La follia di Nietzsche

Commento al saggio di Anacleto Verrecchia

1.

Anacleto Verrecchia ha dedicato un intero libro (La catastrofe di Nietzsche a Torino, Bompiani, Milano 2003) alla ricostruzione minuziosa della follia di Nietzsche, dal momento dell’insorgenza, nel gennaio del 1889, alla morte. Si tratta di un libro a tesi: Verrecchia intende dimostrare che la catastrofe psichiatrica finale è la naturale conclusione di un’esperienza umana che si è svolta sempre all’insegna della patologia, e che dunque la filosofia di Nietzsche è null’altro che l’espressione di una mente malata, la quale può affascinare solo menti altrettanto malate.

Egli scrive nella Prefazione:

“Nessun autore è stato così mitizzato come Nietzsche. Si è voluto fare di lui un martire, un eroe, un semidio; ma, se si guarda bene, riesce piuttosto difficile aggiustargli addosso tutte codeste onorificenze. Né l'uomo è molto simpatico. A scuola, posa a primo della classe. All'università, fila il professore, su raccomandazione del quale ottiene, a soli ventiquattro anni e senza essere ancora neppure laureato, una cattedra universitaria (chi fa rapida carriera, di solito, difficilmente ha un carattere nobile: leggete la vita dei grandi spiriti). A poco più di trent'anni, quando gli altri non hanno ancora trovato la loro strada, egli ha già la sua bella pensione, che gli consente di vivere senza eccessive preoccupazioni finanziarie nei luoghi più rinomati del turismo internazionale. Mai una scapestreria, nella sua vita regolata sull'orologio e il barometro, mai un po' di quella bohème così frequente negli scrittori, mai lotta per il pane quotidiano! Si atteggia a terrorista della cultura, ma non sa smettere il suo abito accademico; vuol diroccare la morale borghese, ma tiene moltissimo ai titoli e alle relazioni con persone blasonate. Il suo atteggiamento verso il mondo che lo circonda sa più di adulterio che di ribellione. Né, se si eccettua il breve episodio con Lou Salomé, dal quale peraltro esce assai male, lo vediamo mai travolto da qualche passione. Di solito, bazzica vecchie baronesse o dame in convalescenza. Per una delle tante anomalie del suo spirito, volle reincarnarsi in Dioniso; ma lui, di dionisiaco, non aveva assolutamente niente e non sarebbe stato capace neppure di reggere il tirso. L'unico atto veramente degno di rispetto, da parte sua, fu quello di abbandonare la cattedra universitaria e di andarsene a zonzo o a meditare sui monti della Liguria.

Impreca contro i moralisti e gli asceti, predica la totale affermazione della volontà di vivere; ma lui, nella corrente della vita, non ci si tuffa mai, vivendo sempre pieno di riguardi e di precauzioni come una creatura in vitro. Più che ribelle, è ombroso. Dove ti aspetteresti il piglio satanico, trovi spesso il broncio o il capriccio. Per soprammercato, non ride mai e si lamenta continuamente alla stregua di un egoista patologico, rivelando, proprio lui, una sorprendente mancanza di pudore del male. Usa toni guerrieri, ma ha sempre la «bua»; e, se il termometro segna un grado di più o di meno, lui si sente perso. E’ un bambolotto tragicomico. Viene fatto di pensare, per contrapposizione, a Heine, che rideva perfino nel suo letto di dolore. E lasciamo stare l'estrema presunzione, la permalosità, il tono oracoleggiante e le pose da demiurgo: tutte cose che denotano una totale assenza di ironia e che finiscono con lo stancare o col dare ai nervi. Nietzsche credeva di essere l'unto del Signore, un tipo unico al mondo, irripetibile, di cui la natura avesse tirato una sola copia numerata. Come può essere simpatico, un uomo simile, e come gli si può voler bene? Né poi aveva tutti i torti quella linguaccia di Wedekind, quando diceva che, sì, Zarathustra predica bene, ma è come se gli mancassero i testicoli. E a chi gli faceva osservare che i testicoli, Zarathustra, li ha in testa, rispondeva sarcasticamente:

«Allora ho ragione io, non li ha al posto giusto». Ancora più sferzante il giudizio di Jacob Burckhardt, che lo ebbe come collega e lo conosceva bene: «Quel Nietzsche! Non è neppure capace di tirare una sana scorreggia».

Nulla più dei miti è contrario alla verità, così come nulla, per ristabilire la verità, è più necessario della demitizzazione. E proprio quello che ho cercato di fare. Nietzsche eroe? In lui prevale il professore: o s'è mai visto un eroe professorale? Per il resto, è vero che la natura non gli aveva dato molta salute; ma è altrettanto vero che il destino, con lui, fu, tutto sommato, più benigno di quel che non lo sia stato con altri uomini di genio. Quando Eminescu, il 28 giugno del 1883, ebbe il primo attacco di follia, la sua padrona di casa, certa Catinca Slàvici, si affrettò a sbarazzarsene, mettendolo fuori di casa. E dire che il poveretto si limitava a recitare forte e in maniera disordinata i suoi bei versi. Nietzsche, invece, in una circostanza analoga, pur cadendo in eccessi e mostrandosi «terribile», trovò la famiglia Fino, la quale non solo non se ne sbarazzò, ma lo accudì amorevolmente e lo fece anche curare da un illustre psichiatra torinese. E mentre Nietzsche, il 15 giugno del 1889, era affidato alle cure del professor Binswanger di Jena e riceveva visite affettuose della madre o di amici, l'infelice poeta romeno, che aveva sempre vissuto una vita d'inferno, fatta di fame e di miseria, moriva per mano di un altro pazzo, certo Petrea Poenariu, che gli fracassò il cranio con una pietra. E che dire del povero Hölderlin, costretto a vivere per una quarantina d'anni in una specie di torre come un piccione, mentre i ragazzi, quando lo vedevano, gli tiravano le pietre? E non parliamo di Lenau. Ho voluto rievocare questi episodi dolorosi non certo per stabilire una gradazione nelle disgrazie dei grandi spiriti, ma solo per sfatare la leggenda di un Nietzsche martirizzato, lui solo, dal destino.

Anche la sua filosofia è stata mitizzata; e concetti vaghi e nebulosi quali «Superuomo», «Transvalutazione di tutti i valori», «Eterno ritorno» e «Volontà di potenza» furono assunti come stelle comete di una nuova umanità. Ma qui si pone la domanda: perché tanto interesse per Nietzsche, che non è neppure un filosofo nel vero senso della parola? A questa domanda si può rispondere molto semplicemente così: perché Nietzsche è una malattia. Né c'è bisogno di aggiungere che il mondo, pieno com'è di pazzi e di spostati, prova attrazione, di regola, più per ciò che è patologico che per ciò che è sano. Parlando di Elisabeth Förster-Nietzsche, il Peters dice giustamente: «Visto che il pubblico preferiva i libri di un filosofo pazzo a quelli di un filosofo sano, sarebbe stato sciocco impedire all'editore di usare la disgrazia del fratello a fini pubblicitari».

E’ stato notato che l'adoratore di Nietzsche, generalmente, ha qualche problema di natura psichica, sia pure latente. Uno dei massimi sacerdoti del rinnovato culto di Nietzsche in Italia fu sorpreso nell'atto di far friggere il crocefisso nella padella, al che la sua fidanzata, prudentemente, decise di andarsi a chiudere in convento. Un altro gran sacerdote, invece, oltre ad asserire di essere la «reincarnazione» di Nietzsche, affermava di colloquiare con Platone in persona. C'è bisogno di altri esempi? Spesso l'adoratore di Nietzsche è anche un fanatico: similis simili gaudet.” (pp. 11-14)

E’ senz’altro vero che “amare” Nietzsche è difficile, e corrisponde o ad un’identificazione adolescenziale con il suo estremismo dissacratore o ad una minimizzazione delle infinite contraddizioni che caratterizzano il suo pensiero. Disprezzarlo fino al punto di definire in toto malato il suo pensiero, significa, però, adottare senza remore il pregiudizio psichiatrico, che distingue normalità e follia a filo netto, togliendo a quest’ultima qualunque significato ed escludendo che essa possa convivere con la genialità o avere addirittura una matrice in comune con essa.

Nonostante l’estremismo pregiudiziale di Verrecchia che, a mio avviso, è diretto più contro i ciechi e adoranti cultori di Nietzsche che non contro il filosofo stesso (che egli comunque non ama affatto), il libro è prezioso sotto il profilo documentario. Esso, infatti, escludendo l’ipotesi di una paralisi progressiva, fornisce dati che possono essere utilizzati per fornire un’interpretazione psicodinamica della follia di Nietzsche. Tale interpretazione conferma il punto di vista di Verrecchia, antitetico rispetto a quello, per esempio, di Montinari, ma giunge a conclusioni del tutto diverse.

Prima di procedere all’interpretazione psicodinamica, riporto, omettendo le note, le pagine in cui Verrecchia ricostruisce la comparsa e il decorso della follia di Nietzsche.

2.

“La Catastrofe (pp. 263-305)

Siamo all'atto finale della tragedia, che cercheremo di ricostruire nei minimi particolari. Ci baseremo ancora sulle lettere, che rispecchiano fedelmente il percorso verso la catastrofe. Si nota in esse una crescente euforia e una esaltazione gioiosa che sono ben note agli psichiatri.

A Meta von Salis: «Intanto comincio a diventare famoso in modo veramente inaudito. Credo che mai un mortale abbia ricevuto lettere come quelle che ricevo io, e solo da intelligenze ricercate, da caratteri provati in alte posizioni e responsabilità. Da tutte le parti: non da ultimo dall'alta società di San Pietroburgo. E i francesi! Dovrebbe sentire in che tono mi scrive Ms. Taine! Proprio ora è arrivata una lettera incantevole, forse anche incantata, di uno dei primi e più influenti uomini di Francia, il quale intende assumersi il compito di rendere noti e di tradurre i miei scritti: nientemeno che il redattore capo del Journal des Débats e della Revue des deux Mondes, Ms. Bourdeau. Egli mi dice, inoltre, che a gennaio uscirà nel J[ournal] des Déb[ats] una recensione del mio "Caso Wagner" — di chi? Di Monod. Tra i miei lettori ho un vero genio, lo svedese August Strindberg, che mi sente come lo spirito più profondo di tutti i millenni [...]. La cosa più singolare, qui a Torino, è che io esercito un grande fascino — in tutti gli ambienti. Tutti mi guardano come un principe: c'è un'estrema distinzione nel modo con cui mi viene aperta la porta o mi viene servita una pietanza. Quando entro in un grande negozio, tutti i visi si trasformano [...]. Seriamente, io considero i tedeschi una specie umana abietta e ringrazio il cielo di essere in tutti i miei istinti un polacco e nient'altro».

A parte il «polacco», di cui abbiamo già parlato, che cosa gli aveva scritto monsieur Taine? Leggiamo la sua lettera per intero: «Signore, mi avete fatto molto onore mandandomi il Vostro Crepuscolo degli idoli; vi ho letto quelle battute, quegli scorci umoristici alla Carlyle, quelle definizioni intelligenti, e insieme profonde, che date degli scrittori moderni, ma avete ragione di pensare che uno stile così letterario e pittoresco richieda lettori molto versati nella conoscenza del tedesco; non so abbastanza bene questa lingua per percepire di primo acchito tutte le vostre audacie e finezze; in tedesco ho letto soltanto filosofi o storici. Poiché desiderate un lettore competente, credo di potervi indicare il nome del signor J. Bourdeau redattore del "Journal des Débats" e della "Revue des Deux Mondes" ; è uno spirito molto colto e libero, al corrente di tutta la letteratura contemporanea; ha viaggiato in Germania e ne studia accuratamente la storia e la letteratura a partire dal 1815; ha tanto gusto quanta istruzione, ma non so se sia disponibile in questo momento. Abita a Parigi, rue Marignan 18. Gradite, signore, con i miei più vivi ringraziamenti, l'assicurazione dei miei sentimenti più distinti». Una lettera normalissima, come si vede; ma non per Nietzsche.

Né cercava traduttori solo in Francia e in Inghilterra, ma ne cercava anche in Italia. Già nella prefazione a Nietzsche cantra Wagner si legge: «E avrei forse anche da dire una parola all'orecchio dei signori italiani, che amo tanto quanto... Quousque tandem, Crispi... Triple alliance: con il "Reich" un popolo intelligente potrà fare soltanto una mesaillance...». Circa codesto improvviso amore di Nietzsche per gli italiani, a dire il vero, si potrebbe nutrire qualche dubbio. Credendo, ora, che sia venuto il momento per la sua «grande politica», egli prende anche appunti per una lettera a Ruggero Bonghi: «In nome del cielo, che c'importa della demenza dinastica della casa Hohenzollern!... Non è un movimento nazionale, nient'altro che un movimento dinastico... Il principe Bismarck non ha mai pensato al "Reich", — in tutti i suoi istinti, egli è solo un arnese della casa Hohenzollern! — e questo incitamento all'«egoismo dei popoli viene inteso e insegnato in Europa come grande politica, quasi come dovere!... A ciò bisogna por fine — e io sono abbastanza forte per questo...

Per dare un'idea di me, allego un libro che non è ancora in commercio, come pure un giudizio su di me, che viene da una persona assai profonda e seria. Sarebbe mio vivo desiderio che il libro potesse essere letto in italiano: ora sto trattando con l'eccellente redattore del Journal des Débats e della Re-vue Ms. Bourdeau per una traduzione francese. — Le opere che seguiranno — e che sono tutte perfettamente pronte — non sono più dei libri, ma dei destini. Ma prima ho bisogno di portare dalla mia parte le nazioni intelligenti: perché, sebbene io fossi quanto più possibile vicino ai tedeschi — a ventiquattro anni ero professore ordinario di università — non ho persuaso neppure un orecchio di questa stupida razza».

Il fatto che Nietzsche, qui, chiami il Bourdeau semplicemente «redattore», e non più «redattore capo» come aveva fatto prima, farebbe pensare che egli abbia scritto queste righe dopo aver ricevuto la lettera, datata 4 gennaio 1889, del pubblicista francese, nella quale si legge: «Je ne suis pas, comme vous le supposez, rédacteur en chef du Journal des Débats, mais simple collaborateur intermittent, des Débats et de la Revue des Deux Mondes, pour les oevres étrangères. C'est vous dire que je suis obligé de soumettre à mes directeurs les sujets dont je m'occupe, et que la date de l'insertion des sujets ne dépend pas de moì. Il y a tant de sujets et d'écrivains de journaux et de revues, que l'on attend parfois très long-temps». Una doccia fredda, per Nietzsche che aveva visto nel Bourdeau una specie di principe della letteratura francese.

Vediamo anche un'altra versione, che è precedente, dell'abbozzo di lettera al Bonghi: «Annetterei un valore straordinario all'essere presentato da lei agli italiani. Ora io ho lettori dappertutto e sono tutti delle intelligenze scelte, fra cui Ms. Taine — caratteri provati e sperimentati in alte posizioni — a Vienna, a San Pietroburgo, a Stoccolma, a Parigi, a New York — non li ho in Germania: non fa meraviglia che anche in Italia nessuno mi ascolti! — Come può un popolo di persone serie, il primo popolo d'Europa, far comunella con questa Heerden-Rassepar excellence?... Triple alliance — ma questo è il termine per mesaillance.

Le invio qualche mio libro. Tutti hanno bisogno di presentazione. Io sono lo spirito di gran lunga più forte che ci possa essere sulla terra, — non posso essere qualche cosa di diverso. Fra due anni avrò in mano il più grande potere che mai un uomo abbia avuto — voglio chiudere il "Reich" in una cintura di ferro...

Per la traduzione del Crepuscolo degli idoli, sono giusto avviate le trattative per la Francia (Ms. Bourdeau redattore capo [...]) e con un traduttore inglese, — il libro basta per mettere ad acta anche per l'Italia le questioni assurde, compresa quella papale.

Le sarei grato, se presentasse la mia lettera a Sua Maestà il re Umberto. Non c'è un amico dell'Italia migliore di me. Penso che avrò bisogno di Victor Buonaparte come imperatore di Francia».

Quando Nietzsche voleva qualche cosa, sapeva anche adulare. Dalla sua corrispondenza precedente non si direbbe proprio che egli s'interessasse alle questioni italiane. Ma ora salta fuori il «migliore amico» dell'Italia, mentre gli italiani diventano «il primo popolo d'Europa». Anche le continue lodi alla Francia e alla cultura francese, quando non sono fatte per partito preso, hanno, in fondo in fondo, lo stesso scopo. Resta il fatto che la cultura di Nietzsche non usciva dall'ambito tedesco. Le sue professioni di fede antitedesca hanno qualche cosa di forzato, di voluto; sanno di partito preso e non convincono. Quando polemizza col cristianesimo, si sente il cristiano capovolto; quando si scaglia contro i tedeschi e la cultura tedesca, si tratta di una lite in famiglia, sia pure aspra quanto si vuole. Tale cultura, da lui così avversata, gli è pur sempre necessaria come oggetto della sua polemica contro la «decadenza». Togliete dalle opere di Schopenhauer tutti i sarcasmi contro Hegel e i professori filistei: esse non ne risentiranno minimamente, perché tali sarcasmi sono soltanto un fatto accidentale nel quadro della sua filosofia. Togliete invece Wagner, Schopenhauer e altri oggetti di polemica dagli scritti di Nietzsche, e non rimarrà nulla. Lo dice lui stesso: «Io non sarei possibile, senza un tipo di razza antitetico, senza tedeschi, senza questi tedeschi, senza Bismarck, senza il 1848, senza "guerre d'indipendenza", senza Kant, senza lo stesso Lutero...».

Una delle fisime di Nietzsche, in quei giorni, era quella della «grande politica». Sappiamo già, dalla lettera a Overbeck del 28 dicembre, che egli lavorava a un «Promemoria» per le corti europee, allo scopo di promuovere una lega antitedesca. Il 30 dicembre spedì tale promemoria o proclama al Bourdeau, che ne accusò ricevuta il 4 gennaio 1889. Il testo, purtroppo, è andato smarrito. Rimane qualche frammento della bozza: «Ultima considerazione. Potessimo fare a meno delle guerre, tanto meglio. Io saprei fare un uso più vantaggioso dei dodici miliardi che la pace armata costa annualmente all'Europa; vi sono anche altri mezzi per portare agli onori la fisiologia, che non siano i lazzaretti... Per farla corta, bene — molto bene addirittura: dopo che il vecchio Dio è stato abolito, io sono pronto a reggere il mondo...». E si è conservato anche un abbozzo della lettera di accompagnamento: «Stimato signore [...] sinceramente ritengo possibile rimettere in ordine tutta l'assurda situazione dell'Europa con una specie di risata storico-universale, senza che sia versata una sola goccia di sangue. In altri termini: il Journal des Débats è sufficiente...». Ma scrisse pure una «Dichiarazione di guerra», il cui testo è andato anch'esso perduto. Doveva far parte dell'Ecce homo, ma poi Nietzsche impartì all'editore Naumann l'ordine di non inserirla. Siccome era violentemente antitedesco e conteneva delle contumelie contro Guglielmo II, tale testo venne poi distrutto in casa Nietzsche, come congettura il Montinari. Qualche frammento, tuttavia, ci consente di farci un'idea di quale fosse il contenuto. Così, in una variante del paragrafo 2 di Perché io sono un destino, nell'Ecce homo, si legge fra l'altro: «... io non ho parole per esprimere il mio disprezzo verso il livello intellettuale che ora, nella figura del cancelliere del Reich e con gli atteggiamenti da ufficiale prussiano della casa di Hohenzollern, si crede chiamato a guidare la storia dell'umanità: è questa la specie più bassa d'uomo, che non ha imparato neppure a porre domande là dove io ho bisogno, come risposta, di fulmini demolitori [...]. Costruiscano pure i loro castelli di carta! per me il "Reich" e le "Triplici Alleanze" sono castelli di carta!... Tutta questa roba riposa su [quattro] cinque presupposti che io ho nelle mani... C'è più dinamite tra [cielo] e terra di quanto questi idioti in porpora si possano mai sognare...».

Nell'ultima parte del volume VIII/3 dell'edizione tedesca, Colli e Montinari, sotto il titolo Die grosse Politik, pubblicano tutto ciò che è rimasto del delirio politico di Nietzsche. Traduciamo qualche passo: «Io porto la guerra. Non fra popolo e popolo: non ho parole per esprimere il mio disprezzo verso l'esecrabile politica d'interessi delle dinastie europee, che dell'incitamento all'egoismo, alla presunzione dei popoli l'uno contro l'altro fa un principio e quasi un dovere. Non tra i ceti. Perché non abbiamo ceti superiori, di conseguenza neppure inferiori: ciò che oggi è in auge nella società è fisiologicamente condannato e inoltre — il che costituisce una prova di ciò — così impoverito nei suoi istinti e così insicuro, che propugna senza scrupolo il principio contrario a una specie superiore di uomo. Io porto la guerra attraverso tutti i casi assurdi di popolo, ceto, razza, professione, educazione, formazione: una guerra come tra l'ascesa e il declino, tra volontà di vita e brama di vendetta contro la vita, tra rettitudine e perfida falsità...» «Seconda proposizione: guerra mortale contro il vizio; vizioso è ogni tipo di contronatura. Il prete cristiano è il più vizioso tipo di uomo: perché insegna la contronatura».

Nietzsche pensava di avere in mano il destino dell'umanità. L'unico ad avere qualche idea di ciò sarebbe stato Peter Gast: «Il signor Köselitz ha effettivamente un'idea di me: qualche cosa che mi riempie ancor sempre tanto di stupore quanto mi lascia freddo il contrario. Talvolta vedo [...] che ho in mano il destino dell'umanità -: la spezzo invisibilmente in due parti, prima di me, dopo di me...». Per poter realizzare la sua «grande politica», però, Nietzsche aveva bisogno di collaboratori: «Un'ultima parola. D'ora in poi avrò bisogno di un numero sterminato di mani soccorrevoli - mani immortali! -, la Transvalutazione deve apparire in due lingue. Si farà bene a fondare dappertutto delle associazioni, per darmi in mano a tempo giusto alcuni milioni di seguaci. Ci tengo ad avere per me anzitutto gli ufficiali, e i banchieri ebrei: — gli uni e gli altri insieme rappresentano la volontà di potenza». All'anima della transvalutazione, se tutto si riduceva a gendarmi e quattrini! Zarathustra quattrinaio!

Tuttavia, immaginando di avere dalla sua parte gli ufficiali e i finanzieri ebrei, e standosene ben al sicuro nella sua stanzetta di via Carlo Alberto a Torino, Nietzsche muove guerra al Reich: «Guerra mortale alla casa Hohenzollern. Come colui che io devo essere, non un uomo ma un destino, voglio farla finita con questi idioti criminali, che per più di un secolo hanno avuto la parola, la massima parola. Dai giorni di Ffederico] il Grande Ladro, non hanno fatto altro che mentire e rubare; ho da fare eccezione per uno solo, l'indimenticabile Federico III, il più odiato, il più calunniato di tutta la razza... Oggi che è in auge un partito vituperevole, oggi che una banda cristiana sparge fra i popoli l'esecrabile semenza dei denti del drago, quella del nazionalismo, e, per amore degli schiavi, vuole affrancare i domestici negri, noi dobbiamo portare dinanzi a un tribunale storico-mondiale la falsità e l'innocenza nella menzogna. Il loro strumento, il principe Bismarck, l'idiota par excellence fra tutti gli uomini di stato, non ha mai pensato una spanna oltre la dinastia degli Hohenzollern. Ma questo ha fatto il suo tempo: io voglio serrare il Reich in una camicia di ferro e provocarlo a una lotta disperata. Non avrò le mani libere, finché non avrò in esse quell'ussaro cristiano del Kaiser, quel giovane criminale».

E i tedeschi? Ce n'è anche per loro: «E guardate gli stessi tedeschi, la razza più bassa, più stupida, più triviale che ora ci sia sulla terra, hohenzollernizzata fino all'odio contro lo spirito e la libertà. Guardate il suo "genio", il p[rincipe] B[ismarck], l'idiota fra gli uomini di stato di tutti i tempi [...]. L'idiota sulla croce era [-----]. E quando la razza ebbe genio, ebbe il genio del delitto...». Parla di torce, con cui vorrebbe dar fuoco allo spirito cristiano dell'imperatore, di marchi a fuoco, di cannoni e soprattutto di pazzia: quella degli altri, s'intende. Un altro frammento dice: «Non concederò mai che una canaille di H[ohenzollern] possa comandare a qualcuno di commettere delitti... Non v'ha diritto all'obbedienza, se chi comanda non è che un Hohenzollern». Avrebbe mai immaginato, Guglielmo II, che qualcuno, a Torino, gli stesse preparando un rogo spirituale? «Mi si dia in mano il giovane criminale: non indugerò a rovinarlo e a incendiare il suo spirito criminale.» Infine, dopo aver bruciato l'imperatore, Nietzsche, il nuovo dio, lo mandava, com'era giusto, all'inferno: «Condamno te ad vitam diaboli vitae. Distruggendo te, Hohenzollern, io distruggo la menzogna». Il cerchio si chiude: partito all'insegna della rivoluzione e della distruzione, Nietzsche ridiventa il «figlio di pastori», «il piccolo pastore», e tutto finisce in scomunica e maledizione.

Dalla finestra della sua stanza di via Carlo Alberto, naturalmente, nessuno vide uscire un filo di fumo o una lingua di fuoco. E neppure si udì uno scoppio, fosse pure quello di un petardo, perché Nietzsche, per quanto pazzo, si guardava bene dall'armeggiare con la «dinamite», altra parola che ricorre frequentemente nei suoi ultimi scritti.

Ma come era sorta l'idea della dinamite? J.V. Widmann, il 16 e 17 settembre 1886, aveva recensito nel «Bund» Al di là del bene e del male sotto questo titolo: Il pericoloso libro di Nietzsche, paragonando l'opera al noto esplosivo: «Qui c'è della dinamite».58 A Nietzsche non parve vero di essere paragonato a un dinamitardo e si affrettò a trascrivere per gli amici alcuni passi della sullodata recensione, specialmente per Malwida von Meysenbug.59 In seguito, a confermarlo ulteriormente nell'idea della dinamite, contribuirono forse anche gli attentati compiuti dagli appartenenti alla «Propaganda der Tat», di cui riferivano spesso i giornali. Ma ai commentatori è sfuggito un altro particolare, molto importante. A Torino, durante il primo soggiorno di Nietzsche, e precisamente il 26 maggio 1888, morì Ascanio Sobrero, il vero inventore della dinamite. Il giorno dopo, la «Gazzetta Piemontese», che Nietzsche leggeva di preferenza, dedicò all'illustre scienziato un lungo e vistoso articolo in prima pagina, nel quale, naturalmente, si parlava anche della «dinamite». Ben in vista anche il necrologio apparso sulla «Gazzetta del Popolo». Ne riporto un passo: «Il nome di Sobrero è noto in Italia ed all'estero per la scoperta della dinamite». A parte i giornali, è probabile che Nietzsche abbia sentito parlare di Sobrero anche da Davide Fino o da altre persone. Lo scienziato, infatti, era molto noto anche fuori degli ambienti scientifici, perché era stato per lunghi anni nel Consiglio comunale. Ma la cattedra di chimica, nel 1855, non la dettero a lui, bensì a un certo Piria. Forse si temeva che Ascanio Sobrero, con la sua intelligenza geniale, avrebbe potuto arrecare disturbo alla mediocrità accademica.

Ma torniamo a Nietzsche: siccome le sue fissazioni aumentavano col progredire della sua pazzia, ecco che, a un certo punto, incominciò a considerare i suoi scritti, specialmente l'Ecce homo, come cariche di esplosivo destinate a far saltare in aria i ponti della storia, sì da separare irreparabilmente un'epoca prenietzscheana da una postnietzscheana: «L'Ecce homo è stato spedito l'altro ieri a C.G. Naumann, dopo che io, per ultimo scrupolo di coscienza, l'avevo messo ancora una volta, dalla prima all'ultima parola, sulla bilancia d'oro. Esso sorpassa talmente il concetto di "letteratura", che perfino nella natura, propriamente parlando, manca il paragone: spacca in due, letteralmente, la storia dell'umanità — massimo superlativo di dinamite...».

Ma citiamo anche qualche passo dell'abbozzo di lettera a Georg Brandes, che era rimasto sconosciuto e che ora è stato completamente decifrato dal Montinari: «Caro amico, ritengo necessario metterla al corrente di un paio di cose di primissimo ordine: dia la sua parola d'onore che tutta la faccenda rimarrà tra noi [...]. Io preparo un evento che con estrema probabilità spaccherà la storia in due metà, fino al punto che avremo una nuova cronologia: a partire dal 1888 come anno Uno. Tutto quanto, oggi, è sulla cresta dell'onda, Triplice Alleanza, questione sociale, trapasserà completamente in una posizione di antagonismo tra gli individui: avremo guerre come non ce ne sono, ma non tra nazioni, non tra classi: tutto è saltato in aria, — io sono la dinamite più pericolosa che ci sia». Dopo aver detto di prevedere, per la traduzione dell'Anticristo, «un milione di esemplari in ogni lingua come prima tiratura», continua: «Poiché si tratta di un colpo demolitore contro il cristianesimo, è evidente che l'unica potenza internazionale, che abbia un interesse istintivo all'annientamento del cristianesimo, sono gli ebrei [...]. Di conseguenza dobbiamo assicurarci tutte le potenze decisive di questa razza in Europa e in America: a ciò si aggiunga che un movimento tale ha bisogno del grande capitale [...]. Il risultato è che qui la dinamite farà saltare ogni organizzazione dell'esercito, ogni costituzione: che gli avversari non saranno in grado di mettere in piedi qualcos'altro e si troveranno impreparati alla guerra. Tutto sommato avremo dalla nostra parte gli ufficiali nei loro istinti: che sia in sommo grado disonorevole, vile, sudicio essere cristiani risulta inequivocabilmente dal mio "Anticristo" […]. Quanto all'imperatore tedesco, so io come trattare questa specie di idioti bruni [...]. Il mio libro è come un vulcano, tutta la letteratura passata non è in grado di dare un'idea di ciò che in esso iene detto, e del modo come i segreti più profondi della natura umana balzino fuori con chiarezza terrificante. Vi è in esso n modo di pronunciare la condanna a morte che è semplicemente sovrumano […]. Quando infine leggerà la legge contro il cristianesimo, che è firmata l'"Anticristo" e chiude il libro, chissà, temo che persino a lei tremeranno le ossa.. .».

Queste minacce da artificiere della storia, però, non erano destinate all'ufficialità. Nietzsche ne faceva uso nelle lettere e negli appunti diretti ai pochi amici. O le destinava al consumo privato, per confermare a se stesso il potenziale di cui disponeva e la sua fatale capacità di seminare il terrore. Ma «nella pratica, — dice il Podach, — egli seguiva la massima della vita prudente, già impostagli dalla salute continuamente minacciata. Non si mescolò ai dinamitardi. Con l'esplosivo accumulato era cauto. Il piano di radere al suolo la città di Roma lo custodì come massimo segreto di Stato. Non inviò lettere a Bismarck, né a Guglielmo II. Anche i proclami ai sovrani e ai principi della Chiesa dell'inizio del 1889 non furono spediti. Non si lasciava dominare senza resistenza dalle chimere che inseguiva: ci giocava come con delle marionette».62 Va anche detto che i nomi di Bismarck e del Kaiser, negli abbozzi e nei frammenti, sono quasi sempre scritti con le sole iniziali: non si sa mai.

Oltre che al Bonghi, amico di Gobineau, Nietzsche aveva pensato, per una traduzione italiana delle sue opere, al Carducci: «Egregio signore, so bene quanto lei conosca il tedesco: rifletta se non voglia presentare agli italiani questo scritto Nietzsche] c[ontra] Wfagner]». Da dove spuntano, ora, questi letterati italiani? Ricordi di letture di giornali o di conversazioni con Malwida von Meysenbug, che della letteratura italiana era molto al corrente? E difficile credere che Nietzsche conoscesse direttamente l'opera del Carducci, lui che non si era mai interessato alle cose italiane. La comparsa del nome di Crispi in questi scritti febbrili, invece, la si può spiegare col fatto che Nietzsche aveva probabilmente visto lo statista ai funerali del principe di Carignano, oltre a incontrare di continuo il suo nome nella pagina politica dei giornali.

Nei momenti di lucidità — che sono frequenti, come sa chiunque non consideri in modo superstizioso la malattiamentale — Nietzsche dimostra saggezza. A Gast, che si era dimostrato riluttante a scrivere con Fuchs una brochure antiwagneriana dal titolo Il caso Nietzsche. Osservazioni marginali di due musicanti, egli risponde: «Lei ha mille ragioni! Avverta lei stesso Fuchs... In Ecce homo lei troverà una pagina inaudita sul Tristano, specialmente sul mio rapporto con Wagner. Wagner è assolutamente il primo nome che figuri in E. h.». Poi, di scatto: «Ah, amico! quale attimo! — Quando è giunta la sua cartolina, che cosa facevo... Era il famoso Rubicone... — Il mio indirizzo non lo so più: supponiamo che, in un primo momento, potrebbe essere il palazzo del Quirinale». Il 30 dicembre, scrive una lettera lunga e controllata ad Andreas Heusler, suo collega all'università di Basilea, chiedendogli in prestito il danaro che gli occorre per riscattare le sue opere dall'editore Fritzsch (Overbeck dirà poi che tale lettera aveva suscitato molto stupore sia in lui che in Heusler); ma il giorno dopo ecco la lettera, già citata, a Strindberg: «Lei sentirà fra breve la risposta alla sua novella — essa suona come una schioppettata. Ho convocato un congresso di principi a Roma, voglio far fucilare il giovane Kaiser. Arrivederci! Perché ci rivedremo. Une seule condition: Divorcons... Nietzsche Caesar».

