G. Vattimo

I Grandi Filosofi

Il Sole 24 ore, Milano 2006

La storia della critica (pp. 193-215)

Nietzsche, nell'estate del 1888 a Sils-Maria, era già pienamente consapevole di essere diventato un uomo illustre. Nessuno dei suoi libri aveva però suscitato un particolare interesse nei filosofi delle università, che probabilmente non potevano scorgere nel suo pensiero quella connessione con la tradizione filosofica che avrebbe consentito loro di intraprendere un dialogo con lui. Per molti decenni, infatti, l'influsso di Nietzsche si fece sentire soprattutto nell'ambito artistico. Dalla documentazione fornita da R.F. Krummel si vede tuttavia come al pensiero di Nietzsche venisse in realtà attribuita già molto presto una posizione nell'ambito della storia della filosofia. Per esempio, nell'edizione del 1880 del Grundriss der Geschichte der Philosophie di F. Uberweg, Nietzsche viene ricordato come seguace di Schleiermacher, Schopenhauer e Beneke, mentre nella Geschichte der neueren Philosophie di R. Falkenberg viene ricordato nel capitolo dedicato agli oppositori dell'idealismo conservatore, come discepolo di Schopenhauer e Wagner e considerato un Rousseau tedesco che si fa voltairiano, per ritornare poi con lo Zarathustra ad una posizione mistico-religiosa. Anche nella Philosophie der Gegenwart di M. Brasch, uscita nel 1888, si parla di Nietzsche: indubbiamente una delle più interessanti ed affascinanti fisionomie dell'intero gruppo degli schopenhaueriani.

Ma questi riconoscimenti non facevano che aumentare la sua fama presso gli artisti, in particolare presso gli scrittori. Questa fama, del resto, non proveniva dalle opere più propriamente estetiche, non solo quindi dagli scritti dei primi anni '70, ma anche dalle sue altre opere, quelle in cui appariva egli stesso come un artista. Il modello da lui fornito finì quindi per diventare davvero, per gli amici e i discepoli e poi per una cerchia sempre più vasta di pubblico, un destino, nel senso che con lui l'artista era entrato nella filosofia, con tutti i suoi umori e i suoi presagi di artista.

Fu proprio questo atteggiamento, che egli aveva consapevolmente ereditato dai primi filosofi greci e ritrovato poi nei moralisti francesi e in Tolstoj e Dostojevski, a stimolare i grandi scrittori del XX secolo, da Kafka a Musil, da Rilke a Thomas Mann, da Strindberg a Gide. L'esperimento tentato dal Nietzsche educatore, nonostante la sostanziale nullità degli effetti che produsse sui discepoli diretti, non fu quindi in nessun modo un fallimento.

Persino il «crollo» mentale di Nietzsche era destinato a diventare un evento «artistico». E fu proprio la discussione sulla natura di questo crollo a fornire lo spunto per le prime discussioni. Così, se da una parte la sorella ne sostenne la casualità e lo mise in rapporto con l'eccesso di lavoro svolto dal fratello negli ultimi mesi dell"88, tesi che mirava soprattutto a salvare dall'ombra della malattia mentale non solo la reputazione della famiglia ma anche l'intera opera del filosofo, dall'altra parte il medico J. Möbius credette di riconoscere in tutti i libri pubblicati da Nietzsche il marchio della follia. In realtà, il problema dell'origine luetica di questa follia non ha potuto essere risolto e ha reso difficile la discussione filosofica intorno all'opera almeno fino alla prima guerra mondiale: il sospetto che già prima del '70 il cervello di Nietzsche fosse compromesso dall'infezione luetica ha costituito un'obiezione decisiva contro il suo sistema di pensiero. D'altra parte, il suo stesso stile aforistico era stato considerato più adatto a un moralista che a un filosofo.

I teologi, dal canto loro, almeno quelli che avevano conosciuto personalmente Nietzsche, pensavano che il suo crollo psichico potesse avere avuto come causa il mancato superamento del cristianesimo e la contemporanea permanenza di un'insopprimibile volontà di incontrare di nuovo Dio, tesi questa che potrebbe trovare una conferma nelle testimonianze lasciate dalla madre relativamente ai colloqui da lei avuti con il figlio negli anni stessi della malattia. I teologi, del resto, quando si sono occupati di Nietzsche, hanno spesso lasciato aperta la possibilità che l'anticristo nietzscheano sia in realtà un nuovo cristiano.

Fino al 1900, quindi, l'interesse per Nietzsche è alimentato, da una parte, da motivi biografici, che coinvolgono oltre la sorella la cerchia degli amici più stretti, compresa L. Salomé, e, dall'altra parte, dall'importanza che il suo pensiero acquista nella letteratura e nell'arte: non è casuale il fatto che G. Brandes,considerato spesso come lo scopritore di Nietzsche, fosse uno studioso di storia della letteratura e che J. Langbehn, studioso di storia dell'arte e amico tardivo di Nietzsche, intitolasse il suo libro più importante Rembrandt come educatore.

In questi stessi anni viene dibattuto anche il problema del possibile influsso che la lettura di Stirner potrebbe aver esercitato su Nietzsche. Agli inizi degli anni '90 R. Schellwien aveva tracciato un parallelo tra i due pensatori, senza tuttavia toccare il problema della possibile lettura da parte di Nietzsche dell'opera stirneriana. Ma l'idea che Nietzsche avesse tratto ispirazione da Stirner era destinata a rafforzarsi, nonostante gli sforzi compiuti dalla sorella per mostrarne l'infondatezza. I coniugi Overbeck, soprattutto sulla base di un ricordo diretto della signora Overbeck, ritenevano che quella lettura ci fosse stata. P. Gast era perplesso, perché era sicuro che Nietzsche non gli avesse mai parlato di Stirner, mentre era sua abitudine parlare con le persone della sua cerchia dei libri che gli erano sembrati importanti.

Nel primo decennio del nostro secolo compaiono numerosi studi dedicati alla presentazione complessiva del pensiero nietzscheano. Il loro intento è, in genere, quello di collegare tra loro le varie dottrine proposte da Nietzsche per scoprirne le contraddizioni e per stabilire quale significato si possa attribuire a tali contraddizioni. L'ambito in cui la filosofia di Nietzsche viene calata è generalmente quello morale. A. Drews, illustrando il passaggio al terzo periodo della filosofia di Nietzsche, scrive:

Nietzsche non mira ad un superamento della morale come tale, ma solamente ad un superamento della morale eteronoma che impone i suoi comandi al singolo dall'esterno e ha come conseguenza l'intristimento e la sottomissione del sé personale. Egli vorrebbe contrapporre a questa vecchia morale contraria all'individualità una nuova morale autonoma che scaturisca direttamente dalla volontà dell'individuo stesso e si accordi quindi con la sua natura (pp. 311 sg.).

