Giovanni Fornero, Salvatore Tassinari

Filosofie del Novecento

Bruno Mondadori, Milano 2002

Dall'Ottocento al Novecento. Nietzsche: la crisi delle certezze (pp. 1-48)
1. La vita, gli scritti e le edizioni delle opere

Friedrich Wilhelm Nietzsche nasce a Röcken, presso Lipsia, il 15 ottobre 1844, da Karl Ludwig, pastore protestante, e Franziska Oehler («come pianta sono nato vicino al camposanto, come uomo nella casa del pastore»). Nel 1849 perde il padre, che muore in seguito a una malattia al cervello e l'anno successivo la madre si trasferisce a Naumburg, con Friedrich e la sorella Elisabeth. A dodici anni comincia a scrivere poesie e a comporre musica. Nel 1858 entra nella prestigiosa scuola di Pforta, nota per i suoi rigidi sistemi educativi. Nel 1864 viene immatricolato come studente di teologia a Bonn per trasferirsi, un anno più tardi, a Lipsia, dove segue le lezioni di Friedrich Ritschl, uno dei maggiori studiosi tedeschi di filologia classica e legge, nell'inverno 1865-66, per la prima volta II mondo come volontà e rappresentazione di Schopenhauer rimanendone conquistato. In una lettera dell'11 luglio 1866 all'amico Hermann Mushacke, Nietzsche scrive:

Da quando Schopenhauer ci ha tolto dagli occhi le bende dell'ottimismo, lo sguardo si è fatto più acuto. La vita è più interessante, sebbene più brutta. (F. Nietzsche, Epistolario)

E in una pagina dello scritto autobiografico postumo Sguardo retrospettivo sui due anni trascorsi a Lipsia annota:

Qui vedevo uno specchio nel quale potevo scorgere il mondo, la vita, il mio animo in una grandiosità terribile. Qui mi contemplava l'occhio disinteressato dell'arte, qui vedevo la malattia e la guarigione, la messa al bando e il rifugio, l'inferno e il paradiso. (Ivi)

Nel 1867 stringe amicizia con Erwin Rohde, anch'egli studente e membro attivo della Società filologica di Lipsia, con il quale condivide l'ammirazione per la filosofia di Schopenhauer. Nel 1869, a soli ventiquattro anni, ottiene la cattedra di Lingua e letteratura greca presso l'università svizzera di Basilea, dove ha come collega lo storico Jacob Burckhardt, di cui seguirà le lezioni sullo studio della storia. Entra in rapporto con il teologo Franz Overbeck, che gli sarà amico sino alla fine, e con Richard Wagner, che si era ritirato con Cosima von Bülow nella villa di Tribschen, sul lago dei Quattro Cantoni, divenendo un fervente ammiratore del musicista («La vicinanza di Wagner è la mia consolazione»; «Ciò che io laggiù imparo e vedo, ascolto e intendo, è indescrivibile. Schopenhauer e Goethe, Eschilo e Pindaro vivono ancora»). Allo scoppio della guerra franco-prussiana, si arruola come infermiere volontario, ma ammalatosi di difterite, viene presto congedato.

Nel 1872 pubblica il suo primo libro, La nascita della tragedia, che incontra l'ostilità dei più importanti filologi, in particolare dell'influente Ulrich von Wilamowitz-Moellendorff; Nietzsche viene difeso da Wagner e da Rohde e progetta Il libro del filosofo. Nel 1873 scrive La filosofia nell'epoca tragica dei Greci e Su verità e menzogna in senso extramorale, rimasti inediti, e, tra il 1873 e il 1876, escono le quattro Considerazioni inattuali. Conosce Malwida von Meysenburg e stabilisce nuovi rapporti di amicizia, in particolare con Paul Rèe e Heinrich Köselitz (noto con lo pseudonimo di Peter Gast), mentre va affievolendosi il legame con Wagner. Nietzsche è portato a vedere in lui l'estremo rappresentante del romanticismo e a scorgere, nell'ultima fase della sua opera orientata nostalgicamente verso il cristianesimo, l'affermarsi di uno spirito di rassegnazione e di rinuncia. Umano, troppo umano. Un libro per spiriti liberi, di cui esce la prima parte nel 1878, segna il suo distacco definitivo da Wagner e da Schopenhauer.

Intanto la salute del filosofo diventa sempre più cagionevole: viene colpito da emicranie, attacchi di vomito e disturbi alla vista. Nel 1876 interrompe l'insegnamento a Basilea e nel 1879 rinunzia definitivamente alla cattedra. Da allora in poi, la sua vita sarà quella di un malato inquieto e nervoso, in perpetuo vagabondaggio da una città all'altra, da una pensione all'altra. Sempre alla ricerca di climi favorevoli e di una salute che non verrà mai, Nietzsche vive, in solitudine, tra la Svizzera, l'Italia e la Francia meridionale, tutto preso dalla composizione delle sue opere e dalla speranza, sempre delusa, che intorno a esse si venisse a creare una schiera di discepoli e di seguaci. Nel 1880 esce la seconda parte di Umano, troppo umano, che comprende le due appendici Opinioni e sentenze diverse (1879) e II viandante e la sua ombra (1880). Nel 1881 viene pubblicata Aurora. Pensieri sui pregiudizi morali, che reca, come didascalia, un passo dei Rigveda: «Vi sono tante aurore che ancora devono risplendere». A essa segue La gaia scienza (1882), in cui si affacciano alcune tesi tipiche della dottrina nietzscheana.

Nella primavera del 1882, in casa Meysenburg, Nietzsche conosce una giovane russa di ventun anni, Lou Andreas Salomé. In questa donna dotata di fascino e intelli genza (che in seguito sarà amica di Rilke e Freud), crede di aver trovato una discepola e una compagna di eccezione. Ma Lou rifiuta di sposarlo, preferendogli Paul Rèe con cui vivrà per qualche tempo in libera unione a Berlino (suscitando lo scandalo dei benpensanti dell'epoca, tra i quali la sorella di Nietzsche che minaccerà di denunciare i due concubini alla polizia). Il filosofo si sente abbandonato e tradito (anche se Lou non sposerà Paul Rèe, bensì l'orientalista Friedrich Karl Andreas). Nell'ottobre dello stesso anno incontra per l'ultima volta i due amici, con i quali mantiene l'impegno formale di svolgere studi in comune. I dissidi con la madre e con la sorella a causa della faccenda Lou (da esse detestata) si accentuano. In dicembre la crisi con Lou e Paul si aggrava e la depressione di Nietzsche aumenta:

Quest'ultimo boccone di vita è stato per me finora il più duro da masticare ed è pur sempre possibile ch'io ne rimanga soffocato [...] Se non riesco a inventare l'espediente alchimistico di trasformare anche questo fango in oro, sono perduto. (Lettera a Franz Overbeck, 25 dicembre 1882,)

Nel 1883 rompe definitivamente con i due amici ed entra nuovamente in contrasto con la sorella a causa del fidanzamento di quest'ultima con il wagneriano e antisemita Bernhard Forster (che sposerà nel 1885). Successivamente si riconcilia con lei. Il rapporto con la madre e la sorella resterà comunque conflittuale («confesso che la più profonda obiezione contro "l'eterno ritorno" [...] è sempre stata mia madre e mia sorella»).

Nel 1883 pubblica la prima e la seconda parte di Così parlò Zarathustra, a cui segue la terza nel 1884. Non avendo trovato un editore per la quarta parte, la fa uscire a sue spese nel 1885. Nel 1886 pubblica Al di là del bene e del male. Preludio di una filosofia dell'avvenire, che sulla quarta di copertina reca la notizia ufficiale della sua intenzione, risalente all'agosto del 1885, di far uscire un'opera intitolata La volontà dì potenza. Opera che non verrà mai scritta. Fra il 1886 e il 1887 ripubblica gli scritti precedenti, con nuove introduzioni e integrazioni. Nel 1887, sempre a proprie spese, fa uscire Genealogia della morale. Uno scritto polemico, a cui seguono II caso Wagner; Crepuscolo degli idoli. Ovvero come si filosofa col martello; L'Anticristo. Maledizione del cristianesimo; Ecce homo. Come si diventa ciò che si è; Nietzsche contra Wagner. Opuscoli e libelli che egli, in un periodo di grande euforia psichica e di massacrante lavoro intellettuale, compone nel 1888. Nello stesso anno, lo studioso danese Georg Brandes tiene lezioni su Nietzsche all'Università di Copenaghen.

Frattanto il filosofo si era stabilito a Torino, città di cui si dichiara entusiasta e nella quale, in circostanze non del tutto chiare e documentate - compreso l'episodio del cavallo percosso che Nietzsche, impietosito, avrebbe abbracciato - dà i primi segni di squilibrio mentale. Ai primi del 1889 (la data probabile è il 3 gennaio) è vittima di un crollo psichico: inizia, tra l'altro, a scrivere lettere esaltate (i cosiddetti «biglietti della pazzia») ad amici, a Cosima Wagner, a uomini di Stato e a membri di case regnanti (fra cui Umberto I). Il destinatario di una di queste lettere è Burckhardt che, allarmato, avverte Overbeck (il quale sembra fosse già stato avvertito dalla famiglia Fino che ospitava il filosofo in via Carlo Alberto). Recatosi a Torino, Overbeck trova l'amico in preda alla pazzia e lo porta con sé a Basilea, dove viene ricoverato in una clinica per malattie nervose.

