Friedrich Nietzsche

Genealogia della morale

Traduzione di Vanda Perretta

Prefazione

1.

Noi che ricerchiamo la conoscenza, ci siamo sconosciuti, noi stessi ignoti a noi stessi, e la cosa ha le sue buone ragioni. Noi non ci siamo mai cercati, e come avremmo mai potuto, un bel giorno, trovarci? Si è detto e a ragione: «Dove è il vostro tesoro, è anche il vostro cuore», il nostro tesoro si trova dove sono gli alveari della nostra conoscenza. E per questo siamo sempre in movimento, come veri e propri animali alati e raccoglitori di miele dello spirito, preoccupati in realtà solo e unicamente di una cosa, di «portare a casa» qualcosa. Di fronte alla vita, poi, e a quello che concerne le cosiddette «esperienze», chi di noi mai ha anche solo la serietà necessaria? O il tempo necessario? Di queste cose, temo, non ci siamo mai veramente «occupati», infatti il nostro cuore è altrove, e anche le nostre orecchie!

Simili piuttosto a chi, divinamente distratto e immerso in se stesso ha appena avuto le orecchie percosse dal suono della campana che con tutta la sua forza ha annunziato il mezzogiorno con dodici rintocchi, e si sveglia all'improvviso e si chiede «che suono è mai questo?», così noi, di quando in quando, dopo, ci stropicciamo le orecchie tutti sorpresi e imbarazzati e chiediamo «che cosa mai abbiamo realmente vissuto:» o ancora «chi siamo noi in realtà?» e contiamo solo dopo, come si è detto, tutti e dodici i frementi rintocchi della nostra esperienza, della nostra vita, del nostro essere ‑ ahimè ‑ e sbagliamo a contare...

Infatti necessariamente rimaniamo estranei a noi stessi, non ci capiamo, dobbiamo scambiarci per altri, per noi vale per l'eternità, la frase «ognuno è per se stesso la cosa più lontana», noi non ci riconosciamo come gente che «ricerca la conoscenza»...

2.

I miei pensieri sull'origine dei nostri pregiudizi morali ‑ poiché di essi si tratta in questa operetta polemica ‑ sono stati espressi la prima volta, in modo preliminare e succinto, in quella raccolta di aforismi che va sotto il titolo di Umano, troppo umano. Un libro per spiriti liberi, la cui composizione ebbe inizio a Sorrento in un inverno che mi concessi di arrestarmi un attimo, come si arresta il viandante, per misurare con lo sguardo la terra vasta e pericolosa che il mio spirito aveva appena finito di percorrere. Questo accadeva nell'inverno 1876‑1877; i pensieri stessi sono più antichi.

Essenzialmente erano già gli stessi pensieri che riprendo qui in questi saggi e speriamo che il lungo intervallo abbia fatto loro del bene, che siano diventati più maturi, più chiari, più robusti e più completi. Il fatto però che io ancora oggi non li abbia abbandonati, e che essi siano addirittura cresciuti e concresciuti gli uni negli altri legandosi sempre più strettamente insieme, rafforza in me la lieta fiducia che sin dagli inizi essi non siano nati in me isolatamente, arbitrariamente e sporadicamente, ma da una radice comune, da una volontà fondamentale della conoscenza che esercita il suo dominio nel dominio nel profondo, che parla in modo sempre più definito, che esige cose sempre più definite. Questo soltanto infatti si addice a un filosofo.

Non abbiamo nessun diritto di essere isolati in qualsivoglia cosa, non ci è concesso né di sbagliare isolatamente né di arrivare isolatamente alla verità. E’ invece piuttosto vero che con la stessa necessità con cui un albero porta i suoi frutti noi produciamo i nostri pensieri, i nostri valori, i nostri sì e no, i se e i forse, affini tra loro e tutti insieme coincidenti, testimonianze di una volontà, di una salute, di un regno terreno, di un sole. Questi nostri frutti, vi piaceranno? Ma questo per l'albero non ha importanza! Questo non ha importanza per noi, noi filosofi!...

3.

Con una mia tipica scrupolosità che confesso malvolentieri ‑ infatti essa si riferisce alla morale, a tutto quello che sulla terra sino ad oggi è stato esaltato come morale ‑ una scrupolosità apparsa nella mia vita tanto presto, così spontaneamente, irresistibilmente, così in contrasto con ambiente, età, esempi, origine, da darmi quasi il diritto di definirla il mio «a priori», la mia curiosità come del resto il mio sospetto dovettero fermarsi precocemente sulla questione quale origine abbiano in realtà il nostro bene e il nostro male. Infatti il problema dell'origine del male mi perseguitava già quando avevo tredici anni, e gli dedicai, in un'età nella quale si hanno in cuore «per metà giochi infantili e per metà dio», il mio primo esercizio di scrittura filosofico ‑ e per quel che riguarda la mia «soluzione» del problema di allora, ebbene, come è ovvio, resi gloria a Dio e ne feci il padre del male.

Era proprio questo, quello che il mio «a priori» voleva da me? quel nuovo, immorale o per lo meno immoralistico «a priori» e l'imperativo categorico sua espressione, ahimè, così antikantiano, così enigmatico, cui io, nel frattempo avevo prestato sempre più ascolto e non solo ascolto?...

Fortunatamente imparai presto a distinguere il pregiudizio teologico da quello morale e non cercai più l'origine del male dietro il mondo. Un po' di istruzione storica e filologica, e in più un senso innato e esigente per i problemi psicologici in genere, modificò rapidamente il mio problema in un altro, e cioè, in quali condizioni l'uomo si era inventato quei giudizi di valore: buono e cattivo? e che valore hanno essi stessi? Fino a oggi hanno ostacolato o promosso la prosperità del genere umano? Sono segno di uno stato di necessità, di immiserimento, di degenerazione della vita? O invece in essi si tradisce la pienezza, la forza, la volontà della vita, il suo coraggio, la sua certezza, il suo futuro?

E qui trovai e osai in me risposte diverse, distinsi epoche, popoli, gradi e gerarchie di individui, approfondii specialisticamente il mio problema, dalle risposte derivarono nuove domande, ricerche, supposizioni, probabilità: fino al momento in cui ebbi un territorio mio, un suolo mio proprio, un mondo discreto, rigoglioso e in fiore, simile a quei giardini segreti dei quali a nessuno è permesso di sapere... oh come siamo felici noi che ci interessiamo alla conoscenza, ammesso che si sappia tacere abbastanza a lungo!...

4.

Il primo impulso a rendere noto qualcosa delle mie ipotesi sull'origine della morale, mi venne da un libretto chiaro, pulito e intelligente, anzi anche un po' saccente, in cui incontrai chiaramente, per la prima volta, un tipo contrario e perverso di ipotesi genealogiche, e cioè il tipo inglese, e che mi attirò con quella forza di attrazione propria di tutto ciò che è all'opposto, agli antipodi. Il libretto era intitolato Origine dei sentimenti morali, l'autore era il dottor Paul Rée; l'anno di pubblicazione il 1877. Forse non ho mai letto niente di cui abbia negato dentro di me, radicalmente, ogni frase, ogni deduzione, come questo libro; e purtuttavia senza fastidio e senza insofferenza. Nell'opera cui allora lavoravo e che ho citato prima, mi sono riferito, occasionalmente e non, a princìpi di quel libro, non confutandoli ‑ le confutazioni non mi riguardano! ‑ ma, come è proprio di uno spirito positivo, ponendo al posto dell'improbabile qualcosa di più probabile e, in certi casi, in luogo di un errore un altro errore.

Come detto, allora, stavo portando alla luce per la prima volta quelle ipotesi genealogiche cui sono dedicati questi saggi, in maniera goffa, cosa che in fondo amerei nascondere a me stesso, ancora impacciata, senza un linguaggio mio adatto a questo tipo di argomenti, e con molteplici esitazioni e ripetizioni. Si veda specialmente quello che dico sulla doppia preistoria del bene e del male (cioè a partire dalla sfera dei nobili e da quella degli schiavi) in Umano, troppo umano: (I, p. 51); come anche (pp. 119 ss.) sul valore e sull'origine della morale ascetica; o ancora (pp. 78, 82, II, 35.) sulla «eticità del costume», quella specie di morale, molto più antica e primitiva che si allontana toto coelo dal criterio di valutazione altruistico (in cui il dottor Rée, come tutti gli altri genealogisti inglesi della morale vede il criterio di valutazione morale in sé); o anche p. 74, in Viandante, (p. 29), in Aurora (p. 99), sull'origine della giustizia come compromesso tra potenti quasi uguali (equilibrio come presupposto di ogni patto e quindi di ogni diritto) e ancora sull'origine della pena in Viandante (pp. 25 e 34), per cui il fine terroristico non è né essenziale né originario (come crede il dottor Rée ‑ esso è piuttosto indotto, in certe circostanze, e sempre come qualcosa di accessorio, di aggregato).

5.

In fondo proprio allora mi stava a cuore una cosa molto più importante di un complesso di ipotesi mie o di altri sull'origine della morale (o, per essere più esatti, quest'ultima cosa solo in relazione a un fine per il quale essa è un mezzo tra molti altri). Si trattava, per me, del valore della morale, e a questo proposito potevo confrontarmi quasi solo col mio grande maestro Schopenhauer, al quale, come a un contemporaneo, si rivolge quel libro, con la sua passione e con la sua nascosta contraddizione (‑ infatti anche quel libro è una «opera polemica»).

Si trattava, in special modo, del valore del «non egoistico», degli istinti di compassione, negazione di sé e autosacrificio che proprio Schopenhauer aveva ricoperto d'oro, divinizzato e reso ultramondani tanto a lungo da farne gli unici «valori in sé», sulla cui base egli disse no alla vita e anche a se stesso. Ma proprio contro questi istinti si esprimeva in me una diffidenza sempre più radicata, uno scetticismo che scendeva sempre più in profondità! Proprio qui vedevo il grande pericolo per l'umanità, la sua più sublime malia e seduzione ‑ verso che cosa mai? verso il nulla? ‑ proprio in ciò vedevo l'inizio della fine, l'arresto, la stanchezza rivolta al passato ‑ la volontà che si rivolta contro la vita, la malattia finale che si annunzia con dolce malinconia: vidi nella morale della compassione in continua avanzata, e che colpiva anche i filosofi rendendoli malati, il sintomo più sinistro della nostra cultura europea ormai essa stessa sinistra, la sua tortuosa peregrinazione verso un nuovo buddhismo: ‑ un buddhismo europeo: il... nichilismo?...

Questa moderna predilezione e sopravvalutazione da parte dei filosofi della compassione è, in realtà, qualcosa di nuovo: infatti, fino ad oggi, i filosofi erano stati concordi proprio sul non va/ore della compassione. Mi limito a citare Platone, Spinoza, Larochefoucauld e Kant, quattro spiriti tanto diversi tra loro quanto solo è possibile, ma simili in una cosa: nel disprezzo della compassione.

6.

Questo problema del valore della compassione e della morale della compassione (‑ sono un oppositore del deprecabile rammollimento moderno dei sentimenti ‑) appare dapprima come un fenomeno isolato, un punto interrogativo a sé, ma chi vi si sofferma, e impara, a questo punto, a domandare, vedrà, come è capitato a me, spalancarglisi davanti un orizzonte nuovo e sconfinato, una possibilità simile a una vertigine lo scuoterà, ogni tipo di diffidenza, di sospetto, di terrore balzerà fuori, la fede nella morale, in ogni morale vacillerà ‑ e alla fine si farà strada una nuova esigenza.

Diamole voce a questa nuova esigenza: abbiamo bisogno di una critica dei valori morali, di porre in questione finalmente proprio il valore di questi valori, ‑ e per fare ciò abbiamo bisogno di una conoscenza delle condizioni e delle circostanze da cui sono stati prodotti, in cui si sono sviluppati e modificati (morale come effetto, sintomo, maschera, tartuferia, malattia, equivoco; ma anche morale come causa, rimedio, stimulans, repressione, tossico), conoscenza che fino a oggi non solo non è esistita, ma non è stata nemmeno mai auspicata.

Si è accettato il valore di questi valori come dato, come qualcosa di effettivo, al di là di ogni discussione; e sino ad oggi nessuno ha minimamente dubitato e esitato nell'attribuire al «buono» più valore che al «cattivo», più valore nel senso di una promozione, di una utilità, di una funzione salutare per l'uomo in generale, (incluso il futuro dell'uomo). Come? e se il contrario rappresentasse la verità? Come? Se nel «bene» fosse insito anche un sintomo di regresso, o anche un pericolo, una seduzione, un veleno, un narcoticum, grazie al quale il presente vivesse a spese dei futuro? Forse più piacevolmente, con meno pericolo, ma anche con minor stile e maggiore bassezza?... Così che proprio la morale sarebbe colpevole del fatto che non si sia mai raggiunta una massima e in sé possibile potenza e grandezza del tipo uomo? Così che proprio la morale sarebbe il pericolo dei pericoli?...

7.

Per finire, dopo che questo panorama mi si era spalancato davanti, ebbi io stesso buoni motivi per cercare intorno a me (cosa che ancora sto facendo) compagni dotti, audaci e amanti del lavoro. Bisogna percorrere il paese sconfinato, lontano e così nascosto della morale ‑ della morale realmente esistita e vissuta ‑ percorrerlo con nuove domande e come con occhi nuovi: e ciò non significa quasi la stessa cosa che scoprire questo paese?...

Se qui ho pensato, tra gli altri, anche al suddetto dottor Rée, l'ho fatto perché non dubitavo affatto che egli sarebbe stato spinto dalla natura dei suoi stessi problemi a una metodologia più corretta, per poter arrivare a delle risposte. Mi sono forse ingannato? In ogni modo il mio desiderio era quello di dare a uno sguardo così acuto e imparziale un indirizzo migliore, di indirizzarlo cioè verso la vera storia della morale e metterlo in guardia in tempo utile da tutto l'insieme delle ipotesi inglesi campate in aria. E’ infatti palmare quale colore debba essere più importante del blu cielo per un genealogista della morale e cioè il grigio, voglio dire, l'autentico, ciò che si può realmente verificare, cioè che è realmente esistito, in breve tutta la lunga pressoché indecifrabile scrittura geroglifica del passato morale dell'uomo!

‑ Questo era ignoto al dottor Rée, ma egli ha letto Darwin ‑ e così nelle sue ipotesi in maniera che per lo meno è divertente, la bestia darwiniana e l'ultramoderno modesto esserino morale, che «non morde più», si danno educatamente la mano, questi con una certa espressione di bonaria e fine indolenza, mista addirittura a un grano di pessimismo e di stanchezza sul viso, come se non valesse affatto la pena di prendere così sul serio tutte queste cose ‑ i problemi, cioè, della morale ‑.

A me sembra, invece, che non esistano cose che più di queste valga la pena di prendere sul serio, la ricompensa potrebbe essere, ad esempio, quella di ottenere forse il permesso, un giorno, di prenderle con gaiezza. Infatti la gaiezza, o per dirla nel mio linguaggio, la gaia scienza, è una ricompensa, una ricompensa per una serietà lunga, coraggiosa, laboriosa e sotterranea, che, ovviamente, non è cosa da tutti. Ma il giorno in cui diremo con tutto il cuore «avanti! anche la nostra morale ha una parte nella commedia!», avremo scoperto un nuovo intreccio e una nuova possibilità per il dramma dionisiaco sul «destino dell'anima»: e possiamo scommettere che il grande, antico, eterno commediografo della nostra esistenza saprà farne buon uso!

8.

‑ Se per qualcuno questo testo sarà incomprensibile e sgradevole all'ascolto, la colpa, mi sembra, non è da attribuire necessariamente a me. Esso risulta bastevolmente chiaro, presupponendo, come presuppongo, che si siano precedentemente letti, non senza una certa fatica, gli altri miei scritti, perché in realtà essi non sono di facile accesso. Per quello che concerne il mio Zarathustra, non considero suo conoscitore nessuno che non sia stato mai una volta profondamente ferito o profondamente esaltato da ognuna delle sue parole; solo allora infatti, egli potrà godere del privilegio di partecipare rispettosamente dell'elemento alcionio da cui è nata quell'opera, della sua solare chiarezza, della sua lontananza, ampiezza e certezza. In altri casi la forma aforistica presenta delle difficoltà: appunto perché oggi a questa forma non viene data la dovuta importanza.

Un aforisma ben coniato e ben fuso non è ancora «decifrato» per il fatto stesso di venire letto; è piuttosto vero che da questo momento deve avere inizio la sua interpretazione, cosa per la quale occorre un'arte dell'interpretare. Nel terzo saggio di questo libro ho fornito un modello di quello che intendo, in un caso simile, per «intepretazione» ‑ questo saggio è preceduto da un aforisma, e il saggio stesso ne è il commento.

E’ chiaro che per esercitare così la lettura come arte, è necessaria soprattutto una cosa che al giorno d'oggi si è disimparata più di tante altre ‑ e perciò, per arrivare alla «leggibilità» delle mie opere, ci vorrà ancora tempo ‑ una cosa, cioè, per cui si deve essere piuttosto simili a una vacca e in nessun caso a un «uomo moderno»: il ruminare.

Sils Maria, Alta Erigadina, luglio 1887

Saggio primo

«Buono e malvagio», «Buono e cattivo»

 

1.

Questi psicologi inglesi, cui sino ad oggi si devono gli unici tentativi di arrivare a una storia della formazione della morale ‑ sono essi stessi, per noi, un non piccolo enigma, essi, lo ammetto, sono superiori alle loro opere in qualcosa di sostanziale ‑ essi stessi sono interessanti! Questi psicologi inglesi, che cosa vogliono in realtà? Li troviamo sempre, volontariamente o no, intenti alla stessa operazione, e cioè a spingere in primo piano la partie honteuse del nostro mondo intimo e a cercare ciò che è veramente efficace, determinante, risolutivo per l'evoluzione, proprio dove l'orgoglio dell'intelletto umano meno che mai desidererebbe trovarlo (per esempio nella vis inertiae dell'abitudine o nella dimenticanza, o in un cieco e accidentale incastro e meccanismo di idee o in un qualcosa di puramente passivo, automatico, che agisce per riflessi, in qualcosa di molecolare e totalmente stupido) ‑ che cosa spinge tali psicologi proprio in questa direzione? E’ un istinto segreto, malvagio, vile, inconfessato forse anche a se stesso, di immiserimento dell'essere umano? O forse una diffidenza pessimistica, la mancanza di fiducia degli idealisti delusi, rabbuiati, velenosi e verdi di bile? Oppure un piccolo, sotterraneo, ostile rancore contro il cristianesimo (e Platone) che forse non ha nemmeno oltrepassato la soglia della coscienza? O il gusto voluttuoso per ciò che è diverso, dolorosamente paradossale, problematico e folle nell'esistenza? O per finire, di tutto questo un po'; una dose di volgarità, una dose di squallore, una dose di anticristianesimo, una dose di pruriginosità e bisogno di pepe?...

Ma mi dicono che sono solo ranocchi vecchi, gelidi e noiosi che saltellano intorno all'uomo e gli si insinuano dentro, come se qui fossero proprio nel loro elemento, cioè in una palude. Ad ascoltare ciò mi ribello, anzi non presto a tutto questo alcuna fede, e se è concesso sperare, quando non è dato sapere, mi auguro di tutto cuore che le cose per loro possano essere tutte diverse ‑ che questi ricercatori e microscopisti dell'anima, in fondo siano animali coraggiosi, orgogliosi e generosi, capaci di tenere a bada il loro cuore con il loro dolore, e che si siano educati a sacrificare ogni meta ideale alla verità, a ogni verità, persino alla verità semplice, rozza, brutta, repellente, non cristiana, non morale... Poiché tali verità esistono. ‑

2.

Tutto il nostro rispetto vada dunque agli spiriti buoni che possono guidare questi storici della morale. Purtroppo però, è certo che essi mancano proprio di spirito storico e che sono stati piantati in asso proprio da tutti gli spiriti buoni della storia! Essi, nel loro complesso pensano, all'antica maniera dei filosofi, in modo essenzialmente antistorico; questo è fuor di dubbio. Già dall'inizio il pasticciaccio della loro genealogia è evidente. Là
dove si tratta di scoprire l’origine del concetto e del giudizio di buono.

«In origine ‑ essi decretano ‑ sono state lodate e definite buone, azioni non egoistiche da parte di coloro che le avevano ricevute, cioè di coloro cui esse erano utili, più tardi questa origine della lode è stata dimenticata, e le azioni non egoistiche, lodate per abitudine sempre come buone, furono anche sentite come tali, come se fossero in se stesse qualcosa di buono.» Lo si vede immediatamente questa prima deduzione ha già in sé tutti i tratti tipici della idiosincrasia degli psicologi inglesi ‑ abbiamo «l'utilità», «l'oblio», «l'abitudine», e, per finire, «l'onore», tutto come base di una valutazione di cui l'uomo superiore è stato fino a oggi orgoglioso, come di una sorta di privilegio dell'uomo in generale. Questo orgoglio deve essere umiliato, questa valutazione deve essere svalutata: siamo arrivati a tanto?...

Ora, per me è prima di tutto evidente il fatto che questa teoria cerca e pone il nucleo originario, vero e proprio, del concetto di «buono» nel luogo sbagliato; il giudizio di «buono» non discende da coloro ai quali viene dimostrata bontà! E’ invece piuttosto vero che sono stati gli stessi «buoni», cioè i nobili, i potenti, gli uomini di ceto superiore e di sentimenti elevati a sentire e definire se stessi e le loro azioni come buoni, cioè di prim'ordine, e in antitesi a tutto ciò che è volgare, di sentimenti volgari, comune e plebeo. Basandosi su questo pathos della distanza essi si sono attribuiti il diritto di creare valori, di inventare definizioni dei valori, l'utilità non li interessava affatto!

Il punto di vista della utilità, proprio in rapporto a un tale ardente traboccare di supremi giudizi di valore che fissino o definiscano una gerarchia, è quanto dì più estraneo e inadeguato si possa pensare: qui infatti il sentimento è arrivato a una opposizione con quel basso grado di calore, presupposto di ogni sagacia calcolatrice, di ogni calcolo utilitario, e non una tantum, non per un'ora eccezionale, ma durevolmente.

Il pathos dell'aristocrazia e della distanza, come ho detto, il duraturo e dominante sentimento totale e basilare di una specie superiore e dominante nei confronti di una specie inferiore, di un «sotto», questa è l'origine dell'opposizione tra «buono» e «cattivo». (Il diritto signorile di imporre nomi, risale così indietro nel tempo, che si sarebbe autorizzati a ritenere l'origine della lingua stessa come espressione di potenza di chi era al potere: essi dicono «questo è questo e questo» e con un suono impongono il loro sigillo a cose e avvenimenti e, così facendo, se ne impossessano.)

Si deve a questa origine il fatto che il termine «buono» non si ricollega di necessità, sin dagli inizi, ad azioni «non egoistiche», come crede la superstizione di questi genealogisti della morale. E’ vero invece che solo con la decadenza dei giudizi di valore aristocratici si impone sempre di più alla coscienza umana tutta questa opposizione tra «egoistico» e «non egoistico» ‑ si tratta, per usare la mia lingua, dell'istinto gregario, che con essa acquista infine parola (o anche parole). E anche a questo punto ci vorrà ancora molto tempo perché questo istinto acquisti tanta forza che l'apprezzamento morale dei valori si fissi, si ancori proprio a questa opposizione (come è, ad esempio, il caso dell'Europa odierna: oggi il pregiudizio secondo cui «morale», «non egoistico», «désintéressé» sarebbero concetti equivalenti, domina già con la violenza di un'idea fissa e di una malattia mentale).

3.

In secondo luogo poi, prescindendo completamente dalla insostenibilità storica di quella ipotesi sull'origine del giudizio di valore «buono», essa soffre, in se stessa, di una contraddizione di ordine psicologico. L'utilità dell'azione non egoistica deve essere l'origine della sua lode, e questa origine deve essere stata dimenticata, ‑ ma come è mai possibile questo oblio? Forse che l'utilità di tali azioni ha cessato un bel giorno di essere tale? E’ invece vero il contrario: questa utilità è stata piuttosto, in ogni epoca, esperienza quotidiana, qualcosa, cioè, che continuamente veniva sempre e di nuovo sottolineata; di conseguenza, invece di scomparire dalla coscienza, di diventare obliabile, essa vi si impresse con sempre maggiore chiarezza.

‑ Quanto più razionale è invece la teoria opposta (che non per questo è più vera ‑) sostenuta per esempio da Herbert Spencer, che riconosce come sostanzialmente analoghi il concetto di «buono» e quello di «utile» e «funzionale», così che nei giudizi di «buono» e «cattivo» l'umanità avrebbe sommato e confermato proprio le sue esperienze inobliate e inobliabili su quello che è utile e funzionale, dannoso e non funzionale. Secondo questa teoria, è buono ciò che da sempre si è dimostrato utile, con ciò esso può farsi valere come «valido al massimo grado» e «valido in sé». Come ho già detto, anche questa via di spiegazione è falsa, ma la spiegazione è, per lo meno, in se stessa razionale e psicologicamente fondata.

4.

L'indicazione della via giusta mi è stata offerta dal problema di ciò che le definizioni di «buono» coniate dalle diverse lingue debbano realmente significare dal punto di vista etimologico, e così ho scoperto che esse conducono tutte alla stessa metamorfosi concettuale ‑ che dovunque «aristocratico», «nobile», nel senso di condizione sociale, sono i concetti fondamentali da cui discende necessariamente il concetto di «buono», nel senso di «spiritualmente aristocratico», e «nobile», nel senso di «spiritualmente superiore», «spiritualmente privilegiato»: sviluppo questo che corre sempre parallelamente a quell'altro, che fa slittare l'idea di «volgare», «plebeo», «infimo», in quella di «cattivo».

L'esempio più eloquente di questo slittamento è la stessa parola tedesca «schlecht» [cattivo], identica al termine «schlicht» [semplice] ‑ si vedano anche «schlechtweg» [semplicemente], «schlechterdings» [assolutamente] ‑ e che indicava originariamente l'uomo comune, semplice, ancora incapace di sospetti e di sguardi obliqui, solo come contrasto con l'uomo aristocratico.

Intorno all'epoca della guerra dei trent'anni, cioè abbastanza tardi, questo significato si trasformò in quello oggi comune. Ciò mi sembra, rispetto alla genealogia della morale una acquisizione essenziale; se ci si è arrivati solo tanto tardi, ciò è dovuto all'influenza frenante esercitata dal pregiudizio democratico all'interno del mondo moderno su tutti i problemi che riguardano le origini. E questo sin nella sfera, all'apparenza la più oggettiva, della scienza naturale e della fisiologia come accenneremo qui brevemente.

Il disordine che questo pregiudizio, dopo essersi sfrenato sino a trasformarsi in odio, ha prodotto in particolare nella storia e nella morale, è testimoniato dal famigerato caso Buckle; il plebeismo dello spirito moderno, di origine inglese, esplose ancora sul suolo patrio con la violenza di un vulcano limaccioso e con tutta quella retorica saporita, fracassona e volgare, con cui sino ad oggi i vulcani hanno parlato.

5.

Per quello che concerne il nostro problema, che a buon diritto può essere definito un problema tacito e che, esigente come è, si rivolge solo a poche orecchie, è di non lieve interesse, lo stabilire che spesso in quelle parole e in quelle radici che definiscono l'idea di «buono» sia ancora diffusa la luce di quella sfumatura di base che permise ai nobili di sentirsi uomini di rango superiore. E’ vero che forse nella maggior parte dei casi essi si definiscono con termini derivati dalla loro superiorità in fatto di potere (come «i potenti», «i signori», «i dominatori») o dai segni più appariscenti di questa superiorità, come «i ricchi» ad esempio, o «i possidenti» (questo è il significato di arya; e analogamente nell'iranico e nello slavo). Oppure anche da un tratto di carattere tipico: e questo è il caso che ci interessa. Essi si definiscono, per esempio, «coloro che sono veritieri»; primi tra tutti gli aristocratici greci, il cui portavoce fu il poeta Teognide di Megara.

Il termine relativo, esthlós, significa, secondo la radice, qualcuno che è, che ha realtà, che è reale, che è vero; poi, con un passaggio soggettivo, il vero passò a significare chi è veritiero: in questa fase della sua metamorfosi concettuale il termine diventa la parola d'ordine e la parola chiave dell'aristocrazia e passa completamente nel significato di «nobile», come diversificazione dell'uomo comune, «mentitore», come Teognide lo assume e descrive sino a quando il termine, con il declino dell'aristocrazia, resta solo quale definizione della nobiltà d'animo e si fa quasi matura e dolce.

Nella parola kakós come in deilós (il plebeo in contrasto con l'agatós) si sottolinea la viltà, e questo può forse suggerire in quale direzione cercare l'origine etimologica di un termine dalle molteplici interpretazioni come agatós.

Nel malus dei latini (cui affianco il greco mélas) poteva essere rappresentato l'uomo comune, individuo scuro di colore, soprattutto nero di capelli («hic niger ist» ‑), l'aborigeno preariano abitatore del territorio italico che si distingueva nella maniera più evidente possibile per il suo colorito dalla razza bionda ormai al potere, e cioè dalla razza dei conquistatori ariani; il gaelico, mi ha offerto per lo meno un caso simile ‑ fin (per esempio nel nome Fin‑Gal), termine che definiva l'aristocrazia e alla fine il buono, nobile, puro, originariamente la testa bionda in contrasto con gli indigeni scuri e dai capelli neri.

Detto per inciso, i Celti erano fuor di dubbio una razza bionda: non è esatto collegare quelle fasce di popolazione assolutamente nere di capelli, che si notano nelle più precise carte etnografiche della Germania, a una qualche origine celtica o a qualche incrocio, come fa ancora Virchow: è piuttosto la popolazione pre‑ariana della Germania a essere stata predominante in quelle regioni. (Lo stesso si può dire per quasi tutta l'Europa, in sostanza la razza vinta ha finito per riprendere il sopravvento, col colore, la brachicefalia, forse anche con i suoi istinti intellettuali e sociali; chi ci garantisce che la democrazia moderna, l'ancor più moderno anarchismo e cioè quella tendenza alla «commune», alla forma più primitiva di società, comune, oggi, a tutti i socialisti europei, non indichi, in sostanza, un enorme regresso, e che la razza dei signori e conquistatori, quella degli ariani, non stia, anche fisiologicamente, per essere sopraffatta?...)

Credo di poter interpretare il latino «bonus» come guerriero, presupponendo di ricondurre, a buon diritto, bonus a un più antico duonus (confronta bellum = duellum = duen ‑ eum in cui mi sembra mantenuto quel duonus). Così bonus come uomo della discordia, della separazione (duo), come uomo della guerra: si vede quello che, nell'antica Roma, costituiva la bontà di un uomo.

Anche il nostro tedesco «Gut» non doveva significare il divino, l'uomo di «discendenza divina»? E essere identificato col nome del popolo (agli inizi, dei nobili) dei Goti? I motivi di una tale supposizione non trovano posto in questo scritto.

6.

Prima di ogni cosa, alla regola per cui il concetto di superiorità politica si risolve sempre in un concetto di superiorità spirituale non fa ancora eccezione (anche se occasionalmente ciò sarebbe possibile) il fatto che la casta suprema sia al tempo stesso quella sacerdotale; e di conseguenza prediliga, per una sua globale definizione, un predicato che ricordi la sua funzione sacerdotale. Ed ecco apparire per la prima volta i termini «puro» e «impuro» come segni di distinzione sociale: e anche in questo caso più tardi si sviluppano un «buono» e un «cattivo», termini che, però, non hanno più connotazioni sociali. D'altra parte bisogna guardarsi dal dare a questi concetti di «puro» e «impuro», sin dagli inizi, troppa gravità, ampiezza e troppi significati simbolici: tutti i concetti della più antica umanità sono stati invece compresi, agli inizi, con una rozzezza, una goffaggine, una limitatezza tutte e specialmente non simboliche, difficilmente immaginabili.

Il «puro» è, originariamente, solo un essere umano che si lava, che evita certi cibi in grado di provocare malattie cutanee, che non frequenta le donne sudice del basso popolo, che ha orrore del sangue ‑ e niente, o per lo meno non molto di più! D'altra parte tutto il modo di essere di un'aristocrazia essenzialmente sacerdotale chiarisce perché qui tanto precocemente i contrasti di valutazione si poterono pericolosamente interiorizzare e acutizzare; e infatti proprio questi contrasti finirono per scavare tra uomo e uomo abissi tali che nemmeno un Achille del libero pensiero sarebbe capace di superare senza rabbrividire.

C'è qualcosa di malsano in queste aristocrazie sacerdotali e nelle abitudini che le dominano, aliene dall'azione, parte sentimentalmente esplosive e parte, invece, malinconicamente assopite, qualcosa la cui conseguenza pare essere quella nevrastenia e quella cagionevolezza intestinale che sembra inevitabilmente endemica tra i sacerdoti di ogni tempo; e del rimedio che essi stessi hanno trovato contro questo loro stato malaticcio, come non si può non dire che ha finito per essere, nei suoi effetti secondari, cento volte più pericoloso della malattia che avrebbe dovuto debellare?

La stessa umanità soffre ancora per gli effetti di queste sacerdotali ingenuità terapeutiche! Basta pensare, per esempio, a certe prescrizioni dietetiche (evitare la carne), al digiuno, alla continenza sessuale, alla fuga «nel deserto» (isolamento alla Weir Mitchell, certo senza la successiva cura ricostituente e supernutrizione, che è l'antidoto più efficace contro ogni isteria da ideale ascetico); e ancora a tutta la metafisica dei preti, ostile ai sensi e fatta per l'accidia e la raffinatezza, alla loro autoipnosi alla maniera di fachiri e bramini ‑ Brahman utilizzato come pendolo di vetro e idea fissa ‑ e la conseguente e anche troppo comprensibile, generale sazietà, con la sua cura radicale, il nulla (ovverossia Dio ‑ l'aspirazione a una unio mystica con Dio e l'aspirazione dei buddhisti al nulla, Nirvana, e nient'altro!).

I sacerdoti rendono infatti tutto molto più pericoloso, non solo mezzi terapeutici e arti medianiche, ma anche orgoglio, vendetta, sagacia, dissolutezza, amore, sete di potere, virtù, malattia ‑ non del tutto a torto si potrebbe, in realtà, anche aggiungere che solo nell'ambito di questa forma dell'esistenza umana, essenzialmente pericolosa, e cioè quella sacerdotale, l'uomo è diventato un animale interessante, che solo qui l'anima umana ha conquistato profondità in senso più alto e si è fatta cattiva ‑ e proprio queste sono le due forme fondamentali della superiorità che l'uomo ha avuto sino ad oggi sugli altri animali!...

7.

Si sarà già intuito che i criteri di valutazione dei sacerdoti possono facilmente separarsi da quelli cavalleresco‑aristocratici, fino a diventare il loro opposto; e questo processo sarà particolarmente favorito ogni qual volta casta sacerdotale e casta guerriera, gelose l'una dell'altra, si affronteranno ostili e non vorranno accordarsi sul prezzo. I giudizi di valore cavalleresco-aristocratici presuppongono una prestanza fisica, una salute florida, ricca, debordante, e insieme tutto ciò che ne condiziona il mantenimento, guerra, avventura, caccia, danza, tornei, insomma tutto quello che comporta una vita attiva forte, libera e serena. I criteri di valutazione sacerdotal‑aristocratici hanno ‑ come abbiamo visto ‑ altri presupposti, e peggio per loro, in caso di guerra! I sacerdoti sono, è noto, i nemici più crudeli ‑ e per quale ragione poi? Perché sono i più impotenti. L'impotenza genera in loro un odio che arriva a diventare mostruoso e sinistro, spiritualissimo e tossico al massimo grado.

Nella storia universale coloro che più degli altri sono stati capaci di odio, e di genialità nell'odio, sono sempre stati i preti ‑ a paragone della genialità della vendetta sacerdotale, ogni altra dote intellettuale può appena essere presa in considerazione. La storia umana sarebbe ben sciocca cosa senza lo spirito che in essa hanno travasato gli impotenti, ‑ ed ecco subito l'esempio massimo. Tutto quello che si è fatto sulla terra contro «gli aristocratici», «i forti», «i signori», «i potenti» non meriterebbe nemmeno di essere citato in confronto a quello che gli Ebrei hanno fatto contro di loro; gli Ebrei, quel popolo sacerdotale che non ritenne di aver ricevuto la dovuta soddisfazione dai propri nemici e sopraffattori, se non dopo averne radicalmente ribaltato i valori, cioè solo grazie a un atto della più spirituale vendetta. Questo solo era adeguato a un popolo sacerdotale, al popolo della più latente sete di vendetta sacerdotale.

Sono stati gli Ebrei che hanno osato ribaltare e mantenere, stringendo i denti dell'odio più abissale (l'odio della impotenza), l'equazione aristocratica di valore (buono = aristocratico = potente = bello = felice = caro agli dèì), cioè «i miserabili solo sono i buoni, i poveri, gli impotenti, gli umili solo sono i buoni, i sofferenti, gli indigenti, i malati, i brutti sono anche gli unici a essere pii, beati in dio, solo a loro è concessa la beatitudine ‑ là dove voi, al contrario, ‑ voi nobili e potenti, voi sarete per l'eternità i malvagi, i crudeli, i corrotti, gli insaziabili, gli empi, e sarete anche per l'eternità infelici, dannati, e maledetti!»... Si sa chi ha ereditato questo sovvertimento di valore giudaico... A proposito dell'iniziativa mostruosa e oltremodo fatale assunta dagli Ebrei con questa dichiarazione di guerra, radicale più di ogni altra, mi sovvengo di quello che ho detto in altra occasione (Al di là del bene e del male, p. 118) ‑ che cioè con gli Ebrei si inizia la rivolta degli schiavi nella morale: rivolta che ha dietro di sé duemila anni di storia e che oggi abbiamo perso di vista solo perché essa ‑ ha vinto...

8.

‑ Ma non lo capite? Non avete occhi per questa cosa che ha avuto bisogno di due millenni per arrivare alla vittoria?... E non c'è da meravigliarsene: tutte le cose lunghe sono difficili da vedere, da afferrare nel loro insieme. Questo e però accaduto: dal tronco di quell'albero della vendetta e dell'odio, dell'odio giudaico ‑ dell'odio più profondo e più sublime e perciò stesso creatore di ideali, e sovvertitore di valori, di cui sulla terra non si è mai dato l'uguale ‑ da questo tronco è nato qualcosa di altrettanto incomparabile, un nuovo amore, un amore più profondo e sublime di tutti gli altri ‑ e da quale altro tronco sarebbe mai potuto nascere?... Non si creda però che esso sia cresciuto come vera e propria negazione di quella sete di vendetta, come l'antitesi dell'odio giudaico! No, è vero piuttosto il contrario! L'amore sbocciò dall'odio, come sua corona, corona trionfale, che alla luce più pura e chiara e forte del sole si allargava sempre di più; e tesa agli stessi fini di quell'odio, cerca nel regno della luce e dell'altezza la vittoria, la preda, la seduzione, con lo stesso impeto con cui le radici di quell'odio affondavano sempre più profondamente e avidamente in tutto ciò che era profondo e malvagio.

