Capitolo 3. L'APOLLINEO E IL DIONISIACO (pp. 116-120)

Il Problema che Schiller aveva sentito e in parte elaborato fu ripreso da Nietzsche in modo nuovo e originale nel 1871, nell'opera La nascita della tragedia. Quest'opera giovanile, più che a Schiller, si rifà a Schopenhauer e a Goethe. Però, quanto meno all'apparenza, ha in comune con Schiller l'estetismo e la fede dei Greci, con Schopenhauer il pessimismo e il tema della redenzione e infine numerosi elementi col Faust di Goethe. Di questi rapporti il più importante per noi è quello con Schiller.

Tuttavia non possiamo menzionare Schopenhauer senza rilevare in quale misura questo autore abbia dato concretezza ai presentimenti sulle conoscenze orientali che in Schiller figurano come pallidi schemi. A parte il pessimismo, che nasce dall'opposizione alla gioia e alla certezza della redenzione della fede cristiana, la dottrina salvifica di Schopenhauer è essenzialmente buddhista. Schopenhauer si schierò dalla parte dell'Oriente, senza dubbio una reazione indotta dal contrasto con la nostra atmosfera occidentale. Come è noto, tale reazione è ancora presente, e in misura non trascurabile, in diversi momenti più o meno totalmente orientati verso l'India.

Per Nietzsche questa «spedizione» verso l'Est si arresta in Grecia. Per lui la Grecia è anche l'anello di congiunzione fra l'Oriente e l'Occidente. Qui il suo pensiero coincide con quello di Schiller ‑ ma quanto diversa è la sua concezione della natura dei Greci! Nietzsche vede il fondo scuro su cui è dipinto il sereno mondo dorato dell'Olimpo. «Per poter vivere i Greci dovettero inventare gli dèi, per profondissima necessità.» «Il Greco conosceva e avvertiva gli orrori e le nefandezze dell'esistenza e per poterli superare dovette anteporre ad essi la fulgente onirica nascita degli dèi dell'Olimpo. L'enorme diffidenza verso le titaniche forze della natura, quella Moira che troneggiava spietata su tutte le conoscenze, quell'avvoltoio di Prometeo, grande filantropo, l'orribile sorte del saggio Edipo, la maledizione gravante sulla stirpe degli Atridi che impone a Oreste il matricidio... fu superata dai Greci, o quanto meno occultata e sottratta alla vista, tramite l'artistico mondo intermedio degli abitatori dell'Olimpo.»

La «serenità» dei Greci, il ridente cielo dell'Ellade quale fulgente illusione su uno sfondo cupo, è un'invenzione dei posteri ‑ un'importante argomentazione contro l'estetismo morale! Quindi Nietzsche rappresenta un punto di vista molto diverso da quello di Schiller. Ciò che Schiller fa soltanto trapelare nelle sue Lettere sull'educazione estetica, che sono anche un saggio su se stesso, qui nello scritto di Nietzsche diventa certezza: si tratta di un'opera «profondamente personale». E mentre Schiller inizia in qualche modo a dipingere luce e ombre a tinte pallide e con un po' di titubanza, e a concepire «naif», contrapposto a «sentimentale», il contrasto che avverte nella propria psiche, escludendo tutto ciò che nella natura umana è oscuro e abissale, Nietzsche è più profondo.

La sua concezione coglie in tutta la sua portata un contrasto che se per un lato non è inferiore alla radiosa bellezza della visione schilleriana, dall'altro trova toni infinitamente più cupi, che esaltano la forza della luce ma fanno anche immaginare dietro di sé una notte ancora più profonda. Nietzsche definisce i termini della sua coppia di opposti fondamentali apollineo e dionisiaco. Cerchiamo anzitutto di rappresentarci la natura di questa coppia di opposti. Citerò a questo scopo una serie di passi, grazie ai quali il lettore potrà esprimere un giudizio personale e al contempo valutare la mia concezione anche senza aver letto lo scritto di Nietzsche.

«Avremo fatto un grande passo avanti per la scienza estetica quando avremo raggiunto non solo la comprensione logica ma la immediata certezza del fatto che l'evoluzione dell'arte è legata alla duplicità di apollineo e dionisiaco ‑ esattamente come la procreazione dipende dalla dualità dei sessi, dove il conflitto è continuo e la conciliazione subentra solo periodicamente.»