Alle lettere o abbozzi di lettere inequivocabilmente folli, inoltre, fa riscontro la puntualità nel seguire la stampa di Ecce homo e di Nietzsche contra Wagner, l'opera in cui voleva dimostrare che le sue critiche al grande musicista risalivano ad almeno dieci anni prima del Caso Wagner. Cartolina postale all'editore Naumann: «Ho dimenticato un accento a pagina 4: Geraudel. A pagina 6, quinta riga dal basso, deve leggersi: per tre motivi. Un buon anno — per tutti e due. N.». Misteri dell'animo umano: mentre gli si appannava la coscienza e gli si aprivano le porte del manicomio, Nietzsche pensava all'accento delle pastiglie Geraudel! Due giorni dopo, altra cartolina a Naumann: «A pagina 6, in fondo, il testo dev'essere ampliato così: "per tre motivi, faccio eccezione per l'Idillio di Sigfrido di Wagner, forse anche per Liszt, che più di tutti gli altri musicisti ha accenti nobili nell'orchestra; infine, per tutto ciò che è cresciuto al di là delle Alpi — al di qua... [Non potrei omettere] Rossini ecc. ecc."». Ma diamo la parola a Colli e Montinari. Il 29 dicembre, «Nietzsche invia le ultime aggiunte e correzioni per Ecce homo; tra queste il nuovo paragrafo 3 di Perché sono così saggio e il ditirambo Gloria e eternità, che deve chiudere l'opera: secondo le sue istruzioni devono essere invece tolti dal manoscritto sia la Dichiarazione di guerra (che probabilmente Nietzsche considera superata dal suo "promemoria"), sia Il martello parla, ambedue testi che egli aveva aggiunto durante la revisione dei primi di dicembre. 30 dicembre: cartolina di Nietzsche a Naumann per una nuova correzione supplementare nel capitolo Intermezzo di Nietzsche contra Wagner. 1° gennaio 1889: Nietzsche chiede indietro Gloria e eternità. 2 gennaio 1889: chiede indietro, telegraficamente, anche La povertà di chi è più ricco (che doveva chiudere Nietzsche contra Wagner). Conclusione del manoscritto dei Ditirambi di Dioniso, a cui Nietzsche destina — come risulta dall'indice da lui scritto alla fine del manoscritto — sia Gloria e eternità sia La povertà dì chi è più ricco. Nietzsche ha definitivamente rinunciato alla pubblicazione di Nietzsche contra Wagner».

Tutto questo ha indotto molti critici a pensare che Nietzsche sia rimasto lucido fino all'ultimo momento e che la sua follia sia esplosa ex abrupto. Anche il Montinari scrive a questo riguardo: «Tuttavia, dal fatto che la follia è in agguato, non si dovrebbero trarre delle conclusioni affrettate in merito a tutto ciò che Nietzsche ha fatto prima che smarrisse il mondo e la propria identità (come, mettiamo, a partire dal 4 gennaio 1889 con i cosiddetti biglietti della pazzia). Ecco, ad esempio - e questo esempio importa particolarmente nel caso nostro -, la lucidità con cui Nietzsche, da Torino, ha seguito e diretto la stampa di Ecce homo e di Nietzsche contra Wagner... La sua "coscienza di scrittore", Nietzsche, l'ha certamente persa proprio alla fine». Ma bastano le due cartoline a Naumann e l'aver seguito la stampa delle sue opere, per sostenere che Nietzsche conservò la «coscienza di scrittore» sino alla fine?

Anche Elisabeth Förster, naturalmente, sostiene la tesi della lucidità fino in fondo, ma è una tesi insostenibile. Circa la «coscienza di scrittore» c'è qualcosa da dire. Idee e sentimenti sono sicuramente i primi a cedere nel caso di una malattia mentale. Resistono invece più a lungo gli automatismi, le «tecniche» del vivere: e per uno scrittore, questi automatismi investono, naturalmente, le abitudini e le forme del «mestiere» intellettuale. Non sopravvaluterei, quindi, la coerenza dei comportamenti di Nietzsche in questa sfera. Si pensi all'alta qualità delle ultime poesie di Hölderlin, scritte quando già la sua mente aveva varcato l'ultimo confine del male: «Con lo spirito completamente rovinato, scrisse i suoi tardi Inni, che da alcuni vengono annoverati fra le più belle poesie della lingua tedesca». Nello stadio avanzato della sua schizofrenia, Hölderlin scriveva cose che, paragonate agli ultimi scritti di Nietzsche, ivi compreso l'Ecce homo, appaiono limpidissime. Si legga, a questo proposito, l'interessante libro di W. Waiblinger, che gli fu per molto tempo vicino, a partire dal 1822: Der kranke Hölderlin, Leipzig 1913.

Che cosa avveniva a Torino, mentre l'illustre torinese d'adozione sprofondava nella follia? Ironia della sorte: la città si apprestava a fare un'altra apoteosi di Wagner. La «Gazzetta Piemontese» del 26 dicembre usciva con un lungo articolo sull'imminente rappresentazione del Tannhäuser: «Domani Torino conterà tra i suoi fasti un fasto artistico di più: la rappresentazione del Tannhäuser al Regio [....]. La riproduzione dell'opera wagneriana sulle nostre più grandi scene era giustamente attesa, era doverosa. Torino, che aveva, seconda tra le città italiane, accolto trionfalmente il Lohengrin, che del Vascello fantasma aveva tosto apprezzato le pagine potenti per colorito, per arte descrittiva, cui una sola rappresentazione della trilogia con prologo era bastata non solo per intravedere i lampi di una meravigliosa fantasia, ma per afferrarne subito molte delle superbe bellezze, onde di alcune pagine s'era voluto il bis, Torino, dico, aveva ben diritto, dopo quaranta e più anni da che il dolente cavaliere di Turingia corre con varia fortuna i teatri del mondo, a dare il proprio giudizio intorno all'opera di Riccardo Wagner». Così scriveva il Ferrettini; e il successo dell'opera, andata in scena la sera del 27 dicembre, fu strepitoso. «Successo serio, — scriveva due giorni dopo lo stesso Ferrettini —, quale forse avrebbe desiderato lo stesso Wagner; ad ogni modo ben addicentesi a una musica che non porge il destro al volgare applauso, troppe volte strappato al pubblico con mezzucci triviali.» Tannhàuser, il «Messie du laid», come lo chiamò il Fétis, s'imponeva anche a Torino «con la potenza del genio». Ancora più entusiastiche le cronache dei giorni seguenti. Se Nietzsche aveva scritto «tutto Torino carmenizzato», a maggior ragione avrebbe potuto scrivere, ora, «tutta Torino wagnerizzata». Questa era la città in cui egli aveva concepito e scritto Il caso Wagner, e l'evento accadeva sotto i suoi occhi, trovandosi il Regio a brevissima distanza da casa sua, tanto che, se si fosse affacciato alla finestra, avrebbe forse potuto sentir echeggiare lo scroscio degli applausi. Dirigeva il maestro Bolzoni, e la «Gazzetta Piemontese», ancora il 31 dicembre, continuava, come del resto gli altri giornali, a parlare di «Successo strepitoso del Tannhäuser al Regio».

Non basta. Nel programma di Musica al pubblico, eseguita dalla banda municipale, il pomeriggio del 30 dicembre, nella Galleria Subalpina, proprio sotto la camera di Nietzsche, il pezzo forte era rappresentato dalla «Gran marcia e coro dell'opera Tannhäuser di Wagner». L'esecuzione fu ripetuta il pomeriggio del 6 gennaio 1889; ma questa volta venne eseguita anche la sinfonia dell'opera. Sembrava insomma che lo facessero apposta. Di tutte queste «wagnerie», però, Nietzsche non fa parola. Forse non volle accorgersi di essere capitato in una delle roccaforti del wagnerismo in Italia.

In una interessantissima lettera, peraltro non spedita, Nietzsche inizia proprio col concerto bandistico sotto la sua finestra. Più esattamente, si tratta di un abbozzo di lettera a Gast, rinvenuto fra le carte torinesi e conservato nell'archivio di Weimar. Dopo averlo decifrato per intero, Montinari l'ha pubblicato nelle «Nietzsche-Studien». Val la pena di tradurlo tutto, perché contiene dei riferimenti importanti e rappresenta una specie di autoapoteosi della follia. Credendosi ormai il Cesare dei Cesari, cui i torinesi vanno a rendere gli onori con la banda musicale, Nietzsche scrive:

Domenica - Domenica par excellence (sebbene sia fosco) [30 dicembre]

Vecchio amico,

sotto la mia finestra [nella Galleria Subalpina] suona a tutta forza, proprio come se io fossi già [principe] [di Torino] princeps Taurinorum, Caesar [Caesarum] e simili, [la magnifica] [bella] [possente] orchestra municipale [di Torino]: [per esempio la] per esempio fra l'altro rapsodia [hongroise] [di Liszt, Carnevale di Pest] [Liszt ha accenti nobili di fronte a tutti i musicisti ] [per esempio] io riconosco [io la] la grandiosa opera Cleopatra di Mancinelli. Poc'anzi sono passato vicino alla Mole Antonelliana [— strano, essa non ha ancora un nome —], l'edificio più geniale che sia stato forse costruito [— strano, esso non ha ancora un nome —] per un assoluto impulso verso l'alto, — non ricorda nient'altro se non il mio Zarathustra. L'ho battezzata Ecce homo e l'ho circondata nel mio spirito con un immenso spazio libero. — Poi sono andato al mio palazzo, ora palazzo Madama [— la madama la procuriamo noi —]: può rimanere perfettamente [com'è], la specie di gran lunga più pittoresca di castello concepito in grande — segnatamente [una] tromba di scale. Poi ho ricevuto una lettera di omaggio dal mio poeta [svedese] Auguste Strindberg, [un vero genio in onore della mia] [su] [la] «grandiosissime Genealogie de la Morale», [con la nuova espressione de sa] profonde admiration. Poi ho scritto, in una [maniera] alterigia eroico-aristofanesca, un proclama alle corti europee per uno sterminio della Casa Hohenzollern, [di questi idioti scarlatti e razza di delinquenti da più di cento anni]; ho inoltre disposto per il trono di Francia [anche dell'Alsazia-Lorena], facendo imperatore Victor Buonaparte, fratello della nostra Laetitia, e nominando ambasciatore [di Francia] alla mia corte il mio distinto Ms Bourdeau, redattore capo del Journal de [Genève] Débats e della Revue des deux Mondes, — poi ho mangiato a mezzogiorno dal mio cuoco [( non per niente egli si chiama de la Pace —)] e ora scrivo una lettera al mio amico e supremamente perfetto maestro, per mettergli in vista teatri, orchestre e ogni specie di camera... Per amor suo, ho anche già scritto la più bella pagina sulla musica che forse sia stata scritta — e, infine, non per amor suo, ma per amor di qualcuno — il quale, la quale —, il quale — la quale deve una volta leggere la pagina...

Friedrich Nietzsche N.76 (Difficile dire se «N.» qui, sia l'abbreviazione e quindi la ripetizione di Nietzsche o, molto più probabilmente, l'abbreviazione di Napoleone. Date le numerose metamorfosi o reincarnazioni di Nietzsche in quei giorni, propenderei per l'ultima ipotesi. Del resto, Napoleone sta molto bene in compagnia del «princeps Taurinorum», del «Caesar Caesarum» e di chi dispone, nelle vesti di una specie di supersovrano, del trono di Francia, ecc.)

— A novembre, fui anche presente al funerale del vecchissimo Antonelli. — Egli visse [precisamente così a lungo], finché non fosse finito Ecce homo, il libro. — Il libro e l'uomo in aggiunta...

—  Ieri ho spedito alla stamperia il mio non plus ultra, intitolato Gloria e eternità, poetato al di là di tutti i sette cieli. Forma la chiusa di Ecce homo. — Si muore, se lo si legge impreparati...

Alla mia corte si parlerà tedesco: perché le più alte opere dell'u[manità] sono scritte in tedesco...

Ginnastica e prendere Pastilles Géraudel...

In testa e a margine della lettera, Nietzsche scrisse anche le seguenti parole per Jean Bourdeau: «Affinché io non le nasconda i miei pensieri segreti, le mando una lettera che ieri [ho spedita al signor Peter Gast] ho scritta per il mio maestro, il signor Pietro Gasti — e che [deve] può aspettare ancora un paio di giorni... L'autorizzo a fare qualsiasi uso di questa lettera]». E ancora: «Se me ne prega, riceverà anche il proclama per il J[ournal] des Debats / esso basta... Triple alliance — ma questo è solo [un] [eufemismo] una gentilezza per mesaillance... ».

La lettura richiede un commento. Il concerto della banda municipale di Torino sotto la Galleria Subalpina si svolse dalle due alle quattro pomeridiane del 30 dicembre 1888. Così possiamo anche stabilire con esattezza l'ora delle affabulazioni cesaree dell'autore. Il programma comprendeva: «1) Marcia; 2) Sinfonia Cleopatra, Mancinelli; 3) Valzer Tutti un fiore a Savoia, Fossati Reyneri; 3) Sesta rapsodia ungherese Pesther Carneval, Liszt; 5) Mazurka Ricordo di Correggio, Casarini; 6) Gran marcia e coro dell'opera Tannhàuser, Wagner; 7) Polka Fior d'arancio, Bonati».

Va rilevato, anzitutto, che per Nietzsche la banda municipale di Torino diventa «das prachtvolle, schòne, màchtige Municipal-Orchester». Il donchisciottismo letterario (di vecchia data) si manifesta nella disponibilità all'uso del superlativo; d'altra parte una semplice Stadtkapelle o Blaskapelle sarebbe stata troppo modesta per il «princeps Taurinorum», per il «Caesar Caesarum». Ma conosceva davvero, come si potrebbe dedurre dal verbo «erkenne», riconosco, la musica di scena Cleopatra del Mancinelli, o avrà letto il programma pubblicato dai giornali? Il fatto che parli prima di Liszt, quarto della serie, e poi di Mancinelli, secondo, lascia pensare che attingesse proprio dal programma. Si noti, intanto, come egli non accenni minimamente a Wagner; e sì che i bombardini dovettero rintronargli il padiglione degli orecchi. Ma Nietzsche, pur di ignorare il nome di Wagner, sarebbe stato disposto a dire, per partito preso, «non sento». Lo stesso concerto, sempre sotto la Galleria Subalpina, fu ripetuto, s'è detto, il pomeriggio del 6 gennaio 1889; e questa volta, del Tannhàuser, fu eseguita anche la sinfonia. E il nostro «Supercaesar»? Non disse nulla: probabilmente gli ottoni del «Municipal-Orchester» gli avranno fatto tremare, non che la penna, il trono. Ancora un'osservazione: il nome di Cleopatra deve aver richiamato alla mente di Nietzsche, per associazione di idee, quello di Cesare. Così si spiegano il «Caesar Caesarum» e la metamorfosi in «Nietzsche-Caesar» che troviamo nella lettera a Strindberg del giorno dopo.

[…]

La lettera di Nietzsche termina in maniera tragicomica. Dopo aver avvertito della pericolosità della sua poesia, quasi si trattasse dei fili dell'alta tensione, Zarathustra evoca la ginnastica e le pastiglie lassative Géraudel. Fa quasi l'effetto di una sghignazzata o di uno sberleffo. All'indirizzo di chi? Non sarebbe certo il caso di sottolineare queste tragiche cadute confusionali, se molti fanatici e dottori sottili non si basassero proprio su talune prese di posizione dell'ultimo Nietzsche per affermare che egli era profondamente antitedesco, europeista e internazionalista. Ma ora Nietzsche li avverte: «Alla mia corte si parlerà tedesco». Come orientarsi nel labirinto delle inevitabili contraddizioni di un pensiero malato?

Il 1° gennaio del 1889, a Torino, ci fu anche una scossa di terremoto: «Stamane dopo poco le due si è sentita a Torino una lieve scossa di terremoto. Però l'hanno sentita solo quelli che stando a letto non potevano dormire avendo ancora da digerire il pranzo luculliano dell'ultimo giorno».78 Ecco una notizia che sarebbe piaciuta a Elisabeth Förster per l'agiografia del fratello! Come poteva, la terra, rimanere impassibile alla comparsa del nuovo messia? E non solo la terra: oltre al terremoto, infatti, ci fu un'eclisse solare, sia pure assai lontano da Torino, cioè nei paesi bagnati dall'Oceano Pacifico. Ma ci fu: «Intanto il 1889 comincia con un'eclisse di sole... È un caso rarissimo quello di un anno che incomincia con un'eclisse ii sole».

[…]

Il cervello di Nietzsche, intanto, può produrre soltanto trucioli, briciole, frammenti o parti di frammenti. Alcuni sono noti, altri lo saranno con l'edizione critica di Colli e Montinari, altri sono andati dispersi o sono stati distrutti. Di quelli rimasti cercheremo di dare un buon campionario al nostro lettore.

Nietzsche affermava di aver scritto l'Ecce homo in meno di tre settimane. A prenderlo alla lettera, dovremmo non solo credere che l'opera fosse finita il 4 novembre, ma anche stampata alla fine di dicembre, perché egli si mise a scrivere missive di accompagnamento, per altro non spedite, per l'invio dei primi esemplari. A Cosima Wagner: «Venerata signora, in fondo l'unica donna che io abbia venerata — ... voglia accettare il primo esemplare di questo Ecce homo. Qui, in fondo, vengono trattati male tutti, eccetto Richard Wagner — e anche Torino. Malwida vi compare come Kundry... L'Anticristo». Ma il primo esemplare non era stato destinato a Bismarck? In un altro abbozzo di lettera, infatti, si legge: «A Sua Serenità il Principe Bismarck. Al primo uomo di Stato della nostra epoca io faccio l'onore, mediante l'offerta del primo esemplare di Ecce homo, di annunziargli la mia inimicizia. Allego un secondo esemplare: metterlo nelle mani del giovane Imperatore tedesco sarebbe l'unica preghiera che io abbia mai pensato di rivolgere al Principe Bismarck. L'Anticristo Friedrich Nietzsche Fromentin. Torino, via Carlo Alberto 6, III».

Qui Bismarck, «l'idiota par excellence fra tutti gli uomini di Stato», diventa, in ossequio alle convenienze, «il primo uomo di Stato della nostra epoca». In ogni caso, Bismarck era pur sempre da considerarsi come il suo più degno antagonista politico.

Il molteplice primo esemplare dell'Ecce homo, intanto (l'opera sarà pubblicata solo nel 1908), Nietzsche, non che a Cosima e a Bismarck, pensa di mandarlo anche a Guglielmo II, come si rileva da quest'altro abbozzo di lettera: «Con la presente, io faccio all'Imperatore dei tedeschi il più alto onore che gli possa toccare, — gli offro il primo esemplare dell'opera in cui si decide il destino dell'umanità. Con ciò incomincia un momento di profondissima autocoscienza, — le conseguenze saranno enormi, saranno perfino terribili: e in primo luogo viene confutato un equilibrio di tutte le forze». Nel più lungo dei tre abbozzi di lettera all'imperatore, Nietzsche dice che con l'Ecce homo «si annuncia la vicinanza di qualche cosa di immenso — di una crisi come non ce n'è [ancora] state sulla terra», di una profondissima collisione di coscienze all'interno dell'umanità, «per provocare una decisione contro tutto ciò che finora [è] stato — era — creduto, richiesto, santificato. E con tutto ciò non c'è nulla, in me, di un fanatico...».

Dedica i Ditirambi di Dioniso a Catulle Mendès: «Volendo rendere all'umanità un beneficio sconfinato, le do i miei Ditirambi. — Li metto nelle mani del poeta di Isoline, il più grande e primo satiro che viva oggi — e non solo oggi... Dioniso». Il primo abbozzo, invece, dice: «Otto inedita e inaudita, offerti con alta distinzione al poeta di Isoline, mio amico e satiro: voglia egli consegnare il mio dono all'umanità. Nietzsche Caesar86 Dioniso. Torino, 1° gennaio 1889». Col poeta e scrittore francese Catulle Mendès Nietzsche aveva probabilmente avuto qualche fuggevole rapporto nella cerchia di Wagner, dove l'aveva incontrato. Se ci siano stati altri rapporti non Io sappiamo. Perché, dunque, pensa di dedicare proprio a lui i Ditirambi? Non si sa. Forse è giusta l'ipotesi del Podach, e cioè che Mendès ricordava a Nietzsche il tempo di Tribschen. Il fatto, poi, che lo chiami il «poeta di Isoline» può spiegarsi così: il 26 dicembre del 1888, nel teatro della Renaissance di Parigi, si ebbe la prima di «Isoline, conte de fées, en 10 tableaux, par Catulle Mendès, musique d'André Messager». Nietzsche potè averne notizia dal «Journal des Dé-bats», che ne parlava nel numero del 31 dicembre, uscito a Parigi il pomeriggio del giorno 30. Data la regolarità (e la celerità) con cui allora funzionava la posta, niente di strano che Davide Fino abbia potuto portare il giornale al suo inquilino già il 31 dicembre o al massimo il 1° gennaio. Podach, invece, pensa che Nietzsche sia andato a leggerselo nel Caffè di Londra in via Po. Ma potrebbe aver avuto notizia dell'opera anche prima che si rappresentasse.

Non è il caso, qui, di addentrarsi in un esame critico dei Ditirambi di Dioniso, ora tradotti da Giorgio Colli nel volume VI/4 dell'edizione Adelphi. Quel che vorrei dire, più in generale, è che nella pazzia di Nietzsche riaffiorano in forma patologica quasi tutti gli stessi motivi o argomenti che troviamo negli scritti della lucidità. Cosi egli, che non aveva mai smesso di vantare la sua presunta ascendenza polacca, ora si fa addirittura paladino della Polonia. Già in una variante di un passo dell' Ecce homo aveva scritto: «A parte, qualche cosa da cantare, ma solo per le illustrissime orecchie del principe Bismarck: Ancor non è la Polonia perduta, — Perché vive Nietzky ancora...». Egli rievoca, qui, un Polenlied di Ernst Ortlepp. Ed ecco, ora, il biglietto ai polacchi, rinvenuto fra le carte torinesi: «Ai nobili polacchi. Io faccio parte di voi, sono ancora più polacco di quel che io non sia Dio, voglio darvi onore, per quanto io possa dare onore... Io vivo in mezzo a voi come Matejko... Il Crocefisso».

Ma alcune delle lettere o biglietti dell'ultimo periodo torinese giunsero a destinazione. A volte sono di una bellezza sublime. Incominciamo con quelli a Cosima Wagner. Fino al 1956, se ne conosceva solo uno, reso noto dalla sorella di Nietzsche: «Arianna, io ti amo. Dioniso». Ma questo biglietto, di cui non esiste l'originale, è quasi sicuramente un falso. Il Podach lo riprende dall'Andler e questi, a sua volta, scrive: «Ce billet nous est connu par le témoignage de Peter Gast e de Mme Förster-Nietzsche elle-mème, à qui Mme Cosima Wagner l'a révélé». È strano, però, che non vi accennasse Cosima Wagner stessa, che pure parlava degli altri biglietti ricevuti. Se di una lettera di Nietzsche, pubblicata dalla sorella, non esiste l'originale, state pur certi che si tratta di un falso. Ciò vale, s'intende, anche per le «copie» che Elisabeth dice di aver fatto degli originali, che sarebbero andati «distrutti» per questo o per quel motivo. Con tali accorgimenti, smascherati dallo Schlechta, la brava signora fa dire al fratello quello che vuole. Non si creda, però, che prima di Schlechta, anzi molto prima, nessuno sospettasse o si accorgesse di certe manipolazioni di Elisabeth.

Nessun dubbio, invece, sull'autenticità dei biglietti a Cosima Wagner pubblicati per la prima volta dal Westernhagen, il quale aggiunge anche la fotocopia degli originali. Sono tre e portano tutti la stessa data, che è quella del timbro postale: «Torino Ferrovia 3.1.89». Il testo del primo, indirizzato a «Madame Cosima feu Wagner — Bayreuth — Allemagne», è: «Mi si dice che un certo divino Hanswurst, in questi giorni, ha concluso i Ditirambi di Dioniso...». Il secondo, indirizzato a «Frau Cosima Wagner — Bayreuth — Germania», dice: «Alla principessa Arianna, mia amata. Che io sia un uomo è un pregiudizio. Ma io ho già vissuto spesso fra gli uomini e conosco tutto ciò che gli uomini possano provare, dalle cose più basse fino a quelle più alte. Sono stato Buddha fra gli indiani e Dioniso in Grecia, — Alessandro e Cesare sono mie incarnazioni, come pure Lord Bakon, il poeta di Shakespeare. Da ultimo, ancora, sono stato Voltaire e Napoleone, forse anche Richard Wagner... Ma questa volta vengo come il vittorioso Dioniso, che farà della terra un giorno di festa... Non avrei molto tempo... I cieli si rallegrano che io sia qui... Sono stato anche appeso alla croce...». L'indirizzo del terzo è «Frau Cosima Wagner — in — Bayreuth — Germania», ed eccone il testo: «Questo breve all'umanità tu devi pubblicarlo, da Bayreuth, con l'annotazione: La lieta novella».

Nessuno, a Bayreuth, si meravigliò di questi biglietti. Nessuno mosse un dito; e questo, dice il Podach, dimostra quanto là si fosse seriamente convinti che Nietzsche era uscito di senno già da lungo tempo. Solo che non sappiamo, nonostante la pubblicazione della corrispondenza fra Wagner e Otto Eiser, il medico di Nietzsche durante la crisi del 1877, se questa convinzione si basasse più su una diagnosi spassionata o sul voltafaccia di Nietzsche nei riguardi del maestro.

Anche Malwida von Meysenbug ricevette un biglietto; ma anche lei, forse perché già abituata alle pazzie di Nietzsche, non sembra essersi agitata constatando che il suo vecchio amico era uscito completamente di senno. A Paul Deussen, invece, Nietzsche-Dioniso assegna un posto d'onore: egli «dev'essere, insieme con Monsieur Catulle Mendès, uno dei miei grandi satiri e animali da festa». I due, in altre parole, chi come satiro e chi come animale da festa, avrebbero dovuto prendere parte al corteo trionfale di Nietzsche per le sue nozze «dionisiaco-ariannesche».

E il «Promemoria» contro il Reich? Nietzsche lo scrisse davvero e lo mandò al Bourdeau, il quale, dopo averlo letto e dopo essere, sicuramente, rimasto sorpreso, rispose il 4 gennaio 1889 semplicemente così: «J'ai regu également votre manuscript de Turin, qui témoigne de vos sentiments anti-prussiens... Il ne me semble pas de nature à pouvoir ètre publié».

Altre lettere vengono spedite a Hans von Bülow, Rohde, Spitteler, Meta von Salis, al cardinale Mariani, al re Umberto. Rohde, cui Nietzsche rimprovera ancora la «cecità verso Taine», che «in passato ha composto il Veda», viene innalzato «fra gli dèi». Nella lettera al re d'Italia, Nietzsche scrive: «Al mio amato figlio Umberto. La mia pace sia con te! Martedì vengo a Roma e voglio vederti accanto a Sua Santità il Papa. Il Crocefisso». Egli pensava, evidentemente, di poter prendere parte alla riunione di principi europei che si doveva tener nella capitale italiana l'8 gennaio. Con altrettanta enfasi ieratica Nietzsche si rivolge al cardinale Mariani, segretario di Stato: «Al mio amato figlio Mariani... La mia pace sia con te! Martedì vengo a Roma per manifestare la mia venerazione a Sua Santità... Il Crocefisso».

Oltre a questo, Nietzsche-Crocefisso avrebbe voluto fare in modo che gli Hohenzollern fossero tenuti lontani dal congresso di principi: «Guglielmo, Bismarck e tutti gli antisemiti [sono] aboliti», dirà al Burckhardt. La sua maledizione messianica si è concentrata sugli Hohenzollern, responsabili, secondo lui, di aver rovinato la cultura tedesca e per conseguenza quella europea. E indirizza consigli anche alle case principesche: «Alla casa Baden. Figlioli, non fa bene, se ci si mischia con i pazzi Hohenzollern, sebbene, tramite Stefania, si sia della mia razza... Ritiratevi modestamente a vita privata; lo stesso consiglio lo do alla Baviera... Il Crocefisso». Probabilmente Nietzsche alludeva a una vaga parentela fra Napoleone e la casa di Baden. Stefania non può essere che Stéphanie de Beauharnais, figlia adottiva di Napoleone e poi granduchessa di Baden. Ma perché della «mia razza»? Perché Nietzsche credeva di essersi reincarnato in Napoleone. Frammentario il biglietto a Carl Spitteler, dove Nietzsche parla comunque della sua «divinità». Il destinatario lo definì «uno spiacevole e pietoso guazzabuglio».

Pieno di slancio e di tragica bellezza è il biglietto a Gast (la data è quella del timbro postale: 4.1.89): «Al mio maestro Pietro. Cantami una nuova canzone: il mondo è trasfigurato e tutti i cieli si rallegrano. Il Crocefisso». La risposta di «maèstro Pietro» è stupefacente: «Devono essere grandi cose, quelle che procedono con lei. Il suo entusiasmo, la sua salute e tutto ciò che lei, con il corpo puro e la mente consacrata, ha fatto o lascia supporre come fatto devono smuovere anche i più infermi; lei è una salute contagiosa; l'epidemia di salute, che lei una volta desiderava, l'epidemia della sua salute non può mancare. Solo a Berlino mi ha raggiunto l'invocazione del Crocefisso. Il tempo fa una faccia orribile; un'aria fredda, fumosa e pesante invita piuttosto al suicidio che alla danza... Pieno di felicità e di gioia per i suoi trionfi, pieno di venerazione». Il trionfo della pazzia! Qui son tutti pazzi, direbbe Shakespeare, sì che nessuno s'accorge della pazzia dell'altro.

Il biglietto a Meta von Salis dice: «Il mondo è trasfigurato, perché Dio è sulla terra. Non vede come tutti i cieli esultano? Ho or ora preso possesso del mio regno; getterò il Papa in prigione e farò fucilare Guglielmo, Bismarck e Stöcker». Nietzsche si ricorda anche di Hans von Bülow, al quale aveva raccomandato invano l'opera Il leone di Venezia di Gast, e ora si augura che quel leone lo sbrani: «La condanno al "Leone di Venezia" — che la possa divorare... Dioniso».

Solo Brandes non avrebbe avuto un attimo di esitazione: «All'amico Giorgio! Dopo che mi hai scoperto, trovarmi non era un gioco di bravura: la difficoltà, ora, è quella di perdermi... Il Crocefisso». «Questa è la lettera di un pazzo», avrebbe commentato Brandes, sebbene anche prima non gli fossero mancati dei motivi per fare una simile dichiarazione. Una lettera con la medesima data del timbro postale, cioè 4 gennaio 1889, viaggia anche all'indirizzo di Jacob Burckhardt: «Al mio venerabile Jakob Burckhardt. Questo è stato il piccolo scherzo, a causa del quale mi perdono la noia di aver creato un mondo. Ora lei è — tu sei — il nostro grande, grandissimo maestro: giacché io, insieme con Arianna, ho da essere soltanto l'aureo equilibrio di tutte le cose, in ogni cosa abbiamo di quelli che sono al di sopra di noi... Dioniso». Ci si chiede: perché Burckhardt non si recò subito da Overbeck, come invece avrebbe fatto dopo aver ricevuto una seconda lettera?

Ed ecco il testo integrale di questa seconda lettera, che non è soltanto la più lunga e la più tragica di tutte quelle scritte dopo la catastrofe, ma anche l'unica che sia firmata con il suo nome, anziché con quello di Dioniso o del Crocefisso (è del 5 gennaio 1889, data del timbro postale):

Caro signor professore,

in fondo sarei stato molto più volentieri professore basileese che Dio; ma non ho osato spingere così lontano il mio egoismo privato da tralasciare, per esso, la creazione del mondo. Vede, bisogna fare sacrifici, comunque e dovunque si viva. — Tuttavia, mi sono riservato una piccola camera da studente, che si trova di fronte al Palazzo Carignano (— nel quale sono nato come Vittorio Emanuele) e in più permette di sentire, dal proprio tavolo di lavoro, la magnifica musica nella Galleria Subalpina. Pago 25 franchi, servizio compreso, preparo il mio tè e faccio tutte le spese da solo, soffro di stivali rotti e ringrazio ogni momento il cielo per il vecchio mondo, per il quale gli uomini non sono stati abbastanza semplici e silenziosi. — Poiché sono condannato a intrattenere la prossima eternità con cattive spiritosaggini, ho qui un'attività scrittoria che veramente non lascia nulla a desiderare, molto carina e nient'affatto faticosa. La posta è a cinque passi, imbuco io stesso le lettere per trasmettere il grande fogliettonista «der grande monde» [sic!]. Naturalmente, sono in stretti rapporti con il Figaro, e affinché lei abbia un'idea di quanto io possa essere innocuo, ascolti le mie prime due cattive spiritosaggini:

Non prenda troppo sul serio il caso Prado. Io sono Prado, sono anche il padre di Prado, oso dire che sono anche Lesseps... Vorrei dare ai miei parigini, che amo, una nuova idea — quella del criminale dabbene. Io sono anche Chambige — anche lui un criminale dabbene.

Seconda spiritosaggine. Saluto gli Immortali. Daudet appartiene ai quarante.