Questo Gesù di Nazareth, vivente vangelo dell'amore, questo «Salvatore» che porta ai poveri, ai malati, ai peccatori beatitudine e vittoria ‑ non ha rappresentato forse la seduzione nella sua forma più sinistra e irresistibile, la seduzione e la via tortuosa proprio verso quei valori e quel rinnovamento giudaico dell'ideale?

Israele non ha forse raggiunto proprio per la via traversa di questo «Salvatore», di questo apparente oppositore e dissolvìtore di Israele, il fine supremo della sua sublime sete di vendetta? Non è forse proprio della misteriosa magia nera di una politica della vendetta realmente grande, di una vendetta lungimirante, sotterranea, che progredisce lentamente secondo calcolati programmi, il fatto che Israele stesso ha voluto rinnegare e inchiodare alla croce di fronte al mondo intero come qualcosa di mortalmente ostile, proprio lo strumento della propria vendetta, acciocché il mondo intero, e cioè tutti i nemici di Israele potessero abboccare senza sospetto proprio a questa esca?

E d'altra parte, chi mai potrebbe pensare, con tutta la massima sottigliezza di spirito, a un'esca più pericolosa di questa? Qualcosa che per forza di attrazione, per forza ipnotica, inebriante e rovinosa possa essere simile a quel simbolo della «santa croce», a quel paradosso terrifico di un «Dio in croce», a quel mistero di una crudeltà inconcepibile, estrema, e di una autocrocefissione di Dio per la salvezza degli uomini?... Certo è, perlomeno, che sub hoc signo Israele ha continuato da allora a trionfare con la sua vendetta e col suo sovvertimento di tutti i valori, su tutti gli altri ideali, su tutti gli ideali più nobili.

9.

‑ «Ma che significa parlare di più nobili ideali. Rassegniamoci ai fatti: il popolo ha vinto ‑ovverosia "gli schiavi", o "la plebe", o il "gregge", o come altro volete chiamarlo ‑ e se questo è avvenuto tramite gli Ebrei, ebbene, mai nessun popolo ha avuto una missione storica più universale! I signori sono stati spazzati via: la morale dell'uomo comune ha vinto. Questa vittoria può essere vista anche come un avvelenamento del sangue (ha mescolato le razze tra loro) ‑ non dico di no, ma è innegabile che questa intossicazione abbia avuto successo. La "salvezza" del genere umano (cioè dei "signori") è sulla strada migliore; tutto si giudaizza, si cristianizza o si plebeizza a vista d'occhio (che importano le parole!).

L'estendersi di questo avvelenamento a tutto il corpo della umanità sembra inarrestabile, il suo ritmo e la sua marcia si permetteranno, nel futuro, di essere sempre più lenti, più impercettibili, inafferrabili, prudenti ‑ il tempo non manca...

E la Chiesa, ha essa, oggi, sotto questo punto di vista, un compito necessario, ha essa ancora il diritto di esistere? O se ne potrebbe invece fare a meno? Quaeritur. Sembra che essa arresti o trattenga quella marcia invece di accelerarla? Ebbene, proprio questa potrebbe essere la sua utilità... Certo essa finisce per essere qualcosa di rozzo e di zotico, che ripugna a un'intelligenza più delicata, a un gusto più moderno. Non dovrebbe perlomeno farsi più raffinata? Oggi essa respinge, più di quanto non abbia sedotto...

Chi di noi sarebbe un "libero pensatore" se non esistesse la Chiesa? E’ la Chiesa a ripugnarci, non il suo veleno... A prescindere dalla Chiesa, anche noi amiamo il veleno...» ‑ Questo l'epilogo di un «libero pensatore» al mio discorso, di un animale onesto, come ha dimostrato ampiamente, e in più di un democratico; mi era stato a sentire sino a quel punto e non resistette a sentirmi tacere. Infatti per me, a questo punto, c'è molto da tacere. ‑

10.

La rivolta degli schiavi ha inizio nella morale, nel momento in cui il ressentiment diventa esso stesso creatore e produce valore: il ressentiment di quegli esseri cui è preclusa la reazione vera, quella dell'azione, e che possono soddisfarsi solo grazie a una vendetta immaginaria. Mentre tutta la morale aristocratica nasce da una trionfante affermazione di se stessi, sin dall'inizio la morale degli schiavi nega un «di fuori», un «altro» e un «non io»: e questa negazione è la sua azione creativa.

‑ Questa inversione del giudizio che fissa i valori ‑ questo necessario volgersi all'esterno piuttosto che indietro, a se stessi ‑ è propria appunto del ressentiment: la morale degli schiavi ha sempre e innanzitutto bisogno, per nascere, di un mondo esterno antagonista; ha bisogno, per servirci di termini psicologici, di impulsi esterni per poter comunque agire ‑ la sua azione, fondamentalmente, non è altro che reazione. Opposto è il caso dei criteri di valutazione aristocratici: essi agiscono e crescono spontanei, cercano il loro contrario solo per poter affermare se stessi con maggior gratitudine e maggior gioia ‑ il loro concetto negativo di «basso», «volgare», «cattivo» è solo una pallida, posteriore immagine di contrasto in relazione alloro positivo concetto fondamentale, tutto intessuto di vita e di passione, di «noi nobili, noi buoni, noi belli, noi felici!».

Quando i criteri di giudizio aristocratici compiono valutazioni errate e peccano contro la realtà, ciò accade in relazione alla sfera che essi non conoscono abbastanza e dalla cui più reale conoscenza essi si difendono ruvidamente: essi disconoscono, talvolta, la sfera che disprezzano, quella dell'uomo comune, del basso popolo; si tenga presente d'altra parte che, in ogni modo, il sentimento del disprezzo, del guardare dall'alto in basso, con superiorità, posto che questo sentimento falsifichi l'immagine di ciò che si disprezza, non raggiungerà certo il livello di falsificazione con cui l'odio arretrato, la vendetta dell'impotente aggredisce ‑ in effigie ovviamente ‑ il suo avversario. In effetti, al disprezzo si mescola troppa noncuranza, troppa superficialità, troppa distrazione e troppa impazienza, e addirittura troppa soddisfazione di sé perché esso sia poi in grado di trasformare il suo oggetto in un'autentica caricatura e in un mostro.

Non sono certo da trascurare le nuances quasi benevole di cui per esempio l'aristocrazia greca colora tutte le parole con le quali distingue da sé il basso popolo; la continua presenza di una specie di dolcificante rammarico, di riguardo, di indulgenza, tanto da far diventare quasi tutti i termini relativi all'uomo comune sinonimi di «infelice», «degno di compassione» (cfr. deilós, deílaios, ponerós, moktherós dove gli ultimi due termini contrassegnano l’uomo comune come schiavo da lavoro e bestia da soma ‑ e come d'altra parte «cattivo», «basso», «infelice» non hanno mai cessato di avere per l'orecchio greco un solo tono, una coloritura in cui predomina il significato di «infelice»: e ciò quale eredità degli antichi più nobili criteri di giudizio aristocratici che non si smentiscono neppure nel disprezzo ‑ (i filologi ricordino, l'uso corrente di oïzuros, ánolbos, tlémon, dustukein, sumphorá)

I «bennati» sentivano se stessi come «felici», non avevano bisogno di costruirsi la loro felicità artificialmente volgendo lo sguardo ai loro nemici, né, in qualche caso, di autoconvincersene, di inventarsela (come fanno invece tutti gli uomini del ressentiment); e poi essi, uomini superdotati di forza e perciò stesso necessariamente attivi, riuscivano a non separare l'agire dalla felicità ‑ l'essere attivi era per loro considerato come qualcosa di attinente necessariamente alla felicità (da cui eu prattein) ‑ tutto ciò in netto contrasto con la «felicità» a livello degli impotenti, degli oppressi, dei piagati da sentimenti ostili e velenosi, ai quali essa appare sostanzialmente come narcosi, ottundimento, calma, pace, «sabbath», distensione dell'animo e rilasciamento muscolare, in breve come qualcosa di passivo.

Mentre l'uomo aristocratico vive se stesso con fiducia e chiarezza (gennaĩos, «di nobile nascita» sottolinea la nuance «onesto» e anche «ingenuo»), l'uomo del ressentiment non è né onesto, né ingenuo, né vero con se stesso. La sua anima è strabica, il suo spirito ama i nascondigli, le vie oblique, le scappatoie, tutto ciò che è nascosto lo affascina come fosse il suo mondo, la sua sicurezza, la sua consolazione, è un esperto in fatto di silenzio, di memoria, di attesa, di provvisoria diminuzione di sé, e di umiliazione.

Una razza di tali uomini del ressentiment finirà necessariamente per essere più avveduta di qualsiasi razza aristocratica, e onorerà l'avvedutezza in tutt'altro modo, cioè come condizionamento esistenziale di primo grado, mentre l'avvedutezza, negli uomini nobili, ha spesso un certo squisito sapore di lusso e di raffinatezza ‑ infatti essa non è assolutamente, in questo caso, così essenziale come la perfetta e sicura funzionalità degli istinti normativi inconsci, o come addirittura una specie di sconsideratezza, quale lo slanciarsi con coraggio sia contro il pericolo che contro il nemico, o quelle esaltate esplosioni improvvise di vita, di amore, di venerazione, di gratitudine e di vendetta, in cui le anime nobili hanno in ogni epoca riconosciuto se stesse.

Lo stesso ressentiment dell'uomo nobile, quando si manifesta in lui, arriva al massimo e si esaurisce infatti in una reazione immediata e quindi non intossica: d'altra parte, in molti casi non compare affatto, mentre in tutti i deboli e in tutti gli impotenti esso è inevitabile. Non poter prendere a lungo sul serio i propri nemici, le proprie sventure e nemmeno le proprie malefatte, è tipico di nature forti, complete, dotate di un'eccedenza di forza plastica, imitatrice, apportatrice di salute come d'oblio (un esempio notevole, tratto dall'epoca moderna, è Mirabeau, del tutto privo di memoria per gli insulti e le bassezze che aveva dovuto sopportare e che non poteva perdonare per il semplice fatto che aveva dimenticato). Un uomo simile con uno scossone si scuote di dosso molti rettili che sulla persona di altri si sarebbero scavati una tana; solo in questo caso anche il «vero amore per i propri nemici» è possibile, ammesso che esso sia comunque possibile in terra.

Quanto rispetto per i propri nemici ha infatti un uomo nobile! e un simile rispetto è già un ponte verso l'amore... Egli vuole il suo nemico per sé, come suo segno distintivo, non sopporta alcun altro nemico che abbia in sé qualcosa di spregevole, e non invece moltissimo cui rendere onore! Pensiamo invece «al nemico», come lo concepisce l’uomo del ressentiment: avremo di fronte proprio la sua vera azione, la sua creazione: infatti egli concepisce «il nemico cattivo», «il cattivo» e precisamente come concetto di base, dal quale deduce come sua copia e riscontro anche un «buono» - se stesso!...

11.

Tutto il contrario di quello che accade per gli aristocratici, che concepiscono il concetto di base «buono» prima e spontaneamente, partendo cioè da se stessi, e solo dopo si creano una immagine di «cattivo»! Questo «cattivo» di nobile origine e quel «malvagio» uscito dal crogiuolo dell'odio insaziabile ‑ il primo una creazione posteriore, qualcosa di secondario, una colorazione complementare, il secondo, invece l'originale, l'inizio, l'azione autentica nella concezione di una morale di schiavi ‑ come appaiono diverse queste due parole «cattivo» e «malvagio» apparentemente opposte allo stesso concetto di «buono»!

Ma non è lo stesso concetto di «buono»: chiediamoci invece chi è realmente «malvagio» nel senso della morale del ressentiment. A rigor di termini: proprio il «buono» dell'altra morale, proprio l'aristocratico, il potente, il dominatore, solo che esso appare ridipinto, reinterpretato, rivisto dall'occhio avvelenato del ressentiment. E questa è una cosa che non vogliamo assolutamente contestare: chi ha conosciuto quei «buoni» solo come nemici, non ha conosciuto altro che nemici malvagi, e gli stessi uomini che vengono frenati così severamente dal costume, dalla venerazione, dagli usi, dalla gratitudine e ancora di più dalla vigilanza reciproca, dalla rivalità inter pares, e che d'altra parte nei rapporti interpersonali si dimostrano così fertili di inventiva per quel che riguarda il rispetto, l'autocontrollo, la delicatezza di sentimenti, la fedeltà, l'orgoglio e l'amicizia sono, all'esterno, dove ha inizio il mondo estraneo, lo straniero, non molto migliori di bestie feroci sfrenate. Qui essi godono della libertà da tutti i vincoli sociali, e, tornati selvaggi, si risarciscono della tensione accumulata durante una lunga clausura e reclusione nella pace della comunità, ritornano all'innocenza della coscienza di un rapace, come giocondi mostri, che si allontanano da tutta una serie di assassini, incendi, profanazioni, torture con un'insolenza e con un equilibrio psicologico, come se tornassero da una burla studentesca, convinti che i poeti avranno ormai qualcosa di nuovo da cantare e da celebrare.

Alla base di tutte queste razze aristocratiche non si può non riconoscere l'animale da preda, la trionfante bestia bionda che vaga alla ricerca della preda e della vittoria; questo fondo occulto, di tanto in tanto, ha bisogno di scaricarsi, l'animale deve uscire di nuovo alla luce, tornare alla vita selvaggia, ‑ nobiltà romana, araba, germanica, giapponese, eroi omerici, vichinghi, scandinavi ‑ si assomigliano tutti in questo bisogno. Sono state le razze nobili ad aver lasciato, in tutti i luoghi percorsi, tracce del concetto di «barbaro»; anche la loro massima cultura tradisce ancora una coscienza di ciò e il relativo orgoglio (per esempio quando Pericle dice ai suoi Ateniesi, in quella famosa orazione funebre, «la nostra audacia si è aperta una strada per ogni terra e per ogni mare, erigendosi dovunque monumenti imperituri nel bene e nel male»).

Questa «audacia» delle razze nobili, folle, assurda, improvvisa, il modo con cui si manifesta, l'imprevedibilità e l'improbabilità stessa delle sue imprese ‑ Pericle sottolinea particolarmente la ratumìa degli Ateniesi ‑, la loro indifferenza e il disprezzo per la sicurezza, il corpo, la vita, le comodità, la loro terribile allegria, la profondità del piacere provato in ogni distruzione, in tutte le ebbrezze di vittoria e di crudeltà ‑ tutto questo trovò il suo riepilogo, per coloro che ne dovettero soffrire, nell'immagine del «barbaro», del «nemico malvagio», come i «Goti» o i «Vandali».

La diffidenza glaciale e profonda che il tedesco provoca ancora oggi, non appena arriva al potere, è sempre un'eco di quell'orrore inestinguibile con cui per millenni l'Europa aveva guardato la bionda bestia germanica (anche se tra gli antichi Germani e noi tedeschi non esiste quasi nessuna affinità ideale, né tanto meno di sangue).

Una volta ho richiamato l'attenzione sulla perplessità di Esiodo che avendo escogitato la successione delle età della cultura, cercava di definirle con l'oro, l'argento e il bronzo; ma non seppe risolvere la contraddizione che gli offriva il mondo di Omero così splendido e al tempo stesso così terribile e violento, se non dividendo un'età in due epoche successive, la prima, quella degli eroi e semidei di Troia e di Tebe, come era conservata nella memoria delle stirpi aristocratiche che in essa avevano avuto i loro progenitori; la seconda, quella del bronzo, così come quel mondo appariva ai discendenti degli oppressi, dei depredati, maltrattati, deportati e venduti: un'età di bronzo, come si è detto, dura, fredda, crudele, priva di sentimenti e di coscienza, che tutto demolisce e tutto sommerge nel sangue.

Concesso che sia vero, ciò che ora si ritiene sia la «verità», e cioè che il senso di ogni civiltà sia quello di riuscire ad allevare la bestia feroce «uomo» trasformandola in un animale mansueto e civilizzato, un animale domestico, bisognerebbe considerare, senza alcun dubbio, tutti quegli istinti di reazione e di risentimento, col cui aiuto le stirpi aristocratiche sono state infine messe alla gogna e sopraffatte, con tutti i loro ideali, come autentici strumenti di civiltà; con la qual cosa non si sarebbe ancora detto, d'altra parte, che i loro portatori rappresentassero automaticamente la civiltà stessa.

Piuttosto il contrario sarebbe non soltanto probabile ‑ anzi! oggi è evidente! I portatori degli istinti compressi e cupidi di rivincita, i discendenti di tutte le schiavitù europee e non europee e in special modo di tutta la popolazione pre‑ariana ‑ essi rappresentano il regresso della umanità. Questi «strumenti di civiltà» sono la vergogna dell'essere umano e sono piuttosto un sospetto, un'argomentazione contro la «civiltà» in genere! Si potrà anche avere tutto il diritto di non liberarsi dalla paura davanti alla bionda bestia annidata nel fondo di tutte le razze aristocratiche e di stare in guardia: ma chi non preferirebbe cento volte di più il terrore, se esso fosse unito all'ammirazione, che non la mancanza di esso, unita all'impossibilità di liberarsi dallo spettacolo nauseante di esseri abortiti, immiseriti, squallidi e intossicati? Non è forse questo il nostro destino fatale? Che cosa provoca, oggi, il nostro disgusto per l'«uomo»? perché è fuor di dubbio che noi soffriamo dell'uomo. Non certo il terrore, piuttosto invece il fatto che non abbiamo più nulla da temere nell'uomo; che la massa verminosa «uomo» è in primo piano col suo brulichio; che l'«uomo mansueto», insanabilmente mediocre e scialbo, ha già imparato a sentirsi come fine ultimo e coronamento, come significato della storia, cioè «uomo superiore» ‑ che anzi ha anche un certo diritto di ritenersi tale, perché sente se stesso come distante dal cumulo di esseri deformi, malsani, snervati, sfatti, che cominciano ora a appestare l'Europa col loro lezzo; come qualcosa che perlomeno è relativamente ben riuscita, per lo meno ancora capace di vivere e di dire sì alla vita ‑

12.

E qui soffoco un sospiro e una ultima speranza. Quale è, per me in particolare, la cosa intollerabile per eccellenza? La cosa che non riesco a dominare da solo, che mi mozza il fiato e mi consuma? Aria cattiva! Aria cattiva! La possibile vicinanza di qualcosa di deforme, il dover sentire il lezzo delle interiora di un'anima deforme!... Del resto, che cosa non sopportiamo di miseria, privazioni, intemperie, malattie, fatiche e solitudine? In fondo riusciamo a risolvere tutto il resto, fatti come siamo per un'esistenza sotterranea e di lotta; si ritorna sempre a vedere la luce, si riesce sempre a vivere ancora un'ora splendente di vittoria ‑ e allora eccoci, come siamo nati, indistruttibili, tesi, pronti al nuovo, all'ancora più difficile, più lontano, come un arco teso al massimo dal massimo della tribolazione.

‑ Ma di tempo in tempo mi sia concesso ‑ posto che esistano divine protettrici, al di là del bene e del male ‑ uno sguardo, mi sia concesso un solo sguardo su qualcosa di perfetto, di compiuto, felice, potente, trionfante, tale ancora da incutere qualche timore! Su un uomo, che giustifichi l'uomo su un felice accidente, complementare e salvifico dell'uomo, in grazia del quale si possa continuare ad aver fede nell'uomo. Poiché è così: l'immiserimento e il livellamento dell'uomo europeo cela in sé il nostro più grande pericolo, perché questo spettacolo rende stanchi...

Oggi non vediamo niente che voglia diventare più grande, si ha il presagio che tutto continui ad affondare sempre più in basso, e si faccia sempre più sottile, più buono, più intelligente, più confortevole, più mediocre, più indifferente, più cinese, più cristiano ‑ l'uomo, e questo è indubbio ‑ si fa sempre «migliore»...

E questo è appunto il fatale destino d'Europa ‑ col timore per l'uomo abbiamo perso anche l'amore, la venerazione, la speranza e la volontà verso l'uomo stesso. La vista dell'uomo rende ormai stanchi ‑ e che cosa è oggi il nichilismo se non questo?... Siamo stanchi dell'uomo...

13.

‑ Ma torniamo indietro: il problema dell'altra origine del «buono», del buono visto dall'uomo del ressentiment, deve essere risolto ‑ Che gli agnelli non amino i grandi uccelli predatori non sorprende nessuno: ma non autorizza certo a rimproverare i grandi predatori per il fatto di cacciare gli agnellini. E se gli agnelli dicono tra loro: «Questi predatori sono malvagi; e chi è rapace il meno possibile, anzi chi è addirittura l'opposto, un agnello cioè, non dovrebbe essere buono?», non possiamo certo biasimare questo criterio di edificazione di un ideale, anche se i predatorì stessi considereranno la cosa con un certo scherno e si diranno probabilmente: «Noi non li odiamo affatto, questi buoni agnelli, anzi li amiamo, niente è più squisito di un tenero agnello».

‑ Pretendere dalla forza che essa non si manifesti come forza, che essa non sia volontà di sopraffazione, volontà di oppressione, di potere, che essa non sia sete di nemici e di resistenze e di trionfi, è tanto assurdo come il pretendere dalla debolezza che essa si manifesti come forza. Un quantum di forza è un preciso quantum di istinto, di volontà, di azione ‑ anzi non è altro che questo istinto, questa volontà, questa azione stessa, e solo la seduzione del linguaggio (e degli errori fondamentali, in essa pietrificati, della ragione) che intende e fraintende ogni agire come condizionato da un agente, da un «soggetto», può far apparire la cosa sotto una luce diversa. Così come infatti il popolo separa il fulmine dal suo baleno e considera quest’ultimo come un fare, come l’azione di un soggetto che si chiama fulmine, così la morale popolare separa la forza dalle manifestazioni della forza, come se al di là del forte esistesse un sostrato indifferente, il quale sarebbe libero di manifestare o no la forza. Ma un tale sostrato non esiste, non esiste nessun «essere» dietro il fare, l'agire, il divenire: «colui che fa» è solo un accessorio inventato dal fare ‑ il fare è tutto. Il popolo, in fondo, raddoppia il fare; quando fa balenare il lampo, si tratta di un far‑fare: l'avvenimento viene posto prima come causa e poi, la seconda volta, come effetto di questa.

I naturalisti non si comportano diversamente, dicendo: «La forza muove, la forza produce» e via di seguito ‑ tutta la nostra scienza, malgrado tutta la sua freddezza o la sua liberazione dal sentimento, soggiace ancora alla, seduzione del linguaggio e non si è liberata dei falsi bastardi, dei «soggetti» (l'atomo, per esempio, è uno di questi bastardelli, così come la «cosa in sé» kantiana): nessuna meraviglia quindi se i sentimenti repressi di vendetta e di odio, ancora ardenti sebbene nascosti, sfruttino questa fede ai propri fini, e, in, fondo, non tengano viva più profondamente altra fede se non quella nella libertà di scelta del forte di farsi debole, e dell'uccello rapace di farsi agnello ‑ col che si conquistano il diritto di imputare all'uccello da preda il fatto di essere appunto un uccello da preda...

Se, in preda all'astuzia assetata di vendetta, gli oppressi, gli offesi, gli afflitti, si dicono: «Fateci essere diversi dai malvagi, cioè buoni! e buono è colui il quale non violenta, non ferisce nessuno, non attacca, non fa rappresaglie, rimette la vendetta a Dio che, come noi, si tiene nascosto, che evita ogni male, e inoltre non esige molto dalla vita, simile a noi pazienti, umili, giusti», questo non significa, se lo si considera freddamente e senza prevenzioni, altro che: «Ecco, noi deboli siamo proprio deboli: è bene che non si faccia nulla per cui non si possegga forza bastante»; ma questa cruda realtà, questa accortezza di infimo rango, che anche gli insetti hanno (e infatti fingono di essere morti, in caso di grave pericolo, per non dover fare niente di «troppo») grazie all'arte falsaria e alla capacità di rinnegare se stessi propria dell'impotenza, si è rivestita degli abiti sontuosi della virtù che rinuncia, è muta, attende, come se anche la debolezza del debole, cioè la sua essenza, il suo agire, tutta la sua unica, inevitabile, non redimibile realtà, fosse una prestazione volontaria, qualcosa di voluto, di scelto, un'azione, un merito.

Per questa specie di uomini credere in un soggetto «indifferente», libero di scegliere è una necessità, derivata dall'istinto di conservazione, di autoaffermazione, in cui ogni menzogna è solita santificarsi. Il soggetto (ovvero, per dirla più popolarmente, l'anima) è stato forse sino ad oggi sulla terra il miglior articolo di fede, perché ha permesso alla maggioranza dei mortali, dei deboli, degli oppressi di ogni tipo, quella sublime mistificazione di sé che interpreta anche la debolezza come libertà, il suo essere‑così‑e‑così come merito.

14.

‑ Qualcuno vuole forse sondare un po' il mistero delle modalità con cui sulla terra si fabbricano gli ideali? Chi ne ha il coraggio?... Avanti! Ecco, questa buia officina si apre al nostro sguardo. Aspettate ancora solo un attimo, signor Pettegolo e Spericolato: il vostro occhio dovrà prima abituarsi a questa luce falsa e oscillante... Così! Basta! Adesso parlate pure! Che cosa succede là sotto? Dite quello che volete, uomo dalla più pericolosa delle curiosità ‑ adesso sarò io ad ascoltare, ‑

‑ «Non vedo niente, ma in compenso odo molto meglio. Da ogni angolo e da ogni anfratto viene tutto un sommesso, sospettoso e maligno parlottio, un generale sussurrio. Mi sembra che tutti mentano, ogni suono sembra invischiato in una zuccherosa dolcezza. La debolezza sarà fatta passare per merito, è fuor di dubbio ‑ è proprio come avete detto voi» Avanti!

‑ «E l'impotenza aliena da sentimenti di rivincita, sarà fatta passare per "bontà": la timorosa viltà per "umiliazione", la sottomissione di fronte a chi si odia per "obbedienza" (cioè a qualcuno che, essi dicono, ordina questa sottomissione ‑ lo chiamano Dio). Quanto di inoffensivo c'è nel debole, la viltà stessa di cui è ricco, il suo starsene alla porta, il suo inevitabile dover attendere, qui si fa un buon nome, è "pazienza", anzi è la virtù stessa; il non‑potersi‑vendicare diventa non‑volersi‑vendicare, forse addirittura perdono ("poiché essi non sanno quello che fanno ‑ noi solo sappiamo quello che essi fanno! "). Parlano anche di "amare i propri nemici" e sudano parlandone.»

‑ Avanti!

‑ «Non c'è dubbio, tutti questi falsari che parlottano nei loro anfratti sono dei miserabili, anche se se ne stanno accucciati insieme al caldo ‑ eppure mi dicono che la loro miseria è un segno che Dio li ha scelti e segnati, che si frustano i cani che amiamo di più; e che forse questa miseria è una preparazione, una prova, una scuola, e forse anche qualcosa di più qualcosa che un giorno verrà ricompensata con enormi interessi in oro, anzi in felicità. E questa la chiamano "beatitudine".

‑ Avanti!

‑ «Adesso mi lasciano intendere che essi non sono solo migliori dei potenti, dei signori della terra, i cui sputi sono costretti a leccare (non per paura, assolutamente no! ma perché Dio ha ordinato di onorare ogni autorità) ‑ che non sono solo migliori, ma anche che "stanno meglio", o che comunque "staranno meglio", un giorno. Basta! Basta! Non ne posso più. Aria viziata! Aria viziata! Mi sembra che questa officina dove si fabbricano ideali, sappia proprio di fetide menzogne.»

‑ No, ancora un attimo! Non mi avete ancora parlato del capolavoro di questi negromanti che da tutto ciò che è nero ricavano il bianco, il latte e l'innocenza ‑ non avete notato, a qual grado di perfezione arrivano i loro procedimenti di raffinazione o il loro tocco d'artista audacissimo, finissimo, ingegnosissimo e falsissimo? Fate attenzione! Questi insetti striscianti gonfi di vendetta e d'odio ‑ come la trasformano la vendetta e l'odio? Avete mai ascoltato parole simili? Potreste mai immaginare, fidandovi solo delle loro parole, di trovarvi proprio in mezzo agli uomini del ressentiment?

‑ «Capisco, e apro ancora una volta le orecchie (ahimè, ahimè, ahimè! mi tappo il naso). Adesso soltanto ascolto quello che andavano ripetendo senza sosta: "Noi buoni ‑ noi siamo i giusti" ‑ quello che esigono, non la chiamano ritorsione, ma "trionfo della giustizia" quello che odiano non è il loro nemico, no! essi odiano "l'ingiustizia" "l'empietà", quello in cui credono e sperano non è la speranza della vendetta, l'ebbrezza della dolce vendetta ("più dolce del miele" ‑ così già la chiamava Omero), ma la vittoria di Dio, del Dio giusto sugli empi; quel che resta loro da amare sulla terra, non sono i loro fratelli nell'odio ma i loro "fratelli nell'amore", come essi dicono, tutti i buoni e i giusti della terra.»

‑ E come chiamano quello che serve loro come consolazione per tutte le sofferenze della vita ‑la loro fantasmagoria della anticipazione di una beatitudine a venire?

- «Come? Ho capito bene? Lo chiamano «il giudizio universale”, l’avvento del Caro regno, del "regno di Dio" ‑ nel frattempo, però, essi vivono "nella fede", "nell'amore", nella speranza.»

‑ Basta! Basta!

15.

Nella fede di che? Nell'amore di chi? Nella speranza di che? ‑ Questi deboli! ‑ a un certo momento, infatti, vogliono anch'essi essere i forti, senza dubbio, e un bel giorno arriverà anche il loro «regno» ‑ «il regno di Dio» lo definiscono semplicemente così, come si è detto: bisogna pur essere umili in tutto! Già solo per poter vivere questo, bisogna vivere a lungo, oltre la morte ‑ anzi bisogna avere una vita eterna, per potersi consolare eternamente, nel «regno di Dio», di quella vita terrena vissuta «nella fede, nell'amore, nella speranza». Consolarsi di che? Consolarsi con che?...

Credo che Dante abbia commesso un grosso errore ponendo, con terrificante ingenuità, sulla porta del suo inferno la scritta «fecemi l'eterno amore» ‑ su quella del paradiso invece e della sua «beatitudine eterna» potrebbe stare, comunque a maggior diritto, l'iscrizione «fecemi l'eterno odio» ‑ posto che una verità possa stare sulla porta che conduce a una menzogna! Infatti che cos'è la beatitudine di quel paradiso?... Potremmo forse anche indovinano, ma è meglio che ce lo dimostri chiaramente una indiscussa autorità in materia, Tommaso d'Aquino, il gran maestro e santo. «Beati in regno coelesti ‑ dice mansueto come un agnello ‑ videbunt poenas damnatorum, ut beatitudo illis magis complaceat.»

O preferiamo sentircelo dire con accenti più forti, forse dalla bocca di uno di quei trionfanti Padri della Chiesa, che sconsiglia ai suoi cristiani i crudeli piaceri d egli spettacoli pubblici ‑ e perché poi?: «La fede ci offre molto ma molto di più ‑ dice, de Spectac. c. 29 Ss. ‑ qualcosa di molto più forte; grazie alla redenzione abbiamo a disposizione gioie tutte diverse; invece degli atleti abbiamo i nostri martiri; e se volessimo del sangue, ebbene, ecco il sangue di Cristo... E che cosa mai ci attenderà nel giorno del suo ritorno, del suo trionfo!» e così continua, questo visionario in estasi: «A t enim supersunt alia spectacula, ille ultimus etperpetuusjudjcji dies, ille nationibus insperatus, ille derisus, cum tanta saeculi vetustas et tot eius nativitates uno igne haurientur! Quae tunc spectaculi latitudo! Quid admirer! Quid rideam! Ubi gaudeam! Ubi exultem spectans tot et tantos reges, qui in coelum recepti nuntiabantur, cum ipso Jove et ipsis suis testibus in imis tenebris congemescentes! Item praesides (i governatori delle province) persecutores dominici nominis saevioribus quam ipsi flammis saevierunt insultantibus contra Christianos liquescentes! Quos praeterea sapientes illos philosophos coram discipulis suis una conflagrantibus erubescentes, quibus nihil ad deum pertinere suadebant, quibus anemas aut nullas aut non in pristina corpora redituras affirmabant! Etiam poetas non ad Rhadamanti nec ad Minois, sed ad inopinati Christi tribunal palpitantes! Tunc magis tragoedi audiendi, magis scilicet vocales (meglio in voce, urlatori ancora più cattivi) in sua propria calamitate, tunc histriones cognoscendi, solutiores multo per ignem; tunc spectandus auriga in flammea rota totus rubens, tunc xystici contemplandi non in gymnasiis, sed in igne jaculati, nisi quod ne tunc quidem illos velim vivos, ut qui malim ad eos potius conspectum insatiabilem conferre, qui in dominun desaevierunt. "Hic est ille, dicam, fabri aut quaestuariae filius (come dimostra tutto il brano seguente e in particolare anche questa definizione che ci è nota dal Talmud, della madre di Gesù, Tertulliano, a partire da questo punto, si riferisce agli Ebrei) sabbati destructor, Samarites et daemonium habens. Hic est, quem a Juda redemistis, hic est ille arundine et colaphis diverberatus, sputamentis dedecoratus, felle et aceto potatus. Hic est, quem clam discentes subripuerunt, ut resurrexisse dicatur vel hortulanus detraxit, ne lactucae suae frequentia commeantium laederentur." Ut talia spectes ut talibus exultes, quis tibi praetor aut consul aut quaestor aut sacerdos de sua liberalitate praestabit? Et tamen haec jam habemus quodammondo perfidem spiritu imaginante repraesentata. Ceterum qualia illa sunt, quae nec oculos vidit nec auris audivit nec in cor hominis ascenderunt? (I Cor., 2,9). Credo certo et utraque cavea (prima e quarta fila o, secondo altri teatro comico e tragico) et omni stadio grati ora». Per fidem: così sta scritto.

16.

Concludendo ‑ I due valori opposti «buono e cattivo», «buono e malvagio» hanno combattuto sulla terra una lotta terribile e millenaria: e per quanto sia certo ormai che il secondo valore ha da lungo tempo superato il primo, non mancano certo luoghi in cui la lotta continua ancora e il suo esito non è certo. Potremo addirittura dire che nel frattempo essa è stata portata sempre più in alto, facendosi sempre più profonda, più spirituale; tanto che oggi non esiste forse segno più chiaro della «natura superiore», della natura più spirituale, che essere scissi in codesto senso, ed essere ancora realmente un campo di battaglia per quei contrasti.

Il simbolo di questa lotta, scolpito in una scrittura che è sopravvissuta, chiara e leggibile, a tutta la storia della umanità, è «Roma contro Giudea, Giudea contro Roma»: ‑ sino ad oggi non si è dato alcun avvenimento più grande di questa lotta, di questa impostazione del problema, di questo contrasto mortalmente ostile. Roma vide nell'Ebreo qualcosa come la contronatura stessa, come un monstrum ai suoi antipodi; a Roma l'Ebreo era ritenuto «reo convinto di odio contro tutto il genere umano»: a buon diritto, in quanto si ha un diritto di riconnettere la salvezza e il futuro del genere umano al dominio assoluto dei valori aristocratici, dei valori romani. E gli Ebrei, invece, quali erano i loro sentimenti verso Roma? Lo si indovina da mille segni; ma basta anche soltanto ripensare attentamente all'apocalisse giovannea, a questa che è la più squallida tra tutte le invettive scritte, che la vendetta abbia sulla coscienza. (Non si sottovaluti, infatti, la profonda logica dell'istinto cristiano che proprio su questo libro dell'odio scrisse il nome del discepolo dell'amore, quello stesso cui attribuì quel vangelo dell'amore estatico: in ciò c'è una parte di verità per quanta falsificazione letteraria sia stata necessaria a questo scopo.) I Romani rappresentavano, infatti, i forti e gli aristocratici, come sulla terra non sono mai esistiti di più forti e più nobili, né tanto meno sono stati mai sognati: ogni loro vestigio, ogni loro iscrizione è una gioia, posto che si indovini che cosa scrive in essi. Gli Ebrei, invece, erano quel popolo sacerdotale, del risentimento par excellence, cui era innata una ineguagliabile genialità popolare ‑ morale: basta paragonare infatti gli Ebrei ai popoli in possesso di qualità affini, ai Cinesi o anche ai Tedeschi, per capire perfettamente che cosa è dì primo e che cosa è di quarto grado. Chi di essi ha temporaneamente vinto, Roma o la Giudea? Ma non è possibile alcun dubbio: pensiamo davanti a chi, proprio a Roma, ci si inchina oggi, come davanti alla summa di ogni valore supremo ‑ e non solo a Roma, ma quasi su metà della terra, ovunque l'uomo sia stato reso mansueto o voglia diventarlo ‑ dinnanzi cioè a tre ebrei, come ben si sa, e dinnanzi a un'ebrea (dinnanzi a Gesù di Nazareth, a Pietro
il pescatore, a Paolo tessitore di tappeti, e alla madre del già citato Gesù, detta Maria).

Questo è molto interessante: senza ombra di dubbio Roma è stata sconfitta. In ogni modo il Rinascimento rappresentò il risveglio grandiosamente inquietante dell'ideale classico, della maniera aristocratica di giudicare tutte le cose: allo stesso modo di chi si è risvegliato da una morte apparente, Roma stessa si mosse sotto il peso della nuova Roma giudaizzata costruita su quella antica, che aveva l'aspetto di una sinagoga ecumenica e che veniva chiamata «Chiesa»; ma immediatamente Giudea tornò a trionfare, grazie a quel movimento di ressentiment essenzialmente plebeo (tedesco e inglese) cui si dà il nome di Riforma, con in più tutte le sue conseguenze, la restaurazione della Chiesa ‑ la restaurazione anche della vecchia cimiteriale quiete della Roma classica.

Con la Rivoluzione Francese, Giudea tornò ancora a sconfiggere l'ideale classico, in un senso ancora più decisivo e profondo: l'ultima aristocrazia politica esistente in Europa, quella del XVII e XVIII secolo francese, crollò sotto gli istinti popolari del ressentitnent ‑ e mai sulla terra si vide giubilo maggiore e più rumoroso entusiasmo! E vero che proprio al suo culmine accadde la cosa più mostruosa e inattesa: lo stesso ideale antico apparve in carne ed ossa e con splendore mai visto agli occhi e alle coscienze dell'umanità ‑ e ancora una volta risuonò, più semplice, più forte e più penetrante che mai, di fronte alla antica fallace formula del privilegio dei più, propria del ressentiment, di fronte alla volontà di deteriorare, abbassare, livellare, di far scadere e scomparire l'uomo, la formula opposta, terribile e fascinosa, del privilegio dei pochi!

Come ultima indicazione dell'altra strada apparve Napoleone, l'uomo più singolare e più tardivamente apparso che mai sia esistito, e con lui l'incarnazione del problema dell'ideale aristocratico in sé ‑ si faccia bene attenzione a che tipo di problema sia mai questo: Napoleone, questa sintesi di non‑uomo e di super uomo...

17.