«La nostra concezione, secondo cui nel mondo greco esiste un enorme contrasto ‑ come origine e come finalità ‑ fra le arti figurative, apollinee, e la musica, arte non figurativa, dionisiaca, si riallaccia ad Apollo e Dioniso, le due divinità che presiedono all'arte: queste due pulsioni così diverse procedono di pari passo, quasi sempre in aperto contrasto fra loro e stimolandosi reciprocamente per creazioni sempre nuove e sempre più importanti nelle quali perpetuare quel conflitto tra opposti che la parola "arte", comune ad entrambi, supera solo in apparenza; finché, tramite un prodigioso atto metafisico di ellenica "volontà", esse appaiono accoppiate e in questo accoppiamento producono quell'opera d'arte sia dionisiaca sia apollinea che è la tragedia attica.»

Per caratterizzare meglio queste due «pulsioni» Nietzsche paragona i peculiari stati psicologici da esse prodotti a quelli del sogno e dell'ebbrezza. La pulsione apollinea produce uno stato paragonabile allo stato onirico, la pulsione dionisiaca uno stato paragonabile a quello dell'ebbrezza. Per «sogno» Nietzsche intende ‑ per sua stessa ammissione ‑ la «visione interna», la «bella apparenza dei mondi onirici». Apollo «governa l'illusoria bellezza del mondo interiore della fantasia», è «il dio di tutte le forze figurative». E’ la misura, il numero, il limite e il dominio di tutto ciò che è selvaggio e non‑domato. «Lo si potrebbe definire.., la fulgida immagine divina del principio di individuazione.»

Per contro il dionisiaco è la liberazione della pulsione senza limiti, lo scatenamento della sfrenata dynamis della natura animalesca e divina. Per questo nel coro dionisiaco l'uomo figura come satiro: in alto dio e in basso capro. E’ l'orrore indotto dalla violazione del principium individuationis e insieme la «voluttuosa estasi» prodotta da tale violazione. Pertanto il dionisiaco è paragonabile all'ebbrezza che dissolve l'individuale in pulsioni e contenuti collettivi, la disgregazione dell'lo, chiuso in sé, ad opera del mondo. Perciò nel dionisiaco l'uomo si confronta con l'uomo, «anche la natura estraniata, ostile e soggiogata, celebra di nuovo la sua festa di conciliazione col proprio figlio perduto, l'uomo» . Ognuno si sente «tutt'uno» col suo prossimo (non solo unito, conciliato, ma «fuso con esso»). Di conseguenza la sua individualità deve essere totalmente abolita.

«L'uomo non è più artista, è diventato opera d'arte... qui tra i brividi dell'ebbrezza si manifesta l'artistica forza della natura». Vale a dire, la dynamis creatrice, la libido sotto forma di pulsione, si impadronisce dell'individuo come di un oggetto e lo usa come strumento o come espressione. Se l'essere naturale dev'essere concepito come «opera d'arte», l'uomo nello stato dionisiaco diventa in realtà l'opera d'arte divenuta naturale; però, non essendo precisamente un'«opera d'arte» nel senso che si dà abitualmente a questa espressione, l'essere naturale altro non è che pura e semplice natura, non è neppure un animale limitato a se stesso, alla propria indole, è natura senza freni, è sotto ogni aspetto un selvaggio torrente in piena.

Debbo mettere in evidenza questo punto per amore di chiarezza e ai fini della discussione che segue, perché Nietzsche per determinate ragioni non lo ha fatto. Ha gettato sul problema un ingannevole velo estetico, che però in alcuni passi è costretto suo malgrado a sollevare. Per esempio quando parla dell'orgia dionisiaca: «il centro di questa festa consisteva quasi sempre in uno scatenamento totalmente incontrollato dei peggiori istinti sessuali, le cui ondate travolgevano ogni senso della famiglia e dei suoi nobili principi; qui le bestie più selvagge della natura si scatenavano fino alla ripugnante commistione di voluttà e crudeltà»