Astu

Quel che è spiacevole e nuoce alla mia modestia è che io, in fondo, sono ogni nome nella storia; anche per i figli che ho messi al mondo le cose stanno in modo tale che mi chiedo con una qualche diffidenza se tutti quelli che vengono nel «regno di Dio» vengano anche da Dio. Per due volte, questo autunno, mi sono trovato, vestito il meno possibile, al mio funerale, dapprima come conte Robilant (— no, quello è mio figlio, in quanto io sono Carlo Alberto, la mia natura sotto) ma Antonelli ero proprio io. Caro signor professore, lei dovrebbe vedere questo edificio; dato che sono assolutamente inesperto nelle cose che creo, a lei qualsiasi critica; io sono grato, senza poter promettere di trarre vantaggio. Noi artisti siamo incorreggibili. — Oggi mi sono vista un'operetta — genial-moresca — e ho anche constatato con piacere, in questa occasione, che adesso Mosca come pure Roma sono cose grandiose. Vede, anche per il paesaggio non mi si nega del talento. — Rifletta, facciamo una bella chiacchierata, Torino non è lontana, per ora non ci sono impegni professionali molto seri, sarebbe possibile procurare un bicchiere di valtellinese. Prescritto il negligé. Con cordiale affetto, Suo

Nietzsche

Vado dappertutto nel mio vestito da studente, qua e là batto sulla spalla a qualcuno e dico: siamo contenti? son dio, ho fatto questa caricatura...

Domani viene il mio figlio Umberto con la graziosa Margherita, che qui, però, riceverò ugualmente solo in maniche di camicia.

Il resto per la signora Cosima... Arianna... Di quando in quando si fanno incantesimi...

Ho fatto mettere in catene Caifa; l'anno scorso sono stato crocefisso in maniera molto penosa dai medici tedeschi. Aboliti Guglielmo, Bismarck e tutti gli antisemiti.

Di questa lettera lei può fare qualsiasi uso che non mi diminuisca nella considerazione dei basileesi.

[…]

Per concludere la serie dei cosiddetti «biglietti della follia», riportiamo anche la lettera che Overbeck dice di aver ricevuto la mattina del 7 gennaio e che i biografi, senza dirci in base a quale elemento, datano al 6 gennaio 1889: «All'amico Overbeck e signora. Sebbene voi, finora, abbiate mostrato poca fiducia nella mia solvibilità, spero ancora di dimostrare che io sono qualcuno che paga i suoi debiti — per esempio verso di voi... Faccio fucilare tutti gli antisemiti». Avremo modo di ritornare su questa lettera.

Chi ci ha seguiti finora si sarà reso conto che è molto difficile sostenere la tesi di un Nietzsche che impazzisce all'improvviso, di un'anima folgorata e uccisa a ciel sereno. Molto più facile la tesi contraria, e cioè che siamo di fronte all'atto finale di un lungo processo patologico. Il Möbius, che era un eccellente psichiatra, fa risalire l'incubazione della malattia al 1866. Cosima Wagner, invece, era profondamente preoccupata per Nietzsche già nel 1874: «... le sue lettere sono raccapriccianti e davanti ai miei occhi si profila il destino di Hölderlin». Ma senza risalire tanto indietro, bastano già la megalomania e il tono di esaltazione delle lettere da Torino, che abbiamo di proposito riprodotte nel maggior numero possibile, per capire che la catastrofe era imminente. Si sarà anche notata una certa monotonia, perché Nietzsche, in fondo, ritorna sempre sulle stesse cose, anche se scrive a persone diverse.

Con le lettere noi abbiamo finora seguito la tragedia dall'interno, cioè attraverso le testimonianze dirette dell'autore stesso. Ora dobbiamo cercare di ricostruirla anche dall'esterno, esaminando le testimonianze delle persone che, in un modo o nell'altro, gli furono vicine e assistettero al suo rapido decadimento.

Finora i biografi hanno attinto quasi esclusivamente, per ciò che riguarda la catastrofe, a tre o quattro fonti, tutte di parte tedesca: Overbeck, Elisabeth Förster-Nietzsche, Bernoulli e anche Strecker. Dei quattro, solo il primo è una fonte diretta, in quanto venne a Torino per riportare Nietzsche a Basilea. Ma se Elisabeth Förster racconta le cose a modo suo o come meglio le fa comodo (è curioso vedere come i tanti critici e biografi credano a tutto ciò che ella scrive, senza curarsi minimamente di appurarne, la veridicità), Overbeck non dice sempre la verità, o almeno non dice tutta la verità. Accurate ricerche d'archivio e di biblioteca, nonché alcuni colloqui con gli eredi della famiglia Fino, mi hanno permesso di mettere in luce particolari ancora ignoti. Apriamo dunque un nuovo capitolo, per sfatare le molte leggende sulla tragica fine di Zarathustra.

[...]

LA TRAGEDIA VISTA DI QUA E DI LA DALLE ALPI (pp. 307-348)

Elisabeth Förster sapeva perfettamente come erano andate le cose, perché nel 1895 era stata a Torino e aveva avuto modo di intrattenersi a lungo con Davide Fino (il ricordo della sua visita si è tramandato agli eredi di Fino). Scrisse anche una lettera a Overbeck su carta intestata del Grand Hotel Turin, lo stesso in cui aveva abitato Overbeck quando era venuto a riprendere Nietzsche impazzito. In questa lettera, pubblicata solo in parte,1 si legge fra l'altro: «Fra pochi giorni vengo a Basilea e le sarei molto grata se mi dedicasse un'ora. Mi sembra estremamente necessario che parli io stessa con lei, in modo da dire scrupolosamente la verità in tutte le cose. La prego cordialissimamente di lasciare da parte, per un'ora, tutti i sentimenti personali e di pensare solo a questo: la grande cosa, che ora devo patrocinare, richiede certamente di essere appoggiata, mediante alcune benevole comunicazioni, anche da lei». Nessun accenno ai colloqui con Fino. Ma quale cosa avrebbe dovuto appoggiare, Overbeck? Probabilmente la fondazione dell'archivio nietzscheano a Weimar, di cui pure si parla nella lettera: «... poiché io rimarrò a Basilea solo tre giorni. Infatti, devo andare subito a Naumburg, dato che ora, in autunno, il Nietzsche-Archiv sarà visitato da una serie di persone molto interessanti». Ma è probabile che volesse anche chiedere a Overbeck di non dire nulla di quello che sapeva circa la catastrofe del fratello, cosa che avrà sicuramente chiesto anche ai Fino.

Il colloquio fra i due, però, non avvenne a Basilea, bensì a Lipsia. Lo apprendiamo da questa lettera di Overbeck, il cui tono secco può dare un'idea di quanto fossero tesi i suoi rapporti con la sorella di Nietzsche:

Dresda, 16 settembre 1895

(Alla signora dr. Förster in Naumb[ur]g, come risposta alla sua lettera [datata] Naumb[ur]g 15 settembre 95)

Egregia signora dottoressa!

Verrò il prossimo giovedì — tale giorno mi viene indicato dalla sua lettera appena ricevuta come quello della sua presenza a Lipsia — e mi permetterò di farle visita all'ora da lei desiderata — alle tre del pomeriggio — e nel luogo indicatomi (Rossstr. 14).

In nota alla copia della lettera, Overbeck aggiunse: «L'abboccamento avvenne il 19 settembre nel luogo suindicato», rammaricandosi che la confusione di quei giorni non gli avesse permesso di prendere immediatamente degli appunti.

Ora inventandosi delle lettere mai esistite, ora falsificandone delle altre, la Förster ha raccontato più di una volta lo sfacelo psichico del fratello; ma sempre a modo suo e coprendo con vari accorgimenti la verità. Eppure la maggioranza degli studiosi le ha prestato fede. A sentirla, Nietzsche sarebbe stato un campione di salute: «Egli era sano da cima a fondo, poiché noi, per parte di madre e di padre, discendiamo da famiglie sanissime, come ho esposto ampiamente nella Biografia. Nostra madre era di una grazia, forza e freschezza fisiche addirittura singolari, e anche nostro padre era un uomo sanissimo, il che sembra essere passato in dimenticanza a causa della sua morte precoce e dell'ultimo anno di malattia. Egli cadde, per la sua miopia, da sette gradini di pietra nel cortile lastricato e morì undici mesi dopo per commozione cerebrale [...]. L'unica cosa non del tutto normale, che noi potremmo aver ereditato da nostro padre, è la disposizione a una grande miopia; e questa disposizione venne fortemente sviluppata da una camera buia per bambini, in cui mio fratello abitò dal quinto al dodicesimo anno».

Ma la verità è che il padre di Nietzsche morì per una malattia cerebrale, mentre le sorelle erano isteriche, rachitiche ed eccentriche. Tare psichiche si riscontrano anche nella famiglia della madre. La stessa signora Franziska Nietzsche, che Elisabeth ci presenta così bene, non fece una buona impressione ai medici della clinica psichiatrica di Basilea, i quali la definirono «borniert», cioè limitata, come leggeremo nel «Krankenjournal». Parere analogo espressero i medici del manicomio di Jena, dove Nietzsche entrò il 18 gennaio 1889: «Ereditarietà: padre morto per rammollimento cerebrale. La madre, poco dotata, vive». Va aggiunto che un fratello di Nietzsche, di nome Joseph, morì anche lui per una malattia cerebrale all'età di due anni. Sintomi specifici della malattia di Nietzsche s'incontrano già durante la sua fanciullezza, mentre il «Krankenbuch» di Pforta parla, fra gli altri mali, di uno sguardo sorprendentemente fisso. Paul Deussen, che fu compagno di scuola di Nietzsche, soleva raccontare le stesse cose. Poco prima di morire, egli disse a Siegfried e Winifred Wagner, come mi ha raccontato quest'ultima a Bayreuth, che Nietzsche dava segni preoccupanti di malattia già a Schulp-forta. E aggiunse che, secondo lui, Nietzsche aveva ereditato il male dal padre.

Duole che Elisabeth ci costringa a queste rettifiche, che non avrebbero molta importanza, se i ciechi adoratori di Nietzsche non le drammatizzassero col volerle troppo sottovalutare. Quanto alla caduta dalle scale, basti questo: «Sulla malattia del padre di Nietzsche saranno rese note, in occasione dell'edizione dei carteggi di Nietzsche, alcune importanti lettere della madre di Nietzsche, scritte durante la malattia del marito: da esse non risulta una conferma della tesi di Elisabeth Förster-Nietzsche, secondo cui suo padre sarebbe morto in seguito a una caduta dalle scale di casa». Ah, queste cadute! Elisabeth, lo si vedrà meglio in seguito, ne ha sempre una di riserva.

Dopo aver presentato un quadro familiare all'insegna della salute, come fanno spesso i parenti di malati di mente per esorcizzare il tabù sociale della malattia, e dopo essersi forse assicurata il silenzio di chi sapeva realmente, la Förster si diede ad accumulare una bugia sull'altra. Se Nietzsche era «sanissimo», le cause della sua pazzia, naturalmente, dovevano essere state esterne, accidentali.

Tanto per incominciare, se la prende ingegnosamente con Ludovico Cornaro, i cui Discorsi della vita sobria, usciti nel 1558, avrebbero causato al fratello non si sa bene quale malanno: «Disgrazia volle, ancora, che gli cadesse fra le mani il libriccino dell'italiano Cornaro e che portasse a lui proprio tanto male come agli altri». Non risulta che il Cornaro, di cui parla con piacere quel campione di salute psichica che è Lichtenberg, abbia mai spedito qualcuno in casa di cura; ma la Förster vuol saperla diversamente. E siccome, da brava tedesca, non doveva farle difetto l'appetito, chiama il buon Cornaro «una specie di artista della fame». Altra causa del collasso psichico di Nietzsche, secondo la sorella, sarebbero stati la solitudine e il lavoro. A darle retta, Nietzsche, a Torino, sarebbe stato una specie di Atlante del mondo filosofico. In altre parole gli sarebbe venuta, se così possiamo dire, Tentasi al cervello. La causa delle cause, però, sarebbe stata un'altra. Sentiamo: «Ma la causa della sua malattia psichica io la cerco unicamente nell'uso di sonniferi, cosa su cui devo dire qualche particolare. Mio fratello non ha preso né si è iniettato della morfina o dell'oppio, perché aveva una forte avversione per tutti gli oppiacei; ma possedeva una vera inclinazione per il sonnifero idrato di cloralio, soprattutto perché, la mattina dopo, non esercitava alcuna azione di spossatezza e gli consentiva di lavorare. Egli mi scrive al riguardo: "Io ho dinanzi a me un compito così enorme, che non posso perdere un'ora e devo ricorrere a tutti i mezzi che mi facilitino il lavoro". Egli non s'ingannava sulla pericolosità di quel sonnifero».9 Si tratta, inutile dirlo, di un'altra invenzione di Elisabeth Förster. E questo vale anche per la lettera che le avrebbe scritto il fratello. In seguito tirerà fuori una storia ancora più romanzesca, cioè quella di un non meglio specificato «calmante giavanese», procurato da un fantomatico olandese. Nietzsche ne avrebbe fatto abuso e così via.

Dopo un'altra serie di «spiegazioni», la signora continua: «Siccome mio fratello, a Torino, era completamente solo e i suoi padroni di casa di allora si ricordano solo superficialmente di quegli avvenimenti, molte cose non possono più essere stabilite con precisione […]. In quale giorno, ora, possa essersi manifestato esteriormente il turbamento del suo spirito, non può essere stabilito con precisione; in ogni caso fu negli ultimi giorni del mese di dicembre 1888. Uscendo, egli stramazzò improvvisamente a terra nei pressi della sua abitazione, senza potersi rialzare da solo. Il suo padrone di casa lo trova e lo riporta con grande fatica su nella sua abitazione. Per circa due giorni, quasi senza muoversi e senza dire una parola, egli se ne stette coricato sul sofà. Quando si svegliò da quello stato letargico, si mostrarono chiaramente tracce di eccitazione e di turbamento psichico: parlava forte con se stesso, cantava e suonava insolitamente molto e forte. Perse la cognizione del valore del danaro (pagava delle piccolezze con venti franchi e più) e scrisse alcuni fogli con strane fantasie, in cui la leggenda di Dioniso Zagreo si mischiava con la storia dolorosa degli Evangeli e con le personalità dell'epoca presente a lui più vicine: il Dio dilaniato dai suoi nemici passeggia, risorto, sulle rive del Po e vede sotto di sé, ora, tutto ciò che

egli ha amato, i suoi ideali, soprattutto gli ideali dell'epoca presente. I suoi amici prossimi gli sono diventati nemici e lo hanno dilaniato. Questi fogli sono rivolti contro Richard Wagner, Schopenhauer, Bismarck, i suoi amici più vicini: il professor Overbeck, Peter Gast, la signora Cosima, mio marito, mia madre e me. Durante quel periodo, firmava tutte le lettere "Dioniso" o "Il Crocefisso". Anche in tali scritti ci sono ancora dei passi di affascinante bellezza, ma nell'insieme si caratterizzano come un patologico delirio febbrile, che dagli psichiatri viene indicato come mania di persecuzione e megalomania. Nei primi anni dopo l'insorgere della malattia di mio fratello, quando nutrivamo ancora la falsa speranza che egli potesse guarire, quei biglietti furono per la maggior parte distrutti. Se tali scritti, più tardi, fossero capitati sotto i suoi occhi, avrebbero ferito nella maniera più profonda il cuore affettuoso e il gusto di mio fratello».

Che la madre e la sorella di Nietzsche distruggessero, per prudenza, le cose più compromettenti, per esempio le contumelie contro Bismarck e l'imperatore di Germania, è in qualche misura comprensibile; ma non si rimpiangerà mai abbastanza che siano andati distrutti i fogli in cui Nietzsche parlava di Dioniso Zagreo sulle rive del Po. L'aver fatto questo costituisce una prova d'insensibilità estetica e una colpa assolutamente imperdonabile.

Tralasciamo l'accenno alla «memoria superficiale» dei padroni di casa, che invece ricordavano benissimo. Occupiamoci della «caduta improvvisa» (di nuovo una caduta!). Overbeck, come vedremo, accenna vagamente a una caduta per la strada. Ma Elisabeth, che nel 1895 aveva attribuito ai Fino una memoria superficiale, nel 1930 pretendeva di avere ancora una memoria formidabile e di sapere come si erano realmente svolti i fatti, sebbene non fosse stata presente. Ora poteva finalmente anche fare il nome dei coniugi Fino, che erano morti da ventotto e da quindici anni. Nessun timore di smentita, dunque. Così, fingendo di aver appreso tutto da un fantomatico «Don Enrico», scrisse: «I due Fino avrebbero, come sembra, fatto una descrizione davvero commovente della malattia e [di come] egli [Nietzsche] avesse avuto un grave incidente sulla via verso il chiosco del signor Fino in piazza Carlo Alberto. La piazza, da un lato, si eleva in certo modo a forma di terrazza, sì che larghi gradini portano alla parte più alta, sulla quale si trovava il chiosco del signor Fino». Questi, dunque, avrebbe raccontato a «Don Enrico», che a sua volta l'avrebbe raccontato per lettera ai Förster che si trovavano nel Paraguay, come un bel giorno vide della «gente raccogliersi intorno a un punto ed egli scopre subito che il suo amato professore è precipitato giù per i gradini e ora giace a terra privo di conoscenza. Egli corre e, con l'aiuto di un conoscente», rialza Nietzsche, che nel frattempo ha riacquistato coscienza, e lo riconduce a casa.

Questa descrizione, soprattutto per chi conosca piazza Carlo Alberto a Torino, ha molto di fantastico. Nessuno ha mai visto, per il semplice motivo che non ci sono mai stati, codesti «larghi gradini». La Förster aveva una bella fantasia e fece della tragedia di suo fratello un romanzo. Generalmente i casi di totale perdita di coscienza, con caduta, sono provocati o dall'epilessia, o dall'emorragia cerebrale, o da stati ansioso-depressivi, che non hanno nulla a che fare con la malattia mentale di Nietzsche. Nel primo caso, i sintomi sarebbero stati massicci (tremori, convulsioni, bava alla bocca) e quindi difficilmente Davide Fino avrebbe potuto riportare subito in casa il malato. Nel secondo caso, Nietzsche sarebbe stato ancora meno trasportabile, senza contare che si sarebbero avute o conseguenze mortali o soluzioni a lunga scadenza.

La sorella, sia pure con qualche aggiunta o variante, ripetè sempre la stessa versione: abuso di sonniferi o di altre sostanze di sua invenzione, caduta improvvisa vicino all'abitazione eccetera. Nella Biografia, inventandosi una lettera, fa dire al fratello: «Io prendo sonniferi su sonniferi, e tuttavia non posso dormire. Oggi ne voglio prendere tanti da perdere la ragione». E aggiunge: «Tutta la lettera suonava come l'ultimo grido del suo cuore straziato, — l'arco si tese, l'eroe cadde». Riconosciamo a una sorella il diritto di stendere un velo pietoso sulla triste sorte del fratello, ma dobbiamo negarle quello di creare una leggenda e di accreditarla presso la posterità. Le leggende, una volta che abbiano attecchito, sono dure a morire. E dire che Elisabeth, in privato, aveva incominciato per tempo a temere che il fratello sarebbe finito «in manicomio» (NW, IV/4, p. 36).

Dove il lettore si aspetterebbe maggiori particolari, cioè nella ricostruzione della catastrofe, Elisabeth se la cava con poche frasi, quasi sorvolando. Ai Fino allude sempre indirettamente, chiamandoli di volta in volta «bravi italiani» o «padroni di casa italiani». Ne parla, ma sempre senza nominarli, anche nella polemica astiosa e abbastanza disgustosa con Overbeck a proposito di manoscritti che sarebbero andati «persi» a Torino: «Di questi tesori appena la decima parte viene da Torino. Forse sarebbe stata più grande, se i manoscritti fossero stati subito consegnati alle autorità. Il consolato tedesco di Torino, dove il padrone di casa italiano si era già recato per fare denuncia, avrebbe preso in consegna e sigillato tutto». E ancora: «Ma io devo aggiungere esplicitamente che i padroni di casa di mio fratello a Torino non possono essere ritenuti capaci della minima appropriazione. Erano gente distinta e molto affezionata a mio fratello; avrebbero ritenuto cosa illegittima tenere per sé un qualunque capo di vestiario; ma non avevano la minima idea (secondo i racconti di quel conoscente italiano) che l'unica cosa preziosa, fra quelle lasciate da mio fratello, fossero le sue carte scritte. Proprio il fatto che il professor Overbeck stesso avesse lasciato stare delle carte come se non valessero niente, e forse ne aveva anche bruciate in loro presenza, può averli indotti a credere che anche altri scritti fossero senza valore. Quanto è facile che possa essere rimasto ancora in qualche angolo un quaderno scritto, di cui si sia poi appropriato un altro inquilino! Gli stessi padroni di casa avevano qualche diffidenza per un inquilino che abitava allo stesso piano».

Si osservi la logica «elisabettiana»: i Fino non avevano la minima idea di quanto fossero preziosi gli scritti di Nietzsche, però nutrivano diffidenza verso un inquilino dello stesso piano. Non una parola di vero, tranne che i «padroni di casa italiani» erano gente per bene e molto affezionata al povero Nietzsche. Né essi avevano bisogno degli abiti smessi del loro inquilino, che fra l'altro era male in arnese. Ma perché non dar loro un nome, visto che li aveva anche conosciuti personalmente? E semplice: perché temeva che qualche biografo zelante si prendesse la briga di andarli a intervistare e la smentisse. E chi era il «conoscente italiano» di suo marito, cui poi darà il nome di «Don Enrico»? Non era nessuno, in quanto si trattava di un'altra delle sue invenzioni. Sentiamola ancora: «Io devo ricordare, qui, che tutto ciò che racconto sull'ultimo periodo torinese proviene dalle informazioni di quel conoscente italiano di mio marito, dietro le cui esortazioni egli si era subito dato da fare per sapere quanto era ancora possibile dai commoventemente buoni padroni di casa di mio fratello. Siccome questi bravi italiani, allora, non avevano alcuna idea che si trattasse di una personalità famosa, gli raccontarono in tutta semplicità e senza alcuna esagerazione le esperienze che avevano fatte con lui. Ciò che maggiormente mi colpisce: essi non hanno neppure cercato di mettersi in una luce particolarmente bella, tutto quello che hanno fatto essendo loro parso un semplice dovere. Non voglio nascondere che, nella descrizione di Overbeck, io scorgo qualche esagerazione priva di sensibilità». Ma non era venuta a parlare lei stessa con i «commoventemente buoni», però ancor sempre anonimi, «padroni di casa» di suo fratello?

Non si sa bene a quale mancanza di sensibilità da parte di Overbeck alluda la sensibile Elisabeth Förster. Vedremo anche il racconto di Overbeck. Per ora dobbiamo continuare con Elisabeth, la quale doveva essere una splendida mentitrice se, ancora nel 1932, riusciva a far credere un mucchio di bugie a Italo Zingarelli, corrispondente in Germania della «Stampa» di Torino. Zingarelli, dunque, che pure aveva letto e commentato il libro di Podach Ntetzsches Zusammenbruch, libro che avrebbe dovuto aprirgli gli occhi, abboccò e scrisse: «Nel maggio del 1930 mi sono occupato, nella "Stampa", del libro del Dott. E.F. Podach Nietzsches Zusammenbruch, libro inteso a spiegare il collasso psichico del filosofo. Indugiando nella descrizione dell'ambiente familiare, il Podach metteva in luce non proprio benigna la madre di Nietzsche, facendola apparire affettuosissima ma poco intelligente, e la sorella Dott. Elisabetta Förster, la quale, in veneranda età, vive a Weimar tutta dedita al culto della memoria del geniale fratello». Dopo aver parlato del libro di Paul Cohn Um Nietzsches Untergang, nel quale si tentava di confutare le asserzioni del Podach, Zingarelli continua: «... in questa parte della polemica io mi astengo dall'entrare, volendo oggi soltanto favorire la signora Förster-Nietzsche in certe ricerche possibili a Torino e, forse, nell'America del Sud. Chiunque fosse in grado di fare comunicazioni in argomento, dirigendole all'Archivio Nietzsche di Weimar,  o al sottoscritto,  gioverebbe a un'opera scientifica.

La signora Förster-Nietzsche è alla ricerca di un misterioso "Don Enrico" che, conosciuto Nietzsche a Torino, riferì delle conversazioni con lui avute in lunghe lettere a suo marito, il prof. Bernardo Förster (morto nel frattempo anche lui). In appendice al volume del Dott. Cohn, la personalità di Don Enrico viene così descritta dalla signora Förster: "Nel maggio del 1888, il Prof. Pasquale D'Ercole, che aveva la cattedra di filosofia all'università di Torino, fece a Nietzsche una cortese visita, avendo saputo della sua presenza a Torino nella libreria Lòscher. Mio fratello accenna a questa visita molto compiaciuto, e sembra che il Prof. D'Ercole ne sia rimasto soddisfatto, essendosi egli rivolto a un giovane tedesco-italiano, che lavorava nella biblioteca dell'università di Torino, pregandolo di interrogare nuovamente Nietzsche su alcune questioni, che, sfiorate nel corso della visita, non avevano portato a una intesa completa, giacché il professore non parlava perfettamente il tedesco, né mio fratello l'italiano. Il cognome del giovane tedesco-italiano non lo ricordo più con esattezza, anche a motivo della sua difficile pronuncia, tanto che mio marito e io lo chiamavamo pel solo nome, Don Enrico. Don Enrico, evidentemente dedicatosi con piacere alle funzioni di interprete fra i due professori, narrandoci della sua prima visita, ci disse che Nietzsche abitava molto bene in piazza Carlo Alberto, dirimpetto al Palazzo Carignano. Nietzsche era apparso fresco e di buon umore, e l'aveva spiegato raccontando che sua madre gli aveva trasmesso eccellenti notizie d'una figlia, dunque della sua unica sorella, giunte dal Paraguay, in particolar modo notizie riguardanti lavori di colonizzazione del cognato". La sorella era, non occorre ripeterlo, la signora Elisabetta Förster. Appassionato dei problemi della colonizzazione, Don Enrico chiese a Nietzsche l'indirizzo della sorella e del cognato al Paraguay, per studiare la possibilità di far stabilire laggiù un gruppo di contadini italiani. Fu così che ebbero inizio i rapporti epistolari. In cambio delle lunghe lettere che il Dott. B. Förster gli scriveva sulla coIonizzazione italiana in Paraguay e sui passi da lui compiuti presso quel governo, Don Enrico mandava dettagliate notizie in merito a F. Nietzsche, che diceva in ottima salute e sempre elegante e ben vestito: a Torino lo ritenevano un ufficiale tedesco in borghese [...]. Descrivendo l'ultimo incontro, Don Enrico narra di aver trovato Nietzsche al caffè sul punto di andar via, e di aver fatto con lui una passeggiata: siccome l'italiano intendeva partire, a febbraio, per la Germania, Nietzsche, rabbuiandosi in volto, gli disse: "Non vada in Germania, perché lì tutti i nobili cuori e tutti gli spiriti eletti vengono detti canaglie". Quindi cavò di tasca una lettera un po' lacera, che gli cadde di mano: e mentre Don Enrico si chinava per raccogliere i pezzetti sparsi dal vento, si allontanò rapidissimo. I due non si rividero più. La lettera in questione fu da Don Enrico spedita al Dott. B. Förster; la sorella del filosofo, nel citarla, dice che mai nella sua vita ha letto nulla di più maligno. "Colui che la scrisse", esclama, "se ancora vive, si tenga per detto che ha infranto il più nobile cuore e ha ferito a morte uno degli spiriti più eletti."

Nella quarta e ultima lettera al Dott. Cohn la signora Förster-Nietzsche racconta come, tornato a Torino dopo le feste di Capodanno, Don Enrico abbia appreso [...] della pazzia e della tragica partenza per la Svizzera [...]. La veneranda donna, che oggi in Weimar custodisce e coltiva una eredità spirituale cara alla civiltà contemporanea, ora sollecita l'aiuto della stampa per rintracciare, se possibile, Don Enrico: "Quando nel 1895", mi scrive la dottoressa Förster-Nietzsche, "io visitai a Torino i luoghi dove era vissuto mio fratello, Nietzsche era ancora del tutto ignoto e nessuno si curava di lui; sicché io interruppi le ricerche, avendo incontrato piena ignoranza. Oggi però le cose stanno diversamente, anche perché S.E. Farinelli è un così caloroso ammiratore di Nietzsche. Pure ho scritto che la vedova del Prof. Pasquale D'Ercole vive ancora: forse le mie lettere al Dott. Cohn, tradotte in italiano, potrebbero indurla a cercare nella sua memoria, o fra le carte del marito, se il giovanotto, che evidentemente era ben conosciuto dal Prof. Pasquale D'Ercole, ricorra anche nei suoi ricordi, e se a questo modo si possa riuscire a scoprire una traccia per ulteriori indagini. È vero che noi allora, negli anni 1888-89, non attribuimmo importanza alla personalità di Don Enrico, che del resto si occupava principalmente delle faccende coloniali di mio marito, Prof. Dott. B. Förster. Egli era uno dei molti rivoltisi a mio marito nutrendo aspirazioni coloniali e le notizie su Nietzsche, che disseminava nelle lettere, erano narrazioni di un ignoto, della cui personalità noi non sapevamo niente". In altra lettera», continua Italo Zingarelli, «la signora Förster-Nietzsche mi fa notare che forse Don Enrico, quarantatre anni or sono, si è recato in Argentina, ragion per cui le tracce potrebbero condurre anche verso il Sud-America; ma siccome l'italiano, amando fedelmente la patria, ritorna poi al paese natio, lei ritiene che anche Don Enrico sia, col tempo, ritornato in Italia [...]. Chi possa, almeno in parte, accontentare un'amica del nostro Paese, risponda all'invito rivoltogli».

Un racconto fiabesco, che tuttavia venne preso sul serio dalla critica ufficiale. Né vale la pena di confutarlo, tanto sono campate in aria le invenzioni della «veneranda donna», come la chiama Zingarelli. La fantasia più sfrenata è senza dubbio quella relativa alla lettera anonima, che avrebbe ferito a morte il cuore di Nietzsche. Cerchiamo di immaginare: Nietzsche tira fuori dalla tasca una lettera gualcita, la lettera cade a terra, si frantuma come se fosse di vetro, mentre il fantomatico Don Enrico si china a raccoglierla. Nietzsche, nel frattempo, se la svigna. Allora che cosa fa Don Enrico? Riporta la lettera a Nietzsche, naturalmente. Niente affatto: la spedisce nel Paraguay. Non perdiamo altro tempo. Se ho riportato buona parte dell'articolo di Zingarelli, l'ho fatto per dare un saggio della creativa falsità di Elisabeth. Don Enrico, il suo impiego presso la biblioteca universitaria di Torino, le sue lettere, la sua duplice nazionalità, i suoi colloqui con Nietzsche, i suoi progetti coloniali e via di seguito non sono che invenzioni romanzesche, da fumetto.

Se Nietzsche avesse avuto rapporti con un italo-tedesco a Torino, ne avrebbe sicuramente parlato nelle lettere, così come fece per le altre conoscenze. Si pensi al Clausen. Nella lettera a Pasquale D'Ercole, inoltre, avrebbe anche aggiunto un saluto per l'«interprete». Ma la verità è che il D'Ercole non aveva assolutamente bisogno d'interpreti per intrattenersi con Nietzsche. Il tedesco, almeno quello, lo sapeva bene. E ancora: la moglie di Pasquale D'Ercole, che si chiamava Mathilde Vogelsang, era tedesca, essendo nata a Berlino, dove conobbe il marito, il 17 agosto 1843.

Elisabeth, evidentemente, non lo sapeva, e questo particolare porta a escludere che le due donne abbiano avuto un qualche rapporto epistolare o che si siano conosciute durante la visita della Förster a Torino. Quanto a «Sua Eccellenza Farinelli», questa specie di maresciallo d'Italia dell'erudizione, che c'entrava con Don Enrico e con le altre mitologie di Elisabeth? Non risulta che il Farinelli si sia mai interessato alle vicende torinesi di Nietzsche. E con chi avrà parlato, la signora Förster, per dire che a Torino, nel 1895, nessuno sapeva niente del suo ormai celebre fratello, tanto che fu costretta, a causa di questa totale ignoranza, a interrompere le ricerche? E se questo fosse vero, come accordarlo con l'insinuazione che un misterioso individuo, abitante allo stesso piano dei Fino, avrebbe dato la caccia ai manoscritti di Nietzsche? La logica non stava di casa nella testa della «veneranda signora». Certo, anche Nietzsche poteva smarrire o dimenticare in qualche angolo un foglio scritto. A Genova, per esempio, venne ritrovato un suo quaderno. Ma con un uomo onesto e scrupoloso come Davide Fino è da escludere che sia andato perso alcunché. Lo vedremo nelle sue lettere, così come vedremo che è falso dire che nessuno, a Torino, nel 1895, sapeva niente di Nietzsche. A meno che Elisabeth, anziché parlare con Clausen o con Davide Fino, non si fosse intrattenuta anche lei con le fruttivendole. Va aggiunto che Elisabeth si era prefabbricata la versione della catastrofe di Nietzsche, compresa la storia del cloralio, già prima di tornare in Germania dal Paraguay. Anche la versione che ella dà della morte del marito, dovuta a suicidio, è falsa. Ma questo è umanamente comprensibile.

Occupiamoci, ora, di Overbeck. Del suo viaggio a Torino, del trasporto di Nietzsche a Basilea e di altri particolari, parleremo in un capitolo a parte. Qui vogliamo solo riferire i punti principali della sua lettera a Gast del 15 gennaio 1889, cioè a cinque giorni dal ricovero di Nietzsche nella clinica psichiatrica di Basilea.