Nietzsche, quindi, secondo Drews, in accordo con i grandi etici tedeschi da Kant a E. von Hartmann, cercherebbe soprattutto di insegnare all'uomo l'autonomia: in questo senso, egli non penserebbe più la volontà schopenhauerianamente come volontà di vita, volontà cioè di conservare qualcosa che altrimenti dovrebbe morire, ma come volontà di potenza, volontà di dilatare il sentimento di potenza fino a farlo coincidere con una necessità che sappia ricreare ogni volta dal dolore l'impulso alla vita. Di qui l'immoralismo, l'esaltazione dell'egoismo, l'individualismo e il relativismo così volentieri attribuiti a Nietzsche in questi anni; di qui anche la sua ispirazione poetica, la sua idea di essere fiamma (pp. 313-22). L'intenzione etica di Nietzsche ha, secondo Drews, anche un altro significato: la volontà di potenza sarebbe l'eliminazione delle leggi di natura. Nietzsche viene-qui accostato a Kant.

Anche Kant ha negato la legalità della natura, il mondo delle cose in sé, e insegnato che tutte le cosiddette leggi di natura sono semplicemente leggi della nostra propria coscienza, che attribuiamo inconsciamente alla natura per poterla descrivere (pp. 402 sg.).

Nietzsche però, a differenza di Kant, non opererebbe la distinzione tra natura immanente alla coscienza e natura trascendente rispetto ad essa, in quanto il suo intento sarebbe quello di mettere in luce l'erroneità del mondo «vero» e di indagare piuttosto sui motivi che hanno portato alla convinzione della verità del mondo. A questo punto, visto che anche il mondo vero è falso, non resterebbe che il mondo apparente. Drews insiste a questo proposito sulla passione di Nietzsche per il paradosso, senza sforzarsi di comprenderne il significato: dietro il paradosso Nietzsche nasconderebbe l'impossibilità di chiarire il suo realismo della volontà senza ricorrere ad una metafisica, impossibilità che risalirebbe al «suo passato positivistico» (p. 407).

L'avvicinamento alla filosofia kantiana, all'imperativo kantiano inteso come dovere di eternare eticamente l'esistenza umana, era stato compiuto già da A. Riehlt, E. Horneffert, O. Ewald e, dopo Drews, sarà ripreso da altri studiosi fino a G. Simmel.

H. Vaihinger ha affrontato il pensiero di Nietzsche dal punto di vista della teoria della conoscenza, mostrando anch'egli l'importanza di Kant, bene espressa nella famosa frase secondo cui l'intelletto prescrive le leggi alla natura senza trarle da essa. Vaihinger pone al centro della sua analisi il ruolo svolto in Nietzsche dalle «finzioni regolative», quelle finzioni che costituiscono il mondo, al di fuori della loro riducibilità al vero o al falso. Ci sono aspetti del mondo che possono essere compresi solo come finzioni e la cui perdita determina un impoverimento del mondo stesso, come nel caso del mito e della religione. Vaihinger parte evidentemente dalla sua filosofia del «come se».

Lo studio del rapporto di Nietzsche con il romanticismo tedesco è in genere un tema che apre delle prospettive che oltrepassano l'ambito ristretto di un tema particolare. Così, secondo K. Joel, il richiamo a Dioniso e al superamento dionisiaco del nichilismo mostrerebbe la tendenza propriamente romantica di Nietzsche. Il suo interesse per la Grecia arcaica sarebbe l'aspetto più importante di questa tendenza, in quanto mostrerebbe la preferenza accordata a elementi asiatici estranei alla razionalità occidentale, che comparirebbe solo come impoverimento di una vita più ricca legata all'originarietà dell'infinito. La lotta che tuttavia Nietzsche ha intrapreso contro il romanticismo sarebbe, secondo Joel, una lotta contro un romanticismo inautentico e decaduto. Accostando citazioni di Nietzsche a citazioni di Novalis, F. Schiegel e Tieck, Joel mostra la prossimità di Nietzsche al primo romanticismo.

Questo rapporto verrà dibattuto spesso nella letteratura nietzscheana, anche quando esso non costituisce l'oggetto principale della ricerca. È questo il caso del libro di E. Bertram, un autore vicino al circolo di S. George. Per Bertram, Nietzsche deve diventare «leggenda», perché quel che la storia ci tramanda non proviene mai da una connessione oggettiva di fatti. Anche il pensiero di Nietzsche deve quindi essere ricostruito mitologicamente. L'«opera» stessa, che pure è qualcosa di concreto, si conserva solo nella misura in cui entra nella leggenda del suo autore: quel che si conserva oltre i limiti temporali della persona è sempre, dice Bertram citando Burckhardt, magia, gesto religioso, qualcosa che si sottrae a ogni corrispondenza meccanica e razionale. La leggenda non è quindi qualcosa che sia scritto, ma è qualcosa che vive solo quando la si legga, quando la si legga di nuovo (p. 14), perché non c'è una lettura oggettiva. L'efficacia di Nietzsche risiede dunque nel «simbolo», che egli rappresenta: passione per la conoscenza e misteri eleusini, cristianesimo e paganesimo, spirito dionisiaco e spirito tardo-luterano (questo nonostante l'avversione di Nietzsche per il luteranesimo, avversione simile secondo Bertram a quella per Wagner). L'elemento nordico starebbe accanto all'elemento greco, l'etica cristiana dell'ascesi accanto all'amore greco per la simulazione, accanto all'orrore per la verità senza veli, accanto alla passione per il mito. Alla fine, però, sarebbe prevalsa la volontà di conoscere, pur rivelandosi questa volontà come una volontà di morte, perché Nietzsche, come Hebbel, sapeva che l'uomo è come il basilisco che quando vede se stesso muore (p. 390).

L. Klages ha inteso stabilire con il pensiero di Nietzsche un rapporto più preciso, pur ricercando anch'egli una sorta di interiorità dell'interpretazione. Secondo lui, Nietzsche non è ancora stato capito nella sua peculiarità, non ancora stato compreso quel che con lui è cominciato. Nietzsche avrebbe dato un impulso decisivo all'indagine sui caratteri dell'uomo, contribuendo a portare sull'anima anziché sullo spirito l'interesse della ricerca: la conoscenza dell'anima è la più difficile perché essa non può incorrere a nulla di esterno per svilupparsi. L'affermazione di Zarathustra che il tu è più vecchio dell'io ha, secondo Klages, un'importanza decisiva, perché capovolge un assioma che aveva trovato in Cartesio la sua espressione metafisica. Se per incontrare l'altro devo rivolgermi a una realtà primaria che mi si presenta come fenomeno, per incontrare me stesso devo sospendere questa tendenza e rendermi estraneo a me stesso (p. 18).

