Mazzino Montanari

Che cosa ha detto Nietzsche

Adelphi. Milano 1999

1.

Mazzino Montanari ha legato il suo nome all’impresa, condotta in collaborazione con Giorgio Colli, di portare a termine l’edizione critica delle opere e dei carteggi di F. Nietzsche sulla base dei manoscritti depositati presso l’Archivio Goethe-Schiller di Weimar.

L’impresa di Montinari, avviatasi in età giovanile, nel 1961, ha occupato l’intera sua vita di intellettuale, caratterizzata peraltro anche da un’intensa partecipazione alla vita sociale e politica. Di tale partecipazione, avvenuta all’insegna del marxismo, fa fede l’ultima pagina del saggio, ove si legge:

"Non si tratta qui certamente di voler «ricuperare», come è stato detto anche di recente, «Nietzsche alla democrazia e al socialismo», bensì constatare che anche all'interno di una società socialista e democratica (o nel movimento che ad essa dovrebbe portare) non può mancare una «dimensione Nietzsche», la dimensione cioè della libertà di spirito che nasce dalla carica critica, razionale e liberatrice del suo pensiero e che non si stanca mai di rimettere tutto in questione, anzi si permette di chiedere che l'individuo (anche in una società di presunti eguali) trovi la sua difesa e il campo dell'attività spontanea sua propria nella cultura (come la intendeva anche Burckhardt) e, in ultima analisi, contro lo Stato: posto che si creda davvero alla necessaria estinzione dello Stato nel «regno della libertà», che cioè si desideri realmente il superamento della «politica» come repressione."(p. 184)

Da queste righe, riesce evidente l’interpretazione globale del pensiero di Nietzsche come espressivo di una tensione critica e demistificante da assumere come metodologica. In un appunto di Montinari del 1970 questa interpretazione riesce ancora più chiara:

"L'errore che Nietzsche non riuscì a compiere e verso il quale egli si voleva incamminare fu quello, dopo l'analisi demistificante della cultura, di voler stabilire una nuova polis, comunità politica, di essere legislatore. In eterno: i filosofi continueranno a interpretare il mondo (metafisica), non potranno mai trasformarlo. Per altre ragioni Nietzsche passò alla dipintura di se stesso, col fogliettonismo geniale, alla giustificazione della sua vita prima di affondare nella pazzia. La Umwertung si rivela nella sua ultima impostazione come una utopia reazionaria e rivoluzionaria insieme, smaschera la volontà riformatrice di Nietzsche che sarebbe fallita anche se egli non fosse impazzito. Ciò che resta è il metodo demistificante (distruzione della morale). Ciò che resta è la metafisica uomo-natura (Löwith). La rivendicazione della filosofia come passione della conoscenza."

Dunque, "la vera filosofia di Nietzsche è la libertà dello spirito e l’antimitologia."

E’ difficile non essere d’accordo con questa conclusione, che è però generica. Se per mitologia si intende, com'è giusto, ideologia, sicuramente Nietzsche va annoverato tra i pensatori che con maggior vigore hanno identificato in essa, e in ogni sua espressione, il tradimento della passione della conoscenza in nome del bisogno che l’uomo ha di credere e di ingannarsi per credere.

Il problema della libertà dello spirito, però, è più complesso. Tale libertà, infatti, riconosce limiti molteplici: limiti naturali, legati alla struttura del cervello; limiti culturali, dovuti all’appartenenza di ogni individuo ad un contesto storico e ad una tradizione culturale; limiti, infine, psicologici, riconducibili ad una storia interiore che struttura la coscienza ma soprattutto l’inconscio in maniera tale da renderlo poco accessibile e poco plastico.

Di questi limiti, i primi sono insormontabili; i secondi possono essere assoggettati a critica, e quindi sormontati; gli ultimi sono sormontabili in una certa misura, ma a patto che il soggetto riesca ad oggettivarli.

Se questo è vero, una demistificazione totale, come quella auspicata da Nietzsche, è un’utopia, pericolosa addirittura allorché un pensatore dotato di una straordinaria capacità critica, che si può applicare con una certa facilità alle ideologie culturali, non si avvede che lo sforzo critico viene comunque influenzato dai limiti psicologici inerenti la sua soggettività, vale a dire da dinamiche che inesorabilmente ingabbiano lo spirito che si libera in altre mistificazioni.

In un articolo recente (Stupidità e mistificazione) ho tentato di analizzare questo aspetto paradossale nel pensiero dei grandi demistificatori (Darwin, Marx, Nietzsche, Freud). Riprendo ora, traendo spunto dal saggio di Montanari, il discorso su Nietzsche, la cui parabola umana e intellettuale si presta più di tutte a documentarlo.

Montanari è del tutto ostile a qualsivoglia tentativo di ricondurre il pensiero di Nietzsche alla psicopatologia. Ha ragione per un verso, torto per un altro. Ha ragione per quanto concerne il tentativo, operato più volte da alcuni studiosi, di qualificare e invalidare il pensiero di Nietzsche giudicandolo tout court espressivo di una patologia individuale. Una condizione psicopatologica non estingue certo la creatività: essa le dà una forma al cui interno la creatività può raggiungere vertici altrimenti inaccessibili. Gran parte dell’opera di Kafka è l’espressione di un "delirio"di colpa. Ciò nulla toglie alla sua grandezza letteraria.

Montinari ha torto laddove ritiene che la psicopatologia di Nietzsche abbia inciso solo nella fase terminale della sua parabola intellettuale, inducendo nell’autore uno stato d’animo profetico e megalomanico del tutto contrastante con la lucidità e la profondità degli scritti.