A Gast, dunque, che era impaziente di sapere come si era svolta la tragedia del suo maestro, Overbeck scriveva:

Fino a Natale circa, io sono stato ingannato, dalle lettere di Nietzsche, sul suo stato di salute; intorno all'epoca natalizia, tali lettere si accumularono, mentre scrittura e contenuto tradivano in maniera inquietante una singolare esaltazione. Quanto mai dubbioso mi rese una lettera, in sé per altro del tutto comprensibile, che il 31 dicembre pervenne al mio ottimo collega, molto stimato anche da Nietzsche fin dai suoi giorni basileesi, Andr. Heusler, che ne rimase molto sorpreso lui stesso, perché era il primo cenno di Nietzsche che gli pervenisse da lontano. Si trattava di [avere] un credito per il riscatto dei suoi scritti ancora editi da Fritzsch. Io stesso, dalle lettere ricevute poco prima, ebbi motivo di esprimere urgentemente il mio dissenso e nello stesso tempo le apprensioni ricavate da tali lettere. Lo stesso 31 dicembre ricevetti una risposta che m'indusse a ritenere come risolto quel piano con Fritzsch, ma ribatté le mie apprensioni in maniera tutt'altro che convincente. Il 6 gennaio Jakob Burckhardt ricevette una lettera che mi comunicò subito e che mi lasciò temporaneamente quale primo documento decisivo per il mio intervento. Ora era chiaro: tra questa e la lettera precedente — come stabilii più tardi tramite il suo padrone di casa, il 4 gennaio —, Nietzsche aveva smarrito se stesso. Egli non era solo un re, ma padre di altri re (Umberto e altri); era stato perfino al suo funerale (quello del suo figlio Robilant) e così via; e il tutto nel tono scurrile di un pazzo. Nella disorientata disperazione, scrissi subito una lettera urgentissima, pregando Nietzsche di venire immediatamente da me: una doppia follia, come appresi il giorno dopo dal direttore del nostro manicomio chiamato a consiglio, le cui conseguenze io troncai subito, quel giorno, mediante la comunicazione telegrafica della mia immediata partenza. Perché il collega Wille — così si chiama quel direttore —, alla lettura della lettera a Burckhardt e di una breve missiva di Nietzsche ricevuta da me stesso il lunedì mattina, non mi lasciò in dubbio su questo, cioè che non ci fosse alcun tempo da perdere; e io, se mi sentivo in qualche modo obbligato, dovevo partire subito. E di ciò gli sono anche molto riconoscente, sebbene fossi subito spinto a intraprendere più di quel che io fossi sicuro di poter fare. Infatti, non un'ora più tardi io dovevo giungere a Torino. Lo stesso pomeriggio — intendo quello del mio arrivo, otto giorni fa — la cosa, là, divenne uno scandalo pubblico: il padrone di casa, trovare il quale fu per me cosa complicata a causa di particolari circostanze, era, quando finalmente ebbi modo di parlare almeno con sua moglie, proprio dalla polizia e dal consolato tedesco — ancora un'ora prima, come avevo già constatato, la polizia non sapeva nulla. — Nietzsche, che già il giorno prima era caduto per la strada ed era stato raccolto, ora correva il rischio di finire subito in un manicomio privato e, proprio in questo, di essere circondato da avventurieri, che in Italia, in tali occasioni, possono trovarsi insieme più rapidamente che altrove. Si trattava dell'ultimo momento in cui il suo trasporto fosse ancora possibile senza particolari impedimenti, eccetto il suo proprio stato.

Tralascio le commoventi condizioni in cui trovai Nietzsche, affidato alle cure dei suoi padroni di casa, proprietari di un chiosco di giornali in via Carlo Alberto: anch'essi possono essere indicativi per l'Italia. Con il terribile momento in cui rividi Nietzsche, sono di nuovo alla cosa principale; un momento terribile in modo del tutto unico, e completamente diverso da tutto il seguente. Io scorgo Nietzsche, dall'aria terribilmente rovinata, accoccolato in un angolo del sofà e che legge — come risultò dopo, l'ultima correzione di Nietzsche contra Wagner — ed egli scorge me, e si precipita verso di me, mi abbraccia forte, riconoscendomi, e scoppia in un fiume di lacrime, poi ricade in sussulti sul sofà; anch'io non sono in grado, per l'emozione, di rimanere sulle gambe. Gli si è aperto, in quel momento, l'abisso in cui si trova o piuttosto in cui è precipitato? In ogni caso, non si è ripetuto nulla del genere. Era presente tutta la famiglia Fino. Appena Nietzsche ricominciò a gemere e a sussultare, gli si dette da trangugiare dell'acqua di bromuro che era sul tavolo. Immediatamente subentrò un po' di calma e Nietzsche, ridendo, incominciò a parlare del grande ricevimento che era stato preparato per la sera. Con ciò egli era assorto nella sfera delle sue idee fisse, dalla quale poi, finché non l'ho perso di vista, non è più uscito, su di me e soprattutto sulla persona di altri sempre lucido, su di sé in completa notte. Cioè accadeva che egli, dando smisuratamente in alti canti e furori al pianoforte, brandelli del mondo di idee in cui era vissuto alla fine, prorompesse fuori, e qui anche in brevi frasi, espresse con un tono indescrivibilmente smorzato, lasciasse percepire di sé, come successore del morto Dio, cose sublimi, meravigliosamente acute e indescrivibilmente orribili, interpungendo per così dire il tutto al pianoforte, cosa cui seguivano di nuovo convulsioni e scoppi di una indicibile sofferenza; ma, come ho detto, ciò avveniva solo in pochi momenti fuggevoli, fintanto che io fui presente; in complesso prevalevano le dichiarazioni della professione che egli stesso si attribuiva, essere il buffone della nuova eternità, ed egli, l'incomparabile maestro dell'espressione, non era in grado di rendere altrimenti che con le espressioni più triviali o mediante danze e salti scurrili perfino le estasi della sua allegrezza.

Accanto a ciò, l'innocenza più infantile, che non lo aveva mai abbandonato nelle tre notti in cui egli, già furioso, aveva tenuto sveglia tutta la casa; e proprio questa innocuità e la quasi assoluta docilità, non appena si assentiva alle sue idee di ricevimenti regali e di ingressi solenni, di musiche da festa e così via, rese un gioco da bambini il trasporto fin qua, almeno per l'accompagnatore, che io avevo cercato e preso a Torino dietro tassative istruzioni di Wille. Esso ebbe luogo, con una sosta di quasi tre ore a Novara, dalle 2.20 pomeridiane di mercoledì fino alle 7.15 di giovedì mattina; incominciò con una terribile mezz'ora (c'era un sole splendido) alla stazione di Torino e nel trambusto della stessa; anche a Novara ci furono alcune scenate; per il resto, noi tre viaggiammo da soli, Nietzsche reso sonnolento dal cloralio, eppur sempre ridestantesi, ma per lo più prorompendo in alti canti, fra cui, nella notte, il bellissimo canto del gondoliere di Nietzsche contra Wagner, p. 7, la cui provenienza scoprii più tardi, mentre nell'ascoltarlo mi riusciva del tutto inesplicabile come il cantore riuscisse ancora a fare un simile testo con melodia per altro del tutto strana.

Ho cercato di rendere comprensibile, pur rispettandone fedelmente la sintassi, la prosa di Overbeck. Se Nietzsche aveva avuto il collasso psichico, il suo amico rischiava continuamente il collasso sintattico.

Avremo modo di ritornare sul racconto di Overbeck, che era rimasto a Torino appena ventiquattro ore. Vogliamo aggiungere, per dare un quadro più completo, ciò che scrivono, per averlo appreso dalla viva voce di Overbeck, Möbius e Platzhoff-Lejeune. Il primo dice: «A Torino, egli [Overbeck] trovò un ebreo che si offrì come assistente di alienati (ma non lo era) e che, mediante il suo intervento, lo aiutò a eseguire l'impresa alquanto temeraria. Nietzsche era a letto e rifiutava di alzarsi. L'ebreo gli dette a intendere che si erano preparati, per lui, grandi ricevimenti e festeggiamenti; e Nietzsche si alzò, si vestì e andò insieme con gli altri alla stazione. Là egli voleva abbracciare tutta la gente, ma l'accompagnatore gli spiegò che questo non si addiceva a un così gran signore; e Nietzsche si calmò. Con l'aiuto di potenti dosi di sonniferi, il malato fu tenuto calmo durante il viaggio e i tre uomini giunsero felicemente a Basilea». Il Platzhoff-Lejeune, a sua volta, racconta: «Nietzsche preso da completo furore, che infuria con i gomiti sul pianoforte, grida e canta; poi, di nuovo in completa apatia, riconosce l'amico e, disubbidiente come un bambino, contraddice ai suoi ordini. Che cosa doveva fare un professore tedesco in una simile situazione? Già era stata avvisata la polizia torinese, e solo un vero e proprio rapimento poteva impedire un ricovero forzato in un istituto di là. Miracolosamente, a questo punto, uno sconosciuto, a quanto pare un ebreo tedesco, si offrì per il trasporto del malato. Over-beck, tanto confuso da questo deus ex machina quanto diffidente per la sua proposta, acconsentì tuttavia, né ebbe a pentirsi del suo assenso. Con stupefacente abilità, l'estraneo acquistò subito un influsso sul restio malato, quale non era riuscito ad avere l'amico. Nietzsche obbedì come un bambino, abbandonò il letto e si vestì. Un nuovo attacco rese penoso a Overbeck il cammino per la stazione. Chiamandola e inseguendola, Nietzsche si rivolgeva alla folla curiosa, la quale per un pelo non mandò a monte il piano del viaggio. Il treno partì, mentre Nietzsche cantava una canzone napoletana di pescatori, che scosse profondamente l'agitato amico. Poi il malato, finalmente, si calmò e gli accompagnatori ebbero tempo di escogitare un nuovo progetto per l'arrivo a Basilea. Il sorvegliante ci si provò con una suggestione: "Lei è un principe. Alla stazione di Basilea l'aspetta una folla festosa. Tiri diritto, senza salutare, verso la carrozza che è pronta". L'astuzia riuscì secondo l'aspettativa».

Secondo il Bernoulli, invece, Nietzsche, il giorno prima dell'arrivo di Overbeck a Torino, «aveva destato grande curiosità per la strada ed era minacciato dal pericolo di essere immediatamente internato in un manicomio italiano», cosa di cui soprattutto si preoccupava Overbeck, poiché non sarebbe stato più possibile riportare il malato in patria. Ma qui i conti non tornano. Primo, perché non risulta che Nietzsche avesse fatto una scenata per la strada il pomeriggio prima dell'arrivo di Overbeck, cioè il 7 gennaio: era già sotto le cure di uno psichiatra torinese e difficilmente gli avranno permesso di uscire di casa. Secondo, perché Overbeck dice che la cosa divenne uno scandalo pubblico il giorno stesso del suo arrivo e non il giorno prima. E un vero peccato che Bernoulli, il quale nel 1894 si trovava a Vercelli per motivi di studio, come si rileva dalla sua lettera a Overbeck del 14 giugno di quell'anno, non sia venuto anche a Torino: avrebbe potuto avere notizie di prima mano dalle persone che erano state vicino a Nietzsche e darci una ricostruzione esatta dei fatti.

Ma vediamo le testimonianze di parte italiana. Gli articoli di riviste e di giornali, sulla catastrofe di Nietzsche a Torino, non si contano. Ma di essi solo due o tre meritano attenzione. Li abbiamo già citati all'inizio. Il primo, apparso sulla «Nuova Antologia» del 16 settembre 1900, è anonimo. Non è stato possibile, purtroppo, appurare chi ne fosse l'autore. E firmato con tre asterischi; ma gli articoli della «Nuova Antologia» siglati con asterischi venivano compilati in redazione e avevano diversi autori. L'attuale direttore della rivista, il professor Riccardo Campa, ha avuto un'intuizione. Egli mi scrive: «Mi era venuta l'idea — ma è solo un'idea — di fare il nome di Giovanni Cena; ma non posso confermarle la paternità dello scritto su Nietzsche che mi segnala». Alcuni particolari sembrano confermare questa ipotesi. Il Cena era piemontese, essendo nato a Montanaro Canavese nel 1870, ed era redattore capo della «Nuova Antologia». Ora, nulla vieta di pensare che egli, trovandosi forse nel Canavese per le ferie estive e appresa la notizia della morte di Nietzsche, avvenuta il 25 agosto del 1900, sia sceso a Torino per avere direttamente dalla famiglia Fino notizie sul soggiorno torinese e sulla follia dello scomparso. E siccome non si trattava di una rievocazione in grande stile o di un articolo di critica, bensì di semplice cronaca, si sarà limitato a firmare con gli asterischi. Del resto, non sarebbe stata la prima volta che Cena si occupava di Nietzsche. Nel settimanale torinese «Il Venerdì della Contessa» aveva pubblicato, sotto la data del 20 dicembre 1895, un violento articolo contro le teorie del «Superuomo» e contro il d'Annunzio che se n'era fatto interprete. Certo, c'è molta differenza di tono tra questo articolo, dove Nietzsche viene definito senza mezzi termini «un pazzo» e un «filosofo (per così dire)», e quello della «Nuova Antologia»; ma sono possibili due cose: o il Cena avrà rivisto, nel frattempo, il suo giudizio, oppure, dinanzi alla morte di Nietzsche, avrà voluto usare un tono meno aspro. Ma ora il giovane e brillante filologo Domenico Fazio, in un libro ben pensato e ben scritto (Il caso Nietzsche, Milano 1988, p. 70 sg.), pensa che l'articolo potrebbe essere stato scritto da Enrico Thovez. E un'ipotesi. In tal caso, però, non si spiegherebbero i molti errori da parte di uno che viveva a Torino e aveva tutta la possibilità di verificare. Inoltre Thovez, parlando della città in cui viveva, non avrebbe certamente scritto «in quella città».

Comunque, dopo aver parlato con i Fino, e probabilmente era il primo che lo facesse, l'anonimo articolista scrisse:

La morte del grande filosofo tedesco ha ridestato un vivo interesse intorno al suo nome, e tutto ciò che riguarda gli scritti e le sventure sue è oggetto di indagini e di ricerche da parte di amici e ammiratori. Centro di esse è la signora dott. E. Förster Nietzsche, questa luminosa figura di sorella che irradia di illimitata devozione e di soave pietà l'esistenza dell'infelice pensatore.

Uno dei particolari meno noti della vita di Nietzsche è il lungo soggiorno ch'egli fece a Torino nell'ultimo anno in cui gli sorrise la salute della mente e del corpo. Nell'antica capitale del Piemonte sono assai conosciuti i coniugi Fino — la signora Candida Fino e il marito Davide — proprietari dell'edicola giornalistica che sorge in piazza Carlo Alberto, proprio di fronte all'ingresso principale della Posta centrale.

A quanto pare, si era nell'autunno del 1887, quando il signor Fino vide un uomo dall'aria di forestiero [...]. La signora Fino lo ricorda distintamente. Era alto della persona e piuttosto curvo o quasi pendente da un lato. Indossava un soprabito marrone e un cappello a cencio, ma aveva carissimo un plaid che portava regolarmente sul braccio nell'uscire. Le sue abitudini erano del tutto regolari. Si alzava il mattino di buon'ora per il passeggio. Tornava a casa, dopo la colazione, prima del mezzogiorno, e si poneva al lavoro, a cui attendeva assiduamente. Usciva di nuovo verso sera per il pranzo, sempre colle più vive raccomandazioni che né le persone di casa né Maddalena — la donna di servizio — toccassero o spostassero alcuno dei libri o delle carte ammonticchiati sullo scrittoio. Per lo più rincasava di buon'ora.

In questo primo anno del suo soggiorno a Torino, il Nietzsche non diede motivo ad alcuna osservazione speciale da parte della famiglia Fino. Il loro ospite aveva l'aspetto serio, ma era gentilissimo di modi con tutta la famiglia e specialmente colla piccola Irene Fino che già sin d'allora coltivava con successo la musica, di cui Nietzsche era appassiona-tissimo. Il «professore», come lo chiamavano in casa, faceva una vita regolare e tranquilla di uomo studioso. Spesso portava o riceveva libri dalla libreria Loescher (ora Clausen), situata sotto i portici dell'università, e forse qualcuno dei membri di quella importante Casa libraria potrebbe dare notizie più particolareggiate sul soggiorno a Torino del filosofo tedesco. Un solo piccolo incidente può essere ricordato. Il Nietzsche volle farsi arrivare dalla Germania una bella stufa: fu una festa per lui, il giorno in cui gli giunse con alcuni sacchi di apposito carbone. Egli la ricevette con piacere, esaminò i documenti ferroviari e doganali che l'accompagnavano: ne pagò l'importo. Indi, chiamati i coniugi Fino, presentò loro in dono la stufa, dicendo che egli non soffriva il freddo e che desiderava ringraziarli delle loro cortesi attenzioni. Tanto è vero che, quando all'estate il Nietzsche rimpatriò in Germania, assicurò i coniugi Fino che all'autunno avrebbe fatto ritorno presso di loro. E così infatti avvenne. Pare anzi che, nell'assenza, egli scrivesse ai signori Fino qualche lettera che fu più tardi restituita alla famiglia.

Nell'autunno del 1888 il filosofo ritornò alla sua modesta stanzetta di piazza Carlo Alberto, per la quale corrispondeva puntualmente la pigione consueta di circa una trentina di lire mensili. Egli vi riprese la vita regolare e laboriosa dell'anno prima e nulla dava a vedere che lo studioso serio e gentile sarebbe presto caduto vittima di quella pazzia che poco dopo oscurò la sua grande mente. Il soggiorno di Nietzsche a Torino segna appunto una data importante nella sua vita, perché è in quella città che incominciò a manifestarsi la terribile malattia mentale del pensatore tedesco.

I primi indizi i coniugi Fino li avvertirono un giorno in cui il professore li chiamò e volle che fossero tolte dalle pareti alcune oleografie di poco conto e tutto ciò che ad esse era appeso. La sua stanza «doveva essere come un tempio»: ma poco dopo si manifestarono sintomi ben più gravi. Un bel dì si presentò alla famiglia Fino con un aspetto di eccezionale esultanza annunciandole che eru giorno di grande festa, che le strade erano illuminate e che il Re e la Regina arrivavano a Torino a visitarlo nella sua stanzetta, ch'egli aveva arredata a tempio!

Fu allora che i coniugi Fino cominciarono a dubitare dello stato di mente del professore, dubbi che crebbero in essi quando videro ch'egli consegnava loro ripetuti dispacci per il Re e per la Regina, dispacci che in parte furono trattenuti dai coniugi Fino e in parte dallo stesso ufficio telegrafico. Ma un incidente più grave accadde poco dopo. Un giorno, mentre il signor Fino percorreva la vicina via di Po — una delle principali strade di Torino — vide un gruppo di gente che si avanzava e in mezzo ad esso due guardie civiche che accompagnavano il «professore». Tosto che il Nietzsche lo scorse, si gettò nelle braccia del signor Fino, il quale ottenne facilmente la liberazione sua dalle guardie, che raccontavano di aver trovato quel forestiero oltre i portici dell'università, fortemente abbracciato al collo di un cavallo, da cui non voleva divincolarsi.

Fu allora che i coniugi Fino persuasero il professore a porsi a letto, e chiesero l'assistenza di un dottore alienista, il professore Turina. Ma appena il Nietzsche sospettò in lui un medico, si ribellò, esclamando: «Pas malade! Pas malade!». Dovette essergli raccomandato come amico di casa per indurlo a lasciarsi curare.

In questo primo periodo della malattia, si alternavano nel povero Nietzsche attacchi di follia e lunghi lucidi intervalli. Durante questi faceva musica con passione. Alcune volte pregava l'Irene di suonargli del Wagner — solo del Wagner —: altre volte sedeva egli stesso al pianoforte, suonando lungamente a memoria del Wagner, unendogli di tratto in tratto un canto sommesso. Prendeva in casa i suoi pasti, ordinando per lo più una costoletta, che di rado mangiava, e una bottiglia di vino barbèra. Ma ai primi bicchieri, la testa gli si arroventava, cosicché non gli si permetteva di usarne di più. In allora la famiglia Fino vedendo che il Nietzsche spediva frequenti dispacci a un certo professore Overbeck — a quanto pare — pensò di telegrafargli per proprio conto, avvisandolo della malattia del loro inquilino. E pochi giorni dopo l'Overbeck arrivò e salì nella stanza del Nietzsche. Era sul far della notte e il filosofo giaceva a letto. Ma appena i due amici si videro, si abbracciarono e piansero. Nietzsche volle alzarsi, sedette al pianoforte e suonò del Wagner.

Due giorni dopo, Nietzsche lasciava per sempre Torino, salutato alla stazione dai Fino, dal dottore e dal console di Germania, insieme al prof. Overbeck che lo accompagnò in patria. A breve distanza di tempo una lettera della famiglia informò i Fino che il prof. Nietzsche aveva in gran parte perduta la ragione ed era in una casa di cura.

Nel 1895 — la sorella pia, la signora Elisabetta Förster-Nietzsche — nel suo devoto pellegrinaggio visitò anche Torino e vi raccolse notizie circa il fratello, al quale essa ha elevato un monumento più duraturo del metallo — quello di una devozione che non ha pari!

A parte le immeritate lodi di Elisabeth e a parte le inesattezze cronologiche, l'articolo è sostanzialmente corretto e contiene notizie di estrema importanza per la ricostruzione della catastrofe di Nietzsche. È per questo che ho voluto riportarlo per intero, tranne il passo sull'affitto della camera, già citato all'inizio. In esso, inoltre, si trova per la prima volta menzionato l'abbraccio al cavallo, laddove Overbeck, Elisabeth e Bernoulli non ne fanno parola. Perché? Né è lecito pensare che non ne fossero a conoscenza, dopo i colloqui avuti con Davide Fino. Essi parlano solo di una caduta di Nietzsche per la strada, di cui non c'è riscontro nelle testimonianze rese dai Fino ai giornalisti italiani. Qui, dunque, si pone la domanda: cadde davvero, Nietzsche, o lo fecero cadere Overbeck ed Elisabeth, per meglio avvalorare la tesi di un esplodere improvviso e inaspettato della follia? Si ha motivo di ritenere giusta la seconda ipotesi. Volendo far scomparire o meglio occultare i segni più vistosi di pazzia, essi forse pensarono che una caduta sarebbe stata meno compromettente dell'abbraccio a un cavallo in una pubblica via.

All'articolo della «Nuova Antologia» si rifa, in parte, anche il giornalista Ugo Pavia, che però lo integra con altre notizie raccolte dalla viva voce di Ernesto Fino, figlio di Davide. Sentiamo: «L'ultimo che a Torino ancora ricorda il Nietzsche, l'abbiamo trovato in via Milano 20. È Ernesto Fino [...]. Il professore, che in un primo tempo sembrava un misantropo, a poco a poco si era avvicinato ai Fino. Specialmente alla sorella dell'Ernesto, a nome Irene [...] aveva dimostrato una viva simpatia». A proposito della stufa, Ernesto «ricorda ancor ora la sorpresa da lui provata nel constatare che quel carbone, di una composizione originale, non pesava quasi nulla. I Fino erano rimasti sorpresi di quell'invio: sapevano che il professore non soffriva il freddo; e quindi non comprendevano perché si fosse provvisto di quella stufa e del relativo carbone [...]. La sua vita, fino all'autunno del 1888, era stata regolata come un orologio. Alla mattina per tempo si recava a fare una passeggiata; bene spesso al Parco del Valentino che egli ammirava... A volte si recava anche a Teatro: l'Ernesto ricorda di aver sentito dire in casa che il professore aveva assistito, al Romano, alla rappresentazione data da una Compagnia francese di operette e si era stupito che un uomo così serio, che in musica non amava che Wagner, avesse potuto divertirsi a delle operette. Ma a quel suo primo stupore, ben altri se ne dovevano aggiungere in seguito. Il professore diventava sempre più disuguale come umore e come abitudini [...]. Cominciava a delinearsi il dramma della pazzia. Anche i suoi discorsi apparivano sconclusionati. E noto che una volta annunciò ai Fino che la città era in gran festa, e il Re e la Regina sarebbero andati a visitarlo nella sua stanzetta, ed egli aveva stranamente addobbata la sua camera, per l'augusta visita che solamente il suo cervello malato aveva immaginato. I Fino rimasero dolorosamente colpiti da questi segni di squilibrio.

Ma l'episodio culminante avvenne il giorno in cui il Davide Fino vide in via Po il professore fra due guardie municipali, seguito da un codazzo di gente schiamazzante. Federico Nietzsche, pochi minuti prima, aveva gettato le braccia al collo a un cavallo di vettura pubblica e non voleva più lasciarlo. Aveva veduto il vetturale battere il quadrupede e ne aveva provato un tale immenso dolore da indurlo a testimoniare alla bestia il suo affetto. Preso in consegna il professore, gravemente impressionati per quel fatto, i Fino chiesero l'assistenza di un alienista, il dott. Turina [...]. Da quel giorno l'Ernesto ricorda, benché confusamente, perché sono passati tanti anni, che le condizioni dell'ospite andarono sempre peggiorando. Il padre e la madre parlavano sempre a bassa voce della pazzia del professore e se ne mostravano molto preoccupati. Non sapevano nulla della sua famiglia, né sapevano a chi rivolgersi per consiglio in così delicato frangente. Ricordando però che il Nietzsche spediva frequenti dispacci a un certo prof. Overbeck, i Fino pensarono di telegrafargli per informarlo della malattia del loro inquilino. Il prof. Overbeck era già stato edotto delle condizioni dell'amico anche da altra fonte [...]. In quei giorni i giornali parlavano dell'esecuzione a Parigi dello spagnuolo Prado, imputato di aver ucciso una ragazza e di furto, e della condanna a morte a Costantina di un certo Chambige che aveva assassinato l'amante. Nietzsche, nel suo turbamento, si identificava a volte per il Prado e a volte per il Chambige. In quello stesso periodo moriva in Torino il principe Eugenio di Carignano e gli imponenti funerali passarono per piazza Carlo Alberto. Il filosofo, affacciato alla finestra, assisteva alla sfilata del corteo e parlava commosso di sé. Egli provava la strana illusione di assistere ai propri funerali. Ma le sue idee si confondevano e più tardi, parlando di quel triste avvenimento, diceva che egli aveva partecipato alle esequie del principe sotto le vesti del conte Robilant [...]. Lo sfacelo di quella mente si faceva di giorno in giorno più evidente: Nietzsche aveva perduto ogni controllo della sua personalità. A un conoscente confidava di essere nato a Palazzo Carignano e di portare il nome di Vittorio Emanuele. Le stramberie di quell'uomo di genio si moltiplicavano: fermava i passanti per la strada e diceva loro: "Io sono Iddio, ho preso questo travestimento per avvicinare gli uomini". Altre volte affermava: "Sono il tiranno di Torino". E nella sua pazzia scriveva i più strani biglietti agli amici lontani [...]. Avvertito tanto dai Fino quanto dal Burkhard [sic!], l'Overbeck il 7 gennaio 1889 partiva per Torino. Intanto Nietzsche passava da momenti di sonnolenza a periodi di eccessiva agitazione. Era un tragico spettacolo vedere il grande filosofo ballare nella sua camera, "mimare" la sua parte di iniziato dionisiaco, e improvvisare al piano motivi e dissonanze stravaganti [,..]. L'amico aveva subito stipendiato un ebreo tedesco, pratico di alienati, poiché l'infermo aveva momenti di deliri spaventosi [...]. A Porta Nuova Nietzsche fece una scenata che per poco non compromise la sua partenza».

Ciò che veramente interessa, in questo articolo, sono le notizie ricavate dal colloquio con Ernesto Fino, uno dei pochi testimoni diretti. Anche se riferite in maniera caotica e qua e là infiorate, esse confermano quello che aveva già scritto la «Nuova Antologia»: progredire della follia, abbraccio al cavallo, telegramma di Davide Fino a Overbeck. A proposito di quest'ultimo particolare, il cronista dice che Overbeck sarebbe stato avvertito anche da altra fonte: quale? Dobbiamo pensare a un intervento del consolato tedesco o magari della questura di Torino? Ma è più probabile che il giornalista, nella confusione cronologica, si sia riferito alla lettera ricevuta da Jacob Burckhardt.

Il Pavia, sia pure con molte inesattezze, ritornò anche in seguito sull'argomento. In occasione del cinquantenario della morte di Nietzsche scrisse: «Una ventina d'anni fa il Municipio aveva deliberato di apporre alla casa che come si è detto guarda la piazza Carlo Alberto e ha il suo ingresso nella via omonima, una lapide che ricordasse il luogo dove aveva soggiornato il filosofo tedesco. La lastra di marmo che portava scolpito da Rubino un profilo di Nietzsche non fu murata in quel tempo: altri avvenimenti misero nel dimenticatoio il filosofo tedesco. Fu solamente nel 1944 che il Comune trasse da un magazzino la lapide e la fece apporre alla casa. Anche senza la lapide i torinesi ricordano ugualmente lo scrittore tedesco, sia per le sue originali concezioni filosofiche che a suo tempo suscitarono tante discussioni, sia e forse ancor più per le stramberie che rivelarono lo squilibrio mentale dell'autore di Zarathustra. Una sera — l'episodio è arcinoto — egli si fermò in via Po per gettare le braccia al collo di un cavallo d'una carrozza di piazza e alla bestia si mise a parlare enfaticamente. In breve tutti conobbero l'episodio, e lo aggiunsero alla collana delle altre stramberie che erano tema dei discorsi negli ambienti letterari e fra gli abitanti dove abitava il professore tedesco». Parlando poi dei suoi colloqui con Ernesto Fino, che nel 1950 era ancora vivo, il Pavia aggiunge: «Un'altra volta il giovanotto sentì dire dalla madre, che impressionata nel sentire il professore cantare aveva guardato dal buco della serratura, ch'egli ballava nudo. Una sera era andato a uno spettacolo di caffè-concerto e aveva suscitato con osservazioni fatte ad alta voce lo scompiglio fra spettatori e attori. Poi le cose precipitarono e Nietzsche [...] se ne andò [...] accompagnato da un suo amico, un professore di Basilea chiamato telegraficamente».

Che Nietzsche ballasse nudo, simile a quei satiri che si vedono raffigurati sui vasi greci, è confermato anche da Overbeck. Scrive il Liebmann: «In seguito, fra gli intimi, Overbeck accennò anche a uno spettacolo che gli si presentò a Torino, "il quale incarnava in maniera orribile l'idea orgiastica del furore sacro, quale era alla base della tragedia antica". Probabilmente si sarà trattato di danze estatiche con fallo eretto».

Il Liebmann, qui, si rifa al Bernoulli, il quale dice: «A me stesso Overbeck ha definito come notevolmente attenuata la sua descrizione dello stato di Nietzsche a Torino, quale si trova nelle lettere, riguardo al genere delle danze orgiastiche eseguite da Nietzsche dopo essere di nuovo subentrata la pazzia furiosa». In altre parole, Overbeck non aveva scritto a Gast tutto quello che aveva visto a Torino, perché «la sua mano si rifiutava di portare sulla carta gli ultimi, inauditi particolari. Vi accennava occasionalmente in una ristrettissima cerchia e a me personalmente, una volta, integrò a voce quella descrizione. Stando a ciò, a Torino gli si offrì uno spettacolo che incarnava in maniera orribile l'idea orgiastica del furore, quale era alla base della tragedia antica». Così Overbeck, come se non bastassero gli scritti folli, doveva vedere anche all'atto pratico che il suo povero amico era diventato completamente pazzo. L'impressione dovette essere così atroce che Overbeck, in un primo momento, si augurò che Nietzsche morisse.

Un altro che dice di aver parlato direttamente con Ernesto Fino è il giornalista G.A. Alberti. In una serie di tre articoli, pubblicati su «Stampa Sera» nei giorni 10, 11 e 12 ottobre del 1938, egli volle ricordare il cinquantenario del soggiorno di Nietzsche a Torino. Solo il terzo articolo contiene qualche particolare interessante. A distanza di tanti anni, il Fino aveva ancora un vivo ricordo delle scenate di Nietzsche in preda alla follia. Il malato, «in uno stato impressionante di sovraec-citamento», aveva continuamente bisogno di cure e di sorveglianza. E bastava un nonnulla perché diventasse «improvvisamente violento». Una volta il giovane Ernesto «sentì passare vicino alla testa un bicchiere lanciato contro di lui dal malato». Meno pericolosa, invece, la scena della «candela» che Nietzsche va ad accendere in piena notte «in fondo al corridoio». Ha «l'ossessione del tempio» ed egli «non è soltanto il sacerdote, ma il Dio stesso». Quando subentra un po' di calma, «Irene eseguisce compiacente sul piano i pezzi richiesti, mentre il malato si accompagna cantando sotto voce». Ma la calma non dura molto e Nietzsche si abbandona a danze satiresche. La situazione è grave: che fare? Non rimane «che avvertire quel dottore di Basilea a cui il malato scriveva ogni giorno...». Ma «Nietzsche non vuole lasciare Torino; perché abbandonarla?». Alla fine, «in compagnia di Overbeck e del dentista tedesco Miescher, che aveva uno studio a Torino, il malato parte per Basilea. Alla stazione di Porta Nuova il console tedesco, i Fino, il dr. Turina salutano commossi il partente».

Anche questo articolo, naturalmente, va preso con beneficio d'inventario. Tranne la scena della candela e quella del bicchiere, non dice niente di nuovo. Il fatto, poi, che l'Alberti parli del «dentista tedesco Miescher», il quale altri non era che Leopold Bettmann, dimostra che egli conosceva, direttamente o indirettamente, il libro del Podach e ne ripeteva gli errori.

