare ed agire in nome dell’appartenenza sociale.

Si tratta di una funzione psichica che si edifica sulla base del bisogno di opposizione/individuazione, e si attiva caratteristicamente nel corso dell’adolescenza, determinando un contrasto più o meno radicale con il gruppo di appartenenza e le sue tradizioni culturali, destinato, in genere, ad essere sormontato via via che il soggetto si integra nella società. In alcuni soggetti, dotati di un bisogno di opposizione/individuazione particolarmente intenso, l’Io antitetico rimane attivo e talora iperattivo per tutta la vita, tanto più se l’Io cosciente stabilisce con esso un rapporto di totale connivenza.

L’orientamento antitetico è la matrice della creatività, sia in senso lato, come tensione verso uno statuto identitario in qualche misura differenziato e originale, sia in senso stretto, come promotore di una ricerca orientata ad esplorare l’universo dei mondi possibili, ma comporta un prezzo da pagare. La differenziazione da esso promossa, che affranca l’individuo dal senso comune, entra inesorabilmente in conflitto con il bisogno di appartenenza/integrazione sociale, che promuove invece l’omologazione culturale, determinando conseguenze varie. Tra queste due, che si producono allorché l’antitesi comporta anche un certo grado di ostilità sociale, meritano di essere segnalate preliminarmente. La prima è la necessità di mantenere un certo grado di anestetizzazione empatica per salvaguardare l’io al riparo dall’influenza (nefasta) dell’Altro. La seconda, complementare alla prima, è l'esigenza di alimentare ed esasperare quel conflitto, giungendo ad eccessi di indifferenza, estraneazione, durezza, disprezzo sociale.

Entrambe queste conseguenze si sono realizzate in Nietzsche. Non è certo un caso che un tema ossessivamente ricorrente nella sua opera è la critica della compassione (o pietas), che egli ritiene una virtù (più che un’emozione) ipocrita e alienante. E non è un caso se alcune sue pagine sono impregnate di una “spietatezza” estrema, che suona del tutto in contrasto con la poeticità di Nietzsche, che lascia trasparire un'anima estremamente sensibile, romantica e poetica.

Definire Nietzsche un genio antitetico per eccellenza alla luce di questa concezione della personalità può apparire un modo improprio e arbitrario di “psicoanalizzare” la sua esperienza e il suo pensiero. In realtà, come vedremo, questo approccio sembra l’unico capace di valorizzare la genialità di Nietzsche e, al tempo stesso, di dar conto delle numerose contraddizioni che ne caratterizzano la vita e le opere.

Preliminarmente appare opportuno corroborare la validità di tale approccio con un rapido excursus biografico (per una biografia dettagliata si rinvia al materiale bibliografico), che pone immediatamente in luce la valenza antitetica della carriera umana e intellettuale di Nietzsche.

Nonostante sia stata ormai ricostruita nei minimi particolari, la vita di Nietzsche non è ricca di eventi esteriori: è la storia di una personalità introversa, che evolve linearmente sino alla tarda adolescenza, e poi va incontro ad una crisi oppositiva che sprigiona la sua genialità ma al prezzo di un travaglio interiore e di una progressiva chiusura rispetto al mondo, esitata in una catastrofe esistenziale prima ancora che psichiatrica.

L’iperdotazione nietzschiana si manifesta precocemente. A soli 24 anni, prima ancora di laurearsi, e sulla base di alcune pubblicazioni, egli viene chiamato a Basilea per insegnare filologia. Per sedare lo “scandalo” di questa scelta del tutto inconsueta, la stessa università gli assegna una laurea (ad honorem) per consentirgli di salire in cattedra. Nonostante la giovane età, Nietzsche se la cava brillantemente. In questo periodo conosce il musicista R. Wagner e lo storico J. Burckhardt, già famosi, coi quali stabilisce un rapporto alla pari, nonostante la rilevante differenza di età. Sembra avviato verso una prestigiosa carriera accademica.

Nel 1872, con la pubblicazione del suo primo saggio importante (La nascita della tragedia), lancia una sfida all’establishment culturale, formulando delle ipotesi del tutto controcorrente, vale a dire attribuendo alla cultura greca, ritenuta tradizionalmente “olimpica”, la scoperta della tragicità e dell'assurdità dell’esistenza, e imputando alla Civiltà occidentale di averla rimossa per consentire agli esseri umani di vivere in una condizione di alienata e falsificata tranquillità. In questa ottica, la storia dell’occidente si configura, per Nietzsche, come un lungo e continuo processo di decadenza, al quale egli intende dare termine invertendolo.

La rottura con il mondo accademico è netta. Nietzsche la esaspera scrivendo, dal 1874 al 1876, quattro brevi saggi “Inattuali” nei quali esprime in maniera ancora più radicale il suo aperto dissenso nei confronti della cultura corrente in termini di antimisticismo, antistoricismo, antirazionalismo.

In questo stesso periodo, in continuità con un’emicrania periodica che lo perseguita fin dall’infanzia, comincia ad accusare disturbi psicosomatici e psichici che, con alterne vicende, lo affliggeranno per tutta la vita.

Nel 1878, pubblica Umano, troppo umano, “un libro per spiriti liberi” nel quale adotta lo stile aforistico, adatto a permettergli di esprimere i suoi pensieri in totale libertà rispetto ad un discorso compiuto. Nella prefazione Nietzsche riconosce che i suoi scritti implicano “una costante, nascosta istigazione a sovvertire consueti apprezzamenti e apprezzate consuetudini” e aggiunge: “non credo che qualcuno abbia mai guardato nel mondo con un sospetto altrettanto profondo, e non solo come occasionale avvocato del diavolo, ma, per dirla in termini teologici, anche come accusatore e nemico di Dio.” Sia per la forma che per i contenuti, il libro non trova consenso che presso un numero ristrettissimo di amici.

Nel 1879, Nietzsche decide di dimettersi dall’Università, scegliendo di vivere con una modesta pensione. Comincia il suo vagabondaggio - tra Svizzera, Francia, Italia e Germania - alla ricerca della solitudine, della concentrazione, della quiete e della “salute”.

Egli viaggia con un baule sempre pieno di libri, passa gran parte della giornata passeggiando e riflettendo, e dedica la sera alla stesura di aforismi. Nonostante una gravissima miopia, la sua produzione è imponente. I libri che riesce a pubblicare (Aurora, La gaia scienza, Così parlò Zarathustra, Al di là del bene e del male) non hanno, però, alcun successo. Talvolta, per pagare le spese editoriali, attinge alla sua pensione, che gli consente un’esistenza appena decorosa. Deluso dall’esito delle pubblicazioni, tormentato da incessanti disturbi psichici e psicosomatici, egli si isola progressivamente dagli amici e attraversa periodi di autentica disperazione.

Nonostante gli scarsi consensi, Nietzsche è convinto che la sua opera rivoluzionerà la cultura umana dalle fondamenta. Le ultime opere (Anticristo, Ecce Homo, Il crepuscolo degli idoli) allarmano per il loro estremismo e per lo stato d’animo “squilibrato” che le caratterizza, anche i residui amici.

Si realizza così la profezia anticipata in Umano, troppo umano:

“Si compie un nuovo passo verso l’indipendenza quando si osa manifestare opinioni ritenute infamanti per colui che le nutre; allora anche gli amici e i conoscenti sogliono impaurirsi.”

Nietzsche si propone, infine, di scrivere un saggio - La volontà di potenza - che, nel suo intento, dovrebbe mettere l'umanità con le spalle al muro, costringendola a riconoscere la verità implicita nel suo pensiero e il suo ruolo di profeta di un nuovo mondo, il mondo dell’Oltreuomo.

Non riesce a portarlo a termine, perché, nel 1889, a Torino, precipita in una condizione psicotica che lo paralizzerà intellettualmente fino alla fine dei suoi giorni (1900).

Il successo sopravviene repentino dopo la sua malattia, quando egli non è più in grado di rendersene conto, e crescerà di continuo nel corso del Novecento sino ad assegnargli la palma del filosofo più letto di tutti i tempi. Dopo Marx e il suo Manifesto, naturalmente.

Marx e Nietzsche: il confronto non può essere eluso.

1. Marx e Nietzsche

Accomunati da una fiducia assoluta nelle loro idee, cui entrambi sacrificano il successo e la salute, Marx e Nietzsche si pongono lo stesso obiettivo: “rivelare” agli esseri umani la “verità” sulla loro condizione al fine di cambiare il corso stesso della storia, promuovendo un travaglio di parto destinato ad esitare in un nuovo Mondo.

A differenza di Darwin e Freud, entrambi conservatori, che sono pensatori “involontariamente” rivoluzionari, Marx e Nietzsche lo sono del tutto: essi portano avanti la loro opera con l’intento di sovvertire radicalmente l’ordine di cose esistente.

In entrambi, la passione per la “verità” si associa ad una visione del mondo, in quanto prodotto storico, che pone in luce la condizione sostanzialmente miserevole e alienata dell’uomo.

Entrambi, infine, sono radicalmente atei e materialisti, e profondamente convinti che l’umanità troverà la sua via solo rifiutando ogni trascendenza e accettando il suo destino mondano.

La visione del mondo in questione, però, e il cambiamento rivoluzionario auspicato non potrebbero essere più diversi.

Marx ritiene che la “verità” promossa dalla sua analisi storica e dalla critica del Capitalismo, una volta fatta propria dalla classe operaia e realizzata rivoluzionariamente, possa portare l’umanità fuori dalla sua “preistoria”, caratterizzata dall’oppressione dell’uomo sull’uomo.

Egli vive drammaticamente l’universale alienazione umana (la miseria reale della classe operaia, la miseria psicologica della borghesia), ma ritiene che essa possa essere sormontata in virtù di una lotta che utilizzi la straordinaria ricchezza materiale e spirituale prodotta nel corso della storia per uno sviluppo integrale della personalità umana. Marx attribuisce ad ogni rappresentante della specie potenzialità straordinarie che sono rimaste mortificate nel corso dello sviluppo storico e che l’avvento del Capitalismo sfrutta solo nella misura in cui esse possono essere utilizzate sul piano produttivo.

All’opposto di Marx, Nietzsche legge nella storia umana, nonché un progresso dalla barbarie alla civilizzazione, un processo continuo di décadence esitato nell’affermazione di inesistenti diritti naturali umani, la cui conseguenza è l’ugualitarismo, vale a dire l’egemonia dei mediocri, degli uomini comuni, che rappresentano la maggioranza della società, i quali ostacolano e boicottano il dispiegamento delle potenzialità di una minoranza aristocratica (termine, en passant, che non va inteso in senso sociale ma intellettuale e morale).

Alla luce di questa lettura, Nietzsche ritiene che la sua critica possa valere a sormontare il “morbo” dell’ugualitarismo - cristiano, borghese e socialista -, che assegna ad ogni individuo un valore sommo, e ad indurre l’accettazione di una disuguaglianza di ordine naturale che, spazzando via i riferimenti alla compassione, ai diritti individuali e al comunitarismo, riavvii una selezione culturale atta a dare luogo all’eliminazione degli esseri deboli e malriusciti e all’affermazione dei benriusciti, vale a dire degli esseri superiori.

Laddove Marx ha una fede incrollabile nell’uomo e nelle sue capacità di sviluppo, attestata dalla ricchezza materiale e “spirituale” prodotta nel corso della storia, Nietzsche vede, invece, nell’umanità un coacervo di esseri mediamente mediocri che vivono sotto la pressione dell’istinto del gregge e, intuitivamente consapevoli della loro inferiorità, sono rancorosi, invidiosi e punitivi nei confronti degli esseri superiori che rifiutano e si oppongono alla normalizzazione e all’omologazione socio-culturale.

Egli crede solo negli spiriti liberi, di cui si ritiene rappresentante e precursore, capaci di andare controcorrente, vale a dire di affermare se stessi sfidando il senso comune, le regole convenzionali, i valori morali tradizionali, l’istinto del gregge e l’ugualitarismo: uomini, dunque, capaci di farsi carico di quanto di negativo, irrazionale e contraddittorio si dà nella vita, valorizzandolo e agendolo sino al punto di rinunciare a qualunque patetica mistificazione e, in particolare a qualunque orizzonte oltremondano; accettando, dunque, la vita all’insegna della volontà di potenza, unica motivazione che riconoscono come legittima.

La Rivoluzione preconizzata da Marx fa leva sull’alleanza tra coloro che, vivendo sulla pelle lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, sentono l’esigenza di lottare contro l’ordine socio-economico e culturale che lo consente e di realizzare un nuovo ordine che lo elimini per sempre dall’orizzonte della storia. Se egli si impegna in prima persona in questa lotta, alla quale dedica la sua vita, è perché crede nella possibilità di poter fornire agli “oppressi” la consapevolezza del significato storico della loro condizione e l’arma della critica necessaria a sormontarla.

Nella sua ottica, però, la Rivoluzione non può essere realizzata se non in virtù di un vasto movimento sociale che si appropri di quell’arma e la utilizzi politicamente.

La Rivoluzione di Nietzsche, invece, prescinde dal sociale e fa leva su singoli individui geniali - gli spiriti liberi - che già, per vocazione, modo di sentire, pensare ed agire, sono al di là dell’esistente e contestano l’imbrigliamento che esso esercita, attraverso l’egemonia delle tradizioni culturali, del senso comune, delle istituzioni politiche democratiche, dei valori, delle norme e delle regole codificate, sulla loro volontà di potenza, che tende comunque a realizzarsi in virtù di comportamenti originali, anticonformistici e/o trasgressivi. La possibilità che la storia faccia un salto di qualità e liberi la volontà di potenza, che è stata progressivamente imbrigliata dallo sviluppo della Società occidentale, inaugurando una selezione culturale che ponga fine alla dittatura della maggioranza e contrassegni l’avvento del Superuomo, non si fonda su alcun movimento sociale, ma solo sul coraggio, sulla determinazione e sulla capacità degli spiriti liberi di tollerare l’isolamento e la discriminazione, nell’attesa che quell’avvento si realizzi.

Marx sostiene l’uguaglianza e la straordinarietà degli esseri umani, anche se non ignora le diverse potenzialità e attitudini dei singoli individui; Nietzsche, viceversa, ritiene che si dia una disuguaglianza radicale tra una maggioranza costituzionalmente mediocre , per la quale vivere significa conformarsi al mondo così com’è, sottraendosi al rischio di affrontare in prima persona le problematichetragiche proprie dell’esistenza, e una minoranza iperdotata, che accetta la sfida di evolvere nella direzione del superamento dell’uomo e della cultura corrente.

Tra l’umanitarismo universale di Marx e l’elitarismo aristocratico di Nietzsche non sembra esserci alcuna possibile mediazione.

Alla luce della genetica, il contrasto appare invece più sfumato: se Marx, infatti, ha ragione nel considerare l’umanità depositaria di potenzialità straordinarie, Nietzsche non ha del tutto torto nel sottolineare la loro diversa distribuzione nei singoli individui.

2. Diversità genetica e uguaglianza umana

In un libro datato ma ancora suggestivo (Diversità genetica e uguaglianza umana, Einaudi, Torino 1981) un genetista americano - Th. Dobszansky -, ha affrontato il problema della disuguaglianza naturale tra gli esseri umani in maniera esemplare.

