E. J. Hobsbwam

Il trionfo della borghesia

Cap. IX CAMBIARE LA SOCIETÀ (pp. 191-208)

Secondo [i comunisti]: «Da ognuno secondo le sue capacità, a ognuno secondo i suoi bisogni ». In altre parole, nessuno deve approfittare della sua forza, capacità o solerzia, ma venire incontro alle esigenze del debole, dello stolto o dello sfaticato. Sir T. Erskine May, 1877 l

Il governo lascia le mani di coloro che possiedono per passare nelle mani di coloro che non possiedono, da coloro che hanno un interesse materiale nella conservazione della società a coloro ai quali l'ordine, la stabilità, la conservazione non interessano affatto [...]. Forse, nella grande legge del cambiamento nelle cose di quaggiù, per le società moderne gli operai sono quel che sono stati i Barbari per le società antiche, agenti convulsivi di dissoluzione e distruzione? I Goncourt, durante la Comune di Parigi 2

Con il trionfo del capitalismo e della società borghese, le prospettive di soluzioni alternative ad essi si allontanarono, malgrado l'emergere di una politica popolare e di movimenti operai. Tali prospettive non sarebbero potute certo sembrare meno promettenti di così, diciamo, nel 1872-1873. Eppure, nel giro di pochi anni l'avvenire della società che aveva celebrato un così spettacoloso trionfo tornò ad apparire fosco ed incerto, e si dovettero nuovamente prendere sul serio i movimenti intesi a soppiantarla o ad abbatterla. Dobbiamo perciò considerare i movimenti a favore di una radicale trasformazione sociale e politica apparsi nell'ultimo venticinquennio del secolo XIX. Non si tratta soltanto di scrivere la storia col senno di poi, benché non vi sia ragione che lo storico si privi della sua carta più preziosa, per la quale chiunque scommetta od investa darebbe la pupilla dei suoi occhi, cioè la conoscenza di quanto è avvenuto in seguito: si tratta anche di scrivere la storia così come la videro i contemporanei.

È raro che i ricchi e i potenti abbiano tanta fiducia in sé, da non temere che il loro dominio abbia fine. Quel che è più, il ricordo della rivoluzione era forte e recente. Chiunque fosse sulla quarantina nel 1868, era vissuto attraverso la più grande rivoluzione europea intorno ai vent'anni. Chiunque ne avesse cinquanta, era vissuto attraverso le rivoluzioni del 1830 da ragazzo, e attraverso quelle del 1848 da adulto. Italiani, spagnoli, polacchi ed altri ancora erano vissuti attraverso insurrezioni, rivoluzioni, o eventi con una forte componente insurrezionale (come la liberazione dell'Italia del Sud ad opera di Garibaldi), nell'arco dell'ultimo quindicennio. Nessuna meraviglia che la speranza, o la paura, della rivoluzione fosse ancora forte e viva. Oggi sappiamo che non aveva molta consistenza negli anni successivi al 1848. Scrivere di rivoluzione sociale in quei decenni, in realtà, è un po' come scrivere di serpi in Inghilterra: esistono, ma non come parte importante della fauna. La rivoluzione europea, così vicina — forse così reale — nei grandi anni di speranza e delusione, scomparve dalla vista.

Marx ed Engels, come sappiamo, avevano sperato in una sua rinascita negli anni immediatamente successivi, e anticiparono un'altra esplosione generale all'indomani, e per effetto, della depressione economica mondiale del 1857. Quando essa non si verificò, cessarono di aspettarla in un futuro concretamente prevedibile, e certo non nella forma di un altro '48. È un grave errore, naturalmente, supporre che Marx fosse divenuto per questo una specie di gradualista socialdemocratico (nel senso moderno del termine), o che si immaginasse un passaggio al socialismo, quando fosse avvenuto, in forma pacifica. Anche nei paesi nei quali gli operai potevano mostrarsi in grado di prendere pacificamente il potere vincendo le elezioni (egli citava a questo proposito gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e, forse, i Paesi Bassi), tale conquista, e la distruzione del vecchio ordine e delle sue istituzioni da lui ritenuta essenziale, avrebbero scatenate, pensava, la violenta resistenza delle classi già dominanti. E in questo era indubbiamente realistico. I governi e le classi dominanti potevano essere disposti ad accettare un movimento operaio che non ne minacciasse il dominio, ma non v'era ragione alcuna di supporre, in specie dopo la sanguinosa repressione della Comune parigina, che fossero disposti ad accettarne uno che lo minacciasse davvero.

Comunque, le prospettive di rivoluzione, non parliamo poi di rivoluzione socialista, nei paesi sviluppati d'Europa, non erano più materia di politica pratica, e, come abbiamo visto, Marx non ci contava neppure in Francia. Il futuro immediato nei paesi capitalistici europei risiedeva per lui nell'organizzazione di partiti operai indipendenti di massa, con rivendicazioni politiche a breve termine non-rivoluzionarie. Quando illustrò ad un intervistatore americano il programma della socialdemocrazia tedesca (Gotha, 1875), egli tralasciò la sola clausola che contemplasse un avvenire socialista (« istituzione di cooperative di produzione socialiste [...] sotto il controllo democratico dei lavoratori») come pura concessione tattica ai lassalliani, osservando che il socialismo «sarà il risultato del movimento. Ma è questione di tempo, di istruzione, e di sviluppo di forme sociali superiori »3.