Notizie sulla pazzia di Nietzsche doveva aver raccolte, magari direttamente dalla famiglia Fino, il Depanis. Egli scrive: «Fra le numerose riproduzioni [della Carmen] merita un cenno speciale quella del 1888 che al Carignano ebbe direttore d'orchestra Leopoldo Mugnone e protagonista Luisa Borghi. Indipendentemente dal valore degli interpreti lo speciale cenno è giustificato dal fatto che la rappresentazione di Carmen al Carignano fu l'estremo godimento artistico di Federico Nietzsche, il quale già infermo si era rifugiato a Torino, donde fu ritrasportato poi in patria pazzo furioso».43 Dato che il Depanis non dimostra una buona conoscenza di Nietzsche, c'è da chiedersi da chi avesse saputo che era giunto a Torino «già infermo» e che era stato riportato via «pazzo furioso». E molto probabile che egli, come direttore del Carignano, conoscesse Davide Fino, che abitava e lavorava lì vicino.

Circa l'abbraccio al cavallo, non capisco perché se ne sia parlato tanto. Abbracciare un così nobile animale, certo più abbracciabile di tanti bipedi, non costituisce, di per sé, una prova di pazzia. Episodi di questo genere sono assai frequenti fra gli animi eletti. Piero Martinetti, per esempio, quando dal suo romitorio di Spineto si recava a Castellamonte, comperava un pacco di dolci e andava subito a trovare «un suo vecchio amico», ossia un asino di proprietà di uno spazzino. Dopo avergli detto «caro collega, eccomi qua», gli dava le leccornie. Qualche cosa di simile fece anche il Gobineau, tanto  che lo si è voluto avvicinare a Nietzsche anche per questo episodio. Lo scrittore francese amava il popolo romano più di quel che non amasse il popolo parigino. Ma lo disgustava il modo con cui, nella capitale del cristianesimo, vengono maltrattati gli animali: «Un giorno vide un asinaio trattare così spietatamente il povero animale carico che, per far cessare il tormento, lo comprò, gli procurò alcuni giorni di riposo e di greppia ricca e poi lo cedette a padroni più umani». E potremmo parlare anche di Swift, di Schopenhauer, di Wagner e di altri grandi spiriti.

Chi potrebbe dire che Martinetti e Gobineau fossero pazzi o ricordarli solo per codesto loro affetto asinino? Il nome di Nietzsche, invece, è strettamente legato al ricordo dell'abbraccio del cavallo, come se non avesse fatto nient'altro.

Ma poi, dove e quando sarebbe avvenuto il gesto di chi aveva pur voluto rovesciare la morale schopenhaueriana basata sulla compassione? In via Po, dicono le due fonti che abbiamo citate sopra. Il Pavia, non so con quanta fondatezza, ci mette anche la data: 28 dicembre. Secondo altri, invece, che parlano dell'episodio come se fossero stati presenti, senza per altro indicare mai la fonte delle loro informazioni, esso sarebbe avvenuto in piazza Carlo Alberto, in piazza San Carlo, in piazza Carlina o anche in via Accademia delle Scienze. Sentiamo un certo B. Belmondo-Caccia, che sul soggiorno di Nietzsche a Torino pretende di saperla più lunga degli altri. In un articolo sintatticamente sgangherato e dal titolo bislacco scrive: «Giova, forse, rammentare che un professore tedesco, dai baffi spioventi e dagli occhiali a stanghetta, messi lì per lenire una grave infermità, impazziva a Torino, il 3 gennaio 1889, in via Accademia delle Scienze, mentre fra sconosciuti che non lo conoscevano neppure di nome, se n'andava solo, e con il cuore colmo di tenerezza costretta […]. Singolarissimi furono i segni esteriori della sua purtroppo non passeggiera alienazione mentale che, dopo essersi, appunto, manifestata pubblicamente, e nella città da lui prediletta, lo tenne immerso in una completa e non tormentosa [...] abulia, per un ininterrotto periodo di oltre dieci anni [...]. Singolarissimi dunque i primi segni esteriori della sua pazzia, forse noti alla più gran parte dei lettori. Passava un barroccio stracarico di legumi — era di buon mattino46 — e trascinato da una misera e piagata parvenza di ronzino sfiancato. Il povero Nietzsche gli si buttò al collo piangendo, baciandolo e chiamandolo "Fratello!". Poche ore prima della tragica scena, aveva spedito al critico danese Braudes [sic!], suo amico, scritte su carta rigata a lapis, come usano i ragazzini, le seguenti parole che, da molti, furono giudicate incoerenti». Ma ecco un'altra notizia ancora più ghiotta: «Anche si dice che egli, il quale in amore non conobbe delusioni e che, pure in questo non a ragione, ancor oggi, molti, stimano implacabile misogino — quanto facile sarebbe dimostrare il contrario! — perdutamente s'innamorasse d'una formosa e giovine verduriera di Porta Palazzo».

Ci mancava anche la verduriera! Dubito che Nietzsche, così restio a cacciarsi tra la folla (si vedano le note del suo taccuino), sia mai andato nel caos di Porta Palazzo, dove Lessing, un secolo prima, aveva fatto delle considerazioni assai penetranti sul carattere dei torinesi. Se mai ci sarà andato in cerca di mele o di arance, non di fruttivendole. E non bastava a Belmondo-Caccia ciò che, a Ruta, gli aveva riferito una vecchia cameriera? Parlando del soggiorno di Nietzsche nella cittadina ligure, infatti, l'articolista aggiunge: «Chi mi diede maggiori particolari sulla permanenza di Nietzsche a Ruta fu una vecchia cuoca che ancora oggi lavora nell'albergo [...]. Appena la cameriera, la vecchia cuoca di oggi, giovine allora, si capisce, e, mi dicono, non brutta, bussava all'uscio, il Nietzsche rispondeva con voce burbera [...]. — ... pareva che nemmeno si accorgesse che io ero una donna! — mi confessò la giovinetta... d'allora, e quasi con... rammarico».

Di Nietzsche si occupò a più riprese anche il Thovez, ma senza andare a fondo nelle ricerche e basandosi evidentemente anche lui sull'articolo della «Nuova Antologia». Talvolta farebbe pensare che sia andato a intervistare i padroni di casa di via Carlo Alberto: «I Fino ricordano che pranzava con una costoletta e una bottiglia di barbera: ma ai primi bicchieri la testa gli era in fiamme: cosicché dovettero vietargli il vino». Ma questo è un particolare che già conosciamo. Il Thovez, se mai, ci ricama sopra per conto suo, dicendo che Nietzsche, «benché predicasse l'astensione dagli alcolici [...], vi indulgeva nella pratica», il che è da dimostrare. Dopo aver parlato anche lui del cavallo, aggiunge: «La cronaca giornalistica di quei giorni non se ne occupò nemmeno. Ho cercato se non si trovasse fra le minime notizie di cronaca uno stelloncino: "Un vecchio professore tedesco impazzito: un certo Federico Nietzsche...". Ma non ho trovato nulla. Spesso gli avvenimenti più grandi si compiono fra l'indifferenza, finché non li lumeggia l'avvenire». Vecchio? Il Thovez avrebbe dovuto sapere quanti anni Nietzsche avesse nel 1888, visto che ne leggeva gli scritti, forse anche nel testo originale. Anche lui, nei suoi diari giovanili, aveva notato che l'autunno del 1888, di cui si parla nell'Ecce homo, «fu uno di quegli autunni torinesi meravigliosi di dolcezza e di splendore che sembrano pervadere di irrealtà, circonfondere di sogno la vecchia città grigia e positiva». Chissà, passeggiando per il Valentino, egli, senza sapere ancora chi fosse, avrà magari incontrato più di una volta l'Anticristo. Né sapeva, il solitario e malinconico Tho-vez, di essere pedinato dalla polizia per le sue idee. Il prefetto di Torino, infatti, chiedeva delle informazioni su di lui, come risulta da un'annotazione nei protocolli riservati della questura relativi al 1888-1889.

Sui giornali italiani e su quelli torinesi in particolare comparvero moltissimi pezzi a effetto sulla pazzia di Nietzsche; ma essi, quando non sono frutto di pura fantasia, non contengono nulla di nuovo o di interessante per una ricerca. Nella «Gazzetta del Popolo» del 12 aprile 1906 c'è un articolo che promette molto e non dice niente. Il titolo è Le ultime ore di Nietzsche a Torino; ma poi l'autore si limita a fare un riassunto di ciò che Overbeck scrive a Gast circa il suo incontro con Nietzsche a Torino. I bravi giornalisti, insomma, anziché andare a parlare con Davide Fino, che viveva a Torino e ne sapeva più di tutti, commentavano le notizie provenienti dall'estero. Sei anni prima un altro giornalista, Gabriele Gabrielli, aveva scritto che Nietzsche nel «1889 ritornò in Italia, ma a Torino fu colto da apoplessia, e illustri medici, esaminatolo, dissero che le forti dosi di cloralio avevano intaccate e distrutte alcune parti del suo cervello».52 Costui, evidentemente, non sapeva nulla e scriveva a vanvera. Altro campione di ricerca scrupolosa, G. Deabate, che si limita a rifare l'articolo della «Nuova Antologia»,   compresi gli errori cronologici.

Unica cosa interessante, la conferma che Overbeck era stato chiamato dai Fino: «Poco dopo, accompagnato dal professor Overbeck, fatto venire dai Fino, che lo sapevano amico dell'infermo, Federico Nietzsche lasciava per sempre Torino».

Non cito altri articoli, perché servirebbero più a generare confusione che a fare luce sull'argomento. Il guaio è che non la si smette neppure oggi di scrivere a vanvera sulla pazzia di Nietzsche. In un articolo intitolato Il cavallo di Nietzsche, quasi si trattasse di Riccardo III o di san Martino, si legge: «A Torino, in piazza Carlo Alberto, la mattina del 3 gennaio 1889, Nietzsche esce dalla pensione e vede un vetturino intento a percuotere il suo cavallo. Con un urlo attraversa la piazza e getta le braccia al collo dell'animale. Poi perde i sensi e scivola a terra, sempre avvinghiato al cavallo». Parrebbe quasi che l'autore dell'articolo avesse assistito di persona all'episodio, sì da poter non solo sentire l'urlo, ma anche vedere Nietzsche attraversare di corsa la piazza. Con parole pressoché identiche, lo stesso racconto è stato ripetuto recentemente da un serissimo professore di filosofia.

Una piccola osservazione: come avrà fatto, il quasi orbo Nietzsche, a vedere da un capo all'altro della piazza la frusta del vetturino? Ma il gran mistero è un altro: «Poi perde i sensi e scivola a terra, sempre avvinghiato al cavallo». Che non siano scivolati anche il cavallo e la carrozza cui era attaccato? Per risparmiare uno scivolone ai due suddetti nietzscheani, conviene attaccarsi a un'altra ipotesi: il cavallo potrebbe essere stato un pony. Secondo Gottfried Benn, invece, Nietzsche avrebbe abbracciato non uno, ma addirittura due cavalli. Ma lui ha almeno la scusa di essere poeta.

Abbiamo riferito degli articoli di giornale, ma non si creda che ci sia da ricavare qualche cosa di più dagli studiosi di professione. Basti dire che in uno dei nostri migliori testi di storia della filosofia, forse addirittura il più celebrato, si legge che Lou Salomé «si unì in matrimonio con l'amico e discepolo di Nietzsche, Paolo Rèe», che lo Zarathustra «fu pubblicato soltanto nel 1891 quando Nietzsche era caduto nella notte della pazzia», che Nietzsche «nel frattempo si era stabilito a Torino», dove aveva «continuato a lavorare alla sua ultima opera, la Volontà di potenza, rimasta incompiuta», che «nel febbraio 1889 un accesso di pazzia lo gettava incosciente al collo di un cavallo» e che «rimase ancora dieci anni immerso in una blanda pazzia, in cui affioravano di tanto in tanto i ricordi e le delusioni della sua vita tormentata».

A Torino, per fortuna, vivono ancora due nipoti di Davide Fino. Le abbiamo già nominate: sono le signore Bianca Fino in Majolino, figlia di Ernesto, e Palmina Perrottelli, figlia di Giulia. Dopo averle rintracciate attraverso l'anagrafe, sono andato a farmi raccontare quello che sapevano. La signora Majolino, che è nata nel 1903 e abita in via Bogino n. 3, ricorda perfettamente ciò che il nonno e il padre le raccontavano di Nietzsche.

Circa l'abbraccio al cavallo, la signora dice che il nonno soleva parlarne spesso. Da buoni piemontesi ben squadrati, però, i Fino non avevano avuto bisogno di tale episodio per capire che Nietzsche dava in ciampanelle. Avevano notato infatti segni di stranezza ben prima che si manifestasse in maniera clamorosa la sua pazzia. «Era assai bizzarro, — dice la signora, — ma era anche molto austero e metteva soggezione.» Tuttavia sapeva essere anche molto gentile, e talvolta offriva le caramelle ai ragazzi Fino. Giulia, soprattutto, lo osservava spesso con curiosità, perché lo trovava strano. Nietzsche suonava volentieri l'uno o l'altro dei due piani che erano in casa; ma, a detta della signora, egli aveva «uno strano modo di suonare. Faceva soprattutto degli accordi, intercalati da lunghi silenzi. Suonava anche nella penombra, ma sempre a intermittenza». Giulia, una volta, incuriosita da quelle lunghe pause, volle vedere che cosa mai facesse quello strano inquilino. Si avvicinò piano alla porta, ma Nietzsche la sentì e, voltatosi di scatto, le gridò: «Brutta bestia!». Pare che non avesse molta simpatia per Giulia, che allora aveva sedici anni; molta, invece, per Irene. Per questa avrebbe avuto addirittura del tenero, dell'affetto: la signora Majolino dice di averlo sentito ripetere spesso non solo dal padre, ma anche dal nonno; e aggiunge che se ne ricorda benissimo. Talvolta Irene e Nietzsche suonavano a quattro mani.

Ad allarmare seriamente i Fino, oltre alle bizzarrie sempre crescenti, intervenne un altro fatto: essi trovarono nel cestino anche delle banconote fatte a pezzi. Il loro inquilino faceva tutto a pezzi, talvolta perfino la corrispondenza, di cui per altro era gelosissimo. Quando si trattò di comunicare la notizia della pazzia, i Fino non riuscirono a trovare facilmente un indirizzo. Si trovarono nei guai, perché non sapevano che fare e a chi rivolgersi. La signora, a questo punto, conferma che fu il nonno ad avvisare telegraficamente Overbeck. Intanto Nietzsche, in preda alla follia, «criava», come dice la signora in dialetto torinese, cioè gridava e metteva a rumore tutta la casa. E faceva anche «altre cose». Per ritornare all'episodio del cavallo, Davide Fino soleva raccontare che la gente era andata a chiamarlo e che lui aveva riaccompagnato Nietzsche a casa. Appena lo aveva visto, Nietzsche aveva esclamato: «Oh, caro signor Fino!». Era questo il suo modo abituale di rivolgersi al padrone di casa.

Ma c'è anche un episodio ancora sconosciuto. Nietzsche non voleva assolutamente lasciare Torino e la casa di via Carlo Alberto. Era molto affezionato ai suoi padroni di casa, particolarmente a Davide. Quando questi, tuttavia, riuscì a convincerlo che doveva partire per Basilea, egli volle a tutti i costi che il «caro signor Fino» gli regalasse, come pegno che si sarebbero rivisti presto, la sua papalina, cioè la berretta da notte. Con quella strana berretta sulla testa, che nessuno riuscì a togliergli, e voltandosi spesso verso la casa che lo aveva ospitato, si avviò finalmente verso il suo triste destino.

[...]

LO SFACELO (pp. 405-439)

Si è discusso a lungo, e il Cielo sa per quanto tempo ancora se ne discuterà, se Nietzsche fosse o non fosse sifilitico. Tutti si sono cimentati con l'argomento: medici letterati e letterati medici, specialisti noti e meno noti, critici da strapazzo e critici autorevoli. Né si creda che i medici e gli psichiatri siano meno ciarlieri o abbiano meno tempo da perdere dei letterati. Si è perfino giunti a rispolverare lo stupido dualismo fra spirito e materia, tanto caro alla filosofia occidentale. «A voi il corpo di Nietzsche e a noi il suo spirito», gridavano i critici ai medici, quasi che il povero Nietzsche, forse la più tormentata cavia letteraria di tutti i tempi, fosse stato sezionato per davvero e ai medici dovesse toccare solo la carne. È vero che Nietzsche stesso, nelle sue ultime allucinazioni, s'immaginò di essere Dioniso Zagreo dilaniato sulle rive del Po; ma forse non pensò mai, pur assaporando la voluttà del martirio, di cadere in mano ai norcini della critica scientifico-letteraria.

E poi, perché tutto codesto interesse per la causa della pazzia di Nietzsche, più ancora che per la pazzia stessa? Tutto ha una causa, in questo mondo, l'essere pazzi come il non esserlo. Non c'interessa di sapere come è fatto l'orologio, direbbe Lichtenberg, ma vogliamo solo sapere che ora è. E abbiamo visto che cosa segnassero le lancette di Nietzsche. Che poi tali lancette andassero come andavano per questa o per quella causa ha un'importanza relativa. Ma in quelli che vogliono a tutti i costi rendere Nietzsche sifilitico, come se non gli bastassero gli altri mali che aveva addosso, c'è, evidentemente, il desiderio di attribuire la follia del loro idolo a un semplice incidente.

Nel Doktor Faustus, Thomas Mann fa fare a Nietzsche, nelle vesti di Adrian Leverkühn, la cosa più contraria alla sua natura: andare in un lupanare e prendersi, proprio lui, la sifilide. La storia di Nietzsche-Leverkühn, secondo Mittner, sarebbe «narrata in parte su documenti nietzschiani autentici». Quali? L'unica fonte non può essere che questa notizia dataci in tono abbastanza divertito da Paul Deussen, uno degli amici più intimi di Nietzsche: «Non del tutto volentieri racconto, qui, una storia che merita di essere sottratta all'oblio perché aiuta a capire il modo di pensare di Nietzsche. Un giorno, nel febbraio 1865, Nietzsche si era recato da solo a Colonia, là si era fatto accompagnare da una guida a vedere le cose ragguardevoli della città e alla fine le aveva chiesto di condurlo in un ristorante. Ma costui lo portò in una casa malfamata. "Mi vidi", così mi raccontò Nietzsche il giorno dopo, "improvvisamente circondato da una mezza dozzina di apparizioni in veli e lustrini, che mi fissavano speranzose. Rimasi per un po' senza parola. Poi mi diressi istintivamente verso un pianoforte, l'unico essere animato in quella compagnia, e ne trassi alcuni accordi. Questi mi liberarono dallo sbalordimento e me la svignai". In base a questo e a tutto quello che so di Nietzsche, credo che a lui si attaglino le parole che ci dettò Stein-hart in una biografia latina di Platone: "mulierem nunquam attigit". Una volta accertato, un simile dato di fatto non dovrebbe essere perso di vista nel giudicare ciò che Nietzsche dice sulle donne, le quali, secondo la sua concezione, dovrebbero essere solo al servizio dell'uomo».

Che cosa ci autorizza, in questo piccolo episodio, a credere che Nietzsche non sia scappato via terrorizzato dal bordello e vi abbia invece contratto la sifilide? Se Thomas Mann ha creduto di poterne ricavare il suo romanzo, l'ha fatto certamente per conto suo. Ma Nietzsche, sostengono altri, potrebbe essere ritornato alla carica ed essersi infettato dopo, durante gli anni di studio a Lipsia. Citiamo il Montinari, che si rifa al Blunck: «Si possono accettare l'esposizione accertata dei fatti e le conclusioni che ne ha tratto il più volte citato Richard Blunck, secondo il quale, nel clima ipocrita della morale borghese, che costrinse per molto tempo i giovani studenti a provvedere in quel modo alle loro "necessità erotiche", una ipotesi del genere è anche per Nietzsche normale. Questa ipotesi è confermata da una dichiarazione che Nietzsche stesso, già demente, fece ai sanitari nel gennaio 1890 e che fu registrata: "1866 infezione sifilitica". In base alle testimonianze raccolte dallo psichiatra Lange-Eichbaum e alla dichiarazione di Nietzsche, conclude il Blunck, dobbiamo ritenere accertato il fatto che la demenza di Nietzsche "sia stata originata esclusivamente da una sifilide", contratta a Lipsia e culminata nella paralisi progressiva».

Finiamola, una buona volta, con questa benedetta morale borghese, alla quale si cerca di addossare qualsiasi turpitudine! Essa non ha mai costretto nessuno, e meno che mai i filosofi, a prendersi la sifilide nei lupanari. Diciamo, piuttosto, che di accertato, qui, non c'è proprio niente. Quanto all'annotazione «1866 infezione sifilitica», che compare nel «Krankenjournal» di Jena (ma nel gennaio 1889, non 1890), non si tratta di una dichiarazione di Nietzsche, bensì di una voce giunta da Basilea. Tanto è vero che è inserita nel breve «cenno biografico» e subito dopo la «storia clinica da Basilea». A fornire i dati, come vedremo, fu il dottor Mähly, che accompagnò Nietzsche da Basilea a Jena. Anzi la voce sifilide compare anche prima, fra le generalità, che non furono certo fornite dal malato.

Circa la possibilità che Nietzsche possa aver contratto la sifilide a Lipsia, abbiamo la dichiarazione del professor Roscher, il quale, quando la questione incominciò a far rumore nella stampa, scrisse spontaneamente alla signora Förster: «... così io ritengo un dovere della mia coscienza confermarle esplicitamente che a me, che potei essere vicino a Nietzsche e a Rohde durante i loro anni di studio a Lipsia, non è mai giunto il minimo sentore di una infezione "luetica" in quel tempo. Mi riesce anche del tutto incredibile che Nietzsche, il quale in fatto di sesso viveva come un santo e come tale, a quel che mi risulta, veniva considerato da tutti gli amici di gioventù, possa essersi presa una simile infezione mediante una stravaganza». Si può solo obiettare che in tali dichiarazioni ci doveva avere lo zampino la Förster, che andava fabbricando la figura dolciastra del «santo»; ma questo non toglie nulla alla veridicità delle testimonianze. Lo stesso Rohde respinse con sdegno l'ipotesi che il suo amico si fosse infettato a quel modo (Hildebrandt, p. 107), mentre Gast, «come amico e intimo conoscente di Nietzsche», ci rideva sopra (Bernoulli, I, 433). In breve, nessuno degli amici più vicini seppe mai nulla di codesta leggendaria infezione luetica; il che, pure tenendo conto della ritrosia di Nietzsche a confidarsi, è davvero singolare.

Riferendosi al fatto che Nietzsche stesso avrebbe dichiarato di essersi infettato, Kurt Hildebrandt fa un'ipotesi assai verosimile: «Binswanger ha ammesso l'infondatezza di quella infausta registrazione, di cui si può in certo qual modo supporre la provenienza. Nel manicomio di Basilea Nietzsche, nel più alto stadio della sua megalomania e della sua confusione, deve aver risposto alla domanda sulla lue: "Signorsì, due volte, nel 1866". Già la dichiarazione di una infezione avvenuta due volte, cosa impossibile in circostanze normali, lascia pensare che Nietzsche non abbia capito la domanda. Forse la spiegazione che Peter Gast dà di questo fatto non è sbagliata. Il 1866 fu l'anno del colera. Nietzsche credeva di essersi preso due volte il colera, nel mese di luglio a Lipsia e all'inizio di settembre a Naumburg, e s'immaginò di aver domato la malattia mediante le sue pronte cure. Ora, siccome lues (= malattia contagiosa) come parafrasi discreta di sifilide nel 1889 non era ancora generalmente conosciuta, a Nietzsche potè venire in mente il ricordo del colera, tanto più che gli si era profondamente impressa nella mente una notte trascorsa vicino a un morto di colera».

Nella cartella clinica di Basilea è scritto testualmente: «Gibt an, dass er sich zweimal specifisch inficìrt habe». Ora, se non si vuole accettare l'ipotesi avanzata da Hildebrandt, si può anche supporre che a ficcare in testa a Nietzsche una simile idea sia stato Bettmann. Se l'aveva già fatta sorgere in Overbeck, come dice il Bernoulh, figuriamoci quello che avrà potuto fare con Nietzsche, chiedendogli notizie della sua «natura sotto». Né c'è bisogno di dire quanto siano ricettive le menti dei malati. Nulla di strano, dunque, che Nietzsche, dopo le insinuazioni di Bettmann, abbia potuto dichiarare di essersi infettato non una, ma addirittura due volte. Si aggiunga che sono proprio gli inibiti sessuali come Nietzsche a inventarsi storie del tutto in contrasto con la loro natura, specialmente se hanno disturbi mentali. E se è già difficile prestar fede al Nietzsche savio, figuriamoci all'altro. Lo stesso professor Bin-swanger dichiarò che Nietzsche non era più in grado di dare delle indicazioni e che era impossibile stabilire l'eziologia del male: «La natura, il decorso come pure la durata della malattia portano a un senso né negativo né positivo per la soluzione del problema». A sua volta il dottor Gutjahr, altro medico curante, scrisse: «Dopo di ciò ho visitato Nietzsche per trovare segni e residui di una lue e non ho trovato niente». Sentiamo anche il professor Wille, che pure aveva imprudentemente diagnosticato la paralisi progressiva: «Per quanto mi ricordi, queste dichiarazioni (lue pregressa) derivano dal malato stesso. Siccome Nietzsche, durante il suo soggiorno relativamente breve a Basilea [cioè nella clinica psichiatrica diretta dal professor Wille], era continuamente e in alto grado agitato, difficile, profondamente disturbato nello spirito e confuso, le sue dichiarazioni e asserzioni devono essere giudicate secondo queste abnormi condizioni psichiche. Segni corporali di un precedente processo sifilitico non erano, che io ricordi, dimostrabili».

Riassumendo, né Wille né Binswanger poterono diagnosticare qualche cosa di preciso: si limitarono a delle semplici supposizioni, ivi compresa la paralisi progressiva. Ma se Nietzsche avesse avuto la paralisi progressiva, non sarebbe sopravvissuto per tanto tempo; e questo lo aveva detto già il Möbius, il cui libro sulla malattia di Nietzsche resta ancora valido. Anche nei documenti torinesi non si fa alcun accenno alla sifilide. E vero che allora non erano state ancora scoperte né la Wassermann né la spirochaeta pallida; tuttavia la malattia era ben nota, anche se veniva attribuita con troppa facilità. Il professor Turina, che visitò più di una volta Nietzsche, avrebbe certo rilevato i segni della sifilide e prescritto le cure dell'epoca, se tali segni fossero stati presenti. Ma la verità è che, per quanto si studino i documenti riguardanti l'intera questione, non si trova nessuna notizia o traccia dei segni della sifilide che precorrono la fase estrema. Così, il voler ricavare a tutti i costi una sifilide dal pasticcio di supposizioni e ipotesi, di cui abbiamo dato appena un accenno, ricorda un po' il procedimento di quegli archeologi che esplorarono il pozzo sacro di Chichén Itzà nello Yucatan. In base ad alcune ossa trovate nel pozzo, essi volevano non solo stabilire se si trattasse di donne gettatevi dentro a scopo sacrificale, ma anche se fossero vergini.

Solo Overbeck, fra gli amici di Nietzsche, mostrò, forse in seguito alle insinuazioni di Bettmann (come dice il Bernoulli), una certa tendenza a credere all'infezione luetica. Quando, per esempio, il 24 febbraio del 1890 si recò dal professor Bin-swanger a Jena, per prima cosa gli chiese se la malattia di Nietzsche potesse essere conseguenza della lue. Zweifellos, indubbiamente, gli avrebbe risposto il professore (Bernoulli, I, 432). E qui diamo di nuovo la parola a Hildebrandt: «Siccome Binswanger, allora, era dell'opinione che solo il 70 per cento delle paralisi fossero di origine sifilitica, questo zweifellos indica, molto correttamente, solo la "possibilità". Ma Over-beck ne dedusse — del tutto a torto, come dimostrano le lettere di Binswanger — che quegli avesse diagnosticato con sicurezza la sifilide». E aggiunge: «Da questo fatto si vede inoltre che Overbeck non era completamente estraneo ai malintesi che dovevano causargli così grave dispiacere. (Overbeck, in ogni caso, adempì i suoi obblighi di amico con alto senso del dovere, ma non si può disconoscere un suo segreto risentimento verso l'amico di natura così diversa. Overbeck sentì in qualche modo la gloria di Nietzsche come un rimprovero per la propria mediocrità)» (p. 110).

E' probabile insomma che Overbeck abbia contribuito, sia pure involontariamente, a diffondere la leggenda della sifilide. A Jena, però, le prime notizie furono portate dal dottor Mähly. Né è vero, come dice Hildebrandt, che nella cartella clinica di Jena stia scritto: «Syphilitische Ansteckung 1866 laut Aussage Overbecks». Ci sono solo le prime tre parole. Più tardi, forse per vederci meglio, la clinica psichiatrica di Jena chiedeva a quella di Basilea la cartella di Nietzsche.

I veri dispiaceri, per Overbeck, incominciarono dopo la pubblicazione del libro di Möbius, cui egli aveva accordato un'udienza di tre ore il 10 aprile 1902. Dalla lettera di Möbius a Overbeck del 4 aprile 1902, da Zurigo, non si capisce bene, a dire la verità, se avesse più desiderio Möbius di parlare con Overbeck o Overbeck con Möbius. Questi scrive: «Il Prof, von Bunge mi scrisse, or è molto tempo, che lei sarebbe così gentile da parlare con me del defunto Nietzsche». E chiede di fissargli un appuntamento.10 Quando poi uscì il libro, Overbeck, in data 21 e 22 luglio 1902, scrisse una lunga lettera a Möbius da Brigels, dove si trovava in ferie, dichiarandosi sostanzialmente d'accordo con lui. Ne riportiamo qualche passo: «In tutto ciò che lei, come psicologo, espone su di lui [Nietzsche], sulla sua personalità, pp. 13-36, io posso piuttosto sottoscrivere quasi tutto». Solo quando Möbius applica a Nietzsche il concetto di «individualismo irreligioso» Overbeck non è d'accordo: «Il suo lo chiamerei piuttosto religioso, in quanto la sua autostima portava sempre, in sé, il carattere dell'autoadorazione». Il libro di Möbius, ora, e più precisamente la suddivisione in periodi della malattia di Nietzsche, lo aiuta a fissare il momento in cui tale autoadorazione si trasformò in megalomania. E continua: «Non in grado di sottrarmi al suo insegnamento circa lo sviluppo del carattere da lei definito "esogeno" della malattia cerebrale di Nietzsche, mi riesce tuttavia incomprensibile l'accento che lei pone su questo carattere, in quanto [cancellature nel testo e periodo sospeso].

Così come ho presente Nietzsche, la sua (esogena) malattia mi appare a tal punto come inizio di un "accrescimento delle sue peculiarità", che la cosa più sicura che io ricavo dalla sua costruzione della "malattia" di Nietzsche non è tanto l'allontanamento di questa idea quanto l'"altra" [idea?] di un malanno senza nome, che in me, quando penso a Nietzsche, resta purtroppo ferma [il passo è di difficile interpretazione, sia per la grammatica incerta, sia per il senso oscuro della frase. Overbeck alludeva forse alla storia dell'infezione luetica?]. Già nel 1879, quando egli se ne andò da Basilea e i nostri rapporti persero la loro quotidianità e intimità durate lino allora, Nietzsche mi appariva come una personalità così smisuratamente oppressa dalla malattia e per giunta da difficoltà interiori, che io non potevo quanto meno prevedere "una buona fine" per lui, ma una fine nella pazzia era all'incirca l'ultima cosa che mi passasse per la mente. E quando a Torino, circa dieci anni dopo, mi si spalancarono gli occhi su questa fine, in me inesperto, che in ogni caso nel gruppo torinese delle mie lettere ricevute da Nietzsche] avevo già da circa tre mesi uno degli esempi più lampanti dell'euforia di un malato di mente, come già le dissi durante il nostro colloquio a primavera, crebbe per anni il pregiudizio che la pazzia avesse colpito come un fulmine Nietzsche] a cavallo tra il 1888 e il 1889. Nel frattempo ho abbandonato, già da anni, tale pregiudizio, ma solo dal suo libro ho ricevuto un'idea chiara delle circostanze di fatto. Con il che, ora, mi si è completamente offuscato il ricordo di Nietzsche quale quello di un uomo la cui nobile forza in una lotta comunque disperata sia stata spezzata da una sorte maligna nel mezzo della sua vita». Overbeck, che si dice disposto a fornire tutti i particolari che potessero ancora interessare Möbius, termina con il riconoscimento dell'alto valore del libro: «Dopo quello che precede non le può rimanere alcun dubbio circa l'alto valore che il suo libro ha per me».