Ora, secondo Klages, Nietzsche sarebbe stato il primo ad accorgersi che la «psicologia» che ricerca i fatti dell'anima, psicologia che esiste da oltre due millenni, non conoscerà mai l'anima, proprio perché non compirà lo sforzo dell'autoestraniamento. Ma il «conosci te stesso» è nel contempo anche conoscenza dell'«essere»: l'essere attinto in questo modo i contrappone al flusso del tempo nell'anima; l'io si costituisce come affermazione di sé. La formula con cui Nietzsche ha espresso tutto questo è «volontà di potenza» e a volontà di potenza deve riferirsi a valori per vivere: essa sceglie quei valori che possiede e nega quelli che non possiede. Nietzsche, secondo Klages, avrebbe quindi scelto come mezzo contro la disperazione l'autoinganno e sarebbe diventato il più fine analista dei mezzi che l'individuo, popoli, le specie scelgono per ingannare se stessi. Ma questo non è solo qualcosa di negativo, perché chi avrà considerato tutti questi mezzi sarà contemporaneamente anche in cammino verso la conoscenza di se stesso. La stessa fiducia riposta nel mondo esterno e la convinzione dell'identità personale risalirebbero a questa volontà di autoinganno.

Con il libro di A. Baeumler2 si apre una fase nuova della letteratura su Nietzsche, non solo perché esso rappresenta l'interpretazione nazista del suo pensiero, ma anche perché con esso una delle grandi parole della filosofia nietzscheana, la volontà di potenza, viene usata contro la tradizione metafisica occidentale e nel contempo collocata rispetto ad essa. Baeumler considera la volontà di potenza come il pensiero centrale della «metafisica» di Nietzsche e l'opera che Nietzsche aveva progettato per la sua illustrazione diventa l'opera principale. Volontà di potenza non significa volere la potenza, ma è la formula che esprime il divenire stesso. La volontà che continuamente vuole nella lotta non ha uno scopo, perché è essa stessa l'accadere, il Geschehen, ossia, secondo la versione di Baeumler, la volontà come potenza. A questo punto, però, Baeumler deve espellere dal pensiero di Nietzsche, in nome del sistema che ha scelto per interpretarlo, la dottrina dell'eterno ritorno, perché essa reintrodurrebbe nel mondo qualcosa che è estraneo alla lotta: Baeumler distingue infatti un mondo eracliteo del continuo divenire da un mondo dionisiaco del ritorno. Il secondo sarebbe solo una visione personale di Nietzsche, irrilevante per il sistema della volontà di potenza (p. 80). Se quindi nel mondo eracliteo non c'è che «l'innocenza del divenire», il passaggio all'essere tentato da Nietzsche ed espresso nell'af. 617 della Volontà di potenza, «imprimere al divenire il carattere dell'essere», è necessariamente un tentativo che non può trovare alcuna conciliazione con un sistema che pensa la volontà come potenza: il divenire, infatti, dev'essere liberato, entro tale sistema, proprio del carattere dell'essere. Baeumler nota come la dottrina dell'eterno ritorno si formi in Nietzsche prima che egli giunga al sistema della volontà di potenza, che quindi è anche un superamento di essa. La stessa volontà di potenza, poi, è solo un altro nome per «la più alta giustizia», la giustizia cioè che si colloca al di sopra delle piccole prospettive del bene e del male e che in fondo è la potenza del tutto. Scrive Baeumler:

Giustizia è solo un'altra parola per la presenza di questo tutto, per l'autoconservazione di questo tutto, che per essere potenza in tutta l'eternità si mantiene in tutta l'eternità in equilibrio, e che si mantiene in equilibrio solo per affermarsi per tutta l'eternità nella lotta delle qualità le une contro le altre (p. 93).

Così ai più forti spetta il dominio e ai più deboli la servitù. All'interno di una tale prospettiva metafisica, avviene l'interpretazione del Nietzsche politico, nella seconda parte dell'opera. La politica prevista da Nietzsche consisterebbe in un attacco contro l'occidente. Le sue guerre dovrebbero portare a uno stato dell'uomo nordico. La simpatia dimostrata da Nietzsche per la Francia non sarebbe in contraddizione con questa prospettiva, in quanto si tratterebbe solo di una mossa provocatoria, volta a suscitare interesse intorno alle idee proposte.

Come si è accennato più sopra, Baeumler inaugura le grandi interpretazioni nietzscheane degli anni '30, interpretazioni che in un certo senso costituiscono una risposta al tentativo baeumleriano di fare di Nietzsche un vero e proprio teorico del nazismo e della violenza razziale: stiamo parlando delle interpretazioni di Jaspers, Lòwith e Heidegger.

K. Jaspers, che si è proposto di comprendere il «filosofare» di Nietzsche più ancora del risultato filosofico del suo pensiero, ha cercato in Nietzsche, soprattutto nel Nachlab degli anni '80, quel trascendere che il pensiero si impone per oltrepassare i limiti posti dai valori e dalle verità esistenti. Al centro dell'interesse di Jaspers vi è la «volontà di verità» insita nel pensiero di Nietzsche, cui corrisponde una «volontà di morte». Intorno a questa ambivalenza della verità si articolerebbe tutto il pensiero di Nietzsche, che è luce e labirinto, spirito ed essere. L'ultimo segreto della verità, cui Nietzsche giunge attraverso il mito, è che la verità è la morte e che quel che si cela nella passione per la verità di nuovo è la morte (p. 230). Nel labirinto in cui Teseo-Nietzsche è alla ricerca della verità, l'ultimo travestimento della morte è proprio Arianna. In questa riconosciuta ambiguità della morte, ambiguità che Jaspers accosta alla concezione hölderliniana del tragico in cui il dio stesso compare nella morte, l'uomo moderno ha colto solo il nulla e, nello scacco della sua esistenza terrena, il silenzio di un dio assente: le dottrine del superuomo, della volontà di potenza e dell'eterno ritorno, alla luce di questa impostazione esistenzialistica, sono invece cifre della trascendenza, una trascendenza la cui meta non è né Dio né il mondo, ma il continuo aprirsi della possibilità. Secondo Jaspers, quindi, il pensiero di Nietzsche, vicinissimo a quello di Kierkegaard, oscillerebbe tra l'empietà e una religiosità difficile da definire.