Questo avvenire di una lontananza imprevedibile poteva tuttavia essere sensibilmente avvicinato da sviluppi ai margini piuttosto che al centro della società borghese. Dai tardi anni Sessanta, Marx cominciò a considerare seriamente questa strategia di un approccio indiretto al traguardo di un rovesciamento della società borghese, lungo tre direttrici, due delle quali dovevano rivelarsi profetiche ed una sbagliata: rivoluzione coloniale, Russia, Stati Uniti. La prima divenne parte integrante dei suoi calcoli in seguito alla nascita del movimento rivoluzionario irlandeseLa Gran Bretagna era allora decisiva per il futuro della rivoluzione proletaria, perché era la metropoli del capitale, la dominatrice del mercato mondiale e, nello stesso tempo, « l'unico paese nel quale le condizioni materiali di questa rivoluzione si siano sviluppate fino a un certo grado di maturità »4. Scopo prioritario dell'Internazionale doveva perciò essere di accelerare la rivoluzione inglese, e il solo mezzo per riuscirvi era la conquista dell'indipendenza dell'Irlanda. La rivoluzione irlandese (o, più in generale, la rivoluzione di popoli soggetti) era considerata non come fine in sé, ma come possibile acceleratrice della rivoluzione nei paesi borghesi d'importanza cruciale; come il tallone d'Achille del capitalismo metropolitano.

Il ruolo della Russia doveva essere, forse, più ambizioso. Dal 1860 in poi, come vedremo, una rivoluzione russa divenne non solo una possibilità, ma una probabilità; forse, perfino una certezza. Mentre però nel 1848 un'eventualità simile sarebbe stata la benvenuta unicamente perché toglieva di mezzo l'ostacolo maggiore sulla via del trionfo di una rivoluzione occidentale, ora assunse un'importanza sua propria. Una rivoluzione russa poteva infatti dare «il segnale ad una rivoluzione proletaria in Occidente, in modo che entrambe si completino a vicenda » (come scrissero Marx ed Engels nella prefazione all'edizione russa 1882 del Manifesto del Partito Comunista)5. Non solo, ma non era inconcepibile — benché Marx non si vincolasse mai del tutto a questa ipotesi — che portasse in Russia a un passaggio diretto dalla comune di villaggio ad uno sviluppo in senso comunista, saltando al disopra dello stadio di un capitalismo maturo. Come Marx previde esattamente, una Russia rivoluzionaria cambiava le prospettive di rivoluzione in ogni altro paese.

Il ruolo degli Stati Uniti doveva essere meno centrale. Il loro possibile effetto più importante era negativo: quello di spezzare col loro sviluppo massiccio il monopolio industriale dell'Occidente europeo, in particolare della Gran Bretagna, e, grazie alle loro esportazioni di derrate agricole, scuotere le basi della proprietà fondiaria grande e piccola. Prognosi esatta, naturalmente. Ma avrebbe dato un contributo positivo al trionfo della rivoluzione? Negli anni Settanta, Marx e Engels si aspettavano certo, e non irrealisticamente, una crisi nel sistema politico degli Stati Uniti, in quanto la crisi agraria avrebbe indebolito i farmers, «base dell'intera Costituzione», mentre la presa crescente degli speculatori e del big business sulla vita politica avrebbe suscitato nei cittadini un senso profondo di disgusto e di rivolta. Sottolinearono inoltre le tendenze alla formazione di un movimento proletario di massa in America. Forse non si aspettavano grandi cose da queste tendenze, malgrado l'ottimismo espresso da Marx quando scriveva ad Engels che negli Stati Uniti «il popolo è più deciso che in Europa [...]. Tutto matura più in fretta»6. Ma sbagliarono nell"appaiare gli Stati Uniti e la Russia come i due grandi paesi che il Manifesto del '48 aveva trascurati, perché il loro sviluppo futuro doveva essere profondamente diverso.

Sulle concezioni di Marx pesano i suoi trionfi postumi. All'epoca, esse non rappresentavano alcuna forza politica seria, benché nel 1875 fossero ormai visibili due sintomi della sua influenza successiva: un forte partito socialdemocratico tedesco, e una drammatica penetrazione delle sue teorie — inattesa da lui,ma retrospettivamente non tale da doverci stupire — nell'intel-ligentsija russa. Nei tardi anni Sessanta, e ai primi dei Settanta, al «red doctor» si attribuiva talvolta la responsabilità di tutte le iniziative dell'Internazionale, di cui senza dubbio era la figura di gran lunga più temibile e l'eminenza grigia. Senonché, come abbiamo visto, l'Internazionale non era affatto un movimento marxista o neppure tale da comprendere più di un pugno di seguaci di Marx, in maggioranza emigrati tedeschi della sua generazione: consisteva in un miscuglio di gruppi di estrema sinistra uniti in primo luogo, e forse esclusivamente, dal comune tentativo di organizzare «gli operai» — e con successo notevole benché non sempre duraturo. Le loro idee rappresentavano sia una sopravvivenza del 1848 (o perfino del 1789, così come si erano trasformate fra il 1830 e il 1848), sia alcune anticipazioni dei movimenti operai riformisti, sia infine una peculiare sottovarietà del sogno rivoluzionario, l'anarchismo.

In un certo senso, all'epoca tutte le teorie rivoluzionarie erano, e dovevano essere, dei tentativi di fare i conti con le esperienze del '48. Ciò vale per Marx come per Bakunin, per i comunardi parigini come per i populisti russi di cui parleremo più avanti. Si sarebbe potuto dire che tutte uscivano dal fermento degli anni 1830-1848, se dallo spettro della sinistra uno dei colori prequarantotteschi non fosse scomparso per sempre: il socialismo utopistico. Le principali correnti utopistiche avevano cessato di esistere in quanto tali. Il sansimonismo aveva spezzato i suoi legami con la sinistra trasformandosi nel «positivismo» di Auguste Comte (1798-1857) e in un'esperienza giovanile vissuta in comune da un gruppo di avventurieri-capitalisti, per lo più francesi. I seguaci di Robert Owen (1771-1858) avevano rivolto le loro energie intellettuali allo spiritualismo ed al laicismo; le loro energie pratiche, al campo modesto dei magazzini cooperativi. Fourier, Cabet e gli altri ispiratori di comunità comuniste, prevalentemente nel paese della libertà e delle opportunità sconfinate, erano caduti in oblio. Lo slogan di Horace Greeley (1811-1872) «Go West Young Man» (Vattene nel West, giovanotto!) aveva più successo dei suoi precedenti fourieristi. Il socialismo utopistico non sopravvisse al 1848.