Alla morte della madre (1897), che lo aveva portato con sé prima a Jena e poi a Naumburg, viene preso in custodia dalla sorella che, dopo il suicidio del marito in seguito al fallimento di un'impresa coloniale in Paraguay, aveva creato un archivio Weimar con il proposito di gestire l'eredità letteraria del fratello e conservarne i manoscritti. Intanto la fama di Nietzsche continuava a crescere, proprio quando il filosofo, immerso nella notte della follia, non poteva più rendersene conto. Alla sua morte, avvenuta a Weimar il 25 agosto del 1900, i libri che egli aveva pubblicato a sue spese circolavano ormai per tutta l'Europa.

La prima edizione complessiva delle opere è quella pubblicata dall'Archivio Nietzche di Weimar, di cui era custode la sorella. La Großoktav-Ausgabe (Naumann, Lipsia 1892-95, poi Kröner, 1899), consta di 19 volumi, l'ultimo dei quali è del 1913 ma il Register, cioè l'Indice, è del 1926). Essa comprende anche una serie imponente di appunti inediti, di notevole importanza teoretica e storiografica. Una parte di questi appunti, raggruppati in modo tematico e aforistico da Peter Gast e da Elisabeth Forster nell'intento di offrire ai lettori l'ultima e definitiva sintesi del pensiero nietzscheano, verrà data alle stampe con il titolo Der Wille zur Macht (La volontà di potenza). La prima edizione è del 1901 e comprende 483 aforismi. La seconda è del 1906 e comprende 1067 aforismi. La terza, quella definitiva e canonica, con lievi modifiche rispetto alla precedente, è del 1911. Sebbene sia il frutto di un arbitrio editoriale (poiché Nietzsche, come si è visto, pur avendo progettato di pubblicare un'opera con questo titolo, non aveva mai realizzato il suo piano), La volontà di potenza ha un notevole valore storico poiché è proprio su questa raccolta che si eserciterà gran parte dell'intelligenza europea della prima metà del Novecento, a partire da Heidegger, che deve a essa il suo incontro con Nietzsche. (Cfr. M. Ferraris, Nietzsche e la filosofia del Novecento, Bompiani, Milano 1989; Id., Storia della volontà di potenza, in F. Nietzsche, La volontà di potenza, Bompiani, Milano 1996, pp. 565-688.)

La seconda fondamentale edizione delle opere complete è la Musarion Ausgabe, in 23 volumi (1920-29), che risulta più attenta all'ordine cronologico e pubblica nello stesso volume le opere e gli scritti postumi relativi. L'edizione più nota del dopoguerra è quella di Karl Schlechta (Hanser, Monaco di Baviera 1956, in 3 volumi, con l'aggiunta di un quarto volume di Indici nel 1965), che rigorizza ulteriormente il criterio cronologico, lo stesso a cui si ispira anche la monumentale edizione critica delle opere nietzscheane a cura di Giorgio Colli e Mazzino Montinari che, lasciando definitivamente cadere l'idea di un ordine tematico, presenta i vari scritti nella loro oggettiva sequenza cronologica. Pubblicata dal 1967 da de Gruyter di Berlino, tale edizione è uscita in Italia, a partire dal 1964, presso la casa editrice Adelphi di Milano.

2. Filosofia e malattia: il punto di vista tradizionale e quello odierno

Per lungo tempo, la malattia di Nietzsche - vista come esempio tipico della nevrastenia degli uomini di genio - ha rappresentato un argomento di cui si è servita certa critica per screditare il suo pensiero:

La follia di Nietzsche non è mai stata un semplice dato monografico [...] se gli antichi ebbero dei buoni motivi per mettere il poema lucreziano sul conto della pazzia così i moderni avranno delle ragioni non solo scientifiche per spiare il momento del crollo e per proiettarne l'alone su tutto il resto del pensiero nietzscheano. (M. Ferraris, Storia della volontà di potenza, cit., p. 605.)

L'alternativa consisteva solamente nell'interpretare la sua filosofia come "effetto" della sua malattia o la sua malattia come "risultato" della sua filosofia. In ogni caso, la malattia veniva considerata secondo due prospettive: da una parte come elemento esclusivamente negativo, da mettere in correlazione necessaria con il suo pensiero in base al pregiudizio positivistico secondo cui una filosofia dovuta a una mente malata sarebbe per ciò stesso malata e, viceversa, una filosofia dovuta a una mente sana sarebbe per ciò stesso sana; dall'altra come aspetto integrante e costitutivo del suo pensiero, visto come espressione, sia pure geniale, di una mente disturbata. In seguito la situazione è radicalmente cambiata. In primo luogo, la malattia ha cessato di essere vista come una componente intellettualmente negativa ed è stata concepita come una condizione creativa (e stimolante) del filosofare anticonformista di Nietzsche. In altri termini, secondo questa lettura, che si ispira all'avanguardia, sarebbe anche in virtù della sofferenza e della solitudine che il filosofo di Röcken, lasciandosi alle spalle le "magie" dei sani, avrebbe potuto attingere un punto di vista "abissale" sul mondo. Questa era anche la convinzione di Nietzsche: in un aforisma di Aurora, intitolato Della conoscenza di colui che soffre, il filosofo scrive:

La condizione di certi uomini malati che a lungo e terribilmente sono tormentati dai loro dolori, senza che per questo il loro intelletto resti offuscato, non è senza valore per la conoscenza, anche prescindendo del tutto dai benefici intellettuali che ogni profonda solitudine, ogni subitanea e consentita libertà da ogni dovere e consuetudine portano con sé. Colui che soffre fortemente vede dalla sua condizione, con una terribile freddezza, le cose al di fuori: tutte quelle piccole ingannevoli magie in cui di consueto nuotano le cose, quando l'occhio dell'uomo sano vi si affissa, sono invece per lui dileguate; anzi egli si pone dinanzi a se stesso privo di orpelli e di colore. Ammesso che sia vissuto fino a quel momento in una qualche pericolosa fantasticheria, questo supremo disincantarsi attraverso il dolore è il mezzo per strapparlo da essa: è forse l'unico mezzo. (Aurora, 114)

In secondo luogo, anche a prescindere da questa lettura "avanguardista", è un fatto ormai universalmente ammesso, che la filosofia di Nietzsche, come quella di qualsiasi altro pensatore, vada giudicata per quello che oggettivamente dice - ossia per le argomentazioni teoriche di cui si serve - e non per le matrici biografiche che ne stanno alla base. Il prevalere di questa posizione spiega perché taluni studiosi odierni abbiano finito per considerare l'intera questione dei rapporti tra filosofia e malattia come storiograficamente irrilevante o, al limite, come uno pseudoproblema. (Questa è, per esempio, la tesi avanzata da Gianni Vattimo nei suoi scritti su Nietzsche.)

Tale viene anche considerato il tentativo di distinguere, all'interno della filosofia nietzscheana, fra nuclei di pensiero condizionati dalla follia e nuclei indipendenti da essa:

Su tutto il problema del rapporto tra follia e filosofia in Nietzsche, sembra largamente condivisibile il parere di Foucault nella Storia della follia: non ha troppo senso, né teoricamente né praticamente, vagliare nel corpus nietzscheano ciò che si ritiene indenne dalla pazzia, e ciò che viceversa ne sarebbe toccato; la follia, in Nietzsche come in Hölderlin e in Van Gogh, traspare non nell'opera, ma nel silenzio che segue al definitivo crollo psichico; sino a che disponiamo di testimonianze scritte, e anche nel caso dei biglietti della follia, ci troviamo di fronte a qualcosa che non è follia, ma pensiero [...]. (M. Ferraris, Nietzsche e la filosofia del Novecento, cit., p. 58.)

3. Nazificazione e denazificazione: le opposte "leggende" su Nietzsche

Il nome di Nietzsche è stato associato, per lungo tempo, alla cultura nazifascista, al punto che si è giunti a parlare del nazismo come di un "esperimento nietzscheano". Tesi avanzata di recente anche da Ernst Nolte secondo cui «senza taluni aspetti del nietzscheanesimo» il nazismo «non sarebbe divenuto ciò che fu, più di quanto il movimento operaio non sarebbe stato ciò che è stato senza il marxismo» (E. Nolte, Nietzsche e il nietzscheanesimo, Sansoni, Firenze 1991, p. 13.) Questa lettura, che ha trovato la sua espressione emblematica nel libro di Alfred Bäumler, Nietzsche, il filosofo e la politica (1931), è stata agevolata dall'attività della sorella Elisabeth che ha contribuito a diffondere l'immagine del fratello come teorico e propugnatore di una palingenesi reazionaria dell'umanità. La stessa deformazione propagandistica a cui è stato sottoposto Nietzsche in epoca nazista ha potuto valersi elle prospettive equivoche dovute alle falsificazioni di Elisabeth presenti nell'epistolario e alle operazioni con cui quest'ultima, insieme a Peter Gast, ha pubblicato una parte dei frammenti postumi sotto il titolo Der Wille zur Macht. Tuttavia, come ha notato Maurizio Ferraris, l'idea diffusa, tuttora trionfante nei libri di testo, di «una sorella maledetta intenta ad aggiungere inni antisemiti o pro-nazisti al discorso del fratello» che, in tal modo, verrebbe «consegnato inerme a una tradizione deformante» ha finito per assumere i tratti di una vera e propria leggenda". Tant'è che, rifiutandosi di ridurre Elisabeth a una sorta di «falsaria sistematica», Ferraris ha finito per parlare di «sorella parafulmine» e del «tentativo li obiettivare in Elisabeth ciò che non si riesce a sopportare nel fratello». (M. Ferraris, Storia della volontà di potenza, cit., p. 608 ss.)