Nietzsche considera la conciliazione dell'Apollo delfico con Dioniso un simbolo della conciliazione di questi due opposti nel cuore del Greco civilizzato. Ma così facendo dimentica la propria formula compensatoria, secondo la quale gli dèi dell'Olimpo debbono la loro luce alle tenebre dell'anima greca: pertanto la conciliazione fra Apollo e Dioniso sarebbe una chimera, un desideratum prodotto dall'angoscia, che la metà civilizzata del Greco avvertiva nel conflitto con la propria parte barbarica che esplodeva con violenza proprio nello stato dionisiaco. Fra la religione di un popolo e la sua vita reale esiste sempre un rapporto di compensazione; se così non fosse la religione non avrebbe alcun senso sul piano pratico.

E’ una regola che trova conferma a iniziare dalla moralissima religione dei Persiani e dalla dubbia moralità, ben nota già nel mondo antico, delle loro abitudini di vita, fino alla nostra epoca, l'epoca «cristiana», nella quale la religione dell'amore sta assistendo al più grande bagno di sangue della storia del mondo. Perciò proprio partendo dal simbolo della conciliazione delfica dobbiamo dedurre l'esistenza nell'anima greca di una scissione particolarmente violenta. Così si spiegherebbe lo struggente desiderio di redenzione che conferiva ai misteri un'importanza enorme per la vita del popolo greco e che i primi studiosi dell'antica Grecia hanno completamente trascurato. Si accontentarono di attribuire ingenuamente ai Greci tutto ciò che mancava in loro stessi.

Quindi nello stato dionisiaco il Greco non diventava affatto opera d'arte, ma veniva catturato dalla propria natura barbarica, privato della propria individualità, dissolto in tutte le sue componenti collettive, reso tutt'uno con l'inconscio collettivo (per l'abbandono dei suoi finì individuali), col «genio della specie, anzi con la natura».

Per chi aveva raggiunto l'autodominio apollineo questo stato di ebbrezza, che rendeva l'uomo totalmente dimentico di sé e della propria umanità, un essere meramente naturale, doveva essere spregevole, per cui fra le due pulsioni non poteva non scoppiare una lotta violenta. Si liberino le pulsioni dell'uomo civilizzato! L'esaltato appassionato di cultura immagina che ne scaturisse soltanto bellezza. Questo errore è dovuto alla mancanza di conoscenze psicologiche profonde.

Nell'uomo civilizzato le forze istintuali represse sono estremamente distruttive e molto più pericolose che nel primitivo, che vive sempre limitatamente le proprie pulsioni negative. Ecco perché nessuna guerra del passato può rivaleggiare come atrocità con le guerre delle nazioni civilizzate. Presso i Greci le cose saranno andate nello stesso modo. Proprio partendo dalla viva sensazione di orrore essi riuscirono poco a poco a conciliare il dionisiaco con l'apollineo mediante un metafisico «atto prodigioso», come dice Nietzsche subito all'inizio. Dobbiamo tener presenti sia queste parole sia l'osservazione: «l'arte", parola comune ad entrambi, supera tale conflitto solo in apparenza».

Dobbiamo ricordare queste frasi perché Nietzsche, come Schiller, ha l'espressa tendenza ad attribuire all'arte il ruolo di mediatrice della salvazione. Così il problema rimane fermo all'estetico ‑ anche il brutto è «bello»; nell'ingannevole luce del bello estetico appare desiderabile anche il ripugnante, o meglio il malvagio. Sia in Schiller che in Nietzsche la natura dell'artista rivendica il significato salvifico per sé e per la sua specifica possibilità di creazione e di espressione.

Pertanto Nietzsche dimentica del tutto che per i Greci il conflitto fra Apollo e Dioniso e la loro conciliazione finale non è mai stato un problema estetico, ma un problema religioso. Le dionisiache feste dei Satin erano in tutto simili a celebrazioni totemiche, con una retroidentificazione con antenati mitici o direttamente con l'animale totemico. In molti luoghi il culto di Dioniso aveva un'impronta mistico-speculativa, e in ogni caso esercitava una fortissima stimolazione religiosa. Il fatto che dalla cerimonia originariamente religiosa è derivata la tragedia ha lo stesso significato del rapporto che intercorre fra il nostro teatro moderno e le rappresentazioni medioevali della Passione e la loro base esclusivamente religiosa. Perciò non è lecito considerare unicamente l'aspetto estetico del problema.

