Mario Trombino

Introduzione alla Storia della Filosofia Occidentale

Lezione X

L'Ottocento

Osserviamo subito un momento di discontinuità tra i paesi europei. Abbiamo dedicato la lezione precedente alla filosofia tedesca del periodo tra Kant ed Hegel isolando, per così dire, un momento della storia della filosofia così come chiede la tradizione, per via della grande rilevanza di questi filosofi e dell’influenza che essi hanno avuto sul pensiero successivo. Ma, come sappiamo, la tradizione positivista ottocentesca in Francia e in Inghilterra non ne dipende affatto, ed anzi si connette direttamente, in continuità, con l’illuminismo, attraverso figure come Saint-Simon, Bentham ed altri, appartenenti alla generazione che ha vissuto le due epoche. Nei positivisti si prolunga senza soluzione di continuità l’idea del filosofo come progettista della società: ciò che cambia è il legame con la scienza nella sua dimensione tipicamente ottocentesca, che non appartiene affatto al pensiero illuminista. Per quanto possa apparire singolare, i positivisti accolgono l’immagine dell’identità del filosofo tipica del Settecento, ma non l’immagine della identità della filosofia. Nel loro pensiero si consuma quella frattura tra la filosofia intesa come strumento complessivo di interpretazione del mondo e la conoscenza scientifica, nel senso che quest’ultima non è propria del discorso filosofico, ma della scienza (nella versione ottocentesca del termine, la cui immagine è su molti e decisivi aspetti sensibilmente diversa da quella propria del Novecento). La filosofia tende a diventare discorso sulla scienza.

Un campo, tuttavia, le è proprio, ed è quello dell’etica, o più in generale della progettazione sociale sulla base della scienza, almeno nel mondo anglosassone con l’utilitarismo, sicché la filosofia inglese anche nel Novecento mantiene una tradizione di autonomia radicale in campo etico, anche in filosofi che non accettano l’utilitarismo. Ed anzi, come prima ricordavamo, la figura del filosofo sia pure in un ambito in cui la filosofia ha una identità diversa, conserva i tratti indipendenti e per molti aspetti anticonformisti della tradizione illuminista: si pensi a Stuart Mill alla metà dell’Ottocento, a Bertrand Russell nel Novecento, con le loro battaglie fondate su princìpi etici. Sicché in questo, pur nel nuovo contesto in cui il discorso scientifico in sé è indipendente dalla filosofia, la filosofia anglosassone mantiene uno dei tratti tipici della figura del filosofo dall’antichità ai nostri giorni, l’indipendenza di giudizio e la libertà dai tratti a volte non controllabili, inquietanti per qualcuno, sicché, ad esempio, i due filosofi prima citati ebbero entrambi problemi per la franchezza con cui espressero le loro idee.

Questa indipendenza è mantenuta anche nel ruolo sociale dei filosofi, che in molti casi nel positivismo non appartengono al mondo universitario, anche se sempre di più l’università va accogliendo le nuove idee e la nuova filosofia. E’ questa ancora un’epoca in cui anche in campo scientifico figure indipendenti potevano raggiungere risultati di livello altissimo, come è il caso di Darwin.

Tuttavia, pensare alla filosofia come discorso sulla scienza, e non come scienza, a proposito del positivismo, appartiene in effetti più alla tradizione continentale che a quella anglosassone, almeno nell’Ottocento e nel primo Novecento, perché in Inghilterra settori scientifici fondamentali come la logica, la filosofia della matematica, la teoria della conoscenza, e così via, vengono ancora trattati come elementi della filosofia in piena autonomia. Ed una tradizione che lega la ricerca filosofica alle radici scientifiche che essa aveva pienamente nell’età di Cartesio e di Leibniz – e dunque lega discorso sulla natura, discorso sull’uomo, discorso sulla mente e discorso sulla realtà come totalità, insieme con la necessità di compiere scelte etiche (e dunque filosofia come discorso e filosofia come vita) - permane in tutta la tradizione del secondo Ottocento e del primo Novecento, ed è riconoscibile in Russell, e poi in Wittgenstein e in Popper.