Egli scrive:

"Largamente diffusa nel mondo moderno, benché certo non universalmente accettata e praticata, è la dottrina per cui tutti gli uomini sono o dovrebbero essere uguali." (p. 2)

"Spesso il concetto si impantana nella confusione e in evidenti contraddizioni. Si confonde uguaglianza con identità e diversità con ineguaglianza. Possiamo riscontrare questa confusione anche negli scritti di certi eminenti scienziati da cui ci saremmo aspettati una migliore conoscenza. I propagandisti politici, di estrema destra come di estrema sinistra, diffondono deliberatamente la confusione. Parrebbe che il modo più agevole per screditare l'idea di uguaglianza consista nel dimostrare che gli individui sono per nascita, geneticamente e perciò irrimediabilmente, diversi e dissimili. L'insidia sta naturalmente nel fatto che l'uguaglianza umana ha a che fare con i diritti e con l'inviolabilità dell'esistenza di ogni essere umano, e non con caratteristiche corporee o anche mentali." (p. 3)

"I difensori dell'uguaglianza rimangono impigliati nella medesima trappola quando tentano di minimizzare o negare la diversità genetica umana. Essi si lasciano sfuggire, o non riescono a comprendere che la diversità è un fatto osservabile della natura, mentre l'uguaglianza è un comandamento etico. Almeno in linea di principio, l'uguaglianza può essere rifiutata, o concessa, ai membri di una società o ai cittadini di uno stato indipendentemente dalla loro somiglianza o differenza. Anche l'ineguaglianza non è stabilita in via biologica, ma è, piuttosto, una prescrizione socialmente imposta." (p. 4)

"Il condizionamento genetico di molte caratteristiche umane che incontestabilmente hanno importanza per i loro possessori e per le società in cui si rinvengono, è stabilito con un grado di sicurezza variabile per le diverse caratteristiche. Il termine 'condizionamento', al posto di 'determinazione', viene qui usato di proposito. Intelligenza, personalità, particolari capacità e altri tratti sono suscettibili di modifiche a causa di fattori sia genetici che ambientali." (p. 7)

"Ciò che realmente i geni determinano sono gli spettri di reazioni presentati rispetto all'intera gamma degli ambienti possibili da individui con un numero maggiore o minore di geni simili. Il concetto di spettro di reazioni è importante e per certuni è curiosamente difficile da afferrare. L'eredità non è uno status ma un processo. I caratteri genetici non sono preformati nelle cellule sessuali, ma emergono nel corso dello sviluppo, quando le potenzialità determinate dai geni si estrinsecano nel procedimento di sviluppo in determinati ambienti. Geni simili possono avere effetti diversi in ambienti dissimili, e così pure geni differenti in ambienti analoghi." (p. 8)

La varietà genetica (o se si vuole la “disuguaglianza” nella distribuzione delle potenzialità) è dunque un dato di fatto, ma, per via dello spettro di reazioni, il cui sviluppo dipende dai fattori ambientali, essa non è facilmente ricavabile dall’organizzazione del comportamento degli individui (vale a dire dei fenotipi).

Ciò nondimeno, l’intuizione di Nietzsche, secondo la quale la natura produce un certo numero di corredi genetici caratterizzati da un’iperdotazione intellettiva e/o emozionale, è fondata. La sua distinzione, però, tra esseri superiori e esseri inferiori lo è molto meno.

Al di là del problema degli spettri di reazione, già importantissimo perché coinvolge l’ambiente di sviluppo nella realizzazione del fenotipo - ambiente che per quanto concerne l’uomo è prevalentemente culturale, coincidendo con le opportunità disponibili per i singoli individui -, occorre aggiungere la scoperta del polimorfismo genetico. Ogni gene riconosce numerose varianti, che sopravvengono e si accumulano per effetto di mutazioni. La varietà genetica, come noto, è il fattore primario dell’evoluzione naturale. Ricerche recenti hanno attestato, però, che “nella popolazione umana esiste una variazione maggiore di quella che la scienza avrebbe ragione di aspettarsi” (Matt Ridley, Il gene agile, Adelphi, Milano 2005, p, 148): notevolmente maggiore, per essere più precisi.

Si tratta di un vero enigma biologico, che potrebbe essere interpretato anche in accordo con il pensiero di Nietzsche, facendo, cioè, riferimento al fatto che la cultura umana ha “smorzato la pressione della selezione naturale” (id., p. 149). Il problema è che quella stessa variazione è presente anche negli altri animali, sicché occorre pensare che “esiste una delicata forma di selezione equilibratrice che favorisce sempre le varianti rare dei geni, impedendone così l'estinzione.” (p. 150)

Questo misterioso “conservatorismo” genetico ha un significato che non può essere minimizzato.

La ricchezza potenziale dell’umanità è depositata non nei singoli individui, ma nel pool genetico della specie umana. In ogni corredo genetico individuale si danno indefinite potenzialità che non si sviluppano o per motivi ambientali o perché l’insieme dei geni che le sottendono non raggiungono en effetto soglia. La mescolanza tra corredi genetici che avviene all’atto del concepimento può realizzare conseguenze le più diverse diversi: ad un estremo, potenzialità già utilizzate dai genitori si possono inattivare o depotenziare; all’estremo opposto, potenzialità non utilizzate si possono realizzare. Ciò significa che da due genitori iperdotati può nascere un figlio mediocre e da due genitori apparentemente normodotati o addirittura mediocri può nascere un figlio iperdotato e geniale.

Quest’ultima circostanza sembra essersi realizzata in Nietzsche, la cui genialità è pur sempre il prodotto dell’incrocio tra un anonimo Pastore tedesco e una donna bigotta, di modesta levatura culturale.

Il merito di Nietzsche è di aver coltivato la sua genialità con un’implacabile autodisciplina. Se egli, però, non avesse ereditato dalla famiglia un corredo genetico iperdotato, sarebbe forse diventato un uomo erudito o un professore universitario, ma non certo il genio filosofico che, dopo Marx, ha esercitato la massima influenza sul pensiero del Novecento.

La genialità di Nietzsche, inoltre, non si sarebbe espressa nel modo in cui si è espressa se egli fosse nato in India o nel cuore dell’Africa mille anni prima della venuta di Cristo o nell’antica Grecia o nell’Europa medievale.

E’ noto, ormai, che lo sviluppo del cervello umano dipende in gran parte dalla selezione che l’ambiente induce sulle fasi di ridondanza sinaptica che ne contrassegnano l’evoluzione ontogenetica: è, insomma, in termini tecnici epigenetico. La genialità di Nietzsche fa riferimento ad un corredo iperdotato (e altamente introverso), ma il suo orientamento radicalmente critico e antitetico è imprescindibile, come vedremo, dal contesto socio-storico e da circostanze biografiche particolari.

La ridondanza sinaptica, che è massima nella fase evolutiva della personalità, ma declina solo lentamente nel corso della vita, è l’espressione di una straordinaria plasticità cerebrale, che caratterizza tutti gli esseri umani, e denota un potenziale di sviluppo che può essere utilizzato o mortificato in conseguenza del rapporto tra il soggetto e l’ambiente.

In teoria, dunque, tutti gli esseri umani potrebbero pervenire ad un tasso di autorealizzazione più elevato rispetto a quello che comunemente si realizza in conseguenza del fatto che le opportunità di sviluppo sono distribuite in maniera casuale e sostanzialmente iniqua. In questo senso, Marx ha ragione.

E’ pur vero, però, che in un mondo nel quale si dessero opportunità di sviluppo adeguate alle potenzialità dei singoli individui, i fenotipi porrebbero in luce comunque una diversa dotazione genetica. Si definirebbero, comunque, esperienze di minore e maggiore valore antropologico.

Anche Nietzsche, dunque, ha ragione nel sottolineare la disuguaglianza tra gli esseri umani, ma non nell’esasperarla sino al punto di assumerla come un discrimine tra esseri inferiori e esseri superiori. Già nel nostro mondo i fenotipi si distribuiscono secondo uno spettro che non comporta soluzioni di continuità, anche se molte persone medie e “normali” appaiono caratterizzate, come ha rilevato oltre mezzo secolo fa Fromm, da un deficit di sviluppo. In un mondo fatto a misura d’uomo, tale spettro persisterebbe, ma si ridurrebbe.

Le capacità intuitive di Nietzsche e la sua tendenza a portare le sue intuizioni alle estreme conseguenze, che risultano spesso fuori misura, pone di fronte ad un problema di ordine generale che sarà centrale in queste Conferenze: il rapporto tra filosofia e scienza. Come filosofo, Nietzsche è un autodidatta. Sul piano personale, egli si definisce uno Psicologo. Alla sua epoca, la Psicologia muove appena i primi passi, e non va al di là dello studio delle percezioni sensoriali. L’autoattribuzione del ruolo di Psicologo significa che Nietzsche assegna un ruolo conoscitivo fondamentale all’introspezione e alla riflessione sulle motivazioni che sottendono i comportamenti umani.

Sappiamo che egli si è vivamente interessato allo sviluppo rigoglioso della scienza , leggendo libri di chimica, fisica, biologia, ecc. Ciò nondimeno, egli ha una fiducia illimitata nel potere critico della sua coscienza e nelle sue capacità di riflessione. In conseguenza di questo, egli assegna a quasi tutte le sue intuizioni un carattere di verità inconfutabile. Per questo aspetto, si può ritenere un filosofo in senso proprio, nonostante egli faccia riferimento al suo metodo come scientifico.

In quanto Filosofo, Nietzsche spesso si infatua delle sue intuizioni e delle sue idee, tanto più se esse sono in opposizione radicale rispetto alla tradizione filosofica e culturale e al senso comune. Ciò comporta che ad una serie di intuizioni straordinarie corrispondono non poche ipotesi che si possono ritenere errate.

Naturalmente, vale per Nietzsche quello che vale per tutti i geni: per quanto clamorosi, anche i loro errori non sono privi di significato.

Se le conclusioni di Nietzsche riguardo all’esistenza di esseri superiori e inferiori sono incompatibili con la genetica, la sua intuizione, su cui ci soffermeremo ulteriormente, di un potenziale di individuazione che, in alcuni soggetti, esercita una spinta motivazionale ben maggiore rispetto a quello di appartenenza, che promuove l’adesione all’ordine sociale costituito, è di enorme portata. E’ come se egli avesse colto intuitivamente l’esistenza di quella “delicata forma di selezione equilibratrice che favorisce sempre le varianti rare dei geni” cui si è fatto cenno: tra quelle varianti si danno di fatto molti geni introversi, tra cui Nietzsche stesso, la cui vita travagliata (e sterile sotto il profilo riproduttivo) apporta alla cultura umana un contributo prezioso.

Questa prima riflessione su uno dei nodi centrali del pensiero di Nietzsche può aiutarci a capire quanto, anche nei geni, è labile il confine tra ciò che di nuovo essi scoprono e la tendenza ad elaborare le scoperte alla luce di presupposti soggettivi e culturali spesso inconsci.

Presumibilmente, Nietzsche protesterebbe vigorosamente contro l'identificazione nel suo pensiero, animato da una passione critica totale, di una componente “ideologica”. Dovrebbe arrendersi però al fatto che gli spiriti liberi appartengono comunque alla storia, hanno una loro esperienza interiore, che comporta numerosi aspetti inconsci, e che il loro potere critico è metaforicamente riconducibile ad una vanga che, dissodando la superficie della realtà storica, rimane in qualche misura impolverata dal terriccio che smuove.

3. Nietzsche e il contesto storico

Nietzsche nasce a Röcken, villaggio della Sassonia-Hanalt nei pressi di Lipsia, nel 1844, poco prima della Rivoluzione del 1848, che riattiva anche nel territorio tedesco spinte al cambiamento nella direzione della democrazia liberale. Negli Scritti autobiografici, Nietzsche rievoca le impressioni suscitate dal clima quarattontesco in questi termini:

“Mentre noi vivevamo tranquilli e felici a Rocken, violenti sussulti scuotevano quasi tutte le nazioni europee. L'esca era già pronta ovunque da parecchi anni; mancava solo una scintilla per provocare l'incendio generale.

Dalla lontana Francia risuonò il primo strepito delle armi, il primo canto di guerra. L'immane rivoluzione di febbraio a Parigi si propagò con micidiale rapidità. «Libertà, eguaglianza, fraternità» fu il motto che risuonò in tutti i paesi, e tutti, dai più nobili ai più umili, impugnarono la spada, chi contro, chi a favore dei re. L'esempio di Parigi con la sua lotta rivoluzionaria fu seguito da quasi tutte le città della Prussia. E nonostante la rapida repressione, il popolo continuò ad aspirare ancora a lungo a una repubblica tedesca. Questi moti non arrivavano fino a Röcken; ma ricordo bene i carri carichi di gruppi giubilanti che passavano sullo stradone con le bandiere al vento.”

Quando scrive questi appunti, l’adolescente Nietzsche non ha ancora sviluppato l’avversione profonda nei confronti dei valori rivoluzionari che rappresenterà un tema costante della sua opera.

I fermenti liberali, peraltro, si estinguono rapidamente negli Stati confederali tedeschi (all’epoca la Germania non ha ancora raggiunto l’unità nazionale), laddove il potere è detenuto da un “blocco” storico, che vede alleati la Chiesa luterana, l’Esercito e la nobiltà terriera. Tale blocco prevale negli Stati orientali della confederazione, soprattutto in Prussia, mentre in quelli occidentali le istanze liberali, animate dal dominio napoleonico, sono ancora vive.

L’arretratezza politica della Germania è, peraltro in contrasto, con uno sviluppo economico che, dall’epoca dell’unione doganale (Zollverein) nel 1834, procede alacremente in virtù di una borghesia imprenditoriale particolarmente intraprendente.

Lo scontro tra questa e i grandi proprietari terrieri nobili (Junker), che si profila all’orizzonte, viene scongiurato in Prussia dall’elezione al Cancellierato nel 1861 di Otto von Bismarck, conservatore aristocratico, che riesce ad indurre l’alleanza delle due classi contro la piccola borghesia e l’emergente proletariato. La politica di potenza di Bismarck porta all’unificazione dei territori tedeschi sotto l’egida della Prussia e alla costituzione dell’Impero germanico nel 1871. Bismarck domina la scena politica tedesca ed europea sino al 1890, allorché si dimette perché il parlamento, a maggioranza liberale e moderata, non accetta più la sua linea sostanzialmente autoritaria e repressiva.

Tutta l’esperienza umana di Nietzsche adulto si svolge, dunque all’ombra del sistema di potere bismarckiano: sistema efficiente ma singolare, marcatamente conservatore, antiliberale e antisocialista, e addirittura reazionario, che però, in nome della Realpolitik, comporta qualche concessione nei confronti della classe medio-borghese liberale e di quella proletaria. Espressione estrema della Realpolitik è la nascita in Germania del primo sistema previdenziale europeo, varato da Bismarck tra il 1883 e il 1890, che comporta organizzano Casse d'assicurazione contro le malattie e gli incidenti, e Casse di pensione per i vecchi e gli infermi.

In un certo qual senso, il sistema bismarckiano ha adottato il modello del conservatorismo compassionevole, che è stato ripreso da tutti i successivi regimi di centro-destra fino ad epoca recente.

Tale modello, se non illiberale, è di certo sotterraneamente antiliberale: riconosce in qualche misura i bisogni delle classi meno abbienti, ma non come diritti.

Nietzsche è visceralmente d’accordo con il conservatorismo aristocratico bismarckiano, per quanto non condivida il suo viraggio verso lo Stato sociale. Egli però, nonostante apprezzi profondamente la cultura illuminista francese (Voltaire, naturalmente, cui è dedicato il suo primo grande saggio - Umano, troppo umano - non Rousseau) è aspramente avverso al clima liberale e socialista che spira sul continente europeo.

Il periodo in cui egli vive è caratterizzato, di fatto, in Europa da imponenti cambiamenti che investono la politica, l’economia, la scienza, l’arte, la mentalità, il costume, ecc. Ricondurre tali cambiamenti al trionfo della Borghesia e all’avvio del tentativo di estendere il suo Potere, il suo modello di sviluppo e il suo stile di vita in tutto il mondo è fondamentalmente giusto, ma riduttivo. L’enorme sicurezza in se stessa e nel suo futuro della Borghesia ottocentesca è dovuta non solo alla sua intraprendenza e alla razionalità con cui essa affronta i problemi legati alla produzione e al commercio, ma soprattutto, per un verso, al suo sentirsi espressione della civiltà cristiana e, per un altro, allo sviluppo delle scienze e della tecnologia, di cui essa è letteralmente infatuata.

Abbiamo visto l’interpretazione che Marx dà dell’avvento, del trionfo della borghesia e della nascita dei movimenti socialisti. Egli ritiene oltremodo positivo che la classe borghese, che fa leva sull’intraprendenza dell’individuo, abbia promosso, attraverso l’uso razionale delle risorse naturali, una trasformazione del mondo incommensurabile rispetto al passato, vale a dire la produzione di un'enorme ricchezza sociale. Al tempo stesso, egli ritiene che la rivoluzione borghese non abbia senso se essa rimane vincolata alla logica del Capitale, che mira univocamente alla sua crescita a beneficio di una minoranza privilegiata, e che essa debba necessariamente esitare in una rivoluzione socialista, che consentirà di utilizzare la ricchezza sociale a beneficio dello sviluppo integrale di tutti gli individui.

Marx, in pratica, ritiene che lo svincolamento dell’individuo dai vincoli gerarchici e di appartenenza familiare che, in precedenza, ne soffocavano lo sviluppo, sia un fatto positivo, a patto che l’individuo, anziché rimanere preda dell’egoismo, raggiunga uno statuto che fa della sua affermazione l’espressione di una vocazione sociale tale per cui essa diventa funzionale al bene comune, vale a dire allo sviluppo di tutti gli esseri umani.

La sua critica coglie il nodo dolente della civiltà borghese: lo scarto tra i principi di uguaglianza, libertà e giustizia sociale su cui essa si è edificata e una realtà sociale caratterizzata dalla disuguaglianza e dall’ingiustizia, che trovano la loro massima espressione nella disumana condizione operaia.