Certo, nel processo di nazificazione, Elisabeth Forster-Nietzsche ha le sue responsabilità. Responsabilità esemplificate dal noto episodio (risalente al 2 novembre 1933 e comprovato da foto dell'epoca) della visita di Hitler all'Archivio Nietzsche, nel corso della quale il Fùhrer, dopo aver ricevuto da Elisabeth un bastone appartenuto al fratello, esce tra due ali plaudenti di folla. Ma attribuire a questa «sorella-canaglia» (come la chiama Montinari) la totale responsabilità della nazificazione di Nietzsche risulta eccessivo (oltre che semplicistico). Tanto più che:

Il fantasma, che esiste realmente, di un'opera capitale dal titolo ha volontà di potenza ha [...] indubbiamente avuto un ruolo, soprattutto nella popolarizzazione e ideo-logizzazione di Nietzsche [...] Tuttavia, questo ruolo non andrebbe sopravvalutato. Il mitico libro nel mitico zaino del leggendario lettore nelle trincee della prima guerra mondiale fu Così parlò Zarathustra, e non ha volontà di potenza [...] Quanto agli ideologi nietzscheani, avrebbero trovato ciò che cercavano in ogni altra edizione del lascito, persino in un'edizione storico-critica (cfr. M. Ferraris, Nietzsche dal nichilismo al postmoderno, in Aa.Vv., Il pensiero politico. Idee teorie dottrine, vol. III, Ottocento e Novecento, a cura di G. Pasquino, UTET, Torino 1999)

Come risulta eccessiva la pretesa di attribuire a Nietzsche (che, tra l'altro, non risulta citato nel Mein Kampf) la paternità dell'ideologia nazionalsocialista, anche se bisogna ammettere, con franchezza, che nei testi editi e inediti di Nietzsche si trovano spunti antidemocratici e antiegualitari atti a favorire, se non proprio un'interpretazione da Terzo Reich - che finirà per essere ripudiata dagli stessi teorici del nazismo - per lo meno una lettura "reazionaria" o "di destra" (Cfr. G. Penzo, Nietzsche e il nazismo, Rusconi, Milano 1997).

Quando Nietzsche ebbe - sia pure per reagire ai vizi dell'epoca - annunciato la morte di Dio, "smascherato" e maledetto il cristianesimo, [...] negato la conoscenza, la moralità, la democrazia, l'emancipazione femminile, il diritto alla vita e al rispetto dei "superflui", proclamato il superamento dell'uomo stesso, affermato la volontà di potenza, psicologizzato e genealogizzato tutto e tutti, esaltato il grande individuo al di sopra della massa [...], auspicato l'avvento [...] di una razza superiore (i «signori della terra») e l'eliminazione dei «malriusciti», esaltato la durezza, lo scontro e le guerre sterminatrici [...] ebbe con ciò anche definito e messo a punto quegli elementi, quella miscela esplosiva di cui il fascismo aveva bisogno per crescere e straripare anche nella sfera teoretica, oltre che in quella pratica. Nessuna meraviglia quindi che esso se ne impadronisse avidamente e li trasferisse spesso di peso nella propria ideologia. (S. Giametta, Commento allo "Zarathustra"', Bruno Mondadori, Milano 1996)

Le interpretazioni nazifasciste, da cui avevano già preso le distanze, sin dagli anni trenta, autori come Heidegger, Jaspers e Lowith (che avevano liberato la dottrina nietzscheana.da una lettura immediatamente politica per metterla in rapporto con i grandi temi della tradizione filosofica dell'Occidente), sono state radicalmente contestate nel dopoguerra, nel corso di un vistoso processo di denazificazione che ha trovato la sua espressione filologica nell'edizione critica delle opere di Nietzsche. Anzi, negli ultimi decenni, in certe zone della critica militante, alla figura di Nietzsche "nazista" è subentrata la figura di un Nietzsche "progressista". Questo radicale mutamento di prospettiva ha comportato a sua volta talune esagerazioni, come quando si è voluto contrapporre, all'immagine di Nietzsche come precursore di Hitler, quella di un compagno di strada di Marx sino a fare del superuomo la più autentica realizzazione dell'uomo disalienato, oppure un profeta della contestazione globale. Esagerazioni che, in certi casi, si sono risolte in una manifesta manipolazione ideologica, antitetica, ma complementare, rispetto a quella nazista.

In questi ultimi anni, la situazione è cambiata o sta cambiando. Infatti, con il venir meno delle opposte "leggende" di un Nietzsche nazista o maitre à penser utopico-progressista, ha cominciato ad affermarsi un punto di vista che, pur sottolineando gli elementi di novità e rottura della sua filosofia, non intende misconoscerne -per rispetto dei testi - le componenti reazionarie- (Su Nietzsche come «il più grande pensatore tra i reazionari e il più grande reazionario tra i pensatori» ha insistito D. Losurdo in Nietzsche e la critica della modernità, Manifestolibri, Roma 1997, e nella recente monografia (una delle più impegnate della storiografia internazionale degli ultimi anni) Nietzsche, il ribelle aristocratico. Biografia intellettuale e bilancio critico, Bollati Boringhieri, Torino 2002.)

4. Caratteristiche del pensiero e della scrittura di Nietzsche

Il pensiero di Nietzsche risulta caratterizzato da una radicale messa in discussione della civiltà e della filosofia dell'Occidente, che si traduce in una distruzione programmatica delle certezze del passato:

Conosco la mia sorte. Un giorno sarà legato al mio nome il ricordo di qualcosa di enorme - una crisi, quale mai si era vista sulla Terra, la più profonda collisione della coscienza, una decisione evocata contro tutto ciò che finora è stato creduto, preteso, consacrato. Io non sono un uomo, sono dinamite. (Ecce homo, VI, 3)

I miei scritti sono stati chiamati una scuola di sospetto e ancor più di disprezzo; per fortuna però anche di coraggio [...] E in realtà, io stesso non credo che alcuno abbia mai scrutato il mondo con un sospetto ugualmente profondo. (Umano, troppo umano, I)

Quest'opera di demolizione polemica del passato non si risolve in un semplice rifiuto delle teorie e dei comportamenti tradizionali in quanto mette capo alla delineazione di un nuovo tipo di umanità: «il superuomo» o «l'oltreuomo». Da ciò il carattere propositivo - e non puramente distruttivo - del filosofare nietzscheano:

Io vengo a contraddire, come mai si è contraddetto, e nondimeno sono l'opposto di uno spirito negatore. Io sono un lieto messaggero, quale mai si è visto [...] solo a partire da me ci sono di nuovo speranze. (Ecce homo)

A questa originalità di contenuti si accompagna la ricerca di nuove modalità espressive e di nuove forme di comunicazione filosofica. Nietzsche è un geniale poligrafo, in cui si alternano generi e stili diversi. Negli scritti giovanili è ancora legato alla forma accademica del saggio e del trattato. A partire da Umano, troppo umano, parallelamente alla sfiducia nelle grandi costruzioni sistematiche del passato e all'influenza dei moralisti francesi, opta per la forma breve dell'aforisma, cioè per l'illuminazione istantanea, finalizzata a cogliere le cose al volo. Nietzsche paragona l'aforisma alle figure in rilievo che, essendo incomplete, esigono dall'osservatore di integrare «col pensiero ciò che gli si staglia davanti». Ne segue che non basta leggere un aforisma per capirlo. Piuttosto, dopo averlo letto, deve cominciare la sua interpretazione. L'aforisma esige quindi "un'arte dell'interpretazione", ovvero una pratica che i moderni hanno disimparato e che Nietzsche chiama «ruminare».

Cosi parlò Zarathustra, che si ispira alla scrittura in versetti propria dei Vangeli, segue il modello della poesia in prosa e dell'annuncio profetico, ricco di simboli, allegorie e parabole. Negli ultimi scritti prevalgono l'esposizione autobiografica e l'invettiva polemica. Questi diversi stili hanno, come attributo comune, un tono personale e coinvolgente che testimonia l'esistenzialità del filosofare nietzscheano: «In tutte le opere che ho scritto, io ho messo dentro anima e corpo: non so che cosa siano problemi puramente intellettuali».