‑ Era dunque tutto finito? Quella opposizione di ideali, grandiosa più di tutte le altre, venne così posta ad acta per sempre? Oppure solo aggiornata, aggiornata a un tempo lontano?... Non potrebbe forse avvenire che a un certo punto l'antico incendio torni a divampare molto più devastante, dopo una preparazione molto più lunga? Dirò di più: non dovremmo desiderare con tutte le forze proprio questo? anzi volerlo? anzi promuoverlo?... Chi, come i miei lettori, comincia a questo punto a riflettere, a approfondire il problema, non lo risolverà certo entro breve tempo ‑ ragione sufficiente, per me, per volerlo invece risolvere, dato che da molto tempo è ormai abbastanza chiaro quello che io voglio, quello che voglio proprio con quella formula pericolosa, scritta su misura per il mio ultimo libro: «Al di là del bene e del male»... Per lo meno questo non significa, «Al di là del buono e del cattivo» ‑

Nota. Questo saggio mi offre l'occasione per esprimere pubblicamente e formalmente un desiderio che fino ad oggi ho manifestato solo in occasionali colloqui con esponenti del mondo della cultura: che cioè una qualche facoltà di filosofia si renda benemerita, con una serie di concorsi accademici, dell'incremento degli studi di storia della morale ‑ forse questo libro servirà a dare un forte impulso proprio a questo tipo di studi. In relazione a una possibilità di questo tipo pongo la seguente domanda: essa merita non solo l'attenzione dei filologi e degli storici quanto anche quella dei filosofi di professione.

«Quali indicazioni ci fornisce la linguistica e in special modo la ricerca etimologica, per la storia dell'evoluzione dei concetti morali?»

‑ D'altra parte è altrettanto necessario acquisire la partecipazione di fisiologi e medici a questo tipo di problemi (sul valore dei criteri di giudizio usati fino ad oggi) ‑ mentre potrà essere lasciata ai filosofi specializzati la possibilità di agire, anche in questo caso, quali mediatori e patrocinatori, una volta che sia loro riuscito di trasformare del tutto le relazioni originariamente così aride e diffidenti tra filosofia, fisiologia e medicina in una collaborazione amichevole e produttiva.

Tutte le tavole di valore, in realtà tutti i «tu devi», noti alla storia e alla ricerca etnologica, avrebbero bisogno, sopra ogni altra cosa, di una chiarificazione e di un'interpretazione fisiologica, prima ancora di quella psicologica; tutte queste tavole aspettano poi una critica da parte della scienza medica. Il problema: quale sia il valore di questa o quella tavola di valore, di questa o quella «morale» deve essere visto nelle prospettive più diverse; soprattutto il problema del «valido a qua/fine?» non potrà mai essere analizzato abbastanza sottilmente. Per esempio, qualcosa che avesse chiaramente valore in relazione alla maggiore possibilità di conservazione dì una razza (all'incremento delle sue capacità di adattamento a un certo clima o al mantenimento del maggior numero dei suoi membri) non avrebbe assolutamente lo stesso valore ove si trattasse di creare un tipo più forte. Il bene dei più e il bene dei pochi sono criteri di valore opposti; considerare il primo come più valido in sé dell'altro è cosa che lasceremo al candore dei biologi inglesi... Tutte le scienze saranno ormai chiamate a spianare la strada al compito futuro dei filosofi ‑compito che consiste, per il filosofo, nel risolvere il problema del valore, nel fissare l'ordine gerarchico dei valori. ‑

Saggio secondo

«Colpa», «Cattiva coscienza» e simili

1.

Allevare un animale che possa fare delle promesse ‑ non è proprio questo il compito paradossale che la natura si è imposto nei confronti dell'uomo? Non è questo, in realtà, il vero problema dell'uomo?... Che questo problema sia stato risolto sino a un grado elevato, dovrà sembrare tanto più sorprendente a chi sa misurare appieno la forza opposta e contraria, cioè quella del dimenticare. Dimenticare non è solo vis inertiae, come credono i superficiali, essa è molto di più una forza frenante, attiva e positiva nel senso più preciso del termine, forza cui si deve il fatto che tutto ciò di cui noi facciamo esperienza, apprendiamo e accogliamo in noi, nello stato di digestione (potremmo chiamarlo «assorbimento intellettuale») arriva tanto poco alla nostra coscienza, quanto tutto il molteplice processo con cui si compie la nostra nutrizione corporale, il cosiddetto processo di «assorbimento».

Chiudere ogni tanto le porte e le finestre della coscienza, non farsi molestare dal fracasso e dalla lotta con cui il mondo occulto degli organi al nostro servizio manifesta la sua collaborazione e opposizione; un po' di tranquillità, un po' di tabula rasa della coscienza, per fare ancora spazio a qualcosa di nuovo, soprattutto a funzioni e funzionari più nobili, per governare, prevedere, ordinare (dato che il nostro organismo ha una struttura oligarchica) ‑ questo è il vantaggio ‑ come si è detto ‑ di una dimenticanza attiva, simile a un guardaportone, un custode dell'ordine spirituale, della tranquillità, dell'etichetta: per cui si dovrà immediatamente stabilire in quale misura nessuna felicità, nessuna serenità, nessuna speranza, nessun orgoglio, nessun presente sia possibile senza smemoratezza. L'uomo in cui questo apparato frenante viene danneggiato e costretto a funzionare irregolarmente, può essere paragonato (e non solo paragonato) a un dispeptico, non riesce a «concludere» nulla...

E proprio questo animale necessariamente smemorato, in cui la mancanza di memoria è una forza, una forma di florida salute, si è costruito, con l'educazione, una facoltà opposta, una memoria, col cui aiuto può interrompere, in certi casi, il processo del dimenticare ‑ nei casi, cioè, in cui si debba far promesse: non solo, quindi, un non potersi liberare delle impressioni ormai stampate, non solo l'indigestione di una parola già impegnata e di cui non si riesce a venire a capo, ma un non voler rendersi libero, un volere iterato e continuo del già voluto, una vera e propria memoria del volere: cosicché tra l'originario «io voglio», «io farò» e il vero e proprio scaricarsi della volontà, il suo atto, può introdursi facilmente un mondo di cose nuove e diverse, di circostanze, e anche di atti della volontà, senza far saltare questa lunga catena del volere. Ma quante cose presuppone tutto ciò! Per poter anticipatamente disporre così del futuro, l'uomo deve aver bene imparato a separare l'avvenimento necessario da quello causale, a pensare con cognizione di causa, a vedere e a prevedere le cose lontane come se fossero presenti, a stabilire con certezza che cosa sia il fine e il mezzo e in generale a saper calcolare, a fare previsioni ‑ per far tutto ciò, quanto l'uomo stesso deve già essere diventato prevedibile, regolare, necessario, anche a se stesso per la sua propria rappresentazione, per potersi finalmente fare garante di se stesso come futuro, così come fa chi promette!

2.

E questa è, invero, la lunga storia della origine della responsabilità. Quel compito di allevare un animale, cui sia concesso promettere, include, già l'abbiamo intuito, come condizione e preparazione, l'impegno più diretto di rendere, per prima cosa, l'uomo, sino a un certo grado, necessario, uniforme, uguale tra gli uguali, conforme alla regola e di conseguenza prevedibile. L'enorme lavoro di quella che ho chiamato «eticità dei costumi» (cfr. Aurora, pp. 7; 13; 16) ‑ il vero lavoro che l'uomo deve compiere su se stesso nel più lungo spazio di tempo del genere umano, tutto il suo lavoro preistorico trova qui il suo significato, la sua grande giustificazione, a prescindere da quanto esso comporti di durezza, di tirannia, di stolidità e di idiotismo: con l'ausilio dell'eticità dei costumi e della camicia di forza sociale l'uomo è stato reso realmente prevedibile.

Se ci poniamo invece al termine dell'immane processo là dove l'albero porta finalmente i suoi frutti, dove la società e la sua eticità dei costumi rivela il fine di cui fu solo il mezzo, vedremo come il più maturo frutto del suo albero l'individuo sovrano, uguale solo a se stesso, emancipato di nuovo dalla eticità dei costumi, l'individuo autonomo e sovramortale (ché «autonomo» e «etico» sono termini che si escludono a vicenda), in breve, l'uomo dalla volontà propria, indipendente, duratura, cui è concesso promettere ‑ e in lui un'orgogliosa coscienza che vibra in ogni muscolo, di quello che è stato raggiunto e che in lui si è incarnato, una coscienza reale di potenza e di libertà, un sentimento di compiutezza dell'uomo in generale.

Questo essere fattosi libero, che può realmente promettere, questo signore della libera volontà, questo sovrano ‑ in che modo mai potrebbe ignorare quale superiorità abbia così acquistato su coloro ai quali non è permesso promettere né farsi mallevadori per se stessi e quanta fiducia, quanto timore, quanta venerazione egli susciti ‑ le «merita» tutte e tre queste cose ‑ e come, con il dominio di sé, gli venga necessariamente dato anche il dominio delle circostanze, della natura e di tutte le creature dalla volontà meno ferma e meno responsabile?

L'uomo «libero», padrone di una volontà ferma e incrollabile, trova in questo possesso anche la sua misura di valore: rivolgendosi agli altri dal suo punto di vista, egli onora o disprezza; e con la stessa necessità con cui onora i suoi simili, i forti, i responsabili (quelli cui è concesso promettere), insomma tutti coloro che promettano non diversamente da personaggi regali, con difficoltà, di rado e senza fretta, che non buttino via la loro fiducia, che concedendola a qualcuno tributino una distinzione, che diano la loro parola come qualcosa cui affidarsi perché si sanno forti abbastanza da poterla mantenere malgrado ogni calamità, anche «contro il destino» con la stessa necessità terrà in serbo i suoi calci per i fragili levrieri che promettono, senza esserne autorizzati, e la sua frusta per il bugiardo che tradisce la sua parola nell'istante stesso in cui la pronuncia. L'orgogliosa certezza dello straordinario privilegio della responsabilità, la coscienza di questa libertà rara, di questo potere su se stesso e sul destino, sono penetrate in lui sino alle sfere più profonde, per farsi istinto, istinto dominante ‑ come lo chiamerà questo istinto dominante, posto che senta in sé la necessità di un termine per definirlo? Ma è fuor di dubbio: quest’uomo sovrano lo chiamerò coscienza...

3.

La sua coscienza?... E’ facile dire già ora come il concetto di «coscienza» che incontriamo qui nella sua forma più compiuta, più alta e quasi sorprendente, abbia già una lunga storia e metamorfosi formale. Poter rispondere di se stessi e con orgoglio, cioè poter dire di sì anche a se stessi è, come si è detto, un frutto maturo, ma anche un frutto tardo ‑ per quanto tempo questo frutto acerbo e amaro è dovuto restare sull'albero! E per un periodo di tempo ancora molto più lungo questo frutto non lo si vide affatto ‑ nessuno lo avrebbe potuto promettere, anche se l'albero stava crescendo, tutto teso alla nascita proprio di questo frutto! «Come si crea una memoria nell'animale uomo? Come si imprime a questo intelletto dell'attimo, in parte ottuso, in parte dispersivo, a questo oblio vivente, come si imprime tanto a fondo qualcosa da farla rimanere presente?»...

Questo problema antichissimo, come è chiaro, non è stato risolto proprio con risposte e mezzi gentili; forse non esiste, in tutta la preistoria dell'uomo, niente di più terribile e misterioso della sua mnemotecnica. «Si marchia qualcosa col fuoco, per farla imprimere nella memoria: solo ciò che non cessa di far male, resta nella memoria» ‑ questo è un principio fondamentale della più antica (e purtroppo anche più duratura) psicologia sulla terra. Si potrebbe dire anche, che dovunque sulla terra esistano ancora solennità, gravità, mistero, colori oscuri nella vita di uomini e popoli, operi ancora a posteriori qualcosa dell'orrore con cui una volta sulla terra, dovunque, si prometteva, si davano pegni, si dispensavano lodi: il passato, il più lungo, il più profondo e il più duro passato, ci respira vicino e sgorga in noi, quando ci facciamo «gravi».

Ogni qualvolta l'uomo ha ritenuto necessario farsi una memoria, ciò non è avvenuto mai senza sangue, torture, sacrifici; i sacrifici e i pegni più atroci (tra gli altri, il sacrificio dei primogeniti), le più disgustose mutilazioni (per esempio le castrazioni), le più crudeli forme rituali di tutti i culti religiosi (e tutte le religioni sono, nel loro fondo estremo, sistemi di crudeltà) ‑ tutto ha la sua origine in quell'istinto che vide nel dolore il più potente mezzo sussidiario della mnemonica. In un certo senso tutto l'ascetismo non è altro che questo: un paio di idee devono essere rese indelebili, onnipresenti, indimenticabili, «fisse», per una ipnotizzazione di tutto il sistema nervoso e intellettuale proprio grazie a queste «idee fisse» ‑ e le procedure, come le forme di vita ascetiche, sono mezzi per liberare queste idee dalla concorrenza con tutte le altre idee, per renderle «indimenticabili».

Quanto peggio stava l'umanità «in fatto di memoria», tanto più tremendo è stato sempre l'aspetto dei suoi usi; la durezza della legislazione penale in particolare dà una misura di quanta fatica le sia costata la vittoria contro l'oblio e il far restare presenti a questi schiavì attimali delle passioni e dei desideri un paio di primitive esigenze della convivenza sociale.

Noi Tedeschi non ci consideriamo certo un popolo particolarmente crudele e duro di cuore, né tanto meno superficiale e contento di vivere alla giornata; ma basta solo dare un'occhiata ai nostri antichi ordinamenti penali per capire immediatamente quanta fatica costa, sulla terra, allevare un «popolo di pensatori» (voglio dire: il popolo d'Europa, nel cui seno oggi è possibile trovare il maximum di fiducia, di serietà, di obiettività e di mancanza di gusto, e che grazie a queste qualità ha un diritto ad allevare ogni specie di mandarini in Europa). Questi Tedeschi si sono creati una memoria con mezzi terribili, per arrivare a padroneggiare i loro plebei istinti di fondo e la loro rozzezza brutale: si pensi alle antiche punizioni tedesche, per esempio alla lapidazione (‑ già la saga fa cadere sulla testa del colpevole la macina del mulino), al supplizio della ruota (la più tipica delle invenzioni e delle specialità del genio tedesco nel campo delle pene!), a quello del palo, a quello di far smembrare e calpestare il colpevole dai cavalli (lo «squartamento»), a quello di far bollire il reo nell'olio o nel vino (ancora nel XIV e nel XV secolo), al prediletto scorticamento («scuoiamento»), allo strappare la carne dal petto; e anche al supplizio di cospargere il malfattore di miele e di abbandonarlo poi alle mosche, sotto il sole ardente.

Con l'ausilio di queste immagini e di questi procedimenti si finisce per fissare finalmente nella memoria cinque o sei «non voglio», in rapporto ai quali si è promesso, per vivere nei vantaggi della società ‑ e in realtà, con l'aiuto di questa specie di memoria si è arrivati infine «alla ragione»! Ah la ragione, la serietà, la padronanza degli affetti, tutta questa oscura faccenda che è chiamata riflessione, tutti questi privilegi e accessori di lusso dell'uomo: come si sono fatti pagare cari! quanto sangue e quanto orrore è al fondo di tutte le «cose buone»!...

4.

Ma come mai è venuta al mondo quell'altra «oscura faccenda», la coscienza della colpa, l'intera «cattiva coscienza»? ‑ E con ciò torniamo ai nostri genealogisti della morale. Lo dico ancora una volta ‑ o forse non l'ho ancora mai detto? ‑ essi non valgono niente. Un'esperienza singola di non più di cinque spanne, solo «moderna», nessun sapere, nessuna volontà di sapere il passato; ancora meno un istinto storico, una «seconda vista» necessaria proprio in questo caso ‑ eppure si occupano di storia della morale: e ciò deve ovviamente portare a risultati che hanno un rapporto non puramente sdegnoso con la verità. Questi nostri genealogisti della morale hanno mai sia pur lontanamente pensato che, per esempio, quel concetto fondamentale di «colpa» ha la sua origine nel concetto molto materiale di «debito»? O che la pena come rivalsa si è sviluppata prescindendo assolutamente da ogni presupposto sulla libertà e non libertà del volere? e ciò sino al punto in cui c'è invece sempre in primo luogo bisogno di un alto livello di umanizzazione, perché l'animale «uomo» cominci a operare quelle diversificazioni molto più primitive come «intenzionale», «negligente», «casuale», «responsabile» e i loro opposti, e a tenerne conto nella corresponsione della pena.

Quel pensiero oggi così a buon mercato e apparentemente così naturale e inevitabile, cui si è sempre dovuto far ricorso per spiegare come si è originato sulla terra il sentimento della giustizia, il pensiero cioè che «il delinquente merita di essere punito perché avrebbe potuto agire diversamente», è in effetti una forma assolutamente tarda, anzi raffinata del giudicare e del dedurre umano; chi la sposta alle origini, commette un grossolano errore riguardo alla psicologia della umanità più antica. Per tutto il più lungo periodo della storia umana, non si è usata la pena, perché si considerasse responsabile della sua azione colui che aveva fatto il male, cioè non secondo il presupposto che si debba punire solo il colpevole ‑ ma invece, si puniva, come ancora oggi i genitori puniscono i figli, e cioè sotto l'impulso della collera per un danno subito, la quale si sfoga sull'autore del danno ‑ collera, questa, controllata e modificata dall'idea che ogni danno abbia, in qualche cosa, il suo equivalente e che possa essere indennizzato, sia pure con il dolore di chi lo ha prodotto. Da dove ha derivato la sua forza questa antichissima idea, dalle radici profondissimne che forse oggi non è più possibile estirpare, l'idea di un'equivalenza di danno e dolore? Io l'ho già svelato: nel rapporto contrattuale tra creditore e debitore, che è tanto antico quanto lo sono anche i «soggetti di diritto», e rimanda ancora una volta, da parte sua, alle forme fondamentali di compera, vendita, baratto e commercio.

5.

In ogni modo richiamare alla mente questi rapporti contrattuali, risveglia, come è naturale aspettarsi dopo quello che abbiamo precedentemente osservato, ogni genere di sospetto e di resistenza contro l'umanità più antica che li ha creati o permessi. Proprio qui si fanno le promesse; proprio qui si tratta di fare una memoria a colui che promette; proprio questo, è consentito sospettano, sarà il luogo di ritrovamento di cose dure, crudeli, sgradevoli. Per rendere credibile la sua promessa di restituzione, per garantire la serietà e la sacralità della promessa, per imporre a se stesso e alla sua coscienza la restituzione come un dovere, un'obbligazione, il debitore offre, con un contratto, in pegno al creditore, per il caso di una possibile insolvenza, qualcosa che egli ancora «possiede», qualcosa su cui ha ancora potere, per esempio il proprio corpo, la propria donna, la libertà o anche la propria vita (o, secondo certi presupposti religiosi, addirittura la sua beatitudine, la salvezza della sua anima, e infine anche la pace del sepolcro: come in Egitto, dove neppure nella tomba il cadavere del debitore trovava pace dal creditore ‑ e proprio per gli Egizi questa pace aveva un senso particolare).

Ma proprio contro il corpo del debitore il creditore poteva usare ogni genere di offesa e di tortura, per esempio farne tagliare tanta parte quanta riteneva fosse commisurata all'ammontare del debito ‑ e proprio da questo modo di vedere si originarono molto presto e dovunque parametri valutativi molto precisi, in parte atroci nei loro piccoli e minutissimi dettagli, valutazioni, opportunamente fissate, per le singole membra e parti del corpo. Ritengo che costituisca già un progresso, la prova di una concezione del diritto più libera, più magnanima, più romana, il fatto che a Roma le dodici tavole decretassero che dovesse essere ritenuta cosa indifferente quanto o quanto poco i creditori tagliavano dal corpo del debitore, «si plus minusve secuerunt, ne fraude esto». Chiariamo la logica di tutto questo tipo di compensazione: essa è molto poco usuale.

L'equivalenza deriva dal fatto che invece di un vantaggio direttamente riferito al danno (cioè, invece di un risarcimento in denaro, terra o proprietà di vario tipo) viene concessa al creditore una specie di sensazione di benessere come rimborso del debito e risarcimento ‑ la sensazione è di poter dare libero sfogo alla propria potenza nei confronti di un impotente, la voluttà «de faire le mal pour le plaisir de le faire», il piacere di usare violenza: piacere che in quanto tale viene apprezzato tanto più quanto più infimo e misero è il creditore nell'ordine della scala sociale, e che può sembrargli facilmente un boccone prelibato, anzi come pregustazione di un rango più elevato. Per il tramite della «pena» inflitta al debitore, il creditore partecipa di un diritto signorile; finalmente può godere del sentimento gratificante di poter disprezzare e maltrattare un essere umano come qualcosa che sta «sotto di lui» ‑ o per lo meno, nel caso che il vero e proprio potere penale, l'applicazione di una pena sia già stata affidata «all'autorità», di vederlo disprezzato e maltrattato. La compensazione consiste dunque in un mandato e in un diritto alla crudeltà. ‑

6.

In questa sfera, nel diritto delle obbligazioni dunque, ha il suo primo focolare il mondo dei concetti morali di «colpa», «coscienza», «dovere», «sacralità del dovere» ‑ i suoi inizi, come quelli di tutto ciò che è grande in terra, sono stati bagnati a lungo e in profondità dal sangue. E non sarebbe lecito aggiungere che in fondo quel mondo non si è mai più liberato di un certo qual odore di sangue e di tortura? (anche nel vecchio Kant: l'imperativo categorico sa di crudeltà...). E parimenti qui è stata ribadita per la prima volta quella più crudele concatenazione di idee, «colpa e dolore», che forse si è fatta indissolubile.

E chiediamoci ancora: in che misura il dolore può essere una compensazione dei «debiti»? Nella misura in cui far soffrire procurava grandissimo piacere, nella misura in cui il danneggiato scambiava il danno, con in più l'irritazione per il danno, con un contro‑piacere straordinario: il far soffrire ‑ vera e propria festa, cosa che, come si è detto, tanto più era apprezzata, quanto più contraddiceva il rango e la posizione sociale del creditore.

Queste sono certo solo supposizioni: poiché è molto difficile arrivare al fondo di simili cose sotterranee, a prescindere dal fatto che è anche increscioso; e chi tira rozzamente in ballo qui il concetto di «vendetta», non fa altro che velarsi e coprirsi gli occhi invece di renderli più acuti (‑ anche la vendetta rimanda proprio allo stesso problema: «come è possibile che il far‑soffrire rappresenti una soddisfazione?»). Contrasta, mi pare, con la delicatezza, ancora di più con la tartufena di pacifici animali domestici (alludo agli uomini moderni, alludo a noi), immaginare con la maggiore intensità possibile sino a che grado la crudeltà costituisca la più grande gioia festiva dell'umanità più antica, e anzi sia mescolata a guisa d'ingrediente, a quasi tutte le sue gioie; d'altra parte, quanto ingenuamente e con quanta innocenza si manifesta il suo bisogno di crudeltà, e come proprio la «cattiveria» disinteressata (o, per dirla con Spinoza, la sympathia malevalens) viene posta fondamentalmente da essa come qualità normale dell'uomo ‑: qualcosa dunque, al quale la coscienza dice sì con tutto il cuore! Uno sguardo più profondo potrebbe forse, ancora oggi, percepire quanto basta di questa remotissima e profondamente radicata gioia festiva dell'uomo; in Al di là del bene e del male, pp. 117 Ss. (e già prima in Aurora: pp. 17, 68, 102) ho cautamente accennato alla sempre crescente spiritualizzazione e «divinizzazione» della crudeltà, che corre attraverso tutta la storia della civiltà superiore (e, vista in un'accezione significativa, addirittura la costituisce). In ogni modo non è poi trascorso molto tempo da quando non si riusciva a immaginare nozze di principi e feste popolari in grandissimo stile senza esecuzioni capitali, torture e sinanco un autodafè, e neppure un governo aristocratico senza esseri sui quali si potesse spregiudicatamente dar libero corso alla propria cattiveria e alle proprie beffe crudeli (‑ si ricordi Don Chisciotte alla corte della duchessa: oggi noi leggiamo l'intero Don Chisciotte con un sapore amaro in bocca, quasi ne fossimo torturati, e in ciò saremmo forse molto estranei, molto oscuri per il suo autore e per i suoi contemporanei ‑ questi leggevano il libro con la coscienza più tranquilla del mondo, come il più sereno dei libri e ne ridevano da morire).

Veder soffrire fa bene, far soffrire fa ancora meglio ‑ questa è una massima dura, ma una massima fondamentale, antica, potente, umana ‑ troppo umana, che forse potrebbe essere già sottoscritta dalle scimmie: infatti si dice che esse, nell'inventare crudeltà bizzarre, fanno già abbondantemente pensare all'uomo e quasi lo «anticipano».

Senza crudeltà non c’è festa: questo insegna la più remota, la più lunga storia dell'uomo ‑ e anche la pena ha in sé molto di festivo!

7.

‑ Con questi pensieri, d'altra parte, non voglio affatto aiutare i nostri pessimisti a portare acqua nuova agli striduli e cigolanti mulini del loro tedio della vita; al contrario, si deve dimostrare chiaramente che allora, quando l'umanità non si vergognava ancora della propria crudeltà, la vita sulla terra era molto più serena di oggi che esistono i pessimisti. L'oscurarsi del cielo sugli uomini è sempre stato proporzionale all'aumento della vergogna dell'uomo di fronte all'uomo. Lo sguardo stanco e pessimista, la sfiducia davanti all'enigma della vita, il gelido no della nausea alla vita non sono questi i segni delle età più malvagie del genere umano: anzi esse, da quelle piante palustri che sono, emergono alla luce del giorno soltanto quando c'è la palude di cui fanno parte ‑ intendo qui il rammollimento morboso e la demoralizzazione, per cui la bestia «uomo» impara, alla fine, a vergognarsi di tutti i suoi istinti.

Sulla strada verso l'«angelo» (per non usare qui una parola più dura) l'uomo si è procurato quello stomaco malato e quella lingua impastata che gli hanno reso disgustosa non solo la gioia e l'innocenza dell'animale, ma che gli fanno ritenere insipida anche la vita ‑tanto che talvolta sta di fronte a se stesso tappandosi il naso e con papa Innocenzo III compila il catalogo di tutto ciò che gli ripugna («concepimento peccaminoso, nauseante nutrizione nel corpo materno, miseria della materia da cui l'uomo si è sviluppato, puzza atroce, secrezione di saliva, urina e feci»).

Oggi che il dolore deve sempre esibirsi al primo posto tra gli argomenti contro l'esistenza, come suo più grave punto interrogativo, fa bene riportare alla memoria i tempi in cui i criteri di giudizio erano diversi, perché non si voleva fare a meno di fare del male, vedendo in ciò un incantesimo di prim'ordine, una vera e propria offa della seduzione a vivere.

Forse allora ‑ sia detto per la consolazione delle anime delicate ‑ il dolore non faceva ancora tanto male come oggi; per lo meno questa sarà la conclusione di un medico che abbia curato negri (prendendoli a rappresentanti degli uomini preistorici ‑) colpiti da gravi infezioni interne, che fanno quasi disperare anche il più organicamente perfetto degli Europei ‑ ai negri questo non capita. (La curva della resistenza umana al dolore infatti sembra precipitare in modo eccezionale e quasi improvviso, non appena si abbiano dietro di sé i primi diecimila o dieci milioni di appartenenti a una civiltà superiore; e per quanto mi riguarda non ho dubbi che, in confronto a una notte di dolori di una isterica dotta femminuccia le sofferenze di tutti gli animali che sino ad oggi sono stati interrogati col coltello allo scopo di riceverne risposte scientifiche, non sono nemmeno da prendere in considerazione.)

Forse è addirittura lecito ammettere la possibilità che anche quel piacere della crudeltà non debba proprio essersi spento: esso avrebbe solo bisogno di una certa sublimazione e di una certa depurazione, oggi che il dolore fa più male; dovrebbe apparire espressamente trasferito in termini di immaginazione e di anima, e ornato di un buon numero di appellativi così inoffensivi da non risvegliare alcun sospetto nemmeno nella più delicata e ipocrita coscienza (la «compassione tragica» è uno di questi appellativi; un altro è «les nostalgies de la croix»). Quello che indigna di fronte al dolore, non è il dolore in sé, ma la mancanza di senso del dolore; ma né per il cristiano, che è stato capace di costruirsi nel dolore tutto un misterioso meccanismo di salvezza, né per l'uomo ingenuo delle epoche più antiche, che sapeva interpretare ogni dolore in rapporto allo spettatore o a chi provocava il male, questo dolore privo di senso non esisteva.

Per far sì che il dolore nascosto, non rivelato, privo di testimoni fosse cancellato dal mondo e onestamente negato, si fu allora quasi costretti a inventare divinità ed esseri intermedi di varia altezza e profondità, in breve, qualcosa che si muove anche in ciò che è nascosto, che vede anche nell'oscurità e che non si fa sfuggire tanto facilmente un interessante spettacolo doloroso. Con l'ausilio di tali invenzioni, la vita imparò a esercitare l'arte, che già conosceva a menadito, di giustificare se stessa, di giustificare il suo «male»; oggi, forse, ci vorrebbero altre invenzioni ausiliarie (per esempio la vita come enigma, la vita come problema della conoscenza). «Ogni male è giustificato, il cui spettacolo serva a edificazione di un dio»: questa era la remotissima logica del sentimento ‑ e in verità, era solo quella dei primordi?

Gli dèi visti come appassionati di spettacoli crudeli ‑ oh, quanto affonda ancora nella nostra umanizzazione europea questa antichissima idea! si potrebbe chiedere consiglio in merito a Calvino e a Lutero. Certo è, in ogni modo, che ancora i Greci non sapevano offrire ai loro dèi nessun altro più gradevole companatico alla loro felicità che le gioie della crudeltà. Con quali occhi credete mai che Omero faccia guardare i suoi dèi al destino degli uomini? Quale senso ultimo ebbero, in fondo, le guerre troiane e altri simili tragici orrori? Non è possibile dubitare: erano visti come spettacoli di festa per gli dèi, e per il fatto che il poeta, in ciò, ha una natura molto più «divina» degli altri uomini, esse erano anche feste per i poeti... Non diversamente più tardi i filosofi greci della morale immaginarono lo sguardo degli dèi rivolto ai conflitti morali, all'eroismo e ai tormenti inflitti a sé medesimo di chi è virtuoso: l'«Eracle del dovere» era su un palcoscenico, e lo sapeva perfettamente; la virtù senza testimoni, era per questo popolo di attori qualcosa di assolutamente inconcepibile.

Quella invenzione dei filosofi così audace e fatale, che allora fu portata a compimento in Europa, l'invenzione del «libero arbitrio», della spontaneità assoluta dell'uomo nel bene e nel male, non fu forse per statuire un diritto all'idea che l'interesse degli dèi per l'uomo, per la virtù umana, non può mai venire meno? Su questo palcoscenico terreno non doveva certo mancare mai qualcosa di realmente nuovo, tensioni realmente inaudite, intrecci e catastrofi: un mondo pensato in modo perfettamente deterministico sarebbe stato facile da prevedere per gli dèi e, di conseguenza, in breve lasso di tempo anche stancante ‑ motivo questo sufficiente per questi amici degli dèi, i filosofi, per non affliggere gli dèi con un tale mondo deterministico! Tutta l'umanità antica è piena di delicati riguardi per lo «spettatore», come un mondo essenzialmente pubblico, essenzialmente palese, che non sapeva immaginarsi la felicità senza spettacoli e feste. ‑ E come ho già detto, anche nel grande castigo è insito molto di festivo!...

8.

Il sentimento della colpa, dei nostri obblighi personali, per riprendere il filo della nostra ricerca, ha avuto, come abbiamo visto, le sue radici nel rapporto interpersonale più antico e originario che si sia mai dato, nel rapporto tra compratore e venditore, creditore e debitore: qui, per la prima volta, si contrapponeva persona a persona, qui, per la prima volta, la persona si misurò alla persona. Non è stato ancora trovato un grado di civilizzazione tanto basso in cui non si notasse qualcosa di questo rapporto. Fissare i prezzi, misurare i valori, inventare equivalenze, scambi ‑ tutto ciò ha preoccupato il pensiero più antico dell’uomo in misura tale che, in un certo senso, il pensare è questo: qui è stata allevata la forma più antica di intelligenza, qui si potrebbe supporre anche l'avvio primo dell'orgoglio umano, il suo sentimento di superiorità nei confronti degli altri animali.

Forse il nostro termine «Mensch» (manas) esprime proprio parte di questo sentimento di sé: l'uomo si definiva come l'essere che stabilisce valori, stima e misura perché è l'«animale valutante in sé». La compravendita, con tutti i suoi attributi psicologici, è più antica anche degli inizi di ogni altra forma di organizzazione sociale e di associazione: dalle forme più rudimentali del diritto personale si è invece, prima di tutto, trasposto il nascente sentimento di scambio, contratto, debito, diritto, obbligo, compensazione nei più rozzi e iniziali complessi comunitari (nei loro rapporti con complessi simili), contemporaneamente all'abitudine di paragonare potenza a potenza, di misurarle e calcolarle. L'occhio era ormai adattato a questa prospettiva: e con quella grossolana coerenza, tipica del pensiero della più remota umanità, lento nei movimenti e poi spietato nell'avanzare per la sua strada, si arrivò molto presto, con grande generalizzazione, a «ogni cosa ha il suo prezzo; tutto si può comprare» ‑ al più antico e ingenuo canone morale della giustizia, all'inizio di ogni «bontà», di ogni «equità», di ogni «buona volontà»; di ogni «oggettività» sulla terra. A questo primo livello, giustizia è la buona volontà tra uomini quasi pari per potenza, di volersi accordare gli uni con gli altri, di «intendersi» di nuovo con un accordo ‑ e, in riferimento ai meno potenti, di costringerli a un accordo tra loro. ‑

9.

Sempre misurata sul metro della preistoria (la quale preistoria, d'altra parte, esiste in ogni epoca o è sempre di nuovo possibile), anche la collettività sta con i suoi membri in quel rapporto di base così importante che è quello del creditore verso i suoi debitori. Si vive in una comunità, si gode dei vantaggi di una collettività (oh, quali vantaggi! oggi talvolta li sottovalutiamo), si abita protetti, al riparo, in pace e nella fiducia, senza preoccupazioni per quello che riguarda certi danneggiamenti e atti di ostilità, ai quali è esposto l'uomo al di fuori, colui che è «escluso» ‑ un tedesco conosce bene il significato originario del termine «Blend» (ê!end) ‑, perché proprio per quello che riguarda questi danneggiamenti e atti ostili ci si è impegnati e si sono contratti obblighi verso la comunità. Che cosa accadrà nell'altra caso? La comunità, il creditore ingannato, si farà pagare come meglio potrà, ci si può contare.

Si tratta qui, per lo meno, del danno immediato, che il danneggiatore ha provocato: a prescindere da ciò, colui che delinque è soprattutto colui che «viola», che rompe un patto o viene meno alla parola data contro il tutto, in relazione a tutti i beni e le piacevolezze della vita comunitaria, cui egli ha partecipato fino a quel momento. Il delinquente è un debitore che non solo non ripaga i vantaggi e gli anticipi di cui ha goduto, ma che passa addirittura a vie di fatto col suo creditore: dal che deriva, ovviamente, che a partire da quel momento non solo egli perderà tutti questi beni e vantaggi, ma gli verrà fatto anche ricordare che importanza hanno questi beni.

L'ira del creditore danneggiato, della collettività, lo restituisce allo stato selvaggio e assolutamente fuori legge dal quale era stato fino a quel momento protetto: lo respinge dal suo seno ‑ e da questo momento ogni specie di ostilità può essere esercitata contro di lui. La «pena», a questo livello di civilizzazione, non è altro che la riproduzione, il mimus del comportamento normale, contro il nemico odiato, disarmato e abbattuto, che ha perso non solo ogni diritto e protezione, ma anche ogni possibilità di grazia: dunque il diritto di guerra e la celebrazione di vittoria del Vae victis! in tutta la sua spietatezza e crudeltà ‑ dal che si spiega che anche la guerra (compreso il culto sacrificale di guerra) ha offerto tutte le forme in cui la pena compare nella storia.

10.

Una comunità, acquistata maggior potenza, non prende più tanto sul serio le trasgressioni del singolo, perché esse non possono più essere considerate, come per l'innanzi, così pericolose e eversive per l'esistenza del tutto: il trasgressore non viene più «messo al bando» e escluso, la collera generale non può più scatenarsi contro di lui sfrenatamente come prima ‑ anzi al contrario, a partire da quel momento, il malfattore sarà accuratamente protetto e difeso dalla comunità contro questa collera e particolarmente contro quella di coloro che sono stati direttamente danneggiati.

Il compromesso con la collera di coloro che sono stati più di tutti colpiti dalla cattiva azione; uno sforzo per localizzare il caso e prevenire una più estesa o anzi generale partecipazione e stato di ansia; tentativi di trovare degli equivalenti e di sistemare tutta l'azione (la compositio); prima di tutto la volontà, che si fa strada con sempre maggiore decisione, di ritenere ogni trasgressione in qualche modo compensabile col denaro, cioè di isolare, per lo meno in una qualche misura, il delinquente dalla sua azione ‑ecco i tratti che si sono impressi sempre più chiaramente sull'ulteriore sviluppo del diritto penale.

Se la forza e l'autocoscienza di una comunità crescono, anche il diritto penale si addolcisce, ogni indebolimento e ogni più profondo stato di pericolo porta di nuovo alla luce forme più dure di questo. Il «creditore» si è fatto sempre più umano a misura che la sua ricchezza aumentava: alla fine misura stessa della sua ricchezza è diventata la sua capacità di sopportare dei danni senza soffrirne. Non sarebbe inconcepibile una consapevolezza di forza da parte della società, per cui essa potesse concedersi il lusso più aristocratico possibile ‑ lasciare impuniti coloro che le arrecano pregiudizio. «Che cosa mi importa dei miei parassiti?» potrebbe dire. «Vivano pure e prosperino: sono ancora abbastanza forte da permettermelo! »... La giustizia, che era cominciata con il «tutto è compensabile col denaro, tutto deve essere compensato col denaro», finisce per chiudere un occhio e lasciar andare gli insolventi ‑ finisce, come ogni cosa buona sulla terra, per annullare se stessa. Questo autoannullamento della giustizia: si sa bene con quale bel nome viene chiamato ‑ grazia; essa resta, come è ovvio, prerogativa del più potente, meglio ancora, il suo al di là del diritto.

11.

E ora una parola di rifiuto per i recenti tentativi di cercare l'origine della giustizia su un terreno del tutto diverso ‑ cioè quello del ressentiment.

Confidiamolo prima di tutto agli psicologi, ammesso che abbiano veramente voglia di studiare finalmente da vicino il ressentiment: questa pianta fiorisce oggi in tutto il suo splendore tra gli anarchici e gli antisemiti, come del resto è sempre fiorita, nascosta, simile alla violetta, anche se il suo profumo è ben altro. E come da simile non può che derivare simile, non c'è da meravigliarsi se proprio da questi ambienti nasceranno tentativi, come già spesso ce ne sono stati ‑ cfr. p. 30 ‑ di sacralizzare la vendetta col nome di giustizia ‑ come se la giustizia, in tondo, non tosse altro che un'evoluzione del sentimento di essere stato offeso ‑ per rendere onore poi, con la vendetta, agli affetti reattivi in genere e a tutti gli altri. Di quest'ultima cosa non mi scandalizzerei troppo: anzi mi sembrerebbe quasi un merito, se rapportata a tutto il problema biologico (in relazione al quale il valore di codesti affetti è stato fino ad oggi sottovalutato).