Gli sopravvisse invece la progenie intellettuale della rivoluzione francese: dai repubblicani radical-democratici (che mettevano l'accento ora sulla liberazione nazionale, ora sull'interesse per le questioni sociali) fino ai comunisti giacobini dello stampo di un L. A. Blanqui, che usciva a intermittenze e per breve ora dal carcere non appena una rivoluzione in Francia lo liberava. Questa sinistra tradizionale non aveva imparato né dimenticato nulla. Alcuni dei suoi estremisti nella Comune di Parigi non riuscirono a pensare a nulla di meglio che a riprodurre con la maggiore esattezza possibile gli eventi della Grande Rivoluzione. Deciso e organizzato in modo clandestino, il blanquismo sopravvisse in Francia ed ebbe una parte cruciale nella Comune; ma fu questo il suo canto del cigno. Esso non recitò mai più una parte indipendente e di rilievo, e finì per perdersi fra le tendenze contrastanti del nuovo movimento socialista francese.

Il radicalismo democratico mostrò una maggior capacità di resistenza, perché il suo programma dava espressione fedele alle aspirazioni dell'«uomo della strada» (bottegai, insegnanti, contadini), presentava una delle componenti essenziali delle aspirazioni dei lavoratori, e conferiva un utile appello alle candidature liberali. Libertà, eguaglianza e fratellanza possono essere degli slogans non molto precisi, ma le persone povere e modeste che si trovavano di fronte i ricchi e i potenti ne capivano il senso. Anche là dove il programma ufficiale del radicalismo democratico si era realizzato in una repubblica poggiante sul suffragio universale ed eguale, come negli Stati Uniti7, il bisogno del «popolo» di esercitare un potere effettivo contro i ricchi e contro i corrotti teneva sempre viva la passione democratica. Ma, naturalmente, il radicalismo democratico non era una realtà in nessun altro paese, neppure nella sfera modesta del governo locale.

E tuttavia, in questo periodo la stessa democrazia radicale aveva ormai cessato d'essere uno slogan rivoluzionario in sé, per divenire più che altro un mezzo, benché non automatico, rivolto a un fine. La repubblica rivoluzionaria era la «repubblica sociale», la democrazia rivoluzionaria era la «socialdemocrazia» — titolo sempre più adottato dai partiti marxisti. La cosa non era affatto così ovvia fra i rivoluzionari essenzialmente nazionalisti, come i mazziniani in Italia, i quali credevano che la conquista dell'indipendenza e l'unificazione (sulla base del repubblicanismo democratico) avrebbero risolto in qualche modo tutti gli altri problemi. Il vero nazionalismo era automaticamente democratico e sociale, o non era vero. Ma gli stessi mazziniani si guardavano bene dall'escludere dal loro programma la liberazione sociale, e Garibaldi non esitava a dichiararsi socialista, qualunque cosa intendesse con questo termine. In realtà, dopo le delusioni e dell'unità e del repubblicanismo, i quadri del nuovo movimento socialista usciranno proprio dalle file degli ex repubblicani radicali.

Per quanto lo si possa ricondurre al fermento rivoluzionario del 1840-1850, l'anarchismo è assai più chiaramente un prodotto del periodo successivo al 1848 o, per essere più precisi, degli anni Sessanta. I suoi due fondatori politici furono il francese J.-P. Proudhon, un autodidatta e scrittore prolisso, alieno dall'agitazione politica diretta, e il russo Michail Bakunin, un aristocratico peripatetico che invece non perdeva occasione per tuffarvisi8. Entrambi, fin dall'inizio, attrassero la sfavorevole attenzione di Marx e, pur ammirandolo, ne ricambiarono l'ostilità. La dottrina asistematica, carica di preconcetti e profondamente illiberale di Proudhon — era insieme antifemminista e antisemita, e l'estrema destra non ha poi mancato di rivendicarlo — non presenta in sé grande interesse, ma fornì al pensiero anarchico due temi importanti: la fede in piccoli gruppi di produttori che si aiutano l'un l'altro, invece di fabbriche disumanate, e l'odio per il governo in quanto tale, per qualunque governo. Queste idee esercitavano una forte attrazione sui piccoli artigiani, gli operai specializzati ma relativamente autonomi che resistevano al processo di proletarizzazione, gli uomini che nelle città sempre più vaste non avevano dimenticato la loro fanciullezza contadina o provinciale, le regioni alla periferia dell'industrialismo avanzato; e su quegli uomini e su quelle terre l'anarchismo influì nel modo più diretto: era fra gli orologiai della «Federazione del Giura», in villaggi e borgate svizzere, che si potevano trovare i più devoti partigiani anarchici della Prima Internazionale.