Il pensiero di Nietzsche è programmaticamente asistematico anche quando progetta opere che hanno l'apparenza della sistematicità o dell'organicità. Anzi, più di chiunque altro, Nietzsche ha schernito le illusioni e le presunzioni della filosofia sistematica. Proprio negli stessi anni in cui progettava La volontà di potenza, che avrebbe dovuto raccogliere in modo compiuto le sue riflessioni, egli scrive: «Diffido di tutti i sistemi e i sistematici, e mi allontano da loro» (frammenti postumi 1887-1888), «Io non sono abbastanza ottuso per un sistema - e tanto meno per il mio sistema». (Ivi) Dietro il sistema Nietzsche scorge una forma specifica di volontà di potenza, cioè un desiderio di impadronirsi della totalità del reale, desiderio che egli, in quanto «scriba del caos», secondo la definizione di Ferruccio Masini (F. Masini, Lo scriba del caos. Interpretazione di Nietzsche, il Mulino, Bologna 1978). denuncia come illusorio e votato all'insuccesso. Inoltre, la predilezione per gli orizzonti "aperti" lo porta a contestare la forma chiusa del sistema:

Le verità provvisorie. È qualcosa di puerile, o addirittura è una specie di impostura, quando oggi un pensatore propone una totalità di conoscenze, un sistema; siamo troppo accorti, per non portare dentro di noi il dubbio più radicale sulla possibilità di una tale totalità. È sufficiente, se ci accordiamo su di una totalità di presupposti di metodo: su "verità provvisorie", sul filo delle quali vogliamo lavorare; così come i navigatore nell'oceano tiene fermo a una certa direzione. (Frammenti postumi 1884)

In virtù della sua fisionomia asistematica, il pensiero di Nietzsche è ben lontano formare una costruzione architettonica conclusa. Inoltre, il suo discorso multi-dimensionale presenta una pluralità di significati e di direzioni di marcia non totalizzaabili univocamente, per cui, in relazione a questo "pensiero nomade" non esistono monopoli interpretativi, ma, in modo ancora più accentuato rispetto ad altri filosofi, solo tracce o ipotesi di lettura.

5. Fasi o periodi del filosofare nietzscheano

L’opera di Nietzsche viene convenzionalmente suddivisa in quattro fasi, che non vanno intese alla stregua di scansioni rigide, ma come tappe transitorie di un pensiero in divenire che riunisce, in se stesso, rottura e continuità.

a) Gli scritti giovanili del periodo wagneriano-schopenhaueriano (1872-76), che riprendono La nascita della tragedia (1872), le quattro Considerazioni inattuali 373-76) e taluni inediti, fra cui La filosofia nell'epoca tragica dei Greci (1873) e Su verità e menzogna in senso extramorale (1873).

b) Gli scritti intermedi del periodo "illuministico" o "genealogico" (1878-82), che comprendono Umano, troppo umano (1878-80), Aurora (1881), La gaia scienza (1882), Idillii di Messina (1882) e una serie coeva di frammenti postumi.

c) Gli scritti del "meriggio" o di "Zarathustra" (1883-85), che comprendono Così parlò Zarathustra e i relativi frammenti postumi. È tuttora oggetto di discussione fra gli studiosi se con lo Zarathustra si esaurisca o meno l'iter teorico di Nietzsche. Così, accanto a coloro che optano per la tradizionale divisione in tre si vi è la schiera, sempre più numerosa, di coloro che optano per una divisione quattro fasi e che riconoscono all'"ultimo Nietzsche" un'autonoma consistenza. Consistenza avvalorata dalla presenza di una serie imponente di frammenti postumi, che costituiscono una specie di mondo sommerso di cui le opere edite sono le terre affioranti. Anche a proposito di tali frammenti esiste un'annosa divergenza in materia. Infatti, mentre taluni (emblematicamente rappresentati da Karl Schlechta) ritengono che essi non contengano sostanzialmente niente di nuovo rispetto agli scritti editi, altri - in cui si riconosce chi scrive - insistono sui loro elementi di novità, soprattutto in merito a talune problematiche (la volontà di potenza, il nichilismo, il prospettivismo ecc.), ritenendo che essi rappresentino «il punto estremo, e forse anche il più elevato, cui giunse il pensiero teoretico di Nietzsche». (G. Colli, M. Montinari, "Notizie e note" ai Frammenti postumi 1887-1888)

d) Gli scritti del "tramonto" o degli ultimi anni (1886-89), che comprendono Al di là bene e del male (1886), Genealogia della morale (1887), Il caso Wagner, Crepuscolo egli idoli, L'Anticristo, Ecce homo, Nietzsche contra Wagner (tutti del 1888).

6. Il periodo giovanile
a) Tragedia e filosofia

Nascita e decadenza della tragedia (Poiché La nascita della tragedia, nella manualistica corrente e nella letteratura specializzata, viene citata in modi diversi che possono disorientare studiosi e lettori, facciamo presente, a scanso di equivoci, che tale opera è uscita in più edizioni e con titoli diversi. La prima edizione è del 1872 e ha come titolo Die Geburt der Tragòdie aus dem Geiste der Musik {La nascita della tragedia dallo spirito della musica). La seconda edizione è del 1874 (ma è stata messa in commercio solo nel 1878). La terza edizione è del 1886 e ha come titolo definitivo Die Geburt der Tragòdie. Oder: Griechenthum und ressimismus (La nascita della tragedia. Ovvero: grecità e pessimismo.)

La nascita della tragedia dallo spirito della musica. Ovvero: grecità e pessimismo (1872) è un'opera composita nella quale coesistono, di fatto, filologia, filosofia, estetica e teoria della cultura. L'ispirazione dominante dello scritto, come attestano gli influssi schopenhaueriani e le reazioni negative dei filologi puri, è comunque di tipo filosofico. D'altra parte, Nietzsche non si era mai identificato con la filologia accademica: fin dalla prolusione del 1869 su Omero e la filologia classica, che segna l'avvio della sua attività di docente a Basilea, egli mostrava di intendere la filologia in un'ottica che si potrebbe definire, in senso lato, "filosofica".

Il motivo centrale de La nascita della tragedia è la distinzione fra apollineo e dionisiaco. Con questa coppia di opposti (che si concretizza in altre sottocoppie, come forma-caos, stasi-divenire, finito-infinito, sogno-ebbrezza, luce-oscurità, serenità-inquietudine) Nietzsche intende, innanzitutto, i due impulsi di base dello spirito e dell'arte greca. L'apollineo, che scaturisce da un impulso alla forma e da un atteggiamento di fuga di fronte al divenire, si esprime nelle forme limpide e armoniche della scultura e della poesia epica. Il dionisiaco, che scaturisce dalla forza vitale e dalla partecipazione al divenire, si esprime nell'esaltazione creatrice della musica e della poesia lirica. In contrasto con la filologia dominante e con l'immagine (neoclassica) dell'Eliade come mondo della serenità e dell'equilibrio (ossia come regno dell'apollineo), Nietzsche insiste sul carattere originariamente dionisiaco (o «asiatico») della sensibilità greca, portata a scorgere ovunque il dramma della vita e della morte e gli aspetti orribili dell'essere. Tant'è vero che l'apollineo nasce solo sul terreno di una visione dionisiaca dell'esistenza e dal tentativo di sublimare il caos nella forma, ossia dallo sforzo di trasfigurare l'assurdo in un mondo definito e armonico, capace di rendere accettabile la vita. Gli stessi dèi olimpici non sono nient'altro che un modo per «sopportare» la caducità dolorosa dell'essere uomini:

Il Greco conobbe e sentì i terrori e le atrocità dell'esistenza: per poter comunque vivere, egli dovette porre davanti a tutto ciò la splendida nascita sognata degli dèi olimpici. (La nascita delal tragedia)

In un primo tempo, nella Grecia presocratica, impulso apollineo e impulso dionisiaco convivono separati e opposti. In un secondo tempo, nell'età della tragedia attica (di Sofocle e di Eschilo), apollineo e dionisiaco si armonizzano fra di loro, dando origine a opere sublimi. Infatti, sebbene vivificata dallo spirito dionisiaco, la grande tragedia attica è, nello stesso tempo, apollinea (nelle parti sceniche e nel dramma) e dionisiaca (nella musica e nella danza del coro) in quanto riunisce in un'unica opera sia la rappresentazione del mondo, propria dell'apollineo, sia il furore orgiastico, proprio del dionisiaco.

Per quanto concerne, più specificamente, l'origine della tragedia, Nietzsche riprende l'idea secondo cui essa (conformemente all'etimologia Tràgos, "capro", e Odé "canto") sarebbe nata dal coro tragico, ovvero dal coro dei seguaci di Dioniso, mascherati da capri. Egli ne propone tuttavia una nuova interpretazione che si lega alle nozioni di dionisiaco e di apollineo. Ecco come si esprime, a questo proposito, Gianni Vattimo:

[...] il coro è in origine una sorta di processione religiosa dei seguaci di Dioniso che nell'esaltazione mistica si trasforma, ai propri stessi occhi, in coro di Satiri, cioè di esseri naturali che sono insieme l'uomo allo stato originario e qualcosa di sublime e di divino [...]. Nel partecipare alla processione dionisiaca l'uomo della vita quotidiana subisce un primo processo di trasformazione: si vede e si sente vivere come Satiro, come essere umano-divino primigenio. Ma a questa visione ne segue una seconda: il coro dei Satiri, nella sua trasformazione, «vede fuori di sé una nuova visione, come compimento apollineo del proprio stato» [...]; vede cioè il dio, Dioniso, che raffigura in vicende articolate la "storia" stessa del Satiro come essere naturale; è questa nuova visione quella che costituisce la vicenda vera e propria del dramma, e che compie lo sviluppo della tragedia fino alla forma nella quale ci è stata tramandata. (G. Vattimo, Il soggetto e la maschera, Bompiani, Milano 1974, p. 33)

In altri termini, quando Nietzsche afferma che la genesi della tragedia greca risiede in un «coro dionisiaco che sempre di nuovo si scarica in un mondo apollineo di immagini» (La nascita della tragedia), egli intende dire che il dramma tragico diviene veramente tale allorquando Dioniso è rappresentato tramite una serie di "immagini" che trasformano in un mondo di ideale compiutezza e bellezza il vissuto di sofferenza dell'eroe (ovvero l'essenza caotica dell'esistere).