K. Lòwith collega le forme del «tu devi», «io voglio» e «io sono» rispettivamente alle figure del viandante, di Zarathustra e di Dioniso, le quali a loro volta corrispondono alla filosofia del mattino, che si spinge fino ai limiti del nulla nella sua ricerca della verità, alla scoperta dell'ora del meriggio, della morte di Dio e del superuomo, e infine alla dottrina dell'eterno ritorno come suprema affermazione della vita. All'evento negativo della morte di Dio corrisponde la nascita del nichilismo, inteso come una svalutazione dei valori supremi che non produce disperazione ma appunto l'affermazione della vita stessa. Nietzsche riproporrebbe quindi, secondo Löwith, nel momento più acuto della crisi della visione moderna del mondo, la visione antica di esso, quella in cui tutto eternamente ritorna, il circolo al posto della linea. Ma questa riproposta fallisce, perché in Nietzsche resta irrisolto il rapporto tra mondo e uomo. Nietzsche, che con l'idea dell'eterno ritorno ha voluto essere greco, è stato in realtà profondamente cristiano, nel momento in cui ha manifestato una insopprimibile volontà di futuro, anch'essa destinata tuttavia al fallimento dopo la perdita del dio cristiano che avrebbe dovuto comparire come direzione del movimento. Scrive Löwith:

La sua dottrina si spezza in due, giacché la volontà di eternizzare l'esistenza del moderno ego, gettata nell'esistenza, non si accorda con l'eterna circolarità del mondo naturale (p. 125).

La dottrina dell'eterno ritorno sarebbe quindi, secondo Löwith, una teodicea in cui è ricercata l'armonia tra l'andamento del mondo e l'esistenza umana.

M. Heidegger, nel quale forse si trova la risposta più esauriente alla tesi di Baeumler, chiede che Nietzsche venga collocato, nell'ambito della storia della metafisica, accanto a Platone e ad Aristotele: il suo problema, infatti, è quello stesso della metafisica, il problema dell'essere. Questo problema emerge, secondo Heidegger, soprattutto nell'ultima opera progettata da Nietzsche, nella Volontà di potenza: la volontà di potenza è il carattere stesso che Nietzsche attribuisce all'essente in quanto progettato nel suo stesso essere. Una tale metafisica della volontà rientra pienamente nella linea della filosofia tedesca da Leibniz in poi: questa metafisica eredita dalla filosofia platonica e dalla tradizione giudaico-cristiana l'oblio dell'essere. L'organizzazione sistematica dell'essente tentata dalla metafisica occidentale trova così in Nietzsche la sua espressione più completa. Con lui dell'essere non resta più nulla, mentre il mondo viene posto sotto il controllo della tecnica, evento planetario e compimento della metafisica. Se quindi la volontà di potenza è il carattere fondamentale dell'essente nella sua totalità organizzata, essa richiede necessariamente che anche I'essentia di tale essente eternamente ritorni perché l'essente in quanto volontà di potenza può solo volere se stesso: l'eterno ritorno è così il «come» dell'essente, ossia la sua existentia.

Anche la concezione nietzscheana della verità dev'essere intesa, secondo Heidegger, a partire dalla volontà di potenza. La volontà di potenza è il criterio stesso della verità nella conoscenza e anche la misura per la trasfigurazione della vita nell'arte: essa fa sì che arte e verità si manifestino come quel prendere possesso di sé che le è proprio. In questo senso, la verità resta legata a un'altra delle parole fondamentali che Heidegger individua in Nietzsche, alla giustizia. L'epoca moderna, però, con Cartesio, ha trasformato la verità in certezza di sé e ha inteso le cose come oggetti della rappresentazione: Nietzsche ha concluso questo movimento intendendolo come nichilismo. Heidegger dice:

Il nichilismo è quel processo storico in cui il sovrasensibile perde il suo potere e si annulla, cosicché l'essente stesso perde il suo valore e il suo senso. Il nichilismo è la storia dell'essente stesso in cui la morte del dio cristiano lentamente ma inesorabilmente viene alla luce del giorno (p. 33 del II Vol.).

La svalutazione dei valori prevista da Nietzsche sarebbe, secondo Heidegger, la fine stessa dei valori durati finora, anzi con Nietzsche giungerebbe alla fine il bisogno stesso di valori. Proprio in questo senso, però, Nietzsche penserebbe ancora secondo i valori, penserebbe l'essere come valore (p. 35).

Negli anni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale, la preoccupazione principale è quella di sciogliere il pensiero di Nietzsche dalle responsabilità che i nazisti gli avevano addossato quando si erano serviti del suo pensiero per dare un fondamento «spirituale» e «tedesco» ai loro crimini. Il romanzo di Thomas Mann Doktor Faustus, che risale agli anni della guerra, ha colto con grande sensibilità la dolorosa sensazione che la catastrofe della Germania fosse in qualche modo legata alla esperienza spirituale di Nietzsche.

Anche F. O. Jünger ha avvertito questa sensazione e ha voluto mostrare come la profezia di Nietzsche, proprio in quanto tale, non dovrebbe essere letta in senso immediatamente storico, perché altrimenti si finisce per attribuire a Nietzsche la responsabilità di una rovina di cui in fondo lui stesso era già una conseguenza (pp. 169-72).

In questi anni, seguendo la via aperta da Jaspers, si nota la tendenza a leggere Nietzsche in chiave esistenzialistica, come teorico della crisi della coscienza europea, e a proseguire con Jaspers l'accostamento di Nietzsche a Kierkegaard, accostamento tentato anche da Löwith già nel '33. Rientrano in questa tendenza gli studi di W. Struve, L. Giesz, W. Rehm, J. Lavrin. Questo ricupero filosofico di Nietzsche è caratterizzato anche dalla preferenza accordata agli scritti del periodo medio, da Umano, troppo umano alla Gaia scienza: il libro di H. Schock ha inaugurato questa tendenza, che avrà una particolare fortuna negli anni '50.

Nuovo interesse acquista intanto il rapporto di Nietzsche con il cristianesimo. O. Flake pensa che Nietzsche rappresenti il punto più alto del soggettivismo religioso e morale cominciato con Lutero, un soggettivismo la cui conclusione poteva essere solo il nichilismo, nel cui vuoto hanno trovato posto gli idoli dello stato, della razza, della sopraffazione. Un atteggiamento diverso ha W. Weymann-Weyhe, secondo il quale Nietzsche appartiene positivamente alla storia della coscienza cristiana come una delle sue possibili espressioni. In questo senso Nietzsche starebbe accanto a Kierkegaard, anche se solo Kierkegaard sarebbe in grado di dare un fondamento alla storia umana concependo la persona non in una solitudine sovrumana ma nella sua posizione di fronte a Dio. In realtà, l'idea che Nietzsche possa essere letto come un pensatore cristiano risale già, come si è accennato più sopra, ai primi anni della recezione di Nietzsche. E. Benz, nel 1937, aveva ribadito quest'idea, parlando di Nietzsche come dell'iniziatore di una particolare imitatio Christi. Ma, come ha fatto notare K.-H. Volkmann-Schluck, la teologia odierna è ancora impreparata di fronte ai problemi posti dall'attacco nietzscheano contro il cristianesimo.