Duramente sconfitta dopo la fugace sventagliata rivoluzionaria del ’48, nel corso della quale la spinta delle masse popolari ha indotto, ancora una volta, per paura di un disordine totale, l’alleanza della borghesia con le forze reazionarie, la classe proletaria trova ancora modo di esprimere le sue rivendicazioni nella Comune di Parigi del 1870. L’esperienza, come noto, è stata esaltata da Marx come una delle pagine più fulgide dell’evoluzione del mondo verso il Comunismo.

Il modo di vedere di Nietzsche è antitetico a quello di Marx. Egli si confronta con la sua epoca, alla luce del concetto di decadenza cui si è fatto cenno. Si tratta ovviamente di un presupposto ideologico, che riesuma uno dei codici interpretativi della storia di più lunga durata, quello che fa riferimento ad un’originaria età dell’oro, stravolgendolo.

Da Esiodo in poi, infatti, il mito dell’età dell’oro fa riferimento ad uno stato originario dell’umanità caratterizzato dalla prosperità, dalla pace e dall’uguaglianza. Secondo Nietzsche, invece, lo stato originario dell’umanità è caratterizzato dal fatto che gli esseri umani davano espressione senza limiti alla loro volontà di affermazione personale, all’aggressività, alla crudeltà.

Alla luce di questo mito di riferimento, per cui l’unica autentica motivazione nell’uomo è la volontà di potenza, l‘800, nonostante l’esaltazione dell’individuo costitutiva della civiltà borghese, appare a Nietzsche come un’epoca di terribile decadenza, incarnata dalle figure sociali sulle quali egli appunta gli strali della sua critica: il Prete, il Credente, il Borghese, l’Operaio, il Povero, l’Intellettuale filisteo, l’Artista opportunista, lo Scienziato positivista, il Filosofo idealista, ecc.

Tutte queste figure, e i movimenti sociali e culturali cui esse si riconducono, appaiono ai suoi occhi accomunate dall’enfatizzare la dignità umana, dall’attribuire al singolo individuo diritti naturali e universali e dall’assumere la storia come un divenire progressivo verso uno stato capace di realizzare appieno quella dignità e quei diritti.

Il dato che Nietzsche coglie in comune tra il Cristianesimo, la Democrazia borghese e il Socialismo è l’ugualitarismo, che viene ricondotto dal primo alla comune paternità divina, dalla seconda ai diritti paritari sanciti dallo jus, e dal terzo al legame di solidarietà che vincola gli esseri umani tra loro.

Il mito dell’uguaglianza, secondo Nietzsche, è il male che affligge l’umanità dall’epoca della diffusione del messaggio cristiano e, con la Rivoluzione francese prima e la nascita del movimento socialista poi, ha assunto una particolare virulenza, incrementando il processo di decadenza già in atto per via del Cristianesimo.

In tale mito Nietzsche legge il riscatto dei deboli, dei mediocri, degli imbelli rispetto ai migliori, i forti, i temerari, i dissidenti. Egli contesta dunque radicalmente un sistema di civiltà che privilegia l’uomo medio o peggio ancora mediocre e, in conseguenza di questo, contrasta l’affermazione di coloro le cui potenzialità e la cui vocazione ad essere vanno al di là della media: i “migliori” dunque, o meglio gli “spiriti liberi”.

Nietzsche, in pratica, rilegge tutta la storia della civiltà occidentale come storia di una decadenza, contrassegnata dall’egemonia della Ragione sugli istinti e sulle passioni (sopravvenuta in Grecia con Socrate, Platone e Aristotele) prima, dal Cristianesimo poi e, infine, dall’avvento della Civiltà borghese e del Socialismo, identificando nella sua epoca il punto massimo della decadenza, che rischia letteralmente di soffocare coloro che non si arrendono al senso comune e all’ugualitarismo imperante.

Si tratta di una lettura inquietante nella misura in cui dissacra letteralmente un valore - quello dell'uguaglianza - comparso rivoluzionariamente alla fine del ‘700 come contestazione di un ordine sociale fondato sulla divisioni in classi determinata dalla nascita. Non è un caso che Nietzsche fa riferimento di continuo nella sua opera alla necessità di riconoscere l’esistenza di un’Aristocrazia naturale, che egli riconduce a doti fuori dell’ordinario di cui solo alcuni dispongono.

Nel periodo storico in cui, con l’avvento del liberismo e della democrazia, le classi si fluidificano e divengono mobili al punto che i nobili possono precipitare nella povertà e soggetti venuti dal nulla acquisire uno status sociale rilevantissimo, Nietzsche, insomma, propone una nuova stratificazione sociale fondata sul riconoscimento di un’Aristocrazia che nulla ha a che vedere con il sangue (“Io ho contro tutto ciò che oggi si chiama noblesse, un sovrano sentimento di distinzione: non accorderei al giovane imperatore tedesco l'onore di essere il mio cocchiere” Ecce homo), bensì con il valore dell’individuo, vale a dire con il suo coraggio di accettare senza paura la tragicità intrinseca all’esistenza umana e con la sua capacità di affermarsi contro il senso comune, le tradizioni, le convenzioni, i principi morali del Cristianesimo e gli obiettivi propri della Borghesia (ricchezza, successo, stile di vita agiato, ecc.).

La rivendicazione aristocratica di Nietzsche può essere intesa, in prima battuta, solo tenendo conto del fatto che egli opera intuitivamente una distinzione fondamentale tra normalizzazione e individuazione, la prima essendo riconducibile ad un processo passivo di integrazione sociale nel mondo così com’è e nell’acquisizione di un modo di vedere, di pensare e di agire conforme alle norme e ai valori della società (l’istinto del gregge), la seconda, viceversa, ad una vocazione ad essere che spinge l’individuo ad affermare se stesso anche contro quelle norme e quei valori.

Nietzsche disprezza radicalmente qualunque forma di integrazione sociale, nella quale vede unicamente una rinuncia alla libertà individuale e un venire meno al dovere di prendere posizione in rapporto ai problemi fondamentali dell’esistenza, e esalta qualunque forma di opposizione e di ribellione nei confronti del senso comune, delle tradizioni e delle convenzioni su cui si basa la società. In questo senso si può ritenere, forse, il massimo teorico che sia mai esistito del bisogno di opposizione/individuazione.

Egli, naturalmente, è tanto lucido nell’analizzarlo e nel valorizzarlo quanto incline ad estremizzarlo, assumendolo come un bisogno la cui realizzazione, che porta l’individuo ad essere autenticamente libero e indipendente, postula inesorabilmente un conflitto permanente, radicale e irreversibile con l’ambiente sociale “addomesticato”.

Ferocemente critico nei confronti della cultura tedesca, che egli considera decadente, Nietzsche, come accennato lo è molto meno nei confronti della politica del cancelliere Otto von Bismarck, il cui orientamento radicalmente conservatore, anticlericale, antidemocratico, antiliberale e antisocialista, che si esprime nel privilegio assegnato alla classe dei militari e dei proprietari terrieri nobili, è del tutto consonante con il suo.

L’entusiasmo di Nietzsche per Bismarck viene meno solo quando questi, per arginare la pressione del Socialismo, avvia opportunisticamente il primo sistema previdenziale al mondo, che comporta una tutela minima dei lavoratori. Bismarck, antisocialista fin nel midollo, è un politico realista: cede, sia pure malvolentieri, alla realtà dell'avanzata del partito socialdemocratico. Nietszche legge, in questo cedimento, un ulteriore segnale di decadenza: anziché muovere nella direzione della selezione degli esseri superiori, il sistema si arrende a riconoscere i diritti della maggioranza.

Ne La volontà di potenza, egli scrive:

“60.

La confusione moderna

Io non vedo che cosa si voglia fare con l'operaio europeo. Egli sta troppo bene per non pretendere ora un poco alla volta di più, per non pretendere con sempre maggiore esagerazione: alla fine ha il numero dalla sua. E’ completamente finita la speranza che si costituisca qui una specie d'uomo modesta e facilmente contentabile di sé, una schiavitù nel senso più blando del termine, in breve una classe, qualcosa che abbia immutabilità. Si è reso l'operaio militarmente abile: gli si è dato il diritto di voto, il diritto di associazione: si è fatto di tutto per corrompere quegli istinti sui quali si poteva fondare una cineseria operaia: così che l'operaio già oggi sente e fa sentire la sua esistenza come uno stato di bisogno (in termini morali come un'ingiustizia...)... Ma cosa vogliamo? domandiamo ancora una volta. Se si vuole uno scopo, è necessario volere i mezzi: se vogliamo schiavi, - e occorrono! - non bisogna educarli da signori.”

L'orientamento antidemocratico, antiliberale e antisocialista di Nietzsche è fuor di dubbio. Preso atto di questo, occorre accantonare preliminarmente un problema che ancora grava sul suo pensiero - l'essere un precursore del nazismo -, che è frutto di un equivoco. L’equivoco è dovuto al fatto che, opponendo lo spirito libero, amante dell’avventura, del rischio, del conflitto, e capace di farsi carico senza timore della tragicità e dell’assurdità della vita, al Borghese pacifico, al Cristiano ipocrita e al Socialista invidioso, e pertanto tendente all’imborghesimento, Nietzsche, senza poterlo prevedere, si è esposto al rischio di essere identificato come l’ispiratore della “rivoluzione nazista” che, qualche decennio dopo la sua fine, si è affermata come anticristiana, anticapitalista e antisocialista.

E’ indubbio che alcune affermazioni di Nietzsche sembrano dare credito a questo equivoco:

“Alla base di tutte queste razze aristocratiche non si può non riconoscere l'animale da preda, la trionfante bestia bionda che vaga alla ricerca della preda e della vittoria; questo fondo occulto, di tanto in tanto, ha bisogno di scaricarsi, l'animale deve uscire di nuovo alla luce, tornare alla vita selvaggia…

Sono state le razze nobili ad aver lasciato, in tutti i luoghi percorsi, tracce del concetto di «barbaro»; anche la loro massima cultura tradisce ancora una coscienza di ciò e il relativo orgoglio (per esempio quando Pericle dice ai suoi Ateniesi, in quella famosa orazione funebre, «la nostra audacia si è aperta una strada per ogni terra e per ogni mare, erigendosi dovunque monumenti imperituri nel bene e nel male»).

Questa «audacia» delle razze nobili, folle, assurda, improvvisa, il modo con cui si manifesta, l'imprevedibilità e l'improbabilità stessa delle sue imprese […], la loro indifferenza e il disprezzo per la sicurezza, il corpo, la vita, le comodità, la loro terribile allegria, la profondità del piacere provato in ogni distruzione, in tutte le ebbrezze di vittoria e di crudeltà tutto questo trovò il suo riepilogo, per coloro che ne dovettero soffrire, nell'immagine del «barbaro»…” (GM)

“258.

La cosa essenziale in una buona e sana aristocrazia è però che essa non si senta funzione (sia della regalità, che della comunità), ma suo senso e massima giustificazione, che essa assuma perciò con tranquilla coscienza il sacrificio di innumerevoli esseri umani che devono essere oppressi e abbassati per amor suo a divenire uomini incompleti, schiavi, strumenti. La sua fede fondamentale deve essere appunto che la società non può esistere per amore della società, ma deve essere solo il sostegno e l'infrastruttura grazie ai quali una specie eletta di esseri è in grado di elevarsi al suo compito superiore e soprattutto a una superiore esistenza...” (ABM)

Il concetto per cui la schiavitù rientra nell’essenza di ogni civiltà ed è funzionale alla produzione degli spiriti liberi, la definizione del proletariato come “peste di ogni civiltà superiore, ecc. giustificano l’indignazione di D. Losurdo che, in Nietzsche, il ribelle aristocratico. Biografia intellettuale e bilancio critico (Bollati Boringhieri, Torino 2004), sostiene che il Superuomo di Nietzsche è un aristocratico radicale "il quale non esita a far proprio un programma eugenetico che si spinge sino alle soglie della teorizzazione del genocidio" (pag.1023), e quella di C. Preve che, su una rivista comunista (l’Ernesto)sostiene che le affermazioni di Nietzsche "farebbero vergognare... Evola".

Giungendo a conclusioni così radicali, Losurdo e Preve, a mio avviso, nell’intento di contrastare i tentativi operati da altri studiosi di sfumare l’orientamento “reazionario” di Nietzsche e addirittura di recuperalo nella cornice del pensiero di sinistra, si sono fatti prendere la mano dal loro essere intellettuali marxisti militanti.

Non si può ignorare, infatti, il ruolo svolto dalla sorella di Nietzsche, Elisabeth, nella gestione degli scritti di Nietzsche, che essa assume nel 1893 e mantiene fino al 1935, e soprattutto nella composizione tendenziosa de La volontà di potenza, che, non a caso, rappresenterà il punto di riferimento di alcuni ideologi nazisti, a partire da Alfred Baeumler (Nietzsche filosofo e politico, 1931). La famosa visita di Hitler all’Archivio di Nietzsche nel 1933 e il contributo economico di Mussolini al bilancio dello stesso sembrano comprovare la filiazione nietzschiana dell’ideologia nazi-fascista.

In realtà, Nietzsche è antinazionalista, antipopulista (disprezza il Volk), antirazzista (““No, non amiamo l’umanità: e d’altro canto siamo ben lontani dall’esser “tedeschi” abbastanza, nel senso in cui oggi ricorre la parola “tedesco” nell’uso comune, per metterci dalla parte del nazionalismo e dell’odio di razza…”) e filosemita (rompe con la sorella quando sposa un antisemita)

Non si può leggere e capire Nietzsche prescindendo dal fatto che il suo estremismo antitetico è sempre e comunque funzionale alla realizzazione del sogno di un’umanità “nobile”, critica, differenziata, capace di accettare quanto si dà di tragico nell’esistenza e di adempiere, nondimeno, il suo destino, vale a dire di portare avanti coraggiosamente il conflitto tra libertà e fato. L’utopia nietzschiana di sicuro è antiliberale, ma non fa riferimento ad una razza e ad una nazione, ma a singoli individui, che compaiono in ogni tempo e sotto ogni cielo, che sono portatori di un’istanza evolutiva che prefigura un nuovo mondo. La rivoluzione nietzschiana, per quanto possa apparire utopistica più di quella marxiana, fa capo ad un’evoluzione culturale e non alla soppressione fisica degli esseri malriusciti e tanto meno ad un genocidio. Questo solo dato impedisce di assumere Nietzsche come precursore del nazismo.

Che quella evoluzione, poi, postuli, secondo Nietzsche, l’esistenza di schiavi la cui oppressione è funzionale a permettere agli spiriti liberi di coltivare la loro vocazione disinteressandosi dei doveri inerenti la vita quotidiana, è un dato incontrovertibile. Ma questa affermazione ha un significato sociale più che politico: essa fa riferimento al fatto che Nietzsche ritiene incompatibile il lavoro con una libera attività intellettuale. Se l’intellettuale precursore di un Mondo nuovo e di una nuova Cultura, ha bisogno di tempo per dedicarsi al suo compito, la cui realizzazione è a beneficio di tutta l’umanità, è evidente che, per consentirgli di sopravvivere, qualcun altro deve lavorare per lui.

Nietzsche, insomma, rivendica il privilegio dei Signori che, prima della Rivoluzione francese, si astenevano dal lavoro. Egli peraltro, a differenza di essi, vive quel privilegio con una dedizione totale al suo compito. Una rivendicazione del genere, sotto il nazismo, che considerava il lavoro come un dovere etico di ogni cittadino nei confronti della Patria e della nazione, lo avrebbe fatto identificare come un dissidente ed un traditore.

4. Il sublime e lo scellerato

Se l’accusa rivolta a Nietzsche di proto-nazista è infondata, è fuor di dubbio che la sua genialità antitetica è sempre in bilico tra il sublime e lo “scellerato”. Non ci si sorprenda per quest’ultimo termine. Per motivi sui quali mi soffermerò ulteriormente, esso non sarebbe risultato né sgradevole né offensivo per l’autore, che in non poche circostanze rivendica apertamente il suo diritto ad essere duro e perfino crudele con gli uomini del suo tempo.

Ne La gaia scienza, per esempio, scrive:

La mia durezza

Debbo passare su cento gradini

debbo salire e vi sento gridare:

«Sei proprio duro, siamo forse di pietra?».

Debbo passare su cento gradini

e nessuno vuol essere gradino.”

Leggendo Nietzsche, è difficile non rimanere affascinati da una serie di intuizioni, di riflessioni e di analisi straordinarie, che ancora oggi consentono di assumerlo come precursore della psicoanalisi freudiane, dell’esistenzialismo novecentesco, del nichilismo ateo ma non pessimistico, della filosofia post-moderna, ecc.; come precursore, cioè, di un mondo disincantato e radicalmente laico, ma non avvilito né disperato, anzi aperto alla vita. Ciò nondimeno, il pensiero di Nietzsche è un diamante che, se spesso sfavilla, è anche capace di scalfire impietosamente l’uomo.