Montinari scrive:

"Ai fini di una storia della vita di Nietzsche, il chiarimento dei dettagli biografici, il reperimento di testi sconosciuti, la correzione di certe falsificazioni debbono essere sorretti da una premessa di metodo (che del resto non vale solo per la biografia di Nietzsche). Qualsiasi pretesa di stabilire una sorta di nesso causale tra le vicende della vita di Nietzsche e il suo pensiero è destinata al fallimento: si ha quasi l'impressione che l'immagine di Nietzsche si renda sempre più inafferrabile ogni volta che nuovi dati vengono alla luce, ma questa inafferrabilità può essere spiegata non appena si sia data una risposta alla domanda: che cosa è veramente la vita di Nietzsche? La vita di Nietzsche rispondiamo - sono i suoi pensieri, i suoi libri. Nietzsche è un esempio raro di concentrazione mentale, di esercizio crudele e continuo dell'intelletto, di interiorizzazione e sublimazione di esperienze personali, dalle più vistose alle più insignificanti, di riduzione di ciò che comunemente si chiama «vita» a «spirito»: quest'ultima parola intesa nel senso che ha il tedesco Geist, ossia mente-ragione-intelletto, anche in quanto interiorità o spiritualità (ma non misticismo o Seele, anima). Che cosa è dunque lo spirito, che cosa è Geist per Nietzsche? «Spirito è la vita che taglia nella propria carne; nel suo patire essa accresce il suo sapere ... Voi conoscete dello spirito solo le scintille: ma non avete occhi per l'incudine che è lo spirito e nemmeno per la crudeltà del maglio! » (Così parlò Zarathustra, II, « Dei saggi illustri »). A patto di non dimenticare mai questa caratteristica essenziale di Nietzsche, la ricerca dei particolari biografici può evitare il pericolo della micrologia (che sopravvaluta risultati faticosamente raggiunti) e diventare significativa, anzi deve essere radicale e «impietosa». Allora si vedrà anche come per Nietzsche ogni pensiero fosse un evento, ogni libro pubblicato un « superamento». Nietzsche scriveva per se stesso, scrivere voleva dire per lui vivere. Ciò si può cogliere nei suoi taccuini intimi, che sono con poche eccezioni (queste si riducono ad alcune decine di pagine in confronto a migliaia) dedicati alla registrazione continua ed «espressiva», talora perfino già compiuta nella formulazione che egli poi pubblicherà, di meditazioni filosofiche, intuizioni psicologiche, osservazioni moralistiche, il cui spunto esteriore è difficilmente ricostruibile - e d'altra parte il loro oggetto non è Nietzsche stesso, almeno nel senso in cui poteva essere oggetto della propria introspezione uno Stendhal nei suoi diari.

Questi taccuini sono la registrazione già mediata, già filtrata attraverso il mezzo dell'espressione, della scrittura, di eventi interiorizzati: l'incudine da cui scaturiscono le scintille degli aforismi nietzscheani è nascosta, e della crudeltà del maglio si può avere una qualche immagine attraverso la «crudeltà » lucida e perfetta della formulazione.

Per realizzarsi nella fisionomia che abbiamo descritto, Nietzsche recise uno a uno tutti i vincoli con la vita comune, o almeno volle ridurli al minimo, finendo per essere, lui, l'esaltatore della «vita», sempre meno «vita», sempre più «spirito»."(p, 17-18)

Cos’è che rende poco valida la distinzione di Montinari tra biografia spirituale o intellettuale e psicopatologia? Paradossalmente, gli stessi dati che egli espone nel saggio che segue passo per passo la vita di Nietzsche e la sua produzione filosofica, fino alla catastrofe finale, l’affondamento nel buio della follia.

Riguardo a quest’ultima, Pietro Citati ha pubblicato (Repubblica 13. 07. 2008) un bell’articolo che riproduco:

"La stagione della follia di Nietzsche

Il 21 settembre 1888 Friedrich Nietzsche arrivò a Torino, fuggendo l´Engadina in preda all´alluvione. Era la seconda volta che giungeva nell´antica capitale sabauda: ma questa volta essa lo affascinò completamente. L´aria fresca, tersa, limpida, le foglie dorate e brune degli alberi, il fondale già bianco delle montagne: gli pareva di vivere in mezzo ai colori di un Claude Lorrain infinitamente prolungato. C´era nell´aria un benessere quieto ed etereo. Il pomeriggio passeggiava lungo i viali alberati sul Po, che l´autunno aveva appena sfiorato. Amava le strade dritte e larghe, la bellezza delle grandi piazze, gli edifici regolari, la profondità quieta del silenzio. Gli pareva che Torino fosse costruita apposta per lui. Era la città dell´autunno: Dioniso, il suo dio, era il dio dell´autunno; e qui le venditrici gli offrivano meravigliosa uva di tutti i colori. Non sapeva ancora che sarebbe stato il suo ultimo, tragico autunno (Lettere da Torino, a cura di Giuliano Campioni, traduzione di Vivetta Vivarelli, Adelphi, pagg. 272, euro l5).

Tutto, a Torino, gli sembrava frutto di uno straordinario momento di grazia. Un edicolante, David Fino, che abitava a via Carlo Alberto l3, gli aveva affittato a basso prezzo una vasta stanza con un "grandioso letto piemontese", dove dormiva con una profondità e una quiete che non aveva mai conosciuto. La trattoria era buonissima: teneri maccaroni, saporite minestre, ossibuchi accompagnati da "broccoli cotti in maniera incredibile", carne finissima, squisiti grissini. Un sarto gli aveva preparato un elegante soprabito azzurro autunnale, che gli toglieva dieci anni di vita e lo faceva procedere pieno di contegno e di orgoglio. Tutti sembravano, od erano, persone raffinatissime; e lo trattavano come un gentiluomo estremamente distinto o un principe. Quando entrava in un grande magazzino, i volti si addolcivano e si rasserenavano: le porte si aprivano dolcemente davanti a lui; e le vecchie fruttivendole non avevano pace finché non riuscivano a scegliere i grappoli più dolci della loro uva. Così la sua salute (nella realtà o nell´immaginazione) migliorò rapidamente: non aveva più bisogno di caffè, cloralio e nicotina: dopo anni di angosce conosceva il benessere; e scrisse in pochi mesi, con velocità ed impeto vertiginosi, i suoi ultimi libri.

In realtà, quello di Nietzsche non era benessere, ma un eccesso di euforia, che cresceva su sé stessa e divorava spaventosamente sé stessa. Le lettere degli ultimi mesi si riempiono presto di affermazioni di una inquietante e sinistra mitomania. «Io ho dato agli uomini il libro più profondo che posseggano, il mio Zarathustra». «Zarathustra, il primo libro di tutti i millenni, la Bibbia del futuro, la più grande esplosione del genio umano in cui è racchiuso il genio dell´umanità». «Mi sono posto talmente al di là, non sopra ciò che conta ed è in auge oggigiorno, bensì al di sopra dell´umanità». Ma anche il successo del Zarathustra era ormai dietro le sue spalle. Nessuno poteva fermarlo. Le potenze europee, riunite a convegno attorno a lui, avrebbero ubbidito ai suoi ordini di Messia: fucilare Bismarck e l´imperatore Guglielmo, distruggere il Terzo Reich, chiudere il Papa nel carcere del Vaticano.