L'estetismo è un occhiale moderno attraverso il quale i misteri psicologici del culto di Dioniso vengono visti in una luce nella quale gli antichi sicuramente non li hanno mai visti né vissuti. Sia in Schiller che in Nietzsche il punto di vista religioso è completamente trascurato. E’ sostituito da considerazioni estetiche. Ora, queste cose hanno senza dubbio un lato espressamente estetico, che non può essere trascurato. Tuttavia se si considera il cristianesimo medioevale unicamente sotto il profilo estetico se ne falsa ed esteriorizza il vero carattere, esattamente come se lo si esamina da un punto di vista esclusivamente storico. E’ possibile comprenderne la vera natura solo considerando per l'appunto la sua essenza. Allo stesso modo nessuno sosterrà di conoscere veramente la «essenza» di un ponte ferroviario del quale ha esaminato unicamente l'aspetto estetico. Lo stesso vale per il conflitto Apollo‑Dioniso. Se lo si considera una questione di pulsioni artistiche antitetiche, si trasferisce il problema ‑ in un modo storicamente e materialmente ingiustificato ‑ sul terreno estetico, dove viene sottoposto a un esame parziale che non può mai cogliere il suo reale contenuto.

Questo trasferimento ha senza dubbio un suo motivo e scopo psicologico. Scoprire il lato positivo di questo modo di procedere non è difficile: l'osservazione estetica trasforma immediatamente il problema in un'immagine che l'osservatore contempla rilevandone il bello e il brutto, e vivendo unicamente la passione dell'immagine a sicura distanza da ogni coinvolgimento sentimentale. L'impostazione estetica tutela dalla partecipazione, da quel coinvolgimento personale che la conoscenza religiosa del problema comporta. Assicura lo stesso vantaggio l'osservazione storica, alla cui critica Nietzsche ha dato una serie di preziosi contributi.

La possibilità di considerare un problema così ponderoso ‑ un «problema con le corna» come lo definisce Nietzsche ‑ da un punto di vista esclusivamente estetico è allettante perché la considerazione religiosa dello stesso, che in questo caso è l'unica adeguata, presuppone un'esperienza (presente o passata) che l'uomo moderno può vantare solo raramente. Ma Dioniso sembra essersi vendicato di Nietzsche ‑ si confronti il suo Tentativo di un'autocritica, che, essendo stato scritto nel 1886, precede e introduce la Nascita della Tragedia: «Ebbene, cosa è dionisiaco? La risposta è in questo libro, ‑ dove parla un "sapiente", l'iniziato e discepolo del suo Dio» Però Nietzsche lo era non quando scriveva La nascita della tragedia, ché allora era tutto preso dall'estetismo, lo era solo quando scriveva lo Zarathustra, e da convinto dionisiaco concludeva il memorabile passo con cui termina il suo Tentativo di un'autocritica dicendo:

«Elevate i vostri cuori, fratelli, portateli in alto, sempre più in alto! E non dimenticate le gambe! Alzate anche le gambe, da provetti ballerini quali siete, e, meglio ancora: reggetevi sulla testa!»

La particolare profondità con cui Nietzsche coglie il problema, nonostante l'autosicurezza estetica, è già così vicina alla realtà che la sua successiva esperienza dionisiaca ne sembra quasi l'inevitabile conseguenza. La sua critica a Socrate nella Nascita della Tragedia va attribuita al razionalista incapace di apprezzare l'orgiasmo dionisiaco. Questo atteggiamento corrisponde all' (analogo) errore che commette la considerazione estetica: tiene il problema lontano dal corpo.