E stato Jaspers nel '46 ad affrontare di nuovo il tema del cristianesimo in Nietzsche, mettendo in luce come sia innanzi tutto necessario distinguere tra la realtà del cristianesimo e l'esigenza che in esso si esprime. Allo stesso modo, bisogna separare, per comprendere Nietzsche, la dottrina della fede, inventata da Paolo come fede in un aldilà dove solo i «buoni» troveranno posto, dalla dottrina della vita, praticata da Gesù stesso come esperienza del cuore. Ora, la tesi di Jaspers è che Nietzsche, partendo da questa circostanza, non abbia fatto altro che coltivare quei germi di autodissolvimento che il cristianesimo ha racchiuso in sé sin dall'inizio. Secondo Jaspers, l'origine stessa del nichilismo di Nietzsche va ricercata nel suo atteggiamento cristiano (p. 43). Quella sofferenza che Nietzsche ha provato nei confronti dell'uomo sarebbe un'eredità del racconto biblico sul peccato originale. Jaspers cita a questo proposito la frase: «Nell'uomo vi è qualcosa di fondamentale che non è riuscito». L'autodissolvimento del cristianesimo non è tuttavia il solo tratto cristiano di Nietzsche. Jaspers si è sforzato di mostrare come tra le figure di Dioniso e di Gesù, Nietzsche instauri una dialettica che riproduce un dibattito rimasto aperto lungo tutto il corso della storia della coscienza occidentale, quello fra trascendenza e immanenza. La contrapposizione nietzscheana di Gesù e Dioniso è per Jaspers anche la contrapposizione di due diverse spiegazioni della sofferenza, quella cristiana e quella tragica. Nella prima, la sofferenza diverrebbe simbolo della caducità e insanabilità del mondo ed è un'obiezione contro la vita, mentre nella seconda la sofferenza viene riassorbita nella totalità dell'essere, la cui sacralità è sufficiente per giustificare un'immensità di dolore (af. 1052 della Volontà di potenza).

La tesi che l'attacco portato al cristianesimo da Nietzsche sia un'espressione di religiosità è sostenuta anche da W. Nigg, che ha considerato Nietzsche come un rivoluzionario della religione: in lui ha visto un'incarnazione del destino metafisico dell'uomo moderno (p. 226). Per mostrare la religiosità di Nietzsche, Nigg deve anzi separare cristianesimo e religiosità: ha potuto così interpretare in chiave religiosa l'ateismo nietzscheano, anche quando esso giunge alla constatazione che la fede in Dio è una menzogna. In questo stesso senso P. Tillich parla, a proposito di Nietzsche, di una ricerca di Dio oltre Dio.

Anche B. Welte ha inteso valutare positivamente l'ateismo nietzscheano. Egli parla di una «doppia dialettica» della volontà umana il cui sbocco è una «tragica ambivalenza»: la passione umana per le realizzazioni nel tempo si scontrerebbe dialetticamente con la volontà di infinito, la quale a sua volta a causa del demone del rifiuto (Entzugsdamonie) si convertirebbe in volontà negativa. Dall'altra parte, l'incondizionato della volontà si trasformerebbe in volontà dell'incondizionato: la fede in Dio compare qui come un modo per sottrarsi alla vicinanza del finito. Scrive Welte:

Così l'uomo è sempre contemporaneamente attratto e respinto dai poli delle sue due grandi possibilità. Nella sua volontà di credere nell'incondizionato sarà sempre presente anche un nonvoler-credere, e, nella sua volontà incondizionata verso quel che egli ha ed è, sarà sempre presente contraddittoriamente la sofferenza e l'impotenza della finitezza. Egli si troverà coinvolto in un sì e in un no, ovunque e in tutte le possibilità di realizzazioni che gli si presentano, nei poli estremi o in qualche punto intermedio, e questo coinvolgimento non gli permetterà mai di raggiungere la quiete (p. 49).

La tesi dell'appartenenza di Nietzsche alla storia della coscienza cristiana è stata in seguito ripresa più volte e ulteriormente approfondita. Basti qui ricordare i nomi di G.-G. Grau e E. Biser, secondo il quale la sentenza nietzscheana «Dio è morto» rientrerebbe in quella tradizione teologica che ha staccato il concetto di essere da quello di Dio per potersi spingere nell'ultra-essente (Pseudo-Dionigi, Scoto Eriugena, Cusano, ma anche, secondo Biser, Agostino e Tommaso d'Aquino), H. Wein, F. Ulrich, fino a P. Valadier.

Anche H. Blumenberg inserisce Nietzsche nel movimento storico della trasformazione religiosa e culturale. Secondo lui, in Nietzsche ogni teleologia è teologia e come tale va criticata. Nietzsche sarebbe l'espressione tardiva e tuttavia decisiva del secondo superamento della gnosi; con questo superamento, Nietzsche non si accontenta di accettare che il mondo sin dall'inizio non abbia potuto essere creato per l'uomo, ma vuole l'autonomia rispetto alla realtà così come questa realtà è, vuole cioè che l'uomo si crei egli stesso lo spazio (Spielraum) per le sue opere, perché «non nella conoscenza, ma nell'azione sta la nostra salvezza». In questo senso, dopo la perdita della teleologia della natura, la tecnica sarebbe diventata il surrogato di quella teleologia e Nietzsche, malgrado il suo disprezzo per il senso pratico caratteristico dell'epoca moderna, diverrebbe il filosofo dell'epoca della tecnica (p. 95).

Il rapporto con il cristianesimo non ha certamente esaurito l'interesse che Nietzsche ha suscitato negli ultimi decenni: il riferimento alla tecnica fatto da Blumenberg indica già l'aprirsi, dopo Heidegger, di una ulteriore possibilità interpretativa.