Nell'arte successiva, la sintesi fra dionisiaco e apollineo, che per Nietzsche rappresenta un autentico «miracolo metafisico» della civiltà ellenica, viene messa in forse dal prevalere dell'apollineo, che trionfa sul dionisiaco fin quasi a soffocarlo. Questo processo di decadenza si concretizza nella tragedia di Euripide - che porta l'uomo quotidiano sulla scena, trasformando il mito tragico in un susseguirsi realistico di avvenimenti razionalmente concatenati - e attinge la sua espressione paradigmatica nell’ insegnamento razionalistico e ottimistico di Socrate, ossia del filosofo (cui si rifa Euripide) con il quale si compie «l'uccisione» delle profondità istintuali della vita.

La decadenza della tragedia funge quindi da spia rivelatrice della decadenza della civiltà occidentale nel suo complesso e trova il suo simbolo nell'opposizione irriducibile fra spirito dionisiaco e spirito socratico, ossia fra un uomo tragico, portato a dir di sì alla vita, e un uomo teoretico, portato a violentare la vita con «la sferza dei suoi sillogismi».

I molteplici significati delle nozioni di apollineo e dionisiaco

Nella Nascita della tragedia i concetti base di apollineo e dionisiaco non hanno un significato univoco, ma ricorrono in una molteplicità di accezioni interconnesse.

In primo luogo, come si è visto, apollineo e dionisiaco sono i due impulsi di fondo dell'anima (Triebe) e dell'arte greca (Kunsttriebe).

In secondo luogo, rappresentano due stati fisiologici, corrispondenti, rispettivamente al sogno e all'ebbrezza. Dal sogno nasce l'arte apollinea, intesa come ambito idealizzato delle belle immagini e delle illusioni conosciute come tali. Dall'ebbrezza nasce l'arte dionisiaca della danza e del canto corale, attraverso le quali l'uomo, procedendo oltre la propria individualità, si congiunge agli altri esseri naturali e al principio unitario del Tutto.

In terzo luogo, apollineo e dionisiaco rimandano al dualismo schopenhaueriano fra rappresentazione e volontà, ossia fra la superficie illusoria del fenomeno e la realtà noumenica (o "notturna") che ne sta alla base, realtà che, per Nietzsche, coincide con l'Uno originario.

Essi designano poi due forme di conoscenza, l'una superficiale e illusoria, l'altra profonda e veritiera, capace, quest'ultima, di cogliere gli abissi raccapriccianti dell'essere. «L'uomo dionisiaco assomiglia ad Amleto: entrambi hanno gettato una volta uno sguardo vero nell'essenza delle cose, hanno conosciuto». (Ivi, 7,cit.,p. 55.) Inoltre, apollineo e dionisiaco indicano i due elementi permanenti che caratterizzano, al di là del tempo e dello spazio, la natura umana.

Infine, apollineo e dionisiaco si identificano con le due forze polari della vita, cioè con i due princìpi metafisici che governano il mondo. In quest'accezione cosmico-metafisica alludono «al contrasto tra la forma e l'amorfo flusso della vita, tra péras e àpeiron, tra l'essere finito, che, votato all'annullamento, ritorna al principio infinito, e il principio stesso, che produce da sé sempre nuove forme». (E. Fink, La filosofia di Nietzsche, A. Mondadori, Milano 1977, p. 20.)

Pur essendo collegati fra di loro e assimilati alla dualità dei sessi che presiedono alla riproduzione, Apollo e Dioniso non stanno sullo stesso piano perché Nietzsche, come documentano le opere successive, conferisce una manifesta preminenza (e una più radicale originarietà) al dionisiaco.

Spirito tragico e accettazione della vita. La metafisica da artista

La celebrazione nietzscheana dello spirito tragico e dionisiaco coincide con una forma di celebrazione della vita che tende a porsi programmaticamente al di là del pessimismo e dell'ottimismo. Da ciò il problema dei rapporti fra Nietzsche e Schopenhauer.

Da Schopenhauer Nietzsche deriva la tesi del carattere doloroso e «raccapricciante» dell'essere ma ne rifiuta la tematica dell'ascesi. Infatti, alla noluntas schopenhaueriana si contrappone, sin dall'inizio, un atteggiamento di entusiastica accettazione dell'essere nella globalità dei suoi aspetti. La vita è dolore, lotta, distruzione, crudeltà, incerta, errore. Essa non ha ordine, né scopo, il caso la domina e i valori umani non trovano in essa garanzie precostituite. Due atteggiamenti sono allora possibili di fronte a essa. Il primo è quello della rinuncia e della fuga, che mette capo all'ascetismo ed è atteggiamento proprio della morale cristiana e della spiritualità comune. Il secondo è quello dell'accettazione della vita così com'è ed è l'atteggiamento che mette capo all'esaltazione della vita e al superamento dell'uomo. Nietzsche vuole essere un discepolo di Dioniso poiché nell'antica figura greca egli vede il simbolo del suo Sì totale al mondo. Dioniso è il dio dell'ebbrezza e della gioia, il dio che canta, ride e danza. Egli è incarnazione di tutte le passioni che dicono "Sì" alla vita e al mondo:

L'orgoglio                   i bei gesti, le belle maniere, gli oggetti belli,

la gioia                       la volontà forte

la salute                     la disciplina educativa dell'intellettualità elevata

l'amore dei sessi          la volontà di potenza

il rispetto                    la riconoscenza verso la terra e la vita... (Frammenti postumi 1888-1889, 14 [11])

Se il mondo è una sorta di gioco estetico e tragico, costituito dalla lotta fra gli opposti primordiali (vita-morte, gioia-dolore ecc.) ne segue che solo l'arte riesce a comprendere veramente il mondo, al punto che Nietzsche parla di «giustificazione estetica dell'esistenza». Da ciò la natura metafisica dell'arte e la sua funzione di orano della filosofia:

Nietzsche formula i suoi giudizi fondamentali sull'essere con le categorie dell'estetica. Questo dà alla Nascita della tragedia un carattere romantico. Nietzsche la chiama «metafisica da artista». Il fenomeno dell'arte viene posto al centro; con esso e a partire da esso viene spiegato il mondo.

Quest'esaltazione della tragedia, che si accompagna a una concezione della civiltà come processo di decadenza dovuto al progressivo imporsi dello spirito antitragico, li tipo socratico-platonico, sfocia nell'ideale di una rinascita della cultura tragica incentrata sull'arte, in particolare sulla musica, di cui Nietzsche scorge un'incarnazione emblematica in Wagner (a cui è dedicato il capolavoro giovanile). L'«artista wagneriano» e il «filosofo schopenhaueriano» appaiono quindi, al giovane Nietzsche, come i due fari, o i due maestri ispiratori, di ogni possibile opera di rinnovamento.

b) Le Considerazioni inattuali: storia e vita

Fra il 1873 e il 1876 Nietzsche scrive le quattro Considerazioni inattuali in cui l'auspicata rinascita della cultura tragica, più che in un progetto alternativo di civiltà, si traduce in un'opera di critica della cultura contemporanea.

Nella prima Inattuale, David Strauss, l'uomo di fede e lo scrittore (1873), Nietzsche attacca il vecchio teologo Strauss, il cui libro, Cantica e la nuova fede (1872), gli appare inficiato da uno svergognato «ottimismo da filisteo», degno del peggior «vangelo da birreria».

Nella seconda Inattuale, Sull'utilità e il danno della storia per la vita (1874), Nietzsche si schiera apertamente contro lo storicismo e lo storiografismo, sostenendo che «l'eccesso di storia» indebolisce le potenzialità creatrici dell'uomo sino ad assumere i tratti di una vera e propria «malattia». Infatti, oltre che soffrire di una coscienza «epigonale» propensa a ritenere che non si dia (più) nulla di nuovo sotto il sole, l'individuo del XIX secolo appare restio a impegnarsi per ciò che sa essere caduco e passeggero. Inoltre, la cultura storicistica, al pari di quella positivistica, favorisce «l'idolatria del fatto» e fa dell'uomo il risultato di un processo necessario, costretto a «incurvare la schiena e a chinare la testa» dinanzi alla potenza della storia e alla dialettica razionale che la costituisce. In tal modo, sentendosi in balia del passato che soffoca, con i suoi fardelli, «la forza plastica della vita», l'uomo risulta incapace di creare qualcosa di nuovo nel presente e, nella sua impotenza, finisce per accontentarsi di una sorta di consumismo della storia:

Ancora non è finita la guerra, e già essa è convertita in carta stampata in centomila copie, già viene presentata come nuovissimo stimolante al palato estenuato dei bramosi di storia.