Chi poteva chiamare semplici libri L´anticristo o Ecce homo, che scriveva febbrilmente a Torino? Erano dinamite, terremoto, convulsione, apocalisse. Ecco, davanti ai suoi occhi, la storia della terra spezzata e spaccata in due. Il vecchio mondo, che era cominciato con l´anno uno, ai tempi della nascita di Cristo, era già morto: mentre il nuovo stava cominciando proprio in quel momento, tra i limpidi veli autunnali di Torino. Tutto era l´albore di un nuovo inizio e di un nuovo cominciamento. Il Crocefisso aveva finito di vivere, e con lui il Padre, al quale l´umanità aveva tanto tempo sacrificato. L´altro Redentore, l´altro Padre era già qui, davanti agli occhi presaghi di tutti. Non era una persona sconosciuta: ma lui, Friedrich Nietzsche, il professore di Basilea, il fuggiasco che in pochi anni aveva percorso tutta l´Italia. «Tra un paio d´anni - proclamò - governerò il mondo, perché ho deposto il vecchio Dio».

Poi, in alcune lettere dei primi di gennaio del 1889, tutto esplose alla luce. «Il mondo è trasfigurato, poiché Dio è sulla terra. Non vede come i cieli gioiscono? Ho appena preso possesso del mio regno». Scrivendo ai nuovi e vecchi amici, tra i quali l´amatissima Cosima Wagner, firmò i suoi brevi proclami di rivelazione e di trionfo ora col nome del Crocifisso ora con quello di Dioniso. Egli era Dioniso vittorioso, il dio supremo antichissimo e recentissimo, che avrebbe reso la terra un giorno di festa. Sebbene fosse Dio, egli conosceva tutte le esperienze che gli uomini possono conoscere, dalle più basse alle più alte. Così, nella gioia universale, egli annunciava il suo "eterno ritorno": come Buddha, Gesù Cristo, Alessandro Magno, Giulio Cesare, Shakespeare, Voltaire e Napoleone; e persino il suo immaginario figlio Umberto I, giovane re d´Italia con "la graziosa Margherita", avrebbero partecipato alla grande festa.

Davanti a questo scoppio orgiastico di euforia, gli amici che ricevettero i biglietti di Dioniso-Crocifisso pensarono di leggere le parole di un istrione impazzito. Non avevano torto. Ma anche Nietzsche sapeva di esserlo: anche lui era cosciente che la sua "catastrofe tragica" poteva esprimersi soltanto con ghigni, caricature, spiritosaggini, buffonate, disumana e sovrumana allegria. Credo che per qualche giorno rimanesse lucido: convinto di essere contemporaneamente il "redentore del mondo " e "il pagliaccio della nuova eternità ". Si era identificato con Dioniso: il Dioniso della fine dei tempi. E il suo Dio doveva esprimersi quale era stato nel corso della sua lunga storia: con i balzi del satiro, le smorfie dell´istrione aristofanesco, le danze del ballerino d´operetta. Non c´erano più alternative o rivali nel tempo. Non c´era più storia. C´era soltanto quella tremenda risata orgiastica, che distruggeva il mondo e lo ricreava secondo un nuovo principio.

La voce si diffuse rapidamente tra gli amici e i conoscenti. Franz Overbeck - uno degli amici più antichi e affezionati di Nietzsche - lasciò la stazione di Basilea la sera del 7 gennaio. E il giorno seguente, dopo l8 ore di viaggio, era a Torino, cercando l´abitazione di Nietzsche nella città sconosciuta. Voleva riportarlo tra i suoi. Il padrone di casa, David Fino, era andato a cercare aiuto al consolato tedesco e alla polizia italiana. La moglie non era a casa. Ma, finalmente, Overbeck riuscì ad entrare nella stanza, dove Nietzsche aveva pensato, scritto, riso e delirato per più di tre mesi. Stava rannicchiato nell´angolo di un sofà, col volto terribilmente emaciato. Leggeva le bozze di Nietzsche contra Wagner. «Nessuno è pari a Wagner nei colori del tardo autunno, nella felicità indescrivibilmente commovente di un godimento estremo, estremo più di ogni altro, breve più di ogni altro… Più felicemente di qualsiasi altro egli attinge all´ultimo fondo di ogni gioia umana, per così dire al suo calice interamente vuotato…». Forse Nietzsche stava parlando di sé senza saperlo.

I due amici si abbracciarono lacrimando: poi Nietzsche si lasciò cadere nuovamente sul sofà, sconvolto da sussulti di pianto. «Forse proprio in quell´attimo - scrisse Overbeck - gli si spalancò davanti l´abisso sul cui ciglio ora si trova, o dove piuttosto è già precipitato». Poi Nietzsche si sedette al pianoforte, dove cantava a gola spiegata in preda alla frenesia ed esaltandosi sempre di più, lasciando «intendere nel contempo con brevi frasi pronunciate in tono smorzato cose sublimi, di abile chiaroveggenza e di indicibile orrore, su sé stesso come successore del dio morto». Proclamava di essere "il pagliaccio della nuova eternità", rendendo l´estasi della sua gaiezza con le espressioni più triviali, o con balzi e danze scurrili. Overbeck ebbe una impressione atroce: quello spettacolo incarnava con terribile efficacia l´idea orgiastica della follia sacra, sulla quale era fondato il teatro antico. Adesso, tutto era finito: tutto quel possente mondo tragico-comico Eschilo, Aristofane, Le Eumenidi, Le Rane, Le Nuvole, poteva venire contemplato soltanto attraverso la sua scurrile degradazione. Nel mondo moderno, Dioniso, l´antichissimo dio dell´estasi e della lacerazione, era soltanto un pazzo, sottoposto come Nietzsche a un processo di paralisi progressiva.""

Ho qualche dubbio che la follia di Nietzsche sia da ricondurre ad una paralisi progressiva. Se lo fosse, occorrerebbe comunque tenere conto che: primo, essa si è sovrapposta ad un disagio psicopatologico di antica data che fa capo alla biografia interiore del filosofo; secondo, che i processi morbosi organici danno luogo ad una destrutturazione-ristrutturazione del patrimonio psichico tale per cui se alcune capacità o contenuti vengono invalidati, altri si esprimono secondo un nesso di continuità con l’esperienza del soggetto.