La “crudeltà” di Nietzsche si riconduce ad una visione del mondo del tutto disincantata:

“[Occorre proteggersi] da una vanità...: la pretesa che l'uomo sia il grande obiettivo segreto dell'evoluzione animale. L'uomo non è assolutamente il coronamento della creazione: ogni altro essere è, accanto a lui, allo stesso grado di perfezione... E affermando ciò già siamo eccessivi: l'uomo è, relativamente parlando, tra gli animali il meno riuscito, il più malato e quello più pericolosamente deviato dai propri istinti.” (AC XIV)

“L'uomo, un animale complesso, menzognero, artificioso e impenetrabile, estraneo agli altri animali meno per la sua forza che per l'astuzia e l'accortezza, ha inventato la buona coscienza, per godere, per una volta, la semplicità della propria anima.” (ABM)

E’ alla luce di questa visione del mondo che Nietzsche misura gli esseri umani a seconda che essi appaiono in grado di accettarla e di confrontarsi con essa o, viceversa, tendano a rifuggirla e a rimuoverla, bendandosi gli occhi con le più patetiche illusioni. Per questa via egli giunge a distinguere due tipi di esseri umani:

“Il problema che qui sollevo non è che cosa debba sostituire l'umanità nella successione delle specie (l'essere umano rappresenta un termine): piuttosto che tipo di essere umano si debba educare e auspicare, perché più valido, più degno di vivere e più sicuro del futuro.

Questo tipo di maggior valore è già esistito piuttosto spesso: ma come caso fortuito, un'eccezione, mai perché voluto. È stato invece il più temuto: finora ha costituito ciò che mette paura. E per paura è stato voluto, educato e ottenuto il tipo opposto: l'animale domestico, la bestia del gregge, l'insano animale umano, il cristiano... “ (AC III)

L’uomo comune, di fatto, ripone la sua salvezza nella pigra adesione alle opinioni pubbliche:

“1.

Un viaggiatore che aveva visto molti paesi e popoli e più continenti, interrogato su quale qualità degli uomini avesse ovunque ritrovato rispose: essi sono inclini alla pigrizia. A molti parrà che, più giustamente e più validamente, avrebbe potuto dire: sono tutti pavidi. Si nascondono dietro costumi e opinioni. Ogni uomo, in fondo, sa bene di essere al mondo solo per una volta, come un unicum, e che nessun caso, per quanto straordinario, riuscirà una seconda volta a mescolare insieme quella molteplicità così eccentricamente variopinta nell'unità che egli è; questo l'uomo lo sa, ma lo nasconde come una cattiva coscienza perché? Per paura del prossimo che esige la convenzione e in essa si nasconde.

Ma cosa costringe il singolo a temere il prossimo, a pensare e agire come il gregge, a non essere lieto di se stesso? Per alcuni, ma sono rari, forse il pudore. Per la grande maggioranza è poltroneria, indolenza, in breve quell'inclinazione alla pigrizia di cui il viaggiatore parlava. Egli ha ragione: gli uomini ancor prima che pavidi sono pigri e soprattutto temono gli incomodi che procurerebbe loro una nudità e una sincerità incondizionata...

Nella natura non c'è creatura più vuota e ripugnante dell'uomo che è sfuggito al suo genio e ora volge di soppiatto lo sguardo a destra e a sinistra, indietro e ovunque. Un tale uomo alla fine non lo si può neppure attaccare: è solo esteriorità senza nucleo, un marcio costume, pitturato e rigonfio, un fantasma agghindato che non può ispirare paura e tanto meno compassione. E se a ragione si dice del pigro che ammazza il tempo, allora ci si deve preoccupare sul serio che un tempo che pone la propria salvezza nelle opinioni pubbliche, e cioè nelle pigrizie private, sia ucciso una buona volta: venga, intendo dire, cancellato dalla storia della vera liberazione della vita.” (I3)

L’uomo superiore, invece, non ha bisogno di alcuna fede:

“Non lasciamoci ingannare: i grandi spiriti sono scettici... La forza, la libertà, dovute al vigore e a un eccesso di forza dello spirito, si dimostrano con scetticismo. Gli uomini di convinzione non arrivano affatto a considerare il principio di valore e di disvalore. Le convinzioni sono prigioni. Costoro non vedono sufficientemente lontano, non guardano sotto di sé: invece, perché si possa parlare di valore e di disvalore, bisogna vedere cinquecento convinzioni sotto di sé, dietro di sé... Uno spirito che vuole fare grandi cose, che vuole anche i mezzi per realizzarle, è necessariamente uno scettico. La libertà da ogni sorta di convinzioni è parte integrante della forza, come il saper guardare liberamente... La grande passione dello scettico, fondamento e potenza del proprio essere, ancora più illuminata, più dispotica di quanto sia egli stesso, prende al proprio servizio tutto il suo intelletto; lo rende intrepido; gli dà persino il coraggio di usare mezzi empi e, all'occorrenza, gli concede delle convinzioni. La convinzione come mezzo: si può raggiungere molto soltanto per mezzo di una convinzione. La grande passione necessita e si serve delle convinzioni, ma non si sottomette a esse, si riconosce sovrana.” (AC LIV)

La passione della conoscenza, di una conoscenza critica che non arretra di fronte a qualsivoglia verità e non ha bisogno di patetiche menzogne o di mistificazioni; - questo è il discrimine tra l’uomo comune e l’uomo superiore:

“Molto tempo fa sottolineai che le convinzioni sono per la verità nemiche più pericolose di quanto lo siano le bugie (Umano, troppo umano, I, af. 483). Questa volta vorrei porre la domanda decisiva: esiste, in generale un'opposizione tra la menzogna e la convinzione? Il mondo intero ritiene che vi sia, ma che cosa non crede il mondo intero? Ogni convinzione ha la sua storia, le sue forme originarie, i suoi tentativi, i suoi errori: diviene convinzione dopo che non è stata tale per lungo tempo e dopo che per un periodo ancora più lungo è stata tale a stento. Come? La menzogna non potrebbe trovarsi sotto tale forma embrionale di convinzione? Talvolta è necessario solo un cambiamento di persone: per il figlio diventa convinzione ciò che per il padre era ancora menzogna. Io definisco menzogna il non voler vedere certe cose che si vedono, il non voler vedere qualcosa così come si vede: se la menzogna abbia luogo davanti a dei testimoni o meno è del tutto irrilevante. La forma più comune di menzogna è quella che si fa a sé stessi: mentire agli altri è relativamente eccezionale.” (AC LV)

Nietzsche non comprende e di conseguenza non tollera la “debolezza” per cui gli esseri umani, in maggioranza, hanno bisogno, con i mezzi più vari, di celare a se stessi alcune verità inerenti la loro condizione esistenziale. Egli si impegna a restituire loro la consapevolezza di essere casuali, mediamente malfatti, presuntuosi e codardi al tempo stesso, inclini ad aggregarsi e ad imitare gli altri, a condividere e a coltivare tradizioni la cui genesi e il cui reale significato storico è loro del tutto ignoto, ad enfatizzare a tal punto la normalità, vale a dire la loro mediocrità, da perseguitare coloro che cercano, a qualunque prezzo, vie nuove di sviluppo dell’umano.

Egli odia letteralmente il senso comune, vale a dire l’insieme di convinzioni prodotte dalla culture e condivise dalla maggioranza della popolazione, che consentono ai più di vivere relativamente tranquilli, senza porsi inquietanti domande sulla loro condizione e sul loro destino. Odia il tradizionalismo, il conformismo, l’omologazione. Ama viceversa lo scetticismo radicale, il mettere in discussione tutte le verità acquisite, il ricostruire la loro genesi storica al fine di illuminarne la genealogia, che spesso pone di fronte a verità di tutt’altro segno da quelle sancite dalla tradizione.

Nietzsche, in breve, iscrive quasi tutta la cultura umana (il quasi, come vedremo, è da riferire al mondo della Grecia pre-classica) nell’ambito del pregiudizio, e non tollera che gli esseri umani preferiscano le tenebre alla luce.

Il suo disprezzo nei confronti dell’umanità comune, che è l’aspetto “scellerato” del suo pensiero, non può essere valutato adeguatamente prescindendo da una concezione eroica della vita:

“4.

Non può esservi per gli individui modo di vivere più bello che maturare per la morte e immolarsi nella battaglia per la giustizia e per l'amore.

Non si può essere felici, sinché tutti attorno a noi soffrono e si procurano sofferenza; non si può essere morali, sinché a regolare il corso delle cose umane stanno la violenza, l'inganno e l'ingiustizia; non si può neanche essere saggi, finché tutta l'umanità non si sia cimentata in una gara per la saggezza e non introduca nel modo più saggio l'individuo nella vita e nel sapere.

Come potremmo reggere a questo triplice senso di insufficienza, se già nella nostra lotta, nelle nostre aspirazioni e nel nostro soccombere non fossimo in grado di riconoscere qualcosa di sublime e di importante, e non imparassimo dalla tragedia a trovar piacere nel ritmo della grande passione e nel sacrificio per essa?” (I4)

Questa concezione sottende l’esperienza umana e intellettuale di Nietzsche, e dà ad essa un significato affatto particolare.

Nella misura in cui, infatti, egli ritiene che l’individuo da solo, con la forza della passione della conoscenza e dello scetticismo critico, possa giungere a vedere più in profondità di tutte le generazioni che lo hanno preceduto e di quella cui appartiene, può essere assunto come il pensatore che più di tutti gli altri ha contribuito a valorizzare il bisogno di opposizione/individuazione in quanto intrinseco alla natura umana.

Come accennato, mi attribuisco il merito di avere teorizzato tale bisogno e di avere definito la funzione psichica - l’Io antitetico come substruttura dell’Io - che consente ad esso di partecipare alla dinamica evolutiva della personalità, rimanendo attivo vita natural durante. Se è indubbio che tale teoria deve qualcosa al principio di individuazione di Jung, essa deve molto anche a Nietzsche.

Cercherò di documentare ulteriormente questo debito.

In questa introduzione al pensiero di Nietzsche, è però importante considerare che quel bisogno, fondamentale per affrancare l’individuo dalla crisalide culturale (il Super-io) che rappresenta l’“armatura” entro quale si edifica la personalità normalizzata, in quanto appartenente ad una tradizione e ad un determinato contesto storico-culturale, ha una modalità di espressione, evidente nel corso dell’adolescenza, che postula un estremismo antitetico.

Per affrancarsi dalla suggestione profonda esercitata sulla sua mente dagli adulti nei primi anni di vita, l’adolescente è spinto a criticarli, a squalificarli (fino al limite di ritenere che essi non capiscano nulla della vita), e a contestare gran parte dei valori che essi gli hanno trasmessi e che sono state interiorizzati. Naturalmente l’entità della crisi adolescenziale è correlata alla qualità dei valori in questione e/o alla loro corrispondenza alla vocazione ad essere personale, ma è direttamente proporzionale alla valenza oppositiva intrinseca al singolo individuo. Più tale valenza è intensa, più l’estremismo critico e demolitivo dell’adolescente è marcato.

La crisi adolescenziale dovrebbe durare, sulla carta, alcuni anni, alla fine dei quali, preso atto della raggiunta non influenzabilità da parte dell’ambiente e della sua indefinita libertà di pensare, di sentire e di agire, il soggetto dovrebbe dedicarsi alla fase construens della sua vita, dovrebbe cioè imboccare la via dell’individuazione, che postula di operare scelte positive dal punto di vista vocazionale, di definire obbiettivi significativi e di perseguirli con estrema determinazione.

L’individuazione, in pratica, si avvia nel momento in cui si affievolisce o si estingue l’opposizionismo antitetico, e il soggetto, affrancato dalla soggezione sociale cui è vissuto in precedenza, comincia a rendere ragione del suo essere e dei suoi comportamenti anzitutto a se stesso prima ancora che agli altri. Ciò gli consente, se necessario, di entrare in conflitto con il gruppo di appartenenza; se non necessario, egli, però, va liberamente per la sua strada.

E’ superfluo specificare che, in ogni società, in conseguenza del fatto che la maggioranza della popolazione viene al mondo con un corredo medio di potenzialità, predisposto naturalmente all’adattamento al mondo così com’è, parecchie crisi adolescenziali tendono ad abortire. Possono essere anche intense e prolungate, ma, quasi inesorabilmente, per la difficoltà individuale di mettere a fuoco un sistema di valori e un progetto di vita personale significativo, refluiscono poi in forme diverse di adesione conservatrice aii valori parentali o di omologazione ai valori dominanti a livello sociale.

Solo in alcuni casi, esse promuovono un’individuazione in senso proprio, vale a dire il mantenersi, per tutta la vita, di una tensione critica e pratica orientata verso un modo di essere in tutti i suoi aspetti partecipato soggettivamente e vissuto come realizzazione della propria vocazione ad essere.

L’esperienza di Nietzsche, dotato di un’indubbia genialità, si può fare rientrare senz’altro in questo ambito. Essa, però, è manifestamente caratterizzata dal mantenersi di un orientamento marcatamente antitetico che per un verso potenzia lo spirito critico, spingendolo a mettere in discussione tutte le tradizioni e le convenzioni, e, per un altro, lo distorce e lo aliena portandolo spesso sul registro della provocazione “scellerata”.

L’esplorazione del pensiero di Nietzsche non può prescindere da questi due aspetti - la genialità e il carattere costantemente antitetico della sua critica - che si intrecciano, si sommano e interagiscono tra loro con un nesso di continuità che rende oltremodo difficile definire un confine. La genialità assegna Nietzsche al novero dei Grandi Demistificatori: egli è il genio antitetico per eccellenza. La necessità di mantenere un contenzioso conflittuale perennemente aperto con il mondo, vale a dire il sospetto che tutta la cultura si sia edificata solo per allontanare l’uomo dalla verità della sua condizione e opprimerlo sotto il peso di falsi valori, non è però solo espressione di un vivace spirito critico: essa, come vedremo, attesta anche paradossalmente un fallimento dell’individuazione, nella misura attesta la pressione di un Io antitetico rimasto attestato su di un registro opposizionistico.

Si può forse valutare meglio questo aspetto comparando l’esperienza di Marx e quella di Nietzsche. La critica di Marx nei confronti dei capitalisti e dei loro corifei raggiunge spesso livelli di indignazione “biblica”, di sarcasmo e di disprezzo. Qua e là, però, affiora anche la pietas per il condizionamento che gli uomini subiscono in conseguenza della loro appartenenza storica, come quando, per esempio, egli sottolinea che la sua critica del capitalista riguarda il ruolo che egli svolge e non la persone, aggiungendo, inoltre, che egli stesso è una pedina dell’ingranaggio.

Il disprezzo di Nietzsche, viceversa, quando parla dei “normali”, degli uomini del suo tempo è costante, e in alcuni momenti assume un timbro volutamente crudele.

L’intento di queste letture è differenziare il più nitidamente possibile i due aspetti cui si è fatto cenno, vale a dire sceverare la genialità di Nietzsche da una gramigna di matrice emozionale che, per alcuni aspetti, la soffoca e la distorce, anche se essa, come si è detto, si riconduce ad una concezione nobile dell’esperienza umana, di come l’uomo dovrebbe essere.

L’intento è ambizioso. In primo luogo, esso contrasta con gran parte dell’abbondantissima letteratura su Nietzsche, che quegli aspetti o non li riconosce o li valorizza unilateralmente (con l’effetto di “mitizzare” il suo pensiero o di ricondurlo brutalmente all’espressione di una mente malata).

In secondo luogo, esso è reso estremamente difficoltoso dai testi nietzschiani che sono in gran parte composti di aforismi (selezionati peraltro a partire da un materiale a tal punto abbondante che i frammenti postumi, mai pubblicati da Nietzsche, sono quantitativamente più abbondanti di quelli pubblicati). Se si fa eccezione per i filosofi presocratici, i cui testi sono giunti a noi sotto forma di frammenti ma solo perché il contesto di discorso cui appartenevano è andato perduto, e per alcuni rari pensatori moderni (Montaigne, Pascal), Nietzsche è l’unico filosofo che ha adottato quasi sistematicamente lo stile aforismatico. Ciò significa che, in una stessa pagina, si può trovare l’espressione dei due aspetti cui ho fatto cenno.