Secondo Nietzsche il fattore oblio risulta indispensabile alla vita. Innanzitutto, perché senza una certa dose di incoscienza non c'è felicità (Nietzsche cita, leopardianamente, il caso degli animali). In secondo luogo, perché per poter agire efficacemente nel presente, occorre saper dimenticare il passato. Tuttavia, il fatto che non ci sia felicità e azione senza una componente di oblio, non significa che la storia, la quale si fonda sulla memoria, sia sempre dannosa per la vita. In realtà, sentenzia Nietzsche, il quale ammette non solo il «danno», ma anche «l'utilità» della storia per la vita, «ciò che non è storico e ciò che è storico sono ugualmente necessari per la salute di un individuo, di un popolo e di una civiltà». A patto, aggiunge il filosofo, che la storia sia al servizio della vita e non viceversa, ossia che la storia non si erga di fronte all'uomo alla stregua di una scienza pura incurante dei suoi bisogni vitali. La vita rappresenta quindi l'ottica con la quale rapportarsi alla storia e instaurare un rapporto proficuo con il passato.

Secondo Nietzsche, la storia appartiene al vivente sotto tre rapporti: «essa gli occorre in quanto è attivo e ha aspirazioni, in quanto preserva e venera, in quanto soffre e ha bisogno di liberazione». A questi tre rapporti corrispondono tre specie di storia e di storiografia, che hanno, ognuna, sia un aspetto positivo (o fisiologico) sia un aspetto negativo (o patologico): la storia monumentale, la storia antiquaria e la storia critica.

La storia monumentale è propria di chi guarda al passato per cercarvi modelli e maestri che non scorge nel presente e quindi compete a chi è attivo e nutre aspirazioni, ovvero a coloro che dall'osservazione dei monumenti trascorsi deducono che «la grandezza [...] fu [...] una volta possibile, e perciò anche sarà possibile un'altra volta». Le potenzialità negative di questa specie di storia sono molteplici. Per esempio, essa tende a mitizzare o ad abbellire il passato, cancellandone alcune zone. Oppure stimola il coraggioso alla temerarietà e l'entusiasta al fanatismo.

La storia antiquaria è propria di chi guarda al passato con fedeltà e amore - al punto da riconoscersi frutto ed erede di una tradizione che lo giustifica - e compete a chi preserva e venera. L'aspetto negativo di questa specie di storia, sempre pronta a degenerare in «cieca furia collezionistica», consiste nella sua tendenza a «mummificare» la vita, ossia nella sua propensione a paralizzare l'agire e a ostacolare ogni risoluzione per il nuovo.

La storia critica è propria di chi guarda al passato come a un peso da cui liberarsi per poter vivere e perciò compete a chi soffre e sente la necessità di rompere con il passato, allo scopo di rifarsi daccapo. Essa trascina il passato davanti a un tribunale, lo interroga scrupolosamente e infine lo condanna. Chi giudica, in questo caso, non è la giustizia, ma la vita stessa, la quale è sempre ingiusta poiché la sua sentenza non scaturisce da una sorgente di pura conoscenza, ma dalle passioni che ne costituiscono l'intima essenza. L'aspetto potenzialmente negativo di questo tipo di storia risiede nella sua presunzione di poter recidere il passato «con il coltello», dimenticando che noi siamo il risultato di precedenti generazioni e che non è possibile liberarsi totalmente dal loro condizionamento. Ognuno di questi tre generi di storia, osserva Nietzsche, è nel suo diritto se rimane nel suo ambito. In caso contrario, genera solo atteggiamenti unilaterali e malsani:

Ciascuna delle tre specie di storia che esistono è nel suo diritto su un solo terreno e in un solo clima [...] Molto male deriva dal trapiantare sconsideratamente i vegetali: il critico senza sofferenza, l'antiquario senza pietà, il conoscitore della grandezza senza la capacità della grandezza sono tali piante diventate erbacce [...].

La terza e la quarta Inattuale rappresentano l'ultimo omaggio di Nietzsche ai maestri della sua giovinezza. In Schopenhauer come educatore (1874) egli esalta il filosofo di Danzica per il suo anticonformismo intellettuale e per il suo amore della verità, contrapponendolo alla filosofia istituzionalizzata delle università. In Richard ' Wagner a Bayreuth (1876), il grande musicista continua a fungere, non senza qualche dubbio incipiente, da «redentore» della cultura e da incarnazione del sentimento tragico. Ciò che caratterizza questi due ultimi scritti è la celebrazione del Genio come prototipo inattuale di un'umanità superiore e quindi come primo abbozzo della concezione nietzscheana del superuomo.

7. Il periodo "illuministico"
a) Il metodo genealogico e la filosofia del mattino

Umano, troppo umano (1878-80) segna l'inizio di un nuovo periodo del filosofare nietzscheano, che si suole definire "illuministico". Tale periodo - che coincide con l'avvento della scrittura aforistica - risulta caratterizzato dall'esplicito ripudio dei maestri di un tempo. Nietzsche contesta infatti le formule metafisiche di Schopenhauer e le tendenze artistiche di Wagner, riducendole a semplici riflessi della decadenza moderna. Wagner, in particolare, viene definito come un «tipico decadente» e come una «malattia» che «ammala tutto ciò che tocca».

Questo mutamento mette capo all'abbandono della «metafisica da artista» e al privilegiamento dell'ottica della scienza rispetto a quella dell'arte e della metafisica. Se precedentemente metafisica e arte funzionavano da vie di accesso privilegiate all'essere, ora "tutto Nietzsche si rivolta: la scienza, la riflessione critica, la diffidenza metodica assumono la guida: metafisica, religione e arte vengono sottoposte a giudizio; non valgono più come modi fondamentali della verità ma appaiono come illusione, che bisogna distruggere." (E. Fink, op. cit., p. 49)

L'arte, in particolare, viene considerata come il residuo di una cultura di stampo mitico. «Redentore della cultura» non è più l'artista o il Genio, in senso schopenhaueriano-wagneriano, ma il filosofo educato agli ideali della scienza. Nietzsche diviene così "illuminista" e dedica la prima edizione di Umano, troppo umano a Voltaire. Illuminista, si intende, non perché dotato della (ingenua) fiducia settecentesca nella ragione e nel progresso, ma perché impegnato in un'opera di critica della cultura attraverso la scienza.

Per "scienza" Nietzsche non intende l'insieme delle scienze particolari (a cui egli appare comunque interessato, come testimoniano le letture di questo periodo), bensì un metodo di pensiero in grado di emancipare gli uomini dagli «errori» che gravano sulle loro menti. Metodo che Nietzsche finisce per identificare con un procedimento critico di tipo storico e genealogico. Critico perché eleva il «sospetto» a regola di indagine. Storico o genealogico poiché ritiene che non esistano realtà statiche o immutabili, ma che ogni cosa sia l'esito di un processo sempre da ricostruire. Questo metodo storico-genealogico assume la forma concreta di una «chimica delle idee e dei sentimenti» impegnata a far scaturire un atteggiamento dal suo opposto (la verità dalla menzogna, l'altruismo dall'egoismo ecc.) e a mettere a nudo le matrici umane, troppo umane, dei cosiddetti valori sovrumani.

I concetti (o le "figure" interconnesse) in cui si incarna la filosofia illuminista e genealogica di Nietzsche sono lo spirito libero e la filosofia del mattino. Lo spirito libero - ulteriore abbozzo del superuomo - si identifica con colui che, grazie alla scienza (una «gaia» scienza dai tratti liberanti) riesce a emanciparsi dalle tenebre del passato, inaugurando una filosofia del mattino basata sulla concezione della vita come strutturale transitorietà e libero esperimento. Concezione che Nietzsche, come traspare dall'ultimo, suggestivo, aforisma di Umano, troppo umano, personifica nella figura del viandante, ovvero di un tipo d'uomo dotato di uno spiccato spirito d'avventura e di un alcionico senso della provvisorietà delle cose:

Chi anche solo in una certa misura è giunto alla libertà della ragione, non può più sentirsi sulla terra nient'altro che un viandante - per quanto non un viaggiatore diretto a una meta finale: perché questa non esiste. Ben vorrà invece guardare e tener gli occhi ben aperti, per rendersi conto di come veramente procedano tutte le cose nel mondo; perciò non potrà legare il suo cuore troppo saldamente ad alcuna cosa particolare: deve esserci in lui stesso qualcosa di errante, che trovi la sua gioia nel mutamento e nella transitorietà. Certo, per un tal uomo verranno cattive nottate, in cui sarà stanco e troverà chiusa la porta della città che doveva offrirgli riposo; forse, ancora, come in oriente, il deserto arriverà fino alla porta, e gli animali da preda gli ululeranno ora da lungi ora da presso, e si leverà un forte vento e i predoni gli porteranno via gli animali da tiro. Allora la terribile notte calerà veramente per lui come un secondo deserto sul deserto, e il suo cuore sarà stanco di errare. Ma quando sorgerà poi per lui il sole del mattino, rutilante come una divinità della collera, quando la città si aprirà, vedrà sulle facce dei suoi abitanti forse ancora più deserto, sozzura, inganno e incertezza che fuori le porte - e il giorno sarà quasi peggiore della notte. Così potrà ben accadere un giorno al viandante; ma poi verranno, come ricompensa, i deliziosi mattini di altre contrade e di altre giornate, in cui, già nel grigiore della luce, si vedrà passare accanto danzando nella nebbia dei monti i cori delle Muse, in cui poi, quando silenziosamente, nell'equilibrio dell'anima mattinale, egli passeggerà sotto gli alberi, gli cadranno intorno dalle cime e dai recessi del fogliame solo cose buone e chiare, i doni di tutti quegli spiriti liberi che abitano sul monte, nel bosco e nella solitudine e che, simili a lui, nella loro maniera ora gioiosa e ora meditabonda sono viandanti e filosofi. Nati dai misteri del mattino, essi meditano come mai il giorno, fra il decimo e il dodicesimo rintocco di campana, possa avere un volto così puro, così luminoso, così trasfiguratamente sereno: essi cercano la filosofia del mattino? (Umano, troppo umano)