L’agitazione psicomotoria con aspetti di maniacalità e di delirio megalomanico, descritta da Citati, sicuramente può essere ricondotta alla paralisi progressiva. Ma che Nietzsche si sia identificato con Dioniso, vale a dire con un essere sovrumano orgiastico e crocifisso, è troppo intrecciato con la biografia intellettuale di Nietzsche, dall’inizio della sua riflessione sulla tragedia greca sino alle ultime opere, per potere essere ricondotto tout court ad una patologia cerebrale.

E’ la psicopatologia che perseguita Nietzsche per tutta la vita a dover essere esplorata, peraltro, non la follia finale. A tal fine, nonostante la preclusione metodologica che egli oppone ai tentativi di interpretare psicologicamente il pensiero di Nietzsche (preclusione che, come vedremo, ha senso se viene assunta in termini relativi) i dati offerti da Montinari sono molto significativi.

2.

I dati possono essere raccolti sotto alcune voci.

Sulla famiglia e l’educazione religiosa:

"Dal padre Nietzsche ereditò la passione per la musica, il senso religioso del dovere, l'alacrità e la diligenza nel lavoro, la forza di volontà, ma anche un sistema nervoso molto eccitabile, esposto a stati di depressione e di esaltazione. Probabilmente anche le forti emicranie di cui Nietzsche soffrì fin dall'adolescenza sono un retaggio paterno."(p. 20)

"Nietzsche medesimo soffrì durante tutta la sua vita cosciente (in particolare a partire dal 1873) di attacchi di mal di testa e di vomito, che duravano fino a tre giorni di seguito, ma, se può darsi che egli abbia ereditato dal padre l'emicrania che lo torturava, non si può certo affermare che vi sia un nesso tra le manifestazioni dell'emicrania e quelle, pur analoghe, della malattia al cervello del padre, così come non è possibile stabilire un nesso tra la malattia finali di Nietzsche e quella che portò il padre alla tomba. Egli tuttavia, quando gli attacchi di emicrania giunsero al culmine (nel 1879), pensò di poter morire alla stessa maniera del padre.

Contro questa tendenza dei familiari, madre e fratello, a cercare in famiglia tare ereditarie, scese in campo Elisabeth Förster-Nietzsche. Ella lo fece già nel 1889 (9 aprile; H.F. Peters, 1977; 1977, pp. 17-18), quando apprese della malattia del fratello, redarguendo duramente, dal Paraguay, la povera Franziska Nietzsche che aveva osato avanzare l'ipotesi - nuovamente - di un male di famiglia per spiegare la demenza del figlio. In quella lettera alla madre, anzi, è già contenuta la ridicola tesi della Förster-Nietzsche sull'abuso di sonniferi che avrebbe provocato la rovina di Nietzsche a Torino nel gennaio 1889. Alcuni anni dopo, nel 1895, pubblicando il primo volume della biografia di Nietzsche, ella si affannò a dimostrare come, sia per parte di padre che per parte di madre, tutti gli ascendenti e i parenti più o meno lontani di Nietzsche fossero stati robusti e longevi e - soprattutto - «sani di mente» (E. Förster-Nietzsche, 1895, pp. 10 e 13). La linea della Förster-Nietzsche si può capire se si pensa che, oltre al comprensibile desiderio di difendere il «buon nome» della famiglia e del fratello, ella nutriva il timore di vedere compromessa la filosofia stessa di Nietzsche se si fosse potuto dimostrare che egli era tarato ereditariamente. E infatti nella letteratura su Nietzsche i tentativi di « psicopatologia» abbondano, i tentativi cioè di spiegare il suo pensiero con la sua malattia (ereditaria o no).

E quasi divertente vedere, da un lato, i devoti di Nietzsche (con alla testa la sorella) impegnati a dimostrare la salute «congenita» di Nietzsche e, dall'altro, i medici o i cosiddetti psichiatri con ambizioni filosofiche intenti a esorcizzare una filosofia sgradevole e pericolosa con estrapolazioni che vanno dal patologico ereditario in Nietzsche al suo pensiero: sono, ambedue le parti, vittime di un pregiudizio positivistico: che cioè quella filosofia, in quanto dovuta a una cosiddetta mente malata (oppure sana), sia per ciò stesso malata (oppure sana). Con questo non si vuol dire che la malattia come esperienza vissuta, a partire anche dalla malattia del padre, non abbia avuto importanza nella vita di Nietzsche e nella sua filosofia: basta pensare alle riflessioni sulla malattia che tornano continuamente nelle sue opere e nelle sue lettere. L'invito a stare in guardia contro ciò che egli ha scritto con la comoda scusa che dai suoi libri parlerebbe un cervello malato (.J. Mòbius, 19042, p. 194) è, invece, ridicolo."(p. 22-23)

"L'educazione che la giovane vedova - Franziska Nietzsche nata Oehler impartì ai due figli, aiutata dalle altre donne di casa e dai numerosi parenti, quasi tutti pastori protestanti, fu rigorosamente e insieme ingenuamente religiosa. Franziska aveva, come il figlio, un temperamento violento e impetuoso, la sua natura profondamente sana era all'opposto della «morbidità» del defunto marito, la sua fede era solo positiva, la sua fiducia in Dio incrollabile. Ella cercò sempre di impedire al figlio di essere «diverso dagli altri» e di dedicarsi esclusivamente alle letture, alla poesia e alla musica; a lei Nietzsche deve l'incitamento a una vita sana, agli esercizi fisici.