E’ agevole fornire un esempio a riguardo. In una pagina di Ecce homo, Nietzsche assegna se stesso al novero degli esseri benriusciti e ne fornisce un’efficace descrizione:

“Da cosa, in fondo, si riconosce l'essere benriuscito? Dal fatto che un uomo benriuscito fa bene ai nostri sensi: dal fatto ch'è tagliato in un legno duro, tenero e profumato al tempo stesso. Gli piace solo ciò che gli si conviene; il suo piacere, il suo desiderio cessano non appena la misura di ciò che conviene viene superata. Egli indovina i rimedi contro le ferite, utilizza a suo vantaggio le disavventure; ciò che non lo uccide lo rende più forte. Raccoglie istintivamente, di tutto ciò che vede, ode, vive, la sua somma: è un principio selettivo, elimina molte cose. E’ sempre nella sua società, sia che tratti con libri, uomini o paesaggi: onora in quanto sceglie, in quanto concede, in quanto dà fiducia. Reagisce lentamente ad ogni tipo di stimoli; con quella lentezza alimentata in lui da una lunga prudenza e da una deliberata fierezza esamina la sollecitazione che giunge, è ben lontano dall’andarle incontro. Non crede alla «disgrazia», né alla «colpa»: sa chiudere con sé, con gli altri, sa dimenticare, è forte abbastanza perché tutto debba venire a suo vantaggio. Ebbene, io sono l'opposto di un décadent: poiché ho descritto appunto me stesso.”

Poco dopo, aggiunge:

“Io sono un nobiluomo polacco pur sang, in cui non c'è neppure una goccia di sangue cattivo e tantomeno di sangue tedesco. Se cerco la più profonda antitesi di me stesso, l'incalcolabile volgarità degli istinti, trovo sempre mia madre e mia sorella, credermi imparentato con una tale canaille sarebbe una bestemmia contro la mia divinità. Il trattamento che ricevo, fino a questo momento, da parte di mia madre e di mia sorella m'ispira un indicibile orrore: qui è all'opera una perfetta macchina infernale, con infallibile sicurezza sul momento in cui si può ferire a sangue nei miei momenti più alti... perché allora manca ogni forza per difendersi contro questo velenoso vermicaio... La contiguità fisiologica rende possibile una tale disharmonia praestabilita... Ma io confesso che l'obiezione più profonda contro l'«eterno ritorno», il mio pensiero propriamente abissale, sono sempre la madre e la sorella.”

E’ senz’altro vero che la madre e la sorella di Nietzsche erano bigotte, assolutamente incapaci di capire la sua grandezza e critiche nei confronti dei suoi “eccessi” teorici. E’ senz’altro vero che la sorella di Nietzsche ha utilizzato il lascito degli scritti postumi, tentando di epurarlo di quegli eccessi fino al punto di ricostruire un pensiero non troppo antitetico (soprattutto sul piano religioso).

Non è meno vero, però, che, in alcuni momenti di particolare difficoltà, è ad esse che Nietzsche si rivolgeva, e che esse lo hanno assistito nei lunghi dieci anni di malattia mentale che hanno totalmente interrotto la sua creatività, inducendo un’estrema regressione psicotica. Posta l’incompatibilità della sua visione del mondo con quella della madre e della sorella, parlare di entrambel come “canaille” e “velenoso vermicaio” dà la misura di un essere tutt’altro che incline a smaltire le ferite, a dimenticare e a rivolgere a suo vantaggio le circostanze negative della vita.

L’epigrafe di questa lettura va presa seriamente. Come forse in pochi altri pensatori, la vita interiore di Nietzsche e il suo pensiero risultano strettamente intrecciati e interagenti tra loro. Prima di procedere nell’analisi del pensiero di Nietzsche, è necessario preliminarmente approfondire questo intreccio, partendo dal problema del rapporto e del confine tra genialità e follia.

5. Genialità e psicopatologia

A riguardo, come si è detto, si sono definiti nel corso del tempo due diversi orientamenti. Alcuni autori hanno identificato nel pensiero di Nietzsche l’espressione di una mente malata e sono giunti a sostenere che solo menti altrettanto malate possono apprezzarlo e coltivarlo.

Non ci vuole molto a capire che tale orientamento è facilmente contestabile. Esso, infatti, reifica una rigida distinzione tra normalità e anormalità che, oggi, si può ritenere priva di senso, e che, adottata alla lettera, invaliderebbe l’opera di un numero esorbitante di geni (per esempio van Gogh, Kafka, ecc.).

All’estremo opposto, altri autori negano che sussista una qualsivoglia relazione tra la personalità di Nietzsche e il suo pensiero. Tra questi autori c’è Mazzino Montinari, cui si deve, con Giorgio Colli, l’impresa di avere fornito l’edizione delle opere di Nietzsche accreditata universalmente di un’estrema fedeltà filologica. E’ vero che, di recente, Domenico Losurdo -, in un saggio già ciatato, ha messo in dubbio il rigore di questa impresa, stigmatizzando il tentativo secondo lui operato dai due studiosi italiani di ammortizzare con artifici linguistici le asprezze terminologiche e concettuali del pensiero nietzscheano. Per ora, possiamo trascurare questo dibattito sostanzialmente specialistico (anche se non privo di significato) e rivolgerci al libro (Che cosa ha detto Nietzsche, prima edizione Ubaldini 1975, ultima Adelphi, 2003) al quale Montinari ha consegnato le sue riflessioni su Nietzsche. Egli scrive:

"Ai fini di una storia della vita di Nietzsche, il chiarimento dei dettagli biografici, il reperimento di testi sconosciuti, la correzione di certe falsificazioni debbono essere sorretti da una premessa di metodo (che del resto non vale solo per la biografia di Nietzsche). Qualsiasi pretesa di stabilire una sorta di nesso causale tra le vicende della vita di Nietzsche e il suo pensiero è destinata al fallimento: si ha quasi l'impressione che l'immagine di Nietzsche si renda sempre più inafferrabile ogni volta che nuovi dati vengono alla luce, ma questa inafferrabilità può essere spiegata non appena si sia data una risposta alla domanda: che cosa è veramente la vita di Nietzsche?

La vita di Nietzsche rispondiamo - sono i suoi pensieri, i suoi libri. Nietzsche è un esempio raro di concentrazione mentale, di esercizio crudele e continuo dell'intelletto, di interiorizzazione e sublimazione di esperienze personali, dalle più vistose alle più insignificanti, di riduzione di ciò che comunemente si chiama «vita» a «spirito»: quest'ultima parola intesa nel senso che ha il tedesco Geist, ossia mente-ragione-intelletto, anche in quanto interiorità o spiritualità (ma non misticismo o Seele, anima). Che cosa è dunque lo spirito, che cosa è Geist per Nietzsche? «Spirito è la vita che taglia nella propria carne; nel suo patire essa accresce il suo sapere ... Voi conoscete dello spirito solo le scintille: ma non avete occhi per l'incudine che è lo spirito e nemmeno per la crudeltà del maglio! » (Così parlò Zarathustra, II, « Dei saggi illustri »).

A patto di non dimenticare mai questa caratteristica essenziale di Nietzsche, la ricerca dei particolari biografici può evitare il pericolo della micrologia (che sopravvaluta risultati faticosamente raggiunti) e diventare significativa, anzi deve essere radicale e «impietosa». Allora si vedrà anche come per Nietzsche ogni pensiero fosse un evento, ogni libro pubblicato un «superamento». Nietzsche scriveva per se stesso, scrivere voleva dire per lui vivere. Ciò si può cogliere nei suoi taccuini intimi, che sono con poche eccezioni (queste si riducono ad alcune decine di pagine in confronto a migliaia) dedicati alla registrazione continua ed «espressiva», talora perfino già compiuta nella formulazione che egli poi pubblicherà, di meditazioni filosofiche, intuizioni psicologiche, osservazioni moralistiche, il cui spunto esteriore è difficilmente ricostruibile - e d'altra parte il loro oggetto non è Nietzsche stesso, almeno nel senso in cui poteva essere oggetto della propria introspezione uno Stendhal nei suoi diari.

Questi taccuini sono la registrazione già mediata, già filtrata attraverso il mezzo dell'espressione, della scrittura, di eventi interiorizzati: l'incudine da cui scaturiscono le scintille degli aforismi nietzscheani è nascosta, e della crudeltà del maglio si può avere una qualche immagine attraverso la «crudeltà» lucida e perfetta della formulazione.

Per realizzarsi nella fisionomia che abbiamo descritto, Nietzsche recise uno a uno tutti i vincoli con la vita comune, o almeno volle ridurli al minimo, finendo per essere, lui, l'esaltatore della «vita», sempre meno «vita», sempre più «spirito»."(p. 17-18)

E’ sorprendente che uno studioso della levatura di Montinari che, tra l’altro, nel suo tragitto giovanile è stato anche un marxista militante, cada, in virtù di una passione dichiarata per Nietzsche, nella trappola di un’interpretazione idealistica e romantica al tempo stesso della sua opera. La vita di Nietzsche sono i suoi pensieri, i suoi libri, prodotti in virtù di una concentrazione mentale e di una dedizione totale alla conoscenza? E’ senz’altro vero. Rimane il fatto però che la mente di un genio vive nel suo tempo e, tanto più se essa è creativa, la matrice della sua attività va ricondotta a livello inconscio laddove il soggettivo e il simbolico si intrecciano indissolubilmente.

A quest’ultimo riguardo, oggi si può sostenere che il confine tra la psicopatologia e la creatività è labile. Se un poeta si rivolge alla luna chiamandola muta compagna della sua solitudine egli oggettiva, attraverso i simboli linguistici, un pensiero antropomorfico. Se viceversa un soggetto psicotico tende le braccia verso la luna come a volerla toccare, il contenuto di pensiero è identico, ma la modalità con cui esso si esprime è delirante.

Il nodo della questione verte ovviamente sul significato che si dà alla psicopatologia. Se, infatti, come spesso è accaduto e accade, la dimensione psicopatologica viene ricondotta ad un disturbo cerebrale, ad una malattia che interferisce con il normale funzionamento della mente e porta il soggetto sul terreno dell’irrazionalità, dell’assurdità, del non senso, riesce evidente che tale diagnosi invalida per molti aspetti l’opera e il pensiero di un autore, tanto più se si tratta di un filosofo.

In ambito letterario, infatti, si ammette che la "pazzia" possa convivere, come per esempio nel caso degli ultimi scritti di Rousseau, con una creatività che viene interferita ma non azzerata. In ambito filosofico, invece, come peraltro in quello scientifico, laddove, sia pure con strumenti diversi, è in gioco la ricerca della "Verità", il riferimento alla "follia" dell’autore incide negativamente nella valutazione della sua opera, toglie ad essa senso.

L’avversione di Montanari nei confronti dei ricorrenti tentativi di identificare nel pensiero di Nietzsche l’espressione di una mente malata è, per questo aspetto, del tutto comprensibile e condivisibile.

La psicopatologia, però, può essere intesa in tutt’altro modo, vale a dire come l’espressione di un mondo interiore complesso strutturato in maniera tale che, per un verso, produce simbolizzazioni private, espressive di conflitti interiori non risolti, e, per un altro, promuove simbolizzazioni creative di valore universale. Il confine tra determinismo psicopatologico e libertà creativa è ovviamente labile, sfumato, ma di esso occorre tenere conto quando si analizzano le opere di un genio sofferente e, per alcuni aspetti, infelice.

Cos’è che rende poco valida la distinzione di Montinari tra biografia spirituale o intellettuale e psicopatologia? Paradossalmente, gli stessi dati che egli espone nel saggio che segue passo per passo la vita di Nietzsche e la sua produzione filosofica, fino alla catastrofe finale, l’affondamento nel buio della follia.

6. Il disagio psichico e psicosomatico di Nietzsche

I dati in questione, ai quali occorrerebbe aggiungerne numerosi altri, dato che l’esperienza umana di Nietzsche è stata sottesa, fin da epoca precoce, da una sintomatologia psicosomatica pressoché continua, possono essere raccolti sotto alcune voci.

Sulla famiglia e l’educazione religiosa:

"Dal padre Nietzsche ereditò la passione per la musica, il senso religioso del dovere, l'alacrità e la diligenza nel lavoro, la forza di volontà, ma anche un sistema nervoso molto eccitabile, esposto a stati di depressione e di esaltazione. Probabilmente anche le forti emicranie di cui Nietzsche soffrì fin dall'adolescenza sono un retaggio paterno."(p. 20)

"Nietzsche medesimo soffrì durante tutta la sua vita cosciente (in particolare a partire dal 1873) di attacchi di mal di testa e di vomito, che duravano fino a tre giorni di seguito, ma, se può darsi che egli abbia ereditato dal padre l'emicrania che lo torturava, non si può certo affermare che vi sia un nesso tra le manifestazioni dell'emicrania e quelle, pur analoghe, della malattia al cervello del padre, così come non è possibile stabilire un nesso tra la malattia finali di Nietzsche e quella che portò il padre alla tomba. Egli tuttavia, quando gli attacchi di emicrania giunsero al culmine (nel 1879), pensò di poter morire alla stessa maniera del padre.” (p. 22)

"L'educazione che la giovane vedova - Franziska Nietzsche nata Oehler impartì ai due figli, aiutata dalle altre donne di casa e dai numerosi parenti, quasi tutti pastori protestanti, fu rigorosamente e insieme ingenuamente religiosa. Franziska aveva, come il figlio, un temperamento violento e impetuoso, la sua natura profondamente sana era all'opposto della «morbidità» del defunto marito, la sua fede era solo positiva, la sua fiducia in Dio incrollabile. Ella cercò sempre di impedire al figlio di essere «diverso dagli altri» e di dedicarsi esclusivamente alle letture, alla poesia e alla musica; a lei Nietzsche deve l'incitamento a una vita sana, agli esercizi fisici.

Sull'orma profonda impressa nel carattere di Nietzsche dall'educazione religiosa di questi anni non è possibile aver dubbi. «Da bambino visto Iddio nella sua gloria» scrive ancora, in una nota intima, l'autore di Umano, troppo umano nel 1878 (FP, 28[7}). E vero che egli, subito dopo, aggiunge: «Come parente di pastori protestanti, compresi ben presto la loro limitatezza intellettuale e psichica», ma anche: «la loro energia operosa, il loro orgoglio, il loro senso del decoro » (ibid.). Non vi è dubbio che la reazione del giovane Nietzsche dovette cominciare abbastanza presto; essa nacque però sul terreno stesso della pietà familiare. Anche Nietzsche sembra alludere a un nesso sottile tra il suo ambiente, che è quello della religiosità luterana, e la libertà di pensiero, in un famoso aforisma (il 324) delle Opinioni e sentenze diverse (1879): «La regione più pericolosa della Germania è la Sassonia-Turingia [dove Nietzsche era nato e cresciuto]: in nessun luogo vi è più attività intellettuale e più conoscenza degli uomini, insieme a libertà dello spirito, e tutto è così modestamente nascosto dal brutto dialetto e dalla ossequiosità zelante di questa popolazione, che quasi non ci si accorge di aver qui a che fare coi sergenti intellettuali della Germania e coi suoi maestri nel bene e nel male». Infatti, che cosa troviamo in quel brevissimo cenno autobiografico che ci parla della visione della gloria di Dio? Appunto la registrazione della prima Freigeisterei di Nietzsche: «Primo scritto filosofico sulla nascita del diavolo (Dio pensa se stesso, ma può farlo solo rappresentandosi il suo contrario) » (FP, 28[7], 1878). Nella Prefazione (par. 3) della Genealogia della morale (1887), Nietzsche ritorna ancora sul suo primo «scritto filosofico » che a quanto pare è andato perduto - dicendo di averlo composto a tredici anni.

La formazione del giovane Nietzsche fu dunque dominata da una religiosità che ha il suo nucleo nel rapporto diretto dell'individuo con la divinità e che, proprio per questo, lo avvia verso avventure spirituali nella meditazione continua su Dio, la natura, gli uomini."(p. 28-29)

Sulla malinconia adolescenziale

"Negli appunti intimi dell'epoca di Pforta, alla descrizione minuziosa della vita collettiva degli allievi, ai racconti delle gite e dei gai divertimenti comuni fa riscontro una profonda malinconia d'adolescente, che Nietzsche ricorda ancora molti anni dopo. 1875 (FP, 11 [11]): «A Pforta, quando i campi erano deserti e giungeva l'autunno»; 1878 (FP, 28[7}): «Malinconico pomeriggio - funzione religiosa nella cappella di Pforta, lontani suoni d'organo». «Nella mia anima si desta il sentimento amaro dell'autunno,» scrive Nietzsche quindicenne nel suo diario di Pforta « mi ricordo un giorno dell'anno scorso, che ero ancora a Naumburg. Ero andato a passeggiare da solo alla Porta Santa Maria; il vento sfiorava le stoppie sui campi deserti, le foglie cadevano a terra e ciò mi trafiggeva dolorosamente: la primavera fiorente, l'ardente estate - sono finite!