La sola cosa che vorrei sottolineare, sta nel fatto che è proprio lo spirito del ressentiment a produrre questa nuova nuance di equità scientifica (a favore di odio, invidia, inimicizia, sospetto, rancore e vendetta). Infatti questa «equità scientifica» ha immediatamente un arresto e fa posto ad accenti di mortale inimicizia e di prevenzione, non appena si tratti di un altro gruppo di affetti che, come mi sembra, hanno un valore biologico molto più alto di quelli reattivi e che di conseguenza hanno perciò meritato di essere valutati scientificamente e di essere ritenuti importanti: e cioè gli affetti propriamente attivi, come la sete di potere, l'avidità di possesso e simili. (E. Dühring, Valore della vita, Corso di Filosofia; e in fondo dovunque).

Tanto basta contro questa tendenza in generale: per quello che riguarda la tesi, in particolare di Duhring, secondo cui la patria della giustizia sia da ricercare sul terreno del sentimento reattivo, per amore della verità, con una brusca inversione, si dovrà metterle di contro quest'altra: l'ultimo terreno conquistato dallo spirito della giustizia è quello del sentimento reattivo! Se si verificasse realmente che l'uomo giusto resti giusto anche nei confronti di chi gli ha fatto torto, (e non solo freddo, controllato, estraneo, indifferente: essere giusto è sempre un comportamento positivo), se anche sotto l'urto di un'offesa, di un insulto, di un sospetto personali, l'oggettività alta, chiara, tanto profonda quanto magnanima, di un occhio giusto e giudice non si turba, ecco, questo è un esempio di perfezione e di sublime maestria sulla terra ‑ un qualcosa che qui, prudentemente, non dovremmo aspettarci, e cui, in ogni caso, non si dovrebbe credere con eccessiva facilità.

Certo è che, nella media, anche nelle persone più rette, già una piccola dose di ostilità, di cattiveria, d'insinuazione è sufficiente per fargli montare il sangue agli occhi e fargli uscire dagli occhi l'equità. L'uomo attivo, che attacca ed è violento, è sempre ancora cento passi più vicino alla giustizia che l'uomo reattivo; per lui non è affatto necessario valutare il suo oggetto in maniera scorretta e con prevenzione, come fa e deve fare l'uomo reattivo. Infatti in ogni epoca l'uomo aggressivo, essendo più forte, più coraggioso, più nobile, ha avuto dalla sua anche lo sguardo più libero e la coscienza migliore: al contrario si indovina già chi ha sulla coscienza proprio l'invenzione della «cattiva coscienza» ‑ l'uomo del ressentiment!

E per finire guardiamo un po' alla storia: infatti in quale sfera, fino ad oggi, è stato di casa tutto l'esercito del diritto e anche il vero e proprio bisogno di giustizia sulla terra? Forse nella sfera dell'uomo reattivo: Certamente no: piuttosto, invece, in quella degli uomini attivi, forti, spontanei, aggressivi. Da un punto di vista storico, il diritto rappresenta sulla terra ‑ sia detto a dispetto del suddetto agitatore (che ha confessato di se stesso: «la dottrina della vendetta corre come il filo rosso della giustizia attraverso tutti i miei lavori e le mie fatiche») ‑ proprio la lotta contro i sentimenti reattivi, la guerra contro questi da parte delle potenze aggressive e attive, che impiegavano parte della loro forza per frenare e controllare gli eccessi del pathos reattivo e per costringere a una transizione. Dovunque si eserciti la giustizia, dovunque la giustizia venga mantenuta, si vede una potenza più forte in relazione a coloro che le sono sottoposti e che sono più deboli, (siano essi gruppi o individui) cercare mezzi per porre termine al folle infuriare del ressentiment, in parte strappando dalle mani della vendetta l’oggetto del ressentiment, in parte sostituendo, da parte sua, la vendetta con la lotta contro i nemici della pace e dell'ordine, in parte inventando, proponendo e, a seconda dei casi, imponendo compromessi; in parte elevando a norma certi equivalenti del danno, ai quali, a partire da quel momento, si rimanda una volta per tutte il ressentiment.

Ma la cosa più radicale che il potere supremo fa e compie contro lo strapotere dei sentimenti di opposizione e di risentimento ‑ e lo fa sempre, non appena ne ha la forza sufficiente ‑ è l'istituzione della legge, l'esplicazione imperativa di quello che, in generale, ai suoi occhi, deve essere considerato come lecito e giusto, o come proibito e ingiusto: trattando, dopo l'istituzione della legge, trasgressioni e atti arbitrari dei singoli o di interi gruppi come delitti contro la legge, come una ribellione contro la stessa suprema autorità, essa distrae il sentimento dei suoi soggetti dal danno prossimo, provocato da tali reati e ottiene, a lungo andare, il contrario di ciò che vuole ogni vendetta, la quale guarda solo al punto di vista del danneggiato e solo quello ritiene valido ‑: d'ora in poi l'occhio viene esercitato a una valutazione sempre più impersonale dell'azione, anche l'occhio dello stesso danneggiato (anche se per ultimo, come abbiamo notato prima).

‑ In conformità a ciò, solo a partire dalla istituzione della legge esiste «diritto» e «torto» (e non, come vuole Duhring, a partire dall'atto lesivo). Non ha assolutamente senso parlare di diritto e di torto in sé; in sé offendere, fare violenza, sfruttare, annullare non può essere niente di «contrario al diritto», in quanto la vita è essenzialmente, cioè nelle sue funzioni di fondo, qualcosa che offende, violenta e sfrutta e non può nemmeno essere pensata priva di questo carattere. E dobbiamo confessarci anche qualcosa di più grave: cioè che, dal più elevato punto di vista biologico, stati di diritto possono essere sempre solo stati eccezionali, come restrizioni parziali della vera e propria volontà di vita che aspira alla potenza, e sottomettendosi come mezzi particolari al fine complessivo di questa volontà: cioè come mezzi per creare unità di potenza più grandi. Un ordinamento giuridico pensato come sovrano e generale, non come mezzo nella lotta tra complessi di potenza, ma come mezzo contro ogni lotta in genere, pressappoco secondo il modulo comunista di Duhring, per cui ogni volontà deve considerare simile ogni volontà, sarebbe un principio ostile alla vita, una realtà che distrugge e dissolve l'uomo, un attentato al futuro dell'uomo, un segno di stanchezza, un cammino tortuoso verso il nulla. ‑

12.

Ancora un accenno all'origine e allo scopo della pena ‑ due problemi che sono divergenti e tali dovrebbero essere considerati: purtroppo, di solito, essi vengono fatti confluire in un solo. Come si sono comportati, in questo caso, sino ad oggi i nostri genealogisti della morale? Ingenuamente, come hanno sempre fatto ‑: scoprono un «fine» qualsiasi nella pena, per esempio la vendetta o l'intimidazione, e candidamente quindi pongono questo fine all'origine, come causa fiendi della pena e ‑ il gioco è fatto. Ma il «fine nel diritto» è l'ultimo motivo cui ricorrere per una storia della formazione del diritto: anzi non esiste, per ogni tipo di storia, alcun principio più importante di quello, conquistato con tanta fatica e che inoltre proprio così doveva essere conquistato ‑ secondo cui le cause della nascita di una cosa e la sua finale utilità, come anche la sua reale utilizzazione e il suo inserimento in un sistema di fini, sono toto coelo separati l'una dall'altra; che qualche cosa che esiste, in qualche modo realizzatasi, torna sempre ad essere interpretata in vista di nuove intenzioni, da una potenza ad essa su periore, viene sequestrata di nuovo, ristrutturata e riadattata per nuove utilità: che tutto ciò che accade nel mondo organico è un sopraffare, un dominare e che d'altra parte, tutto il sopraffare e il dominare è un nuovo interpretare, un sistemare, in cui, di necessità, il «senso» e lo «scopo» validi sino a quel momento, devono appannarsi o spegnersi completamente.

Anche se si fosse compresa l'utilità di un qualsiasi organo psicologico (o anche di una istituzione giuridica, di un costume sociale, di un uso politico, di una forma nelle arti o nel culto religioso), non si sarebbe certo ancora capito nulla in ordine alla sua origine: per quanto ciò possa suonare scomodo e sgradevole a orecchie più vecchie ‑ poiché da sempre si è creduto di cogliere nello scopo dimostrabile, nell'utilità di una cosa, di una forma, di un'istituzione, anche la sua base di partenza, così l'occhio come se fosse stato fatto per vedere, la mano per prendere. Così si è immaginato anche che la pena fosse stata inventata per punire.

Ma tutti gli scopi, tutte le utilità, sono solo sintomi del fatto che una volontà di potenza ha conquistato qualcosa di meno potente e gli ha imposto autonomamente il senso di una funzione; e tutta la storia di una «cosa», di un organo, di un uso può essere così una continua catena di segni, di interpretazioni e sistemazioni sempre nuove, le cui cause non hanno neanche bisogno di essere in relazione tra loro, anzi, a seconda dei casi, si susseguono e si danno il cambio dei tutto casualmente.

«Evoluzione» di una «cosa», di un uso, di un organo è, quindi, tutt'altro che il suo progressus verso un fine, e meno che mai un progressus logico e brevissimo ottenuto col minimo dispendio di forza e di spese ‑ ma il susseguirsi di processi di sopraffazione che si svolgono in quello più o meno profondamente, più o meno indipendenti l'uno dall'altro, con in più le resistenze che continuamente gli si oppongono, i tentativi di modificazioni di forma a scopo di difesa e di reazione, compresi i risultati di controazioni riuscite. La forma è fluida, ma il «senso» lo è ancora di più...

Anche all'interno di ogni singolo organismo si verifica la stessa cosa: a ogni sostanziale crescita del tutto, slitta anche il «senso» dei singoli organi ‑ in certi casi il loro parziale decadere, la loro diminuzione numerica (per esempio con la distruzione degli elementi intermedi) può essere un segno di forza crescente e di perfezione. Volevo dire: anche il parziale farsi inutile, l'atrofizzarsi e il degenerare, la perdita di senso e di conformità al fine, in breve la morte, fanno parte delle condizioni del progressus reale: il quale appare sempre come una volontà e una via verso una potenza più' grande e si afferma sempre a spese di innumerevoli potenze minori. La grandezza di un «progresso» si misura addirittura sul metro di tutto ciò che ha dovuto essergli sacrificato; l'umanità come massa sacrificata al benessere di una singola più forte specie umana ‑ questo sarebbe un progresso...

Tanto più sottolineo questo punto di vista fondamentale della metodologia storica, in quanto si oppone radicalmente agli istinti e al gusto del tempo, in effetti dominante, che anziché alla teoria di una volontà di potenza che si attua in ogni accadere, preferirebbe adattarsi alla assoluta casualità, all'assurdità meccanicistica di tutto l'accadere. L'idiosincrasia democratica contro tutto ciò che domina o vuoi dominare, il misarchismo moderno (per designare con una brutta parola una brutta cosa) a poco a poco si è tanto travestito e trasformato in qualcosa di intellettuale, anzi di superlativamente intellettuale, da potersi infiltrare oggi, passo dopo passo, già nelle scienze più rigorose e apparentemente più oggettive: anzi mi sembra che si sia già impadronito di tutta la fisiologia e teoria della vita, a danno loro, com'è ovvio, mentre, con un gioco di prestigio ha fatto sparire da esse un concetto fondamentale, quello della vera e propria attività. Sotto la
pressione di quella idiosincrasia passa in primo piano invece l'«adattamento», cioè una attività di second'ordine, una semplice reattività, anzi si è definita la vita stessa come un adattamento interno sempre più finalizzato a fatti esterni (Herbert Spencer).

Con ciò si disconosce, però, l'essenza della vita, la sua volontà di potenza; con ciò si perde di vista la priorità di principio che hanno le forze spontanee, aggressive, sopraffattrici, le quali sono in grado di fornire nuove interpretazioni, nuove direttive e nuove forme, al cui effetto soltanto segue «l'adattamento»; in tal modo viene rinnegato, nell'organismo stesso, il ruolo egemonico degli elementi addetti alle funzioni più elevate, nei quali la volontà di vita si manifesta attivamente e formativamente. Si pensi a ciò che Huxley ha rimproverato a Spencer ‑ il suo «nichilismo amministrativo»: ma si tratta di molto di più che «amministrare»...

13.

Per tornare dunque in argomento, cioè alla pena, in essa si devono distinguere due aspetti: da una parte, ciò che in essa è relativamente duraturo, l'uso, l'atto, il «dramma», una certa severa sequenza di procedure, dall'altra ciò che in essa è fluido, il senso, lo scopo, l'attesa collegata all'esecuzione di tali procedure. Qui si pressuppone, per analogiam, secondo il punto di vista, testé esposto, della metodologia storica, che la procedura stessa sarà qualcosa di più antico, di precedente la sua finalizzazione alla pena; che quest'ultima è stata in un primo tempo introdotta nella procedura (già da tempo esistente, ma intesa in un senso diverso) e interpretata entro di essa; in breve, che le cose non stanno così come avevano ritenuto, fino ad oggi, i nostri ingenui genealogisti della morale e del diritto, i quali pensavano tutti che la procedura fosse stata inventata ai fini della pena, così come si era pensato che la mano fosse stata fatta per afferrare.

Per quel che riguarda l'altro aspetto della pena, quello «fluido», il suo «significato», il concetto «pena» non ha più, in effetti, in uno stato molto tardo della civiltà (per esempio nell'Europa di oggi) un unico significato, ma tutta una sintesi di «significati»: la storia precedente della pena, la storia della sua utilizzazione agli scopi più diversi, finisce per cristallizzarsi in una specie di unità difficile da districare, difficile da analizzare, e lo si deve ribadire, assolutamente non definibile. (Oggi non è possibile dire con certezza per quale ragione si applichi una pena: ogni concetto, in cui si concentri semioticamente tutto un processo, si sottrae alla definizione; è definibile solo ciò che non ha storia.)

In uno stadio precedente quella sintesi di «significati» appare invece più scindibile, ancora più mobile; è ancora possibile percepire come, per ogni singolo caso, gli elementi della sintesi modifichino la loro valenza e conseguentemente si ristrutturino, cosicché ora questo ora quell'elemento emerge e domina a spese degli altri, anzi in certi casi, un elemento (come ad esempio lo scopo dell'intimidazione) sembra eliminare tutti gli altri elementi.

Per dare almeno una idea di quanto sia incerto, pregiudiziale, accidentale il «significato» della pena e di quanto una sola e identica procedura possa essere usata, interpretata, riordinata per intenti radicalmente diversi, si consideri lo schema che mi si è offerto sulla base di un materiale relativamente limitato e casuale.

Pena come neutralizzazione, come impedimento di un ulteriore danno. Pena come risarcimento del danno al danneggiato in una forma qualsiasi (anche in quella di una compensazione d'affetti). Pena come isolamento di una turbativa dell'equilibrio, come prevenzione di un progredire della turbativa stessa. Pena come instillazione di timore di fronte a coloro che determinano e rendono esecutiva la pena. Pena come una sorta di compensazione per i vantaggi di cui il trasgressore ha goduto fino a quel momento (per esempio, quando venga utilizzato nelle miniere come schiavo). Pena come enucleazione di un elemento che è in procinto di degenerare (in certi casi di tutto un ramo, secondo quanto avviene nel diritto cinese: come mezzo, dunque, per conservare pura la razza o per la stabilizzazione di un determinato tipo sociale). Pena come festa, cioè come violenza e beffa ai danni di un nemico finalmente abbattuto. Pena come memorializzazione, sia per colui cui essa viene inflitta ‑ il cosiddetto «miglioramento», sia per i testimoni dell'esecuzione. Pena come saldo di un onorario che la potenza si riserva per proteggere il malfattore dagli accessi della vendetta. Pena come compromesso con lo stato di natura della vendetta, nella misura in cui questo viene ancora mantenuto in vita da stirpi potenti e venga considerato come privilegio. Pena come dichiarazione e norma di guerra contro un nemico della pace, della legge, dell'ordine, dell'autorità, che si combatte con i mezzi che la guerra fornisce perché pericoloso per la comunità, come trasgressore del patto su cui fondano i suoi presupposti, come sovversivo, traditore e nemico della pace. ‑

14.

E chiaro che questa lista è incompleta; la pena è palesemente sovraccarica di ogni specie di utilità. Tanto più facile sarà il sottrarle una presunta utilità, che in ogni modo, nella coscienza popolare conta come la più importante ‑ la fede nella pena, che oggi vacilla per ragioni diverse, trova proprio in questa il suo più solido sostegno. La pena deve valere per risvegliare nel colpevole il sentimento della colpa, al suo interno si cerca il tipico instrumentum di quella reazione psichica che si chiama «cattiva coscienza», «rimorso».

Ma ciò facendo si prende ancora oggi un abbaglio per quel che riguarda la realtà e la psicologia: e ancora di più se si pensa a tutta la lunghissima storia dell'uomo, alla sua preistoria! Proprio nei delinquenti e nei detenuti il rimorso vero è qualcosa di molto raro, le prigioni, gli istituti di pena non sono i luoghi di incubazione in cui questa specie di tarlo ama crescere ‑ in ciò sono d'accordo tutti gli osservatori coscienziosi, i quali, in molti casi, esprimono un giudizio siffatto abbastanza a malincuore e contro i loro più profondi desideri. Per esprimersi in termini generali, la pena rende più duri e freddi; essa concentra; acuisce il sentimento di estraneità; aumenta la capacità di resistenza. Se capita che essa fiacchi la energia e provochi una prostrazione miserevole e un'autoumiliazione, questo risultato è certo ancora meno consolante dell'effetto medio della pena, che è caratterizzato da una gravità asciutta e cupa.

Ma se pensiamo a quei millenni precedenti la storia dell'uomo, potremo facilmente dedurre che proprio la pena ha arrestato, più decisamente che mai, l'evoluzione del senso di colpa ‑ per lo meno per quel che riguarda la vittima su cui si esercitava il potere punitivo. Infatti non dobbiamo sottovalutare in che misura proprio lo spettacolo delle procedure giudiziarie ed esecutive sia per il reo un impedimento a considerare il suo gesto, la specie della sua azione in sé, come qualcosa di riprovevole: poiché egli vede che proprio la stessa specie di azioni è compiuta con buona coscienza al servizio della giustizia, ed è approvata: cioè spionaggio, intrighi, corruzione, insidie, insomma tutta l'arte, fatta di astuzie e trucchi, di poliziotti e accusatori e ancora furti, violenze, insulti, prigionia, torture, assassini sistematici e certo non scusabili perché commessi sotto la spinta della passione, così come si riflettono nei vari tipi di pena ‑ azioni tutte che i suoi giudici non respingono né condannano in sé, ma solo sotto certi aspetti e in certe applicazioni pratiche.

La «cattiva coscienza», questa pianta, la più sinistra e interessante della nostra «vegetazione terrestre», non è nata su questo terreno ‑ in realtà, la coscienza di quanti giudicano e stabiliscono la pena, anche per un periodo di tempo lunghissimo, non ha mai registrato il fatto di avere a che fare con un «colpevole». Piuttosto, invece, con un individuo capace di procurare danni, con un irresponsabile brandello di fatalità. E anche colui su cui dopo si abbatteva la pena, ancora una volta come un brandello di fatalità, non soffriva di nessun'altra «intima pena» se non di quella che deriva dalla comparsa improvvisa d'un qualcosa di imprevisto, di una spaventevole calamità naturale, di un blocco di roccia che precipita e stritola e contro cui non è più possibile lottare.

15.

Anche la coscienza di Spinoza avvertì tutto ciò in maniera imbarazzante (a dispetto dei suoi commentatori che si affaticano diligentemente per fraintenderlo proprio su questo punto, come per esempio Kuno Fischer) quando, un pomeriggio, incappando in chi sa quale ricordo, si immerse nel problema di quanto del famoso morsus conscientiae fosse rimasto in lui in particolare, in lui che aveva relegato il bene e il male tra le fantasie umane, difendendo con rabbia l'onore del suo «libero» Dio contro quei bestemmiatori che avevano osato affermare che Dio agisce solo sub ratione boni («la qual cosa, però, significherebbe sottoporre Dio al destino e sarebbe certo la più grande di tutte le incongruenze» ‑).

Per Spinoza il mondo era di nuovo regredito a quella innocenza in cui si trovava prima dell'invenzione della cattiva coscienza: che fine aveva fatto allora il morsus coscientiae? «L'opposto del gaudium, ‑ si disse alla fine ‑ una tristezza accompagnata dalla rappresentazione di un evento passato che si è compiuto in modo contrario ad ogni aspettativa». Eth.III propos. XVIII schol. I. II. Non diversamente da Spinoza i malfattori colpiti dalla pena, nel corso di millenni, hanno inteso la loro «colpa»: «Inaspettatamente qualcosa non è andata qui per il verso suo», e non «Non avrei dovuto farlo» ‑; essi si assoggettavano alla pena come ci si sottomette a una malattia, a una sventura o alla morte, con quell'intrepido fatalismo senza rivolta, in virtù del quale per esempio i Russi ancora oggi superano noi occidentali nel trattare la vita.

Se ci fu allora una critica dell'azione, fu l'intelligenza a esercitare la sua critica sull'azione: senza dubbio dobbiamo cercare il vero e proprio effetto della pena prima di tutto in un acuirsi dell'intelligenza, in un prolungarsi della memoria, in una volontà di agire, d'ora in avanti, con più attenzione, con più diffidenza, con più segretezza, considerato che per molte cose siamo veramente troppo deboli, in una specie di perfezionamento del nostro giudizio su noi stessi. Quello che la pena, nel complesso, può avere fatto acquisire all'uomo e all'animale è l'incremento della paura, l'acuirsi dell'intelligenza, il controllo dei desideri: in questo modo la punizione addomestica l'uomo, ma non lo rende «migliore» ‑ anzi, con più diritto, si potrebbe affermare il contrario. («Sbagliando s'impara», dice il popolo, e nel momento stesso in cui s'impara, si diventa anche cattivi. Per fortuna molto spesso lo sbaglio rende anche stupidi.)

16.

A questo punto non posso più evitare di dare della mia personale ipotesi sull'origine della «cattiva coscienza» una prima provvisoria definizione: essa non è facile da ascoltare e bisogna dormirci sopra, rifletterci e tenerla in attenta osservazione. Considero la cattiva coscienza come la grave malattia cui l'uomo doveva soccombere, sotto la spinta della più profonda di tutte le mutazioni di cui egli ha mai fatto esperienza ‑ quella mutazione che lo imprigionò nella magia della società e della pace.

Una cosa simile deve essere capitata agli animali acquatici, quando furono costretti a trasformarsi in animali terrestri o a morire, e così anche questi semianimali felicemente adattati alla vita selvaggia, alla guerra, al nomadismo, all'avventura ‑ all'improvviso videro tutti i loro istinti svalutati e «scardinati». Dovettero allora camminare sulle gambe e «sorreggersi», mentre prima erano stati portati dall'acqua: una pesantezza tremenda li affliggeva. Si sentivano incapaci delle operazioni più elementari, per questo mondo nuovo e sconosciuto non possedevano più le loro antiche guide, gli istinti regolatori, inconsciamente incapaci di fallire ‑ erano ridotti, poveri infelici, a pensare, a dedurre, a calcolare, a combinare cause ed effetti, ridotti alla loro «coscienza», al più miserevole e ingannevole dei loro organi!

Credo che mai sulla terra ci sia stato un tal senso di miseria, un tale plumbeo disagio ‑ mentre quegli istinti antichi non avevano certo cessato improvvisamente di manifestare le loro esigenze! Solo che soddisfarle era difficile e solo raramente possibile: in sostanza essi dovettero trovarsi nuove e quasi hotterranee soddisfazioni.

Tutti gli istinti che non si scaricano all'esterno, si rivolgono all'interno ‑ questo è quella che io chiamo interiorizzazione dell'uomo: solo così si sviluppa nell'uomo quella cosa che più tardi riceverà il nome di «anima».

Tutto il mondo interiore, agli inizi sottile come se fosse teso tra due strati epiteliali, si è espanso e spalancato, ha guadagnato profondità, larghezza, altezza, tanto quanto le possibilità dell'uomo di scaricarsi all'esterno sono state impedite. Quei bastioni terribili con cui l'organizzazione statale si proteggeva contro gli antichi istinti della libertà ‑ le pene sono fatte soprattutto di questi bastioni ‑ fecero sì che tutti quegli istinti dell'uomo libero e randagio, regredendo, si rivolgessero contro l'uomo stesso. L'inimicizia, la crudeltà, il piacere della persecuzione, dell'attacco, delle mutazioni, della distruzione ‑ tutto quello che si rivolta contro i possessori ditali istinti: questa è l'origine della «cattiva coscienza».

L'uomo che in mancanza di nemici esterni e resistenze, costretto nelle oppressive strettoie e regolarità di costumi, dilaniava impaziente se stesso, si perseguitava, si torturava, si punzecchiava, si maltrattava, questo animale che si butta contro le sbarre della sua gabbia ferendosi, che vogliono «domare», questo essere privato di qualcosa, divorato dalla nostalgia del deserto, che ha dovuto fare di sé un'avventura, una camera di tortura, una giungla malsicura e piena di pericoli ‑ questo dissennato, questo prigioniero disperato e sitibondo di desiderio, diventò l'inventore della «cattiva coscienza».

Con ciò, però, si aprì la strada alla più grave e oscura malattia, da cui, sino ad oggi l'umanità non è guarita, la sofferenza che l'uomo ha di sé, dell'uomo stesso: come conseguenza di un distacco violento dal suo passato animale, di un salto, di una caduta quasi, in nuove situazioni e condizioni esistenziali, di una dichiarazione di guerra contro gli antichi istinti su cui fino ad allora aveva fondato la sua forza, il suo piacere e la sua temibilità.

Aggiungiamo subito che, d'altra parte, con il fatto di un'anima animale che si rivolge contro se stessa, prendendo partito contro di sé, sulla terra era apparsa qualcosa di così nuovo, profondo, inaudito, enigmatico, greve di contraddizioni e greve di futuro, che l'aspetto della terra ne fu radicalmente mutato. In verità sarebbero necessari spettatori divini per apprezzare lo spettacolo che aveva appena avuto inizio e la cui conclusione non è ancora assolutamente prevedibile ‑ uno spettacolo troppo raffinato, fantastico, troppo paradossale perché potesse svolgersi assurdamente inosservato su un altro qualsiasi ridicolo pianeta! Da allora l'uomo viene considerato uno dei colpi di fortuna più inaspettati ed eccitanti nel gioco condotto dal «grande fanciullo» di Eraclito ‑ sia esso Zeus o il caso ‑ esso risveglia di per sé un interesse, una tensione, una speranza, quasi una certezza, come se fosse l'annuncio di qualcosa, la preparazione di qualcosa, come se l'uomo non fosse un fine, ma solo una via, un incidente, un ponte, una grande promessa...

17.

Uno dei presupposti di questa ipotesi sull'origine della cattiva coscienza è, prima di tutto, il fatto che quella mutazione non è stata né graduale, né volontaria e non ha rappresentato una crescita organica in condizioni nuove, ma una frattura, un salto, una coazione, un destino inevitabile, contro cui non era possibile né lotta, né tanto meno ressentiment. In secondo luogo, poi, il fatto che l'immissione di una popolazione, sino allora disinibita e informe, in una forma stabile, come aveva avuto inizio con un atto di violenza, così fu portata a compimento solo con atti di violenza ‑ che, di conseguenza, lo «Stato» più antico apparve come una tirannia terribile, come un meccanismo stritolatore e privo di scrupoli, e proseguì su questa via, fino a quando questa materia grezza di popolo e di semianimalità non venne finalmente bene amalgamata e resa duttile, e altresì dotata di forma.

Ho usato la parola «Stato»: è chiaro a quale mi riferisco: ‑ un branco qualsiasi di biondi animali da preda, una razza di conquistatori e di padroni, che organizzata militarmente e con la forza di organizzare, abbatte senza riguardo le sue orribili zampe su una popolazione forse enormemente superiore per numero, ma ancora priva di forma, ancora nomade. Così ha inizio in terra lo «Stato»: credo che sia eliminato il sogno illusorio che lo faceva cominciare con un «contratto». Chi può comandare, chi è naturalmente «padrone», chi incede tirannico nelle azioni e nei gesti ‑ non ha certo bisogno di contratti! Con esseri simili è impossibile fare calcoli, essi arrivano come il destino, senza motivo, senza ragione, senza riguardo, senza pretesti, compaiono come il fulmine, troppo orribili, troppo convincenti, troppo «diversi» per essere anche soltanto odiati. La loro opera è una creazione di forme istintiva, un conio di forme, essi sono gli artisti più involontari e inconsapevoli che esistano ‑insomma, dove essi appaiono c'è qualcosa di nuovo, un prodotto di dominio che vive, in cui parti e funzioni sono delimitate e finalizzate, in cui non trova posto niente che non abbia prima ricevuto un «senso» in relazione al tutto. Essi ignorano che cosa sia la colpa, la responsabilità, il rispetto, questi organizzatori nati; in essi domina quell'egoismo terribile dell'artista, che ha uno sguardo d'acciaio e sa di essere giustificato nell'«opera», come la madre nel figlio, per tutta l'eternità. Non sono costoro quelli in cui è cresciuta la «cattiva coscienza» lo si intende benissimo dal principio ‑ ma tuttavia senza di loro essa non sarebbe cresciuta, questa mala pianta, essa non esisterebbe se sotto il peso dei colpi dei loro martelli, della loro violenza di artisti non si fosse cacciato dal mondo, o per lo meno dalla vista e reso quasi latente un enorme quantum di libertà. Questo istinto della libertà reso latente dalla violenza ‑ lo abbiamo già capito ‑ questo istinto di libertà represso, soffocato, incarcerato nell'intimo, che finisce per non potersi scaricare e sfrenare altro che contro se stesso: questo e solo questo è, al suo inizio, la cattiva coscienza.

18.

Guardiamoci dal sottovalutare tutto questo fenomeno solo perché esso è, fin dall'inizio, sgradevole e doloroso. In fondo, la stessa forza attiva che agisce grandiosamente in quegli artisti e organizzatori della violenza ed edifica Stati, è quella che qui, nell'intimo, in dimensioni minori, più ridotte, volta all'indietro, nel «labirinto del cuore» per esprimerci con Goethe, si costruisce la cattiva coscienza e gli ideali negativi, è proprio lo stesso istinto della libertà (detto nella mia lingua: la volontà di potenza): solo che la materia su cui infuria la natura violenta e formatrice di questa forza, è qui proprio l'uomo, in tutto il suo sé antico e animalesco ‑ e non, come in quell'altro più grande e più appariscente fenomeno, l'altro uomo, gli altri uomini.

Questa nascosta violenza contro se stessi, questa crudeltà da artisti, questo piacere di imprimere una forma a se stessi come a una materia pesante, restia, sofferente, di marchiare a fuoco una volontà, una critica, una contraddizione, un disprezzo, un no, questa fatica sinistra e terribilmente piena di piacere di un'anima volontariamente divisa in se stessa, che si procura dolore per il piacere di dare dolore, tutta questa «cattiva coscienza» attiva, in fine ‑ lo si indovina già ‑, come un autentico grembo materno di avvenimenti ideali e immaginari, ha partorito anche una quantità di nuove sorprendenti bellezze e affermazioni, e forse, per la prima volta, soprattutto la bellezza... Infatti che cosa sarebbe «bello», se la contraddizione non fosse divenuta prima cosciente a se stessa, se prima il brutto non avesse detto a se stesso: «Io sono brutto?»...

Per lo meno, dopo questa indicazione, l'enigma sarà meno enigmatico: in che misura, cioè, concetti contraddittori come altruismo, abnegazione, autosacrificio possono esprimere un ideale, una bellezza; e una cosa sarà chiara d'ora in poi non ne dubito ‑ e cioè la natura del piacere che prova l'altruista, chi nega e sacrifica se stesso: questo piacere è crudeltà.

‑ Tanto dovevo dire, per ora, sull'origine del «non egoistico» come valore morale e per la delimitazione del terreno da cui è nato questo valore: solo la cattiva coscienza, solo la volontà di maltrattare se stessi costituisce il presupposto per il valore del non egoistico.

19.

Non esistono dubbi sul fatto che la cattiva coscienza sia una malattia, ma una malattia quale potrebbe essere la gravidanza. Se andiamo alla ricerca delle condizioni in cui questa malattia è arrivata al suo culmine più atroce e sublime ‑ vedremo che cosa con ciò ha fatto per la prima volta il suo ingresso nel mondo. Ma per questo occorre largo respiro ‑ e, prima di ogni cosa, dobbiamo tornare ancora una volta a un punto di vista precedente. Il rapporto di diritto privato tra debitore e creditore, di cui si è già parlato e a lungo, è stato interpretato ancora una volta e per la verità in un modo assolutamente non usuale e meritevole di riflessione dal punto di vista storico, nell'ambito di un rapporto in cui per noi moderni esso è forse assolutamente incomprensibile: cioè nel rapporto che esiste tra i contemporanei e i loro antenati. All’interno della primitiva comunità di stirpi - parliamo di epoche primordiali ‑ la generazione vivente riconosce ogni volta un obbligo giuridico verso la generazione più antica che aveva fondato la stirpe (e in nessun modo un legame sentimentale: non senza ragione si potrebbe negare addirittura questo legame per il più lungo periodo della specie umana).

Qui prevale la convinzione che la specie sussista solo in virtù dei sacrifici e dell'attività degli antenati e che essi ne debbono essere ripagati con altri sacrifici e attività: quindi si riconosce un debito che continua ad aumentare per il fatto che questi antenati, sopravvissuti come spiriti potenti, non cessano di assicurare alla specie nuovi vantaggi e nuovi contributi derivati dalla loro forza. Forse gratuitamente? Ma non esiste niente di «gratuito» per quelle epoche rozze e «povere nello spirito». Con che cosa si possono ripagare? Sacrifici (agli inizi per il nutrimento, inteso grossolanamente), feste, cappelle votive, testimonianze di omaggio, prima di tutto obbedienza ‑ poiché tutti gli usi, in quanto prodotto degli avi, sono anche regole e ordini che da loro provengono ‑: si dà mai abbastanza agli avi? Il sospetto rimane e aumenta: di tempo in tempo esso costringe a un grande riscatto cumulativo, un qualche mostruoso risarcimento al «creditore» (il famigerato sacrificio del primogenito, per esempio, sangue, sangue umano in ogni caso). Il timore dell'antenato e della sua potenza, la coscienza dei debiti che si hanno verso di lui, secondo questo tipo di logica, cresce nella misura esatta in cui la forza della stirpe stessa aumenta, via via che la stirpe si fa sempre più vittoriosa, più indipendente, più onorata e più temuta. Non certo il contrario!

Ogni passo verso il deterioramento della stirpe, tutte le possibili miserie, tutti i tratti di degenerazione, di incombente dissolvimento diminuiscono invece sempre anche il timore di fronte allo spirito del proprio fondatore e danno una immagine sempre più ridotta della sua avvedutezza, della sua previdenza e della attualità della sua forza. Se immaginiamo questo rozzo tipo di logica spinto sino all'estremo, gli antenati delle stirpi più potenti dovranno finire per trasformarsi, grazie alla fantasia del timore in aumento, in qualcosa di mostruoso, ed essere infine respinti nel buio di una tetra e inimmaginabile divinità ‑ l'antenato finisce, necessariamente, per trasfigurarsi in un dio. Forse questa è anche l'origine degli dèi, dunque un'origine derivata dal timore!...

E se qualcuno ritenesse necessario dover aggiungere: «Derivata però dalla pietas» difficilmente potrebbe avere ragione per tutta la più lunga età del genere umano, l'età primordiale. E tanto più poi per l'età di mezzo, in cui sì formano le stirpi aristocratiche ‑ che hanno in realtà ripagato con gli interessi ai loro antenati, ai loro avi, (eroi, dèi), tutte le qualità che, nel frattempo, si erano manifestate in esse, le qualità aristocratiche. Più tardi daremo ancora uno sguardo al processo di nobilitazione e di affinamento degli dèi (che non è certo la loro «consacrazione»): concludiamo per ora, provvisoriamente, il corso di tutta questa evoluzione della coscienza di colpa.

20.

La coscienza di avere dei debitì verso gli dèi, come insegna la storia, non si è affatto spenta nemmeno dopo il tramonto della forma organizzativa «comunitaria» fondata sulla affinità di sangue: l'umanità, allo stesso modo con cui ha ereditato i concetti di «buono e cattivo» dalla nobiltà della stirpe, (con la sua fondamentale inclinazione psicologica a fissare ordinamenti gerarchici), ha ricevuto, con l'eredità delle divinità della stirpe e della tribù, anche quella del carico dei debiti non ancora saldati e del desiderio di liberarsene. (Il momento di trapasso è segnato da quelle estese popolazioni di schiavi e di servi che si sono adattati al culto degli dèi dei propri padroni, vuoi con la forza, vuoi per sottomissione e mimicry: a partire da loro questa eredità si spande per ogni dove.)

Il sentimento di un debito verso la divinità ha continuato ad aumentare nel corso di molti millenni e, per la verità, sempre nella stessa misura con cui crescevano e venivano elevati, sulla terra, il concetto di dio e il senso della divinità. (Tutta la storia delle lotte, delle vittorie, delle riconciliazioni, delle mescolanze etniche, tutto quello, che precede il definitivo ordinamento gerarchico di tutti gli elementi popolari in ogni grossa sintesi razziale, si rispecchia nelle ingarbugliate genealogie dei loro dèi, nelle saghe delle loro lotte, delle loro vittorie e conciliazioni; il progresso verso regni universali è sempre anche il progresso in direzione di divinità universali, il dispotismo, con la sua sopraffazione dell'aristocrazia indipendente, spiana sempre la strada a un qualche monoteismo.)

La nascita del Dio cristiano, come massima divinità cui si sia giunti fino ad oggi, ha portato sulla terra anche il maximum dei sentimento di debito. Ammesso di essere entrati, più tardi, in un movimento opposto, si potrebbe, con molta probabilità dedurre dalla inarrestabile decadenza della fede nel Dio cristiano il fatto che già ora esista una notevole decadenza della coscienza di colpa dell'uomo; anzi non si può rifiutare la prospettiva che il totale e definitivo trionfo dell'ateismo potrebbe liberare l'umanità da tutto questo sentimento di avere dei debiti verso il proprio cominciamento, la propria causa prima. Ateismo e una specie di seconda innocenza sono intimamente legati.

21.

Questo è per ora quanto ho da dire, provvisoriamente, in generale e in breve sui legami tra i concetti di «colpa», di «dovere» e i loro presupposti religiosi: intenzionalmente ho tralasciato fin qui la vera e propria moralizzazione di questi concetti (lo slittamento degli stessi nella coscienza o, ancora più precisamente, l'intrecciarsi della cattiva coscienza col concetto di dio) e alla fine del capitolo precedente ho parlato perfino come se questa moralizzazione non esistesse, e di conseguenza come se questi concetti fossero oggi, necessariamente, prossimi alla fine, essendo venuto a mancare il loro presupposto, la fede nel nostro «creditore», Dio. Il dato di fatto è invece terribilmente diverso.