Sull'orma profonda impressa nel carattere di Nietzsche dall'educazione religiosa di questi anni non è possibile aver dubbi. «Da bambino visto Iddio nella sua gloria» scrive ancora, in una nota intima, l'autore di Umano, troppo umano nel 1878 (FP, 28[7}). E vero che egli, subito dopo, aggiunge: «Come parente di pastori protestanti, compresi ben presto la loro limitatezza intellettuale e psichica», ma anche: «la loro energia operosa, il loro orgoglio, il loro senso del decoro » (ibid.). Non vi è dubbio che la reazione del giovane Nietzsche dovette cominciare abbastanza presto; essa nacque però sul terreno stesso della pietà familiare. Anche Nietzsche sembra alludere a un nesso sottile tra il suo ambiente, che è quello della religiosità luterana, e la libertà di pensiero, in un famoso aforisma (il 324) delle Opinioni e sentenze diverse (1879): «La regione più pericolosa della Germania è la Sassonia-Turingia [dove Nietzsche era nato e cresciuto]: in nessun luogo vi è più attività intellettuale e più conoscenza degli uomini, insieme a libertà dello spirito, e tutto è così modestamente nascosto dal brutto dialetto e dalla ossequiosità zelante di questa popolazione, che quasi non ci si accorge di aver qui a che fare coi sergenti intellettuali della Germania e coi suoi maestri nel bene e nel male». Infatti, che cosa troviamo in quel brevissimo cenno autobiografico che ci parla della visione della gloria di Dio? Appunto la registrazione della prima Freigeisterei di Nietzsche: «Primo scritto filosofico sulla nascita del diavolo (Dio pensa se stesso, ma può farlo solo rappresentandosi il suo contrario) » (FP, 28[7], 1878). Nella Prefazione (par. 3) della Genealogia della morale (1887), Nietzsche ritorna ancora sul suo primo «scritto filosofico » che a quanto pare è andato perduto - dicendo di averlo composto a tredici anni.

La formazione del giovane Nietzsche fu dunque dominata da una religiosità che ha il suo nucleo nel rapporto diretto dell'individuo con la divinità e che, proprio per questo, lo avvia verso avventure spirituali nella meditazione continua su Dio, la natura, gli uomini."(p. 28-29)

"In base all'esperienza personale, Nietzsche scrive nel 1888: «Io non riesco a vedere come un individuo possa rimediare al fatto di non aver frequentato al momento giusto una buona scuola. Costui non conosce se stesso; cammina sul sentiero della vita senza aver imparato a camminare; a ogni passo che fa si rivela la sua floscia muscolatura ... La cosa più auspicabile è in tutti i casi una disciplina rigorosa e dura al momento giusto, cioè in quell'età in cui riempie d'orgoglio vedere che si pretende molto da noi. Giacché questo distingue la scuola dura, in quanto buona scuola, da ogni altra: che si pretende molto e lo si pretende inflessibilmente; che le cose buone, anzi perfino quelle eccellenti, vengono pretese come normali; che la lode è rara, l'indulgenza assente; che il biasimo si fa sentire con asprezza e obiettività senza riguardo per il talento e la provenienza sociale» (FP, 14[161], 1888)"(p. 35-36)

Sulla malinconia adolescenziale

"Negli appunti intimi dell'epoca di Pforta, alla descrizione minuziosa della vita collettiva degli allievi, ai racconti delle gite e dei gai divertimenti comuni fa riscontro una profonda malinconia d'adolescente, che Nietzsche ricorda ancora molti anni dopo. 1875 (FP, 11 [11]): «A Pforta, quando i campi erano deserti e giungeva l'autunno»; 1878 (FP, 28[7}): «Malinconico pomeriggio - funzione religiosa nella cappella di Pforta, lontani suoni d'organo». «Nella mia anima si desta il sentimento amaro dell'autunno,» scrive Nietzsche quindicenne nel suo diario di Pforta « mi ricordo un giorno dell'anno scorso, che ero ancora a Naumburg. Ero andato a passeggiare da solo alla Porta Santa Maria; il vento sfiorava le stoppie sui campi deserti, le foglie cadevano a terra e ciò mi trafiggeva dolorosamente: la primavera fiorente, l'ardente estate - sono finite!

Per sempre finite! Presto la neve bianca seppellirà la natura che muore!» (Opere, I, i, 84). E, pochi giorni dopo: «Dio, perché mi hai dato un cuore siffatto, che io debba rallegrarmi e giubilare insieme alla natura? Non riesco a sopportarlo. Già il sole non invia più i suoi raggi caldi; i campi sono desolatamente deserti e gli uccelli affamati fanno provvista per l'inverno. Per l'inverno! Così vicini tra loro sono i confini della gioia e della sofferenza, ma è il passaggio dall'una all'altra che mi stritola il cuore ... Natura, tu hai cinto di amaro dolore il mio cuore. Ultima rosa! Piangendo, ti vedo fiorire e perire, con te io vivo e perisco, con te un giorno risorgerò! Il sogno soave di questa vita non può sprofondare per sempre; un giorno mi ristorerò di nuovo al respiro della primavera, alla sua sorgente spumeggiante!»"(p. 39-40)

Sulla solitudine

"«... io sono la solitudine fatta uomo...» (FP, 25[7], 1888-1889) - questa è la definizione che Nietzsche ha dato di se stesso pochi giorni prima che la demenza lo sottraesse a ogni contatto cosciente con il mondo. «In età assurdamente precoce, a sette anni, sapevo già che mai voce d'uomo mi avrebbe raggiunto...» dice ancora Nietzsche in Ecce homo («Perché sono così accorto», 10), correggendo poi questa malinconica constatazione con la sinistra euforia della catastrofe imminente. Nessuno, fino ad oggi, ha saputo dire quale portata avessero le parole con cui Nietzsche fissava alla «assurda età» di sette anni la coscienza di essere solo. Noi sappiamo che egli si riferiva a un episodio reale dell'infanzia, già fermato in due appunti autobiografici, che si chiariscono a vicenda e che risalgono al 1875 e al 1878, dunque rispettivamente a tredici e a dieci anni prima di Ecce homo e della demenza; 1875 (FP, 11 [11]): «... a Pobles, quando piansi sull'infanzia perduta»; 1878 (FP, 28[8]): «A sette anni-sentita la perdita dell'infanzia». A Pobles, un altro villaggio della Sassonia dove allora viveva il nonno materno David Ernst Oehler, anche lui pastore protestante, Nietzsche fanciullo era solito trascorrere lietamente le sue vacanze, come egli racconta ripetutamente nelle sue prime autobiografie, nelle quali però si cercherebbe invano una sola parola sulla «perdita dell'infanzia» sentita all'età di sette anni, sebbene vi siano ricordati minuziosamente molti altri episodi. Tale riserbo, perfino con se stesso, aumenta ancor più il valore delle testimonianze del 1875, 1878, 1888. Nel 1875, ma specialmente nel 1878, queste note non si trovano isolate, anzi si accompagnano ad altre reminiscenze dell'infanzia e finiscono poi per trovare una eco attenuata, e come sempre spersonalizzata, nell'aforisma 168 del Viandante e la sua ombra: «... la beatitudine dell'infanzia e la perdita dell'infanzia, il senso di ciò che è irrecuperabile come il possesso più prezioso.… »."(p. 26-27)