Diverso, a proposito della prima metà dell’Ottocento, è il caso di Marx, cui è opportuno soffermarsi un momento anche se la sua idea della identità della filosofia è notissima. Il giovane Marx legge Hegel attraverso l’interpretazione della dialettica che era stata data negli anni Trenta dai giovani hegeliani, quegli uomini della "sinistra" che l’università non aveva accolto come eredi di Hegel. La celebre definizione della filosofia delle Tesi su Feuerbach, scritta nello stile aforistico che contrappone termine a termine (e i pensieri che vi stanno dietro) e che conosciamo bene dalla tradizione (anche hegeliana), non dice in realtà nulla di nuovo rispetto all’illuminismo. La filosofia è effettivamente questo non solo per Marx, ma per i positivisti, che dell’illuminismo sono gli eredi diretti (Marx deriva, per vie non dirette, da Rousseau, nel loro mondo). La filosofia deve assumersi il compito di trasformare il mondo. Il fatto che Marx abbia concepito una filosofia di tipo rivoluzionario e i positivisti di tutt’altro tipo, dipende da ragioni di natura teoretica, essenzialmente dalla differenza a proposito della concezione della realtà, che Marx legge in chiave dialettica. Del resto, gli esiti potevano anche essere assai simili: gli storici della filosofia fanno osservare che la concezione individuale della libertà in filosofi come Stuart Mill e Stirner, appartenenti a tradizioni davvero diverse, ha aspetti che si sovrappongono.

Il punto è che Marx, in accordo con Hegel, condivide con una lunga tradizione l’idea che la realtà possa essere compresa nella sua legge interna e lega questa legge (su questo in disaccordo con Hegel?) alla pretesa della filosofia di modificare il mondo.

La questione dell’identità della filosofia in Marx va poi correlata con la sua visione dei rapporti tra struttura e sovrastruttura, e dunque con la sua visione della filosofia come critica delle ideologie. Su questa funzione torneremo a proposito di Nietzsche.

Negli stessi anni, in Germania operava Schopenhauer, la cui parabola nel secolo sembra connettere il primo e il secondo Ottocento, per le note ragioni legate al successo delle sue opere e del suo pensiero. A noi qui interessa il fatto che la sua idea di filosofia, pur così caratterizzata in senso irrazionalista e pessimista, ha in realtà una antica ambizione, quella di illuminare l’uomo, di aprirgli gli occhi di fronte alla vera natura della realtà, di indicargli la via della liberazione dal dolore. Temi classici, in un autore la cui "modernità" è sotto gli occhi. La sua idea di filosofia non si apparenta quindi all’idea romantica – derivata dall’illuminismo attraverso la mediazione di Rousseau e della Rivoluzione Francese - che vuole che essa indichi all’uomo la via della trasformazione del mondo. Non c’è nulla da trasformare, per la sua visione della realtà. Ma che la filosofia indichi all’uomo la via della liberazione, ebbene questo è anche in Schopenhauer.

La stessa idea di filosofia come via di salvezza è in Kierkegaard, che legge la realtà in una chiave che spezza l’unità della dialettica e sembra riprendere (e storicamente non può essere così) le tesi del giovane Hegel, che studia l’opposizione del pensiero a se stesso e non ha ancora elaborato il nesso dialettico. In un contesto del tutto lontano da qualsiasi visione della realtà – il mondo di Kierkegaard è il mondo della coscienza – la filosofia è discorso critico che mira a svelare la nudità delle posizioni della coscienza e ad aprire un varco verso l’assoluto, senza impossibili mediazioni dialettiche ma nel piena accettazione della incommensurabilità che separa il discorso umano da ciò di cui esso parla, quando si rivolge alle radici del proprio essere.

Sicché la filosofia della prima metà del secolo – davvero diversa da quella del secolo precedente – ne prolunga gli intenti, per vie diverse. Che trasformi la sua identità, come fa il positivismo; o proponga nuove vie metafisiche, come l’idealismo e Schopenhauer; o percorra i sentieri della coscienza nella loro separatezza dalla sfera dell’oggettività, come fa Kierkegaard; o costruisca il suo discorso su una idea nuova della realtà come fa Marx; sempre la filosofia mira ad essere, insieme, discorso (un mondo di pensieri filosofici che intende la realtà, costituendone il doppio nella coscienza, variamente correlato con la prima) e pratica (un mondo di pensieri filosofici per indicare all’uomo la via da seguire).