Negli anni '50 la scena è dominata dalla nuova edizione delle opere curata da K. Schlechta, in cui gli appunti per il libro sulla volontà di potenza compaiono in ordine cronologico anziché sistematico sotto la denominazione di «Appunti postumi degli anni '80». Schlechta faceva inoltre notare, nel Nachwort della sua edizione, come in tali appunti non vi fosse nulla di particolarmente rilevante rispetto agli scritti editi, nei quali doveva essere cercata la vera espressione del pensiero di Nietzsche. Come si è già detto, in questi anni, Nietzsche viene letto a partire dagli scritti editi, soprattutto quelli del periodo medio. Lasciando da parte le varie presentazioni generali del pensiero, bisogna ricordare i libri di W. Kaufmann, dello stesso K. Schlechta e di H. M. Wolff.

W. Kaufmann vuole rivalutare l'apollineo, dimenticato a favore dell'ebbrezza dionisiaca. In Nietzsche ci sarebbe un'attenzione particolare per la costruzione della morale del superuomo, attenzione che sopravanzerebbe l'aspetto distruttivo nei confronti della morale tradizionale: l'apollineo, il cui modello sarebbe Socrate stesso, si esprimerebbe come sublimazione e spiritualizzazione.

K. Schlechta ritrova nell'immagine nietzscheana del «meriggio» sia tratti pagani sia tratti cristiani: l'inquietudine che Nietzsche esprime nell'ora meridiana è quella di chi ha rifiutato il cristianesimo senza riuscire poi a ritrovare la serenità antica del circolo. L'eternità del ritorno diventa così, secondo Schlechta, un inferno secolarizzato.

H. M. Wolff espone il pensiero di Nietzsche seguendone lo sviluppo cronologico, soffermandosi particolarmente sulla personalità spirituale del filosofo. Anche qui le opere edite sono considerate più importanti degli scritti inediti. Il problema dello spirito, quello della vita e quello della conoscenza sono ritenuti di maggiore interesse rispetto al problema dell'arte, a quello della cultura e a quello della politica.

Non si potrebbe concludere l'esame della Nietzsche-Forschung negli anni '50 senza un cenno all'interpretazione di Lukács, non tanto per il valore specifico che essa ha per la comprensione di Nietzsche, quanto piuttosto per l'effetto negativo che essa ha prodotto, soprattutto nel marxismo. E’ stato notato più volte come in realtà questa interpretazione coincida con quella nazista, con la sola differenza che il segno positivo diventa negativo. Nietzsche sarebbe il pensatore dell’irrazionalismo borghese del periodo imperialista. Secondo Lukàcs, in Nietzsche ogni contenuto «deriva dal timore - che poi si rifugia nel mito - della decadenza della propria classe» (p. 350, trad. it., p. 402). La falsità del sistema sociale borghese trova negli aforismi di Nietzsche la sua espressione più scintillante e nel contempo più lontana dalla ragione. Nonostante la sua autorevolezza, questa interpretazione non sempre è stata accettata all'interno del marxismo; così è successo nella scuola di Francoforte, che ha sentito il suo debito nei confronti di Nietzsche a proposito del concetto di dialettica dell'illuminismo e che ha riconosciuto di avere ereditato da lui l’«eraclitismo» in cui storicità e nichilismo sono strettamente congiunti.

E’ un'impressione diffusa quella che dopo la seconda guerra mondiale l'interesse per Nietzsche sia stato maggiore fuori della Germania. Soprattutto in Francia, in Italia e negli Stati Uniti si è assistito ad una rinascita di studi su Nietzsche. È negli anni '60 che questa tendenza si accentua ancora di più, quando comincia in Italia la pubblicazione della nuova edizione delle opere di Nietzsche a cura di G. Colli e M. Montinari; questa edizione esce quasi contemporaneamente, oltre che in italiano, anche in tedesco, francese e giapponese.

Ma prima di passare alle interpretazioni non tedesche, bisogna ancora fare un cenno al libro di E. Fink, che esce proprio nel 1960. In esso, pur essendo sostanzialmente ripresa l'interpretazione heideggeriana, è introdotta un'importante rettifica: Nietzsche non sarebbe soltanto il compimento della storia della metafisica, ma anche il primo tentativo riuscito di uscirne. Fink ha interpretato il superuomo a partire da un'ontologia del gioco, un'ontologia che è anche il supporto della filosofia che egli ha sviluppato, indipendentemente dalla sua interpretazione di Nietzsche. Nel gioco il superuomo pensato da Nietzsche riconoscerebbe la sua libera appartenenza ad un mondo apparente: questo non significa che «questo» mondo sia l'unico, ma solo che anche «questo» è apparente.

In Francia, l'interesse per Nietzsche è sempre stato molto grande, anche prima degli anni '60: basterebbero i nomi di C. Andler, di G. Bataille, di A. Gide e di A. Camus per confermarlo. Spetta però a G. Deleuze il merito di avere dato inizio alla nuova lettura di Nietzsche in Francia. Anche secondo lui la filosofia di Nietzsche è un tentativo di uscire dalla metafisica: questo tentativo si concretizzerebbe nell'opposizione nietzscheana alla dialettica, nella quale sono raccolti tutti gli aspetti del pensiero metafisico, dall'invenzione socratica del concetto alla considerazione cristiana del dolore, dalla teleologia al pensiero soltanto reattivo. Deleuze introduce la nozione di «differenza» per mostrare come in Nietzsche la concezione del divenire della vita come forza sia soprattutto un «flusso» che si muove attraverso «differenti» livelli. Vicina a questa interpretazione è quella di P. Klossowski secondo il quale, però, la forza espressa nel pensiero di Nietzsche è orientata verso il «complotto», la cui premessa è l'idea dell'eterno ritorno. Ma l'idea dell'eternità del ritorno mette in crisi, secondo Klossowski il fatto stesso dell'identità personale, rivelandosi così come la meno adatta all'organizzazione di un complotto. Infatti questo complotto non richiederebbe un'organizzazione politica, del tipo di quella prevista da Marx per la rivoluzione del proletariato, ma avverrebbe come graduale autonomizzarsi del patologico, interesserebbe cioè gli emarginati e gli schizofrenici. Klossowski ritiene quindi che Nietzsche non possa essere accostato né a Marx né a Freud perché il suo sforzo si muove in una direzione diversa verso il delirio.

A differenza dei due autori appena menzionati, J. Granier ha condotto il suo studio sul concetto di verità in maniera più tradizionale. Il pensiero di Nietzsche gli appare come una «metafilosofia». La verità verrebbe concepita da Nietzsche in due modi: come qualcosa di originario e come saggezza. La verità come saggezza avrebbe la funzione di rendere accettabile l'apparenza, di impedire cioè che la vita resti paralizzata nel constatare che ogni sua azione avviene soltanto nell'apparenza. L'arte svolgerebbe qui il suo compito principale.