Però malgrado la concezione estetica Nietzsche intravvide la vera soluzione del problema già quando scriveva che il conflitto fra gli opposti è superato non dall'arte ma da un metafisico «atto prodigioso» di ellenica «volontà». Mette la parola volontà tra virgolette probabilmente perché ‑ essendo allora fortemente influenzato da Schopenhauer intende riferirsi al concetto metafisico di volontà. Per noi «metafisico» ha il significato psicologico di «inconscio». Perciò se nella formula di Nietzsche al posto di «metafisico» mettiamo «inconscio», la chiave del problema risulta essere un «prodigioso atto» inconscio. Il «prodigio» è irrazionale, perciò quest'atto è un inconscio processo irrazionale, un prodotto nato spontaneamente senza l'intervento della ragione e dell'intenzione; si produce come un fenomeno di crescita della natura creatrice e non risulta da un processo ideativo della mente dell'uomo; è una nascita prodotta dall'attesa, dalla fede e dalla speranza. Per il momento abbandono questo problema perché nel prosieguo della nostra disamina avremo occasione di riprendere l'argomento con maggiori dettagli.

Vogliamo accingerci invece a esaminare più da vicino le qualità psicologiche dei concetti di apollineo e dionisiaco. Consideriamo per primo il dionisiaco. Dalla rappresentazione che Nietzsche ne fa è facile capire che per lui il dionisiaco è uno «sviluppo», un espandersi e defluire, una diastole, come dice Goethe, un movimento che comprende l'universo, lo stesso che Schiller descrive nell'ode Alla gioia:

Vi abbraccio tutti, quanti siete.

Mando questo bacio al mondo intero.

e più sotto

Di gioia si abbeverano tutti gli esseri

Alle mammelle della natura;

Tutti, buoni e cattivi,

Seguono la sua rasata traccia.

Baci essa ci ha dato e la vite,

Un'amica fedele fino alla morte;

Al verme fu data la voluttà

E il cherubino è al cospetto di Dio.

Questa è espansione dionisiaca. E’ il fluire di un poderoso sentimento universale che erompe incontenibilmente e ottenebra la mente come un vino fortissimo. E’ ebbrezza nel senso più nobile del termine.

A questo stato l'elemento psicologico del sentire, sia di quello sensoriale che di quello affettivo, partecipa in sommo grado. Si tratta quindi di una estroversione di quei sentimenti e sensazioni ancorati indifferenziatamente all'elemento del sentire che noi definiamo sensazioni affettive. Pertanto in questo stato esplodono prevalentemente pulsioni cieche che si esprimono con alterazioni della sfera fisica.

Per contro l'apollineo è una percezione delle immagini interne della bellezza, della misura e dei sentimenti contenuti entro debite proporzioni. Il paragone col sogno indica chiaramente il carattere dello stato apollineo: è uno stato di introspezione, di contemplazione interna del mondo onirico delle idee eterne, cioè uno stato di introversione.

Di conseguenza l'analogia coi nostri meccanismi è indubitale. Però se ci accontentassimo dell'analogia non riusciremmo a capire fino in fondo i concetti di Nietzsche.

Durante la nostra disamina stiamo vedendo che lo stato di introversione abituale comporta sempre anche una differenziazione del rapporto col mondo delle idee, quello di estroversione abituale una differenziazione del rapporto con l'oggetto. Nei concetti di Nietzsche questa differenziazione non figura. Il sentimento dionisiaco ha il carattere totalmente arcaico della sensazione affettiva. Perciò non ha un rapporto puro, differenziato, con quell'elemento mobile che nel tipo estroverso obbedisce ai suggerimenti della ratio e si offre ad essa come strumento.

Allo stesso modo il concetto di introversione di Nietzsche non ha un rapporto puro, differenziato, con l'idea affrancatasi sia dal sensorialmente condizionato, che dal creativamente prodotto, e diventata quindi una forma distillata e pura. L'apollineo è una percezione interna, una intuizione del mondo delle idee. Il paragone col sogno indica chiaramente che secondo Nietzsche l'apollineo è uno stato da un lato meramente contemplativo, dall'altro meramente immaginativo.

Queste caratteristiche significano un qualcosa di peculiare che è impossibile associare al nostro concetto di atteggiamento introverso o estroverso. Nell'individuo prevalentemente intellettivo lo stato apollineo di contemplazione delle immagini interne dà luogo a un'elaborazione del visionato conforme alla natura del pensiero intellettivo. Per cui nascono le idee. Nell'individuo prevalentemente affettivo ha luogo un processo analogo, una elaborazione delle immagini e la produzione di un'idea colorata di affettività che però può essenzialmente coincidere con l'idea nata dal pensiero. Quindi le idee, per esempio l'idea di patria, di libertà, di Dio, di immortalità ecc., sono sia pensiero che sentimento. Il principio di entrambe le elaborazioni è razionale e logico.