La moralizzazione dei concetti di colpa e di dovere, con il loro slittamento a ritroso nella cattiva coscienza, è realmente il tentativo di rovesciare la direttiva di marcia del processo evolutivo ora descritto o per lo meno di bloccarne il movimento; ora si deve escludere pessimisticamente una volta per tutte proprio la prospettiva di un riscatto definitivo, ora lo sguardo deve ritrarsi tristemente e ribaltare davanti a una ferrea impossibilità; ora quei concetti di «colpa» e di «dovere» debbono volgersi all'indietro ‑ ma contro chi? Non possiamo avere dubbi: prima di tutto contro il «debitore», in cui ormai la cattiva coscienza si è tanto consolidata, ha operato una tale corrosione, si è tanto espansa, è tanto cresciuta in ogni direzione simile a un polipo, che insieme alla inestinguibilità della colpa si concepisce infine anche l'inestinguibilità della penitenza, il pensiero dell'impossibilità di un risarcimento (la pena «eterna») ‑; e alla fine anche contro il «creditore», sia che si pensi alla causa prima dell'uomo, all'inizio del genere umano, al suo progenitore, colpito ormai da una maledizione («Adamo», «peccato originale», «non libertà del volere»), o alla natura dal cui grembo nasce il mondo e in cui ormai è stato introdotto il principio del male («demonizzazione della natura»), o all'esistenza in genere che resta come non valida in sé, (distacco nichilistico da essa, desiderio del nulla o desiderio del suo «contrario», di un essere‑altro, buddhismo e cose affini) ‑ finché all'improvviso ci troviamo di fronte al paradossale e terribile espediente in cui l'umanità martoriata ha trovato un momentaneo sollievo, quel colpo di genio del cristianesimo: Dio stesso che si sacrifica per la colpa dell'uomo, Dio stesso che si risarcisce su se stesso. Dio come l'unico che possa riscattare l'uomo da ciò che per l'uomo stesso non è più riscattabile ‑il creditore che si sacrifica per il suo debitore, per amore (dobbiamo crederci? ‑), per amore del suo debitore!...

22.

Si sarà già indovinato che cosa è realmente accaduto di tutto questo e al di sotto di tutto questo: quella volontà di autotorturarsi, quella crudeltà regressa dell'animale uomo interiorizzato e respinto in se stesso, di colui il quale è stato incarcerato nello «Stato» per essere domato, che ha inventato la cattiva coscienza, per farsi del male, essendo stato bloccato lo sbocco più naturale di questo voler‑fare del male ‑ quest'uomo della cattiva coscienza si è impadronito del presupposto religioso per spingere il proprio automartirio fino alla più orrenda durezza e raffinatezza. Un debito verso Dio: questo pensiero è per lui uno strumento di tortura. Coglie in «Dio» le contraddizioni ultime che riesce a trovare in relazione ai suoi tipici e non riscattabili istinti animali, reinterpreta anche questi istinti animali come colpa verso Dio (come ostilità, rivolta, ribellione contro il «Signore», il «Padre», il progenitore e il principio del mondo), si tende nella contraddizione «Dio» e «diavolo», riversa fuori di sé ogni no che dice a se stesso, alla natura, alla naturalità, alla realtà del suo essere, lo riversa fuori di sé come un sì, come qualcosa che esiste, qualcosa di corporeo, di reale, come Dio, come santità di Dio, come giudizio di Dio, come patibolo di Dio, come al di là, eternità, martirio senza fine, inferno, incommensurabilità di pena e colpa.

Questa è una sorta di follia del volere nella crudeltà interiore che non ha certo uguali: la volontà dell'uomo di sentirsi colpevole e riprovevole tanto da non poter più espiare le sue colpe, la sua volontà di pensarsi punito, senza che la pena possa mai adeguarsi alla colpa, la sua volontà di infettare il fondo più remoto delle cose col problema della pena e della colpa, di intossicarlo, per precludersi una volta per sempre ogni via di uscita da questo labirinto di «idee fisse», la sua volontà di istituirsi un ideale quello del «Dio santo» ‑, e di essere incontrovertibilmente certo della propria assoluta indegnità di fronte a 4ui. Oh bestia uomo, com'è folle e triste! Quali idee le vengono in mente, e quale contronatura, quali parossismi di follia, quale bestialità dell'idea esplodono non appena viene frenata nel suo essere bestia dell'azione!... Tutto ciò è eccezionalmente interessante, ma anche di una nera, cupa e snervante tristezza; cosicché dobbiamo costringerci con la forza a non fissare lo sguardo troppo a lungo in questi abissi. Qui c'è malattia, non c'è dubbio, la più orribile malattia che abbia mai devastato l'uomo sino a oggi ‑ e chi ancora riesce a udire (ma oggi non si hanno più orecchie per cose simili! ‑), in questa notte di martirio e di assurdità, l'eco del grido amore, il grido del trasporto più struggente, della salvezza nell'amore, si ritrae, colto da un orrore invincibile!... Nell'uomo c'è tanto di orribile!... Per troppo tempo la terra fu un manicomio!...

23.

Sull'origine del «Dio santo» basti questo, una volta per sempre. ‑ Che la concezione degli dèi in sé non debba necessariamente condurre a questo deterioramento della fantasia, della cui visualizzazione non abbiamo potuto, per un attimo fare a meno, che esistano maniere più nobili di servirsi dell'invenzione fantastica degli dèi, che per questa autocrocifissione e questo autolesionismo dell'uomo, in cui gli ultimi millenni dell'Europa sono stati maestri ‑tutto ciò lo si può ancora, per fortuna, desumere da ogni sguardo rivolto agli dèi greci, questi specchiati riflessi di uomini aristocratici e signori di sé, nei quali la bestia che è nell'uomo si sentiva divinizzata e non dilaniava se stessa, non infuriava contro se stessa! Questi Greci si sono serviti per lunghissimo tempo dei loro dèi, proprio per allontanare da sé la «cattiva coscienza», per potersi rallegrare della loro libertà spirituale: dunque in una accezione opposta all'uso che il cristianesimo ha fatto del suo Dio. In ciò essi si spinsero molto lontano, queste splendide e leonine teste di fanciulli; e addirittura una autorità come quella dello Zeus omerico ogni tanto fa loro capire che si comportano troppo superficialmente. Strano!» ‑disse una volta ‑ si trattava del caso di Egisto, di un caso molto grave. ‑

Strano, come i mortali continuino
a lamentarsi degli dèi!

Solo da noi verrebbe il male, così pensano;
ma essi stessi

per mancanza di senno, anche contro
il destino, si creano la sventura.

Qui si vede e si sente al tempo stesso che questo spettatore e giudice olimpico è ben lontano dall'essere ostile e dal pensare male di loro: «Che stolti sono!» egli pensa dei misfatti dei mortali ‑ e «stoltezza», «mancanza di senno», un po' di «alterazione mentale» anche i Greci dell'età più vigorosa e audace se le sono concesse per spiegarsi la cagione di molti mali e di accadimenti funesti ‑ stoltezza non peccato! capite?... Ma anche questa «alterazione mentale» era un problema ‑ già, come è mai possibile? «da dove può essere arrivata a menti come le nostre, di uomini quali noi siamo, di nobile nascita, felici, ben costrutti, socialmente elevati, aristocratici, virtuosi?».

Questo si è chiesto per secoli il nobile greco di fronte a orrori e nefandezze che non riusciva a comprendere, e di cui si fosse macchiato qualcuno dei suoi simili. «Certo un dio lo avrà accecato», finiva per dirsi, scuotendo la testa... Questa scappatoia è tipica dei Greci... Così allora gli dèi servivano a giustificare, fino a un certo punto, l'uomo anche nel male, essi servivano come cause del male ‑ allora non assumevano su se stessi la pena, ma, cosa molto più nobile, la colpa...

24.

Concludo con tre interrogativi, come si vede bene. «Ma qui si sta istituendo o si sta smantellando un ideale?» mi si potrebbe chiedere... Ma voi vi siete mai sufficientemente chiesti quanto è costata cara sulla terra l'istituzione di ogni ideale? Quanta realtà dovette perciò essere calunniata e misconosciuta, quanta menzogna santificata, quante coscienze turbate, quanta «divinità» sacrificata ogni volta? Perché un santuario venga innalzato, un santuario deve essere abbattuto: questa è la legge: ‑ mostratemi in quali casi non ha trovato il suo adempimento!... Noi uomini moderni, siamo gli eredi di una vivisezione della coscienza e di una crudeltà contro gli animali esercitata su noi stessi, vecchie di millenni: e in ciò abbiamo la nostra più lunga pratica, forse la nostra vocazione artistica, in ogni caso la nostra raffinatezza e la depravazione del gusto. L'uomo ha guardato troppo a lungo le sue tendenze naturali con «occhio cattivo», cosicché queste hanno finito per legarsi strettamente alla «cattiva coscienza».

Sarebbe mai possibile, in sé, un tentativo opposto ‑ ma chi ne avrebbe la forza? ‑, e cioè il tentativo di unire strettamente alla cattiva coscienza le tendenze innaturali, tutte quelle aspirazioni alla trascendenza, contrarie al senso, all'istinto, alla natura, all'animalità, in breve tutti gli ideali che sono esistiti sino a oggi, ideali che sono tutti ostili alla vita, ideali che denigrano il mondo. A chi rivolgersi oggi con tali speranze e tali esigenze?... Proprio gli uomini buoni sarebbero contro di noi; e poi, ovviamente, i pigri, i riconciliati, i vanitosi, i sognatori, gli stanchi... Che cosa offende più profondamente, che cosa divide più decisamente che il far notare un po' della severità e della grandezza con cui trattiamo noi stessi? E d'altro canto ‑ quanta comprensione e quanto affetto il mondo ci dimostra, non appena ci comportiamo come tutto il resto del mondo e allo stesso modo ci «lasciamo andare»!...

Per quello scopo ci vorrebbe una specie di spiriti diversa da quelli che sono verosimili proprio in questa epoca: spiriti resi più forti da guerre e vittorie, per i quali le conquiste, le avventure, i pericoli, il dolore sono diventati addirittura un bisogno; per tutto ciò ci vorrebbe l'abitudine all'aria tagliente delle montagne, a lunghe camminate invernali, al ghiaccio, ai monti in ogni senso, ci vorrebbe, per esprimerci in guisa rozza e sommaria, proprio questa grande salute!...

E oggi questa grande salute è ancora mai possibile? Ma prima o poi, in un'età più forte di questo presente marcio e dubbioso di sé, dovrà pure giungere fino a noi l'uomo del riscatto, l'uomo del grande amore e disprezzo, lo spirito creatore, sempre di nuovo sospinto dall'urgere della sua forza via da ogni isolamento, da ogni trascendenza, l'uomo la cui solitudine è fraintesa dal popolo, come se fosse una fuga dalla realtà ‑ mentre è soltanto il suo sprofondare, il suo seppellirsi, il suo affondare nella realtà, per poter estrarre e portare con sé un giorno, tornato nuovamente alla luce, la redenzione di questa realtà: la sua redenzione dalla maledizione che l'ideale, quale esso è stato finora, le ha gettato addosso.

Quest'uomo del futuro, che ci redimerà non solo dall'ideale quale è stato sino ad oggi, ma anche da quello che da esso dovette nascere, dalla grande nausea, dalla volontà del nulla, dal nichilismo, questo rintocco del mezzodì e della grande decisione, che libererà di nuovo l'uomo, che restituirà alla terra la sua meta e all'uomo la sua speranza, questo anticristo e antinichilista, questo vincitore di Dio e del nulla ‑ dovrà venire un giorno...

25.

‑ Ma che sto dicendo? Basta! Basta! A questo punto solo una cosa è quella giusta, tacere: altrimenti mi attribuirei ciò che è consentito solo a chi è più giovane, a un «venturo», a uno più forte di quanto io non sia ‑ consentito solo a Zarathustra, a Zarathustra il senza dio...

Saggio Terzo

Che significato hanno gli ideali ascetici?

Incuranti, sarcastici, violenti

così ci vuole la saggezza:

essa è una donna,

ama sempre solo un guerriero.

Così parlò Zarathustra

1.

Che significato hanno gli ideali ascetici? ‑ negli artisti niente o troppe cose diverse; nei filosofi e i dotti una specie di fiuto e d'istinto per le promesse più vantaggiose di una alta spiritualità; nelle donne, nel migliore dei casi, un fascino supplementare della loro seduzione, un po' di morbidezza sulle belle carni, l'angelicità di un animale grazioso e ben nutrito; in chi non è fisiologicamente normale e armonico, (per la maggioranza dei mortali), un tentativo di ritenersi «troppo buoni» per questo mondo, una forma sacra di depravazione, il loro strumento fondamentale nella lotta contro un lento dolore e la noia; nei sacerdoti, la fede sacerdotale vera e propria, il loro miglior strumento di potenza, e inoltre la legittimazione «suprema» della potenza; nei santi, infine, un pretesto di letargo, la loro novissima gloriae cupido, la loro pace nel nulla («Dio»), la loro forma di follia. Nel fatto che proprio l'ideale ascetico abbia significato tanto per gli uomini, si esprime il dato fondamentale della volontà umana, il suo horror vacui: essa ha bisogno di una meta ‑ e preferisce volere il nulla piuttosto che non volere. Vengo compreso? Mi si comprende?... «Certo che no, signore!» ‑ Allora cominciamo dall'inizio.

2.

Che significano gli ideali ascetici? O, per esaminare un caso singolo, a proposito del quale abbastanza spesso sono stato consigliato, che significa, per esempio, che un artista come Richard Wagner da vecchio, abbia reso un omaggio alla castità? E’ vero che, in un certo senso, lo ha sempre fatto; ma in un senso ascetico solo all'ultimissimo momento. Che significa questa modifica di «senso», questo radicale ribaltamento di senso? ‑ perché di questo si trattò, Wagner si trasformò nel suo esatto contrario. Che significa che un artista si trasformi nel suo opposto?... E qui, ammesso che si voglia indugiare un po’ su questo problema, ci torna subito alla memoria l'epoca migliore, più forte, più felice, più coraggiosa che sia forse mai esistita nella vita di Wagner: quella in cui il pensiero delle nozze di Lutero lo interessava profondissimamente. Chissà a quali coincidenze dobbiamo il fatto che al posto di questa musica nuziale abbiamo oggi i Maestri Cantori? E quanto di quella musica continua forse a essere presente in questi? E fuor di dubbio che, comunque, anche in queste «Nozze di Lutero» si sia trattato di un elogio alla castità. Certo anche di un elogio della sensualità ‑ e questo mi parrebbe molto giusto, e proprio così tutto sarebbe stato anche «Wagneriano». Poiché tra castità e sensualità non esiste una necessaria contrapposizione; ogni buon matrimonio, ogni autentica relazione sentimentale la supera.

Mi sembra che Wagner avrebbe fatto bene a riproporre ai suoi Tedeschi la profonda comprensione di questa piacevole realtà, con una commedia su Lutero, coraggiosa e piacevole, perché tra i Tedeschi esistono e sono esistiti sempre molti denigratori della sensualità, e forse il maggior merito di Lutero sta proprio in questa più che in altre cose, nell'aver avuto cioè il coraggio della propria sensualità (allora si chiamava, con notevole delicatezza, «libertà evangelica»...). Ma anche nel caso in cui esista realmente un contrasto tra castità e sensualità, non c'è assolutamente bisogno, fortunatamente, che sia un contrasto tragico. Ciò dovrebbe essere valido per lo meno per quelli dei mortali che sono più armonici nel fisico e nell'anima, e sono molto lontani dal considerare senz'altro tra i motivi d'opposizione alla esistenza il loro labile equilibrio tra «bestia e angelo» ‑ i più acuti e i più chiari, come Goethe, come Hafis, hanno visto in questo addirittura un fascino in più della vita. Proprio queste «contraddizioni» sono una seduzione a esistere...

D'altra parte è ovvio che se mai i poveri porci saranno portati ad adorare la castità ‑ e porci simili esistono! ‑ vedranno e adoreranno in essa solo il loro contrario, il contrario del povero porco ‑ oh, con che tragico grugnire e con che zelo, è facile immaginarlo! quell'opposto sgradevole e superfluo che Richard Wagner alla fine della sua vita ha innegabilmente ancora voluto mettere in musica e portare sulla scena ‑ Ma con quale scopo? ci si potrebbe giustamente chiedere. Che cosa gli importavano e che cosa importano a noi i porci?...

3.

E qui non è possibile non rispondere a quell'altra domanda, e cioè che cosa gli importava, in realtà ‑ quella virile (oh, così poco virile) «semplicità campagnola», quel povero diavolo, quel garzoncello tutto natura che è Parsifal, che con mezzi così insidiosi viene alla fine cattolicizzato? ‑ Come? questo Parsifal è stato veramente preso sul serio? Infatti si sarebbe tentati di supporre il contrario, anzi di augurarcì ‑ che il Parsifal di Wagner sia un divertimento, quasi come epilogo e dramma satiresco con cui il Wagner tragico avrebbe voluto prendere congedo da noi e anche da se stesso, ma soprattutto dalla tragedia, in maniera dovuta e degna di lui, cioè con un eccesso di sublime e di intenzionalissima parodia del tragico, di tutta la terribile serietà e di tutta la desolazione sempre esistite sulla terra, della ormai superata più rozza forma antinatura dell'ideale ascetico. Questo sarebbe stato, come ho detto, veramente degno di un grande tragico: che, come ogni artista, arriva al culmine estremo della sua grandezza solo quando vede se stesso e la sua arte sotto di sé ‑ quando sa ridere di sé ‑. il Parsifal di Wagner il suo segreto sorriso di superiorità su se stesso, il trionfo della sua conquistata, estrema, sublime libertà e trascendenza d'artista?

Vorremmo augurarcelo, come già detto: perché che cosa sarebbe il Parsifal inteso seriamente? proprio necessario vedere in esso (come hanno detto in contrasto con me) «il frutto di un odio folle contro conoscenza, spirito e sensualità»? Una maledizione lanciata, in un solo rantolo d'odio, contro i sensi e lo spirito? Un'apostasia e un ritorno agli ideali morbosi e oscurantistici del cristianesimo? E infine anche una negazione di sé, un cancellare se stesso ad opera di un artista che fino a quel momento aveva cercato con tutte le forze della sua volontà proprio il contrario, e cioè la spiritualizzazione e la sensualizzazione più alta della sua arte? E non solo della sua arte: anche della sua vita. Si ricordi con quanto entusiasmo, a suo tempo, Wagner abbia seguito le orme del filosofo Feuerbach: quello che Feuerbach diceva della «sana sensualità» per il Wagner degli anni Trenta e Quaranta, come per molti tedeschi (si autodefinivano giovani tedeschi) risuonava come una parola di salvazione. possibile che alla fine Wagner abbia imparato cose diverse in proposito? Per lo meno così appare, dato che alla fine ha voluto insegnare qualcosa di nuovo sull'argomento...

E non solo dall'alto delle scene, con gli ottoni del Parsifal ‑ nella oscura, tanto poco libera quanto confusa attività letteraria dei suoi ultimi anni esistono cento passi che tradiscono un desiderio segreto, una volontà, una volontà disperata, insicura, inconfessabile di predicare proprio il ritorno, la conversione, la negazione, il cristianesimo, il Medioevo, e di dire ai suoi discepoli «non è vero! cercate altrove la salvezza!». Una volta viene invocato addirittura il «sangue del Redentore»...

4.

In un caso come questo, che ha molti aspetti spiacevoli ‑ ed è un caso tipico ‑ mi sia concesso esprimere la mia opinione: è cosa ottima separare l'artista dalla sua opera, tanto da non prenderlo così sul serio come la sua opera. L'artista è, in fondo, solo il presupposto della sua opera, il grembo materno, il terreno, a seconda dei casi il fertilizzante e il concime su cui, da cui essa nasce ‑ e di conseguenza, nella maggior parte dei casi, è qualcosa da dimenticare se si vuole godere dell'opera stessa. La conoscenza dell'origine di una opera interessa fisiologi e vivisettori dello spirito: mai e in nessun modo gli esteti, gli artisti!

Al poeta e al creatore del Parsifal non fu risparmiato un profondo, totale, addirittura spaventoso rivivere e sprofondare nei contrasti medievali dell'anima, un ostile distacco da ogni altezza, da ogni severità e disciplina dello spirito, una specie di perversità (mi si passi il termine) intellettuale, né più né meno come a una donna incinta non vengono risparmiate le nausee e le stranezze della gravidanza, tutte cose che, come si è detto, devono essere dimenticate, per poter gioire del figlio. Ci si deve guardare dalla confusione in cui l'artista finisce anche troppo spesso per incorrere, per contiguity psicologica, per dirla con gl'inglesi; come se fosse lui stesso quello che egli può rappresentare, pensare, esprimere. In realtà, se l'artista fosse tutto ciò, non potrebbe certo rappresentarlo, pensarlo, esprimerlo: un Omero non avrebbe creato nessun Achille e un Goethe nessun Faust se Omero fosse stato Achille e Goethe Faust.

Un artista totale e compiuto è staccato per l'eternità dal «reale», dall'effettuale; d'altro canto si capisce come egli possa disperatamente stancarsi di questa eterna «irrealtà» e falsità della sua esistenza più intima e che quindi tenti di sconfinare una volta in ciò che gli è più vietato, nel reale, e di essere reale. Con quale esito? Lo si può indovinare... E la tipica velleità dell'artista: la stessa velleità cui si piegò anche il vecchio Wagner e che dovette pagare così cara e in modo così fatale (‑ perse, proprio a cagione di esse, i suoi amici più validi).

Per finire però, prescindendo ancora del tutto da questa velleità, chi non vorrebbe augurarsi proprio per amore di Wagner stesso, che egli si fosse congedato in modo diverso da noi e dalla sua arte, non con un Parsifal, ma in maniera più trionfante, più certa di sé, più Wagneriana ‑ in maniera meno ingannevole, meno equivoca rispetto all'intierezza del suo volere, meno schopenaueriana, meno nichilistica?...

5.

Allora, che significato hanno gli ideali ascetici? Nel caso di un artista, lo comprendiamo gradualmente: proprio niente!... Oppure tante cose diverse, che finiscono per essere niente lo stesso!...

Eliminiamo, prima di tutto gli artisti: non sono affatto tanto indipendenti nel mondo e contro il mondo, perché i loro giudizi di valore e le relative metamorfosi possano essere in sé interessanti! In ogni epoca essi sono stati i lacchè di una morale o di una filosofia o di una religione; senza poi voler considerare il fatto che purtroppo, abbastanza spesso, sono stati troppo duttili cortigiani dei loro seguaci e mecenati, e anche adulatori dal gran fiuto di potenze di antica o fresca data. Per lo meno, hanno sempre bisogno di una barriera difensiva, di un sostegno, di un'autorità già costituita: gli artisti non stanno mai da soli, l'isolamento contrasta con i loro istinti più profondi.

Così, per esempio, Richard Wagner, «quando fu giunto il tempo», prese il filosofo Schopenhauer come suo battistrada e difesa: chi potrebbe ritenere anche solo probabile che egli avrebbe avuto il coraggio di un ideale ascetico senza il sostegno che gli offriva la filosofia di Schopenhauer, senza l'autorità di Schopenhauer che in Europa, negli anni Settanta, stava per prendere il sopravvento? (senza tenere conto qui della possibilità o meno di esistenza, nella nuova Germania, di un artista privo del latte di un modo di pensare pio e devotamente imperiale) ‑.

E con ciò siamo arrivati alla questione più grave: che senso ha se un filosofo vero professa ideali ascetici, uno spirito realmente fondato su se stesso come Schopenhauer, un uomo e un cavaliere dallo sguardo metallico, che ha il coraggio di essere se stesso, che sa stare da solo, senza aspettare battistrada e consigli dall'alto?

‑ Prendiamo immediatamente la posizione di Schopenhauer di fronte all'arte, una posizione notevole e per un certo tipo di uomini addirittura affascinante: perché è palese che soprattutto a causa di questa Richard Wagner si avvicinò a Schopenhauer (convinto a questo passo, come è noto, da un poeta, da Herwegh), in grado tale da far scoppiare tra il suo credo estetico precedente e quello più tardo una assoluta contraddizione teorica ‑ il primo è espresso, per esempio, in Opera e dramma, il secondo negli scritti pubblicati a partire dal 1870. La cosa più sorprendente è che Wagner mutò in modo particolare il suo giudizio sul valore e sulla posizione della musica stessa: che cosa gliene importava di averne fatto, sino ad allora, un mezzo, un medium, un «donna», che per fiorire ha bisogno di uno scopo, di un uomo ‑ cioè del dramma ‑! Improvvisamente capì che con la teoria e con l'innovazione schopenaueriane si poteva fare qualcosa di più in majorem musicae gloriam, ‑ vale a dire con la sovranità della musica, come la intendeva Schopenhauer - la musica collocata a parte rispetto a tutte le altre arti, l'arte indipendente in sé, che non offre, come le altre, riproduzioni della fenomenalità, ma parla invece la lingua della volontà stessa, derivandola direttamente dal «profondo», come la sua rivelazione più autentica, più originaria, più diretta.

Con questo straordinario incremento di valore della musica, quale sembrava discendere dalla filosofia di Schopenhauer, anche il musicista crebbe immediatamente di valore: diventò un oracolo, un sacerdote, anzi più di un sacerdote, una specie di megafono dell'«in sé» delle cose, un telefono dell'al di là ‑ a partire da questo momento non parlò solo di musica, questo ventriloquo di Dio ‑parlò di metafisica; perché meravigliarsi quindi, se un bel giorno si è messo a parlare di ideali ascetici...?

6.

Schopenhauer si è giovato della concezione kantiana del problema estetico anche se è chiaro che non lo ha considerato con uno sguardo kantiano. Kant riteneva di rendere omaggio all'arte preferendo e mettendo in primo piano, tra i predicati del bello, quelli che formano il vanto della conoscenza: impersonalità e validità universale. Non è questo il luogo per discutere se questo non sia stato, in fondo, un errore: voglio solo sottolineare il fatto che Kant, come tutti i filosofi, invece di mettere a fuoco il problema estetico partendo dall'esperienza dell'artista (del creatore), ha meditato sull'arte e sul bello solo dal punto di vista dello «spettatore» e ha compreso, così facendo, senza accorgersene, anche lo «spettatore» nel concetto di «bello»!

E se almeno i filosofi del bello avessero conosciuto bene questo «spettatore»; cioè come grande fatto ed esperienza personale, come una pienezza di particolarissime e forti esperienze, desideri, sorprese, gioie nella sfera del bello! Invece, come temo, si è verificato sempre l'opposto: e così essi ci hanno dato, sin dagli inizi, definizioni nelle quali, come in quella famosa che Kant dà del bello, la mancanza di una più raffinata esperienza personale assume l'aspetto di un grosso verme, di un errore di base. Kant ha detto: «Bello è ciò che piace disinteressatamente». Disinteressatamente! Si confronti questa definizione con quell'altra, data da uno «spettatore» e da un artista «vero» ‑ Stendhal, che chiama ii bello une promesse de bonheur. Qui si rifiuta e si elimina in ogni caso, proprio la unica cosa che Kant valorizza nella condizione estetica: le désintéressement. Chi ha ragione, Kant o Stendhal?

‑ Certo che se i nostri esteti non si stancheranno di buttare sulla bilancia, a favore di Kant, il fatto che grazie alla magia dell'arte si possono guardare «senza interesse» anche statue di donne nude, ci sarà ben concesso di ridere un po' alle loro spalle ‑ le esperienze degli artisti, relative a questa scabrosa questione, sono molto «più interessanti», e Pigmalione, non dovette essere, in nessun caso, necessariamente un «uomo non estetico». Giudichiamo quindi piuttosto con benevolenza la innocenza dei nostri esteti che si rispecchia in tali argomenti, e rendiamo per esempio onore a Kant per quello che sa insegnare sulle caratteristiche particolari del tatto con una ingenuità da parroco di campagna!

‑ E torniamo quindi a Schopenhauer che era vicino alle arti in modo del tutto diverso da Kant, eppure non riuscì mai a liberarsi dal fascino magico della definizione kantiana: come è avvenuto ciò? Il fatto è abbastanza curioso: egli interpreta la parola «disinteressatamente» in modo tutto personale, partendo dall'esperienza che per lui deve essere stata la più normale di ogni altra. Di poche cose Schopenhauer parla con tanta sicurezza come dell'effetto della contemplazione estetica: le attribuisce una funzione antagonista rispetto all'«interesse» sessuale, come la canfora e la luppolina; egli non si è mai stancato di esaltare questa liberazione dalla «volontà» come il grande vantaggio e la grande utilità della condizione estetica. Si potrebbe anzi essere tentati di chiedere se la concezione di fondo della sua «Volontà e rappresentazione», il pensiero che sia possibile una redenzione della «volontà» solo attraverso la «rappresentazione», sia nata da una generalizzazione di questo tipo di esperienza del sesso. (In tutto quello che riguarda la filosofia schopenhaueriana, non si deve mai dimenticare, lo noto di passata, che essa è la concezione di un giovane di ventisei anni; e che perciò essa partecipa non solo dello specifico schopenhaueriano, ma anche dello specifico di quella età della vita.)

Ascoltiamo, per esempio, uno dei brani più significativi tra quelli scritti in omaggio alla condizione estetica (Mondo come volontà e rappresentazione, i, p. 231), ascoltiamo il tono, la sofferenza, la felicità, la gratitudine con cui sono state dette queste parole. «E questo lo stato d'assenza di dolore che Epicuro esaltava come il bene sommo e come condizione divina; per quell'attimo siamo liberati dall'impulso infame del volere, celebriamo il sabato del lavoro forzato della volontà, ferma sta la ruota d'Issione...» Che veemenza in queste parole! Che immagini di pena e di lunga noia! Che contrapposizione, quasi patologica, di tempo tra «quell’attimo» e quella «ruota di Issione», il «lavoro forzato» della volontà», l’«impulso infame del volere»! Posto anche che Schopenhauer abbia cento volte ragione per la sua persona, che cosa si sarebbe raggiunto con ciò, per una migliore conoscenza dell'essenza del bello? Schopenhauer ha descritto un effetto del bello, quello pacificatore della volontà ‑ ma questo è poi un effetto normale?

Stendhal, come si è detto, natura non meno sensuale, ma più armoniosa di Schopenhauer, sottolinea un altro effetto del bello: «Il bello promette felicità», e ritiene che il dato di fatto sia proprio l'eccitazione della volontà («dell'interesse») tramite il bello. E, infine, non si potrebbe obiettare allo stesso Schopenhauer, il quale molto a torto qui si ritiene kantiano, che non ha assolutamente compreso in modo kantiano la kantiana definizione del bello ‑ che anche a lui il bello piace per un «interesse», anzi per un interesse fortissimo, personalissimo come p0chi: quello del torturato che si libera dalla sua tortura?... E per tornare alla nostra prima domanda, «che senso ha l'omaggio reso da un filosofo all'ideale ascetico?» ‑ abbiamo qui, per lo meno, una prima indicazione: egli vuole liberarsi da una tortura.

7.

Guardiamoci dal fare visi tetri davanti al termine «tortura»: proprio in questo caso c'è abbastanza da porre sul conto opposto, abbastanza da sottrarre ‑ e anche un po' da ridere. Infatti non dobbiamo sottovalutare il fatto che Schopenhauer, il quale aveva trattato la sensualità come se, in realtà, fosse stata un suo nemico personale (compreso il suo strumento, la donna, questo instrumentum diaboli), aveva bisogno di nemici, per restare di buon umore; che amava le parole rabbiose, biliose, nere e verdastre; che si infuriava per infuriarsi, per passione; che si sarebbe ammalato, sarebbe diventato pessimista (‑ cosa che non fu, sebbene lo desiderasse ardentemente) senza i suoi nemici, senza Hegel, la donna, la sensualità e tutta la volontà di esistere, di restare. Altrimenti Schopenhauer non ci sarebbe restato, su questo si può scommettere, se la sarebbe battuta: ma i suoi nemici lo trattenevano, i suoi nemici lo seducevano sempre e di nuovo all'esistenza, la sua ira era, come negli antichi Cinici, il suo ristoro, il suo conforto, la sua ricompensa, il suo remedium contro la nausea, la sua felicità. Questo per quanto concerne l'aspetto più personale del caso Schopenhauer; d'altro canto in lui c'è ancora qualcosa di tipico ‑ e solo a questo punto ritorniamo al nostro problema.

Finché ci saranno filosofi sulla terra, ovunque siano esistiti filosofi, (dall'India all'Inghilterra, per prendere i poli estremi del talento filosofico) esisterà, incontestabilmente, una suscettibilità particolare e un filosofico rancore contro la sensualità ‑ Schopenhauer ne è solo lo sfogo più eloquente, e se si ha orecchio per capire, anche il più travolgente e fascinoso ‑; allo stesso modo esiste nei filosofi una prevenzione e una predilezione tutta particolare riguardo all'intero ideale ascetico, nei confronti e contro di esse non c'è nulla da fare. Entrambe queste cose sono proprie, come si è detto, del tipo; se l'una e l'altra mancano a un filosofo, egli resterà ‑ se ne può essere certi ‑ solo un «cosiddetto» filosofo. Che significa questo? Questo dato di fatto deve essere prima di tutto interpretato: esso sta lì in sé stupido per l'eternità, come ogni «cosa in sé».

Ogni animale, e quindi anche la bête philosophique, tende istintivamente a un optimum di condizioni favorevoli, che gli permettano di sfogare completamente la sua forza e di raggiungere il maximum nel sentimento di potenza. Altrettanto istintivamente, e con una acutezza di fiuto «superiore a ogni ragione», tutti gli animali hanno in onore ogni specie di turbamento e di ostacolo che gli impediscano o possano impedirgli il cammino verso l'optimum (‑ non è la sua via alla felicità, quella di cui parlo, ma la sua via alla potenza, all'azione, a un fare più potente e, nella maggioranza dei casi, proprio la sua via all'infelicità). Alla stessa maniera il filosofo aborre dal matrimonio, come da tutto quello che potrebbe persuadervelo ‑ il matrimonio come ostacolo e sventura sul suo cammino verso l'optimum.

Quale grande filosofo è stato sposato? Eraclito, Platone, Cartesio, Spinoza, Leibniz, Kant, Schopenhauer non lo furono, anzi, non li possiamo nemmeno pensare sposati. Un filosofo sposato è un personaggio da commedia, questa è la mia teoria: e quell'eccezione di Socrate ‑ il maligno Socrate sembra si sia sposato solo ironice, solo per dimostrare questa teoria. Ogni filosofo parlerebbe come parlò Buddha una volta; quando gli venne annunziata la nascita di un figlio: «Mi è nato Râhula, una catena mi è stata forgiata» (Râhula sta qui per «piccolo demone»); ogni «spirito libero» dovrebbe avere un'ora di ripensamento, posto che ne abbia avuta prima una di spensieratezza, come capitò allo stesso Buddha ‑ «oppressa e angustiata ‑ pensava tra sé ‑ è la vita nella casa luogo di impurità; libertà è abbandonare la casa»: «e così pensando, abbandonò la casa».

Nell'ideale ascetico vengono indicati tanti ponti verso l'indipendenza, che un filosofo non può ascoltare senza gioirne nell'intimo e senza applaudire le storie di tutti quegli uomini decisi, i quali un giorno dissero no a ogni mancanza di libertà per andarsene in un deserto qualsiasi; anche ammettendo che fossero solo grandissimi asini o addirittura tutt'altro che spiriti forti. Che significa, a questo punto, l'ideale ascetico in un filosofo? La mia risposta, lo si sarà indovinato da un pezzo, è la seguente: alla sua vista il filosofo sorride come a un optimum della condizione di suprema e audacissima spiritualità ‑ e con ciò non nega «l'esistenza», anzi afferma in essa la sua esistenza e solo la sua esistenza, e ciò forse fino al punto da arrivare quasi a concepire l'empio desiderio: pereat mundus, fiat philosophia, fiat philosophus, fiam!...

8.

E’ chiaro, non sono testimoni e giudici incorruttibili del valore dell'ideale ascetico, questi filosofi! Essi pensano a sé, che importa loro «il sacro»! Anzi essi pensano a ciò che per loro è la cosa più indispensabile: libertà da costrizioni, turbamenti, fracasso da affari, doveri, preoccupazioni; chiarezza in testa; danza, salti e volo dei pensieri; un'aria buona, limpida, chiara, libera, asciutta come quella delle alte cime, che rende ogni essere animale più spirituale e gli dà le ali; pace in ogni sotterraneo; tutti i cani ordinatamente alla catena, niente latrati di inimicizia e di villoso rancore; nessun tarlo di ambizione ferita; interiora umili e sottomesse, diligenti come macine di mulino, ma distanti, il cuore estraneo, al di là, nel futuro, postumo, ‑ in fondo, nell'ìdeale ascetico, essi pensano al sereno ascetismo di un animale divinizzato e capace ormai di volare, che passa al di sopra della vita, più che posarvisi. Si sa quali siano le tre sontuose parole d'ordine dell'ideale ascetico: povertà, umiltà, castità: e si osservi da vicino la vita di tutti gli spiriti grandi, fecondi e geniali ‑ vi si ritroveranno tutte e tre sempre fino a un certo punto.

E, ovviamente ‑ mai come se fossero le loro «virtù» ‑ che cosa ha a che fare questa specie di uomini con le virtù! bensì come le condizioni più tipiche e naturali della loro esistenza migliore, dominante dovesse prima imbrigliare o un orgoglio sfrenato e suscettibile o una sensualità petulante, o che riuscisse a sostenere a malapena la loro volontà di «deserto» forse contro una tendenza al lusso e alla ricercatezza, e al tempo stesso contro una certa dissipatrice liberalità del cuore e della mano. Ma quella spiritualità ci riuscì, proprio come istinto dominante, che afferma le sue esigenze su tutti gli altri istinti ‑ e lo fa ancora; se non lo facesse non sarebbe dominante. In ciò quindi non c'è traccia di «virtù».

D'altra parte il deserto di cui ho appena parlato, dove gli spiriti forti si ritirano o si isolano ‑ di quanto è diverso questo deserto da quello che i dotti si immaginano nei loro sogni! ‑ infatti, in certi casi, sono essi stessi, questi dotti, il deserto. Ed è certo che tutti i commedianti dello spirito non potrebbero assolutamente resistervi ‑ per loro un simile deserto non è né abbastanza romantico né abbastanza siriano, né abbastanza teatrale! In ogni modo non manca certo di cammelli: però la rassomiglianza si limita a questo. Una oscurità volontaria forse; un eludere se stessi; un temere fracasso, venerazione, giornali, influssi; un piccolo impiego, la vita quotidiana, qualcosa che più che mettere in luce, nasconde; una serie di contatti occasionali con animali innocui e pacifici, e con uccelli la cui vista riposa; una montagna per compagnia, ma non una montagna morta bensì una dotata di occhi (cioè i laghi); in qualche caso persino una camera in una locanda piena di gente, dove si è certi di essere scambiati per altri, e dove si può parlare impunemente con tutti ‑ questo è il «deserto»: oh, è abbastanza solitario, credetemi!