Quasi mai, al contrario dell’idealismo, la filosofia della prima metà dell’Ottocento è stata filosofia legata alla scuola e alle sue pratiche. Le forme della comunicazione filosofica dunque non ne dipendono (e questo separa su un punto non secondario la tradizione ottocentesca da quella del secondo Novecento, che molto spesso riflette su produzioni di quel periodo).

Comunicazione filosofica e generi letterari propri della scrittura filosofica dipendono piuttosto – e in modo diretto – dalla particolare angolazione da cui si intende il ruolo della filosofia nella società e dalla forma che assume il pensiero nella ricerca. Sicché i positivisti inglesi adottano di preferenza il saggio scritto in forma piana, espositivo, in cui le argomentazioni sono ben staccate dalle tesi sostenute e non vi sono passaggi dialettici o aforismi, ma tesi nette prive di scontri tra pensieri, nonché un bassissimo ricorso al pensiero per immagini. In piena coerenza con la loro immagine della filosofia come processo di riflessione sulla scienza e come strumento di formazione delle idee-guida della società e dell’individuo, da un punto di vista etico.

Con altrettanta coerenza, l’andamento dialettico della forma della filosofia si riflette nella scrittura filosofica marxiana in tesi espresse con grande pregnanza, studiate per avere grande forza comunicativa, con un forte ricorso ad immagini concrete, quasi palpabili: una forma di pensiero per immagini del tutto diversa da quella di Hegel, pur in un contesto egualmente vicino all’aforisma. La "chiarezza" della scrittura marxiana non ha l’andamento "descrittivo" della scrittura positivista, ma mira a scuotere il lettore con tesi nette, sorrette dallo scontro dialettico del pensiero, e lunghe argomentazioni brillanti.

Sia nei positivisti che in Marx il pubblico a cui ci si rivolge non è un pubblico specialista, se si escludono gli scritti economici di Marx, la cui destinazione è evidente e il cui carattere è tecnico. (A volte il pubblico a cui ci si rivolge coincide addirittura con gli autori stessi, perché in effetti Marx ed Engels hanno scritto anche a scopo di chiarificazione per se stessi. Hanno utilizzato il testo come specchio. Anche in questo caso andrebbe approfondito il rapporto tra la dialettica in senso marxiano e la dialettica nel senso antico del termine.

La scrittura filosofica di Schopenhauer ha un andamento profondamente descrittivo. La sua filosofia rifugge, per ovvie ragioni, dall’argomentazione ed anche per lui – per ragioni diversissime da Hegel – la verità del mondo si può solo "mostrare", svelare. La ricchezza delle immagini – Schopenhauer dovendo descrivere vi ricorre continuamente – non è legata al pensiero per immagini nei suoi aspetti metaforici e simbolici come in Hegel (dove le immagini sono il punto di incontro di linee del pensiero che dialetticamente si oppongono), ma al pensiero concreto, che si serve di immagini perché queste consentono la riproduzione dell’esperienza sensibile nella sfera del pensiero. Non che Schopenhauer rifugga dall’uso di immagini come metafore (Colombina è sempre Colombina, il velo di Maia va squarciato, e così via), solo che esse appaiono come veste letteraria, più legate come sono a problemi di comunicazione che alla ricerca. Senza di esse che cosa voglia dire il filosofo è già chiaro (se si fa il paragone con Hegel si osserva subito che questi, invece, pone l’immagine al centro del movimento del pensiero). Da grande scrittore, Schopenhauer moltiplica i piani.

Coerentemente con la sua visione della filosofia e con la sua ambizione di scrittore, estende la riflessione in aggiunte, a fianco del testo principale (approfittando di nuove edizioni), scrive pensieri come brevi saggi, tocca ora l’uno ora l’altro dei temi su cui punta la sua attenzione in brevi "pensieri", che chiama in modi diversi.