Per sempre finite! Presto la neve bianca seppellirà la natura che muore!» (Opere, I, i, 84). E, pochi giorni dopo: «Dio, perché mi hai dato un cuore siffatto, che io debba rallegrarmi e giubilare insieme alla natura? Non riesco a sopportarlo. Già il sole non invia più i suoi raggi caldi; i campi sono desolatamente deserti e gli uccelli affamati fanno provvista per l'inverno. Per l'inverno! Così vicini tra loro sono i confini della gioia e della sofferenza, ma è il passaggio dall'una all'altra che mi stritola il cuore ... Natura, tu hai cinto di amaro dolore il mio cuore. Ultima rosa! Piangendo, ti vedo fiorire e perire, con te io vivo e perisco, con te un giorno risorgerò! Il sogno soave di questa vita non può sprofondare per sempre; un giorno mi ristorerò di nuovo al respiro della primavera, alla sua sorgente spumeggiante!»"(p. 39-40)

Sulla solitudine

"«... io sono la solitudine fatta uomo...» (FP, 25[7], 1888-1889) - questa è la definizione che Nietzsche ha dato di se stesso pochi giorni prima che la demenza lo sottraesse a ogni contatto cosciente con il mondo. «In età assurdamente precoce, a sette anni, sapevo già che mai voce d'uomo mi avrebbe raggiunto...» dice ancora Nietzsche in Ecce homo («Perché sono così accorto», 10), correggendo poi questa malinconica constatazione con la sinistra euforia della catastrofe imminente. Nessuno, fino ad oggi, ha saputo dire quale portata avessero le parole con cui Nietzsche fissava alla «assurda età» di sette anni la coscienza di essere solo. Noi sappiamo che egli si riferiva a un episodio reale dell'infanzia, già fermato in due appunti autobiografici, che si chiariscono a vicenda e che risalgono al 1875 e al 1878, dunque rispettivamente a tredici e a dieci anni prima di Ecce homo e della demenza; 1875 (FP, 11 [11]): «... a Pobles, quando piansi sull'infanzia perduta»; 1878 (FP, 28[8]): «A sette anni-sentita la perdita dell'infanzia». A Pobles, un altro villaggio della Sassonia dove allora viveva il nonno materno David Ernst Oehler, anche lui pastore protestante, Nietzsche fanciullo era solito trascorrere lietamente le sue vacanze, come egli racconta ripetutamente nelle sue prime autobiografie, nelle quali però si cercherebbe invano una sola parola sulla «perdita dell'infanzia» sentita all'età di sette anni, sebbene vi siano ricordati minuziosamente molti altri episodi. Tale riserbo, perfino con se stesso, aumenta ancor più il valore delle testimonianze del 1875, 1878, 1888. Nel 1875, ma specialmente nel 1878, queste note non si trovano isolate, anzi si accompagnano ad altre reminiscenze dell'infanzia e finiscono poi per trovare una eco attenuata, e come sempre spersonalizzata, nell'aforisma 168 del Viandante e la sua ombra: «... la beatitudine dell'infanzia e la perdita dell'infanzia, il senso di ciò che è irrecuperabile come il possesso più prezioso.… »."(p. 26-27)

"Sull'ultimo incontro con Nietzsche, Rohde scrisse a Overbeck: «... un'atmosfera indescrivibile di estraneità, qualcosa per me di assolutamente sinistro, lo circondava. Vi era in lui qualcosa che non gli conoscevo e - ancora - non c'era più molto di ciò che lo aveva contraddistinto in passato. Come se venisse da una contrada dove nessun altro abita» (24 gennaio 1889, in Franz Overbeck-Erwin Rohde. Briefwechsel, 1990, p. 135)."(p. 131)

La vita come ricerca

"In una lettera alla sorella del giugno 1865, Nietzsche espone con pacatezza i suoi argomenti, che culminano in queste parole: «Forse che la nostra ricerca ha come fine la tranquillità, la pace, la felicità? No, noi cerchiamo solo la verità, anche la più terribile e repellente ... Qui si dividono le vie degli uomini: se vuoi la pace dell'anima e la felicità, credi, se vuoi essere un seguace della verità, cerca» (Lettera a E. Nietzsche, 11 giugno 1865)."(p. 50)

"Il giovane deve dapprima precipitare in quello stato di stupore che è stato definito il "pathos filosofico per eccellenza". Dopo che la vita gli si è dissolta davanti in una serie di enigmi, egli deve consapevolmente, ma con rigorosa rassegnazione, attenersi a ciò che è possibile sapere; e fare una scelta in questo vasto campo, conformemente alle capacità» (ibid., 297; p. 162)."(p. 58)

Vissuti singolari e sogni

"Proprio a questo periodo infatti primi del 1869 - risale la registrazione di qualcosa che è stato interpretato come «allucinazione». Nietzsche scrive in un suo quaderno: «Ciò che temo non è la figura spaventosa dietro la mia sedia, bensì la sua voce; e anche, non le parole, ma il tono orridamente inarticolato e disumano di quella figura. Almeno parlasse come parlano gli uomini» (BAW, V, 205; La mia vita, p. 181). Il quaderno in cui si trovano queste righe è pieno di normali annotazioni filologiche, e non è vero - come sembrano credere coloro che per primi lo hanno pubblicato (nel 1940) - che la scrittura denunci una particolare eccitazione. La grafia è identica a quella degli altri appunti; perfino la punteggiatura - altre volte imperfetta e sommaria - è qui ineccepibile. Nietzsche, dunque, ha descritto con estremo sangue freddo qualcosa che gli stava accadendo? Ma, perfino in questo caso, ricorrere alla psicopatologia serve a poco, e il termine «allucinazione» nulla aggiunge al significato, certo non pienamente afferrabile, di queste righe sinistre e misteriose. Forse può aiutarci il ricordare che alcuni anni dopo, e in un contesto di significato afferrabile, Nietzsche ha parlato della «voce della storia» e ha scritto (citando il monologo notturno di Faust): «Visione spaventevole! Ahi, non ti sopporto!» (cfr. FP, 5[194], primavera 1875 e Umano, troppo umano, I, af. 233)."(p. 74)

"Dei suoi appunti riguardanti l'infanzia abbiamo già avuto occasione di parlare. Nietzsche ricorda la religiosità e i giuochi della fanciullezza, i momenti felici della giovinezza. Ma pensa di avere avuto un'educazione sbagliata, di essere stato sovraccaricato di elementi estranei al suo carattere che ora «si disvela». «Io sto scoprendo me stesso» egli scrive (FP, 28[16], 1878). I suoi dolori devono essere utili agli altri, come «l'esecuzione di un delinquente» (28 [21]); egli vuole «aggiogare all'aratro la malattia» (28[30]). La cura contro il pessimismo consiste nella decisione di «ingoiare il rospo», che è la negatività dell'esistenza. Ciò spiega il continuo ritornare di questo enigmatico appunto: «sogno del rospo» (28[42]), un sogno risalente ai primi anni di Basilea, che - come per caso - ci è stato tramandato nel racconto di una delle sue conoscenti: «... ho sognato che la mia mano, che avevo appoggiato sul tavolo, aveva improvvisamente assunto un'epidermide vitrea, trasparente; potevo vederne chiaramente l'ossatura, i tessuti e il giuoco dei muscoli. D'un tratto scorsi un grosso rospo accovacciato sulla mia mano e provai contemporaneamente una suggestione irresistibile a inghiottire la bestia. Superai la mia atroce ripugnanza e lo ingollai a forza» (C.A. Bernoulli, 1908, vol. I, p. 72)."(p. 99)

Sofferenze psichiche

"Nelle lettere a Overbeck troviamo altresì la traccia delle gravi sofferenze che Nietzsche ebbe a sopportare in questo periodo: gli attacchi del suo male (che duravano fino a tre giorni con atroci dolori di testa e vomito) si alternavano a periodi di euforia, di creatività intellettuale."(p. 113)

"Dalle lettere dell'agosto 1881 si percepisce euforia e, complemento inevitabile, prostrazione. Durante quell'estate Nietzsche ha sofferto molto. «Sum in puncto desperationis. Dolor vincit vitam voluntatemque. O quos menses, qualem aestatem habui!» scrive egli, il 18 settembre 1881, a Overbeck."(p. 118)

"L'oggetto della prima predicazione di Zarathustra non è l'eterno ritorno, bensì il superuomo. Anche nella Gaia scienza non si fa parola del superuomo, né se ne trova traccia nei manoscritti immediatamente precedenti la stesura del primo Zarathustra. Questa nuova idea va dunque localizzata nell'inverno 1882-1883: l'inverno nel quale Nietzsche è preda di gravi sofferenze psichiche, in rotta con la famiglia, tormentato dal risentimento verso Lou e Rée e più ancora verso se stesso, un inverno «alle soglie del suicidio». In questo inverno è nato il superuomo.

Nel dicembre del 1882 Nietzsche, nel momento culminante della crisi, scrive per sé: «Io non voglio la vita di nuovo. Come ho potuto sopportarla? Producendo. Che cosa fa che io ne sopporti la vista? La visione del superuomo, il quale dice di sì alla vita. Anche io ho tentato - ahimè!» (p. 124)

"Uno stato di esaltazione si impadronisce di Nietzsche. D'ora in poi egli non conosce più misura, tanto che aggiunge all'Anticristo anche una «Legge contro il cristianesimo » così introdotta: «Data nel giorno della salvezza, nel primo giorno dell'anno uno (- il 30 settembre 1888 della falsa cronologia)». Se si leggono le dichiarazioni di Nietzsche sulla sua opera, non si afferra il significato storico-critico dell'Anticristo, che pure - come vide bene più tardi Franz Overbeck - conteneva alcuni pezzi di bravura, come la psicologia del redentore e quella dell'apostolo Paolo, la ricostruzione storica delle origini del movimento cristiano, l'analisi della fraus religiosa. Ecce homo nasce in questo stato di euforia (distaccandosi da un capitolo che Nietzsche aveva aggiunto al Crepuscolo degli idoli), a partire dalla metà di ottobre 1888. Nei quaderni di Nietzsche si trovano ancora alcune annotazioni per un altro libro della Trasvalutazione: «L'immoralista». Ma questo lavoro è interrotto appunto da Ecce homo, finché Nietzsche, in una lettera a Brandes del 20 novembre, non dichiara di avere già scritto tutta la Trasvalutazione, identificando con essa L'anticristo. Anche a Paul Deussen Nietzsche scrive: «La mia vita giunge ora al suo culmine: ancora un paio d'anni, e la terra trema, colpita da una folgore immane. Io ti giuro che ho la forza di cambiare il modo di contare gli anni. - Nulla di quanto oggi sussiste rimane in piedi, io sono più dinamite che uomo. La mia "Trasvalutazione di tutti i valori", sotto il titolo principale L'anticristo, è pronta» (26 novembre 1888)."(p. 162)

"A partire dalla primavera del 1888 - cioè dai primi giorni del soggiorno torinese - si avverte in tutto quanto Nietzsche scrive, anche nelle sue lettere, una tensione psichica indicibile, che si manifesta anche come euforia. La malattia ha cominciato la sua opera di devastazione, e solo per queste ultime manifestazioni di Nietzsche si potrà supporre un'influenza della malattia sul suo pensiero, benché mostrare in concreto dove e quando cominci la demenza, finché Nietzsche è padrone dell'espressione sia impresa quasi sempre disperata."(p. 171)

Isolare la follia finale di Nietzsche dall’insieme della sua vita, e ipotizzare che essa abbia inciso solo sulle opere immediatamente precedenti la catastrofe mentale, non si accorda molto con i dati biografici, che attestano un disagio psico-somatico precoce, ricorrente e progressivamente più intenso. C’è un’alternativa, però: ricostruire una biografia interiore di Nietzsche che consenta di comprendere il suo dramma nel quale la creatività e le dinamiche psicopatologiche risultano strettamente intrecciate.

7. La psicobiografia dinamica di Nietzsche (1)

L’introversione di Nietzsche, su cui tornerò ulteriormente, è un dato di fatto inconfutabile. A 14 anni egli scrive: "Alla mia giovane età avevo già sperimentato molto dolore e tanti affanni, e non ero vivace e sfrenato come sono di solito i ragazzi. I miei compagni solevano canzonarmi per questa mia gravità. Ma ciò non accadde soltanto alla scuola elementare, no, anche in seguito, all'istituto e perfino al liceo. Fin da bambino io ricercavo la solitudine, e mi trovavo meglio là dove potevo abbandonarmi indisturbato a me stesso." (SA)

Il “molto dolore” è riferito a due lutti precoci: la morte prematura del padre, nel 1849, e quella repentina del fratellino Joseph, nel 1850. Il venire meno del capofamiglia comporta anche il distacco dall’ambiente originario campestre, congeniale alla natura di sognatore del piccolo Nietzsche:

“Se nell'anima conservo ogni immagine, quella che meno d'ogni altra potrò dimenticare è la familiare canonica: la reco impressa nello spirito a tratti indelebili. La casa era stata costruita da poco, nel 1820, e si trovava perciò in ottimo stato. Alcuni gradini portavano al pianterreno. Ricordo ancora lo studio, al piano superiore. Le file di libri, molti dei quali illustrati, le pergamene, rendevano quel luogo uno dei miei soggiorni prediletti. Dietro la casa si stendeva il frutteto e il prato. Di solito in primavera questo terreno era in parte inondato, e allora soleva riempirsi d'acqua anche la cantina. Davanti all'abitazione si trovava la corte, con i granai e le stalle, e questa dava sul giardino. Sotto i pergolati e sulle panchine trascorrevo quasi tutto il mio tempo. Al di là della siepe verdeggiante si trovavano i quattro stagni, circondati da salici a cespuglio. Passeggiare tra quei laghetti, contemplare i pesciolini guizzanti e i raggi dei sole che giocavano sugli specchi d'acqua era il mio piacere più grande.” (SA)

Rievocando la sua fanciullezza, Nietzsche scrive:

“La pace e la quiete che spirano nella dimora di un sacerdote impressero le loro tracce profonde e indelebili sul mio animo, così come per esperienza vediamo che le prime impressioni del cuore sono le più durature.” (SA)

Naumburg, nella quale egli si trasferisce con la madre e la sorella, è una piccola città, che pone però problemi di adattamento:

“Per noi che eravamo vissuti tanto tempo in campagna la vita in città era insostenibile. Per questo evitavamo le strade opprimenti e cercavamo l'aria aperta, come un uccello fugge dalla gabbia.” (SA)

Per il piccolo Nietzsche, che vive circondato da sole donne (la madre, la sorella e due zie) i rimedi ai dolori della vita sono l’abbandono alla natura, l’instaurarsi del rapporto con due “amici del cuore” (“Sì, possedere dei veri amici è cosa nobile e sublime” SA), la scoperta della poesia e della musica, e la religione.

Come accade a molti soggetti introversi in fase evolutiva, l’orientamento originario di Nietzsche è sostanzialmente mistico. Educato alla fede protestante, egli la vive con una partecipazione intensa e commovente. A tredici anni, scrive:

“Il giorno dell'Ascensione ero entrato nel Duomo e avevo ascoltato il sublime coro del Messiah: l'Alleluia! Mi sentivo spinto a unirmi al canto, che mi sembrava il coro di giubilo degli angeli accompagnanti con la loro voce l'ascesa di Gesù Cristo in cielo…

In quel tempo ascoltai anche parecchi oratorii. Il primo di essi fu il toccante Requiem; come mi penetrarono le più intime fibre le parole Dies irae, Dies illa! Ma il celestiale Benedictus!” (SA)

La rievocazione della festa di Natale pone in luce la commistione tra il misticismo e l’abbandono infantile alla fede:

“”Com'è magnifico l'abete che ci sta davanti con la cima ornata da un angelo, allusione all'albero genealogico di Cristo, la cui corona era il Signore in persona. Come risplendono i numerosi lumi, che rappresentano simbolicamente il chiarore nato tra gli uomini grazie alla nascita di Cristo. Come ci sorridono invitanti le mele rubizze, che ricordano la cacciata dal Paradiso! E guarda! Alle radici, Gesù bambino nella mangiatoia, circondato da Giuseppe e Maria e dai pastori adoranti! Che sguardi pieni di fede ardente gettano sul bambino! Voglia il Cielo che anche noi ci abbandoniamo con tale dedizione al Signore!”. (SA)

Ancora a 14 anni, l’affidamento al Padre celeste governa l’esperienza di Nietzsche:

“Ho vissuto ormai tante esperienze, liete e tristi, che mi hanno rasserenato e afflitto, ma in ogni cosa Iddio mi ha guidato sicuro, come un padre il suo debole fanciullino. Parecchi dolori Egli mi ha già inflitto, ma ovunque riconosco con venerazione la Sua maestà, che sovranamente manda ogni cosa a effetto. Ho preso nel mio intimo la salda decisione di dedicarmi per sempre al Suo servizio. Il buon Dio mi conceda la forza necessaria al mio proposito e mi protegga lungo il cammino. Io mi affido come un bimbo alla Sua grazia: Egli ci guarderà tutti quanti, perché nessuna sciagura venga a turbarci. Ma sia fatta la Sua santa volontà! Tutto ciò che mi assegnerà lo accetterò con gioia, fortuna e sventura, ricchezza e povertà, e guarderò arditamente in faccia alla morte, che un giorno ci raccoglierà tutti nella gioia e beatitudine sempiterna. Sì, mio buon Signore, fa che il Tuo volto risplenda sopra di noi in eterno! Amen!” (SA)

E’ dell’anno successivo un fugace riferimento all’appiattimento del senso religioso che assume un grande significato in rapporto a ciò che si sta definendo nell’anima dell’adolescente:

“7 agosto

Oggi è la prima domenica che trascorro nuovamente a Pforta. Ma, strano a dirsi, non sento il vero spirito della solennità domenicale.” (SA)

Si tratta, però, appena di una fluttuazione, per quanto precorritrice. Il 16 agosto dello stesso anno, Nietzsche scrive:

“Io contemplo sempre in spirito l'infinito Tutto; quant'è mirabile e sublime la terra, quant'è grande, tanto che nessun uomo può conoscerla per intero; ma che cosa provo quando vedo le innumerevoli stelle e il sole, e chi mi garantisce che questa immensa volta celeste con tutte le sue costellazioni non sia che una piccola parte dell'universo, e dove ha fine quest'universo? E noi, uomini miserevoli, vogliamo comprenderne il creatore, noi che non riusciamo nemmeno a concepire le sue opere!” (SA)

Si sta evidentemente muovendo nell’anima di Nietzsche un’irrequietezza adolescenziale, che egli, evidentemente spaventato, compensa con il riferimento all’incapacità dell’uomo di capire il mistero dell’Universo.