E dire che il libro termina con la frase: «Guardatevi da quest'uomo, perché era un malato di mente». In seguito, però, la polemica si fece più rovente e si sparse la voce che a mettere in giro la storia della sifilide di Nietzsche fosse stato proprio lui, Overbeck. Allora egli si rivolse al professor Binswanger. La lettera, del 28 marzo 1905, è il risultato di un vero e proprio consulto tra Overbeck, sua moglie e Bernoulli. Esistono, infatti, tre redazioni alquanto diverse. La prima è dello stesso Overbeck e reca l'annotazione: «Primo abbozzo della mia lettera al direttore del manicomio di Jena, Binswanger». La seconda è di Bernoulli e reca queste annotazioni di Overbeck: «Testo proposto e steso da Bernoulli, il quale è stato poi spedito a Binswanger. Spedito il pomeriggio del 28 marzo 1905, raccomandato». La terza è una copia in bella fatta da Ida Overbeck del testo scritto da Bernoulli, con qualche piccola aggiunta di Overbeck, e spedito a Binswanger. «Recentemente — vi si legge — mi è giunto all'orecchio che nella discussione pubblica provocata dalla direttrice del Nietzsche-Archiv di Weimar e dal Dr. P.J. Möbius di Lipsia sulla lue quale ultima causa della malattia cerebrale del mio amico Fr. Nietzsche [si dice che] le mie dichiarazioni fattele nel manicomio di Jena il 24 febbraio 1890 sarebbero state per lei il motivo decisivo per cercare tale ultima causa in una infezione luetica. Contro questa interpretazione del nostro colloquio di allora io mi affretto a protestare, in quanto nel mio ricordo ancora molto chiaro di quel colloquio le cose stanno in modo completamente diverso.»

Sarebbe stato Binswanger, sia pure dietro una precisa domanda di Overbeck e «indipendentemente dalle mie proprie supposizioni che miravano là», a parlare di «base luetica». Overbeck aggiunge che non si sentirebbe più obbligato al silenzio, qualora venissero erroneamente addebitate a lui le voci circa la presunta malattia di Nietzsche. Lo stesso Binswanger non poteva pensare di essere stato indotto a una simile diagnosi da un profano: «Nella controversia con il Dr. Möbius io desidero di tenermi strettamente neutrale; dovesse tuttavia, contro il mio desiderio e il mio modo di vedere, sorgere la necessità di invocare la mia testimonianza nella controversia psichiatrica, essa non potrebbe essere che questa: io nell'anno 1890, sull'autorità della sua dichiarazione confidenziale, mi formai l'idea personale che poi Möbius, più tardi e punto influenzato da me, ha da parte sua esposta come ipotesi scientifica».

Overbeck, questa volta, doveva proprio avere una memoria di ferro, se ricordava alla perfezione quello che lui e Bin-swanger si erano detti quindici anni prima. Ma perché ricorrere all'aiuto di Bernoulli? Per il resto, siamo ancora e sempre nel campo delle ipotesi o delle supposizioni, che vengono rimbalzate dall'uno all'altro.

Binswanger rispose con una cartolina il 24 aprile, ma in maniera piuttosto vaga: «E vero che io non ho espresso né al signor Gast né alla signora Förster la supposizione che sia stato lei a fare la comunicazione [della sifilide]. Le sue righe mi dimostrano che tale congettura era sbagliata». Overbeck, che si affrettò a inviare a Bernoulli una copia della risposta di Binswanger, non rispose subito. Ma il 21 maggio 1905 Gast gli scrisse che, mediante il libro di Möbius, si era diffusa la «favola» che la pazzia di Nietzsche fosse da ricondursi a una infezione sifilitica contratta prima del 1870 e che nel «Kranken-journal» di Jena c'era scritto essere stato lui, Overbeck, a dare tale notizia. E chiedeva di dargli spiegazioni. Allora Overbeck, che era ormai prossimo alla morte, si rivolse di nuovo a Binswanger. Anche questa lettera è in due redazioni. La prima, datata 24 maggio, è di mano di Overbeck e reca un'aggiunta della moglie, dove si dice che il marito si è sentito male e non ha potuto terminare la lettera. La seconda, datata 30 maggio, è una copia in bella ed è scritta tutta di mano di Ida Overbeck.

Come al solito Overbeck, che non possedeva neppure lontanamente l'arte di carezzare la frase fino a farla sorridere, attacca con uno dei suoi periodi che definirei terremotati, tale è lo scompiglio tra le proposizioni principali e quelle dipendenti. Sunteggiamo. Obbligato dalla franchezza con cui Binswanger aveva risposto alla sua domanda circa la fonte di quello che si diceva nel Nietzsche-Archiv di Weimar, cioè che «io sarei la fonte della supposizione, sorta nel 1902 mediante il Dr. P.J. Moebius, intorno alla causa della pazzia di Nietzsche», Overbeck aveva pensato di non dover più disturbare lo psichiatra per tale questione. Avrebbe lasciato da parte ogni ulteriore chiarimento al riguardo, sebbene gli fosse dispiaciuto che Binswanger avesse tralasciato di spiegare «come lei, senza alcuno scambio di idee fra noi due, sia giunto di proprio arbitrio a fare di me uno che fosse a conoscenza per conto proprio di un avvenimento che dovrebbe risalire a trentanove anni fa e di cui io, in effetti, non ebbi il minimo sentore fino a quando, tre anni orsono, non ne sentii parlare dal Dr. Moe-bius durante un incontro avuto con me, il 10 aprile 1902, per sua ulteriore informazione». Möbius, però, non gli avrebbe detto qual era la sua fonte. Ad ogni modo, a lui non importa di sapere «chi siano i testimoni coperti dal signor Moebius». A costringerlo a riprendere la corrispondenza con Binswanger è piuttosto una «lettera ricevuta il 23 di questo mese». «Il signor Peter Gast, con il quale avevo interrotto ogni corrispondenza da quando gli avevo mandato il mio articolo [apparso] nel Feuilleton della Frankfurter] Z[ei]t[un]g, 1904 n. 343», gli ha scritto circa le voci che corrono e si sente ora autorizzato «a chiedermi conto della mia responsabilità in merito all'opinione che il Dr. Moebius ha diffusa fra la gente sulla causa della malattia cerebrale di Nietzsche. Sento, inoltre, che lei personalmente avrebbe portato a Weimar abbondanti informazioni su Nietzsche» Quindi nuova esca alla polemica.

A questo punto, Overbeck riporta un brano della lettera di Gast: «Egli [Binswanger] confermò quello che io avevo già saputo prima da uno dei suoi precedenti assistenti, il Dr. Richard Sand-berg: che Möbius aveva esaminato i Krankenjournale del manicomio di Jena e ne aveva preso la registrazione riguardante Nietzsche. Möbius aveva chiesto il permesso della signora Förster e, dato che questa non sospettava nulla di male, l'aveva anche ottenuto. Ora, in queste cartelle cliniche deve effettivamente trovarsi la dichiarazione che Nietzsche è stato una o due volte malato di lue. E unicamente su questa dichiarazione che Möbius fonda il suo frivolo edificio. E a chi attribuisce, la cartella clinica, questa dichiarazione? A lei, pregiatissimo signor professore». Sebbene il medico gli avesse proibito di proseguire tale corrispondenza, Overbeck rispose a Gast nella maniera più logica, inviandogli una copia di quello che gli aveva scritto Binswanger, al quale dice che da ciò «il signor Gast trarrà il diritto, che egli ha in questa storia, di richiamarsi a lei. Ma da chi, all'infuori di lei, devo io sperare, nelle condizioni per me disperate del momento, un esame della questione che interessa così profondamente il mio buon nome?». A questo punto, Ida Overbeck aggiunge che «un forte attacco del suo male» ha impedito al marito di terminare la lettera e prega Binswanger di mandarle «un estratto preciso» di tutto quello che è scritto «su mio marito» nel «Krankenjournal» di Jena.1

Questa volta, forse perché non c'era Bernoulli, la memoria di Overbeck faceva cilecca. Come poteva dire di non aver avuto sentore della storia della sifilide prima dell'incontro con Möbius, se lui stesso ne aveva parlato dodici anni prima con Binswanger? Questi rispose il 7 giugno così: «Quanto alla cosa stessa, devo notare che la comunicazione epistolare del signor Gast, secondo la quale la notizia nel nostro Kranke-njournal sull'infezione di Nietzsche sarebbe attribuita a suo marito, è completamente falsa. Nel Krankenjournal è registrato solo il fatto: non è indicata alcuna fonte». E a nessuno veniva in mente che la notizia, sia pure campata in aria, si trovava già nella cartella clinica di Basilea.

Diciannove giorni dopo, il povero Overbeck, cui l'amicizia e la pazzia di Nietzsche erano pur costate care, moriva. Non accenna a morire, invece, la leggenda della sifilide di Nietzsche, anche perché contro le leggende non esistono antibiotici. Una testa ingegnosa mette in giro una voce e mille teste mediocri la ripetono all'infinito. Su Nietzsche, che è già di per sé una specie di ipotesi, si sono fatte tante di quelle ipotesi, che una in più o in meno non fa gran differenza.

Durante le mie ricerche, naturalmente, ho voluto sentire anche il parere di alcuni psichiatri, conoscitori dell'opera di Nietzsche. La loro risposta è stata pressoché unanime: niente paralisi progressiva luetica. Uno di loro mi ha detto: «Ma che paralisi progressiva! Esaltamento maniaco: ecco la malattia di Nietzsche!». Ma vediamo ciò che questi faceva nel manicomio di Basilea; continuiamo, cioè, la traduzione del «Kranken-journal».

Dopo il brano già tradotto per la questione Bettmann-Miescher-Bauman, segue:

Statuspraesens. Uomo di bell'aspetto, ben proporzionato, ossatura e muscolatura abbastanza forti. Torace ampio. Percussione dei polmoni: niente di anormale, così pure l'auscultazione. Pressione del cuore non aumentata; toni cardiaci piani, chiari. Polso reg. 70. Pupille differenti, quella destra più grande di quella sinistra; reagisce molto fiaccamente. Strabismus convergens; forte miopia. Lingua fortemente patinosa; nessuna deviazione, nessun tremor. Innervazione facciale poco disturbata, piega nasolabiale un po' stirata. Riflessi patellari aumentati; riflessi della pianta del piede normali. Urina chiara, acida, senza zucchero né albumina.

Il paziente si lascia visitare docilmente, parla continuamente durante la visita. Nessuna vera coscienza della malattia; si sente straordinariamente bene e sollevato. Dichiara di essere malato da otto giorni e di aver sofferto spesso di violenti mal di testa. Avrebbe avuto anche alcuni attacchi. Durante questi, il paziente si sarebbe sentito straordinariamente bene e sollevato, avrebbe soprattutto abbracciato e baciato volentieri la gente per la strada, gli sarebbe soprattutto piaciuto arrampicarsi in alto sui muri. Il paziente è difficile a fissare, risponde solo parzialmente e incompletamente, o per niente, alle domande rivoltegli, procedendo senza posa nei suoi discorsi confusi. Sensorialmente assai stordito.

Il paziente rimane a letto tutto il giorno. Mangia con eccellente appetito, è molto riconoscente per tutto ciò che gli si offre. Nel pomeriggio, il paziente parla continuamente in maniera confusa e disordinata, talvolta urlando a squarciagola e cantando forte. Il contenuto dei suoi discorsi è un confuso miscuglio di ciò che ha vissuto prima; un pensiero scaccia l'altro senza alcun nesso logico. Dichiara di essersi infettato specificamente due volte.

Segue l'estratto del questionario medico, già tradotto. Perciò saltiamolo e andiamo avanti.

11 gennaio. Il paziente non ha dormito per tutta la notte (nonostante 1,0 di cloralio), parlava senza interruzione, si alzava anche spesso per pulirsi i denti, per lavarsi ecc. — Al mattino, abbastanza fortemente stordito; prende con grande appetito la sua colazione. Rimane a letto fino a mezzogiorno. Nel pomeriggio, all'aperto, in continua eccitazione motoria; getta il cappello per terra, di quando in quando si mette a terra lui stesso. Parla confusamente; talvolta si rimprovera di aver precipitato nella sventura diverse persone. Dopo tè di senna, per due volte abbondante defecazione. Polso completo, lento.

12 gennaio. Dopo 2,0 di sulfonal, dormito all'incirca quattro-cinque ore con frequenti interruzioni. Al mattino, più tranquillo. Chiestogli come sta, risponde che si sente infinitamente bene, al punto che potrebbe esprimere ciò soltanto in musica.

13 gennaio. L'ultima notte meglio, dormito sei-sette ore. Il paziente mostra un enorme appetito, chiede sempre da mangiare. Al pomeriggio, il paziente va a spasso nel giardino, dove canta, urla a squarciagola e grida; talvolta si toglie giacca e panciotto, si mette a terra. Dopo la passeggiata, il paziente rimane nella sua stanza.

14 gennaio. Dormito quattro-cinque ore, per il resto parlato e cantato continuamente. Oggi avrà la visita della madre.

Dichiarazione della madre.

Il padre morì di rammollimento cerebrale a trentacinque anni e mezzo, la madre vive ed è sana. I nonni morirono attempatissimi. Una sorella del paziente vive nel Paraguay ed è sana.

Un fratello della madre morì in una casa di cura per le malattie nervose, le sorelle del padre erano isteriche e alquanto eccentriche. Gravidanza e parto procedettero bene. Da bambino, per lo più taciturno; ottimo apprendimento a scuola. Chiamato a ventiquattro anni, come professore di filosofia, a Basilea, dove svolse la sua attività per nove anni. Già durante la sua attività all'università di qui, molto sofferto per dolori alla testa e agli occhi, a causa dei quali e per rimettersi in salute dovette abbandonare il suo insegnamento. Nelle sue lettere alla madre il paziente scriveva già in modo esagerato di sentirsi, negli ultimi tempi, infinitamente bene e sollevato; considerava Torino, dove dimorava da tre mesi, come la più bella e splendida città; scriveva, inoltre, di non essere mai stato così produttivo come appunto durante il suo soggiorno a Torino. Queste lettere datano dal mese di novembre e die. 1888. [A margine e in un secondo tempo, il professor Wille aggiunse di suo pugno questa annotazione: «Il padre, un pastore di campagna, diventò malato di cervello per una caduta da una scala. La madre dà l'impressione di essere limitata. Fu dapprima teologo, poi filologo; studi filosofici; poi a Basilea; intensi rapporti con Wagner e la sua musica».]

La visita della madre rallegrò visibilmente il paziente; all'entrata della madre, egli si diresse verso di lei, abbracciandola calorosamente ed esclamando: «Ah, mia cara, buona mamma, sono molto lieto di vederti». Per lungo tempo, s'intrattenne del tutto correttamente su questioni familiari, finché esclamò di colpo: «Guarda in me il tiranno di Torino». Dopo questa esclamazione, incominciò di nuovo a parlare confusamente, sì che la visita dovette essere interrotta. Doccia fredda alla sera. Sulfonal 2,0.

15 gennaio. Di notte, dormito quattro-cinque ore; durante il tempo rimanente, molto rumoroso. Più calmo al pomeriggio. Il paziente beve moltissima acqua. Al pomeriggio nel giardino; qui, va intorno gridando e gesticolando. Sulfonal 2,0.

17 gennaio. L'ultima notte dormito bene; al mattino più calmo. La paresi del facciale sinistro molto più evidente che negli ultimi giorni. Nei giorni scorsi, c'è stata giornalmente la defecazione. Nella lingua, nessun disturbo dimostrabile. Differenza delle pupille, la destra > della sinistra. Questa sera sarà trasportato nel manicomio di Jena.

Quando aggiunse, il professor Wille, la nota che abbiamo riportata fra parentesi quadre e secondo la quale il padre di Nietzsche sarebbe diventato malato di cervello, hirnkrank, per una caduta dalle scale? Probabilmente dopo aver parlato con Elisabeth Förster. La brava signora Franziska, limitata ma sincera, non aveva parlato di cadute, ma solo di «rammollimento cerebrale».

Riesce un po' difficile capire perché Overbeck e Wille non si siano opposti con maggiore energia al trasporto di Nietzsche a Jena. Certo, non si poteva negare alla disgraziata madre il diritto di avere vicino a sé il figlio; ma le condizioni di Nietzsche erano tali, che si sarebbe dovuto non solo sconsigliare, ma anche impedire il suo trasporto. Bastava, io penso, che Wille dichiarasse che il malato era pericoloso e quindi non trasportabile. Ma la madre, decisa a riportarsi il figlio in Germania, ebbe partita vinta. Se fosse dipeso solo da lei, se lo sarebbe riportato addirittura in casa, il che avrebbe rappresentato una pazzia ancora maggiore di quella che aveva colpito il figlio; ma Overbeck, d'accordo con Wille, scrisse a Binswanger, direttore della clinica psichiatrica dell'università di Jena, il quale si dichiarò subito pronto ad accogliere il malato.

La sera di giovedì 17 gennaio 1889, Nietzsche, accompagnato dalla madre, da un giovane medico e da un infermiere, lasciava per sempre Basilea. Il giovane medico era Ernst Mähly, ex allievo di Nietzsche al liceo e pieno di ammirazione «per il demoniaco annunciatore della transvalutazione di tutti i valori, il creatore dell'aldilà del Bene e del Male». Il padre, il filologo Jakob Mähly, era stato amico e collega di Nietzsche all'università di Basilea. Alla signora Franziska era stato consigliato di partire prima, da sola, e di attendere il figlio a Jena; ma non ne volle sapere. Verso le nove di sera Nietzsche, strettamente affiancato dai due accompagnatori, muto, il volto simile a una maschera, il portamento innaturalmente rigido, sale in treno. Poco prima della partenza, Overbeck entra anche lui nello scompartimento per accomiatarsi dall'amico. Nietzsche si alza, lo abbraccia impetuosamente e, piangendo, gli dice di non aver mai amato nessuna persona più di lui.  Overbeck si sarebbe anche offerto di accompagnare Nietzsche «almeno fino a Francoforte», dove avrebbe potuto dargli il cambio un parente o un amico; ma anche di questo la signora Franziska non avrebbe voluto saperne.

Di soldi, la signora Nietzsche, non ne doveva avere molti, se, per pagare le prime spese a Basilea e il viaggio a Jena, dovette ricorrere alla cassa del figlio amministrata da Overbeck. Questi scrisse di propria mano la ricevuta, facendola poi firmare alla signora: «Dichiaro di aver oggi ricevuto dal prof. Overbeck, [come prelievo] dalla cassa di mio figlio affidata alla sua amministrazione, marchi 350 ( = frs. 435,30) per far fronte alle prime spese del suo mantenimento e dell'imminente viaggio a Jena. Basilea, 17 gennaio 1889». Quanto al dottor Mähly, nonostante il suo entusiasmo per il «demoniaco annunciatore della transvalutazione di tutti i valori», si fece rimborsare le spese di viaggio da Overbeck: «Ricevuti dal signor Prof. Overbeck fr. 60. Basilea, 21.1.89. Dr. Mähly». Evidentemente la «transvalutazione di tutti i valori», per lui, non si estendeva fino ai soldi.

Nel manicomio di Jena, Nietzsche venne messo in una stanza di seconda classe per «uno o due malati» a marchi 2,50 il giorno. La stanza più cara, di prima classe, costava 7 marchi e quella più a buon mercato, di terza classe, 1 marco. Ma la cosa più curiosa è che Nietzsche non veniva considerato tedesco, bensì Ausländer, cioè straniero. Le fatture dell'ospedale, infatti, sono intestate al «Signor professor Friderich Nietzsche, Torino». Non era solo lui, dunque, che si considerava torinese, ma tale lo consideravano anche gli altri. Fatto sta che questa qualifica di straniero o di torinese gli costava marchi 0,50 di più al giorno, dato che la stessa stanza, per un cittadino tedesco, costava solo 2 marchi. Per un solo marco, dunque, il trattamento di Nietzsche si distingueva da quello riservato ai poveri cristi di terza categoria, mentre c'era una differenza di ben cinque marchi tra lui e i pazzi di lusso. Neppure la follia, come si vede, riesce ad accomunare i poveri figli della terra. Le fatture, inoltre, che sono sempre controfirmate dal direttore, il professor Binswanger, il quale evidentemente le esaminava una per una, ci rivelano altri particolari. Per chi non lo sapesse, Nietzsche fumava sigari; e doveva fumare come un demonio, a giudicare dalle registrazioni.

La cartella clinica su Nietzsche durante il suo ricovero nel manicomio di Jena ha una storia abbastanza complicata. Fu data a lungo per dispersa e lo stesso Binswanger, nel 1914, comunicò a Elisabeth Förster che qualcuno l'aveva probabilmente rubata. Poi si scoprì che il documento era rimasto nella clinica fino al 1929, quando fu consegnato, con tanto di sigilli, all'archivio di Stato della Turingia. Ora si trova nel Nietzsche-Archiv di Weimar. Ma nel 1899 ne era stata fatta una copia, e fu appunto questa copia che nel 1929 venne per la prima volta pubblicata da Podach, il quale però omise, per rispetto alla memoria di Nietzsche, alcuni passi particolarmente tristi. Ma è probabile che quella avuta da Podach fosse la copia di una copia. Chi gliel'aveva data? È interessante riferire, qui, ciò che mi scrisse un signore di Allemühl in Germania dopo aver letto l'edizione tedesca di questo libro. La lettera è datata «luglio 1986».

Il mio cortese lettore scrive che verso la metà del 1933, ad Amburgo, entrò in contatto con un «Dr. Fürst, neurologo, che allora abitava nella Sierichstrasse». Tra un discorso e l'altro si venne a parlare anche di «Nietzsche, tanto più che allora io mi proponevo di fare la mia tesi sulla Nascita della tragedia. A questo punto, con mia sorpresa, disse che a Jena, nella clinica del professor Binswanger, aveva spesso portato le medicine e il cibo a Nietzsche. Poi si alzò improvvisamente e da un cassetto dell'armadio tirò fuori la cartella clinica di Nietzsche, mettendomela davanti sulla scrivania. Mentre io la sfogliavo ancora sbalordito, egli, che aveva notato il mio stupore, mi disse che voleva scrivere qualche cosa al riguardo, perché la storia della lue era molto dubbia. Poi riprese la cartella e la rimise a posto». Dopo un accenno alla ulteriore storia del documento, il lettore conclude: «In ogni caso esso, a metà del 1933, si trovava ancora nelle mani del dr. Fürst». Fu forse questo Fürst a trafugare la copia del 1889?

E ora leggiamo il «Krankenjournal» o cartella clinica di Jena, nel cui manicomio Nietzsche rimase dal 18 gennaio 1889 al 24 marzo 1890. Tralasciamo le generalità, limitandoci a qualche dato. Sotto la voce «ereditarietà» viene indicata la malattia cerebrale del padre. «Durata della malattia prima del ricovero: dieci anni». «Altre cause: sifilide.» «Forma della malattia: disfrenia paralitica.» «Diagnosi: paralisi progressiva.» A fornire questi dati alla clinica di Jena fu però il dottor Mähly, il quale, oltre a Nietzsche, conosceva anche il professor Wille.

Viene portato qui da sua madre e da un medico basileese della clinica psichiatrica di Basilea, nella quale egli è stato ricoverato per alcuni giorni dopo che l'avevano portato via da Torino. Bagno di pulizia. Riposo a letto. Storia clinica da Basilea.

2. Ereditarietà: padre, morto per rammollimento cerebrale. Fratelli e sorelle del padre in parte rachitici, molto dotati. Madre: vive, poco dotata. Fratelli e sorelle: 1) Friedrich; 2) Elisabeth, vive, sposata con Bernhard Förster, sana; 3) Joseph, morto a due anni, apoplessia cerebrale.

3.  Cenno biografico: sempre alquanto strambo. Allievo molto dotato di Ritschl, su raccomandazione del quale professore a Basilea già a ventitré anni. 1866, infezione sifilitica. 1869, ottiene la cattedra di filologia classica a Basilea. [Anche qui, come e facile a capirsi, non si tratta di dichiarazioni fatte dallo stesso Nietzsche, bensì di dati provenienti da Basilea.]

4.  Storia clinica: 1878, abbandona la cattedra a causa di turbe nervose e di oftalmopatia.

Stat[us] praes[ens], dal 19 al 21 gennaio 1889. Uomo alto (171 cm), muscolatura e pannicolo adiposo medi. 132 libbre. Capelli bruni, alquanto radi. Iride verde-scura. Orecchio destro, lunghezza cm 5,8; sinistro 5,6. Circonferenza cranica cm 57, da ambedue i lati prolungamento a punta dell'helix nella parte discendente, arcus glossopharyngfeus] che si estende fino all'uvola. Viso fortemente arrossato. Toni cardiaci deboli, distinti. Dermografismo vasomotorio normale.

Arterie molli, tortuose. Apici polmonari normali. Lingua leggermente coperta di bianco. Diffuso eczema cronico ai genitali. Urina poco acida, priva di albumina. Cicatrice a destra del frenulo. Molteplici ingrossamenti ghiandolari, soprattutto nella regione inguinale sinistra. Pupille: destra larga, sinistra piuttosto stretta, leggermente retratta in maniera irregolare; a sinistra ci sono tutte le reazioni, a destra solo riflesso di convergenza; la reazione sinergica è presente solo a sinistra. L'apertura oculare sinistra notevolmente più stretta di quella destra; volontariamente quella sinistra può essere aperta tanto quanto quella destra. Movimenti oculari liberi, nessuna deviazione interna secondaria. Corrugamento della fronte e chiusura degli occhi, simmetrici. Digrignamento dei denti un po' più energico a sinistra, l'angolo destro della bocca è un po' più basso. Chiusura della bocca, più pronta a destra. Ridere simmetrico. Lingua calma; messa fuori, deviazione a destra. L'uvola sta diritta. Stretta di mano, a destra un po' più energica che a sinistra.

Scrittura: tremor manfus] (solo nell'eccitazione). (Prove di scrittura: «Garde», «Uhlan», «Brigadier».)

Romberg negativo. Nel camminare, il paziente alza spasmodicamente in alto la spalla sinistra e lascia pendere quella destra. Vacilla nel voltarsi. Eccitabilità idiomuscolare accresciuta. Rigonfiamento trasversale. Riflesso dell'anconeo leggermente accresciuto. Riflesso rotuleo accresciuto. Riflesso achilleo lo stesso, a sinistra un leggero clono del piede, riflesso epigastrico leggermente accresciuto. Riflesso cremasterico debole a sinistra. Riflesso plantare piuttosto accresciuto. Per l'agitazione del malato non possibile, momentaneamente, la prova della sensibilità; a quanto pare, iperestesia generale. Testa non sensibile a pressione. Foro dei nervi facciali sensibile a pressione. Non esaminabili i punti di pressione sul torso a causa dell'iperestesia. Orologio craniotimpanico sentito, sembra, di più a destra. Portata acustica, a quanto pare, intatta a destra e a sinistra. Nessun disturbo nella lettura. Notevole miopia. Disturbo nel parlare appena presente; raramente esitante nelle consonanti iniziali. Sensazioni tattili intatte.

19 gennaio. Il malato va nel reparto con molti inchini di cortesia. Con passo maestoso e guardando al soffitto, entra nella sua stanza e ringrazia della «grandiosa accoglienza». Non sa dove sia. Ora crede di essere a Naumburg, ora a Torino. Sulle sue generalità dà informazioni corrette. L'espressione del viso è sicura e consapevole di sé, spesso compiaciuta e affettata. Gesticola e parla continuamente in tono affettato e con parole enfatiche, e precisamente ora in italiano ora in francese. Cerca innumerevoli volte di stringere la mano ai medici. Sorprende che il paziente, che pure è stato per lungo tempo in Italia, spesso non conosca per niente o in maniera sbagliata le parole più semplici nelle sue frasi dette in italiano. Per il contenuto, sorprende la dispersione di idee delle sue chiacchiere; di quando in quando parla delle sue grandi composizioni e ne canta dei saggi; parla dei suoi «consiglieri di legazione e servi». Parlando, fa quasi ininterrottamente delle smorfie. Le sue chiacchiere sconnesse sono continuate quasi ininterrottamente anche nella notte. Il paziente mangia forte.

20 gennaio. Nonostante 3,0 di idrato d'amile, non dormito. Trasferito in W.Z. [stanza sorvegliata]

21 gennaio. Nonostante 2,0 di cloralio, strepitato continuamente; alla fine lo si è dovuto isolare. Incidentalmente ha detto che suo padre «aveva anche sofferto di rammollimento cerebrale».

22 gennaio. Vuole che si eseguano le sue composizioni. Si lamenta di dolori alla parte sinistra del mesocranio e della fronte. Perciò, egli pensa, sarebbe stato troppo vitale.

24 gennaio. Molto rumoroso. Di quando in quando, necessario l'isolamento.

26 gennaio. Riconosce subito il medico come S[ignor] Dr.

1° febbraio. Peso 123 libbre (— 9).

3 febbraio. Imbrattato di escrementi. Modo di parlare e contenuto invariati.

10 febbraio. Molto rumoroso. Spesso accessi di collera con grida inarticolate senza motivo esteriore.

20 febbraio. Non sa più l'inizio del suo ultimo libro.

23 febbraio. Tira improvvisamente «calci» a un altro malato. «Da ultimo io sono stato Federico Guglielmo IV.»

26 febbraio. Attribuisce la distorsione del suo torso a una ischialgia al lato sinistro.

28 febbraio. Prega ridendo il medico: «Mi dia un po' di salute».

1° marzo. Poca comprensione o memoria per pensieri e passi delle sue opere. Peso 128 libbre ( + 5).

10 marzo. Fame da lupo. Designa sempre giustamente i medici; se stesso, ora come duca di Cumberland ora come imperatore ecc.

20 marzo. Trasferito in M2: frizionato giornalmente 1,0 di Hg. Quando ha ricevuto, recentemente, i dolci dalla madre, ha detto: «Veramente di Naumburg?».

23 marzo. Si accentua a poco a poco la paresi del facciale destro.

24 marzo. Peli bianchi, nei baffi del malato, si trovano solo a destra.

26 marzo. Chiede spesso di andare a letto a metà del giorno. Va in giro cantando molto e pestando i piedi.

27 marzo. «La mia moglie Cosima mi ha portato qui.»

28 marzo. Si lamenta spesso di forti nevralgie sopraorbitali a destra.

29 marzo. Prolasso dei noduli emorroidali.

1° aprile. Imbrattato di escrementi. «Chiedo una veste da camera per la redenzione radicale. Di notte sono state da me ventiquattro puttane.» Peso 134 libbre ( + 6).

4 aprile. A sinistra, l'art[eria] temp[orale] più tortuosa di quella destra.

5 aprile. Piscia nello stivale e beve l'urina.

17 aprile. «Di notte, si è imprecato contro di me; si diceva che mia madre se l'era fatta addosso; contro di me si sono ordite le più orribili macchinazioni.»

18 aprile. Mangia escrementi.

19  aprile. Scrive cose illeggibili sulle pareti. «Voglio un revolver, se è vero il sospetto che la granduchessa stessa commette queste porcherie e questi attentati contro di me». «Io sono reso malato a destra nella fronte.» Rifiuta tenacemente [di dare un] ragguaglio preciso.

25 aprile. Di notte dev'essere sempre isolato.

27 aprile. Spesso accessi di collera. Si cosparge di escrementi.

29 aprile. Legge di quando in quando e ritiene ciò che legge.

1° maggio. Peso 139 libbre ( + 5).

5 maggio. Dà al medico un biglietto sudicio e illeggibile come testamento.

16 maggio. «Io vengo continuamente avvelenato.» Racconta di aver preso, nel passato, 3 x 2 g di cloralio ogni ventidue giorni.

18 maggio. Grida abbastanza spesso in maniera inarticolata.

25  maggio. Sa abbastanza bene se la sera prima sia stato o no frizionato.

1° giugno. Peso 127 libbre (— 12).

10 giugno. Rotto improvvisamente una finestra.

14 giugno. Prende l'infermiere capo per Bismarck.

16 giugno. Chiede ripetutamente aiuto contro torture notturne .

17 giugno. Fa movimenti ginnici, spesso tiene stretto il naso per delle ore. Si perde in giochi di parole. Indica il 23 novembre '88 come giorno del suo ricovero.

18 giugno. Parla in tono brontolone, molto affettato, talvolta molto patetico.

21 giugno. Più calmo.

26 giugno. Quotidianamente, un'ora in giardino.

28 giugno. Lieve strabismo] convergente] sinistro]. 1° luglio. Peso 126 (— 1).

2 luglio. Orina nel bicchiere per l'acqua.

4 luglio. Rompe un bicchiere per l'acqua, «per proteggere con schegge di vetro l'accesso a lui».

9 luglio. Fa capriole, fa versacci, tira in su la spalla sinistra.

14 luglio. Cosparso di escrementi.

16 luglio. Cosparso di escrementi.

18 luglio. Bagnato di urina.

20 luglio. Rifiuta spesso di alzarsi: sarebbe troppo stanco.

23 luglio. Ischialgia a sinistra, «Io sono stupido nell'anca».

29 luglio. Visita della madre. Molto contento. 1° agosto. Peso 123 libbre (— 3).

3 agosto. Si lamenta di «tensione toracica e di atrofia generale». Fame da lupo.

6 agosto. [Si è] sfregata una gamba con escremento.

8 agosto. Fa risalire la sua coroidite all'anno '64 o '66. Indica la data attuale come inizio di agosto '89.

10 agosto. Scompisciato.

14 agosto. Di nuovo molto rumoroso. Beve di nuovo l'urina: Motiva il suo strepitare con mali di testa.

16 agosto. Ha rotto improvvisamente alcuni vetri. Ritiene di aver visto una canna di fucile dietro la finestra.

17 agosto. Frizioni con mercurio interrotte.

20 agosto. Mette dello sterco avvolto nella carta nel cassetto del tavolo.

27 agosto. Perde spesso fazzoletti ecc. Oggi, quando ha perso il suo taccuino, ha detto: «Si è messo in pensione di propria mano».

1° settembre. Peso 124 libbre ( + 1).

4 settembre. Appercepisce ancora molto acutamente. Di quando in quando chiara coscienza della malattia.

5 settembre. Chiede letteratura recente o giornali. Afferma di aver sofferto fino al diciottesimo anno di stati epilettici senza perdita della coscienza.

6 settembre. Indica come data il 7 dicembre.

7 settembre. Si mette quasi sempre a terra vicino al letto.