In questa fase illuministica la tendenza critica e demistificatrice del filosofare nietzscheano si afferma apertamente e assume la forma di una programmatica messa in discussione delle certezze consolidate, facendo sì che Nietzsche appaia "il grande "smascheratore" di tutte le illusioni e i pregiudizi del genere umano, colui che osa guardare imperterrito ciò che si cela dietro i valori universalmente accettati; dietro le grandi e piccole verità meglio stabilite, dietro gli ideali che sono stati alla base della civiltà e hanno guidato il corso della storia. E così la morale e la scienza, la religione e la politica, sono per lui nient'altro che maschere che nascondono una realtà inquietante e minacciosa, di cui è difficile sopportare la vista." (N. Abbagnano, La saggezza della filosofia, Rusconi, Milano 1987, p. 10)

Fra gli «errori» dell'umanità e le «maschere» della civiltà europea Nietzsche colloca soprattutto la morale e la metafisica. Sebbene egli si soffermi sin d'ora a contestare taluni capisaldi del pensiero etico, come l'idea (illusoria) di libero arbitrio o la credenza (illusoria) in azioni "disinteressate", l'analisi della morale sarà sviluppata soprattutto negli ultimi scritti. La critica della metafisica trova invece la sua espressione più caratteristica nella teoria della «morte di Dio», annunciata nella Gaia scienza.

b) La morte di Dio e la fine delle illusioni metafisiche

Realtà e menzogna

Per comprendere in modo adeguato che cosa significhi la «morte di Dio» nel percorso filosofico nietzscheano occorre tenere presente che per Nietzsche Dio è sostanzialmente: 1) il simbolo di ogni prospettiva oltremondana che ponga il senso dell'essere al di là dell'essere, ovvero in un altro mondo contrapposto a questo mondo; 2) la personificazione delle certezze ultime dell'umanità, ossia di tutte le credenze metafisiche e religiose elaborate attraverso i millenni per dare un senso e un ordine rassicurante alla vita.

Il primo punto è connesso alla convinzione nietzscheana secondo cui Dio e l'oltremondo abbiano storicamente rappresentato una fuga dalla vita e una rivolta contro questo mondo. «In Dio è dichiarata inimicizia alla vita, alla natura, alla volontà di vivere! Dio, la formula di ogni calunnia dell'"aldiqua", di ogni menzogna dell'"aldilà"» (. L'Anticristo): formula a cui Nietzsche contrappone la sua accettazione dionisiaca dell'esistenza.

Il secondo punto discende dalla maniera nietzscheana di concepire la metafisica, secondo la quale l'immagine di un cosmo ordinato e benefico è soltanto una costruzione della nostra mente ai fini di sopportare la durezza dell'esistenza. Così scriverà in seguito:

C'è un solo mondo ed è falso, crudele, contraddittorio, corruttore, senza senso... Un mondo così fatto è il vero mondo... Noi abbiamo bisogno della menzogna per vincere questa realtà, questa "verità", cioè per vivere [...] La metafisica, la morale, la religione, la scienza [...] vengono prese in considerazione solo come diverse forme di menzogna: col loro sussidio si crede nella vita. (Frammenti postumi 1887-1888)

[n altri termini, di fronte a una realtà che risulta verificabilmente contraddittoria, disarmonica, crudele e non provvidenziale, gli uomini, per poter sopravvivere, hanno dovuto convincere se stessi e i loro figli che il mondo è qualcosa di "logico", di benefico e di provvidenziale:

"La vita deve ispirare fiducia"): il compito, così posto, è immenso. Per assolverlo, l'uomo dev'essere già per natura un mentitore...” (lbid)

Da ciò il proliferare delle metafisiche e delle religioni, tutte protese a esercitare degli esorcismi protettivi nei confronti di un universo che «danza sui piedi del caso» e che non risulta affatto costruito secondo categorie di ragione:

Il carattere complessivo del mondo è [...] caos per tutta l'eternità, non nel senso di un difetto di necessità, ma di un difetto di ordine, articolazione, forma, bellezza, sapienza e di tutto quanto sia espressione delle nostre estetiche nature umane. (La gaia scienza)

Ma ormai, dinanzi allo sguardo disincantato del filosofo, le metafisiche e le religioni si sono definitivamente palesate per quello che sono: decorazioni della realtà e bugie di sopravvivenza: «L'amore, l'entusiasmo, "Dio" - tutte finezze di un estremo inganno di sé, tutte seduzioni che spingono a vivere!» (Frammenti postumi 1887-1888, 11 [415],). Da ciò il messaggio inquietante del filosofo. Essendo la più antica delle bugie vitali («la nostra più lunga menzogna»), Dio si configura come la quintessenza di tutte le credenze escogitate attraverso i tempi per poter fronteggiare il volto caotico e meduseo dell'esistenza.

La coscienza di vivere in un mondo "sdivinizzato" è così radicata, in Nietzsche, da spingerlo a ritenere superflua ogni ulteriore contro-dimostrazione della non esistenza di Dio. Analogamente a Schopenhauer, per il quale l'ateismo era «qualcosa di dato, di palpabile, d'indiscutibile» (La gaia scienza, 357), per Nietzsche è la realtà stessa, cioè l'essenza malefica e caotica del mondo, a confutare l'idea di Dio, l'origine della quale, come si è visto, è la paura archetipica di fronte all'essere:

Un tempo si cercava di dimostrare che Dio non esiste, - oggi si mostra come ha potuto avere origine la fede nell'esistenza di un Dio, e per quale tramite questa fede ha avuto il suo peso e la sua importanza: in tal modo una controdimostrazione della non esistenza di Dio diventa superflua. (Aurora, 95)

Di conseguenza, più che gli antecedenti dimostrativi del carattere a-finalistico, a-razionale e quindi a-teo dell'universo, a Nietzsche premono ormai l'annuncio dell'evento della morte di Dio e la riflessione sulle conseguenze prodotte da questo fatto decisivo della storia umana.

Il grande annuncio

In uno dei passi più significativi de La gaia scienza, Nietzsche drammatizza il messaggio della «morte di Dio» {Gott ist tot! ) con il noto racconto dell'uomo folle:

Avete sentito di quel folle uomo che accese una lanterna alla chiara luce del mattino, corse al mercato e si mise a gridare incessantemente: «Cerco Dio! Cerco Dio!»? E poiché proprio là si trovavano raccolti molti di quelli che non credevano in Dio, suscitò grandi risa. «Si è forse perduto?» disse uno. «Si è perduto come un bambino?» fece un altro. «Oppure sta ben nascosto? Ha paura di noi? Si è imbarcato? È emigrato?» gridavano e ridevano in una gran confusione. Il folle uomo balzò in mezzo a loro e li trapassò con i suoi sguardi: «Dove se n'è andato Dio?» gridò «ve lo voglio dire! Siamo stati noi ad ucciderlo: voi e io! Siamo noi tutti i suoi assassini! Ma come abbiamo fatto questo? Come potemmo vuotare il mare bevendolo fino all'ultima goccia? Chi ci dette la spugna per strusciar via l'intero orizzonte? Che mai facemmo, a sciogliere questa terra dalla catena del suo sole? Dov'è che si muove ora? Dov'è che ci muoviamo noi? Via da tutti i soli? Non è il nostro un eterno precipitare? E all'indietro, di fianco, in avanti, da tutti i lati? Esiste ancora un alto e un basso? Non stiamo forse vagando come attraverso un infinito nulla? Non alita su di noi lo spazio vuoto? Non si è fatto più freddo? Non seguita a venire notte, sempre più notte? Non dobbiamo accendere lanterne la mattina? Dello strepito che fanno i becchini mentre seppelliscono Dio, non udiamo dunque nulla? Non fiutiamo ancora il lezzo della divina putrefazione? Anche gli dèi si decompongono! Dio è morto! Dio resta morto! E noi lo abbiamo ucciso! Come ci consoleremo noi, gli assassini di tutti gli assassini? Quanto di più sacro e di più possente il mondo possedeva fino ad oggi, si è dissanguato sotto i nostri coltelli; chi detergerà da noi questo sangue? Con quale acqua potremo noi lavarci? Quali riti espiatori, quali giochi sacri dovremo noi inventare? Non è troppo grande, per noi, la grandezza di questa azione? Non dobbiamo noi stessi diventare dèi, per apparire almeno degni di essa? Non ci fu mai un'azione più grande: tutti coloro che verranno dopo di noi apparterranno, in virtù di questa azione, ad una storia più alta di quanto mai siano state tutte le storie fino ad oggi!». A questo punto il folle uomo tacque, e rivolse di nuovo lo sguardo sui suoi ascoltatori: anch'essi tacevano e lo guardavano stupiti. Finalmente gettò a terra la sua lanterna che andò in frantumi e si spense. «Vengo troppo presto», prosegui; «non è ancora il mio tempo. Questo enorme avvenimento è ancora per strada e sta facendo il suo cammino: non è ancora arrivato fino alle orecchie degli uomini. Fulmine e tuono vogliono tempo, il lume delle costellazioni vuole tempo, le azioni vogliono tempo, anche dopo essere state compiute, perché siano vedute e ascoltate. Quest'azione è ancora sempre più lontana da loro delle più lontane costellazioni: eppure son loro che l'hanno compiuta! ». Si racconta ancora che l'uomo folle abbia fatto irruzione, quello stesso giorno, in diverse chiese e quivi abbia intonato il suo Requiem aeternam Deo. Cacciatone fuori e interrogato, si dice che si fosse limitato a rispondere invariabilmente in questo modo: «Che altro sono ancora queste chiese, se non le fosse e i sepolcri di Dio?». (La gaia scienza)

Come il platonico mito della caverna, anche questo passo nietzscheano contiene una ricca simbologia filosofica. Infatti, al di là del gioco allusivo delle immagini, emergono precisi "messaggi" di pensiero. Senza pretendere di esaurire tutti i rimandi del testo, possiamo evidenziarne taluni concetti di fondo, mediante una serie di identificazioni possibili.