La prosa filosofica di Kierkegaard, in generi letterari spesso tutti suoi, di cui non si saprebbe dare una definizione (non a caso è Kierkegaard stesso a parlare di sé come uno "scrittore" cristiano, espressione di cui a noi qui interessa il primo termine) è ricchissima di tratti letterari. Ma è indubbiamente prosa filosofica, non solo per le tematiche trattate, ma perché la trama continua delle immagini – alcune celeberrime - si prolunga in riflessioni continue, come in un movimento ad onde, o per cerchi concentrici. Il piano dell’esperienza interiore, quello della riflessione, quello della meditazione che "imita" la dialettica smontandola nel suo nesso centrale, quello della definizione teoreticamente rigorosa, si fondono nel pagina di Kierkegaard con naturalezza, sicché non si saprebbe dire dove ha termine un piano e ha inizio l’altro.

Se si riflette unitariamente sui generi letterari utilizzati nella prima metà dell’Ottocento, si osserva che – nel complesso – prevale la forma della prosa saggistica. Non osserviamo più quasi nulla della ricchezza di generi del secolo precedente. Ma questa affermazione non rende giustizia dell’esistente. In realtà, sotto la forma del saggio nel primo Ottocento si nascondono veri e propri generi letterari unici, forme di scrittura che prefigurano modelli nuovi (magari poi non sviluppati da altri autori, come accade in Kierkegaard o nell’Hegel della Fenomenologia), o riprendono formule antiche, classiche. Una grande ricchezza formale, in realtà, che è il parallelo della grande ricchezza dei metodi filosofici utilizzati.

A questo dobbiamo aggiungere la produzione letteraria di interesse filosofico, a cui abbiamo dedicato in questa serie di lezioni scarsa attenzione per la necessità di concentrarci, in sintesi, sull’essenziale. Ma anche per la grande notorietà di queste opere, in particolare per il mondo classico (si pensi alle tragedie greche, davvero centrali per la riflessione filosofica in ogni tempo).

Ci limiteremo quindi soltanto a citare, per completezza del panorama complessivo, il caso di diversi romanzi, in particolare dei russi (Dostoevski, Tolstoy) il cui interesse filosofico è ben noto. Si pensi, ad esempio, ai Fratelli Karamazov e alla storia del Grande Inquisitore che vi è contenuta. La letteratura è attenta alla filosofia in una dimensione, per così dire, profonda: la filosofia come via per illuminare i problemi dell’uomo, la sua condizione, non come via di ricerca, o come scienza.

Naturalmente queste opere di interesse filosofico vanno distinte dai romanzi filosofici di cui abbiamo testimonianza dal secolo precedente (nella lezione dedicata all’Illuminismo abbiamo ricordato il caso del Candido di Voltaire), perché in quel caso il romanzo è uno strumento della comunicazione filosofica o la forma che assume il pensiero nella ricerca (due cose in effetti molto diverse), mentre in questo caso la filosofia arricchisce, con una dimensione particolare un’opera di letteratura. Il discorso, forse, potrebbe essere esteso ad altre forme d’arte. E certo, per il secondo Ottocento e Nietzsche, alla musica di Wagner.

Vale adesso la pena di concentrare la nostra attenzione sull’opera di Nietzsche, perché per molti versi emblematica dei tempi nuovi.

Insieme con Marx, e poi con Freud, la sua opera è stata letta nel Novecento come il tentativo di aprire una via nuova in filosofia, interpretandola come esercizio del "sospetto", come "critica", disvelamento dell’inganno che si nasconde nella nozione stessa di verità. Ed effettivamente Nietzsche ha operato, come filosofo, nel tentativo di rendere ragione di quanto si nasconde dietro la "verità" affermata e riconosciuta.

Vale la pena, tuttavia, di chiederci – approfittando della rapida sequenza con cui in queste lezioni viene presentata l’identità della filosofia nelle diverse epoche storiche, cosa che favorisce una sintetica visione d’insieme – se la tesi sull’identità della filosofia in Nietzsche sia tesi nuova o appartenga alla tradizione, in uno dei suoi aspetti; se – insomma – sia riconoscibile come "filosofia" la visione che egli ha avuto del suo lavoro o se la sua "inattualità" non implichi il fatto che con la sua opera egli non abbia iniziato un cammino diverso.