Bakunin aggiunse ben poco a Proudhon come pensatore, eccetto una passione inestinguibile per la rivoluzione — «la voluttà di distruzione», diceva, «è nello stesso tempo una voluttà creatrice» — uno sconsiderato entusiasmo per le potenzialità rivoluzionarie di delinquenti comuni e socialmente marginali, un vivo senso della classe contadina, e un certo numero di potenti intuizioni. Non era tanto un pensatore, quanto un profeta, un agitatore e — malgrado l'antipatia degli anarchici per l'organizzazione disciplinata come preannunzio della tirannide statale — un formidabile organizzatore clandestino. In tale qualità, egli diffuse il movimento anarchico in Italia, in Svizzera e (attraverso suoi discepoli) in Spagna, organizzò quella che doveva rivelarsi la definitiva scissione dell'Internazionale nel 1870-1872, e fu quindi il vero creatore di un movimento anarchico in senso proprio, giacché la corrente proudhoniana (francese) era poco più di una forma sottosviluppata di tradunionismo, mutuo soccorso e cooperazione, e, politicamente, in sé non molto rivoluzionaria. Non che l'anarchismo, alla fine del nostro periodo, rappresentasse una forza imponente. Ma aveva messo radici in Francia e nella Svizzera romanda, disponeva di alcuni nuclei di influenza in Italia e, soprattutto, aveva fatto sorprendenti progressi in Spagna, dove sia gli artigiani e gli operai della Catalogna, sia i lavoratori agricoli dell'Andalusia avevano accolto con entusiasmo il nuovo vangelo, e dove esso si fuse con la credenza autoctona che, una volta eliminata la sovrastruttura dello Stato e delle classi ricche, i villaggi e le officine avrebbero funzionato da sé nel migliore dei modi, e che l'ideale di un paese composto di comuni autonomi fosse facilmente realizzabile. In effetti, il movimento «cantona-lista» durante la Repubblica spagnola del 1873-1874 cercò di realizzarlo, e il suo massimo ideologo, F. Pi y Margall (1824-1901), sarà infine accolto nel pantheon anarchico insieme a Bakunin, Proudhon — e Herbert Spencer.

Perché l'anarchismo era insieme una rivolta del passato preindustriale contro il presente, e un figlio di questo stesso presente. Esso respingeva la tradizione, sebbene la natura intuitiva e spontanea sia del pensiero che del movimento lo portasse a conservare — forse perfino ad accentuare — un certo numero di elementi tradizionali come l'antisemitismo o, più in generale, la xenofobia, che si ritrovano tanto in Proudhon quanto in Bakunin. Nello stesso tempo, odiava la religione e le chiese, e faceva propria la causa del progresso (comprese la scienza e la tecnica), della ragione, e, forse sopra ogni altra cosa, dell'istruzione. E, nel suo rifiuto di qualunque autorità, tendeva paradossalmente a convergere con l'ultra-individualismo del borghese tipo laissez-faire, che pure la rifiutava. Dal punto di vista ideologico, Spencer — che doveva scrivere Man against State [Uomo contro Stato] — non era meno anarchico di Bakunin. L'unica cosa che l'anarchismo non rappresentava era il futuro, sul quale non aveva nulla da dire se non che presupponeva l'avvento della rivoluzione.

L'anarchismo non ha avuto e non ha grande importanza politica (fuori di Spagna) e ci interessa essenzialmente come specchio deformante dell'epoca. Il movimento rivoluzionario più interessante del periodo fu il ben diverso populismo russo. Non era allora e non diventò mai un movimento di massa, e i suoi più clamorosi atti di terrorismo, culminati nell'assassinio dello zar Alessandro II (1881), avvennero dopo la fine del periodo qui considerato. Ma è il capostipite sia di un'importante famiglia di movimenti dei paesi arretrati nel secolo XX, sia del bolscevismo russo, fornendo un anello diretto di congiunzione fra il rivoluzionarismo degli anni Trenta e Quaranta e quello del 1917 — più diretto, forse si può sostenere, della Comune di Parigi. Essendo inoltre composto quasi esclusivamente di intellettuali in un paese in cui ogni vita intellettuale seria era politica, venne immediatamente proiettato sullo schermo della letteratura universale dai due scrittori di genio che ne furono contemporanei: Turgenev (1818-1883) e Dostoevskij (1821-1881). Ben presto, anche i contemporanei occidentali sentirono parlare dei «nichilisti» e li confusero con gli anarchici bakuniniani — errore ben comprensibile, dato che Bakunin amava sguazzare nel movimento rivoluzionario russo come in tutti gli altri e per qualche tempo si trovò coinvolto con un personaggio squisitamente dostoevskiano (in Russia, vita e letteratura tendevano a fondersi), il giovane araldo di una fede quasi patologica nel terrore e nella violenza, Sergei Gennadevic Necaev. Ma il populismo russo non era affatto anarchico.

Che la Russia «dovesse» fare una sua rivoluzione non era seriamente messo in dubbio da nessuno in Europa, dai liberali più moderati fino all'estrema sinistra. Il suo regime politico, un'autocrazia tutta d'un pezzo sotto Nicola I (1825-1855), era un anacronismo fin troppo evidente, ed era impossibile che, alla lunga, non crollasse. Lo mantenevano al potere l'assenza di qualcosa di simile ad una forte borghesia e, soprattutto, la fedeltà o passività tradizionale di una classe contadina arretrata e in gran parte servile, che accettava il dominio della nobiltà perché così voleva Iddio, perché lo zar rappresentava la Santa Russia, ed anche perché la si lasciava largamente condurre in pace i propri affari, per modesti che fossero, tramite le potenti comunità di villaggio, sulla cui esistenza ed importanza osservatori sia russi che stranieri avevano cominciato a richiamare l'attenzione fin dagli anni 1840. I contadini russi non erano contenti: a parte la loro miseria, a parte le angherie subite dai padroni, essi non avevano mai accettato il diritto dei nobili a possedere terreni (è vero — pensavano — che il contadino apparteneva al signore, ma il suolo apparteneva al contadino, perché era lui a coltivarlo). Erano semplicemente inattivi od impotenti. Se si fossero scossi dal loro passivismo, se fossero insorti, sarebbe stata dura, per lo zar e per le classi dominanti in Russia. E, se la sinistra ideologica e politica ne avesse mobilitato il malcontento, si sarebbe assistito non ad una semplice ripetizione delle grandi sommosse dei secoli XVII e XVIII — quella «pugacèvscina» che ossessionava i governanti zaristi — ma ad una rivoluzione sociale.