La crisi, però, ormai si è avviata, e si manifesta sotto forma di un bisogno esplorativo che imbocca due diverse direzioni. Il 20 agosto Nietzsche scrive:

“Ieri sera mi è venuta d'improvviso una straordinaria voglia di viaggiare, ma non in maniera convenzionale, bensì senza denaro. Mi è venuto in mente che vivere soddisfacendo tutti i nostri bisogni è di gran lunga meno interessante del campare alla giornata affidandosi alla fortuna, senza pensare al domani. Che si abbia beninteso qualcosa da parte per i casi imprevisti, è naturale. Avrei davvero molta voglia di approfittare delle vacanze di S. Michele per una gita del genere. Secondo me ci sarebbe da divertirsi parecchio. Vagare così alla giornata, alloggiare dove capita, avere un paio di avventure, è una cosa stupenda.” (SA)

Della stessa estate è questo appunto:

“Ho celebrato il mio compleanno e mi son fatto più vecchio. Il tempo svanisce come la rosa di primavera, e il piacere come la spuma del torrente.

Mi ha preso una straordinaria sete di conoscenze, di cultura universale.” (SA)

Il progetto che deriva da questa sete è già enciclopedico, riguardando le lingue, le scienze naturali, il latino e il greco, la letteratura, ecc., ma "sopra ogni altra cosa la Religione, baluardo di ogni sapere" (SA).

Ancora nel maggio del 1861, Nietzsche ribadisce la sua fede:

“In tutto il creato esistono delle scale, che debbono estendersi anche a esseri invisibili, a meno che il mondo stesso non sia l'anima universale. Così notiamo una progressione dell'esistenza, partendo dalla pietra e da quanto in genere appare solido e rigido, fino alle piante, agli animali, all'uomo, per finire con la terra, l'aria, i corpi celesti, il mondo o lo spazio, la materia e il tempo. Il termine, la fine, vanno posti qui? I concetti astratti son da considerare i creatori di ogni essere? No, al di là della materia, dello spazio, del tempo, si ergono le fonti originarie della vita, che debbono essere più alte e spirituali, la capacità vitale dev'essere infinita, la forza creatrice illimitata.

Un'altra scala è costituita dalla progressiva suddivisione delle forze spirituali, e qui tra tutti gli oggetti visibili l'uomo è al vertice, giacché il nostro spirito possiede la massima estensibilità. Ma l'imperfezione e limitatezza dello spirito umano, che dovrebbe penetrare con chiarezza il mondo intero se fosse lo spirito primigenio, guida il nostro sguardo verso una più alta e sublime forza spirituale, dalla quale come da una sorgente emanano tutte le altre. Così, è dato trovare parecchie scale analoghe, ad esempio il continuo progredire nell'àmbito della materia, dello spazio, del tempo, della morale, ecc. Tutte però e questo è l'importante ci definiscono in primo luogo l'esistenza dell'Essere eterno, e poi anche le sue qualità.

Solo a un Essere buono, e precisamente a un principio di bontà, può ricondursi la ripartizione dei destini, e noi non dobbiamo tentare temerariamente di sollevare il velo che avvolge il potere che guida le nostre sorti. E come potrebbe l'uomo, con le sue limitate facoltà spirituali, penetrare i sublimi disegni che lo Spirito primigenio ha concepito e posto in esecuzione!

Il caso non esiste; tutto quanto accade ha un significato, e quanto più la scienza indaga e ricerca, tanto più evidente appare il concetto che tutto ciò che esiste o accade è un anello di una invisibile catena. Getta uno sguardo alla storia: credi che le date si succedano senza significato? Guarda il cielo; credi che i corpi celesti seguano le loro traiettorie senza un ordine e una legge? No, no! Ciò che accade non accade a caso, un Essere superiore governa secondo ragione e criterio tutto quanto il creato.”

Ma la fede di fatto vacilla, avanza il dubbio. In Fato e Storia, che è del 1862, Nietzsche scrive:

“Se potessimo guardare con occhio libero e spregiudicato alla dottrina cristiana e alla storia della chiesa, non potremmo non enunciare certe opinioni contrarie alle idee generali. Ma così, costretti come siamo fin dai primi giorni della nostra vita nel giogo dell'abitudine e dei pregiudizi, impediti nello sviluppo naturale del nostro spirito e determinati nella formazione del nostro temperamento dalle impressioni dell'infanzia, crediamo di dover considerare quasi come un delitto la scelta di un più libero punto di vista, che potrebbe permetterci dì pronunciare un giudizio imparziale e adeguato ai tempi sulla religione e sul cristianesimo.

Un tentativo del genere non è l'opera di qualche settimana bensì di una vita.

Infatti come si potrebbe distruggere l'autorità di due millenni, garantita dagli uomini più geniali di tutti i tempi, con i risultati di giovanili meditazioni, come si potrebbero tenere in non cale, grazie a fantasticherie e idee immature, tutte quelle sofferenze e benedizioni che lo sviluppo della religione ha profondamente impresso nella storia del mondo?

Oltretutto è presunzione voler risolvere problemi filosofici sui quali da alcuni millenni è in corso un conflitto di opinioni: rivoluzionare concezioni che, secondo la convinzione degli uomini più geniali, sono le sole in grado di elevare l'uomo alla vera umanità: unire la scienza alla filosofia, senza neppure conoscere i risultati principali di ambedue: erigere, finalmente, un sistema della realtà ricorrendo alla scienza e alla storia, mentre ancora l'unità della storia universale e i fondamenti primi della teoria non si sono rivelati allo spirito?

Osare di inoltrarsi nel mare del dubbio senza bussola né guida è stoltezza e rovina per cervelli immaturi; i più naufragano nelle tempeste e solo pochissimi scoprono terre sconosciute.

E allora, dal mezzo dell'immenso oceano delle idee, quante volte si è còlti dalla nostalgia della terraferma: quante volte nel corso dì sterili speculazioni mi ha sorpreso il desiderio di tornare alla storia e alla scienza!

Storia e scienza, mirabile retaggio di tutto quanto il nostro passato e preannuncio del nostro avvenire, esse sole sono le fondamenta sicure su cui possiamo edificare la torre della nostra speculazione.

Quante volte tutta la nostra filosofia passata mi è sembrata una torre di Babele; attingere al cielo è la meta di tutte le grandi aspirazioni; il regno dei cieli in terra significa quasi la stessa cosa.

Una sconfinata confusione intellettuale nel popolo è il desolante risultato; grandi sconvolgimenti sono imminenti, una volta che la massa abbia capito che l'intero cristianesimo si fonda su ipotesi; l'esistenza di Dio, l'immortalità, l'autorità della Bibbia, l'ispirazione e altre cose ancora rimarranno sempre problematiche. Io ho cercato di negare tutto: ahimè, abbattere è facile, ma costruire! E persino l'abbattere sembra più facile di quanto non sia; noi siamo talmente determinati nel nostro intimo dalle impressioni dell'infanzia, dagli influssi dei genitori, dall'educazione, che quei pregiudizi così profondamente radicati non si lasciano facilmente estirpare con argomenti razionali o con la mera volontà. La forza dell'abitudine, il bisogno di qualcosa di superiore, la rottura con tutto l'esistente, la dissoluzione di tutte le forme della società, il dubbio che l'umanità per duemila anni si sia lasciata indurre in errore da una chimera, il senso della propria presunzione e temerarietà: tutto ciò determina un conflitto senza esito, finché da ultimo esperienze dolorose e tristi eventi riconducono il cuor nostro all'antica fede dell'infanzia.

Tuttavia per ognuno deve essere un contributo alla storia della propria cultura l'osservare l'impressione che questi dubbi suscitano nell'anima. Non si può fare a meno di pensare che del resto rimanga un qualche risultato di quell'attività speculativa, qualcosa che non sempre sarà un sapere bensì anche una fede, anzi addirittura susciti talora o reprima un sentimento morale. Allo stesso modo che i costumi sussistono come risultato di un'epoca, di un popolo, di una corrente di pensiero, così la morale è il risultato dello sviluppo generale dell'umanità. Essa è la somma di tutte le verità per il nostro mondo; è possibile che nel mondo infinito essa non significhi niente di più che il risultato dì una corrente di pensiero nel nostro: è possibile che dalle verità risultanti dai singoli mondi si sviluppi a sua volta una verità dell'universo!

Infatti non sappiamo affatto se l'umanità stessa non sia altro che un gradino, un periodo nell'universale, nel divenire, se essa non sia una manifestazione volontaria di Dio. E forse l'uomo non è altro che lo sviluppo della pietra fino all'animale, attraverso il termine medio della pianta? Forse già qui è stato raggiunto il suo compimento e anche qui è storia? Non ha fine questo divenire eterno? Quali sono le molle di questa immensa orologeria? Esse sono celate, ma sono le stesse che nel grande orologio che noi chiamiamo storia. Il quadrante sono gli eventi. Di ora in ora procede la lancetta, per ricominciare da capo, dopo le dodici, il suo corso; un nuovo periodo del mondo ha inizio.

E non si potrebbe assumere l'essenza umana stessa come l'insieme di quelle molle? (In tal caso le due concezioni sarebbero mediate). Oppure il tutto è guidato da mire e da piani superiori? E l'uomo solo un mezzo oppure è scopo?

Lo scopo, il mutamento esistono solo per noi, solo per noi ci sono le epoche e i periodi. E come potremmo del resto scorgere piani superiori. Noi vediamo soltanto come dalla stessa sorgente, dall'essenza umana, si formano idee sotto impressioni esterne; come queste assumano vita e forma; diventino patrimonio di tutti, coscienza, senso del dovere; come l'eterno istinto produttivo le elabori in quanto materiale per nuove idee, come esse plasmino la vita, reggano la storia; come esse nei conflitto reciproco si arricchiscano a vicenda e come da questa nuova miscela scaturiscano nuove conformazioni. Uno scontrarsi e un ondeggiare tra correnti diverse, con alta e bassa marea, tutte affluenti verso l'oceano eterno.

Tutto si muove in circoli immensi che si allargano sempre più l'uno attorno all'altro; l'uomo è uno dei circoli che si trovano più all'interno. Se vuole cogliere e misurare le vibrazioni dei circoli esterni, deve astrarre da se stesso e dai circoli più ampi ma prossimi fino a giungere a quelli più esterni e più vasti. I circoli più ampi ma prossimi sono la storia dei popoli, della società e dell'umanità. Cercare il centro comune di tutte le vibrazioni, il circolo infinitamente piccolo è compito della scienza; a questo punto, in cui l'uomo cerca quel centro dentro di sé e per sé, riconosciamo l'importanza unica che per noi debbono avere la storia e la scienza.

Ma, essendo l'uomo coinvolto e trascinato nei circoli della storia universale, nasce quel conflitto della volontà individuale con la volontà complessiva; qui troviamo accennato quel problema infinitamente importante, la questione cioè della giustificazione dell'individuo rispetto al popolo, del popolo rispetto all'umanità, dell'umanità rispetto al mondo; anche qui il rapporto fondamentale tra fato e storia.”

In questo brano è più che evidente il drammatico conflitto tra il dubbio radicale e una fede, da esso minacciata, che si ripropone come ammaliante nostalgia di sicurezza.

E’ questo conflitto che consente a Nietzsche di intuire le ragioni dell’attecchimento in profondità delle convinzioni religiose:

“Noi siamo stati influenzati, senza recare dentro di noi la forza di una reazione opposta, persino senza sapere che siamo influenzati. E' un sentimento doloroso quello di avere rinunciato alla propria indipendenza con l'ipotesi inconscia di impressioni esterne, di avere schiacciato facoltà dell'anima con la forza dell'abitudine e di avere involontariamente gettato nell'anima i germi di errori e deviazioni.”

Nello stesso scritto, Nietzsche rivendica, contro quella nostalgia, il valore supremo della libertà di pensiero che rifiuta qualunque limite:

“La volontà libera appare come ciò che non conosce catene, che è arbitrario; è l'infinitamente libero, avventuroso, lo spirito.”

In uno scritto successivo, intitolato Libertà della volontà e Fato, il dado è tratto:

“Noi troviamo che popoli i quali credono a un fato si distinguono per energia e forza di volontà, mentre invece uomini e donne che lasciano andare le cose come vanno in base a principi cristiani falsamente intesi, dato che «quel che Dio ha fatto è fatto bene», si lasciano guidare dalle circostanze in modo degradante. In generale la «rassegnazione nella volontà divina» e l’umiltà spesso non sono altro che pretesti per mascherare il vile timore di far fronte con risolutezza alla sorte.”

“Nella libertà della volontà si trova per l'individuo il principio della separazione, del distacco dalla totalità, della assoluta illimitatezza; ma il fato rimette l'uomo in collegamento organico con lo sviluppo complessivo, e lo costringe, in quanto cerca di dominarlo, ad un libero sviluppo di energia che si oppone al fato; la libertà assoluta della volontà senza il fato farebbe dell'uomo Dio, il principio fatalistico lo ridurrebbe a un automa.”

In un estremo tentativo si conservare una continuità con il suo passato, Nietzsche, ancora nel 1862, cerca di dare un significato terreno al Cristianesimo:

“Soltanto una visione cristiana può essere all'origine di un simile pessimismo: esso infatti è estraneo a una visione fatalistica. Esso non è altro che una sfiducia nelle proprie forze, un tentativo di mascherare la propria incapacità a plasmare da sé, con decisione, il proprio destino. Soltanto se riconosciamo che noi siamo responsabili unicamente verso noi stessi, e che il rimprovero di aver sbagliato l'indirizzo dato alla propria vita vale solo per noi e non per qualche altra potenza superiore: solo allora i concetti fondamentali del cristianesimo si spogliano della loro veste esteriore per trasformarsi in sostanza e vita. II cristianesimo è essenzialmente un fatto di cuore: soltanto quando si è incarnato in noi, quando è diventato in noi anima, solo allora l'uomo è il vero cristiano. I principi della dottrina cristiana esprimono soltanto le verità fondamentali del cuore umano: essi sono simboli, così come la cosa più eccelsa non può essere altro che un simbolo di ciò che è ancora più alto. Giungere alla beatitudine attraverso la fede non significa altro che una vecchia verità: che solo il cuore, e non il sapere, può rendere felici. Il fatto che Dio è diventato uomo non fa che ricordarci che l'uomo non deve ricercare la sua beatitudine nell'infinito, bensì deve fondare sulla terra il suo paradiso; l'illusione di un mondo ultraterreno aveva indotto l'intelletto umano a un atteggiamento errato nei riguardi del mondo terreno: essa era il prodotto di una età infantile dei popoli. L'ardente animo giovanile dell'umanità accetta queste idee con entusiasmo, ed enuncia, presago, quel mistero, radicato nel passato e proiettantesi nel futuro, che Dio è diventato uomo. L'umanità acquista la sua virilità attraverso gravi perplessità e ardue battaglie: essa riconosce in sé «l'inizio, il centro e la fine della religione».”