Quando Eraclito si ritirò negli allodi e sotto i portici del gigantesco tempio di Artemide, questo «deserto» era più dignitoso lo ammetto: perché non abbiamo templi simili? ‑ (forse li abbiamo: sto pensando al mio studio più bello, a Piazza S. Marco, a primavera s'intende, e di mattina, tra le dieci e le dodici). Ciò da cui Eraclito fuggiva, è ancora la stessa cosa da cui noi ora fuggiamo: il frastuono e le chiacchiere democratiche degli Efesi, la loro politica, le loro novità sull'«impero» (di Persia, si capisce), la loro paccottiglia di «oggi» ‑perché noi filosofi abbiamo bisogno soprattutto di calma di fronte a una cosa: soprattutto di fronte a tutto quello che è l'«oggi».

Noi veneriamo il silenzio, la freddezza, la nobiltà, la lontananza, il passato, tutto quello, insomma alla cui vista l'anima non ha bisogno di difendersi, di rinserrarsi ‑ qualcosa con cui si può parlare, senza parlare ad alta voce.

Basta solo ascoltare il suono che uno spirito ha quando parla: ogni spirito ha il suo suono, ama il suo suono. Quello là deve certo essere un agitatore, voglio dire una testa vuota, una pentola vuota: quello che vi entra, qualsiasi cosa sia, ne esce cupa e pesante, gravata dall'eco del grande vuoto. Quello là parla di raro con una voce che non sia rauca: che si sia arrochita a forza di pensare? La cosa sarebbe possibile se interroghiamo i fisiologi ‑, ma chi pensa in parole, pensa come oratore e non come pensatore (e rivela che in fondo non pensa cose, non pensa concretamente, ma solo in relazione a cose, e che pensa in realtà se stesso e i propri ascoltatori). Il terzo invece parla in modo invadente, ci sta premendo addosso, ne sentiamo l'alito ‑ involontariamente ci tappiamo la bocca, anche se ci parla attraverso un libro: il suono del suo stile ci dice la ragione per cui egli non ha tempo, per cui crede a malapena a se stesso, per cui oggi o mai più arriva a parlare. Uno spirito però, che sia sicuro dì sé, parla a bassa voce; ama la discrezione, si fa aspettare.

Un filosofo si riconosce dal suo evitare tre cose brillanti e rumorose, la gloria, i sovrani e le donne: e con ciò non è detto che non siano esse a venire a lui. Teme ogni luce troppo chiara: perciò teme il suo tempo, e il suo «giorno». In questo è come un'ombra: più il sole cala più diventa grande. Per quel che concerne la sua «umiltà», egli sopporta, come sopporta l'oscurità, anche una certa dipendenza ed eclisse: e in più teme i danni provocati dai lampi, indietreggia atterrito di fronte alla vulnerabilità di un albero troppo isolato ed esposto, sul quale ogni maltempo sfoga i suoi malumori e ogni malumore il suo maltempo. Il suo istinto «materno», l'amore segreto per quello che cresce in lui, lo indirizza a condizioni nelle quali viene sollevato dal dover pensare a sé; nello stesso senso in cui l'istinto della madre, nella donna, ha consolidato fino ad oggi lo stato di dipendenza della donna in genere. In fondo non chiedono poi troppo questi filosofi, il loro motto è: «Chi possiede, è posseduto» ‑: e non, come non mi stancherà di ripetere, per virtù, per una meritevole volontà di temperanza e di semplicità, ma perché il loro supremo signore questo pretende da loro, e lo pretende saggiamente e senza pietà; come colui cui solo una cosa sta a cuore, e per essa soltanto raccoglie e risparmia tutto, tempo, forza, amore, interesse.

Questo tipo di uomo non ama essere turbato da inimicizie, e nemmeno da amicizie; dimentica e disprezza con facilità. Crede che sia di pessimo gusto fare i martiri; «soffrire per la verità» ‑ è cosa da lasciare agli ambiziosi e agli eroi da palcoscenico dello spirito e a quanti altri hanno tempo da perdere (‑ essi invece, i filosofi, hanno qualcosa da fare per la verità). Fanno uso moderato di grandi parole; si dice, che la sola parola «verità» li disgusti: avrebbe un suono magniloquente...

Per quello poi che riguarda la «castità» dei filosofi, è chiaro che questo tipo di spiritualità ha la sua fecondità in qualcosa di diverso dai figli; e forse anche altrove è la sopravvivenza del loro nome, la loro piccola immortalità (ancora con minor modestia ci si esprimeva nella antica India tra i filosofi: «A che scopo dei discendenti per colui la cui anima è il mondo?»). ‑ Qui la castità non è dovuta a un qualche scrupolo ascetico o all'odio per i sensi, così come non è castità quella dell'atleta o del fantino che si tiene lontano dalle donne: piuttosto è il loro istinto dominante a voler così, per lo meno nei tempi della piena gravidanza. Ogni artista sa quanto siano dannosi i rapporti sessuali negli stati di grande tensione e preparazione spirituale; per i più forti e per i più istintualmente sicuri di loro, non basta nemmeno l'esperienza, l'esperienza negativa, ‑ è invece proprio il loro istinto «materno» che dispone qui senza riguardi, a tutto vantaggio dell'opera in divenire, di tutte le altre riserve e gli altri apporti di forza, di vigore della vita animale: la forza più grande usa allora la più piccola.

D'altra parte possiamo esaminare il già discusso caso Schopenhauer alla luce di questa interpretazione: lo spettacolo del bello agiva chiaramente in lui come stimolo liberatorio sulla forza principale della sua natura (la forza della riflessione e di uno sguardo più approfondito); così che questa poi poteva esplodere e impadronirsi, in una volta sola, della coscienza. Con questo non si deve assolutamente escludere la possibilità che quella dolcezza e quella pienezza, tipica dello stato estetico, potesse trarre origine proprio dallo ingrediente «sensualità» (dalla stessa sorgente discende quel caratteristico «idealismo» delle ragazze in età da marito) ‑ e che con ciò la sensualità non viene meno in presenza dello stato estetico, come credeva Schopenhauer, ma si trasfigura e non entra più nella coscienza come stimolo sessuale. (Su questa opinione tornerà un'altra volta, in relazione ai problemi, ancora più delicati, della fisiologia dell'estetica sino a oggi mai toccata e rivelata.)

9.

Un certo ascetismo, abbiamo visto, una rinunzia dura e serena, spontanea, fa parte delle condizioni favorevoli di una spiritualità altissima e al tempo stesso delle sue più naturali conseguenze: cosicché fin dall'inizio non ci sarà da meravigliarsi se l'ideale ascetico è sempre stato trattato con qualche prevenzione proprio dai filosofi.

A una seria controprova storica il legame tra ideale ascetico e filosofia si dimostra persino ancora più stretto e serrato. Si potrebbe dire che solo grazie alle dande di questo ideale la filosofia abbia imparato a muovere sulla terra i suoi passi e passetti ‑ ahi, ancora tanto incerta, ahi, con espressione così scontenta, ahi, così pronta a cadere e a restare pancia a terra, questa tenera goffa cosa dalle gambe storte! Alla filosofia, agli inizi, è capitato quello che capita a tutte le cose buone ‑ per lungo tempo non ebbero il coraggio di essere se stesse, si guardavano sempre intorno, ove mai qualcuno volesse venire in loro soccorso, e avevano addirittura paura di tutti quelli che le stavano a guardare.

Enumeriamo con ordine i singoli impulsi e le singole virtù del filosofo ‑ la sua spinta al dubbio, il suo impulso alla negazione, all'attesa (impulso «efectico»), l'impulso analitico, di ricerca, di indagine, l'impulso a osare, a confrontare, a equilibrare, la sua volontà di neutralità e di oggettività, la sua volontà di ogni «sine ira et studio» ‑: non abbiamo forse già capito che tutti questi impulsi e queste virtù prese insieme hanno sfidato, per lunghissimo tempo, le esigenze prime della morale e della coscienza? (per non parlare della ragione in generale che ancora Lutero amava chiamare «Donna Saggezza la meretrice saggia»). Che un filosofo, nel caso fosse arrivato sino alla coscienza avrebbe dovuto sentirsi proprio come il «nitimur in vetitum» in carne e ossa ‑ e che quindi si guardava bene dal «sentire se stesso», dall'arrivare alla coscienza?...

Come si è detto, lo stesso accade per le cose buone, di cui oggi siamo orgogliosi; anche se misurato al metro degli antichi Greci, tutto il nostro essere moderno, nella misura in cui non è debolezza, potenza e coscienza della potenza, non sembra altro che hybris e empietà: poiché proprio le cose opposte a quelle che oggi noi onoriamo, hanno avuto dalla loro parte, per lunghissimo tempo, la coscienza e Dio a loro salvaguardia. Tutta la nostra posizione di fronte alla natura è hybris, la violenza che usiamo alla natura con l'ausilio delle macchine e del genio inventivo, così sconsiderato, degli ingegneri e dei tecnici; hybris è la nostra posizione verso Dio, voglio dire, verso qualsiasi regno etico‑finalistico nascosto dietro la grande trama a traliccio della causalità, ‑ potremo dire, come Carlo il Temerario, nella battaglia contro Luigi XI, «je combats l'universelle araignée»; hybris è la nostra posizione verso noi stessi; poiché su noi stessi tentiamo esperimenti che non ci permetteremmo mai su nessun altro animale, e ci sezioniamo contenti e curiosi l'anima incidendo nella viva carne: che cosa ci importa mai la «salute» dell'anima! Poi ci guariremo da soli: essere malati è istruttivo, e senza dubbio più istruttivo che essere sani ‑ oggi gli agenti morbosi ci sembrano anche più necessari di un qualsiasi sciamano e «salvatore».

Oggi noi ci usiamo violenza, noi schiaccianoci dell'anima, noi inquirenti e inquisiti, come se la vita non fosse altro che schiacciare noci; proprio con ciò, giorno dopo giorno, dobbiamo necessariamente farci sempre più problematizzabili e più degni di porre problemi; e proprio per ciò, forse anche più degni di vivere?... Tutte le cose buone sono state un tempo cose cattive; ogni peccato d'origine si è trasformato in una virtù originaria.

Ad esempio, il matrimonio parve a lungo un affronto al diritto della comunità; una volta si pagava un’ammenda per essere così poco modesti da prendere una donna tutta per sé (è il caso dello jus primae noctis, ancora al giorno d'oggi in Cambogia privilegio dei sacerdoti, questi custodi dei «buoni e antichi costumi»). I sentimenti miti, benevoli, indulgenti e compassionevoli ‑ il cui valore crebbe tanto da farne, alla fine, quasi «i valori in sé», per lunghissimo tempo ebbero contro proprio il disprezzo di sé: ci si vergognava della bontà come oggi della durezza; (cfr. Al di là del bene e del male, p. 232). La sottomissione al diritto: oh, con quanti mai contrasti di coscienza le stirpi aristocratiche, dovunque sulla terra, hanno rinunziato da parte loro alla vendetta e concesso al diritto potere su di esse! Il «diritto» è stato a lungo un vetitum, un crimine, un'innovazione, apparve con violenza, come violenza cui ci si adattò solo vergognandosi davanti a se stessi.

Ogni minimo passo sulla terra è stato conquistato a prezzo di torture fisiche e spirituali: tutto questo punto di vista «che non solo l'avanzare, ma il progredire, il movimento e la trasformazione abbiano avuto bisogno dei loro innumerevoli martiri», l'ho messo in luce in Aurora, pp. 17 ss. «Niente è stato pagato più caro, vi si dice a p. 19, di quel poco di ragione umana e di sentimento di libertà che costituisce oggi il nostro orgoglio. Ma è questo orgoglio la causa per cui oggi ci è impossibile avere gli stessi sentimenti di quelle età smisurate della "eticità del costume", che precedono la "storia universale", come reale e decisiva storia di base che ha fissato il carattere dell'umanità: in cui il soffrire era virtù, la crudeltà virtù, la falsità virtù, la vendetta virtù, la negazione della ragione virtù; e al contrario il benessere era considerato pericolo, la sete di sapere pericolo, la pace pericolo, la compassione pericolo, l'essere compassionati un insulto, il lavoro un insulto, la follia divinità, la mutazione mancanza di eticità e realtà gravida di rovina! ...»

10.

Nello stesso libro, p. 39, si spiega in quale stima, sotto quale pressione di stima dovette vivere la stirpe più antica di uomini contemplativi ‑ tanto più disprezzata, quanto meno era temuta! Agli inizi la contemplazione è apparsa sulla terra travestita nella figura, ambigua nell'aspetto, con un cuore cattivo e spesso con una testa tormentata dall'angoscia: su ciò non esiste alcun dubbio. Quel che c'è di inattivo, di meditabondo, di non bellicoso negli istinti degli uomini contemplativi, provocò intorno a loro, per molto tempo, una profonda diffidenza: contro ciò non esisteva altro rimedio che incutere decisamente paura di sé.

E in questo gli antichi brahmani erano grandi esperti! I più antichi filosofi seppero dare alla loro esistenza e al loro apparire un senso, una consistenza e uno sfondo, grazie ai quali si imparò a temerli: e a esaminare la cosa con maggior precisione, ciò derivò da un bisogno ancora più fondamentale, e cioè per conquistarsi timore e venerazione. Poiché essi trovavano in se stessi tutti i giudizi di valore rivolti contro di sé, dovevano sconfiggere ogni specie di sospetto e di resistenza contro «il filosofo in sé». Ed essi, uomini di un'età terribile, fecero questo con mezzi terribili: la crudeltà verso se stessi, la fantasiosa mortificazione di sé ‑ fu l'arma fondamentale di questi eremiti e innovatori del pensiero assetati di potenza, che dovevano necessariamente fare prima violenza in se stessi agli dèi e alla tradizione per poter credere essi stessi alle loro innovazioni. Ricordo la famosa storia del re Vicvamictra, il quale aveva ricavato da millenarie martirizzazioni di sé un tale senso di potenza e una tale fiducia da mettersi a costruire un nuovo cielo: simbolo sinistro della più antica e della più moderna storia dei filosofi sulla terra - chi abbia costruito mai una volta un «nuovo cielo», ne trovò la forza solo nel proprio inferno...

Per concentrare in formule brevi tutti questi dati di fatto: lo spirito filosofico ha dovuto sempre, prima di tutto, mascherarsi e travestirsi nei tipi già fissati dell'uomo contemplativo, da sacerdote, mago, indovino, da uomo religioso in genere, per essere in qualche modo anche solo possibile: l'ideale ascetico è servito per lungo tempo al filosofo come forma fenomenica, come premessa esistenziale ‑ il filosofo doveva rappresentarlo, per poter essere tale, doveva credervi per poterlo rappresentare.

La posizione di isolamento dei filosofi, che tipicamente rinnega il mondo, detesta la vita, non accorda fiducia ai sensi, anzi ne è priva, e che è stata tenuta ferma sino ai nostri giorni, tanto da acquistare quasi la validità di un'attitudine filosofica in sé ‑ è prima di tutto una conseguenza dello stato di precarietà delle condizioni in cui la filosofia in generale è nata e si è affermata: nella misura in cui, infatti, la filosofia per un tempo lunghissimo non sarebbe stata assolutamente possibile senza un involucro e un rivestimento ascetico, senza un'ascetico fraintendimento di sé. Per esprimersi in maniera più chiara ed evidente: il sacerdote ascetico è stato sino ad oggi la forma larvale più disgustosa e oscura, l'unica su cui alla filosofia fosse concesso di vivere e di muoversi strisciando...

La situazione è realmente cambiata? L'alato insetto variopinto e pericoloso, quello «spirito» che questa larva nascondeva in sé, ha veramente finito per abbandonare il suo bozzolo ed è stato portato alla luce grazie a un mondo più assolato, più caldo, più chiaro? Esiste oggi già tanto orgoglio, tanto coraggio, audacia, certezza di sé, volontà dello spirito, volontà di responsabilità, libertà del volere, perché sulla terra «il filosofo» sia realmente ‑ possibile?...

11.

Solo ora, dopo aver osservato il sacerdote ascetico, affrontiamo seriamente il nostro problema: che significa l'ideale ascetico? ‑ solo adesso esso diventa «serio»; ci troviamo infatti di fronte proprio all'autentico rappresentante della serietà. «Che cosa significa ogni serietà?» ‑ forse abbiamo già sulle labbra questa domanda ancora più fondamentale: una domanda per i filologi, come è ovvio, davanti alla quale però, momentaneamente, passiamo altre. Il sacerdote asceta ha in quell'ideale non solo la sua fede, ma anche la sua volontà, la sua potenza, il suo interesse, in quell'ideale si fonda e si sfalda il suo diritto all'esistenza: nessuna meraviglia, quindi, se qui ci troviamo di fronte un avversario terribile, ammesso che noi fossimo gli avversari di quell'ideale? Un avversario che lotta per la sua esistenza contro i negatori di quell'ideale?...

D'altra parte, non è certo verosimile, a prima vista, che una presa di posizione così interessata al nostro problema possa essergli particolarmente vantaggiosa; è difficile che il prete asceta si faccia anche solo felicissimo difensore del suo ideale, per lo stesso motivo per cui una donna va incontro, di solito, a un insuccesso, quando si mette a difendere la «donna in sé» ‑ e ancora meno potrà essere osservatore e giudice obiettivo al massimo della controversia qui sollevata. Lo dovremo invece aiutare ‑ cosa questa che è già più evidente ‑ a difendersi bene contro di noi, piuttosto che temere di venirne confutati troppo bene...

Il pensiero, intorno cui qui si dibatte, è la valutazione della nostra vita da parte dei preti asceti: questa (con tutto quello che la concerne, «natura», «mondo», tutta la sfera del divenire e della caducità) viene da essi collegata a una esistenza completamente diversa, nei cui confronti essa si comporta in modo contrastante e esclusivo, a meno che essa non si rivolga contro se stessa, rinneghi se stessa: in questo caso, nel caso di una vita ascetica, la vita serve da ponte verso l'altra esistenza. L'asceta tratta la vita come una strada sbagliata che si dovrà ripercorrere, a ritroso, fino al suo inizio, o come errore, che si confuta ‑ si dovrà confutare tramite l'azione: poiché questi esige che si vada con lui, e impone, dove può, la propria valutazione dell'esistenza. Che significa questo?

Un criterio di valutazione tanto mostruoso non sta scritto nella storia dell'uomo come fatto eccezionale e come curiosità: è una delle realtà di fatto più ampie e più durature che siano mai esistite. Letta da un pianeta lontano, la scrittura maiuscola della nostra esistenza terrestre potrebbe forse indurre alla conclusione errata che la terra sia il pianeta ascetico per eccellenza, un nascondiglio per creature scontente, presuntuose e disgustose, incapaci di liberarsi da una profonda noia di sé, della terra, della vita, e capaci invece di farsi tutto il male possibile, per il piacere di fare del male ‑ probabilmente il loro unico piacere.

Consideriamo tuttavia come il sacerdote asceta si manifesti regolarmente, universalmente e quasi in ogni epoca; non fa parte di nessuna razza particolare; prospera dovunque; nasce da ogni ceto sociale. Non che abbia coltivato e trapiantato il suo modulo di valutazione con l'ereditarietà: è vero piuttosto il contrario ‑ un profondo istinto gli vieta infatti, globalmente, la riproduzione. Deve essere una necessità di prim'ordine quella che fa crescere e prosperare sempre e di nuovo questa specie ostile alla vita ‑ deve essere proprio un interesse della vita stessa a far sì che un tipo simile di autocontraddizione non si estingua. Perché una vita ascetica è una autocontraddizione: qui domina un ressentiment senza pari, quello di un istinto insaziato e di una volontà di potenza che vorrebbe dominare, non su qualcosa della vita, ma sulla vita stessa, sulle sue più profonde, più forti e più sotterranee condizioni; qui si tenta di usare la forza per ostruire le sorgenti della forza; qui lo sguardo si rivolge, bilioso e infido, contro il benessere fisiologico, e in particolare contro la sua espressione, la bellezza, la gioia; mentre si cerca e si gode dell'insuccesso, dell'inaridimento, del dolore, della sventura, del brutto, del danneggiarsi volontariamente, della rinuncia a se stessi, dell'autoflagellazione, del sacrificio di sé.

Tutto ciò è paradossale al massimo: qui ci troviamo di fronte a una disarmonia, che vuole se stessa disarmonica, che gode di sé in questa sofferenza. e diventa sempre più sicura di sé e trionfante nella misura in cui diminuisce il suo presupposto, l'attitudine fisiologica alla vita. «Il trionfo, proprio nell'ultima agonia»: in questo segno superlativo ha combattuto da sempre l'ideale ascetico; in questo enigma di seduzione, in questa immagine di estasi e di dolore ha riconosciuto la sua luce più chiara, la sua salvezza, la sua vittoria finale. Crux nux, lux ‑ in esso, una cosa sola.

12.

Ammesso che una tale volontà corporale di contraddizione e di contronatura venga convinta a filosofare: su che cosa lascerà infuriare il suo più intimo arbitrio? Su quanto viene sentito con la massima sicurezza come vero, come reale: cercherà l'errore proprio là dove l'autentico istinto vitale pone nel modo più incondizionato possibile la verità. Come fecero gli asceti della filosofia Vedânta ridurrà la corporeità a illusione come anche il dolore, la molteplicità, tutta l'antitesi concettuale «soggetto» e «oggetto» errori, nient'altro che errori! Non prestare fede al proprio io, negare a se stessi la propria «realtà» ‑ che trionfo! ormai non più solo sui sensi, sull'apparenza; una specie molto più elevata di trionfo, una violenza e una crudeltà volte contro la ragione: voluttà che arriva, come tale, al culmine nel momento in cui l'ascetico disprezzo di sé, e l'autoderisione della ragione decreta: «Esiste un regno della verità e dell'essere, ma proprio la ragione ne è esclusa!»... (Detto per inciso: addirittura ancora nel concetto kantiano di «carattere intelligibile delle cose» c'è qualche residuo di questa voluttuosa disarmonia da asceta, che ama rivolgere ragione contro ragione: infatti «carattere intelligibile» significa in Kant una specifica modalità delle cose di cui l'intelletto capisce solo che essa per l'intelletto è, in tutto e per tutto incomprensibile.)

‑ E noi, proprio come uomini interessati alla conoscenza, non dobbiamo, infine, mostrarci ingrati contro questi risoluti ribaltamenti delle abituali prospettive e valutazioni, con cui troppo a lungo lo spirito ha infuriato contro se stesso in maniera apparentemente empia e sterile: vedere una volta in modo così diverso, voler vedere diversamente è una non piccola disciplina e apprendistato dell'intelletto alla sua passata «obiettività» ‑ obiettività intesa non come «intuizione disinteressata» (che in quanto tale è un non‑concetto e un controsenso), ma come la capacità di avere in pugno, di fare e disfare il proprio pro e contro: così che si impara a utilizzare per la conoscenza proprio la diversità delle prospettive e delle interpretazioni affettive.

Signori filosofi, d'ora innanzi guardiamoci meglio dal pericoloso, antico favoleggiamento concettuale, che ha posto un «soggetto della conoscenza puro, senza volontà, senza dolore, al di fuori del tempo»; guardiamoci dai tentacoli di tali concetti contraddittori come «ragion pura», «spiritualità assoluta», «conoscenza di sé»; ‑ qui si esige sempre di pensare un occhio che non può essere pensato, un occhio che non deve avere proprio nessuna direzione, in cui devono essere interrotte, devono mancare le attive forze, interpretanti, grazie alle quali soltanto il vedere diventa un vedere qualcosa; qui si esige dunque sempre un controsenso e un non concetto di occhio. Esiste solo un vedere prospettico, solo un «conoscere» prospettico; e quanti più affetti facciamo parlare a proposito di una cosa, quanti più occhi, occhi diversi sappiamo adoperare in noi per la stessa cosa, tanto più completo sarà il nostro «concetto» di essa, la nostra.«obiettività». Ma eliminare in genere la volontà, deporre gli affetti nel loro complesso, ammesso che ne fossimo capaci: come? non significherebbe castrare l'intelletto?...

13.

Ma torniamo indietro. Una tale autocontraddizione, quale quella che sembra rappresentarsi nell'asceta, «vita contro vita» ‑ e questa è la cosa più evidente già a prima vista ‑ a una verifica fisiologica e non più psicologica, appare come un non senso. Essa può solo essere apparente, deve essere una specie di espressione momentanea, un'interpretazione, una formula, una sistemazione, un equivoco psicologico su qualche cosa la cui vera natura per lungo tempo non poté essere compresa, per lungo tempo non poté essere designata in sé ‑ una parola e niente altro, incuneata nella antica lacuna della conoscenza umana. E per esporre in breve il dato di fatto opposto: l'ideale ascetico nasce dall'istinto di difesa e di salvezza di una vita in degenerazione, che cerca di affermarsi con tutti i mezzi e che lotta per la propria esistenza; esso segnala una inibizione fisiologica e un affaticamento, contro cui si battono senza tregua e con mezzi e invenzioni nuove gli istinti più profondi e ancora intatti della vita.

L'ideale ascetico è uno di questi mezzi: è dunque proprio il contrario di quanto pensano gli adoratori di questo ideale ‑ la vita lotta in esso e per suo tramite con la morte e contro la morte, l'ideale ascetico è un artificio nella conservazione della vita. Che questo poi potesse dominare e impadronirsi degli uomini tanto quanto la storia ci insegna, e proprio dove si affermò la civilizzazione e l'addomesticamento dell'uomo, costituisce l'espressione di un gran dato di fatto: la condizione malata del tipo umano fino ad oggi, per lo meno del tipo umano ormai domato, la lotta fisiologica dell'uomo con la morte (più precisamente: con il tedio della vita, con l'affaticamento, col desiderio della «fine»).

Il sacerdote asceta è il desiderio incarnato di essere‑altro, di essere‑altrove, e in realtà il più alto grado di questo desiderio, il suo ardore tipico e la sua passione: ma proprio la potenza del suo desiderare è la catena che lo incatena qui; proprio in questo modo egli diviene strumento obbligato a lavorare per la creazione di condizioni più favorevoli per l'essere qui e l'essere‑uomo ‑ proprio con questa potenza tiene avvinto all'esistenza tutto il gregge di falliti di ogni genere, di scontenti, di bistrattati dalla sorte, di disadattati, di sventurati, di quanti soffrono di sé, precedendoli istintivamente come un pastore. Già mi si capisce: questo sacerdote asceta, questo nemico apparente della vita, questo negatore, fa parte proprio delle più grandi forze conservatrici e creatrici in senso affermativo della vita...

Da che cosa dipende questa condizione malata? Poiché l'uomo è più malato, meno sicuro, più mutevole, meno determinato di ogni altro animale, su questo non c'è dubbio ‑ è l'animale malato: e da che cosa deriva questo? E’ certo che, più di tutti gli animali presi insieme, l'uomo ha osato, rinnovato, sfidato, provocato il destino: l'uomo, questo grande sperimentatore dì se stesso, insoddisfatto, insaziato, che lotta con animali, natura e divinità per l'ultima supremazia, questo essere sempre e ancora non domato, eternamente futuribile, che non trova più pace di fronte all'impeto della sua stessa forza, tanto che il suo futuro gli fruga inesorabilmente nella carne di ogni presente come uno sperone ‑ come non dovrebbe essere, un animale così coraggioso e ricco, anche il più esposto al pericolo, il più a lungo e più profondamente malato tra tutti gli animali malati?...

L'uomo è saturo di tutto ciò, abbastanza spesso, si verificano intere epidemie di questa saturazione ‑ (come ad esempio intorno al 1348, al tempo della danza macabra): ma anche questa nausea, questa stanchezza, questo tedio di sé ‑ tutto assume in lui tale potenza da diventare immediatamente un nuovo vincolo. Il suo no detto alla vita porta alla luce, come per incantesimo, una moltitudine di sì più raffinati; anzi, quando si ferisce, questo maestro della distruzione, dell'autodistruzione ‑ sarà proprio la ferita stessa a costringerlo a vivere.

14.

Quanto più la condizione malata nell'uomo è normale ‑ e non possiamo mettere in discussione la normalità di questo fatto ‑ tanto più si dovrebbero stimare i rari casi di forza spirituale e fisica, i casi fortunati dell'essere umano, tanto più rigidamente si dovrebbero proteggere i ben riusciti dall'atmosfera più appestata, da quella dei malati. Ma lo facciamo?... I malati sono per i sani il maggior pericolo; la rovina per i forti non viene dai più forti, ma dai più deboli. Lo sappiamo?...

Parlando in generale, non è assolutamente il timore dell'uomo ciò di cui ci si dovrebbe augurare una diminuzione: questo timore costringe infatti i forti a essere forti, e a secondo i casi, terribili ‑ esso tiene in piedi il tipo umano ben riuscito. Ciò che si deve temere, ciò che agisce più fatalmente di ogni altra fatalità, non sarebbe il grande timore, ma la grande nausea di fronte all'uomo; come anche la grande compassione per l'uomo. Posto che esse un giorno sì accoppiassero, immediatamente e inevitabilmente farebbe il suo ingresso nel mondo qualcosa di particolarmente sinistro, l'«ultima volontà» dell'uomo, la sua volontà del nulla, il nichilismo.

E infatti a tale eventualità molto è preparato. Chi non possiede un naso solo per fiutare, ma possiede anche occhi e orecchie, avverte oggi quasi dovunque per avventura si trovi a passare, qualcosa come un'atmosfera di manicomio e di lazzaretto ‑ parlo, come è chiaro, delle regioni culturali dell'uomo, di ogni specie d'«Europa» che nel futuro sorgerà sulla terra. I cagionevoli sono il gran pericolo dell'uomo: non i cattivi, non gli «animali da preda». Quelli che sin dall'inizio sono stati colpiti dalla sventura, i prostrati, i distrutti ‑ essi i più deboli, sono quelli che più degli altri minano la vita tra gli uomini, che avvelenano e problematizzano, nella maniera più pericolosa, la nostra fede nella vita, nell'uomo, in noi stessi. Dove si potrebbe mai sfuggire a quello sguardo velato che lascia addosso una profonda tristezza, a quello sguardo volto all'indietro di chi è storpio da sempre, sguardo che tradisce come un uomo simile parli con se stesso ‑ a quello sguardo che è un sospiro! «Potessi essere un altro qualsiasi!» così sospira questo sguardo: «Ma non c'è speranza. Io sono quello che sono: come potrei liberarmi di me stesso? Eppure ne ho a sazietà di me! ».

Su questo terreno di autodisprezzo, vera e propria palude, cresce ogni erbaccia, ogni pianta velenosa, e tutto è così piccolo, così nascosto, così falso e così dolciastro. Qui brulicano i vermi dei sentimenti di vendetta e di rancore; qui l'aria maleodora di cose nascoste e inconfessabili; qui si tesse senza interruzione la rete della congiura più perfida ‑ la congiura di chi soffre contro chi è ben formato e vittorioso, qui l'aspetto del vittorioso viene odiato. E quante menzogne per non ammettere che questo odio è odio! Che profluvio di grandi parole e di grandi gesti, che arte dell'«onesta» calunnia! Questi falliti: quale nobile eloquenza fluisce dalla loro labbra! Quale zuccherosa, gelatinosa, umile devozione galleggia nei loro occhi! Ma in realtà che cosa vogliono? Per lo meno rappresentare la giustizia, l'amore, la saggezza, la superiorità, tale è l'ambizione di questi «infimi», di questi malati! E come rende abili questa ambizione!

Si ammiri particolarmente l'abilità da falsari con cui imitano i tratti della virtù, anche il tintinnio, il tintinnio d'oro della virtù. Hanno preso in affitto, completamente per sé, la virtù, questi deboli, incurabili e malati, su ciò non è possibile alcun dubbio: «Noi soli siamo i buoni, i giusti ‑ così dicono ‑ noi soli siamo gli homines bonae voluntatis». Si aggirano tra noi come rimproveri in carne e ossa, come ammonimenti rivolti a noi, come se salute, belle fattezze, forza, orgoglio e senso di potenza fossero già in sé cose peccaminose, che dovranno essere un giorno espiate, amaramente espiate: oh come sono pronti, in fondo, a far spiare, come sono assetati dal desiderio di farsi carnefici. Tra loro sono numerosissimi gli individui avidi di vendetta travestiti da giudici, che hanno sempre in bocca la parola «giustizia» come saliva velenosa, sempre con una smorfia sulla bocca, sempre pronti a sputare su tutto quello che non ha uno sguardo insoddisfatto e va per la sua strada di buon animo. Tra loro non manca nemmeno quella razza assolutamente ripugnante di vanitosi, aborti mendaci, che non tendono ad altro che a passare per «anime belle» e a mettere in piazza, avvolta in versi e altri pannolini, la loro stroppia sensualità come «purezza di cuore»: la razza degli onanisti morali e di coloro che si «autosoddisfano».

La volontà dei malati di rappresentare una forma qualsiasi di superiorità, il loro istinto per le scappatoie che conducono a una tirannia sui sani ‑ a che cosa non arriva questa volontà di potenza, tipica proprio dei più deboli! E in particolare la donna malata: nessuno la supera nella raffinatezza del dominare, dell'opprimere, del tiranneggiare. La donna malata, infatti, non risparmia niente di vivo, niente di morto, riesuma le cose più profondamente sepolte (i Bogo dicono: «la donna è una iena»). Basta guardare la vita segreta di ogni famiglia, di ogni corporazione, di ogni comunità: dovunque la lotta dei malati contro i sani ‑ lotta muta, per lo più fatta di piccole polveri tossiche, di punture d'aghi, di atteggiamenti d'ipocrita e astuta sopportazione, e a tratti anche di quel farisaico modo di fare del malato che recita più volentieri di ogni altra cosa la «nobile indignazione», con un gestire rumoroso. Sino alle sacre stanze della scienza vorrebbe farsi udire il latrato rauco della indignazione dei cani malati, la mendacia velenosa e la rabbia di tali «nobili» farisei (ricordo ancora ai lettori che hanno orecchie, quell'apostolo berlinese della vendetta, Eugen Dühring, che nella Germania odierna utilizza nel modo più indecente e disgustoso il tam‑tam della morale: Dühring, il primo spaccone della morale che oggi ci sia, persino tra i suoi simili, gli antisemiti).

Questi sono tutti uomini del ressentiment, questi esseri fisiologicamente infelici e tarati, tutto un terrestre reame tremante di vendetta sotterranea, inesauribile, insaziabile nei suoi sfoghi violenti contro i felici, come nelle mascherate della vendetta, nei pretesti di vendetta: quando arriverebbero mai al loro ultimo, più raffinato, più sublime trionfo di vendetta? Senz'ombra di dubbio nel momento in cui riuscissero a far slittare nella coscienza dei felici la loro miseria, anzi tutta la generale miseria: così che questi cominciassero, un bel giorno, a vergognarsi della loro felicità e a dirsi l'un l'altro: «che vergogna essere felici! esiste troppa miseria!»...

Ma non potrebbe darsi equivoco più grande e fatale di quello che si avrebbe se mai i felici, i ben riusciti, i forti di corpo e di anima, cominciassero così a dubitare del loro diritto alla felicità. Basta con questo «mondo alla rovescia»! Basta con questo vergognoso rammollimento del sentimento! Che i malati non facciano ammalare i sani ‑ e questo sarebbe un simile rammollimento ‑, dovrebbe essere la prospettiva massima sulla terra ‑ ma per ciò e prima di ogni altra cosa è necessario che i sani restino separati dai malati, protetti addirittura dalla vista dei malati, che non vengano scambiati con i malati. O sarebbe forse loro compito quello di fare gli infermieri o i medici?... Ma essi non potrebbero disconoscere e rinnegare il loro compito in modo peggiore ‑ quello che è superiore non deve degradarsi a strumento di ciò che è inferiore, il pathos della distanza deve tenere separati, per l'eternità, anche i compiti! Il loro diritto di esistere, il privilegio della campana dal suono puro su quella stonata, incrinata, è, in verità, mille volte maggiore: essi solo sono i garanti del futuro, essi soli sono vincolati in ordine al futuro dell'umanità. Ciò che essi possono, ciò che essi devono, non dovrebbe essere concesso ai malati: ma affinché essi possano quello che essi soltanto devono, come potrebbero mai essere liberi di fare i medici, i consolatori, i «salvatori» di chi è malato?...

E quindi aria buona! Aria buona! E teniamoci lontani da tutti i manicomi e i lazzaretti della cultura! E quindi buona compagnia, compagnia nostra! Oppure, se proprio deve essere, solitudine! Ma alla larga, in ogni modo, dai vapori mefitici della putredine interna e dal rosicchio nascosto dei malati!... Per poterci difendere ancora almeno un poco, amici, dai due peggiori flagelli che possono colpire proprio noi ‑dalla grande nausea per l'uomo! dalla grande compassione per l'uomo!...

15.

Se si è capito, in tutta la sua profondità ‑ e desidero che proprio qui si vada a fondo, si capisca profondamente ‑ in che misura non possa essere assolutamente compito dei sani quello di assistere i malati, di guarire i malati, si sarà capita contemporaneamente, anche un'altra necessità ‑ quella cioè che medici e infermieri siano essi stessi malati: e a questo punto terremo ben stretto in tutte e due le mani il significato del prete asceta. Dobbiamo considerare perciò il sacerdote asceta come il salvatore predestinato, pastore e difensore del gregge malato: solo così potremo capire la sua enorme missione storica. Il dominio su chi soffre è il suo regno, a ciò lo spinge il suo istinto, in esso consiste la sua vera arte, la sua maestria, il modo della sua felicità. Deve essere malato lui stesso, deve essere profondamente affine a chi è malato o sventurato, per comprenderlo ‑ per farsi comprendere da lui; ma deve essere anche forte, ancora più padrone di sé che di altri, cioè compatto nella sua volontà di potenza, per poter essere per lui sostegno, resistenza, appoggio, coazione, correttore, tiranno, dio. Deve difenderlo, il suo gregge ‑ contro chi?

Contro i sani non c'è dubbio, e anche contro l'invidia dei sani; deve essere l'oppositore naturale e spregiatore di ogni salute rozza, tempestosa, sfrenata, dura, violenta e rapace e di ogni potenza. Il sacerdote è la prima forma dell'animale più delicato, che disprezza più facilmente di quanto non odi. Non potrà evitare di muovere guerra agli animali rapaci, una guerra di astuzia, (dello «spirito») più che di violenza, come è ovvio ‑ per cui, in qualche caso, sarà costretto a elaborare in sé quasi un tipo nuovo di animale da preda, o per lo meno a significarlo ‑ una nuova temibilità animale, in cui l'orso polare, il gattopardo gelido e flessuoso in agguato, e non certo meno la volpe, sembrano legati in una unità tanto fascinosa quanto terribile. Ove la necessità lo costringa, apparirà tra le altre specie di predatori con la gravità di un orso, dignitoso, intelligente, glaciale, ingannevolmente superiore, come un araldo e un portavoce di potenze misteriose, risoluto a seminare, dove potrà, su questo terreno, dolore, discordia, autocontraddizione, anche sin troppo sicuro della sua arte nel dominare, in ogni momento, chi soffre.