Dopo la guerra di Crimea, una rivoluzione russa non sembrò più soltanto desiderabile; divenne sempre più probabile. Fu questa la più grande novità del decennio 1860-1870. Il regime che, per quanto reazionario e inefficiente, era parso fin allora internamente stabile ed esternamente forte, immune alla rivoluzione continentale del 1848 e perfino in grado di scagliarle contro nel 1849 i suoi eserciti, si rivelava ora internamente più instabile, ed esternamente più debole, di quanto non si fosse supposto. Il suo vero tallone d'Achille era insieme politico ed economico, e nelle riforme di Alessandro II (1855-1881) si potevano riconoscere non tanto i rimedi quanto i sintomi delle sue debolezze. In realtà, l'emancipazione dei servi (1861) creò le condizioni di un contadiname rivoluzionario, mentre le riforme amministrative, giudiziarie ed altre dello stesso zar (1864-1870) non riuscirono né a rafforzare l'autocrazia zarista né a compensare la perdita crescente del suo tradizionale prestigio. Una rivoluzione in Russia non era ormai più una prospettiva utopistica.

Data la gracilità della borghesia e (a questo stadio) del nuovo proletariato industriale, solo uno strato sociale esiguo ma ben definito era in grado di condurre un'agitazione politica, e negli anni Sessanta esso acquisì ad un tempo coscienza di sé, legami col radicalismo politico, e un nome: intelligentsija. Probabilmente, la sua stessa esiguità valse a far sì che questo gruppo di uomini di cultura superiore si sentisse una forza compatta ed omogenea: ancora nel 1897, le «persone colte» erano non più di un centinaio di migliaia di uomini e poco più di seimila donne in tutta la Russia9: era un piccolo numero, ma tendeva rapidamente a crescere. Nel 1840, Mosca contava in tutto poco più di 1.200 insegnanti, medici, avvocati e persone attive in campo artistico; nel 1882, ospitava già 5.000 precettori, 2.000 medici, 500 avvocati e 1.500 persone « nelle arti ». Ma il punto significativo è che essi non andavano ad ingrossare le file delle classi dedite agli affari, cosa che nel secolo XIX non richiedeva, salvo in Germania, nessun titolo accademico, se non forse un certificato di avanzamento sociale; né trovavano rifugio nel solo grande datore di lavoro per gli intellettuali, la burocrazia. Dei 333 laureati a Pietroburgo nel 1848-1850, solo novantasei scelsero la carriera di funzionari di Stato.

Due cose caratterizzavano l’intelligentsija russa rispetto alle altre varianti di intellettuali europei: il fatto di riconoscersi (e di essere riconosciuta) come gruppo sociale a sé, e un radicalismo politico più socialmente che nazionalmente orientato. Il primo tratto la distingueva dall'intellettualità occidentale, rapidamente assorbita nella borghesia dominante e nella ideologia liberale o democratica prevalente: a parte la bohème letteraria e artistica, una sottocultura autorizzata o quanto meno tollerata, non esistevano gruppi rilevanti di contestatori, e la dissidenza bohémienne era solo marginalmente politica. Anche le università, così rivoluzionarie fino al (e nel) 1848, erano divenute politicamente conformiste: poteva mai essere diverso, nell'era del trionfo borghese? Il secondo tratto la distingueva dagli intellettuali dei popoli emergenti d'Europa, le cui energie politiche erano quasi esclusivamente impegnate nel nazionalismo, cioè nella lotta per costruire una società borghese e liberale in cui potersi integrare. L’intelligentsija russa non poteva seguire la prima strada, dato che la Russia non era, chiaramente, una società borghese, e il sistema zarista faceva persino del liberalismo moderato uno slogan da rivoluzione politica: le riforme di Alessandro II negli anni Sessanta — l'emancipazione dei servi, le innovazioni in campo giudiziario e scolastico, l'introduzione di una certa misura di governo locale per la piccola nobiltà fondiaria (gli zemstvo del 1864) e le città (1870) — erano troppo timide e limitate per mobilitare durevolmente l'entusiasmo potenziale dei riformatori; e in ogni caso quella fase innovatrice ebbe breve vita. Ma non seguirono neppure la seconda via, non tanto perché la Russia fosse già una nazione indipendente, o perché mancassero di orgoglio nazionale, ma perché le parole d'ordine del nazionalismo russo — la Santa Russia, il panslavismo, ecc. — erano già monopolizzate dallo zar, dalla Chiesa e da tutto ciò che era reazionario. Il Pierre Bezuhov di Tolstoj (1828-1910), il personaggio sotto certi aspetti più russo di Guerra e Pace, era stato costretto a cercare idee cosmopolitiche, e perfino a difendere l'invasore Napoleone, perché scontento della Russia così com'era; i suoi nipoti e pronipoti spirituali, l’intelligentsija del 1850-1870, dovettero seguirne l'esempio.