La divinizzazione dell’uomo è, dunque, l’esito naturale del mito del Dio incarnato. Ma tale divinizzazione, secondo Nietzsche, non vale per tutti gli esseri umani, ma solo per coloro che sono capaci di prendere su di sè il peso dell’esistenza per quello che essa è e portarlo senza rimanerne schiacciati.

8. La psicobiografia dinamica di Nietzsche (2)

L’abbandono della fede impartita dagli adulti è una circostanza abbastanza frequente in conseguenza del sopravvenire della crisi adolescenziale. Sicuramente, all’epoca di Nietzsche tale circostanza era più rara rispetto ad oggi, ma, in molti casi, quando non dava luogo al rigetto della fede, questa residuava come religiosità di facciata, meramente opportunistica in rapporto ad una società dominata da un patto tra il Trono e l’Altare per cui il dichiararsi materialisti ed atei esponeva quasi inesorabilmente all’esclusione (per esempio dalle cariche pubbliche).

L’abbandono della fede, peraltro, determina conseguenze diverse a seconda dell’intensità con cui essa è stata partecipata nel corso dell’infanzia. La partecipazione di Nietzsche, come abbiamo visto, è stata intensa, ha avuto un carattere spiccato di misticismo e si è protratta a lungo.

Il risveglio della coscienza critica è avvenuto dunque traumaticamente. In Umano, troppo umano, che è del 1878, la ricostruzione del trauma è fornita in termini inequivocabili:

“Volume I

3.

Si può presumere che uno spirito nel quale il tipo del «libero spirito» sia destinato a giungere a piena e dolcissima maturazione, abbia avuto il suo evento decisivo in una grande separazione, e che esso prima apparisse uno spirito tanto più legato e costretto per sempre al suo cantuccio e alla sua colonna. Che cosa lega più saldamente? Quali vincoli è quasi impossibile infrangere? Per uomini di specie alta ed eletta saranno i doveri: il rispetto, che è proprio della gioventù, il timore e la sensibilità per tutto ciò che è da sempre venerato e ritenuto degno, la gratitudine per il terreno da cui sono cresciuti, per la mano che li ha guidati, per il santuario dove hanno imparato a pregare - i loro stessi momenti più alti li legheranno nel modo più saldo, li obbligheranno nel modo più duraturo.

Per simili incatenati la grande liberazione giunge improvvisa, come una scossa di terremoto: a un tratto la giovane anima viene scossa, strappata via, divelta - né capisce essa stessa che cosa stia accadendo. Un impulso e un impeto la dominano e divengono per lei come l’ordine di un padrone; si destano una volontà, un desiderio di andar via, non importa dove, ad ogni costo; una prepotente, pericolosa avidità di conoscere un mondo mai scoperto arde e divampa in tutti i suoi sensi. «Piuttosto morire che vivere qui», dice una voce imperiosa e seducente: e questo «qui», questo «a casa» è tutto quello che sinora la giovane anima aveva amato! Una paura e una diffidenza improvvisa verso ciò che essa amava, un lampo di disprezzo verso quel che per essa significava «dovere», un desiderio ribelle, arbitrario, vulcanicamente irruente di partire, allontanarsi, straniarsi, raffreddarsi, rinsavire, gelarsi, un odio per l’amore, forse un gesto e uno sguardo sacrileghi indietro, verso ciò che essa sinora aveva venerato e amato, forse un rossore di vergogna per queI che ha appena fatto, e insieme un’esultanza per averlo fatto, un ebbro, esultante brivido interiore nel quale si rivela una vittoria - una vittoria? su che cosa? su chi? una vittoria enigmatica, ricca di domande, problematica, ma pur sempre la prima vittoria: simili cose brutte e dolorose appartengono alla storia della grande liberazione.”

Nel 1862, in uno scritto autobiografico, Nietzsche ricostruisce così gli effetti immediati della perdita della fede:

“Io in quel tempo, proprio a causa di certe dolorose esperienze e delusioni, mi trovavo sospeso, solo e privo d'aiuto, senza basi teoriche, senza speranze né ricordi graditi. La mia preoccupazione incessante era quella di costruirmi una vita su misura…”

Ancora più significativa è la testimonianza affidata a La gaia scienza:

“Questo tratto di deserto, esaurimento, incredulità, glaciazione nel bel mezzo della giovinezza, questa vecchiaia instauratasi al posto sbagliato, questa tirannia del dolore superata soltanto dalla tirannia dell’orgoglio, che rifiutava le conclusioni del dolore ― e le conclusioni sono un conforto ―, questa solitudine radicale come difesa da un disprezzo dell’uomo divenuto morbosamente chiaroveggente, questa fondamentale riduzione della conoscenza ai suoi elementi amari, acri, dolorosi, come prescriveva la nausea gradualmente insorta da un’incauta dieta e depravazione spirituale ― lo chiamano romanticismo ― oh, se qualcuno potesse provare tutto questo!”

Per quanto riguarda le conseguenze a lungo termine occorre segnalarne due.

Come accade a tutte le anime estremamente sensibili e dunque, a livello infantile, estremamente influenzabili, la fede di Nietzsche è stata stata vissuta come una verità assoluta e inconfutabile. L’entrata in azione del bisogno di opposizione e dello spirito critico ne ha determinato la dissoluzione, ma al prezzo dell’inquietante consapevolezza che l’Io cosciente può vivere, per un periodo più o meno lungo, in una sorta di “ipnosi” dovuta all’influenza dell’ambiente. Questa scoperta ha avuto un effetto traumatico sulla psicologia e sulla personalità nietzschiana. Nietzsche, infatti, è vissuto nell’incubo che qualcosa del genere potesse nuovamente accadere.

Sul piano di realtà, ciò solitamente significa solo il mantenersi di un potere critico sulle idee e sui valori con cui un soggetto si confronta nel corso della vita. In Nietzsche invece ha significato tentare di demolire tutti i sistemi di valore tradizionali, smascherandone sistematicamente la genealogia, solitamente tutt’altro che coincidente con la loro positività, le lacune, le contraddizioni, le irrazionalità, ecc.

La grandezza di Nietzsche sta per l’appunto nell’esercizio di questo implacabile potere critico, che storicizza e relativizza tutti i valori culturali. Il problema è che, alimentato da un’indubbia genialità, anche l’esercizio del potere critico appare, a più riprese, impregnato da motivazioni inconsce di ordine soggettivo: il riscatto “vendicativo” nei confronti dei “normali”, orientato a togliere loro tutti i puntelli su cui si fonda la loro tranquilla coscienza, e la sovversione dei valori religiosi spirituali, che giunge ad opporre ad essi l’esaltazione della sfera istintuale.

La seconda conseguenza richiede, per essere valutato, un’ottica psicoanalitica. L’interiorizzazione dei valori trasmessi dall’ambiente, come oggi sappiamo, rientra nell’ambito di una predisposizione del cervello umano alla replicazione culturale. La replicazione avviene sia a livello conscio che a livello inconscio. I valori che incidono maggiormente nell’organizzazione della personalità, naturalmente, sono quelli che attecchiscono a livello inconscio. Tale attecchimento è un processo automatico, ma non passivo: esso dipende dalla risonanza emozionale che i valori evocano in rapporto alla sensibilità di un determinato soggetto.

E’ noto da tempo che, tra tutti i sistemi di valore culturali, per la potenza emozionale dei simboli che utilizza, la Religione sembra avere una capacità di attecchimento del tutto particolare nei soggetti sensibili, non da ultimo perché essa, oltre a dare un senso all’esperienza personale, soddisfa il bisogno di infinito che in essi è presente..

Con il sopravvenire dell’adolescenza e l’acquisizione di un potere critico, l’io cosciente può giungere facilmente a confutare i dogmi religiosi e promuovere il loro abbandono. Il cambiamento cognitivo, però, non coincide con l’estirpazione delle radici inconsce, emozionali della fede, soprattutto per quanto riguarda il bisogno di infinito che, soddisfatto sia pure illusoriamente in precedenza, continua a premere cercando un’altra fonte di appagamento. La divorante passione per la conoscenza è, in Nietzsche, questa nuova fonte.

I due aspetti discussi possono essere ritenuti particolarmente importanti per quanto concerne Nietzsche perché essi sembrano sottendere tutta la sua opera. Per un verso, infatti, essa sembra deputata a distruggere tutte le illusioni che possono “ipnotizzare” l’uomo, portandolo lontano dalla possibilità di fare i conti con la sua condizione esistenziale finita (oltre che casuale e contraddittoria). Per un altro, essi permettono di comprendere l’ossessione anticristiana che accompagnerà Nietzsche tutta la vita, nella quale è difficile non leggere uno strenuo tentativo di estirpare i valori religiosi rimasti attivi a livello inconscio, che lo costringe infine ad identificarsi con un dio pagano - Dioniso - il quale oppone al Crocifisso la stravolgente esperienza dell’ebbrezza infinita di fondersi con la Natura e con gli altri.

Si danno due diverse prove della fondatezza di questa ipotesi. La prima è la sorprendente rimozione dell’esperienza originaria che Nietzsche esplicita in Ecce Homo e ne La volontà di potenza:

“«Dio», «immortalità dell'anima», «redenzione», «al di là», tutti concetti ai quali, anche da bambino, non ho dedicato nessuna attenzione, e neppure il mio tempo forse non sono mai stato abbastanza infantile per questo? Non conosco affatto l'ateismo come risultato, ancor meno come avvenimento: esso mi è congeniale per istinto. Sono troppo curioso, troppo problematico, troppo irriverente, per accontentarmi di una risposta così piattamente grossolana. Dio è una risposta piattamente grossolana, un'indelicatezza verso noi pensatori , in fondo, persino un grossolano divieto nei nostri confronti: non dovete pensare!…”

“251.

Io non sono stato cristiano nemmeno una sola ora della mia vita: io ritengo tutto quello che ho visto come cristianesimo una spregevole ambiguità di parole, una vera vigliaccheria di fronte a ogni potere comunque dominante…”

Come interpretare questa negazione, così contrastante con gli Scritti Autobiografici, se non riconducendola ad una persistente vergogna e all’intuizione che la memoria di quell’esperienza non è stata affatto del tutto superata?

La seconda prova è il malessere psicologico e psicosomatico che ha accompagnato Nietzsche per tutta la vita assumendo, in alcuni periodi, il carattere di una vera disperazione.

In una lettera drammatica all’amica Malwida von Meysemburg del 14 gennaio 1880, Nietzsche descrive il “terribile martirio” della sua vita:

“Quantunque lo scrivere sia divenuto per me un frutto proibito, tuttavia non posso fare a meno che Voi, che io amo e onoro come una sorella maggiore, riceviate ancora una mia lettera ma sarà certamente l'ultima! Infatti il terribile e quasi continuo martirio della mia vita mi costringe a desiderarne la fine e, a giudicare da alcuni sintomi, l'apoplessia che mi libererà è così imminente che io posso veramente sperare nella morte. Non c'è vita d'asceta che, quanto a tormenti e rinunce, possa paragonarsi alla mia di questi ultimi anni. E tuttavia mi sono conquistato una profonda purificazione e una grande serenità: non ho più bisogno né della religione né dell'arte. Ne sono, lo vedete, orgoglioso: l'abbandono da parte di tutti ha fatto si ch'io scoprissi in me le più profonde fonti dalle quali trarre aiuto. Ho assolto, penso, il mio più importante compito, ma come colui senza dubbio al quale non è stato lasciato il tempo necessario. So però di aver versato una goccia almeno di olio salutare, di aver indicato a molti la via dell'elevazione, della pace interiore, della giustizia. Sto scrivendo una dichiarazione che avrebbe dovuto essere postuma, dichiarata soltanto quando fosse finita la mia «umanità». Nessun dolore ha potuto e potrà spingermi a dare alla vita una falsa testimonianza sulla vita: la vita così come io la vedo.”

L’esperienza di Nietzsche è oscillata perpetuamente tra periodi di profondo abbattimento, avvilimento, apatia, inibizione dell’attività intellettuale, depressione e periodi di esaltazione, iperattività intellettuale, senso di onnipotenza.

Sarebbe facile iscrivere il disagio nietzschiano nell’ambito del cosiddetto disturbo bipolare. Le etichette psichiatriche, però, non dicono nulla sulle dinamiche che lo hanno sotteso.

Adottando un codice psicodinamico, si possono ricondurre tali dinamiche ad un conflitto perpetuo tra un Super-io rimasto impregnato di valenze religiose e un Io antitetico proteso verso un’affermazione di libertà assoluta e “trasgressiva”, la cui realizzazione postula un certo grado di anestetizzazione emozionale.

L’esistenza di tale conflitto è comprovata dal fatto che, non appena si allenta l’inibizione depressiva, Nietzsche è spinto non solo a riprendere quasi compulsivamente la sua attività intellettuale, ma ad alzare costantemente il tiro delle sue provocazioni critiche, secondo un meccanismo ben noto fondato sulla necessità di negare i sensi di colpa reiterando la “colpa”.

Nietzsche non ha mai fatto cenno ad alcun senso di colpa. La lettera citata però attesta che la disperazione conseguente alle inibizioni depressive era sottesa dall’aspettativa di una catastrofe, di una morte precoce. Dal punto di vista analitico, l’aspettativa del male è un indizio inequivocabile di sensi di colpa: quell’aspettativa, infatti, funziona come una punizione inconscia.

Quando, in conseguenza della crisi adolescenziale, si struttura un conflitto tra Super-io e Io antitetico, ciò che determina la sua evoluzione sono due fattori: l’alleanza, consapevole o inconsapevole, che l’io cosciente stabilisce con una delle sue substrutture, e le potenzialità mentali del soggetto che ne determinano le potenzialità espressive.

L’alleanza dell’io cosciente di Nietzsche con l’Io antitetico è indubbia e stabile. Essa tra l’altro è sottesa da una vera e propria fobia riferita alla possibilità di farsi influenzare nuovamente dall'ambiente sociale, com’è accaduto nel corso della sua infanzia e adolescenza. Questa fobia ha giocato un grande ruolo nel costringere Nietzsche ad un progressivo isolamento sociale e nell’indurre in lui un vivo disgusto per l’istinto del gregge.

La difesa nei confronti del mondo esterno non ha però modificato la struttura del mondo interno, all'interno del quale la pressione di un Super-io terribilmente colpevolizzante, materializzatosi quasi in forma allucinatoria, come si è visto, a livello giovanile, è rimasta costante, inducendo un drammatico circolo vizioso dinamico autoalimentato.

Se si volesse trovare una metafora culturale dell'esperienza di Nietzsche occorrerebbe ricondursi a quella dell'Angelo ribelle che, quando prende consapevolezza del suo statuto di libertà e di autodeterminazione, non cede più alla lusinga del Creatore che gli richiede un atto di sottomissione e rivendica il diritto di pensare con la sua testa. In questo senso, Nietzsche è luciferino: è colui che porta la luce agli esseri umani immersi nelle tenebre della sottomissione ad un'Autorità superiore (Dio, Tradizione, Società, ecc.).

La luce è spesso sfavillante, ma subisce non di rado l'effetto di distorsione dipendente dal conflitto strutturale, vale a dire dalla necessità di Nietzsche di pensare in termini univocamente antitetici.

L’orientamento antitetico ha potenziato il suo spirito critico, orientandolo verso la demolizione di tutti i valori che la storia ha prodotto per sedare l’ansia esistenziale umana e per offrire ad essa il conforto della trascendenza. In questo tragitto destruens, Nietzsche è, però, andato progressivamente fuori misura fino al punto di assumere il ruolo di colui che sarebbe riuscito, da solo, ad estirpare le radici cristiane dell’Europa.

E’ difficile dire quanto, nel precipitare Nietzsche nella follia, abbia inciso una presunta infezione luetica, contratta in età giovanile, che avrebbe infine aggredito il cervello. I "biglietti della follia" (come peraltro Ecce Homo) attestano un inequivocabile delirio di onnipotenza associato ad uno stato di coscienza confuso. Entrambi questi aspetti, come noto, sono spesso la conseguenza di un isolamento estremo, che viene compensato dal delirio in virtù del quale il soggetto nega il suo bisogno dell'Altro. Quando quello declina, l’inconscio riattiva il bisogno di appartenenza in virtù di una regressione che di fatto consegna il soggetto nelle mani altrui.

Non c’è nulla di più patetico nella storia di Nietzsche del fatto che quelle mani siano state della madre prima e della sorella poi, e che egli abbia dovuto sperimentare, senza rendersene conto, il significato della compassione nei confronti degli esseri deboli, in quanto malati, che ha sempre odiato.