Il rapporto tra arte e filosofia è anche il punto di partenza del libro di B. Pautrat:il riferimento di Nietzsche a Dioniso significherebbe la scomparsa della distinzione tradizionale tra arte e filosofia, e il venire in primo piano del problema dello stile e di quello della testualità del testo. I primi scritti di Nietzsche, di carattere filologico, dovrebbero essere posti accanto allo Zarathustra. L'opposizione tra apollineo e dionisiaco, nella Nascita della tragedia, in quanto opposizione tra il melos e il logos, tra la musica in senso schopenhaueriano e il linguaggio ridotto attraverso astrazioni e generalizzazioni a parole e concetti, instaura quella che Pautrat chiama «legge di impurità». Questa legge allude al fatto che apollineo e dionisiaco non si oppongono in maniera assoluta, ma piuttosto l'apollineo deriva dal dionisiaco; questa derivazione non ha evidentemente un carattere storico, né all'interno del pensiero di Nietzsche né più in generale nell'evolversi della cultura, comportandosi piuttosto come una «struttura». In base a questa struttura, Nietzsche penserebbe al posto dell'essere la differenza, intesa come impurità, come dionisìa, collocandosi quindi fuori della metafisica. Il problema della metafisica diventa quindi un problema di linguaggio: la metafisica è l'asservimento del linguaggio ad una determinata condizione sociale.

Considerare la testualità del testo non è solo un metodo per leggere Nietzsche, ma è qualcosa che si trova già nel testo di Nietzsche, il quale ha concepito il suo lavoro come decostruzione dell'impianto metafisico. Si tratta quindi, come ha scritto P. Lacoue-Labarthe richiamandosi a Derrida, di capire come Nietzsche stesso si sia posto il problema della nascita della testualità. L'impurità iniziale, l'opposizione-implicazione di Apollo e Dionisio, non ha quindi un inizio, ma è sempre ripetuta, per esempio nella tragedia, nel pensiero dell'eterno ritorno o nella volontà di potenza. In conclusione, secondo questa linea interpretativa, il «testo» non è più, come nella metafisica, un segno che rimanda ad un significato, a qualcosa che sta fuori del testo, ma è un insieme di signifiants che richiamandosi a vicenda non consentono più l'accesso ad una condizione definitiva che starebbe alla loro base. La rinuncia al significato corrisponde in Nietzsche alla scelta della poesia e della parodia del testo metafisico.

Ancora negli anni '60, D. Grlić, appartenente al gruppo della rivista «Praxis», ha tentato una lettura antiesteticistica di Nietzsche: in Nietzsche l'estetica non dev'essere intesa come una disciplina particolare, ma come una ontologia che si occupa della verità dell'esistenza umana. Se egli si è servito di categorie estetiche, è stato solo per smantellare l'estetica come disciplina volta a studiare un particolare ambito dell'attività umana. Muovendosi nella stessa direzione, M. Djurić, che si rifà soprattutto a Heidegger e a Fink, pone l'accento sulla consapevolezza di Nietzsche che il nichilismo sia un fenomeno patologico, il risultato cioè della «spaventosa generalizzazione» (framm. dell'87-88) che tutto sarebbe privo di senso. L'avvento del nichilismo non è stato quindi per Nietzsche un attacco contro la metafisica, ma la constatazione di una radicale rottura della sua storia. Ma solo il nichilismo «compiuto» è in grado di sopportare la portata di questo evento, mentre quello «incompiuto» è solo il segno della debolezza della cultura occidentale che ha creduto di potersi salvare cercando ancora un senso del mondo.

Djurić riconduce il nichilismo al superamento radicale di ogni aldilà e lo accosta poi alle esigenze avanzate in questa stessa direzione dal giovane Marx: la «verità dell'aldiquà» al posto del perduto «aldilà della verità» (Marx Engels Werke, vol. I, Berlino 1957, p. 379). Il superuomo nietzscheano è quindi, secondo Djurić, l'uomo che sa che tutto è volontà di potenza, mentre l'uomo durato finora è quello che ha coperto questa verità. In rapporto all'esigenza rivoluzionaria di Marx, neanche il nichilismo compiuto corrisponde al superamento dell'attuale situazione e finisce per rientrare, come ha visto bene Heidegger, nella metafisica tradizionale. Il nichilismo dell'ultimo Nietzsche resta comunque, secondo Djurić, un momento preparatorio della rivoluzione, nel senso che favorisce lo scioglimento di ogni rigidità del pensiero.

Che l'arte non potesse costituire per Nietzsche una esperienza particolare accanto ad altre è quanto ha inteso mostrare D. Jahnig: Nietzsche, con questo atteggiamento, ha inteso soprattutto incontrare di nuovo i Greci. Come per i Greci, l'arte sarebbe per Nietzsche il compiersi della totalità del mondo, il fare cioè quel che nella realtà non c'è. Come l'orgia dionisiaca dei Greci sospende di tanto in tanto la vita reale per consentire l'accesso alla globalità dell'essere, così l'arte è soprattutto compimento. La tragedia, raccogliendo in sé le tendenze dell'apollineo e del dionisiaco, esprime questa natura dell'arte; la sua nascita coincide con la fine del sentimento mitico.

In Italia intanto ci si sforzava soprattutto di liberare Nietzsche dall'interpretazione lukácsiana. Anche qui esisteva già una tradizione di studi nietzscheani: i nomi più significativi sono quelli di L. Giusso, A. Banfi, G. Della Volpe, E. Paci, in cui Nietzsche veniva interpretato soprattutto dal punto di vista di una ragione critica, antidogmatica e antimetafisica. Nel 1965 esce il libro di N. M. De Feo su Nietzsche, in cui è attribuita una particolare importanza al problema della finitezza che Nietzsche avrebbe affrontato attraverso una dialettica delle contraddizioni. Questa dialettica consisterebbe nel continuo rovesciamento delle prospettive esistenti; la stessa trasvalutazione dei valori non mirerebbe tanto alla loro negazione, quanto piuttosto all'analisi della loro inversione. Ha quindi ragione Jaspers, secondo De Feo, nel considerare Nietzsche come il primo filosofo esistenziale.

Anche F. Masini prende le mosse dalla dialetticità del pensiero nietzscheano, per mostrare come l'assoluta negatività del nichilismo che ha proclamato la morte di Dio si rovesci nella positiva affermazione dionisiaca della vita. Secondo Masini, questo movimento non porta all'irrazionalismo e non è un movimento che avviene all'interno del capitalismo, ma è una continua ridiscussione dei presupposti dell'esistenza, nella direzione di una nuova razionalità.