Non c'è dubbio che egli reca con sé unguenti e balsami; ma per essere medico deve prima necessariamente ferire; e mentre placa il dolore provocato dalla ferita, infetta contemporaneamente la ferita stessa ‑ infatti in questo soprattutto è abile, questo incantatore e domatore di bestie feroci, nella cui cerchia tutto ciò che è sano diventa necessariamente malato e tutto ciò che è malato si fa necessariamente mansueto. In realtà difende abbastanza bene il suo gregge malato, questo strano pastore ‑ lo difende anche contro se stesso, contro quella cattiveria, quella malignità e quella perfidia che covano persino all'interno del gregge e contro tutto ciò che è proprio di tutti gli infermicci e i malati; egli si batte con intelligenza, durezza e segretezza contro l'anarchia e contro l'autodissoluzione sempre in procinto di nascere nel gregge, nel quale continua ad accumularsi sempre di più quel pericolosissimo materiale esplosivo e dirompente che è il ressentiment. Disinnescare questo esplosivo, evitando che faccia saltare in aria il pastore o il gregge, questo è il suo vero capolavoro e anche la sua massima utilità: se si volesse racchiudere in una formula estremamente succinta il valore della esistenza sacerdotale, si dovrebbe dire senz'altro: il sacerdote è il modificatore di rotta del ressentiment. Tutti coloro che soffrono, infatti, cercano istintivamente una causa del proprio dolore; più precisamente ancora, un autore o, per essere più esatti, un autore responsabile ‑ in breve, un qualsiasi essere vivente, su cui poter scaricare con un pretesto qualsiasi defactu o in effigie
le proprie passioni; poiché sfogare le proprie passioni è il massimo tentativo di sollievo, cioè di stordimento di chi soffre, il suo narcotico involontariamente desiderato contro le pene di ogni genere.

Solo qui, come credo, si può trovare la reale causalità fisiologica del ressentiment, della vendetta e simili, in un desiderio, quindi, di assopimento del dolore grazie alla passione ‑ di solito essa viene cercata, molto erroneamente, mi sembra, nel contraccolpo difensivo, semplice misura precauzionale della reazione, «movimento riflesso» che appare nel caso di lesioni improvvise e di pericoli, simile a quelli che compie una rana decapitata, per sottrarsi all'azione di un acido corrosivo. Ma la differenza è fondamentale: in un caso, si vogliono evitare danni ulteriori, nell'altro, si tende a smorzare un dolore feroce, nascosto, che si fa insopportabile, mercé un'emozione più violenta di qualsiasi genere e a escluderlo, momentaneamente, almeno dalla coscienza ‑ per la qual cosa è necessaria una passione, una passione il più selvaggia possibile, e, per stimolarla, un pretesto qualsiasi.

«Qualcuno deve essere responsabile del fatto che io stia male» ‑ questo tipo di deduzione è propria di ogni malato, e anzi, quanto più resta loro nascosta la vera causa dello star male, quella fisiologica, (‑ essa può risiedere in una affezione del nervus sympathicus o in una secrezione eccessiva della vescica biliare, o nella mancanza, nel sangue, di solfati e fosfati, o in uno stato spastico del basso ventre che ostacola la circolazione del sangue o in una degenerazione ovarica e simili).

Tutti coloro che soffrono sono terribilmente solleciti e ricchi di inventiva nel trovare pretesti per passioni dolorose; godono già del loro sospetto, del rimuginare su cattiverie e danni apparenti, frugano nei visceri del loro passato e del loro presente, alla ricerca di storie oscure e dubbie, dove possano liberamente crogiolarsi in un sospetto dilaniante e stordirsi al veleno della loro stessa perfidia ‑ mettono a nudo le ferite più antiche, si dissanguano aprendo cicatrici ormai chiuse; trasformano in malfattori l'amico, la moglie, il figlio e tutti quanti sono loro più vicini. «Soffro: qualcuno deve averne colpa» ‑ questo pensa ogni pecora malata. Ma il suo pastore, il sacerdote asceta, le dice: «E’ vero, pecora mia! qualcuno ne ha colpa: ma questo qualcuno sei tu stessa, tu e solo tu sei la colpevole ‑ tu e solo tu sei colpevole dite stessa!»... Questo è audace quanto basta e falso quanto basta: ma per lo meno così si raggiunge una cosa, così, come si è detto, la rotta del ressentiment è... mutata.

16.

Ormai si indovina quello che, a mio giudizio, l'istinto terapeutico della vita, ha per lo meno tentato per mezzo del sacerdote ascetico, e lo scopo per il quale si è dovuto servire di una temporanea tirannia di concetti tanto paradossali e patologici come «colpa», «peccato», «peccaminosità», «depravazione» «dannazione»: per rendere cioè, parzialmente innocui i malati, per costringere gli inguaribili all'autoeliminazione, per indirizzare i malati non gravi unicamente contro se stessi, retroguidando il loro ressentiment («una cosa sola è necessaria») e per sfruttare così gli istinti malvagi di ogni sofferente in vista dell'autodisciplina, dell'autocontrollo, dell'autosuperamento. E’ ovvio che non si può trattare assolutamente, con una «medicazione» di questo tipo, una semplice medicazione affettiva, di un'autentica guarigione del malato in senso fisiologico; non si potrebbe nemmeno affermare che qui l'istinto della vita abbia mirato intenzionalmente alla guarigione. Da una parte, una specie di concentrazione e di organizzazione dei malati (il termine più popolare per definirla è «Chiesa»), dall'altra, una specie di momentanea messa in salvo di chi è più sano, di chi è più compiutamente strutturato, il conseguente aprirsi di un abisso tra sano e malato ‑ questo per lungo tempo, fu tutto. E fu molto! Moltissimo!...

[In questa trattazione, come si vede, parto da un presupposto che, in considerazione dei lettori di cui ho bisogno, non sono tenuto a provare preventivamente ‑ e cioè che la «peccaminosità» dell'uomo non sia un dato di fatto, ma piuttosto solo l'interpretazione di un dato di fatto, cioè di un malumore fisiologico ‑ visto quest'ultimo in una prospettiva morale‑religiosa che non ha più niente di vincolante per noi.

‑ Col fatto che qualcuno si sente «colpevole», «peccaminoso», non viene ancora dimostrato che egli abbia ragione di sentirsi tale; allo stesso modo con cui qualcuno non è sano semplicemente perché tale si sente. Si ricordino i famosi processi delle streghe: allora i giudici più oculati e clementi non nutrivano alcun dubbio di trovarsi in presenza di una colpa; le «streghe» stesse non ne dubitavano ‑ eppure la colpa non esisteva! ‑ Per esprimere in forma più ampia questo presupposto: lo stesso «dolore dell'anima» non ha per me alcun valore come dato di fatto, ma solo come un'interpretazione (interpretazione causale) di dati di fatto sino ad oggi non esattamente formulabili; come qualcosa, quindi, che è ancora tutto campato in aria e scientificamente non vincolante ‑ in verità una sola parola grassa al posto di un punto interrogativo secco secco come un chiodo. Se uno non riesce a venire a capo di un «dolore dell'anima», questo non dipende, per dirla in maniera brutale, dalla sua «anima»; molto più probabilmente invece dalla sua pancia (parlando brutalmente come ho detto: con la qual cosa non si esprime certo il desiderio di essere anche ascoltati brutalmente e brutalmente capiti...). Un uomo forte e armonico digerisce le sue esperienze (incluse azioni e malefatte), come digerisce i suoi pasti, anche se è costretto a inghiottire bocconi amari. Se non riesce «a venire a capo» di un'esperienza, questo tipo di indigestione è tanto fisiologica quanto ogni altra ‑ e in realtà spesso unicamente una conseguenza di quelle altre. Con simili idee, detto tra noi, si può essere ancora e sempre i più rigidi oppositori di ogni materialismo...]

17.

Ma questo sacerdote asceta è poi veramente un medico? ‑ Abbiamo già capito in che misura sia appena concesso chiamarlo medico, per quanto egli stesso ami sentirsi un «salvatore», e ami farsi venerare come «salvatore». Egli combatte solo il dolore in se stesso, il malessere di chi soffre e non la loro causa, non il vero e proprio essere malato ‑ questo deve costituire la nostra obiezione di fondo contro la terapia sacerdotale. Se invece ci poniamo in quella prospettiva che il sacerdote solo possiede e conosce, sarà difficile porre dei limiti all'ammirazione per tutto quanto in essa egli ha visto, cercato e trovato. Il lenimento del dolore, il «conforto» d'ogni tipo ciò appare come il suo stesso genio; con quanta inventiva ha interpretato il suo compito consolatorio, con quanta mancanza di scrupoli e con quanta audacia ha scelto i mezzi adatti! Si potrebbe definire il cristianesimo, in modo particolare, come la grande tesoreria dei più spirituali mezzi di conforto, tanta consolazione, pietà, narcotizzazione si accumulano in esso, tanti sono i grandi pericoli e le audacie immense osate per questo scopo, tanta è la sottile raffinatezza, raffinatezza meridionale con cui esso, in particolar modo, ha intuito con che tipo di stimoli passionali può essere sconfitta, sia pure solo temporaneamente, la profonda depressione, la pesante stanchezza, la nera tristezza di chi è psicologicamente minorato.

Poiché, parlando in generale: in tutte le religioni si è trattato soprattutto di combattere una certa stanchezza e pesantezza fattasi epidemica. Preliminarmente si può supporre come probabile che in determinate regioni della terra, di tempo in tempo, un senso di inibizione fisiologico deve necessariamente impadronirsi di grandi masse, che però, per mancanza di conoscenze fisiologiche, non entra in quanto tale nella coscienza, così che la sua «causa», il suo rimedio, può essere solo cercato e tentato per vie psicologico‑morali (infatti questa è la mia formula più generale per ciò che, generalmente, viene definito «religione»). Un siffatto senso di inibizione può avere la più diversa origine: come conseguenza dell'incrocio di razze troppo dissimili (o di ceti ‑ i ceti sociali esprimono sempre anche differenze di origine e di razza: il «dolore cosmico» europeo, il «pessimismo» del XIX secolo è essenzialmente il risultato di una improvvisa e insensata mescolanza di ceti); come risultato di un'emigrazione sbagliata ‑ una razza capitata in un clima cui non ha forza sufficiente per adattarsi (è il caso, questo, degli Indiani in India); oppure come postumo di un invecchiamento e di un indebolimento della razza (il pessimismo parigino a partire dal 1850); o come una dieta scorretta (l'alcolismo del Medioevo; la follia dei vegetarians che in ogni modo hanno dalla loro l'autorità di Cristoforo gentiluomo shakespeariano); o come una corruzione del sangue, la malaria, la sifilide, e simili (la depressione tedesca dopo la guerra dei trent'anni, che infestò mezza Germania di malattie orrende e che così preparò il terreno al servilismo tedesco e alla pusillanimità tedesca). In un caso simile si tenta sempre, in grandissimo stile, una lotta contro il senso di insoddisfazione; informiamoci quindi brevemente sulle sue pratiche e forme più importanti.

(Tralascerò qui completamente, come è ovvio, di parlare della tipica lotta dei filosofi, di solito, sempre simultanea, contro il senso d'insoddisfazione, ‑ è una lotta sufficientemente interessante, ma troppo assurda, troppo praticamente indifferente, troppo simile a una tela di ragno, troppo da scansafatiche: per esempio, quando si vuole dimostrare che la sofferenza è un errore, con l'ingenuo presupposto che la sofferenza debba scomparire nel momento stesso in cui si scopre l'errore che vi si cela ma, guarda un po’! essa si guarda bene dallo scomparire...)

Quella insoddisfazione dominante si combatte in primo luogo con mezzi che riducono il senso della vita in generale a un livello infimo. Possibilmente, più nessuna volontà, più nessun desiderio; evitare tutto ciò che provoca passione, che fa «sangue» (non mangiare sale: igiene del fachiro); non amare; non odiare, imperturbabilità, non vendicarsi; non arricchirsi; non lavorare; chiedere l'elemosina; possibilmente nessuna donna, o meno donne possibile; il principio di Pascal «il faut s'abêtir», visto in una prospettiva spirituale. Risultato, detto in termini psicologico‑morali, «distacco da sé», «santificazione», detto in termini fisiologici: ipnotizzazione ‑ il tentativo di far arrivare l'uomo all'incirca a quello che per qualche specie animale è il letargo invernale, per molte piante dei climi torridi il letargo estivo, un minimum di dispendio energetico e di metabolismo, in cui la vita continua a mala pena a sussistere, senza raggiungere ancora la soglia della coscienza. Per questo scopo è stata spesa un'incredibile quantità di energia umana ‑ forse invano?...

E’ assolutamente fuor di dubbio che questi sportsmen della «sanità», che abbondano in quasi tutte le epoche e in quasi tutti i popoli, abbiano in realtà trovato una redenzione reale da ciò che combattevano con un training tanto rigoroso ‑ in innumerevoli casi essi si sono realmente redenti di quella profonda depressione fisiologica, grazie all'ausilio del loro sistema di mezzi ipnotici: ragion per la quale il loro metodo si colloca tra i più generali dati di fatto etnologici. E poi niente autorizza a includere, già di per se stesso, tra i sintomi della follia questo proposito di condurre alla fame la corporeità e i desideri (come ama fare una goffa genia di «liberi pensatori» e di nobili Cristofori mangiatori di roast‑beef). Tanto più certo è invece il fatto che esso apre e può aprire la via a ogni specie di disturbi mentali, a illuminazioni interiori, per esempio come nel caso degli «esicasti» del Monte Athos, ad allucinazioni otticoacustiche, a esplosioni e a estasi voluttuose di sensualità (Storia di Santa Teresa).

L'interpretazione che di questi stati viene data da coloro che ne soffrono è stata sempre il più possibile fanaticamente falsa, cosa che si spiega benissimo: ma l'accento di convintissima gratitudine, che traspare già nella volontà di un'interpretazione di queste specie non deve affatto essere trascurato. Lo stato supremo, la redenzione stessa, quella quiete e quella ipnosi totale finalmente raggiunta, è per loro sempre un mistero in sé, che non può essere espresso nemmeno con i massimi simboli, come un sostare e ritornare al fondo delle cose, un deporre ogni illusione, come il «sapere», la «verità», l'«essere», come uno sganciarsi da ogni meta, da ogni desiderio, da ogni fare, un al di là anche del bene e del male. «Bene e male» dice il buddhista ‑ «sono entrambi catene: entrambi furono dominati dal Perfetto»; «Fatto e non fatto» ‑ dice il fedele del Vedànta, «non gli procurano alcun dolore; al pari del saggio scuote da sé il bene e il male; nessuna azione affligge più il suo regno; oltre il bene e il male, oltre queste due cose egli è andato»: ‑ una concezione, questa, propria a tutto il mondo indiano, tanto brahmanica quanto buddhista. ‑

(Né nel modo di pensare indiano, né in quello cristiano quella «liberazione» sembra essere raggiungibile con la virtù, con un miglioramento morale, per quanto in alto essi pongano il valore ipnotico della virtù: e ciò sia dato per certo d'altra parte corrisponde semplicemente alla realtà delle cose. Essere rimasti veritieri su questo punto, può forse essere considerato come il miglior frammento di realismo nelle tre religioni più grandi, del resto tanto profondamente moralizzate. «Per colui che sa non esiste dovere...» «L'aggiunta di virtù non produce redenzione: poiché questa consiste nell'essere uno con il Brahman, incapace di alcun aumento di perfezione; né tanto meno lo spogliarsi dei peccati, poiché il Brahman, essere uno col quale è ciò che costituisce la redenzione, è eternamente puro» questi passi dal commento di Çankara, sono citati dal primo vero conoscitore della filosofia indiana in Europa, il mio amico Paul Deussen.)

Rendiamo quindi onore alla «redenzione» nelle grandi religioni; ci riesce invece un po' difficile mantenerci seri di fronte alla valutazione del profondo sonno compiuta da questi stanchi della vita, troppo stanchi ormai anche per sognare ‑ quel sonno profondo visto come dissoluzione nel Brahman, come raggiunta unio mystica con Dio. «Quando si sia addormentato del tutto» ‑ afferma in proposito la più antica e venerabile «scrittura» ‑ «e abbia raggiunto la quiete assoluta, così da non vedere più alcuna immagine di sogno, allora, o caro, egli è unito con l'ente, fatto interno a se stesso ‑ avviluppato dal conoscitivo, non ha più coscienza alcuna di ciò che è interno o esterno. Questo ponte non lo superano né giorno, né notte, né vecchiaia, né dolore, né opera buona né opera cattiva.» «Nel sonno profondo»‑ dicono poi i fedeli di questa religione, la più profonda delle tre grandi religioni - «l'anima S solleva e esce da questo corpo, penetra nella luce suprema e ciò facendo appare nella sua propria figura: essa è così lo stesso spirito supremo, che si aggira scherzando, giocando e dilettandosi, con donne, con carrozze o con amici e non torna più indietro il suo pensiero a questa appendice corporea cui è attaccato il prâna (soffio vitale) come l'animale da tiro al carro.»

Ciononostante anche qui, come nel caso della «redenzione», terremo presente il fatto che in fondo, sia pur sempre con lo splendore della esagerazione orientale, anche qui viene espressa solo una valutazione simile a quella del chiaro, freddo, freddamente greco, ma sofferente Epicuro: l'ipnotico senso del nulla, la quiete del più profondo dei sonni, in breve l'assenza del dolore ‑ questo può rappresentare per chi soffre e per chi è radicalmente insoddisfatto già il bene supremo, il valore dei valori, questo deve essere valutato da costoro positivamente, deve essere sentito come il positivo in sé. (Secondo la stessa logica del sentimento, il nulla, in tutte le religioni pessimistiche, è chiamato Dio.)

18.

Molto più frequentemente di un tale, totale ottundimento ipnotico della sensibilità, della capacità di soffrire, che già presuppone forze più rare, prima di tutto coraggio, disprezzo dell'opinione, «stoicismo intellettuale», si tenta un altro training contro gli stati depressivi che, in ogni modo, è più leggero: l'attività macchinale. E’ indubbio che, grazie a questa, un'esistenza sofferente si senta sollevata in modo considerevole; questo dato di fatto viene designato oggi, con una certa disonestà, «la benedizione del lavoro». Il sollievo consiste in ciò: che l'interesse di chi soffre viene radicalmente distolto dalla sofferenza ‑' che un fare e sempre ancora solo un fare penetra ininterrottamente nella coscienza, ragion per cui in essa resta poco spazio per il dolore: poiché è stretta, questa camera della coscienza umana!

L'attività macchinale con i suoi annessi e connessi ‑ come la regolarità assoluta, l'obbedienza puntuale e irriflessa, l'una volta per tutte del modo di vita, il riempimento del tempo, una certa permissione, anzi un certo obbligo all'«impersonalità», all'oblio di sé, alla «incuria sui» ‑: con che radicalismo e con quanta raffinatezza il sacerdote, asceta ha saputo utilizzare tutto ciò nella lotta contro il dolore! Proprio nei casi in cui aveva a che fare con sofferenti dei ceti inferiori, con schiavi del lavoro o prigionieri (o con le donne, che infatti, per lo più, sono tutte e due le cose insieme, schiave del lavoro e prigioniere), gli era sufficiente poco più che un po' di abilità nel mutare i nomi e nel ribattezzare per far vedere loro, nelle cose odiate, un beneficio, una relativa felicità ‑ l'insoddisfazione dello schiavo per il suo destino non è stata, comunque, inventata dai preti.

‑ Un mezzo ancora più apprezzato nella lotta contro la depressione è la prescrizione di una piccola gioia, che è facile da raggiungere e può essere trasformata in regola; ci si serve di questa terapia spesso insieme a quella di cui si è appena parlato. La forma più frequente, sotto cui la gioia viene prescritta come medicinale è la gioia del procurare gioia (come fare del bene, donare, alleviare, aiutare, persuadere, consolare, lodare, elogiare); prescrivendo «amore per il prossimo», il sacerdote ascetico prescrive in fondo un'eccitazione dell'istinto più forte e più vitalistico, anche se attentissimamente dosato ‑ la volontà di potenza. La felicità della «superiorità minima», che discende dal fare del bene, dall'essere utili, dall'aiutare, dall'elogiare, è la più ricca terapia di conforto di cui si servono di solito coloro che sono fisiologicamente inibiti, ammesso che siano ben consigliati: nel caso contrario, obbedendo naturalmente allo stesso istinto di base, si fanno reciprocamente del male.

Se si indaga sulle origini del cristianesimo nel mondo romano, si trovano associazioni di mutuo soccorso, associazioni per la cura dei poveri e malati, consorterie funerarie, cresciute negli strati più bassi della società del tempo, in cui si applicava con coscienza questa terapia principe contro la depressione, e cioè la piccola gioia, quella del reciproco beneficarsi forse allora ciò era qualcosa di nuovo, una vera e propria scoperta? Con una tale evocazione di «volontà di reciprocità», di educazione gregaria, di «comunità», di «cenacolo», questa volontà di potenza, così stimolata, sia pur minimamente, deve arrivare a modi di espressione nuovi e più completi: l'educazione gregaria, nella lotta contro la depressione, costituisce un passo e una vittoria sostanziali.

Nel crescere della comunità si rafforza, anche per il singolo, un interesse nuovo, che abbastanza spesso lo solleva al di là del momento personalissimo del proprio malumore, della propria ripugnanza di sé (la «despectio sui» di Geulinx). Nel desiderio di liberarsi dalla confusa insoddisfazione e dal senso di debolezza, tutti coloro che sono malati o inclini alla malattia tendono istintivamente a una organizzazione gregaria; il sacerdote asceta afferra questo istinto e lo stimola; dove esistono greggi, è stato l'istinto di debolezza a volere il gregge, e l'astuzia pretesca ad organizzarlo.

Non si ignori, infatti, che i forti tendono a disgregarsi con la stessa naturale necessità con la quale i deboli tendono ad aggregarsi; se i primi si uniscono, questo accade solo in vista di una comune azione offensiva e di un soddisfacimento comune della loro volontà di potenza, non senza grandi resistenze da parte della coscienza singola; gli altri, invece, si aggregano, godendo proprio di questa aggregazione ‑ poiché così facendo il loro istinto è tanto soddisfatto, quanto l'istinto di chi è nato «signore» (Cioè della specie solitaria di uomini predatori) è irritato e preoccupato, in fondo, dalla organizzazione. Nel fondo di ogni oligarchia tutta la storia lo insegna ‑ si nasconde sempre la voluttà di tirannide; ogni oligarchia trema continuamente a causa della tensione di cui ogni suo singolo membro ha bisogno per dominare questa voluttà. (Questo tipo di comportamento, per esempio, è greco: cento passi di Platone lo testimoniano, Platone che conosceva i suoi simili ‑ e anche se stesso...)

19.

I mezzi del sacerdote asceta, che abbiamo incontrato sino a questo punto ‑ l'ottundimento totale del senso vitale, l'attività macchinale, la piccola gioia, soprattutto quella delI'«amore del prossimo», l'organizzazione gregaria, il risveglio del senso di potenza della comunità e, di conseguenza, il fastidio di sé del singolo soverchiato dal suo piacere per la prosperità del gruppo sono, visti in un'ottica moderna, i suoi strumenti innocenti nella lotta contro l'insoddisfazione: consideriamo ora quelli più interessanti, quelli «colpevoli». In tutti è in gioco una cosa sola: una certa perversione del sentimento ‑ utilizzata come il mezzo più efficace contro la sorda, lunga, paralizzante condizione di sofferenza; cosa per cui la fantasia sacerdotale è stata addirittura inesauribile nello sviscerare questo solo problema: «Con quale mezzo si provoca una perversione del sentimento?»...

Quello che dico sembra duro: è chiaro che sarebbe molto più piacevole e forse più gradevole all'udito se dicessi invece: «Il sacerdote asceta ha sempre utilizzato a proprio vantaggio l'entusiasmo, che è insito in ogni forte passione». Ma a quale scopo molcere ancora le orecchie infrollite dei nostri moderni effeminati? A che scopo, da parte nostra, cedere anche solo di un passo alla tartuferia delle loro parole? Per noi psicologi, questa sarebbe già una tartuferia dell'azione, a prescindere dal fatto che ne saremmo nauseati.

Infatti oggi uno psicologo fonda il suo buon gusto ‑ (altri direbbero: la sua onestà), se mai lo fondi su qualcosa, sull'opposizione a quella maniera scandalosamente moralizzata di parlare che con il suo umore attaccaticcio s'infiltra in ogni moderno giudizio sugli uomini e sulle cose. Poiché non dobbiamo ingannarci a questo proposito: ciò che costituisce il segno distintivo più tipico delle anime moderne, dei libri moderni, non è la menzogna, ma l'innocenza incorporata nella mendacia moralistica. Dover mettere ovunque allo scoperto questa «innocenza» ‑ ciò costituisce forse la parte più disgustosa del nostro lavoro, di tutto quel lavoro in sé non trascurabile, cui oggi deve sobbarcarsi uno psicologo; è una parte del nostro grande pericolo, è una via, che forse conduce proprio noi alla grande nausea...

Non ho alcun dubbio su ciò a cui solo potrebbero servire i libri moderni (posto che essi durino, cosa che certo non è da temere, e posto anche che esista un giorno una posterità dotata di un gusto più severo, più duro, più sano) ‑ su ciò a cui servirebbe o potrebbe servire tutto quanto è moderno: potrebbe servire da emetico ‑ e questo grazie al suo raddolcimento e alla sua falsità morale, al suo profondamente intimo femminismo, che si definisce volentieri «idealismo», e che crede anche di esserlo. I nostri dotti di oggi, i nostri «buoni» non mentono ‑ è vero; ma ciò non fa loro onore! La vera bugia, la bugia autentica, risoluta, «onesta» (sul cui valore si ascolti Platone) sarebbe per loro qualcosa di gran lunga troppo severo, qualcosa di troppo forte; essa richiederebbe ciò che non è lecito pretendere da costoro, e cioè che aprissero gli occhi su se stessi, che sapessero distinguere, in se stessi, tra «vero» e «falso». A loro si addice solo la bugia disonesta; tutti coloro che oggi si sentono «uomini buoni» non sono assolutamente in grado di porsi di fronte a qualsivoglia cosa altrimenti che in una posizione di disonesta‑mendacia, di abissale‑mendacia, e tuttavia innocentemente‑mendace, schiettamente‑mendace, cristallinamente‑mendace, virtuosamente‑mendace.

Questi «uomini buoni» ‑ sono tutti oggi profondamente moralizzati e distorti e storpiati in eterno per quel che concerne l'onestà: chi di essi sopporterebbe ancora una verità a proposito dell'uomo!... Oppure, per rendere più concreta la domanda: chi di essi sopporterebbe una vera biografia!... Un paio di testimonianze: Lord Byron aveva preso nota di alcuni fatti personalissimi sul proprio conto, ma Thomas Moore era «troppo buono» per una cosa simile: bruciò quindi le carte del suo amico. Lo stesso si dice che abbia fatto il dr. Gwinner, esecutore testamentario di Schopenhauer: poiché anche Schopenhauer aveva scritto qualcosa su se stesso e forse anche contro se stesso («eìs èautòn») L'energico americano Thayer, biografo di Beethoven, interruppe improvvisamente il suo lavoro: arrivato a un certo punto di questa vita semplice e onorevole, non riuscì più a sopportarla... Morale: quale uomo accorto scriverebbe ancora una parola onesta su se stesso? ‑ dovrebbe in questo caso appartenere all'ordine della santa temerarietà. Ci viene promessa un'autobiografia di Richard Wagner: chi dubita del fatto che sarà una biografia accorta?... Ricordiamo ancora l'orrore cosmico che suscitò in Germania il prete cattolico Janssen con la sua rappresentazione, grossolana e ingenua oltre ogni immaginazione, del movimento tedesco della Riforma; che cosa mai accadrebbe, se qualcuno ci raccontasse in modo diverso questo movimento, se mai un autentico psicologo ci raccontasse un Lutero autentico, senza il candore morale di un prete di campagna, senza la zuccherosa e riguardosa pudicizia degli storici protestanti, ma invece col coraggio intrepido di un Tame, attingendo a una forza dell'anima e non a una accorta indulgenza verso la forza?...

(Detto per inciso, i Tedeschi ultimamente hanno prodotto con buon successo il tipo classico di questa indulgenza ‑ se lo possono già attribuire, se ne possono attribuire il vanto: nella persona del loro Leopold Ranke, questo classico advocatus, per nascita, di ogni causa fortior, questo accortissimo tra tutti gli accorti «uomini positivi».)

20.

Ma già sono stato capito ‑ e non è poi, questa, dopotutto, una ragione bastante perché noi psicologi oggi non ci si sbarazzi da una certa diffidenza verso noi stessi?... Probabilmente anche noi siamo ancora «troppo buoni» per il nostro mestiere, probabilmente siamo anche noi le vittime, la preda, i malati di questo moralizzato gusto del tempo, per quanto ci si possa sentire suoi spregiatori ‑ probabilmente esso ancora infetta anche noi. Da che cosa metteva in guardia quel diplomatico, parlando ai suoi simili? «Diffidiamo soprattutto, signori, dalle nostre prime reazioni! ‑ diceva ‑ Sono quasi sempre buone...» Allo stesso modo oggi ogni psicologo deve parlare ai suoi simili... E così ritorniamo al nostro problema, che in realtà esige da noi una certa severità, una certa diffidenza, specie verso le «prime reazioni».

L'ideale ascetico al servizio di un'intenzionale perversione del sentimento ‑ chi ricorda quanto trattato precedentemente, già anticiperà, nella sostanza, il contenuto, concentrato in queste poche parole, di quanto è ancora da esporre. Scardinare l'anima umana da tutte le sue commessure, immergerla in terrori, gelo, fiamme e delizie, tanto da farla staccare, come per un colpo di fulmine, da tutte le piccinerie e le meschinità della insoddisfazione, del torpore, del malumore: quali vie conducono a questa meta? E quali di esse sono le più sicure?...

Tutte le grandi passioni, in fondo, ne hanno la capacità, posto che esplodano all'improvviso, ira, terrore, piacere, vendetta, speranza, trionfo, disperazione, crudeltà; e in realtà il sacerdote asceta ha assunto senz'altro ai suoi servizi tutta la muta di cani selvaggi che sono nell'uomo lasciando libero ora questo, ora quello, sempre allo stesso fine di riscuotere l'uomo dalla lenta tristezza, di mettere in fuga, per lo meno per qualche tempo, il suo sordo dolore, la sua esitante miseria, e sempre, comunque, anche con un'interpretazione e una «giustificazione» religiosa. E poi ogni perversione del sentimento, di questo tipo, si fa pagare, è ovvio ‑ rende il malato più malato ‑: e perciò questa specie di rimedi del dolore, misurata con un criterio moderno, è una specie «colpevole».

Tuttavia, poiché così vuole l'equità, si deve tanto più insistere sul fatto che essa è stata applicata con coscienza tranquilla, che il sacerdote ascetico l'ha prescritta con una fede profondissima nella sua utilità, anzi indispensabilità ‑ e abbastanza spesso si è trovato quasi a pezzi di fronte al dolore da lui creato; e anche che le veementi rivincite fisiologiche ditali eccessi, forse addirittura gli squilibri dello spirito, in fondo non contraddicano tutto il senso di questa specie di terapia: poiché questa, come già sopra abbiamo mostrato, non si prefiggeva di curare malattie, ma di combattere il dispiacere della depressione, d'alleviarlo, d'ottunderlo. Anche così lo scopo è stato raggiunto. Il colpo maestro che il sacerdote ascetico si è concesso, per far sì che dall'anima umana si sprigionasse ogni tipo di musica straziante e estatica, si è compiuto ‑ tutti lo sanno con l'utilizzazione del senso di colpa. All'origine di questo la trattazione precedente ha brevemente accennato ‑ come parte della psicologia animale e niente più: il senso di colpa ci si era fatto incontro, li, per così dire, allo stato grezzo.

Soltanto nelle mani del sacerdote, vero e proprio artista dei sensi di colpa, esso ha preso forma ‑ e che forma! Il «peccato» ‑ perché così suona la reinterpretazione sacerdotale della «cattiva coscienza» animale (della crudeltà retroflessa) ‑ è stato l'avvenimento più grande, sino ad oggi, nella storia dell'anima malata: in esso abbiamo l'artificio più pericoloso e fatale dell'interpretazione religiosa. L'uomo, in qualche modo, sofferente di sé, comunque in guisa fisiologica, quasi come un animale chiuso in gabbia, senza sapere perché, a che scopo, desideroso di ragioni ‑ le ragioni sono un sollievo ‑, desideroso anche di medicamenti e di narcotici, alla fine si consiglia con chi conosce anche ciò che è nascosto ‑ ed ecco! ottiene un cenno, ottiene dal suo mago, il sacerdote asceta, il primo cenno sulla «causa» del suo soffrire: deve cercarla in sé, in una colpa, in un pezzo di passato, deve capire il suo stesso soffrire come uno stato di punizione... L'infelice ha ascoltato, ha compreso: adesso è come la gallina, intorno alla quale sia stata segnata una linea. Da questo cerchio di linee non riesce più a uscire: il malato è diventato il «peccatore»...

E ora, per un paio di secoli, non ci libereremo dall'effigie di questo nuovo malato, del «peccatore» ‑ ma ce ne libereremo mai? ‑, dovunque si volga lo sguardo, ci sarà sempre lo sguardo ipnotico del peccatore, che va sempre in una sola direzione (nella direzione della «colpa», come unica causalità del soffrire): sempre la cattiva coscienza, questa «orrenda bestia», per dirla con Lutero; sempre il passato rimasticato, l'azione distorta, l'«occhio di fiele» per ogni agire; sempre la volontà, resa contenuto di vita, di equivocare sulla sofferenza, reinterpretata come sentimento di colpa, di terrore e di punizione; sempre la frusta, il cilicio, il corpo consunto dal digiuno, la contrizione; sempre il peccatore che mette se stesso alla ruota, meccanismo crudele di una coscienza inquieta, morbosamente lasciva; sempre la tortura muta, l'estremo terrore, l'agonia del cuore martirizzato, i fremiti di una felicità ignota, l'appello alla «redenzione».

In realtà, con questo modo di procedere, l'antica depressione, la pesantezza e stanchezza sono state radicalmente superate, la vita è diventata di nuovo molto interessante: vigile, eternamente vigile, insonne, ardente, carbonizzato, disfatto, eppure non stanco ‑ così appariva l'uomo, «il peccatore», che era stato iniziato a questi misteri. Questo vecchio e gran mago della lotta contro lo scontento, il sacerdote ascetico ‑ aveva chiaramente vinto, il suo regno era arrivato: già non ci si lamentava più contro il dolore, si spasimava per sete di dolore; «più dolore, più dolore!» questo fu il grido, per secoli e secoli, del desiderio dei suoi discepoli e iniziati.

Ogni perversione del sentimento che fosse dolorosa, tutto quanto faceva a pezzi, abbatteva, sgretolava, mandava in rapimento e in estasi, il segreto dei luoghi di tortura, l'ingegnosità dello stesso inferno ‑ tutto era stato ormai scoperto, indovinato, sfruttato, tutto era al servizio del mago, tutto, da quel momento, serviva alla vittoria del suo ideale, dell'ideale ascetico... «Il regno non è di questo mondo» ‑ continuava a dire come per l'innanzi: ma aveva ancora realmente il diritto di parlare così?... Goethe ha detto che esistono solo trentasei situazioni tragiche: dal che si indovina, se non lo si sapesse già, che Goethe non fu un sacerdote asceta. Costui ‑ ne conosce di più...

21.

Riguardo a tutta questa specie di terapia sacerdotale, la specie «colpevole», ogni critica è superflua. Che una tale perversione del sentimento, come in questo caso, è solito prescriverla il sacerdote asceta ai suoi malati (con i nomi più sacri, è chiaro, e al tempo stesso pervaso dalla sacralità del suo fine), abbia mai giovato realmente a un qualche malato, chi mai avrebbe voglia di sostenere una simile affermazione? Ci si dovrebbe per lo meno intendere sulla parola «giovare». Se con essa si vuole affermare che un sistema simile di trattamento ha migliorato l'uomo, non ho niente in contrario; solo aggiungo che per me «migliorato» ha lo stesso senso che «addomesticato», «indebolito», «scoraggiato», «raffinato», «rammollito», «castrato» (cioè quasi lo stesso che «danneggiato»...). Ma quando si tratti principalmente di malati, di scontenti, di depressi, un sistema siffatto rende, in ogni caso, il malato più malato, anche ammesso che lo renda «migliore»; basta chiedere agli psichiatri quali sono le conseguenze di una applicazione metodica di torture espiatorie, di contrizioni e di convulsioni salvifiche.

Basta interrogare anche la storia: ogni volta che il sacerdote ascetico ha applicato questo trattamento ai malati, la condizione morbosa ha sempre guadagnato, con incredibile velocità, in ampiezza e profondità. E il «risultato» quale è stato? Un sistema nervoso sgretolato, in aggiunta a quello che era già malato; e questo nel più grande come nel più piccolo, nei singoli come nelle masse. Al seguito del training di penitenza e di salvazione ecco enormi epidemie epilettiche, le più grandi che la storia conosca, come quelle dei ballerini di san Vito e di san Giovanni nel Medioevo; come forma diversa dei suoi postumi troviamo le terribili paralisi e le depressioni croniche, con le quali, in certi casi, il temperamento di un popolo o di una città (Ginevra, Basilea) si rovescia, una volta per tutte, nel suo contrario; ‑ e qui è da considerare anche l'isterismo delle streghe, qualcosa di simile al sonnambulismo (Otto grandi esplosioni epidemiche solo tra il 1564 e il 1605) ‑; troviamo tra le sue conseguenze quei collettivi deliri suicidi, il cui grido terribile «evviva la morte!» fu udito in tutta l'Europa, interrotto da idiosincrasie ora lussuriose ora furiosamente distruttive: del resto la stessa alternanza di affetti, con le stesse intermittenze e gli stessi sbalzi, si nota anche oggi dovunque, in ogni caso là dove l'ascetica dottrina dei peccati arriva ancora una volta a un grande successo. (La nevrosi religiosa appare come forma del «mal caduco»: non c'è alcun dubbio. Che cosa è? Quaeritur.)

Di massima, l'ideale ascetico e il suo culto sublime‑morale, questa genialissima, spregiudicatissima e pericolosissima sistematizzazione di ogni mezzo di perversione del sentimento, sotto la protezione di propositi santi, si è iscritta in modo terribile e indimenticabile in tutta la storia dell'uomo, e purtroppo non solo nella sua storia... Non saprei cosa altro indicare che abbia aggredito la salute e la robustezza di razza in particolare degli Europei, con tanta distruttività come ha fatto questo ideale; senza la minima esagerazione esso può essere la vera fatalità nella storia sanitaria dell'uomo europeo. Al suo influsso, potrebbe, al massimo, essere rapportato ancora quello specificamente germanico: penso all'avvelenamento da alcool dell'Europa, che sino ad oggi si è mantenuto rigorosamente al passo con la preponderanza politica e razziale dei Germani (‑ dove essi inocularono il loro sangue, inocularono anche il loro vizio).

‑ Come terza, in ordine di precedenza, sarebbe da indicare la sifilide ‑ magno sed proxima intervallo.

22.