"Sull'ultimo incontro con Nietzsche, Rohde scrisse a Ovrbeck: «... un'atmosfera indescrivibile di estraneità, qualcosa per me di assolutamente sinistro, lo circondava. Vi era in lui qualcosa che non gli conoscevo e - ancora - non c'era più molto di ciò che lo aveva contraddistinto in passato. Come se venisse da una contrada dove nessun altro abita» (24 gennaio 1889, in Franz Overbeck-Erwin Rohde. Briefwechsel, 1990, p. 135)."(p. 131)

La vita come ricerca

" In una lettera alla sorella del giugno 1865, Nietzsche espone con pacatezza i suoi argomenti, che culminano in queste parole: « Forse che la nostra ricerca ha come fine la tranquillità, la pace, la felicità? No, noi cerchiamo solo la verità, anche la più terribile e repellente ... Qui si dividono le vie degli uomini: se vuoi la pace dell'anima e la felicità, credi, se vuoi essere un seguace della verità, cerca» (Lettera a E. Nietzsche, 11 giugno 1865)."(p. 50)

"Il giovane deve dapprima precipitare in quello stato di stupore che è stato definito il "pathos filosofico per eccellenza". Dopo che la vita gli si è dissolta davanti in una serie di enigmi, egli deve consapevolmente, ma con rigorosa rassegnazione, attenersi a ciò che è possibile sapere; e fare una scelta in questo vasto campo, conformemente alle capacità» (ibid., 297; p. 162)."(p. 58)

Vissuti singolari e sogni

"Proprio a questo periodo infatti primi del 1869 - risale la registrazione di qualcosa che è stato interpretato come «allucinazione». Nietzsche scrive in un suo quaderno: «Ciò che temo non è la figura spaventosa dietro la mia sedia, bensì la sua voce; e anche, non le parole, ma il tono orridamente inarticolato e disumano di quella figura. Almeno parlasse come parlano gli uomini» (BAW, V, 205; La mia vita, p. 181). Il quaderno in cui si trovano queste righe è pieno di normali annotazioni filologiche, e non è vero - come sembrano credere coloro che per primi lo hanno pubblicato (nel 1940) - che la scrittura denunci una particolare eccitazione. La grafia è identica a quella degli altri appunti; perfino la punteggiatura - altre volte imperfetta e sommaria - è qui ineccepibile. Nietzsche, dunque, ha descritto con estremo sangue freddo qualcosa che gli stava accadendo? Ma, perfino in questo caso, ricorrere alla psicopatologia serve a poco, e il termine «allucinazione» nulla aggiunge al significato, certo non pienamente afferrabile, di queste righe sinistre e misteriose. Forse può aiutarci il ricordare che alcuni anni dopo, e in un contesto di significato afferrabile, Nietzsche ha parlato della «voce della storia» e ha scritto (citando il monologo notturno di Faust): «Visione spaventevole! Ahi, non ti sopporto!» (cfr. FP, 5[194], primavera 1875 e Umano, troppo umano, I, af. 233)."(p. 74)

"Dei suoi appunti riguardanti l'infanzia abbiamo già avuto occasione di parlare. Nietzsche ricorda la religiosità e i giuochi della fanciullezza, i momenti felici della giovinezza. Ma pensa di avere avuto un'educazione sbagliata, di essere stato sovraccaricato di elementi estranei al suo carattere che ora «si disvela». «Io sto scoprendo me stesso» egli scrive (FP, 28[16], 1878). I suoi dolori devono essere utili agli altri, come «l'esecuzione di un delinquente» (28 [21]); egli vuole «aggiogare all'aratro la malattia» (28[30]). La cura contro il pessimismo consiste nella decisione di «ingoiare il rospo», che è la negatività dell'esistenza. Ciò spiega il continuo ritornare di questo enigmatico appunto: «sogno del rospo» (28[42]), un sogno risalente ai primi anni di Basilea, che - come per caso - ci è stato tramandato nel racconto di una delle sue conoscenti: «... ho sognato che la mia mano, che avevo appoggiato sul tavolo, aveva improvvisamente assunto un'epidermide vitrea, trasparente; potevo vederne chiaramente l'ossatura, i tessuti e il giuoco dei muscoli. D'un tratto scorsi un grosso rospo accovacciato sulla mia mano e provai contemporaneamente una suggestione irresistibile a inghiottire la bestia. Superai la mia atroce ripugnanza e lo ingollai a forza» (C.A. Bernoulli, 1908, vol. I, p. 72)."(p. 99)

Sofferenze psichiche

"Nelle lettere a Overbeck troviamo altresì la traccia delle gravi sofferenze che Nietzsche ebbe a sopportare in questo periodo: gli attacchi del suo male (che duravano fino a tre giorni con atroci dolori di testa e vomito) si alternavano a periodi di euforia, di creatività intellettuale."(p. 113)

"Dalle lettere dell'agosto 1881 si percepisce euforia e, complemento inevitabile, prostrazione. Durante quell'estate Nietzsche ha sofferto molto. «Sum in puncto desperationis. Dolor vincit vitam voluntatemque. O quos menses, qualem aestatem habui!» scrive egli, il 18 settembre 1881, a Overbeck."(p. 118)

" L'oggetto della prima predicazione di Zarathustra non è l'eterno ritorno, bensì il superuomo. Anche nella Gaia scienza non si fa parola del superuomo, né se ne trova traccia nei manoscritti immediatamente precedenti la stesura del primo Zarathustra. Questa nuova idea va dunque localizzata nell'inverno 1882-1883: l'inverno nel quale Nietzsche è preda di gravi sofferenze psichiche, in rotta con la famiglia, tormentato dal risentimento verso Lou e Rée e più ancora verso se stesso, un inverno «alle soglie del suicidio». In questo inverno è nato il superuomo.