La questione va posta perché la tradizione che riconosciamo nel termine "filosofia" è – come tutte le tradizioni – riconosciuta come tale a posteriori, essendo il frutto della riflessione sul passato (su coloro che vengono sentiti come i propri padri) e Nietzsche ha, come molti altri filosofi prima di lui, rivendicato il suo no alla tradizione. Anzi, a causa della uccisione dello spirito tragico con Socrate, ha letto la storia della filosofia e quindi della cultura della "verità" che ad essa si ispira - quella che oggi chiameremmo la storia dell’Occidente –- come storia la cui tradizione va rifiutata, chiedendosi come si possa riportare in vita lo spirito dionisiaco.

Va però osservato che la filosofia ha, tra i tratti che la tradizione le riconosce, la riflessione su se stessa e sulla propria identità, anzi la necessità di analizzare criticamente ogni pretesa di verità. Che la forma che l’interrogazione critica assume sia quella razionale e che questo sia il tratto caratterizzante della filosofia rispetto ad altre tradizioni – poniamo, religiose, o estetiche o d’altra natura – non può in alcun modo significare che la nozione di razionalità sia una misura su cui misurare se una tradizione è filosofica, come se la razionalità fosse un dato indipendente dalla filosofia stessa. E’ vero il contrario: la filosofia ha in ogni epoca rivendicato il proprio diritto a intendere la razionalità come norma interna, niente affatto esterna, alla propria ricerca. Se così non fosse, filosofie come quelle che tentano di andare al di là della razionalità (come, poniamo, Plotino nell’antichità e Bergson in tempi recenti) alla ricerca delle radici profonde dell’essere di cui la stessa razionalità è considerata espressione, non potrebbero essere considerate filosofie. Viceversa, la filosofia ha sempre considerato proprio compito la critica di ogni discorso.

Detto questo, va però allo stesso tempo sottolineato che con Nietzsche – indipendentemente da Marx, ma in maniera che diversi filosofi del Novecento hanno considerato conciliabile, ed anzi operazione dagli esiti assai interessanti per la ricerca filosofica - ha preso avvio una interpretazione della filosofia come critica della società (e quindi delle ideologie, del potere, e così via) che avrà un successo straordinario del XX secolo. Non può essere sottovalutato il fatto che questo ha implicato la messa in crisi della nozione stessa di "scienza" (non dell’una o dell’altra nozione e interpretazione della scienza).

Soffermiamoci un momento su questo. Abbiamo osservato che positivisti e idealisti - nel proseguire nel XIX secolo l’opera degli illuministi per vie diverse, nel contesto della filosofia come discorso e come pratica che si assume un compito-guida per il processo di trasformazione del mondo – hanno dovuto prendere posizione nei confronti della scienza, al loro tempo vincente. E hanno dovuto proporre una loro concezione della scienza e una loro concezione della filosofia in rapporto a questa scienza (che accoglieva, in un caso, e rifiutava nell’altro, la scienza ottocentesca della natura). Ciò che Nietzsche propone, invece, non è affatto una nuova e diversa concezione della scienza, ma la sua critica radicale. La filosofia quindi – con il suo intento genealogico, le pratiche che le sono proprie, e così via elencando il metodo che ha guidato la ricerca di Nietzsche - si sostituisce alla scienza e ad ogni altro sapere. In Nietzsche sembra davvero prender vita una idea globale, di sapore greco, della filosofia.

Tuttavia, se gli esiti di queste tesi nel Novecento non possono non essere riconosciuti – compresa la straordinaria frattura, probabilmente non infeconda nel tempo, tra un parte della ricerca filosofica contemporanea e la scienza - va ricordato che anche l’idealismo ha proposto una visione della filosofia che si sostituisce alla scienza. Solo che lo ha fatto sul suo stesso terreno (proponendo una filosofia della natura, ed è difficile prevedere se questa frattura sarà feconda, anche perché i tentativi di dialogo non sono stati portati avanti con convinzione).

Va poi sottolineato, per l’importanza che avrà per il Novecento, che il metodo di ricerca filosofica di Nietzsche "a colpi di martello", ha qualcosa di antico. Qualcosa di assai ben radicato nella tradizione greca. Appartiene alla tradizione della filosofia come attività di lotta, di gioco condotto attraverso regole la cui definizione è parte integrante dello stesso lavoro filosofico.