Nativi di quello che era per eccellenza il paese arretrato d'Europa, furono, come non potevano non essere, modernisti, cioè «occidentalizzatori». Ma non potevano essere soltanto questo, sia perché, all'epoca, il liberalismo e il capitalismo occidentali non fornivano un modello valido per la Russia, sia perché qui la sola forza di massa potenzialmente rivoluzionaria era il contadiname. Il risultato fu il «populismo», che per breve tempo tenne in precario equilibrio questa contraddizione. (E, in tale ruolo, esso getta un vivido fascio di luce sui movimenti rivoluzionari del Terzo Mondo alla metà del nostro secolo). Il rapido sviluppo del capitalismo in Russia dopo il periodo qui considerato, che ebbe per conseguenza la rapida espansione di un proletariato industriale organizzabile, parve dover superare le incertezze dell'era populista, e il brusco tramonto della fase eroica del populismo — grosso modo, fra il 1868 e il 1881 — favorì i ripensamenti teorici. I marxisti, emersi dalle rovine del populismo, erano, almeno in teoria, occidentalisti puri. La Russia, essi sostenevano, avrebbe seguito la stessa via dell'Occidente generando le stesse forze di trasformazione sociale e politica — una borghesia che avrebbe instaurato una repubblica democratica, un proletariato che le avrebbe scavato la fossa. Ma presto alcuni di loro si resero conto — durante la rivoluzione del 1905 — che questa prospettiva era irrealistica. La borghesia russa sarebbe stata troppo debole per recitare la sua parte storica, e il proletariato, con l'appoggio dell'irresistibile forza della classe contadina, avrebbe abbattuto, sotto la guida di «rivoluzionari di professione», sia lo zarismo, sia un capitalismo immaturo e condannato.

1 populisti erano modernizzatori. La Russia dei loro sogni era nuova — una Russia del progresso, della scienza, della cultura e di una produzione rivoluzionata — ma socialista, non capitalista. Doveva però basarsi sulla istituzione popolare più antica e tradizionale, l’obscina, o comune di villaggio, che quindi sarebbe divenuta la progenitrice diretta e il modello della società socialista. Negli anni Settanta, gli intellettuali populisti chiesero ripetutamente a Marx, le cui teorie avevano fatto proprie, se riteneva possibile una tale eventualità, e Marx lottò con questa tesi suggestiva ma, alla luce delle sue teorie, non plausibile, concludendo con molte esitazioni che forse possibile era. D'altra parte, la Russia doveva respingere le tradizioni dell'Europa occidentale — compresa l'intelaiatura delle sue dottrine liberali e democratiche —, perché non le possedeva. Infatti anche l'aspetto del populismo che più direttamente e in modo più tangibile si ricollegava al rivoluzionarismo occidentale del periodo 1789-1848 era in un certo senso nuovo e diverso.

Gli uomini e le donne che si organizzarono in associazioni cospirative segrete per abbattere lo zarismo mediante l'insurrezione e il terrore erano qualcosa più che gli eredi dei giacobini, o che i rivoluzionari di professione loro discendenti. Essi dovevano spezzare ogni legame con la società esistente per dedicare tutta la vita al «popolo» e alla sua rivoluzione, per penetrare nelle sue file ed esprimerne la volontà. C'era, nella loro devozione, un'intensità non-romantica, una totalità, di auto-sacrificio, che non aveva nessun equivalente nel mondo occidentale. Essi erano più vicini a Lenin che a Buonarroti. E reclutarono i loro primi quadri, come tanti movimenti rivoluzionari successivi, fra gli studenti, soprattutto gli studenti poveri che cominciavano ad entrare nelle università non più limitate ai figli di nobili.

Gli attivisti del nuovo movimento rivoluzionario erano, in realtà, «uomini nuovi» più che figli di nobili. Dei 924 incarcerati od esiliati fra il 1873 e il 1877, solo 279 venivano da famiglie aristocratiche, 117 da funzionari non-nobili, e 33 da mercanti; 68 erano ebrei, 92 appartenevano a quella che si può meglio definire la piccola borghesia urbana {mescane), 138 erano nominalmente contadini — ma presumibilmente di analoghi ambienti urbani —, non meno di 197 figli di sacerdoti. Colpiva in particolare il numero delle ragazze: non meno del 15% dei 1.600 circa propagandisti arrestati in quegli stessi anni, era formato da donne 10. All'inizio, il movimento oscillava fra il terrorismo anarchicheggiante da piccoli gruppi (sotto l'influenza di Bakunin e Necaev) e l'opera di educazione politica di massa fra « iJ popolo »; ma quella che infine prevalse fu l'organizzazione cospirativa segreta rigidamente disciplinata e centralizzata di stampo giacobino-blanquista, elitaria in pratica qualunque ne fosse la teoria, che anticipava quella dei bolscevichi.