9 settembre. Oggi afferma di essere a Torino. Altrimenti, non sa dove sia.

10 settembre. Beve di nuovo urina.

15 settembre. La sera, ricorda ancora molto bene la visita mattutina di sua madre.

23 settembre. Non sa il nome dell'assistente. Nessuna oscillazione Romberg.

1° ottobre. In complesso chiara remissione. Peso 128 libbre ( + 4).

1° novembre. Questa sera si ricorda ancora precisamente di un colloquio avuto ieri sera con il medico. Ruba libri. Molto agitato dopo una visita della madre. Peso libbre 129 ( + 1).

430

10 novembre. Continua tenace emicrania alla parte destra. Indica come data «marzo '97».

12 novembre. Oggi indica giustamente la data, dopo che gli era stata detta ieri.

21 novembre. «Ho mal di testa, da non poter né camminare né vedere.»

1° dicembre. Quando si tenta di far dormire il paziente in un letto di seconda classe con infermiere, anziché nella cella, egli fa tanto strepito che si rende di nuovo necessario l'isolamento. Peso 133 libbre ( + 4).

2 dicembre. Afferma di aver visto nella notte donnette completamente pazze.

9 dicembre. Vomito. Non riscontrabili errori di dieta, ma il paziente mangia spesso molto frettolosamente.

14 dicembre. Beve acqua di sciacquatura.

20 dicembre. Recentemente è andato sovente a spasso con uno dei suoi ex allievi. Nessuna reale influenza sullo stato patologico.

1890

1° gennaio. Raccoglie di nuovo cose, in parte del tutto senza valore, pezzetti di carta, cenci ecc. Di fronte ai medici fa continuamente inchini molto cortesi. Peso 134 libbre.

1° febbraio. Parla un po' più coerentemente. Non cambiato somaticamente. Peso 138 libbre.

1° marzo. 134 libbre.

24 marzo. Dimesso dietro atto di garanzia.

Sic transit humana ratio, che i tipi come Hegel vorrebbero addirittura elevare a legge suprema dell'universo, quando invece non si tratta che di un semplice epifenomeno dell'individuo.

Lungi da me, ora, l'idea di voler giudicare retrospettivamente l'opera di Nietzsche dalle cose che faceva nel manicomio di Jena! C'è qualche cosa, però, che lega il Nietzsche di prima a quello di dopo la fine del 1888. Come nelle opere liriche, specialmente in quelle di Wagner, serpeggiano dei motivi che poi esploderanno alla fine, così negli scritti di Nietzsche ci sono accenni o prodromi di quello che si legge nel «Krankenjournal»: l'enfasi, le pose da padreterno, la mania di grandezza e perfino la morbosità per le funzioni intestinali, come si può vedere in certi passi del Caso Wagner. Va anche rilevato che Nietzsche, nelle opere come nelle lettere, dice su per giù sempre le stesse cose e quasi con le stesse parole. E stato Nordau a dire che le opere di Nietzsche son tutte uguali: letta una, le si son lette tutte. E questo vale anche per le lettere.

Il resto della vita di Nietzsche è noto. Accenneremo solo a qualche episodio. Sotto la data del 20 dicembre 1889, com'è s'è visto, nel «Krankenjournal» di Jena si legge che Nietzsche era andato molte volte a spasso con uno dei suoi ex allievi, senza che il malato ne traesse alcun beneficio. Questo «ex allievo» era il dottor Julius Langbehn, autore di una pappardella filosofico-pedagogica, Rembrandt ah Erzieher, che in Germania ebbe una grande risonanza, anche se di breve durata. Il libro, in cui già il titolo «suonava come una indelicata parodia di un'opera di Nietzsche», fu molto ammirato da Bismarck e dalla corte imperiale, dato che il Langbehn cercava di dimostrare che la vera cultura tedesca veniva dalla Germania del Nord e non, come si credeva, da quella del Sud. Ne era una riprova il predominio politico della Prussia. Un ciarlatano, insomma, questo dottor Langbehn, che si era ficcato in testa di salvare per la Germania uno dei suoi migliori scrittori settentrionali, vale a dire Nietzsche. Alla fine del 1889, il «nordico salvatore» si recò a far visita alla signora Franziska a Naumburg, per convincerla ad affidare a lui la cura del figlio. I ciarlatani, si sa, hanno sempre avuto successo con le donne; e così ecco la signora Nietzsche parlare di Langbehn come di un angelo inviatole dal cielo. Fatto sta che, alla metà di novembre, ella si reca a Jena con l'«uomo della provvidenza» (ce n'è sempre uno); e Binswanger autorizza Langbehn, che gli si è presentato come ex allievo di Nietzsche, a passeggiare per quattro ore al giorno col malato, due al mattino e due al pomeriggio.

Il metodo escogitato da Langbehn per riportare Nietzsche sulla «buona via» era una specie di esorcismo e si basava sulla «contraddizione ragionata». In altre parole, pensando che Nietzsche non avesse ancora avuto dei veri e propri contraddittori, assicurava di togliergli dal corpo il demone della follia con discorsi di questo genere: «Lei ritiene che lo stato dionisiaco sia il segno della salute perfetta e della suprema abbondanza di vitalità; ma questo stato, in verità, è già un sintomo di decadenza, perché l'intelletto non può più esercitare un potere completo sulla forza vitale. Lo stato dionisiaco presuppone la debolezza: il greco primitivo, omerico, ignorava questo dio; solo gli asiatici conoscevano Bacco». Anche in fatto di cristianesimo, s'intende, il «contraddittore ragionato» era ben risoluto a dare una lezione a Nietzsche: «Ma lo conosce veramente? Ha letto recentemente i Vangeli?». Dopo questi assaggi preliminari, disse alla povera signora Franziska che suo figlio era un bambino e un re. Per ottenere una guarigione completa, dunque, bisognava trattare Nietzsche come un re bambino o bambino re, che fa poi lo stesso. E come? Semplice: creare intorno a Nietzsche una specie di corte reale, dove lui, Langbehn, sarebbe stato primo ciambellano, la signora Franziska infermiera o magari dama di corte, e tre o quattro altre persone avrebbero formato il seguito. La farsa, nella quale sarebbe stato oltremodo difficile stabilire chi fosse il più pazzo,  avrebbe dovuto aver luogo a Dresda; e la signora

Nietzsche, che i medici di Basilea e di Jena avevano giustamente definita poco intelligente, aveva perfino ceduto la tutela legale del figlio al «primo ciambellano». E transeat per la signora Nietzsche, donna sempliciotta e provata dalla sventura! Il bello è che anche Gast aveva finito col prestare orecchio al «contraddittore ragionato», mostrandosene addirittura entusiasta. Solo Nietzsche, stufo di sentirsi pedagogizzare dal suo «rieducatore», trovò il modo giusto di opporglisi. Un giorno, infatti, gli si avventò contro coi pugni. A porre fine alla sconcia commedia, poi, intervenne Overbeck.

Gast si recò a Jena il 21 gennaio 1890: erano ventisette mesi che non rivedeva il suo amico e maestro.

Perché una cosa sia vera, dicevano alcuni filosofi greci, ci vuole il nostro assenso. Ebbene, Gast sembra che non voglia dare il suo «assenso» alla pazzia di Nietzsche. In altre parole, non vuole arrendersi all'evidenza ed è riluttante a credere che il suo maestro, da lui così osannato e definito «una salute contagiosa», anzi una «epidemia di salute», sia diventato pazzo. O che Nietzsche stesse effettivamente meglio, o che Gast non sapesse distinguere un pazzo da un savio, come è più probabile, fatto sta che egli ne parla come se niente fosse. Dice che suona benissimo il pianoforte, senza una nota falsa. E che pianissimi, che cori, che fanfare di trombe, con tanto di collera beethoveniana e canti di trionfo! E tutto questo, beninteso, ha «un effetto formidabile» sul cervello di Nietzsche, il quale, se si mette al piano, appare come trasformato. L'ostentata gentilezza di Nietzsche, inoltre, che distribuiva inchini a destra e a manca, fa nascere in Gast lo stesso sospetto che Bettina von Arnim aveva avuto visitando Hòlderlin. Questi trattava i visitatori a colpi di «Vostra Altezza» e faceva tante di quelle riverenze, da far pensare che la sua follia fosse una maschera per difendersi dal mondo. Così, anche Gast arrivò a pensare che Nietzsche simulasse la pazzia. La stessa idea, sia pure per un breve istante, la ebbe Overbeck: «Talvolta, per qualche momento, [...], non mi son potuto difendere dall'orribile idea che essa [la follia] fosse simulata. Un'impressione che si spiega completamente solo con le esperienze che io ho fatte in generale con gli automascheramenti di Nietzsche. Anche qui, però, mi sono inchinato dinanzi ai fatti, che confutano tutte le deduzioni e le speculazioni personali». Anche nel manicomio, dunque, Nietzsche continuava a trarre in inganno: ma non i medici, beninteso. Nella lettera alla moglie del 24 febbraio 1890, però, Overbeck, che aveva approfittato delle ferie di carnevale per recarsi a Jena e porre fine alla commedia inscenata da Langbehn, dice di aver trovato Nietzsche, come era da aspettasi, peggio dell'anno precedente: «E’ finita per il poveretto».

Anche Deussen andò a far visita al povero amico. Nietzsche, accompagnato dalla madre, andò ad attenderlo alla stazione. Senza sapere chi fosse colui che lo aveva preso sotto braccio, si mise a parlare del suo «amico Deussen», ricordandosi anche che era in viaggio per la Spagna. «Ma Deussen sono io», fece l'altro. Nietzsche lo fissò senza riconoscerlo.

La signora Nietzsche, per essere più vicina al figlio, si era trasferita da Naumburg a Jena, dove aveva affittato un piccolo appartamento. Con l'aiuto di Gast, che si fermò a Jena circa due mesi, essa cercava di preparare il figlio a una vita fuori della clinica. In una sua lettera a Overbeck si legge: «Posso solo ringraziare profondamente il buon Dio, che mi ha dato l'idea di venire qua. Il caro Fritz ne è sommamente felice e lo manifesta tante e tante volte al giorno, naturalmente sempre con l'accompagnamento di un abbraccio affettuoso. Ho anche l'impressione che diventi di settimana in settimana più lucido». Dopo aver raccontato che il figlio suona spesso e volentieri il pianoforte, ma dolcemente, «affinché non ecciti i suoi nervi», la buona donna continua: «Ma è anche successo che non volesse più farsi accompagnare da me; allora ho detto: "Bene, se tu non vuoi questo, io me ne andrò, perché il professor Binswanger mi ha incaricata di guidarti sempre". Subito cerca di rabbonirmi e mi abbraccia, una volta perfino per strada, e poi tiene tanto più stretto il mio braccio. Anche il suo gesticolare è diventato molto più raro. Gli ripeto a un dipresso anche le parole che egli declama e gli chiedo: "Se io, ora, ti dicessi ciò, facendo strambi movimenti della mano, mi capiresti?". Allora ne ride da morire». Quando gli leggeva qualche cosa, egli le diceva: «Continua, mammina». La signora, però, aggiunge di non credere che il figlio tenesse a mente ciò che sentiva. Andava a prenderlo alle nove e mezzo del mattino e lo riaccompagnava in clinica verso le sette di sera. Durante le passeggiate, Nietzsche non voleva vedere né salutare nessuno. Una volta che erano riusciti ad attraversare la strada senza incontrare anima viva, egli disse: «Ancora una volta scampati al pericolo». «Recentemente, durante la nostra passeggiata mattutina, abbiamo incontrato un ufficiale che ritornava dal poligono di tiro. Anche questa volta io volevo scantonare con lui, ma non ci fu modo di smuoverlo. Così, egli tese la mano, io pregai [l'ufficiale] di dargli gentilmente la sua, [dicendo]: "anch'egli una volta era artigliere, ora è professore e sovraffaticato"; comprese subito e gliela tese amichevolmente. La stessa cosa poteva fare, nel pomeriggio dello stesso giorno, una giovane dama, che indietreggiò spaventata. Io lo trattenni per il braccio e camminammo oltre; gli feci una piccola predica (poiché non voglio e non devo irritarlo) [dicendogli] di non farlo, la gente si spaventa, come vede egli stesso; e poi non potremmo più fare le nostre belle passeggiate, se la gente lo riferisse a Binswanger.»

A Jena, in quell'epoca, viveva la famiglia Gelzer-Thurneysen di Basilea, il cui capo era professore di storia antica all'università. Si trattava di vecchi amici, che prendevano parte alla sorte di Nietzsche e facevano del loro meglio per aiutare la madre. Spesso la signora Nietzsche si recava da loro, portandosi sempre dietro il figlio, che la seguiva come un bambino. Per timore che facesse qualche scenata, lo portava vicino al pianoforte e, dopo aver ella stessa accennato qualche accordo, pregava il malato di continuare. E Nietzsche continuava a improvvisare per delle ore, mentre sua madre poteva intrattenersi tranquillamente con gli ospiti nella camera accanto. Così, dice Bernoulli, il cerchio si chiude: nata dallo spirito della musica, la tragedia si compie nello spirito della musica.

Nel mese di maggio del 1890 la signora Nietzsche ritornò col figlio a Naumburg, dove, a intervalli regolari, andava a visitarlo Binswanger. Di solito, Nietzsche era calmo. Non mancavano, tuttavia, momenti di furore, e una volta per poco non strozzò la madre. Ma presto entrerà in scena Elisabeth Förster, che prenderà in appalto la fama del fratello e tutto ciò che le è connesso. Se le era andata male con la colonia «Nueva Germania» nel Paraguay, dove il marito si era suicidato (con una moglie simile, penso proprio che non ci fosse altra via di scampo: ammazzarla o ammazzarsi), le sarebbe andata molto meglio nel trarre profitto dalla fama repentina del fratello. Per prima cosa, convinse la madre a cederle i diritti d'autore delle opere di Friedrich. In compenso, ella avrebbe assicurato un capitale di 30 000 marchi per «Fritz»; e, nel caso che gli fosse stata tolta la pensione dell'università di Basilea, gli avrebbe pagato una rendita annua di 1600 marchi. E aveva preparato il contratto in modo tale, che la povera madre non ebbe neppure il tempo di riflettere, anche se alla cessione del figlio, come s'è visto nel caso di Langbehn, ci aveva fatto un po' la mano. In una lettera a Overbeck del 27 dicembre 1895, ella scrive: «Ho avuto delle settimane molto difficili [...]. Fui colta completamente di sorpresa dal contratto, e cioè ricevetti l'atto per mezzo di mio nipote la sera a Magdeburgo e il giorno dopo era fissato da L[isetta] l'incontro con il notaio». E siccome la signora Franziska non andò all'appuntamento, Elisabeth andò da lei col notaio. Bello, no?

La madre di Nietzsche morì nel 1897, «puerilmente gloriosa d'un figlio di cui odiava l'opera, senza capirla».Elisabeth, invece, grazie ai proventi delle opere del fratello e all'aiuto di qualche ricco «superuomo» da lei abilmente spremuto, si comperò una villa a Weimar, dove si trasferì col malato, e potè finalmente dare sfogo al suo desiderio di affermazione sociale. La piccola provinciale di Naumburg si trasformò in una snob. Gast, che pure era diventato un docile strumento nelle sue mani, odiava nondimeno le sue pose aristocratiche e scriveva: «Non fa un passo in città, viaggia solo in una carrozza signorile, con vetturino e servo in livrea a cassetta. E’ diventata una vera dama di corte, bramosa di viaggi aristocratici e di codazzi».

Nietzsche, ormai, era solo un tronco vivente o un'anima uccisa, come pure è stato detto. Talvolta, specie durante la notte, emetteva degli altissimi urli animaleschi, che facevano rabbrividire gli ospiti, per esempio il conte Harry Kessler, e costituivano una nota macabra nel cerimoniale mondano di Villa Silberblick. Di tanto in tanto andava a trovarlo qualcuno dei suoi vecchi amici; ma egli non li riconosceva e non diceva una parola. Ancora nel 1894, Rohde, che era andato a fargli visita a Naumburg, scriveva a Overbeck: «E’ completamente abbrutito, non riconosce più nessuno al di fuori di sua madre e di sua sorella. Non articola molto più di una frase al mese [...]. In breve, è uno spettacolo da far venire le lacrime. Ma è evidente che egli non sente più niente, né piacere né dolore. Egli è passato, nel senso più angoscioso della parola, "al di là"». Morì il 25 agosto 1900.

 [...]

IL MITO (pp. 441-462)

Nessuna letteratura, forse, è così ricca di miti e di leggende come quella tedesca. Ancor più degli altri, i tedeschi inclinano a trasformare in semidio ogni grande personaggio della loro storia. Così abbiamo un mito di Beethoven, un mito di Goethe, un mito di Goethe-Schiller e via di seguito. Ma il più grande è o èstato il mito di Nietzsche. Già solo leggendo la descrizione dei suoi funerali, si direbbe che a Röcken, nel pomeriggio del 28 agosto 1900, venisse sepolto non già un uomo, sia pure un uomo molto famoso, bensì un dio. Sotto la sapiente regia di Elisabeth Förster, che aveva preso in appalto la celebrità del fratello, tutto assunse il carattere di un'apoteosi; e Nietzsche, cui più di una volta era balenata l'idea di essere per davvero un dio, poteva scendere soddisfatto nell'Ade.

Dopo un «canto consolatorio delle amiche della sorella di Nietzsche», i sacerdoti del tempio nietzscheano dettero fiato alle trombe del Gloria. Per primo parlò Ernst Horneffer, che le sparò grosse abbastanza; ma ancora più grosse le sparò, dopo un'altra trenodia cantata dalle amiche di Elisabeth o «Eli», come anche si firmava e si faceva chiamare, Herr Professor Doktor Curt Breysig, dicendo fra l'altro: «Si è parlato di imperatori segreti della Germania; ma qui, un uomo è voluto salire su un trono ancora più alto, qui è comparso un candidato alla corona di re dell'umanità: solo i grandi educatori del genere umano, dei quali ci parla la storia delle religioni, solo Buddha, Zarathustra e Gesù hanno voluto cose altrettanto grandi e le hanno in verità ottenute per tutti i popoli e per tutti gli eoni. E che Friedrich Nietzsche sia andato incontro da pari a pari a questi uomini dei millenni, che egli guardasse dalle sue alle loro vette, proprio come se tutti i pensieri e le aspirazioni dell'umanità, sulle alture intermedie, si svolgessero nella valle.. .». Fermiamoci qui, per timore delle vertigini.

Questo, a Weimar. A Röcken, l’Oberbürgermeister dottor Oehler, altro sacerdote officiante, fece oscillare ancora più in alto il turibolo dell'incenso: «Simile a un'aquila temeraria, egli si librò nelle pure altezze del sole». E che cosa potevano mai rappresentare, per l’Adler Nietzsche, i passati millenni di civiltà e di cultura? Niente, assolutamente niente! Essi non costituivano una pianta abbastanza robusta, su cui tale aquila potesse depositare l'uovo della sua filosofia: «Le fondamenta di una cultura più volte millenaria non costituivano per lui una base sufficiente per erigere il superbo edificio del suo mondo spirituale».

Così l’Oberbürgermeister dottor Oehler. Ma poteva, il carro trionfale di Nietzsche, volare attraverso i cieli della gloria senza rimorchiare la signora Elisabeth Förster? Certo che no! Quindi il prode Oehler si affrettò ad aggiustarvela sopra: «La sorella subentrò al suo posto.Essa assunse a contenuto, a felicità della propria vita il potersi prendere cura del corpo infermo, dello spirito messo in catene del suo sopra ogni cosa amato e adorato fratello, ma nello stesso tempo il potersi prendere anche cura e farsi garante delle sue opere e dei suoi pensieri, dell'onore e della gloria del suo nome. Nelle sue braccia Friedrich Nietzsche si è assopito dolcemente, una immagine di gentile riconoscenza ancora il giorno della sua morte. Il nome dell'amata sorella Elisabeth fu l'ultima parola che esalarono le sue stanche labbra».

Abbiamo visto quanto Nietzsche amasse la sorella e come questa ne onorasse la memoria con le sue manipolazioni. Ma che importa? Il carro trionfale, ormai, che recava a bordo un pazzo morto e una fanatica viva, era in piena corsa; ed Elisabeth, passata evidentemente al timone, si sentiva invocare dal nostro D'Annunzio:

Quivi, o triste ombra della greca Antigone, anima profonda che gli fosti custode fedele nella notte cieca, o sorella, quivi reca il cadavere dell'eroe, sul golfo lunato e grande come l'arco ch'egli tese.

Non saprei dire se la cocchiera udisse l'ardente preghiera del poeta italiano [Gabriele D’Annunzio], che avrebbe voluto seppellire «fra Sorrento e Cuma, / sul golfo ove il Vesuvio fuma» le spoglie del «Barbaro enorme», di colui che partorì una «saggezza enorme, / su le montagne che stanno / vergini e sole / nel meriggio sereno», per innalzargli «un'altissima tomba», con tanto di «ghirlande» e di «libami».6 Ma ci poteva essere tomba o monumento migliore di quello costruito da Elisabeth? «Essa ha elevato al fratello — si legge nell'articolo della "Nuova Antologia" più volte citato — un monumento più duro del metallo — quello di una devozione che non ha pari.»

Naturalmente, quando Nietzsche morì, anche lo spirito della Terra dette segni del suo dolore: «Si levò un terribile temporale, e sembrò che questo alto spirito dovesse scomparire fra tuoni e fulmini». È noto che il cielo della Germania ha sempre una riserva di tuoni e di lampi per segnalare la scomparsa dei grandi spiriti. Oppure, come nel caso di Goethe, fa «più luce». A proposito di Nietzsche, però, sembra che si sia parlato anche di terremoto o di qualche cosa di simile, proprio come sarebbe avvenuto per la morte di Buddha o, meglio ancora, di Cristo. Né mancano, dalle parti di Weimar, colline che si possano paragonare al Golgota.

Il mito si forma rapidamente. Il Nietzsche che muore con il nome dell'amata sorella sulle labbra è tanto vero quanto il Nietzsche che, a Torino, impazzisce soltanto perché fa abuso di sonniferi ed è affranto dal dolore. Come poteva, infatti, un dio, un pari grado di Buddha, di Zarathustra e di Cristo, essere vittima di una malattia ereditaria? Così Elisabeth, truccando la catastrofe del fratello e facendo presa sul sentimentalismo dei tedeschi, riuscì a creare la leggenda, e ad accreditarla presso la posterità, di un Nietzsche martire del pensiero, una specie di Icaro o di Fetonte dello spirito, che cade per il suo temerario ardimento attraverso i flammantia moenia della filosofia.

E che fatale coincidenza! Secondo il più poetico dei miti, Fetonte, abbagliato dalle nevi delle Alpi mentre guidava il carro del padre Sole, sarebbe precipitato proprio in quel tratto del Po che lambisce il parco Michelotti, sotto i cui platani Nietzsche, prima come Anticristo e poi come Dioniso Zagreo, andava a passeggiare e a maturare i suoi pensieri. Sì, a Torino gli Dei cadono! Sì, Torino è fatale agli Dei! Evidentemente Elisabeth Förster non sapeva niente di questo mito, altrimenti non si sarebbe lasciata sfuggire l'occasione di fare un bel parallelo tra Nietzsche e Fetonte da un lato, e tra se stessa e le Eliadi dall'altro. E come le lacrime delle Eliadi, le sorelle del caduto Fetonte, si trasformarono in ambra, così le «lacrime» versate da Elisabeth Förster per la sorte del fratello si trasformarono in oro e in danaro sonante, allorché lei, da brava sacerdotessa, incominciò ad accreditare la leggenda di un Nietzsche che si lancia negli spazi infiniti della filosofia, di un Nietzsche che fa, lui solo, da colonna portante o da cariatide gigantesca nel tempio del sapere. In una parola, di Nietzsche l'Eroe! Egli cade, certo, ma l'edificio superumano da lui costruito è lì per sfidare i millenni, nicht wahr?

Ma, a parte la sapiente regia di Elisabeth, la sacerdotessa di Weimar che il poeta Kerr chiamò sarcasticamente Ubermenschin, parola che potremmo tradurre con «Superuoma», come si spiega il mito di Nietzsche? Bisogna distinguere, qui, tra il mito sulla pazzia e quello sul pensiero di Nietzsche, che non è certamente solo opera della sorella. Se egli fosse morto subito dopo l'esplosione finale della sua pazzia, come si augurava Overbeck, è probabile che il mondo non si sarebbe commosso tanto per il suo destino. Non si può negare, infatti, che il sentimentalismo, almeno in Germania, abbia avuto la sua parte nel culto di Nietzsche. Ma c'era anche, nella Germania imperiale gonfia di Kultur, il desiderio di riscattarsi dalle colpe commesse verso un Hölderlin, di cui proprio allora si incominciava a intravvedere la grandezza. Questa era anche la tesi del dottor Langbehn. A ciò si deve aggiungere che la natura stessa degli scritti di Nietzsche, ivi compresi i molti appunti, abbozzi e frammenti lasciati inutilizzati, sembrava fatta apposta per richiamare un esercito di critici, di interpreti, di si-stematori, di dimostratori e soprattutto di pizie. Nietzsche è stato, se così si può dire, uno dei più grandi cantieri sfama-critici della storia, come dimostra l'immensa bibliografia. E se proprio non è riuscito a far salire gli uomini sulla montagna di Zarathustra, è certo che molti, occupandosi di lui, sono saliti sulle cattedre universitarie. Quando qualche studioso riusciva a dimostrare che questo o quell'appunto lasciato da Nietzsche andava collocato un po' più in su o un po' più in giù nella pagina di un testo, si dava l'aria di chi fosse riuscito a spostare l'asse terrestre.

E che dire della pubblicazione delle varianti e delle varianti delle varianti, come se si trattasse delle parole del Signore? Da un lato si sostiene che Nietzsche rimase lucidissimo fino alla fine, dall'altro si pensa che egli abbia gettato nel cestino frammenti capitali dei suoi scritti e quindi si corre a raccoglierli con zelo quasi religioso. Ma se Nietzsche era lucido, sapeva lui quello che andava utilizzato o scartato. Ora, comunque, Colli e Montinari, due studiosi che non sono neppure di lingua tedesca, dovrebbero aver messo definitivamente ordine negli scritti nietzscheani e smascherato del tutto le imposture di Elisabeth, che già erano state smontate dallo Schlechta. Però non si faccia credere alla gente, come pure si è fatto con una indecorosa e martellante propaganda, che ora abbiamo un Nietzsche completamente diverso. Questo è una Flunkerei, si direbbe in tedesco, questo significa prendere in giro i lettori. Chi voleva conoscere Nietzsche poteva farlo benissimo anche prima delle nuove edizioni. Più che un filosofo nel vero senso della parola, Nietzsche fu un critico della cultura. Ed è forse proprio questo che lo rende attuale. Pur non avendo un pensiero filosofico proprio e originale, egli seppe nondimeno inserirsi nella sua epoca e coglierne i segni di decadenza o di transizione.

La grande tesi filosofica, iniziata da Kant e culminata con Schopenhauer, era nella fase discendente; e Nietzsche, con molto intuito, venne incontro all'uomo che, dopo le esaltazioni del romanticismo, voleva ritrovare il senso della terra. E se Schopenhauer aveva sconsacrato il mondo, la vita e l'uomo, Nietzsche, senza neppure chiedersi che cosa significassero, tornava a santificarli e a benedirli con il turibolo e i quaresimali di Zarathustra. Egli sapeva che il mondo, come il singolo individuo, vuol essere adulato, non denigrato. Diciamogli che è bello, che è nobile, che è santo: ce ne verranno gloria e gratitudine. I pessimisti sono degli imprudenti: guai ai pessimisti! Li si isola o li si dimentica. Guai a chi non lusinga e non adula l'umanità, assecondandone le illusioni! Esiste anche una forma di demagogia filosofica.

Per spiegarci la fama di Nietzsche dobbiamo soprattutto tener presente che il suo aristocraticismo culturale faceva da contrappeso all'ondata montante del socialismo. Già il Langbehn, in cerca di uomini capaci di formare una nobile minoranza di fronte «allo spirito di democratizzazione e di livellamento generale che caratterizza questo secolo», aveva messo gli occhi addosso a Nietzsche. Poi abbiamo Meta von Salis-Marschlins, la quale, temendo forse di veder scomparire il suo von, che fra l'altro le permetteva di andar oziando per l'Europa, scrisse: «Alla grande onda melmosa della democratizzazione, che si è messa in moto all'inizio del nostro secolo e ora ha quasi invaso l'Europa, incomincia pian piano a opporsi una contro-onda dell'aristocratizzazione». L'araldo o magari il Nettuno di codesta contro-onda dell'aristocratizzazione, naturalmente, era Nietzsche. Altri, in seguito, metteranno ancora più in risalto questo aspetto; né c'è dubbio che Nietzsche rappresenti la più violenta antitesi al socialismo e al marxismo. Non per niente egli è stato strapazzato ideologicamente da Lukàcs, il quale, per altro, ha una concezione molto strana della filosofia. Da bravo marxista, egli vede solo con occhi arrossati, come i cisposi. I filosofi li giudica buoni o cattivi in base al loro «colore», così come si fa con le nespole e i fichi d'India. Quando si trova di fronte a un vero pensatore, gli chiede subito il passaporto e vuol vedere quale coccarda porti all'asola della giacchetta. Talvolta, ed è il caso di Schopenhauer, guarda perfino nelle tasche. Ma da un tale doganiere dell'ideologia marxista non ci si poteva aspettare altro. Che poi oggi si cerchi di recuperare Nietzsche a sinistra è cosa che lascia a dir poco sconcertati quelli che lo conoscono. Meglio ancora, è un'operazione da magliari. In tedesco si direbbe una Bauernfängereì.

Questo non significa che tra Nietzsche e il marxismo non ci sia anche qualche punto d'incontro. Per esempio il volontarismo nietzscheano, per quanto aristocratico, è pur sempre radicato nella terrestrità della vita non meno di quel che lo sia il marxismo. Tutti e due non riescono a concepire una realtà al di fuori del velo di Maya, del samsàra buddhista, del divenire greco, del mondo fenomenico o mondo apparente. All'uno e all'altro manca uno sfondo metafisico; l'uno e l'altro predicano l'affermazione della volontà di vivere, il che è una specie di tautologia. E i concetti di passato e di futuro, quindi di storicismo e di progresso, sono possibili solo nelle prospettive illusorie del velo di Maya. Che cos'è, in ultima analisi, la filosofia, se non il superamento del velo di Maya e quindi anche della dialettica, come c'insegna il buddhismo? Altro punto di contatto, fra Nietzsche e Marx, i quali nascono tutti e due dalla dissoluzione dell'idealismo, è il rovesciamento dei valori tradizionali. E c'è, volendo, anche l'alienazione. Ma punti di contatto, allora, si possono trovare, se si procede per analogia, anche con Schopenhauer, per il quale Marx espresse grande ammirazione. E quale grande scrittore o pensatore non ha fatto la critica di quella che si chiama morale borghese? Si pensi a un san Giovanni della Croce o a un sant'Ambrogio. Recuperabili anch'essi da sinistra? Bisogna dire, piuttosto, che se questo mondo fosse una bella cosa a nessuno verrebbe in mente di scriverci o di pensarci sopra. Ritornando a Nietzsche, sarebbe impossibile, come abbiamo accennato nei capitoli precedenti, enucleare un pensiero filosofico ben definito dai suoi scritti. Proprio perché c'è tutto e non c'è niente, ognuno può vedervi quello che gli fa piacere. Vi sono stati tentativi di annessione da parte cristiana; ora ci si prova la parte marxista. E’ capitata la stessa cosa anche con Gobineau. Pur di arricchire o di rendere più pittoresche le loro processioni, i comunisti non esitano a mettere sotto il baldacchino le statue di altre religioni, come appunto quella di Nietzsche.

Certo, il sorgere improvviso della fama di Nietzsche, in Germania, non fu senza contrasti. Presto scesero in campo ammiratori e detrattori ugualmente fanatici. A Hermann Türck, per esempio, che nel 1891 aveva attaccato ferocemente Nietzsche «und seine philosophischen Irrwege», rispondeva con non minore violenza Max Zerbst; e, come sempre accade in simili casi, ci si accapigliava non solo sui libri di Nietzsche, ma anche sui libri scritti su tali libri. E intanto le polemiche non facevano che richiamare l'attenzione e suscitare curiosità intorno al nuovo idolo. Molti, e Zerbst per primo, assumevano anche pose da superuomini, guardando dall'alto quelli che essi ritenevano dei malriusciti, dei ciàndala. Era la liturgia della nuova morale.

Ben presto il mito di Nietzsche si diffuse anche in Francia; e se ne capisce facilmente il motivo. Dopo la batosta di Sedan, la Francia aveva perso non solo il predominio politico, ma anche quello culturale. C'era rancore, ansia di rivincita verso la Germania; e ora arrivava in buon punto uno scrittore tedesco assai famoso, che esaltava continuamente la cultura francese a scapito di quella tedesca. Per lo sciovinismo culturale francese, questa era una lusinga troppo preziosa perché rimanesse inascoltata. Non dico che questo sia stato l'unico motivo (bisogna aggiungere anche l'irrazionalismo, che dominava nella borghesia della fine del secolo); ma il maggiore, sì. Per convincersene, si legga un qualsiasi libro su Nietzsche scritto da un francese e si noti come metta in risalto ciò che il Nostro dice a vantaggio della cultura francese. Così avvenne che Nietzsche diventasse in Francia quasi più famoso che nella stessa Germania. Molto più caute e distaccate le reazioni dal mondo anglosassone.