Nel dicembre del 1882 Nietzsche, nel momento culminante della crisi, scrive per sé: «Io non voglio la vita di nuovo. Come ho potuto sopportarla? Producendo. Che cosa fa che io ne sopporti la vista? La visione del superuomo, il quale dice di sì alla vita. Anche io ho tentato - ahimè!» (p. 124)

"Uno stato di esaltazione si impadronisce di Nietzsche. D'ora in poi egli non conosce più misura, tanto che aggiunge all'Anticristo anche una «Legge contro il cristianesimo » così introdotta: «Data nel giorno della salvezza, nel primo giorno dell'anno uno (- il 30 settembre 1888 della falsa cronologia)». Se si leggono le dichiarazioni di Nietzsche sulla sua opera, non si afferra il significato storico-critico dell'Anticristo, che pure - come vide bene più tardi Franz Overbeck - conteneva alcuni pezzi di bravura, come la psicologia del redentore e quella dell'apostolo Paolo, la ricostruzione storica delle origini del movimento cristiano, l'analisi della fraus religiosa. Ecce homo nasce in questo stato di euforia (distaccandosi da un capitolo che Nietzsche aveva aggiunto al Crepuscolo degli idoli), a partire dalla metà di ottobre 1888. Nei quaderni di Nietzsche si trovano ancora alcune annotazioni per un altro libro della Trasvalutazione: «L'immoralista». Ma questo lavoro è interrotto appunto da Ecce homo, finché Nietzsche, in una lettera a Brandes del 20 novembre, non dichiara di avere già scritto tutta la Trasvalutazione, identificando con essa L'anticristo. Anche a Paul Deussen Nietzsche scrive: «La mia vita giunge ora al suo culmine: ancora un paio d'anni, e la terra trema, colpita da una folgore immane. Io ti giuro che ho la forza di cambiare il modo di contare gli anni. - Nulla di quanto oggi sussiste rimane in piedi, io sono più dinamite che uomo. La mia "Trasvalutazione di tutti i valori", sotto il titolo principale L'anticristo, è pronta» (26 novembre 1888)."(p. 162)

"A partire dalla primavera del 1888 - cioè dai primi giorni del soggiorno torinese - si avverte in tutto quanto Nietzsche scrive, anche nelle sue lettere, una tensione psichica indicibile, che si manifesta anche come euforia. La malattia ha cominciato la sua opera di devastazione, e solo per queste ultime manifestazioni di Nietzsche si potrà supporre un'influenza della malattia sul suo pensiero, benché mostrare in concreto dove e quando cominci la demenza, finché Nietzsche è padrone dell'espressione sia impresa quasi sempre disperata."(p. 171)

3.

Dalle opere, dai frammenti postumi e dall’epistolario di Nietzsche si potrebbero trarre molti altri dati atti ad arricchire le voci prese in considerazione. Penso però che le citazioni tratte dal saggio di Montanari siano sufficienti a delineare uno scenario interiore che non spiega il pensiero di Nietzsche ma consente di comprendere le dinamiche che hanno promosso e in qualche misura dato "forma" alla sua incessante ricerca.

Il nodo della questione verte ovviamente sul significato che si dà alla psicopatologia. Se, infatti, come spesso è accaduto e accade, la dimensione psicopatologica viene ricondotta ad un disturbo cerebrale, ad una malattia che interferisce con il normale funzionamento della mente e porta il soggetto sul terreno dell’irrazionalità, dell’assurdità, del non senso, riesce evidente che tale diagnosi invalida per molti aspetti l’opera e il pensiero di un autore, tanto più se si tratta di un filosofo.

In ambito letterario, infatti, si ammette che la "pazzia"possa convivere, come per esempio nel caso degli ultimi scritti di Rousseau, con una creatività che viene interferita ma non azzerata. In ambito filosofico, invece, come peraltro in quello scientifico, laddove, sia pure con strumenti diversi, è in gioco la ricerca della "Verità", il riferimento alla "follia"dell’autore incide negativamente nella valutazione della sua opera, toglie ad essa senso.

L’avversione di Montanari nei confronti dei ricorrenti tentativi di identificare nel pensiero di Nietzsche l’espressione di una mente malata è, per questo aspetto, del tutto comprensibile e condivisibile.

La psicopatologia, però, può essere intesa in tutt’altro modo, vale a dire come l’espressione di un mondo interiore complesso strutturato in maniera tale che, per un verso, produce sintomi disfunzionali e, per un altro, contribuisce ad incrementare la creatività, sia pure costringendola a scorrere entro canali inconsciamente determinati.

Questo modo di vedere trova oggi una conferma nell’ambito della genetica più avanzata, che cerca di spiegare il dato ricorrente e sorprendente per cui, in un numero notevole di casi, nella stessa famiglia si danno soggetti affetti da malattia mentale e soggetti dotati di attitudini artistiche o scientifiche rilevanti e talora geniali. Ne Il gene agile (Adelphi, Milano 2005), Matt Ridley scrive:

"Spesso è stato osservato che gli schizofrenici sembrano comparire nelle famiglie di persone intelligenti e di successo. (Tale argomentazione indusse Henry Maudsley, contemporaneo inglese di Kraepelin, a respingere l'eugenetica, essendosi reso conto che sterilizzando i portatori di una tara mentale si sarebbero spazzati via anche moltissimi individui geniali). I soggetti affetti da una forma leggera del disturbo - a volte definiti «schizotipici» - sono spesso insolitamente brillanti, sicuri di sé e determinati. Come disse Galton: «Sono rimasto sorpreso nel constatare quanto spesso la follia sia comparsa fra i parenti stretti di uomini eccezionalmente capaci ».

Questa eccentricità potrebbe addirittura aiutare ad avere grandi successi. Forse non è un caso che molti grandi scienziati, leader politici e profeti religiosi abbiano parenti schizofrenici e sembrino essi stessi muoversi sull'orlo della psicosi, come lungo il bordo del cratere di un vulcano . James Joyce, Albert Einstein, Carl Gustav Jung e Bertrand Russell ebbero tutti dei parenti stretti schizofrenici. Isaac Newton e Immanuel Kant potrebbero essere descritti entrambi come «schizotipici».

In uno studio improntato a un'assurda precisione si stima che il 28 per cento degli scienziati insigni, il 60 per cento dei compositori, il 73 per cento dei pittori, il 77 per cento dei romanzieri, e uno sbalorditivo 87 per cento dei poeti abbiano dimostrato un certo grado di disturbo mentale . Nash, il matematico di Princeton, dopo essersi ripreso da trent'anni di schizofrenia, nel ricevere il premio Nobel per il suo lavoro nel campo della teoria dei giochi, disse che gli interludi di razionalità fra un episodio psicotico e l'altro non erano affatto graditi. « Il pensiero razionale impone un limite al concetto che una persona ha del proprio rapporto con il cosmo»."