L'importanza del populismo non sta né in quel che realizzò, che fu nulla o quasi nulla, né nel numero delle persone che riuscì a mobilitare, che non furono mai più di qualche migliaio, ma nel fatto che segnò l'inizio di una storia continua di agitazione rivoluzionaria, destinata nel giro di cinquant'anni a rovesciare Io zarismo e ad instaurare il primo regime della storia impegnato nell'edificare il socialismo. Fu il sintomo della crisi che, fra il 1848 e il 1870, trasformò la Russia zarista — rapidamente e, per la maggioranza degli osservatori occidentali, contro ogni previsione — dal pilastro incrollabile della reazione mondiale in un gigante dai piedi di argilla, sicuro d'essere abbattuto prima o poi dalla rivoluzione. Ma fu qualcosa di più: il laboratorio chimico, per così dire, in cui tutte le idee rivoluzionarie importanti del secolo XIX vennero messe alla prova, combinate, e sviluppate in quelle del secolo XX. Indubbiamente, ciò si deve in larga misura alla fortunata circostanza — le cui ragioni restano misteriose — d'essere coinciso con una delle più brillanti e straordinarie esplosioni di vita e creatività intellettuale e culturale nella storia del mondo. I paesi arretrati che cercano di farsi strada ammodernandosi sono di norma imitativi e non originali nelle loro idee, benché non necessariamente nella loro azione pratica. Spesso non discriminano molto nelle loro scelte: gli intellettuali brasiliani e messicani attinsero acriticamente ad Auguste Comte, gli spagnoli, in questo stesso periodo, ad un oscuro e secondario filosofo tedesco dei primi anni del secolo, Karl Krause, di cui fecero un ariete dell'illuminismo anticlericale. La sinistra russa non prese solo contatto col pensiero migliore e più progredito dell'epoca, e lo fece proprio — gli studenti di Kazan leggevano Marx prima ancora che Il Capitale fosse tradotto in russo —, ma trasformò quasi immediatamente le teorie sociali dei paesi avanzati, e si dimostrò capace di farlo con successo. Alcuni dei suoi grandi nomi conservano una reputazione essenzialmente nazionale — N. Cernysevskij (1828-1889), V. Belinskij (1811-1848), N. Dobroijubov (1836-1861), perfino, in certo modo, lo splendido Aleksandr Herzen (1812-1870); altri si limitarono a trasformare — benché forse uno o due decenni dopo — la sociologia, l'antropologia e la storiografia dei paesi occidentali, come P. Vinogradov (1854-1925) in Gran Bretagna, V. Luciskij (1877-1949) e N. Kareev (1850-1936) in Francia. Lo stesso Marx valutò positivamente il grado di maturità intellettuale dei suoi lettori russi, e non solo perché fossero il suo primissimo pubblico intellettuale.

Abbiamo considerato fin qui i rivoluzionari sociali. Che dire delle rivoluzioni? La più grande del nostro periodo rimase virtualmente sconosciuta alla maggioranza degli osservatori, ed è certo che non ebbe alcun rapporto con le ideologie rivoluzionarie occidentali: quella dei T'ai-p'ing. Le più frequenti, quelle dell'America Latina, sembravano consistere più che altro o in pronunciamientos (colpi militari), o in secessioni regionali che non mutavano sostanzialmente il volto dei rispettivi paesi, tanto che in genere si sorvolava sulla componente sociale tuttavia innegabile in alcune di esse. Quelle europee, o fallirono, come l'insurrezione polacca del 1863, o furono assorbite dal liberalismo moderato, come la conquista rivoluzionaria della Sicilia e dell'Italia meridionale ad opera di Garibaldi nel 1860, o ebbero importanza puramente nazionale, come le rivoluzioni spagnole del 1854 e del 1868-1874. La prima di queste fu, come la rivoluzione colombiana dei primi anni Cinquanta, un riflesso tardivo delle esplosioni del 1848 (il mondo iberico era abitualmente fuori fase dal resto dell'Europa); la seconda sembrò presagire a contemporanei nervosi, in pieno fermento politico e in presenza dell'Internazionale, un nuovo round di rivoluzioni europee. Ma non ci doveva essere un nuovo '48. Ci fu solo la Comune parigina del 1871.

Come tanti episodi della storia rivoluzionaria del nostro periodo, la Comune fu importante, più che per quel che realizzò, per quel che presagì; fu più formidabile come simbolo che come fatto. Sulla sua storia reale pesa il mito potente da essa generato sia in Francia, sia (attraverso Marx) nel movimento socialista internazionale; un mito che si riverbera fino ai nostri giorni, per esempio, nella Repubblica Popolare Cinese l2. Straordinaria, eroica, drammatica e tragica, nella dura realtà dei fatti essa fu un breve, e, nell'opinione degli osservatori più seri, condannato a priori, governo insurrezionale degli operai di una sola città, la cui più alta conquista fu d'essere veramente un governo, anche se durò meno di due mesi. Dopo l'Ottobre 1917, Lenin conterà i giorni fino alla data in cui potesse trionfalmente dichiarare: Abbiamo resistito più a lungo della Comune!

Ma gli storici non devono cedere alla tentazione di rimpicciolirla retrospettivamente. Se non minacciò seriamente l'ordine borghese, essa lo riempì di sgomento per il solo fatto di esistere. La sua vita e la sua morte furono circondate dal panico e dall'isterismo, soprattutto nella stampa internazionale che la accusò di instaurare il comunismo, di espropriare i ricchi e di metterne in comune le donne, di praticare il terrore e il massacro collettivo, di seminare l'anarchia, il caos e tutto ciò che turbava i sonni delle classi «rispettabili» — inutile dirlo, per istigazione dell'Internazionale. Più realistici, i governi sentirono il bisogno di agire contro la minaccia internazionale all'ordine e alla civiltà. A parte la collaborazione internazionale fra le diverse polizie, e la tendenza (giudicata allora più scandalosa di quanto non lo sarebbe al giorno d'oggi) a negare ai comunardi fuggiti lo status di profughi politici, il cancelliere austriaco — appoggiato da Bismarck, uomo non facile alle reazioni isteriche — propose la fondazione di una contro-Internazionale dei capitalisti. Il terrore della rivoluzione fu un elemento determinante nella conclusione della Lega dei Tre Imperatori del 1873 (Germania, Austria, Russia), vista come una nuova Santa Alleanza «contro il radicalismo europeo che ha minacciato tutti i troni e tutte le istituzioni» 13, malgrado il fatto che il rapido declino dell'Internazionale avesse reso meno urgente, alla data della sua firma, un simile compito. Il punto importante in tutto questo nervosismo è che il vero oggetto della paura dei governi non fu la rivoluzione sociale in genere, ma la rivoluzione proletaria. I marxisti, che vedevano nella Comune e nell'Internazionale un movimento essenzialmente proletario, erano quindi in sintonia coi governi e con l'opinione pubblica «rispettabile» del tempo. In realtà, la Comune fu un'insurrezione di lavoratori — e se la parola indica uomini e donne «a metà strada fra il ' popolo ' e il ' proletariato '» piuttosto che operai di fabbrica, calzerebbe altrettanto bene per gli attivisti dei moti operai verificatisi altrove nel nostro periodo 14. I 36.000 comunardi arrestati erano in pratica un campionario della Parigi popolare e lavoratrice: impiegati ì'8%, domestici il 7, piccoli bottegai e simili il 10, ma il resto in schiacciante maggioranza operai — edili, metalmeccanici, manovali semplici, seguiti dagli addetti ai mestieri più tradizionali e specialistici (mobilio, articoli di lusso, stampa, abbigliamento) che pure fornirono un numero elevatissimo dei suoi quadri direttiviI5; e, naturalmente, i sempre-radicali calzolai. Ma fu la Comune una rivoluzione socialista? Quasi certamente sì, benché il suo socialismo fosse ancora essenzialmente il sogno prequarantottesco di unità autosufficienti cooperative o corporative di produttori, invocanti però adesso un sistematico e radicale intervento del governo. Le sue realizzazioni pratiche furono molto più modeste, ma non per colpa sua.