Il sacerdote ascetico ha corrotto la salute dell'anima, dovunque sia arrivato al potere, ha, di conseguenza, corrotto anche il gusto in artibus et letteris ‑ e ancora lo corrompe ‑ «Di conseguenza?» ‑ Spero che non ci siano difficoltà a consentirmi questo «di conseguenza»; per lo meno non lo dimostrerò qui. Un unico accenno: si riferisce al libro fondamentale della letteratura cristiana, al suo vero modello, al suo «libro in sé». Ancora nel pieno della magnificenza greco‑romana, che fu anche una magnificenza di libri, in presenza di un antico mondo di scrittori non ancora mortificato e sgretolato, in un tempo in cui si potevano ancora leggere alcuni libri per il cui possesso oggi si darebbero in cambio mezze letterature, la scempiaggine e la vanità di agitatori cristiani ‑ li chiamano Padri della Chiesa ‑ osava già decretare: «Anche noi abbiamo la nostra letteratura classica, non abbiamo bisogno di quella dei Greci» ‑ rimandando orgogliosamente a libri di leggende, lettere di Apostoli, e trattatelli apologetici, pressappoco allo stesso modo con cui oggi l'«esercito della salvezza» inglese si batte, con una letteratura simile, contro Shakespeare e altri «pagani».

Io non amo il Nuovo Testamento, com'è facile capire; quasi mi turba il fatto di essere così solo col mio gusto di fronte a questa opera letteraria apprezzatissima e sopravvalutatissima (il gusto di due millenni è contro di me): ma che importa! «Eccomi, non posso fare altrimenti», ‑ ho il coraggio del mio cattivo giusto. Il Vecchio Testamento ‑ sì, è tutta un'altra cosa: al Vecchio Testamento va tutto il mio rispetto! In esso trovo grandi uomini, un paesaggio eroico e, cosa rarissima sulla terra, l'impareggiabile ingenuità di un cuore forte; e ancora di più, trovo un popolo. Nel Nuovo, invece, nient'altro che piccole manovre di sette, nient'altro che rococò dell'anima, nient'altro che svolazzi, tortuosità, stranezze, atmosfera di conventicola, senza dimenticare un palpito ‑ talora ‑ di dolcezza bucolica, tipica dell'epoca (e anche della provincia romana) e che non è tanto ebraica quanto ellenistica.

Umiltà e prosopopea congiunte; una logorrea del sentimento che quasi stordisce; passionalità senza passione; gestire sgradevole; è chiaro che qui manca ogni buona educazione. Com'è possibile fare tanto chiasso sui propri piccoli vizi, come fanno questi ometti pii! Nessuno se ne preoccupa; nemmeno Dio. Tutta questa gentucola di provincia, alla fine, vuole addirittura «la corona della vita eterna»: ma a che scopo? per che cosa? non si potrebbe essere meno modesti di così. Un Pietro «immortale»: chi lo sopporterebbe? Hanno un'ambizione che fa ridere; ruminano, costoro, i loro fatti più intimi, le loro sciocchezze, tristezze e preoccupazioni oziose, come se l'in‑sé delle cose avesse il dovere di preoccuparsene; non si stancano di coinvolgere Dio stesso nelle più piccole sciagure che li colpiscono. E questo sempiterno tu per tu con Dio, così privo di gusto! Questa invadenza fisicamente sfacciata nei confronti di Dio, giudaica e non solo giudaica!...

In Asia Orientale esistono piccole disprezzate «popolazioni pagane», dalle quali questi primi cristiani avrebbero potuto imparare qualcosa di sostanziale, un p0' di tatto nella venerazione; essi non si permettono, come testimoniano i missionari cristiani, nemmeno di pronunciare il nome del loro dio. Questo mi sembra abbastanza delicato; certo è che è troppo delicato non solo per i «primi» cristiani: per renderci conto del contrasto, possiamo ricordare Lutero, il più «eloquente» e il più immodesto contadino che la Germania abbia avuto, e anche al tono luterano che a questi piaceva tanto nei suoi colloqui con Dio. La resistenza di Lutero contro i santi mediatori della Chiesa (e in modo particolare contro il «papa, puttana del diavolo») in fondo fu, senza ombra di dubbio, la resistenza di un bifolco infastidito dalla buona etichetta della Chiesa, quella etichetta devozionale del gusto ieratico, che ammette al Sancta Sanctorum solo i più consacrati e i più riservati e lascia fuori i bifolchi. Proprio in questo luogo e una volta per tutte, essi non debbono parlare ‑ ma Lutero, il contadino, la pensava diversamente, ciò non gli sembrava abbastanza tedesco; voleva prima di tutto parlare direttamente, parlare in prima persona, «senza cerimonie» con il suo Dio... E così fece.

‑ L'ideale ascetico, lo si intuisce bene, mai e in nessun luogo è stata una scuola di buon gusto, né tanto meno di buone maniere ‑ nel migliore dei casi è stato una scuola di maniere ieratiche ‑; infatti esso ha incorporato in sé qualcosa di mortalmente ostile a tutte le buone maniere ‑ mancanza di misura, disdegno per la miseria, esso stesso è un «non plus ultra».

23.

L'ideale ascetico ha corrotto non solo la salute e il gusto, ha corrotto anche una terza, una quarta, una quinta, una sesta cosa ‑ mi guarderò bene dal dire quante (non arriverei mai a fine!). Qui non metterò in luce quello che questo ideale ha prodotto; ma è molto di più solo quello che esso significa, ciò che lascia indovinare, ciò che è nascosto dietro di lui, sotto di lui, in lui, ciò di cui è l'espressione provvisoria, confusa, stracolma di interrogativi e d'equivoci. E solo in relazione a questo scopo non ho potuto risparmiare ai miei lettori uno sguardo sull'enormità dei suoi effetti, anche dei suoi fatali effetti: per prepararli, cioè, all'ultimo e più terribile aspetto che ha, per me, il problema del significato di quell'ideale. Che cosa significa, infatti, la potenza di quell'ideale, l'enormità della sua potenza? Per quale motivo gli è stato dato tanto spazio? Perché non gli è stata opposta miglior resistenza? L'ideale ascetico esprime una volontà: dove si trova la volontà contraria. in cui si esprimeva un ideale contrario?

L'ideale ascetico ha uno scopo ‑ questo è abbastanza universale da far sembrare tutti gli altri interessi dell'esistenza umana, commisurati a esso, meschini e limitati; finalizzato a questo unico scopo, esso interpreta spietatamente epoche, popoli, uomini, non tollera nessuna altra interpretazione, nessun altro scopo, rigetta, nega, approva, conferma solo nel senso della sua interpretazione (‑ ed è mai esistito un sistema interpretativo più compiutamente pensato?); esso non si sottomette a nessuna potenza, anzi crede alla sua supremazia su ogni potenza, alla propria assoluta distanza di rango rispetto a ogni potenza ‑ crede che sulla terra non esista alcuna potenza che non debba ricevere esclusivamente da parte sua un significato, un diritto all'esistenza, un valore, come strumento della sua opera, come via e mezzo verso il suo scopo, verso un unico fine... Dov'è il contrario di questo sistema chiuso di volontà, fine e interpretazione? Perché manca il contrario?... Dov'è l'altro «unico fine»?...

Mi dicono, però, che esso non manca, che non solo ha sostenuto una lotta lunga e vittoriosa contro quell'ideale, ma che già signoreggia su quell'ideale in tutte le cose più importanti: tutta quanta la nostra scienza moderna ne sarebbe la testimonianza ‑ questa scienza moderna che, come una tipica filosofia della realtà, crede, palesemente, solo a se stessa, possiede, palesemente, il coraggio di sé, la volontà di sé e sino ad oggi è riuscita a cavarsela abbastanza bene senza Dio, trascendenza e virtù negatrici. Intanto un tale fracasso e tante chiacchiere di agitatori mi lasciano del tutto indifferente: questi trombettieri della realtà sono cattivi musicanti, si sente abbastanza chiaramente che le loro voci non provengono abbastanza dal profondo, per bocca loro non parla l'abisso della coscienza scientifica ‑ poiché oggi la coscienza scientifica è un abisso ‑' la parola «scienza» su simili bocche da trombettieri è niente altro che una oscenità, un abuso, una spudoratezza.

Proprio il contrario di quello che si afferma qui, è la verità: la scienza oggi non ha nessuna fede in sé, per non parlare di un ideale sopra di sé ‑ e dove essa riesce ancora a essere passione, amore, ardore, dolore, non è certo l'ideale di quell'ideale ascetico, ma piuttosto la sua forma ultima e più aristocratica. Vi sembra strano?...

Anche tra i dotti di oggi esiste tanta brava gente modesta che lavora, si contenta del suo angoletto e, per il fatto di contentarsene, ogni tanto rivendica con molta poca modestia il dovere di contentarsi, oggi, specialmente nella scienza ‑ proprio in questo campo ci sarebbero tante cose utili da fare. Non ho nulla da obiettare; meno che mai vorrei avvelenare la gioia che questi onesti lavoratori hanno per il loro mestiere. Ma col fatto che ora, nella scienza, si lavora duramente e che esistono lavoratori soddisfatti, non è per nulla dimostrato che la scienza, come globalità, abbia oggi uno scopo, una volontà, un ideale, una grande appassionata fede. Si verifica, come ho detto, il caso contrario: dove non è la più recente forma fenomenica dell'ideale ascetico ‑ si tratta qui di casi rari, esimii, ricercati, perché il giudizio globale possa essere modificato ‑ oggi la scienza è un nascondiglio per ogni tipo di malumore, di mancanza di fede, di rovelli, di despectio sui, di cattiva coscienza ‑ essa è l'inquietudine della mancanza di ideali stessa, il dolore per l'assenza del grande amore, l'insufficienza di una modestia involontaria. Oh, che cosa non nasconde mai oggi la scienza! O almeno quante cose deve nascondere! La bravura dei nostri dotti, la loro spenta diligenza, la loro testa che fuma giorno e notte, anche la loro maestria artigiana quanto spesso tutto ciò ha il suo vero senso solo nel fare in modo che qualsiasi cosa diventi per loro oscura!

La scienza come mezzo di autoipnosi: lo sapete questo?... La si vulnera fino all'osso ‑ chiunque frequenti i dotti lo sa ‑anche solo con una parola innocente, ci inimichiamo i nostri dotti amici nel momento in cui si crede di rendere loro onore, li facciamo uscire dai gangheri solo per essere stati troppo rozzi da indovinare con chi, in realtà, avevamo a che fare, con sofferenti, che non vogliono confessare a se stessi quello che sono, con gente obnubilata e scimunita che ha paura di una cosa sola: acquistare coscienza.

24.

E consideriamo ora, invece, quei casi più rari, di cui parlavo, gli ultimi idealisti che esistono oggi tra i filosofi e i dotti: abbiamo in loro forse i ricercati avversari dell'ideale ascetico, i suoi contro‑idealisti? In realtà essi credono a sé in quanto tali, questi «miscredenti» (poiché così sono tutti); sembra che proprio questo sia il loro ultimo resto di fede, essere avversari di questo ideale, tanto sono seri su questo punto, tanto appassionate si fanno in proposito le loro parole, i loro gesti: ‑ e perciò dovrebbe essere vero, quello che essi credono? Noi «soggetti della conoscenza» siamo a poco a poco diventati diffidenti verso ogni tipo di credenti; la nostra diffidenza ci ha a poco a poco allenati a deduzioni opposte a quelle di una volta: cioè ogni volta che la forza di una fede appare troppo in primo piano, noi ne deduciamo una certa debolezza di dimostrabilità ‑ addirittura l'improbabilità di quello che si crede. Neppure noi neghiamo che la fede «rende beati»: proprio per questa ragione neghiamo che la fede dimostri qualcosa ‑ una fede forte, che rende beati, è un sospetto verso ciò in cui essa crede, non fonda «verità», fonda una certa verosimiglianza ‑ dell'illusione. Cosa succede dunque in questo caso?

‑ Questi negatori e appartati di oggi, questi incondizionati in una sola cosa, nell'esigenza, cioè, di una pulizia intellettuale, questi spiriti duri, severi, morigerati, eroici, che sono l'onore dell'età nostra, tutti questi pallidi atei, anticristi, immoralisti, nichilisti, questi scettici, efectici, tisici dello spirito (cosa questa che è comune, in un certo senso, a tutti, nessuno escluso), questi ultimi idealisti della conoscenza, i soli in cui oggi è viva e incarnata la coscienza intellettuale ‑ e ritengono, in realtà, di essere il più possibile affrancati dall'ideale ascetico, questi «Spiriti liberi, molto liberi»: eppure dovrò rivelare loro, quello che essi stessi non possono vedere ‑ perché sono troppo vicini ‑: questo ideale è invero anche il loro ideale, essi stessi oggi lo rappresentano e forse nessun altro, essi stessi sono la sua creatura più spiritualizzata, la sua schiera più avanzata di guerrieri e dì esploratori, la sua forma di seduzione più insidiosa, più tenera, meno afferrabile ‑ se in qualche modo sono un risolutore di enigmi, voglio esserlo con questa enunciazione!... Essi sono ancora ben lungi dell'essere spiriti liberi: poiché essi credono ancora alla verità...

Quando i Crociati cristiani in Oriente cozzarono contro quell'invincibile ordine di Assassini, quell'ordine di spiriti liberi par excellence, i cui gradi inferiori vivevano in una obbedienza mai raggiunta da nessun ordine monastico, essi ricevettero per una qualche via anche, delle indicazioni su quel simbolo e quel voto sacramentale, riservato solo ai gradi sommi, come loro secretum: «Nulla è vero, tutto è concesso»... Ebbene, questa era libertà dello spirito, con ciò anche la fede nella verità veniva liquidata... Uno spirito libero europeo, cristiano, si è mai smarrito in questa proposizione e nelle sue labirintiche conseguenze? Conosce forse per esperienza il Minotauro di questa caverna?... Ne dubito e, più ancora, so che le cose stanno altrimenti ‑ niente è precisamente più estraneo a questi incondizionati in una cosa sola, a questi cosiddetti «spiriti liberi», che la libertà e la liberazione in quel senso; in niente altro sono pii strettamente legati, proprio nella fede nella verità essi sono legati strettamente e assolutamente come nessun altro. Tutto ciò forse lo conosco troppo da vicino: quella venerabile morigeratezza filosofica, cui una tale fede costringe, quello stoicismo dell'intelletto, che finisce per vietarsi il no altrettanto severamente che il sì, quel voler restare fermi di fronte all'effettuale, al factum brutum, quel fa; talismo dei petits faits (ce petit fatalisme, lo definisco io), in cui la scienza francese cerca oggi una specie di primato morale su quella tedesca, quel voler rinunziare a ogni interpretazione (a violentare, rimettere a posto, abbreviare, tralasciare, riempire, inventare, falsificare e a tutto quello che è proprio dell'essenza di ogni interpretare) ‑ esprime, di massima, tanto ascetismo della virtù, quanto ne esprime qualsiasi negazione della sensualità (in fondo, è soltanto un modus di questa negazione).

Quello che però costringe ad esso, quella assoluta volontà di verità, è la fede nello stesso ideale ascetico, anche se come suo imperativo inconscio ‑ non ci si inganni in merito ‑ è la fede in un valore metafisico, in un valore in sé della verità, come solo quell'ideale garantisce e validifìca (si sostiene e crolla con quell'ideale). Non esiste, a giudicare rigorosamente, nessuna scienza «priva di presupposti», il pensiero di una scienza tale è impensabile, paralogico: una filosofia, una «fede», deve sempre preesistere, affinché la scienza ne derivi una linea, un senso, un limite, un metodo, un diritto all'esistenza. (Chi la pensa diversamente, chi ad esempio, si accinge a considerare la filosofia «su basi meramente scientifiche», deve prima, a questo scopo, capovolgere non solo la filosofia, ma anche la verità stessa: il più grave oltraggio al pudore che possa esistere nei riguardi di due così degne damigelle!).

Sì, non c'è dubbio ‑ e qui cedo la parola alla mia Gaia scienza cfr. libro quinto, p. 263 ‑: «l'uomo veritiero, in quel temerario ed estremo significato con cui lo presuppone la fede nella scienza, afferma in tal modo un mondo diverso che quello della vita, della natura e della storia; e in quanto afferma questo "mondo diverso", come? non deve con ciò stesso negare la sua antitesi questo mondo, il nostro mondo?... E pur sempre una fede metafisica, quella su cui si fonda la nostra fede nella scienza ‑ anche noi odierni soggetti della conoscenza, noi atei e antimetafisici, anche noi prendiamo ancora il nostro fuoco da quell'incendio che una credenza millenaria ha acceso, quella credenza cristiana che era altresì la fede di Platone, per la quale Dio è la verità e la verità è divina... Ma in che modo può darsi ciò, se proprio questo si va facendo sempre più incredibile, se nulla più si manifesta come divino se non l'errore, la cecità, la menzogna ‑ se Dio stesso si manifesta come la nostra più lunga menzogna»... A questo punto è necessario fermarsi e riflettere lungamente. La scienza stessa ha bisogno ormai di una giustificazione (col che non è ancora stato detto, che ne esista una per lei). Per questo problema basta considerare le più antiche e le più recenti filosofie: in tutte manca una coscienza di quanto la stessa volontà di verità abbia prima bisogno di una giustificazione, e questa è una lacuna in ogni filosofia ‑ e questo perché: Perché l'ideale ascetico sino ad oggi ha dominato tutte le filosofie, perché la verità è stata posta come essere, come Dio, come la stessa somma istanza; perché alla verità non è mai stato lecito essere un problema. Questo «era lecito», lo si comprende? ‑ A partire dal momento in cui la fede nel Dio dell'ideale ascetico viene negata, si crea anche un nuovo problema: quello del valore della verità.

‑ La volontà di verità ha bisogno di una critica ‑ con ciò definiamo il nostro proprio compito ‑, il valore della verità deve, in via sperimentale, essere messo una volta in questione (Chi ritiene che sia stato troppo conciso, può rileggersi quel passo della Gaia scienza dal titolo: «In che misura anche noi siamo ancora devoti», pp. 260 ss., o meglio ancora tutto il quinto libro della suddetta opera, come pure la prefazione ad Aurora).

25.

No! Non venitemi a parlare di scienza mentre sto cercando l'antagonista naturale dell'ideale ascetico, mentre chiedo: «Dov'è la volontà contraria, in cui si esprime il suo ideale contrario?». In proposito la scienza è ben lungi dal poter contare su se stessa, ha prima bisogno, sotto ogni aspetto, di un ideale di valore, di una potenza produttrice di valori, al cui servizio possa credere in se stessa ‑ essa stessa non produce mai valori. Il suo rapporto con l'ideale ascetico in sé non è ancora per niente antagonistico; al contrario, nel suo interno processo di formazione, essa rappresenta ancora fondamentalmente addirittura la forza impulsiva. Il suo contraddire e la sua lotta non si riferiscono, se si considera più attentamente, all'ideale stesso, ma solo alle sue opere esterne, ai suoi travestimenti, al suo gioco di maschere, al suo transitorio indurirsi, al suo farsi legnoso, alla sua dogmatizzazione ‑ torna a liberare in esso la vita, negando in esso il dato essoterico.

Entrambi queste cose, scienza e ideale ascetico insieme posano infatti sullo stesso suolo ‑ già l'ho fatto capire ‑: cioè sulla identica sopravvalutazione della verità (più precisamente: sulla stessa fede nella impossibilità di valutare e di criticare la verità), e proprio per ciò esse sono necessariamente alleate ‑ cosicché, posto che vengano combattute, possono esserlo sempre e solo insieme e insieme possono essere messi in questione. Una svalutazione dell'ideale ascetico porta inevitabilmente con sé anche una svalutazione della scienza: perciò si dovranno aprire a tempo gli occhi e aguzzare le orecchie! (L'arte sia detto sin da adesso, poiché ritornerò, in un qualche altro momento, più lungamente su questo tema, ‑ l'arte, in cui proprio la menzogna si santifica e la volontà d'illusione ha dalla sua la buona coscienza, si contrappone molto più radicalmente che non la scienza all’ideale ascetico: se ne rese conto l'istinto di Platone, il più grande nemico dell'arte che l'Europa abbia avuto sino ad oggi. Platone contro Omero: questo è l'intero, il vero antagonismo ‑ da una parte, chi di buon grado «sta nella trascendenza», il grande diffamatore della vita, dall'altra, il suo divinizzatore involontario, la natura aurea.

Un servaggio artistico al servizio dell'ideale ascetico è, per questa ragione, la più autentica corruzione artistica che possa esistere, purtroppo una delle più comuni: poiché niente è più corruttibile di un artista). Anche dal punto di vista fisiologico, la scienza si fonda sullo stesso terreno dell'ideale ascetico: in entrambi i casi una certa depauperazione della vita è il presupposto ‑gli affetti raggelati, il ritmo rallentato, la dialettica in luogo dell'istinto, la gravità stampata sui volti e nei gesti (la gravità, questo sintomo inequivocabile di un ricambio più faticoso, della vita che lotta e che si affatica di più). Consideriamo le età di un popolo in cui il dotto compare in primo piano: sono epoche di stanchezza, spesso di tramonto, di decadenza ‑ la forza traboccante, la certezza di vita, la certezza di futuro sono scomparse. La preponderanza dei mandarini non significa mai nulla di buono: allo stesso modo dell'avvento della democrazia, degli arbitrati di pace al posto della guerra, della parità dei diritti per le donne, della religione della compassione e di qualsiasi altro sintomo della vita che decade (La scienza vista come problema: che cosa significa scienza? cfr. in proposito la prefazione alla Nascita della tragedia).

‑ No! questa «scienza moderna» ‑ spalancate bene gli occhi! ‑ è per ora la migliore alleata dell'ideale ascetico, e proprio per il fatto che è la più inconscia, la più involontaria, la più segreta e sotterranea! Fino ad oggi hanno giocato lo stesso gioco, i «poveri di spirito» e gli avversari scientifici di quell'ideale (guardiamoci bene, sia detto di passaggio, dal pensare che questi siano l'opposto di quelli, qualcosa come i ricchi di spirito ‑non lo sono per nulla, io li ho chiamati tisici dello spirito). Le famose vittorie di questi ultimi: sono vittorie, non c'è dubbio ‑ ia su che cosa? In essi l'ideale ascetico non è stato affatto sconfitto, anzi fu reso più forte, cioè più inafferrabile, più spirituale, più insidioso, perché la scienza ha sempre e di nuovo demolito senza pietà, distrutto un muro, un contrafforte che gli si era addossato e che ne rendeva più rozzo l'aspetto. Pensate veramente che la sconfitta dell'astronomia teologica significhi una sconfitta di quell'ideale?...

Forse l'uomo è diventato meno bisognoso di una soluzione trascendente del suo enigma esistenziale, perché questa esistenza, da allora, si presenta più gratuita, più disutile, più superflua nell'ordine visibile delle cose? Da Copernico in poi l'autodiminuzione dell'uomo, la sua volontà di autodiminuirsi, non progredisce forse inarrestabilmente? Purtroppo la fede nella sua dignità, unicità, insurrogabilità nella sequenza gerarchica degli esseri è scomparsa ‑ è diventato animale, animale, senza similitudini, detrazioni e riserve, lui che nella sua fede di un tempo era quasi Dio («figlio di Dio», «Uomo‑Dio»)...

Da Copernico in poi, l'uomo sembra essere finito su una superficie inclinata ‑ ora rotola sempre più velocemente lontano dal punto centrale ‑ dove? nel nulla? verso «il sentimento corrosivo del proprio nulla»?... Suvvia! sarebbe questa la retta via verso l'antico ideale?... Ogni scienza (e niente affatto solo l'astronomia sui cui demoralizzanti e deleteri effetti Kant ha reso la notevole confessione che «essa nullifica la mia importanza»), ogni scienza, tanto quella naturale, quanto quella non naturale, ‑ così definisco l'autocritica della conoscenza ‑ tende oggi a rimuovere nell'uomo il senso di rispetto avuto sino ad oggi per se stesso, come se non fosse altro che una bizzarra vanagloria; si potrebbe quasi dire che essa fonda il suo proprio orgoglio, la sua propria dura forma di atarassia storica nel mantenere presso di sé questo autodisprezzo dell'uomo faticosamente conquistato, come il suo ultimo e più serio titolo di stima (e con ragione, in verità: poiché chi disprezza, è pur sempre uno che «non ha disimparato l'apprezzare»...). Così si lavora contro l'ideale ascetico? Si crede ancora realmente e seriamente (come hanno immaginato, per un certo periodo di tempo, i teologi), che la vittoria di Kant sulla dogmatica concettuale teologica («Dio», «libertà», «anima», «immortalità») avrebbe danneggiato in qualche modo quell'ideale? ‑ e qui adesso non ci deve interessare se Kant stesso ha avuto qualcosa del genere anche solo nelle sue intenzioni.

Sta di fatto che a partire da Kant ogni specie di trascendentalisti ha avuto partita vinta ‑ si sono emancipati dai teologi: che fortuna! ‑ egli ha mostrato loro quella via traversa sulla quale possono autonomamente e con la massima dignità scientifica seguire i «desideri del loro cuore». E ancora chi potrebbe ormai rimproverare gli agnostici se questi, quali adoratori dell'ignoto e del misterioso in sé, adorano ora il punto interrogativo stesso come se fosse Dio? (Xaver Daudan parla dei ravages che «l'habitude d'admirer l'inintelligible au lieu de rester tout simplement dans l'inconnu» avrebbe provocato; ritiene che gli antichi ne avrebbero fatto a meno). Nell'ipotesi che tutto ciò che l'uomo «conosce» non soddisfi i suoi desideri, ma che li contraddica invece e li terrorizzi, quale divina scappatoia poterne cercare la colpa non del «desiderare», sibbene nel «conoscere»!... «Non esiste alcuna conoscenza: di conseguenza ‑ esiste un Dio»: che nuova elegantia syllogismi! Quale trionfo dell'ideale ascetico! ‑

26.

‑ O forse tutta la storiografia moderna ha avuto un atteggiamento più carico di certezza di vita e di ideali? La sua pretesa più nobile è ora quella di essere specchio; essa rifiuta ogni teleologia; non vuole più «dimostrare» niente; rifiuta con sdegno il ruolo di giudice e in ciò ha buon gusto ‑ afferma tanto poco quanto nega, constata, «descrive»... Tutto ciò è ascetico al massimo grado; ma, al tempo stesso, e a un livello ancora più alto, è nichilistico, non inganniamoci su questo punto! Si vede uno sguardo triste, duro, ma deciso ‑ un occhio che scruta lontano, come fa un viaggiatore solitario al Polo Nord (forse per non guardare dentro? per non guardare indietro?...). Qui è neve, qui la vita è ammutolita; le ultime cornacchie che si sentono dicono «A che fine?», «Invano!», «Nada!» ‑ qui non cresce e non fruttifica più niente, al massimo metapolitica pietroburghese o «pietà» tolstoiana.

Ma per quanto riguarda l'altro tipo di storici, un tipo forse ancora «più moderno», un tipo gaudente, voluttuoso, che fa gli occhi dolci sia alla vita che all'ideale ascetico, che usa la parola «artista» come un guanto e oggi ha assunto la gestione in proprio della lode della contemplazione: oh, che sete persino addirittura di asceti e di paesaggi invernali provocano questi dolci uomini d'ingegno! No! questa gente «contemplativa» vada pure al diavolo! Tanto più piacevolmente vagare ancora voglio per le nebbie più tetre, fredde e grigie, con quegli storici nichilisti! ‑ anzi, ammesso che debba scegliere, non deve essere importante per me prestare orecchio anche a chi è assolutamente astorico, antistorico (come Dühring, il suono della cui voce inebria nell'odierna Germania una specie di «anime belle» ancora timida, ancora inconfessata, la species anarchistica all'interno del proletariato colto).

I «contemplativi» sono cento volte peggiori ‑: non conosco niente di tanto nauseabondo quanto una tale poltrona «oggettiva», un tale olezzante gaudente della storia, mezzo prete, mezzo satiro, parfum Renan, che già con l'acuto falsetto del suo consenso rivela quello che gli manca, dove gli manca, dove, in questo caso, la Parca ha manovrato le sue crudeli forbici in maniera, ohimè!, anche troppo chirurgica! Ciò mi disgusta e mi fa perdere la pazienza: chi non ha niente da perdere, conservi pure la sua pazienza di fronte a simili apparizioni ‑ apparizioni del genere mi irritano, simili «spettatori», m'indispettiscono contro lo «spettacolo», più ancora dello spettacolo (la storia stessa, si capisce), e inaspettatamente mi vengono capricci anacreontici. Questa natura, che ha dato al toro le corna, al leone il xasm’òdònton a quale scopo ha dato a me il piede?... Per calpestare, per Sant'Anacreonte! e non solo per fuggire, per calpestare le poltrone marce, la contemplatività vile, la lascivia da eunuco davanti alla storia, il civettare con l'ideale ascetico, la tartufesca giustizia dell'impotenza!

Tutto il mio rispetto per l'ideale ascetico fino a che esso è onesto! fino a che crede a se stesso e non ci esibisce delle farse! Ma non mi piacciono tutte queste cimici azzimate, la cui ambizione è insaziabile nel fiutare l'infinito fino a che l'infinito non sa anch'èsso di cimici; non sopporto i sepolcri imbiancati, che recitano la vita; non mi piacciono gli stanchi e i «logori», che si avvolgono nella saggezza e guardano «obiettivamente»; non sopporto gli agitatori in uniformi da eroi, con la cappa fatata dell'ideale intorno alla loro testa di paglia; non amo gli artisti ambiziosi, che vorrebbero rappresentare l'asceta e il sacerdote e in fondo non sono altro che tragici buffoni; non sopporto nemmeno questi ultimi speculatori in idealismo, gli antisemiti, che oggi storcono i loro occhi con cristiano‑ariano perbenismo e cercano di eccitare tutti gli elementi bovini del popolo con l'abuso, al limite della pazienza, di un mezzo provocatorio assai a buon mercato, l'atteggiamento moralistico (‑ il fatto che ogni tipo di canagliume intellettuale abbia successo in Germania, dipende dallo squallore ormai innegabile e già evidente dello spirito tedesco, di cui cerco l'origine in una alimentazione esclusivamente a base di giornali, politica, birra e musica wagneriana, con in più ciò che è il presupposto di questa dieta: prima di tutto, la strozzatura e la vanità nazionale, il principiò robusto, ma limitato del «Deutschand Dautschland über alles»; e poi la paralysis agitans delle «idee moderne»).

L'Europa oggi è ricca e piena di inventiva soprattutto nel campo degli stimolanti, sembra che di nient'altro abbia più bisogno che non di eccitanti e d'acquavite: da ciò deriva anche la mostruosa falsificazione negli ideali, queste fortissime acquaviti dello spirito, da ciò anche l'aria nauseante, appestata, falsa, pseudoalcolica, presente ovunque. Vorrei sapere quanti carichi di idealistiche imitazioni, di paludamenti eroici e di grancasse parolaie, quante botti di alcolico, dolciastro compatimento (ditta: la religion de la souffrance), quante stampelle di «nobile sdegno» in appoggio ai piedipiatti dello spirito, quanti commedianti dell'ideale cristiano-morale dovrebbero essere esportati oggi dall'Europa, affinché la sua atmosfera tornasse pura... Evidentemente, in relazione a questa sovrapproduzione si aprono nuove possibilità di commercio, è chiaro che con piccoli idoli di ideale e con i relativi «idealisti» sono possibili nuovi «affari» non si trascuri questa esplicita offerta! Chi ha abbastanza coraggio per questo? ‑ sta nelle nostre mani, «idealizzare» tutta la terra!... Ma perché parlare di coraggio: qui c'è bisogno di una cosa sola, cioè la mano, una mano disinvolta, una mano molto disinvolta...

27.

Basta! Basta! Abbandoniamo queste curiosità e queste complicatezze dello spirito moderno, di cui c'è tanto da ridere quanto da infastidirsi: proprio il nostro problema può farne a meno, il problema del significato dell'ideale ascetico ‑ che cos'ha a che fare con l'ieri e con l'oggi! Codeste questioni le tratterrò in un altro contesto in maniera molto più approfondita e più decisa (col titolo «Per la storia del nichilismo europeo»; rimando perciò a un'opera che sto portando a termine: LA VOLONTÀ Dl POTENZA. Saggio di una trasvalutazione di tutti i valori). Quello che realmente mi interessa è aver rinviato qui a questo: anche nella sfera spirituale, l'ideale ascetico ha sempre, per ora, una sola specie di nemici reali e di danneggiatori: cioè i commedianti, dell'ideale ‑ poiché essi suscitano diffidenza. Del resto, dovunque lo spirito è oggi in attività con durezza, con forza e senza falsificazioni, fa a meno, in generale, dell'ideale ‑ l'espressione popolare per questa astinenza è «ateismo» ‑: senza mettere in conto la sua volontà di verità. Ma questa volontà, questo resto d'ideale, se mi si vuole credere, è quello stesso ideale nella sua formulazione più severa, più spirituale, assolutamente esoterico, liberato da ogni sovrastruttura esterna, e perciò non tanto il suo resto, quanto il suo nocciolo.

L'ateismo incondizionato, onesto (‑ e noi respiriamo solo la sua aria, noi uomini più spirituali di questa età) non sta, quindi, in contrasto con quell'ideale, come invece sembra; esso è invece, solo una delle sue ultime fasi di sviluppo, una delle sue forme finali e delle sue consequenzialità interne ‑ è la catastrofe, che incute rispetto, di una bimillenaria severa educazione alla verità, che alla fine si proibisce la menzogna della fede in Dio. (Lo stesso andamento evolutivo in India, in perfetta autonomia e quindi tale da dimostrare qualcosa; lo stesso ideale che costringe alla stessa conclusione; il punto decisivo raggiunto cinque secoli prima dell'era europea, con Buddha, o più precisamente con la filosofia Sankhya divulgata poi da Buddha e trasformata in religione.) Che cosa, chiediamocelo col maggior rigore possibile, ha sconfitto in verità, il Dio cristiano?

La risposta si trova nella mia Gaia scienza, p. 290: «La stessa moralità cristiana, il concetto di veridicità assunto in un senso sempre più rigoroso, la finezza da padri confessori della coscienza cristiana, tradotta e sublimata nella coscienza scientifica, nella pulizia intellettuale a ogni prezzo. Osservare la natura, come se fosse una prova della bontà e della protezione di un dio; interpretare la storia in onore di una ragione divina, come testimonianza costante di un ordinamento etico del mondo e di conclusive intenzioni etiche; interpretare le proprie esperienze intime come abbastanza a lungo le hanno interpretate uomini devoti, come se tutto fosse un ordinamento, tutto fosse un cenno, tutto fosse escogitato e predisposto per amore e per la salvezza dell'anima: tutto ciò è ormai già passato, ha la coscienza contro di sé, per tutte le coscienze più affinate è considerato sconveniente, disonesto, mendacità, roba da femmine, debolezza e codardia; in virtù di questo rigore, se non altro, noi siamo precisamente buoni Europei ed eredi del più lungo e valoroso autooltrepassamento dell'Europa»... Tutte le cose grandi si annientano da sole, con un atto di autoeliminazione: così vuole la legge di natura, la legge del necessario «autooltrepassamento» nell'essenza della vita ‑ il grido: «Patere legem, quam ipse tulisti» finisce sempre per arrivare allo stesso legislatore. Così è crollato il cristianesimo come dogma, a causa della sua stessa morale; così anche il cristianesimo come morale deve ancora andare in rovina ‑ noi in rovina ‑ noi siamo alle porte di questo avvenimento. Avendo la veridicità cristiana tirato una conclusione dopo l'altra, dedurrà alla fine anche la sua conclusione più radicale, quella contro se stessa; ma questo accade quando essa si chiede «Che cosa significa ogni volontà di verità?»...

E a questo punto tocco ancora una volta il mio problema, i nostri problemi, amici miei ignoti (‑ dato che ancora non so di nessun amico): quale altro senso avrebbe mai tutto il nostro essere, se non quello che in noi quella volontà di verità sarebbe diventata cosciente di sé come problema?... Grazie a questo prendere coscienza‑di‑sé della volontà di verità, la morale ‑ non v'è alcun dubbio ‑ finirà per andare progressivamente in rovina: quel grande spettacolo in cento atti, tenuto in serbo per i due secoli europei prossimi venturi, il più tremendo, il più problematico e forse anche il più fecondo di speranza di tutti gli spettacoli...

28

Se si prescinde dall'ideale ascetico, l'uomo, l'animale uomo non ha avuto, sino ad oggi, nessun senso. La sua esistenza sulla terra non ha avuto in sé nessun fine; «a che scopo dunque l'uomo?» ‑ è stata una domanda senza risposta; la volontà per uomo e terra mancava; dietro ogni grande destino umano risuonava, come refrain, un ancora più grande «invano!». L'ideale ascetico significa proprio questo: che qualcosa mancava, che l'uomo era circondato da un enorme vuoto ‑ egli non sapeva giustificare, spiegare, affermare se stesso, soffriva del problema del suo significato ‑ Soffriva comunque, anzi era, in primo luogo, un animale valetudinario: ma non la sofferenza in sé era il suo problema, sibbene, il fatto che non ci fosse risposta per il grido: «a che scopo soffrire?». L'uomo, l'animale più coraggioso e più assuefatto al dolore, non nega in sé la sofferenza; la vuole, la va persino a cercare, sempreché gli si mostri un significato della sofferenza stessa, un «perché» del soffrire. L'assurdità della sofferenza, non la sofferenza, è stata la maledizione che ha gravato sino ad oggi sull'umanità ‑ e l'ideale ascetico le conferì un senso! Sino ad oggi è stato l'unico senso; un senso qualsiasi è meglio di nessun senso; sotto ogni punto di vista l'ideale ascetico è stato il «faute de mieux» par excellence che sia mai fino a ora esistito. In esso il dolore veniva interpretato; il vuoto enorme parve colmato; si chiuse la porta davanti a ogni nichilismo suicida. fuori di dubbio che l'interpretazione portò con sé nuovo dolore, più profondo, più intimo, più tossico, più corrosivo per la vita: essa pose ogni dolore nella prospettiva della colpa...

Ma malgrado tutto ciò ‑ l'uomo venne così salvato, ebbe un senso, non fu più, a partire da quel momento, una foglia al vento, uno scherzo dell'assurdo, del «senza‑senso», poteva ormai volere qualcosa ‑ e soprattutto non importava in che direzione, a che scopo, con che mezzo volesse: la volontà stessa era salva. Non ci possiamo assolutamente nascondere che cosa, in realtà, esprima tutto questo volere che aveva derivato dall'ideale ascetico la sua linea: questo odio contro l'umano, più ancora contro ciò che è animale, più ancora contro ciò che è materia, questo orrore per i sensi, per la ragione stessa, il terrore della felicità e della bellezza, questo desiderio di uscire da tutto ciò che è apparenza, mutazione, divenire, morte, desiderio, dal desiderare stesso ‑ tutto questo significa, osiamo rendercene consapevoli una volontà del nulla, un'avversione alla vita, un'opposizione ai presupposti assolutamente fondamentali della vita, ciò nonostante essa è e resta una volontà!...

E per dire, concludendo, quello che ho detto agli inizi: l'uomo preferisce ancora volere il nulla, piuttosto che non volere...