Lo psichiatra del Michigan Randolph Nesse ipotizza che la schizofrenia possa essere un esempio di «effetto soglia» evolutivo, in cui le mutazioni di diversi geni sono in sé tutte benefiche, salvo quando si presentano tutte insieme nella stessa persona, o quando la loro evoluzione si spinge troppo lontano, nel qual caso improvvisamente si combinano producendo effetti disastrosi...

Forse la schizofrenia è la conseguenza dell'eccesso di qualcosa che di per se stesso sarebbe positivo: in altre parole, deriverebbe dalla concomitanza, in un unico individuo, di troppi fattori genetici e ambientali che in genere hanno un effetto positivo sulla funzione cerebrale. Questo spiegherebbe perché i geni che predispongono gli esseri umani alla schizofrenia non si estinguono; fintanto che non si ritrovano insieme, ciascuno di essi favorisce la sopravvivenza del suo portatore."(p. 188-189)

Alla luce di queste considerazioni, che portano a ritenere che in alcuni casi la follia e la creatività siano due facce di una stessa medaglia, attive nello stesso individuo, la lettura del pensiero di Nietzsche non corre certo il rischio di invalidarlo e di togliere ad esso senso. Essa, infatti, può illuminare le motivazioni inconsce che danno forma ad esso, senza ridurre i contenuti alla forma.

Ho già abbozzato una psicobiografia di Nietzsche, alla quale rimando. Aggiungo ad essa alcune riflessioni che focalizzano ulteriormente quello che ritengo essere il nodo della vita interiore e del pensiero di Nietzsche: la sua ossessione riferita alla capacità della cultura e della singola coscienza umana di mistificare, vale a dire di accreditare come vere convinzioni tranquillizzanti che il pensiero critico rivela infondate o rovesciate rispetto alla verità.

La matrice di tale ossessione è nella biografia interiore di Nietzsche.

Egli è consapevole di aver ricevuto un’educazione sbagliata, religiosamente dogmatica e moralmente molto rigida. Solo negli scritti autobiografici che risalgono all’adolescenza e alla prima giovinezza, però, egli denuncia il grado intensissimo di partecipazione con cui ha vissuto i contenuti religiosi trasmessi dall’ambiente familiare. Per tutta la vita egli ha tentato di affrancarsene per restaurare la sua natura originaria, la sua vocazione ad essere. In realtà si è affrancato dai contenuti culturali di quella educazione, ma non dalla forma.

La religione risponde al bisogno umano di sfuggire la consapevolezza dell’insignificanza ontologica dell’esistenza individuale. Essa risponde a tale bisogno creando una relazione, un legame tra l’individuo e l’Assoluto, inteso come Essere personale o Totalità ontologicamente significativa.

Alla luce di un pensiero laico, si tratta di una mistificazione. In un contesto, però, intensamente religioso (e bigotto) come quello in cui è vissuto Nietzsche, il carattere mistificato delle credenze viene scoperto solo ad un certo punto dell’evoluzione della personalità. A Nietzsche l’apertura degli occhi è toccata in epoca adolescenziale.

Di solito, essa ha un effetto traumatico nel senso che il soggetto pensa di essere stato ingannato profittando della sua ingenuità e della sua influenzabilità. Tale effetto è direttamente proporzionale al grado di partecipazione emotiva e cognitiva alla fede, che in Nietzsche per alcuni anni è stata elevatissima.

Il trauma comporta due conseguenze. La prima è che il soggetto è spinto, quasi per riscattarsi, a demolire criticamente le false credenze che gli sono state impartite. La seconda è che egli, preso atto che la cultura con tutte le sue presunte certezze, serve sostanzialmente a tenere l’uomo al riparo dall’infinita e vertiginosa complessità del reale, può giungere alla conclusione che essa è, nella sua totalità, un castello di menzogne.

E’ difficile non identificare in tutta l’opera di Nietzsche l’espressione perpetua e, per alcuni versi, ossessiva di queste due motivazioni. Ciò nulla toglie al fatto che essa è animata da una passione della conoscenza del tutto autentica e associata ad un potere critico nei confronti del senso comune, delle tradizioni culturali e delle ideologie che ha pochi confronti della storia della filosofia e i cui esiti, per molti aspetti, soprattutto per quanto riguarda i valori morali, si possono ritenere una conquista della cultura umana.

Non c’è dunque alcun pericolo che valorizzare motivazioni psicodinamiche, comprensibili sulla base della storia interiore di Nietzsche, invalidi o getti una luce di discredito su quegli esiti.

C’è però un’ulteriore considerazione da fare. Ho accennato al fatto che il venire meno della fede religiosa se induce in un soggetto una critica radicale dei contenuti dogmatici in cui egli ha creduto, a partire dall’esistenza di un Essere supremo trascendente, non incide tout court sulla forma entro la quale quei contenuti si depositano. Tale forma implica il fatto che sia possibile colmare lo scarto tra la finitezza umana e l’intuizione che l’uomo ha di qualcosa che trascende tale finitezza: l’intuizione insomma dell’Infinito o dell’Assoluto. Essa, infatti, in quanto intrinseca all’apparato mentale umano, può sopravvivere alla perdita della fede realizzando un duplice effetto.

Per un verso, essa attiva nell’uomo la passione della conoscenza orientandolo verso il superamento dei limiti che ad essa pongono le tradizioni, le opinioni correnti, il senso comune, ecc. Per un altro verso, però, quell’intuizione può promuovere in un soggetto l’esigenza di azzerare quello scarto giungendo ad una forma di conoscenza di una Verità assoluta.

Sembra quest’ultima la trappola in cui è caduto l’ultimo Nietzsche nel momento in cui l’ossessione della trasmutazione di tutti i valori gli è apparsa come una Verità negativa ma assoluta; trappola che permette di comprendere la megalomania degli ultimi scritti e dei foglietti della "follia". E’ vero ed è doloroso ammettere che Nietzsche, infine, è giunto ad identificare se stesso con Dio e con il Cristo, e a ritenersi il prestigioso Profeta di un’umanità futura affrancata dai lacci della religione e della morale.

Divinizzando se stesso, egli ha infine soddisfatto (maldestramente) il bisogno di Assoluto residuato nel suo inconscio come espressione dell’originaria e appassionata adesione alla fede.