La Comune era infatti un regime in stato d'assedio, figlio della guerra e dell'accerchiamento di Parigi e risposta alla capitolazione. L'avanzata prussiana nel 1870 aveva spezzato le vertebre dell'impero di Napoleone III. I repubblicani moderati che l'avevano abbattuto continuarono senza molta convinzione la guerra, poi cedettero le armi, consapevoli che l'unica resistenza ancora possibile avrebbe implicato una mobilitazione rivoluzionaria delle masse popolari, una nuova repubblica giacobina e sociale. A Parigi, assediata e abbandonata dal suo governo e dalla sua borghesia, il potere reale era comunque passato nelle mani dei sindaci degli arrondissements (rioni) e della Guardia Nazionale; cioè, in pratica, dei quartieri popolari ed operai. Il tentativo di disarmare la Guardia Nazionale dopo la capitolazione fu la scintilla dell'incendio rivoluzionario, che prese la forma di un'organizzazione municipale indipendente di Parigi (la «Commune»). Ma questa fu quasi immediatamente assediata dal governo nazionale (ora con sede a Versailles), mentre il vittorioso esercito tedesco che la accerchiava si astenne dall'intervenire. I due mesi della Comune furono un periodo di guerra pressoché ininterrotta contro le forze soverchianti di Versailles: neppure quindici giorni dopo la sua proclamazione, avvenuta il 18 marzo, essa aveva già perso l'iniziativa. Il 21 maggio il nemico entrò in Parigi, e la settimana conclusiva dimostrò solo che la popolazione lavoratrice parigina sapeva morire coraggiosamente come coraggiosamente era vissuta. I versagliesi lamentarono la perdita di 1.100 uomini circa fra morti e dispersi; da parte sua, la Comune aveva fucilato un centinaio di ostaggi. Ma chi sa quanti comunardi furono uccisi durante i combattimenti? È certo che, dopo, ne furono massacrati a migliaia — 17.000, secondo Versailles, ma la cifra non può essere più della metà del vero. Oltre 43.000 vennero fatti prigionieri e 10.000 condannati, di cui quasi la metà alla deportazione nella Nuova Caledonia e il resto a pene detentive.

Fu questa la vendetta delle «persone rispettabili». Da allora, un fiume di sangue corse fra gli operai parigini e i loro «migliori sociali». E, da quel giorno, anche i rivoluzionari seppero che cosa li attendeva se non riuscivano a conservare il potere.


Note al capitolo IX

1 Erskine May, op. cit., I, pp. lxv-lxvi.

2 Journaux des Frères Goncourt, II, Parigi 1956, p. 753 [28 marzo 1871].

3 Werke, cit., XXXIV, pp. 510-1 [Intervista alla «Tribune», 18 die. 1878].

4 Werke, cit., XXXII, p. 669 [trad. it. in Opere complete, cit., voi. XLIII, Roma 1975, p. 721].

5 Werke, cit., XIX, p. 296 [dal già cit. India, Cina, Russia, p. 246]. « Werke, cit, XXXIV, p. 512.

7 Suffragio maschile: nessun paese aveva contemplato seriamente l'esten­sione alle donne dei diritti politici, sebbene un gruppo di militanti negli Stati Uniti, dove Victoria Woodhull si presentò candidata alle elezioni pre­sidenziali del 1872, avesse vigorosamente cominciato a propugnarla.

8 Redigere un pedigree intellettuale dell'anarchismo non è impossibile, ma ha scarso rilievo per quanto concerne gli sviluppi del movimento anar­chico.

9 M. Pushkin, The Professions and the Intelligentsia in Nineteenth Century Russia, in « University of Birmingham Historical Journal », XII (1969), 1, pp. 72 sgg.

10 Hugh Seton Watson, Imperiai Russia 1861-1917, Oxford 1967, pp. 422-3.

11 A. Ardao, Positivism in Latin America, in « Journal of the History of Ideas », XXIV (1963), 4, p. 519, nota che la costituzione di A. Comte venne imposta tale e quale allo Stato di Rio Grande do Sul (Brasile).

12 G. Haupt, ha Commune comme symbole et comme exemple, in « Mouvement Social », 79, aprile-giugno 1972, pp. 205-6.

13 Samuel Bernstein, Essays in Politicai and Intellectual History, New York 1955, cap. XX, « The First International and a New Holy Alliance », spec. pp. 194-5 e 197.

14 J. Rougerie, Paris Libre 1871, Parigi 1971, pp. 256-63.

15 II 32% dei tipografi arrestati nella Guardia Nazionale e il 19% dei lavoranti in legno, ma solo il 7% degli edili, erano costituiti da ufficiali o sottufficiali.