Dalla Francia, lo si è già detto, il mito di Nietzsche rimbalzò in Italia. Qui, però, parlo solo del mito. Per il resto, bisogna sapere che l'Italia fu la prima a dire una parola ufficiale su Nietzsche. Cosima Wagner, in data del 3 aprile 1872, scrive a questo proposito: «Nella Rivista italiana la prima parola pubblica sul libro del Prof. Nietzsche». Si trattava della «Rivista Europea» di Firenze, mentre il libro era naturalmente La nascita della tragedia. Wagner, che già aveva aiutato Nietzsche a pubblicarlo e anche a concepirlo (Manfred Eger, op. cit., p. 51, scrive che le idee fondamentali del libro, come pure il tema e perfino il titolo, sono di Wagner), avrà sicuramente mosso qualche pedina per farlo recensire dalla rivista italiana. Tramite Schuré? Circa un mese prima, in data 9 marzo 1872, Cosima aveva annotato: «La Rivista Europea porta un bell'articolo di Schuré sull'impresa di Bayreuth, e in Italia viene ora aperta la sottoscrizione Wagner; lo stesso giornale la apre con 150 franchi». O tramite Malwida von Meysenbug? Questa scrive: «Nell'anno 1872, quando vivevo a Firenze, mi fu fatto notare da Cosima Wagner uno scritto appena uscito e che era di un giovane professore [...], intimo amico della famiglia Wagner che viveva sul lago di Lucerna».

Ma il primo studioso italiano che si sia interessato spontaneamente a Nietzsche e lo abbia letto nell'originale dev'essere stato il filosofo napoletano Antonio Tari. Nel 1882 egli pubblicò nell'«Archivio Musicale» di Napoli (anno 1, pp. 327-37) un articolo con questo titolo: Sull'essenza della musica secondo Schopenhauer ed i Wagneriani. In tale articolo, che vorrebbe confutare l'estetica schopenhaueriana della musica, si trova la traduzione di un passo della Nascita della tragedia.

Il Tari aveva una cultura vastissima e conosceva bene anche il tedesco. Da bravo hegeliano, però, scriveva in maniera orribile. Aveva studiato a Montecassìno, dove aveva conosciuto Bertrando Spaventa, e dopo il 1848 si era ritirato in solitudine a Terelle, tutto immerso negli studi. Ci rimase per molti anni. Terelle, dove evidentemente non ci sono sempre stati solo asini e capre, è un piccolo paesello arroccato sul monte Caira, a un tiro di moschetto da Montecassino. Non so quando il Tari abbia letto Nietzsche. Mi piace immaginare che egli si sia fatto prestare il libro dalla vicina abbazia... Che non siano stati ì benedettini ad avere sulla coscienza l'entrata trionfale di Nietzsche in Italia? E solo un sogno, lo so bene, e non c'è bisogno che qualche pedante me lo faccia notare. Ma chi avrà sulla coscienza i 21.000 soldati tedeschi morti combattendo intorno all'abbazia benedettina e sepolti ai piedi del monte Caira? La loro età media si aggirava sui diciotto anni ed essi caddero, mezzo secolo dopo Nietzsche, in nome del Superuomo: occorre forse ricordare che lo Zarathustra era una specie di bibbia per la gioventù tedesca? La visita di quel cimitero stringe il cuore. Ai caduti, di cui alcuni erano poco più che adolescenti, è stato negato perfino il conforto del pianto, perché molte croci sono senza nome. Una mano pietosa ha scritto nel libro dei visitatori su per giù così: «Con la vostra ombra e con le vostre foglie date pace, o alberi, a questi morti. Essi combatterono senza speranza e morirono senza paura». Vittime della follia umana! Eppure Nietzsche, le cui teorie avevano direttamente o indirettamente propiziato tale follia, viene portato in trionfo. Anche lui, come Hegel, considerava «antibiologica» la pace. E auspicava un'epoca più virile, ossia un'epoca guerriera che rimettesse in auge il valore dei prodi: «Perché, credete a me, il segreto per raccogliere dall'esistenza la massima fertilità e il massimo diletto si chiama: vivere pericolosamenteì Costruite le vostre case sul Vesuvio! Spedite le vostre navi su mari inesplorati! Vivete in guerra con i vostri simili e con voi stessi! Siate predatori e conquistatori, voi uomini della conoscenza, finché non potrete essere dominatori e padroni». Per lui, «la guerra santifica ogni cosa», anche quelli che uccidono e incendiano. E non ci si faccia scrupoli, perché la malvagità fa parte della «salute», anzi perfino «della felicità». Io ho l'ardire di chiedere: parla così, un filosofo? E io ho anche l'ardire di rispondere: no, così parla solo un pazzo!

Gli apologisti di Nietzsche, naturalmente, sono lì pronti a dimostrare, con i loro giochi filologici da bussolotto, che egli usa un linguaggio metaforico e che quello che scrive va inteso in un altro senso. In quale? Questi dottori sottili ricordano gli esegeti della Bibbia, i quali vorrebbero far credere che le mammelle di cui parla Salomone non sono proprio mammelle, ma un'altra cosa. È un procedimento da magliari, perché voler far dire a un testo qualcosa di diverso da quello che c'è scritto significa prendere in giro la gente. Molto più onesta, pur nella sua unilateralità e un po' anche superficialità, la furia iconoclastica di Max Nordau, un autore che i nietzscheani hanno sempre visto come il fumo negli occhi: «Leggendo di seguito le opere di Nietzsche si ottiene l'impressione — dalla prima all'ultima pagina — di udire un pazzo furioso [...]. In quanto quell'infinito torrente di parole lascia intravvedere un senso, questo mostra nelle sue parti fondamentali una serie di idee deliranti, continuamente ricorrenti, che si basano sull'allucinazione dei sensi e su avvenimenti organici morbosi [...]. Nietzsche fu l'autore di una vera e propria epidemìa intellettuale, il cui espandersi si può sperare di impedire mettendo nella più chiara luce la pazzia di Nietzsche e stigmatizzando come meritano i suoi allievi, cioè qualificandoli come isterici e idioti».

Ma ritorniamo al mito. Già all'inizio degli anni novanta, anche in Italia cominciò a montare il successo per il Superuomo. Il primo a raccoglierne i ruggiti, a quanto risulta, fu Gabriele D'Annunzio, il quale, sul «Mattino» di Napoli del 25 settembre 1892, pubblicò un articolo dal titolo La bestia elettiva.

Dopo aver sferzato da par suo re e regine, dice: «Bisogna dunque inclinare alla Democrazia. Ma, ahi me!, tutto è vecchio e ignobile anche da questo lato. Il dogma dell'Ottantano-ve, questo fondamentale assioma delle società moderne — che al Popolo appartenga la sovranità degli Stati, che l'autorità dei sudditi superi quella del Re — era già insegnato, accettato, praticato in tutte le comunità cristiane; era anzi specialmente propugnato dai Gesuiti. Quanti squilli di trombe apocalittiche, quanto rimbombo di tuoni, quanto sfolgorio di fulmini per mettere in cima a una grossa antenna nodosa e contorta un cartellone con suvvi scritto a lettere sanguigne il più cattolico dei luoghi comuni! [...] Canteranno i poeti il trionfo delle plebi al Potere? Ma il suffragio universale è stato inventato con straordinaria accortezza per spogliare le plebi dei loro diritti. La condizione delle plebi resta sempre la medesima, sia la volontà governatrice quella d'un tribuno o sia quella di un re, sia classe privilegiata la nobiltà o sia la maggioranza della Camera. Le plebi restano sempre schiave e condannate a soffrire, tanto all'ombra delle torri feudali quanto all'ombra dei feudali fumajoli nelle officine moderne. Invano i Cleoni gridano alle moltitudini — Voi non soltanto siete la forza ma siete la luce, il pensiero, la saggezza —. Forse neppure le moltitudini credono a queste adulazioni. Esse credono in un solo progresso: nell'aumento del benessere fisico. Il lievito dello spirito non vale a sollevare questa pasta densa, grossolana e grigiastra».

E ancora: «Mentre la Natura tende a moltiplicare senza limite le differenze, la Democrazia tende in vece a rendere tutti gli uomini uguali, a mettere su ciascuna anima un marchio esatto come su un utensile sociale, a fare le teste umane come le teste degli spilli». Ma dalle «torbide viscere» della democrazia nasce «un tiranno ben più terribile di quelli che essa ha abbattuti: lo Stato-re, lo Stato-provvidenza, lo Stato-produttore-della-felicità-pubblica: un mostruoso Polifemo che toserà e scannerà le sue greggi».

Poi il D'Annunzio si richiama a Nietzsche: «Secondo la dottrina di Federico Nietzche [sic!], una fra le ragioni del general decadimento sta in questo: che l'Europa intera ha ricevuta la sua definitiva impronta dalla nozione del bene e del male presa nel senso della morale degli schiavi. Due sono le morali: quella dei "nobili" e quella del gregge servile. Ora, poiché in tutte le lingue primitive nobile e buono sono termini equivalenti e poiché la parola nobile è anche una designazione di classe, ne viene per conseguenza manifesta che la casta dei signori ha creata la prima nozione del Bene. Tutta la loro morale ha la sua radice nella sovrana concezione della loro dignità e tende alla glorificazione superba della vita [...]. Ma pur troppo la morale degli schiavi ha vinto l'altra. Era necessario, per condurla alla vittoria, un qualche potere di seduzione. Gesù di Nazareth le portò l'artificio dell'amore, attirando a sé gli infelici ed i vili. Tutte le sofferenze del debole e dell'oppresso si cangiarono allora in virtù; e parve abominevole l'uomo forte che derivava le sue leggi dal principio contrario. L'ascetismo diffuse un velo di pallore e di tristezza su tutte le cose

 [...]. Giova forse prolungare la vita dei miserabili? A che? Preoccuparsi della folla a detrimento dei "nobili" non sarebbe come trascurare gli arbusti più vigorosi, in una selva, per curare qualche virgulto povero di linfa o qualche erba vile? [...] Il vero "nobile" non somiglia in nulla agli slombati eredi delle antiche famiglie patrizie. L'essenza del "nobile" è la sovranità interiore. Egli è l'uomo libero, più forte delle cose, convinto che la personalità supera in valore tutti gli attributi accessorii. Egli è una forza che si governa, una libertà che s'afferma e si regola sul tipo della dignità. Egli ha l'occhio infallibile quando guarda in sé medesimo. E in questa autocrazia della coscienza è il principal segno dell'aristocratico nuovo. Una sola delle sue gioje vale meglio di tutti i giubili popolari».

In questa staccionata fra «nobili» e «plebei», D'Annunzio trovava un appoggio o una conferma alle idee che andava maturando per conto proprio. In articoli successivi, però, egli sembra prendere una certa distanza da Nietzsche. Parlando del Caso Wagner, per esempio, scrive: «Ma l'opuscolo più curioso, sul quale vai la pena di fermarsi, è quello di Federico Nietzsche, intitolato II caso Wagner, a cui il recentissimo volgarizzamento francese compiuto dai signori Daniel Halévy e Robert Dreyfus assicura una certa diffusione nei paesi latini.

—  Federico Nietzsche! Chi è costui? chiederanno moltissimi dei miei lettori, fino ai quali non può essere ancora giunta la fama di questo filosofo tedesco che assale con tanta violenza le dottrine borghesi contemporanee e il cristianesimo sempre rinnovellato. Egli è uno dei più originali spiriti che siano comparsi in questa fine di secolo, ed uno dei più audaci. I risultati della sua speculazione intellettuale sono contenuti in libri bizzarri, scritti con uno stile aspro ed efficace, dove i paradossi si avvicendano ai sarcasmi e le invettive tumultuose alle formule esatte: — Così parlò Zarathustra, — Genealogia della Morale, — Di là dal Bene e dal Male, — Crepuscolo dei Falsi Iddìi,

—  La Gaia Scienza. In un tempo in cui la dottrina evangelica predicata dagli slavi acquista sempre nuovi proseliti, in un tempo in cui su le rovine delle vecchie religioni sorge la religione della Pietà, Federico Nietzsche si leva quasi con furore contro la pietà ("questa spugna che assorbe la midolla umana") e contro l'abnegazione e contro la devozione e in fine contro tutto ciò che, secondo lui, è il frutto della debolezza».

Dopo una esposizione assai penetrante e precisa della nuova morale annunciata da Zarathustra, D'Annunzio, che chiama Wagner il «Gesù di Bayreuth», prende più direttamente in esame l'opuscolo antiwagneriano: «Le lepidezze, i dileggi e i sarcasmi, spesso d'assai dubbio gusto o d'un gusto eccessivamente germanico, si seguono senza intervalli per le ottanta pagine del libello». E se Nietzsche afferma: «Togliete la musica wagneriana dalla protezione dell'ottica teatrale e avrete una cattiva musica, la peggior musica che sia mai stata composta», D'Annunzio risponde: «Qui è il grossolano errore, o la vana ingiustizia. Per me, e per i miei pari, la superiorità di R. Wagner sta appunto in questo: — che la sua musica è, in gran parte, bellissima, ed ha un alto e puro valore di arte indipendentemente dalla faticosa macchinazione teatrale e dalla significazione simbolica sovrapposta». E aggiunge: «Come il lettore vede, non si tratta soltanto d'un caso Wagner ma ben anche d'un caso Nietzsche. C'è qualche cosa di frenetico in questo bizzarro libello: nella successione disordinata delle idee, nella incoerenza sintattica delle frasi, nella furia dell'invettiva».

D'Annunzio parla già di un Caso Nietzsche in contrapposizione al Caso Wagner. Ma siccome doveva leggere Nietzsche solo in francese, commetteva anche curiosi errori di traduzione. Così, per esempio, traduce Unzeitgemässe Betrachtungen con «Considerazioni inopportune». Resta il fatto che Nietzsche, in Italia, non avrebbe potuto trovare banditore o trombettiere più efficace.

Il mito di Nietzsche, dunque, rimbalzò dalla Germania alla Francia, dalla Francia a Napoli, dove si direbbe che ci siano sempre stati gli importatori all'ingrosso della filosofia tedesca, e da Napoli in tutta l'Italia. Articoli, monografie, conferenze e mode nietzscheane si susseguirono con ritmo incalzante. A dare il la fu il D'Annunzio, tanto che il professor Vidari, nella sua Bibliografia critica su Nietzsche, poteva scrivere: «In Italia, è troppo noto, il Nietzsche trovò il sommo seguace: Gabriele d'Annunzio», che nella prefazione al Trionfo della morte, rivolto al Michetti, aveva anche scritto: «Noi tendiamo l'orecchio alla voce del magnanimo Zarathustra e prepariamo nell'arte con sicura fede l'avvento del Uebermensch, del Superuma-no». Era il 1894. E anche da noi, si capisce, veniva esaltato il «martire del pensiero»: «Così pazzo veramente divenne, rimane e rimarrà fino alla morte l'infelice F. Nietzsche, uno tra i più squisiti aristocratici del pensiero, martire del forsennato orgoglio, vittima appunto dell'aristocratico pensiero struggente...». Altri parlavano addirittura di Nietzsche come di un incendio: «Nel campo della moderna cultura tale è stato Friedrich Nietzsche: un incendio». Dopo aver accennato «ai terribili e difficili Dionysos-Dithyramben, intelligibili soltanto agli iniziati nel culto di Nietzsche», un «incendiato», tale Ulisse Ortensi, conclude: «Da lunghi anni egli vive nella demenza, come fulminato in parte dalla morte che lo aveva minacciato nel 1876».

Più caute o addirittura ostili, almeno in un primo tempo, le reazioni degli accademici; il che, forse, si spiega col fatto che questi, anche se impolverati e smorti, sono nondimeno incombustibili. Fanno soltanto fumo, come la torba. Con tale fumo, che chiamano «scientifico», essi annebbiano non solo se stessi, ma anche i loro studenti. Ma sentiamo il positivista Morselli: «Del resto che cosa vi è di notevole nell'opera di questo filosofo perché formi la predilezione di tante persone, specialmente in Germania, dove pure la scienza coll'Haeckel, col Wundt, e con altri, assurge ad altezze insperate?». E aggiunge: «Conseguentemente il Nietzsche istituisce una morale pei padroni, pei Titani, ed una morale per gli schiavi; stranezza non nuova nella storia svariatissima del pensiero umano [...]. Probabilmente ci troviamo di fronte a uno squilibrato, che non lascerà una durevole impronta; sarà forse un filosofo alla moda, la quale, non bisogna dimenticarlo, è sorella della morte; la scienza positiva coi Marx, cogli Spencer, coi Novicow scorge nel grandioso procedere dell'immenso fiume dell'umanità ben altro avvenire che quello immaginato da F. Nietzsche». Alcune righe prima Morselli aveva scritto: «Dalla grande Patria di Arturo Schopenhauer, tanto feconda di filosofi geniali che hanno spaziato largamente nelle nebulosità metafisiche, e di scienziati forti e severi che danno all'Europa acute e pazientissime ricerche facenti epoca nella storia del pensiero positivo, ci giunge ora questo strano spezzatore di idoli, che afferma di aver dato ai tedeschi i libri più profondi che essi posseggano».

Più profondo, mi sembra, Paolo Orano, il quale vuol dimostrare che Nietzsche, tutto sommato, è una pallida emanazione di Schopenhauer. La filosofia di Nietzsche, «compostasi di elementi tutti tedeschi e schopenhaueriani», reagì o volle reagire «al pessimismo della negazione del voler vivere con entusiasmo di peana — troppo rumoroso ed agitato per essere sano [...]. Non potè essere filoschopenhaueriano: un vero filosofo nasce una volta sola e non lo si ripete che in caricatura e lo Schopenhauer è il colosso del tempo in cui visse e pensò».

Non diversamente la pensava Giacomo Barzellotti: «In lui è molto della logica appassionata del Rousseau, del quale alcuni tra i primi scritti tradiscono la lunga lettura. E di Arturo Schopenhauer, — dalla cui dottrina si avviò alle proprie, sebbene poi lo rinnegasse, chiamandolo "il grande falso monetario di Francoforte", — egli ebbe l'audacia affascinante del paradosso geniale e, a momenti, anche la splendida bilis. Ma del grande pessimista (che è stato, se ne pensi quel che si vuole, una delle teste più forti del nostro secolo) il Nietzsche non ebbe né l'ampiezza, né sopra tutto la sanità e l'integrità dell'organismo intellettuale. Egli era uno spirito essenzialmente malato e malsano. Ciò che varrebbe, io credo, a spiegarci, anche lasciando stare le altre ragioni accennate or ora, la strana seduzione esercitata da lui su molte menti in questa fine di secolo, che avrà una parte a sé nella lunga storia dei contagi, buoni o malefici, trasportati di paese in paese dalle idee e dalle teorie». E concludeva: «Perché in Italia più che negli altri paesi latini, — più certo che in Inghilterra e in altri paesi del Nord, — l'ammirazione pel filosofo tedesco ha assunto pubblicamente, direi quasi solennemente, in alcuni uomini di lettere e anche in alcune donne, il carattere di un vero e proprio apostolato. Attribuire ciò solo all'eco più viva che dovevano avere tra noi certe dottrine del Nietzsche, ispirate, come quella famosa del Superuomo, dagli ideali del Rinascimento, sarebbe un errore [...]. In Italia, i più dei suoi lettori e dei suoi seguaci il Nietzsche li ha avuti fin dal principio non fra gli studiosi e i dotti e fra gli scienziati, ma fra gli artisti e i letterati puri; — classe di lettori e di scrittori, quest'ultima, che scema, è vero, di giorno in giorno là dove il sapere sia intenso ed alto, ma che tra noi dura sempre più numerosa che altrove [...]. Una tra le prime cause dell'inferiorità, in cui si mantiene la nostra coltura rispetto ad altre, è l'antipatia profonda, sto per dire l'odio che il nostro pubblico colto ha tuttora, non solo per gli studi filosofici, ma in genere per lo spirito filosofico e speculativo, e per ogni forma un po' complessa e un po’ ardua del pensiero e dell'arte che se ne impronti». ° Le cose, purtroppo, non sono cambiate, anzi sono peggiorate enormemente; e l'articolo del Barzellotti, là dove parla del provincialismo culturale italiano, resta attualissimo.

Sentiamolo ancora: «A Federico Nietzsche doveva toccare, come allo Schopenhauer, al quale è sottentrato da non molto nel favore dei nostri circoli letterari ed artistici, la sfortuna di avere quasi tutti i suoi lettori fra i dilettanti e tra gli orecchianti di ciò che era il soggetto delle sue opere, e d'essere conosciuto e citato dai più di essi solo per qualche suo concetto o paradosso o per qualche sua frase staccata [...]« Coloro, e sono i più, che per una specie di affinità elettiva mentale simpatizzano col temperamento filosofico del Nietzsche, si sentono disposti ad accoglierne le dottrine senza volerle discutere. Non parlo di quelli (e son tanti) che se ne vestono solo per farsi belli [...]. Il Nietzsche non è adunque — non profaniamo, per carità!, le cose grandissime e sacre — né pensatore né filosofo, né, quindi, scrittore nel senso più alto, più vero, più umano di queste parole. Le linee del suo concetto della vita non hanno sfondo metafisico che le sostenga e le raccolga [...]. Ora, alla declamazione [...] della frase cercata poche altre dottrine possono prestarsi come questa, in cui il superbo modello ideale del Superuomo par fatto apposta per tentare la fregola rettori-ca dei nostri arcadi e accademici redivivi e l'ambizione di tutti gli intellettualmente e moralmente spostati, dei quali formicolano sopra tutto le nostre classi politicanti».

Anche il Tocco fece molte riserve; ma il contagio nietzscheano, «aiutato a diffondersi tra noi anche da uno scrittore d'ingegno alto ma fuorviato», come dice il Barzellotti con evidente allusione al D'Annunzio, imperversava ormai da nord a sud; e ai nostri moscardini, sempre pronti a seguire la moda del momento, non pareva vero di potersi atteggiare a superuomini. «Io non ho bisogno — scriveva lo Zoccoli — di addurre esempi che provino la diffusione delle idee del Nietzsche.» Si era ancora negli anni novanta, ma quanti adepti, quante scimmie, quanti divulgatori, quanti araldi di Nietzsche, «fino al nostro D'Annunzio, presentatosi a chiedere il suffragio degli elettori, per essere mandato al parlamento italiano, con un discorso nietzschiano. A me non importa della forma più o meno ridicola, o non ridicola affatto, delle più strepitose professioni di fede nel verbo di Federico Nietzsche».

Memorabile esempio di quanto sia facile sedurre la folla, questa possibilità di farsene eleggere rappresentante al parlamento perfino con un discorso nietzscheano. Avrebbe dunque ragione Platone, quando dice ψιλϬοψον πλήθος άδύνατον εϊναι34 Per la cronaca, il D'Annunzio venne eletto deputato del collegio di Ortona, dove è da presumere che si sentissero tutti superuomini.

Ma le mode passano, e così pure i fuochi o gli incendi, anche se sovrumani. Già nel 1905, P.R. Trojano poteva scrivere: «Non accade più, ogni settimana, di leggere l'annunzio di parecchi lavori nuovi intorno all'infelice scrittore, che siano qualche cosa di meglio delle solite tesi di laurea e dei giovanili programmi superumani; e il coro plaudente degli strilloni, che gridavano al grande filosofo e al profeta, è diventato meno rumoroso e meno concorde». Con prosa insolitamente chiara e pulita, il Trojano continua: «Le premesse immediate delle dottrine morali o immorali, che si voglia dirle, di Federico Nietzsche sono le idee schopenhaueriane sopravvissute alla critica del pessimismo (...]. Ciascun essere vivente tende a perseverare nel suo essere, cioè la volontà di vivere è la tendenza fondamentale dell'essere vivente. Sarebbe cecità ammettere che l'uomo tenga un posto eccezionale nel regno animale». L'articolo del Trojano, uno dei più lucidi tra quanti ne apparvero su Nietzsche, incomincia così: «Il culto del Nietzsche, che crebbe per quasi un ventennio in tutta Europa, va già, da un paio d'anni, di molto scemando, almeno in teoria. Ritorna in onore il Buddha, cioè il pessimismo e il sogno di pace profonda e del nulla, dopo il breve intermezzo di delirio ottimistico e di fede nella potenza rigeneratrice degl'istinti». La sbornia superumana, evidentemente, stava per essere smaltita; e gli occhi allucinati dei dionisiaci traevano di nuovo conforto dal riso beffardo di Schopenhauer.

Per il resto, il mondo non è andato nella direzione voluta e additata, con squilli di tromba e solennità messianica, da Zarathustra; e sull'«albero del futuro» è spuntato qualche cosa, che in un certo senso si può considerare come una pila di ricambio del cristianesimo. Ahimè, non basta un über per trasformare l'uomo, da quel povero verme che è, in un semidio! Per quanti prefissi gli si avvitino addosso, per quanti progressismi anche si predichino, egli somiglierà ancora e sempre alla formica caduta nella buca del formicaleone: annaspa e annaspa, la poveretta, sulla terra fine e friabilissima che ricopre le pareti della buca a forma di imbuto, e ha anche la sensazione di andare avanti; ma poi si ritrova sempre nello stesso punto e, quando il formicaleone si è ben divertito a vederla armeggiare, l'afferra e la inghiotte. Ecco, vorrei che un filosofo mi spiegasse perché questo avviene, e non si limitasse a dire come e in quale direzione la formica, che non ha comunque scampo, debba muoversi. Il resto è littérature.

3.

Con il corsivo ho posto in rilievo, nelle cartelle cliniche, vissuti inequivocabilmente e drammaticamente persecutori, incentrati sull’angoscia di essere torturato e ucciso. In un’ottica analitica, tali vissuti hanno un significato univoco: essi attestano la presenza in Nietzsche di oscuri e gravi sensi di colpa, associati, come sempre accade, all’aspettativa di una terribile punizione. Non c'è alcuna affermazione di Nietzsche riferita ai sensi di colpa tranne il rilievo, segnato nella cartella poco dopo il primo ricovero, per cui egli “si rimprovera di aver precipitato nella sventura diverse persone”.

Per quanto le opere di Nietzsche abbiano destato inquietudine, scandalo e riprovazione nei benpensanti dell’epoca (e addirittura tra i suoi conoscenti più intimi) e per quanto egli attribuisse ad esse esplicitamente un significato esplosivo e distruttivo del senso comune e della morale corrente, nessuno ha mai pensato di perseguirlo, di portarlo in tribunale, di bruciare i suoi libri e di condannarlo. Nietzsche ha messo in discussione radicalmente la sovrastruttura della società borghese e della Civiltà occidentale, non l’infrastruttura socio-economica. La sostanziale indifferenza con cui all’epoca la sua opera è stata accolta attesta che quella sovrastruttura era già considerata inessenziale se non al fine di funzionare come oppio per il popolo.

A differenza di Marx, e prima ancora di Rousseau, Nietzsche non è stato perseguitato. Il suo nomadismo corrisponde all'incessante ricerca di una quiete interiore che nessuno ha mai minacciato.

E’ evidente, dunque, che i vissuti persecutori sono riconducibili ad un'angoscia soggettiva, e inconscia, di colpa, di matrice superegoica.

Attualmente, il Super-io va inteso come il rappresentante interno della società tutta che, sulla base dei valori culturali originariamente interiorizzati, giudica il comportamento del soggetto in termini di conformità o difformità rispetto ad essi, e, laddove si dà una difformità, produce automaticamente sensi di colpa. A questo occorre aggiungere che, nei soggetti particolarmente sensibili, i sensi di colpa fanno riferimento non solo alla violazione dei valori culturali interiorizzati, ma anche, e forse soprattutto, al dispiacere, al turbamento e al dolore che tale violazione suscita negli altri (a livello reale e a livello immaginario, vale a dire nella loro rappresentazione interna).

Nietzsche non solo è stato sempre consapevole della sua “crudeltà” filosofica, ma la ha anche più volte teorizzata come necessaria al fine di traghettare l’umanità verso il mondo del Superuomo.

I vissuti persecutori attestano una scissione radicale tra l’orientamento cosciente e quello inconscio, rimasto vincolato al rispetto sacro dei valori culturali tradizionali (in particolare religiosi) e del mondo sociale.

Da un punto di vista analitico, una scissione del genere non sorprende affatto. Essa, però, ha di solito conseguenze catastrofiche, perché spesso comporta un drammatico circolo vizioso psicodinamico. Nella misura in cui, infatti, un soggetto percepisce oscuramente, in virtù di sintomi psichici e psicosomatici, l’incombenza dei sensi di colpa, egli, per non crollare sotto il loro peso, rivendica la sua libertà cosciente, ma la rivendica in termini di negazione: è costretto, insomma, a rilanciare il gioco, a reiterare comportamenti sempre più colpevoli al fine di negare di sentirsi in colpa.

Ciò avviene in conseguenza di un potenziale di individuazione che, a partire dall’epoca dell’adolescenza, dà luogo alla strutturazione di un Io antitetico che rimane cristallizzato sul registro dell’opposizionismo e del negativismo rispetto al Super-io.

L’io antitetico così strutturato di fatto rivendica la libertà dell’individuo, ma la rivendica in termini negativi di trasgressione rispetto ai valori culturali superegoici.

Nella vita di Nietzsche, prima dell’avvento della crisi psichiatrica, non si dà alcun comportamento trasgressivo, asociale o antisociala in senso proprio. Egli, sia pure interiormente tormentato, è vissuto come un bizzarro ma sostanzialmente tranquillo intellettuale borghese. La dinamite del suo pensiero non si è mai tradotta in comportamenti socialmente sconvenienti.

Con l’avvento della follia, invece, comportamenti del genere si sono realizzati, prima sotto forma di un delirio di onnipotenza, poi sotto forma rabbia inconsulta, aggressività, inselvatichimento, abbandono senza contegno alle pulsioni.

Nell’ottica analitica, l’esaltazione maniacale, che consente al soggetto di sentirsi onnipotente, è l’indizio inequivocabile di una sottostante e grave depressione dovuta, di solito, a sensi di colpa, che il soggetto è spinto inconsapevolmente a negare. Via via che essa declina, i sensi di colpa affiorano e, con essi, una terribile vergogna per i comportamenti agiti in precedenza in conseguenza dell’esaltazione manicale.

Fluttuazioni del genere, di fatto, hanno sotteso tutta la vicenda umana di Nietzsche, oscillata tra periodi di grande benessere, nel corso dei quali l’esaltazione gli consentiva di produrre, e periodi di malessere psichici e psicosomatici atroci. Egli non ha mai riconosciuto in questi l’attività di imponenti sensi di colpa che miravano ad inibire un’attività intellettuale superegoicamente colpevolizzata.

La follia di Nietzsche, in questa ottica, rappresenta la definitiva “vittoria” del Super-io sull’io antitetico. Di fatto, Nietzsche non ha potuto più scrivere. Circostanza questa ancor più significativa se si tiene conto che egli, come riferisce la madre, è rimasto in grado per alcuni anni dall’esordio della crisi, di suonare per ore il pianoforte.

Ma quella vittoria è intervenuta tardivamente, quando Nietzsche si è ormai arreso.

Nei primi anni di malattia manifesta, il conflitto tra Super-io e io antitetico, dinamicamente molto attivo, si è espresso sotto forma di alternanza tra comportamenti aristocratici e altezzosi, associati a una grande deferenza verso i medici, e comportamenti “animaleschi” e perversi (coprofilia).

Fa molta tristezza constatare che un’anima così grande abbia coltivato in maniera a tal punto radicale il disprezzo nei confronti dell’uomo comune (il borghese e ancor più l’odiato operaio) da non potersi concedere che l’“eccezionalità” verso l’alto e verso il basso, la nobiltà dell’uomo superiore o la barbarie del deviante.

Il conflitto psicodinamico che ho tentato di analizzare ha sotteso, a mio avviso, l’esperienza di Nietzsche fin dalla tarda adolescenza. Nel suo esito finale, omologabile metaforicamente ad una crudele guerra di trincea con attacchi continui dall’una e dall’altra parte di eserciti di pari potenza, è senza’altro riconoscibile una follia dissociativa. Per quanto crudele e insensata, però, una guerra, nel suo decorso, comporta anche, con infinite miserie e distruzioni, atti di eroismo di ogni genere. L’eroismo intellettuale di Nietzsche, per quanto incline all’estremismo antitetico, è stato autentico.

Il suo pensiero, insomma, è anche, ma, per fortuna, non solo “malato”.

La prima parte del viaggio si svolse così bene, che il dottor Mähly pensò perfino di poter rinunciare, da Francoforte in poi, all'aiuto dell'infermiere. Prima di giungere a Francoforte, però, avvenne ciò che si temeva: Nietzsche ebbe un attacco di furore. E la madre stessa che lo racconta in una lettera a Overbeck: «Da Francoforte in poi io non ho più viaggiato nello stesso scompartimento, perché egli ebbe un attacco di furore contro di me, solo di un minuto circa, ma terribile a vedersi e a sentirsi, sì che io, anche per evitare disordini, non mi arrischiai a stare di nuovo in sua vicinanza fino alla stazione di Francoforte, dove presi ancora una volta con tutte e due le mani la sua cara testa per il mento e baciai la sua fronte». Di tanto in tanto, la povera donna gli dava anche i panini che si era portati da Naumburg, quei buoni panini al prosciutto che gli aveva anche spediti a Sils per il viaggio a Torino. Ma né i baci né le carezze né i panini riuscirono a tenere sempre buono Nietzsche, che nell'ultima parte del viaggio, specialmente da Weimar a Jena, si mise nuovamente a fare scenate tempestose.Queste le poche notizie che ho potuto raccogliere circa il soggiorno del grande filosofo a Torino: altri più fortunato di me potrà forse conoscere la storia intima del suo pensiero di quel tempo.