Questo ci riporta al secondo tema su cui dobbiamo fermare l’attenzione, le forme della scrittura filosofica in Nietzsche. Nella sua opera sono concentrate una tale quantità di forme sperimentali da rendere veramente interessante una analisi del legame tra la ricerca filosofica e la sua espressione nella scrittura – in Nietzsche è questo tema dell’espressione, più che i problemi di comunicazione filosofica, ad essere interessante, perché le forme di scrittura sono, con tutta evidenza, connesse con le pratiche di ricerca (sembrano sostituire le pratiche dialettiche della tradizione greca). Va ricordato, però, che tutto l’Ottocento, che ha di fatto rinunciato alle forme del passato tranne il saggio e l’aforisma, è un vero e proprio laboratorio di scrittura filosofica.

Ora, la "filosofia a colpi di martello" porta ad un particolare uso di strumenti molto noti nella tradizione: la metafora e il pensiero per immagini (nella forma distinta dal pensiero concreto); l’aforisma.

Se si pone in paragone l’uso delle immagini in Hegel e in Kierkegaard - cioè in due filosofi che hanno lavorato, con esiti diversi, sulla contraddizione interna al pensiero - si osserva che nel primo l’immagine è metafora, luogo di incontro di linee di pensiero che non possono stare l’una senza l’altra e in altri (e a volte anche negli stessi) luoghi è icona, personificazione, oggettivazione in figura (almeno fino alla Fenomenologia), mentre in Kierkegaard permane soltanto l’immagine come figura (Don Giovanni, Abramo, e così via). Se si osserva la scrittura di Nietzsche, l’immagine come figura, oggettivazione del pensiero, compare ovunque, fino alla creazione di icone e simboli continui per descrivere se stesso o il suo Zarathustra. In Nietzsche va richiamata la funzione della maschera per individuare la matrice di questa forma di scrittura. Ha radici legate alla sua concezione della verità (ed ha quindi qualche parallelo con il metodo di ricerca e di comunicazione in filosofia, per altri versi del tutto diverso, che porta Bergson ad un costante uso di immagini visive).

Le "figure" in Nietzsche continuamente evocate sono dunque uno strumento attraverso cui il pensiero esprime la sua natura, che non è dialettica, non opera studiando la contraddizione, ma opera riprendendo la metodologia "genealogica" (a cui non è estranea anche la ricerca giovanile hegeliana).

E’ vero che Nietzsche utilizza moltissimo l’aforisma, o la formula dei "pensieri" di cui trova tanti precedenti nella tradizione; ed è vero che l’aforisma è – almeno nella tradizione che risale ad Eraclito e ha tanti cultori nella tradizione filosofica - connesso con le pratiche di ricerca che oppongono, facendole interagire tra di loro, linee divergenti di pensiero (ma abbiamo aforismi con altre funzioni, nella stessa tradizione greca, come in Epicuro, e nell’età moderna in Bacone ed altri).

In Nietzsche tuttavia l’aforisma esprime qualcosa di diverso: esprime il pensiero nascente, l’atto con cui una maschera viene tolta, ed è connesso con un effetto di stupore, di sorpresa, che la scrittura di Nietzsche tende spesso a voler suscitare nel lettore. E infatti l’oscurità dell’aforisma in Nietzsche è di natura diversa dalla oscurità classica che la tradizione rivela su questa forma espressiva: il fatto è che l’aforisma in Niezsche non è per nulla una totalità in sé conclusa, è un frammento – un tratto di strada - , è come un’improvvisa illuminazione nel buio che lascia smarriti perché rimanda sempre ad altro, a qualcosa che rimane coperto. Ad una ricerca ancora da compiere.

Vi sono filosofi – o meglio: opere filosofiche, perché vi sono filosofi che hanno scritto opere di natura diversa - che descrivono l’esito di un percorso di ricerca e lo argomentano in modo indipendente dalla genesi delle tesi che vengono presentate; ed altri che descrivono il percorso, la ricerca. E’ ciò che fa Nietzsche, e dunque la molteplicità delle sue forme di scrittura è legata alle diverse pratiche di ricerca filosofica e alle diverse forme di pensiero in opera. E poiché la sua è spesso una filosofia "a colpi di martello", si comprende che spesso la sua scrittura abbia un nemico da attaccare.