Secondo G. Vattimo il pensiero di Nietzsche mette in crisi la soggettività metafisica, inaugurando così una nuova prospettiva nella quale i rapporti tra essere, verità e interpretazione alludono ad una concezione creativa dell'uomo: il dionisiaco liberato vuole consapevolmente una pluralità di maschere.

M. Cacciari riconosce in Nietzsche l'anticipatore di quella crisi dei fondamenti che ha investito il nostro sapere nei primi due decenni del XX secolo. Con Nietzsche, il rapporto soggetto-oggetto entra definitivamente in crisi: il «pensiero negativo» rinuncia alla razionalizzazione del reale, per intraprendere invece la razionalizzazione della conoscenza. Rinunciando al progetto metafisico, Nietzsche non è un irrazionalista, ma anzi il più coerente dei razionalisti.

Anche in Germania, negli ultimi anni, si è assistito ad un rinnovamento degli studi su Nietzsche, soprattutto nell'ambito della filosofia «ermeneutica» inaugurata da Heidegger e ripresa da Gadamer.

Secondo W. Müller-Lauter, in Nietzsche, a differenza di Schopenhauer, che ha concepito la volontà come qualcosa di originariamente indistinto che poi attraverso uno sviluppo giunge alle sue varie individuazioni, la volontà è sin dall'inizio una contrapposizione di differenti volontà di potenza: per lui, infatti, non c'è una negazione della volontà. Anche la volontà di nulla è una volontà; in essa, però, non è più possibile definire che cosa è voluto. Le volontà di potenza sono dei quanti di potenza che si esprimono solo opponendosi ad altri quanti. Non si tratta dunque né di un essere, né di un divenire, ma di un pathos, secondo la formulazione dello stesso Nietzsche: il pathos si riferisce alla qualità della volontà che si incontra. Alla volontà di potenza si contrappone, secondo Müller-Lauter, la volontà di verità, che è l'espressione della vendetta e del risentimento dei deboli. La vita, infatti, non ha bisogno della verità, ma di prospettive in cui il mondo appaia come volontà di potenza. Dal prospettivismo nasce, secondo Müller-Lauter, l'esigenza del superuomo, inteso come colui che è capace di tenere sotto un unico giogo prospettive contrastanti, di accogliere cioè in sé le varie volontà di potenza: questo avviene o come furia distruttiva o come disposizione alla morte. Ma proprio qui fallisce la filosofia nietzscheana delle opposizioni, perché questi due modi di concepire il superuomo non possono essi stessi stare sotto un unico giogo. La conferma di questo fallimento si trova, secondo Müller-Lauter, nella dottrina dell'eterno ritorno, che produce conseguenze diverse a seconda che venga riferita all'una o all'altra concezione del superuomo.

Secondo F. Kaulbach, la filosofia di Nietzsche non è ancora stata considerata sotto il profilo dell'unità dei contenuti e del metodo: l'idea di una filosofia sperimentale è l'idea che consente di affrontare questo problema. In essa si esprime nel modo più radicale il dubbio metodico cartesiano, che rimane alla base di tutto il lavoro sperimentale della volontà di potenza. Anche la dottrina dell'eterno ritorno rientra in questo lavoro come una delle possibili varianti assunte temporaneamente. La radicalità del dubbio espresso in questa filosofia sperimentale consiste, secondo Kaulbach, nello sforzo di liberarsi dai fondamenti del sapere perché essi, in quanto tali, soffocano il dubbio metodico. Non ci possono più essere, quindi, nei confronti dell'essente, criteri di verità, ma solo gradi di significatività; la tensione verso la verità non farebbe che coprire la volontà di significatività. Inevitabilmente però questa volontà genera dei conflitti di prospettive, che richiedono il ricorso alla razionalità: Nietzsche chiama questa razionalità Gerechtigkeit, giustizia. Ma la giustizia non assegna distributivamente alle varie prospettive il loro posto, perché essa non è altro che il riconoscimento della significatività acquisita da ogni prospettiva nel suo conflitto con le altre prospettive. La meditatio vitae nietzscheana si contrappone qui radicalmente all'indirizzo della filosofia dell'epoca moderna: secondo Kaulbach, Nietzsche si proporrebbe di uscire dall'opposizione tra il baconiano dominio sulla natura e l'idealismo della libertà umana, per mezzo di una «ragione estetica» immersa nell'universo pluralistico delle prospettive conoscitive. Kaulbach si riferisce a questo proposito a quella che Nietzsche chiama la «psicologia dell'arte», la cui direzione consentirebbe di pensare ad un proseguimento della terza critica kantiana: Kaulbach parla di libero gioco delle forze conoscitive e di libertà sotto la legge.

J. Figl, cogliendo un suggerimento di P. Ricoeur, secondo cui tutta la filosofia è interpretazione e Nietzsche rappresenta una svolta decisiva nella filosofia proprio in quanto ha concepito in modo radicale la filologia, propone una chiave per la lettura degli appunti sulla volontà di potenza con la formula «essere è interpretare», che nel linguaggio di Nietzsche suona: la volontà di potenza interpreta. L'intuizione che l'esistenza sia spaventosa e priva di fondamento ha portato Nietzsche a considerare come maschere i sistemi interpretativi finora escogitati per coprire l'infondatezza. Alla base di questo atteggiamento c'è, secondo Figl, un'ontologia nichilista, che corrisponde tanto allo smascheramento quanto a un'antropologia dove l'uomo è l'animale che interpreta per mezzo di segni. Il riferimento alla volontà rende necessaria l'introduzione di un soggetto dell'«evento interpretativo»: questo soggetto è, secondo Figl, «pluralisticamente costituito», formato cioè da quanti di potenza che solo all'interno dell'evento interpretativo stesso diventano soggetto.

Non ci sono probabilmente conclusioni da trarre: l'interpretazione del pensiero di Nietzsche oscilla nel corso della sua storia tra l'affermazione della sua inattualità più assoluta, fino a considerare Nietzsche «solo» un fenomeno artistico, e quella dell'attualità più agghiacciante, che gli fu attribuita dal nazionalsocialismo. Ma tali oscillazioni fanno parte di questo pensiero, la cui attualità consiste nella sua stessa inattualità, nel suo rifiuto del «tempo». Il suo intento centrale, quindi, è sempre altrove, nel «sospetto» nei confronti dell'essere e della sua verità, avviato piuttosto lungo la linea che segue la genealogia delle verità di cui è fatto il mondo. Una storia delle interpretazioni deve allora, da una parte, seguire l'adeguarsi dell'interpretazione al tempo e, dall'altra, trovare il residuo inattuale, fino a scoprire nel pensiero stesso di Nietzsche, nel suo «testo», il problema dell'interpretazione.