Però esiste anche un punto di vista completamente diverso, partendo dal quale l'elaborazione logico‑razionale non è valida. E’ il punto di vista estetico. Nell'introversione esso si sofferma a considerare le idee, sviluppa l'intuito, la visione interna; nell'estroversione si sofferma sulla sensazione e sviluppa i sensi, l'istinto, la eccitabilità. Per questo punto di vista né il pensare né il sentire sono il principio della percezione interna delle idee; per esso pensare e sentire sono un mero derivato della visione interna o della percezione sensoriale.

Quindi i concetti di Nietzsche ci portano ai principi di un terzo e di un quarto tipo psicologico che, contrapponendoli ai tipi razionali (intellettivo e sentimentale), potremmo definire tipi estetici. Sono il tipo intuitivo e quello sensitivo o percettivo. Questi due tipi hanno in comune coi tipi razionali il momento della introversione o della estroversione, però senza differenziare da un lato ‑ come il tipo intellettivo ‑ in pensiero la percezione e concezione delle immagini interne; dall'altro ‑ come il tipo affettivo ‑ in sentimento il contenuto affettivo delle immagini interne. L'intuitivo eleva invece a funzione differenziata la percezione inconscia, alla quale deve anche il suo adattamento al mondo. L'intuitivo si adatta obbedendo a direttive inconsce che riceve da una percezione (e interpretazione) particolarmente acuta e sottile di moti oscuramente consci.

Naturalmente descrivere il modo in cui tale funzione si manifesta, dato il suo carattere irrazionale e per così dire inconscio, è difficile. Questa funzione potrebbe essere paragonata al daimonion di Socrate; però con la differenza che l'atteggiamento singolarmente razionalistico di Socrate rimuoveva il più possibile la funzione dell'intuito, per cui esso era costretto ad imporsi concretamente, allucinatoriamente perché non aveva un accesso psicologico diretto alla coscienza. Ma nell'intuitivo avviene proprio questo.

Il tipo sensitivo è sotto ogni aspetto l'inverso di quello intuitivo. Questo tipo si affida esclusivamente all'elemento percezione sensoriale. Siccome la sua psicologia si fonda su impulsi e sensazioni, questo tipo non può fare a meno dello stimolo reale.

Il fatto che Nietzsche mette in evidenza da un lato proprio la funzione psicologica dell'intuito, dall'altro quella della sensorialità probabilmente caratterizza la sua psicologia personale. Nietzsche può essere annoverato fra i tipi intuitivi con propensione per la introversione. Dimostra che è un intuitivo il carattere artistico‑intujzjonale della sua produzione, in particolare lo scritto sulla Nascita della tragedia e, in misura ancora maggiore, il suo capolavoro, Così parlò Zarathustra.

Sono una dimostrazione del suo intellettualismo introverso i suoi scritti aforistici che, nonostante una marcata impronta affettiva, evidenziano un intellettualismo espressamente critico, come quello degli intellettuali francesi del XVIII secolo. Depone in generale per il tipo intuitivo la carente moderazione e chiusura razionale. Stando così le cose, non sorprende il fatto che nella sua prima opera ponga inconsciamente in primo piano gli eventi della propria psicologia personale. Questo corrisponde all'atteggiamento intuizionale che al di là dell'interno percepisce in primo luogo l'esterno, talvolta persino a scapito della realtà.

Anche grazie a questo atteggiamento Nietzsche riuscì a comprendere a pieno le qualità dionisiache del proprio inconscio, la cui forma bruta tuttavia, per quanto ci risulta, dopo essersi già rivelata con molteplici allusioni erotiche nei suoi scritti, sali alla superficie della coscienza solo quando esplose la sua malattia. Pertanto dal punto di vista psicologico è davvero deplorevole che gli scritti, molto indicativi in questo senso, che furono trovati quando cadde ammalato, siano stati distrutti per perplessità di ordine estetico‑morale.

G. Jung

Tipi psicologici

Newton Compton, Roma 2009