L'uomo folle = il filosofo-profeta; le risa ironiche degli uomini del mercato = ateismo ottimistico e superficiale dei filosofi dell'Ottocento, insensibili alla portata agli effetti della morte di Dio; la difficoltà di bere il mare, di strusciare l'orizzonte : di sciogliere la terra dal sole = allusione al carattere arduo e sovrumano dell'uccisione di Dio; il precipitare nello spazio vuoto, la mancanza di un alto e di un basso, il freddo e la notte = il senso di "vertigine" e di "smarrimento" che seguono allo svanire di ogni ubi consistam e al venir meno di certezze e punti di riferimento assoluti; la necessità di divenire "dèi" noi stessi per apparire degni della «grandezza» dell'azione più grande = richiamo al fatto che per reggere la morte di Dio l'uomo deve farsi superuomo; il giungere troppo presto = la coscienza che la morte di Dio non si è ancora concretizzata in un fatto di massa, anche se è inevitabile che lo diventi nel prossimo futuro; le chiese come sepolcri di Dio = allusione alla crisi moderna delle religioni, considerate alla stregua di cadaverici "residui" del passato.

In un passaggio di Umano, troppo umano, Nietzsche, parlando del cristianesimo come di «un'antichità emergente da epoche remotissime», scrive significativamente:

Quando in una mattina di domenica sentiamo rimbombare le vecchie campane, ci chiediamo: ma è mai possibile! Ciò si fa per un ebreo crocifisso duemila anni fa, che diceva di essere il figlio di Dio. (Umano, troppo umano, 113)

E ne La gaia scienza osserva:

Nella vecchia Europa, mi sembra che anche oggi sia pur sempre la maggioranza ad aver necessità del cristianesimo, perciò esso continua sempre a trovare chi gli presta fede. Così infatti è l'uomo: anche se un articolo di fede potesse essere mille volte confutato, - posto che egli lo sentisse necessario, - continuerebbe sempre a tenerlo per vero (La gaia scienza, 347)

Morte di Dio e avvento del superuomo

La descrizione nietzscheana dello smarrimento esistenziale prodotto dalla morte di Dio è così partecipata che sembrerebbe opera di un credente. In realtà, dal contesto del discorso di Nietzsche appare chiaro che la morte di Dio costituisce sì un trauma, ma solo in relazione a un uomo-non-ancora-superuomo e che, proprio in virtù di essa, può divenire tale. La morte di Dio coincide infatti con l'atto di nascita del superuomo.

Solo chi ha il coraggio di guardare in faccia la realtà e di prendere atto del crollo degli assoluti è ormai maturo, secondo Nietzsche, per varcare l'abisso che divide l'uomo dall'oltreuomo. Il superuomo (o quel suo predecessore che è lo «spirito libero») ha dietro di sé, come condizione necessaria del suo essere, la morte di Dio e la vertigine da essa provocata, ma ha davanti a sé, a titolo di conquista, il «mare aperto» delle possibilità connesse a una libera progettazione della propria esistenza al di là di ogni struttura metafisica data. Scrive Nietzsche:

Noi filosofi e "spiriti liberi" alla notizia che il vecchio Dio è morto, ci sentiamo come illuminati dai raggi di una nuova aurora; il nostro cuore ne straripa di riconoscenza, di meraviglia, di presentimento, d'attesa, - finalmente l'orizzonte torna ad apparirci libero, anche ammettendo che non è sereno, - finalmente possiamo di nuovo scioglier le vele alle nostre navi, muovere incontro a ogni pericolo; ogni rischio dell'uomo della conoscenza è di nuovo permesso; il mare, il nostro mare, ci sta ancora aperto dinanzi, forse non vi è ancora mai stato un mare così "aperto" (La gaia scienza, 343)

Ne segue che «la morte di Dio, l'avvenimento più terribile per il vaticinatore, è per Zarathustra il più felice e pieno di speranza». (Frammenti postumi 1885-1887, 2 [19])

Secondo taluni studiosi, il discorso nietzscheano intorno alla morte di Dio, più che l'espressione di un convincimento di tipo teorico, sarebbe il risultato di una constatazione di tipo storico. In realtà, il fatto che tale tesi non sia argomentata secondo le modalità della metafisica tradizionale non implica la sua riducibilità a semplice enunciato di «critica della cultura»,( G. Vattimo, Introduzione a Nietzsche, Laterza, Roma-Bari 1985, p. 68) poiché essa si configura, al tempo stesso, come il frutto di una persuasione filosofica e di una consapevolezza epocale: «Nietzsche intende la sua tesi del declino dell'idea di Dio non solo come una sentenza su dati di fatto storici, ma anche come una visuale di genere filosofico-storico».( W. Weischedel, Il Dio dei filosofi, il melangolo, Genova 1988-96, vol. IV, p. 282.)

Tanto più che, prima di essere un evento, l'ateismo è, in Nietzsche, una sorta di istinto filosofico:

L'ateismo [...] non è un risultato, e tanto meno un avvenimento - come tale non lo conosco: io lo intendo per istinto. Sono troppo curioso, troppo problematico, troppo tracotante, perché possa piacermi una risposta grossolana. Dio è una risposta grossolana, una indelicatezza verso noi pensatori -, in fondo è solo un grossolano divieto che ci vien fatto: non dovete pensare! (Ecce Homo)

In ogni caso, per Nietzsche l'uomo può diventare superuomo soltanto dopo essere passato sul cadavere di tutte le divinità: «Morti son tutti gli dèi: ora vogliamo che il superuomo viva» esclama Zarathustra. Del resto, delle due l'una: o il mondo è caos dionisiaco, perciò Dio non esiste e il superuomo ha senso; o Dio esiste e il mondo ìon è più caos dionisiaco e il superuomo cessa di avere senso. L'universo nietzscheano è quindi tale solo sul presupposto, di derivazione schopenhaueriana, di un mondo "sdivinizzato", cioè inequivocabilmente ateo. Per cui, lasciare in piedi anche la più vaga ipotesi della possibilità di Dio o pensare che il nostro tempo possa essere qualificato come l'epoca degli dèi fuggiti e del Dio venturo, ovvero degli dèi :he non vi sono più e del Dio che non v'è ancora (Secondo l'interpretazione di Hòlderlin ripresa da Heidegger in Erlàuterungen zu Hólderlins Dwhtung, 1944 (trad. it. La poesia di Hòlderlin, Adelphi, Milano 1988) significa minare alla base tutto il discorso di Nietzsche (si intende del nietzscheanesimo storico) che si erge programmaticamente a partire dagli "effetti" della morte di Dio.

L'ateismo di Nietzsche vuol essere così radicale che egli non contesta soltanto Dio, ma anche ogni suo ipotetico surrogato, ben conscio che gli uomini, abbattute le antiche divinità, tendono inevitabilmente a crearne altre. Tant'è che nelle pagine finali di Così parlò Zarathustra, Nietzsche racconta di uomini che si mettono ad adorare un asino, con grande ira del filosofo-profeta il quale constata come il passaggio dall'uomo al superuomo sia lento e difficile. L'asino è simbolo di ogni sostituto idolatrico di Dio e allude probabilmente alle varie forme dell'ateismo "positivo" dell'Ottocento, nelle quali il vecchio Dio per opera di una serie di «pallidi ateisti, anticristi» si trova rimpiazzato da altrettanti supplenti (lo Stato, l'Umanità, la Scienza, il Socialismo ecc.), che vengono a riempire il vuoto lasciato dalle precedenti strutture metafisiche:

Dopo che Buddha fu morto, si continuò per secoli ad additare la sua ombra in una caverna - un'immensa orribile ombra. Dio è morto: ma stando alla natura degli uomini, ci saranno forse ancora per millenni caverne nelle quali si additerà la sua ombra. E noi - noi dobbiamo vincere anche la sua ombra! (La gaia scienza, 108)

Il fatto che Nietzsche, nei frammenti inediti, accenni, in qualche passo, ad altre possibili maniere di intendere Dio (come quando parla di un nuovo Dio coniato a immagine del superuomo o di un Dio inteso come simbolo della vita nella sua amoralità) non contraddice quanto abbiamo detto. Infatti, a scanso di equivoci, quando si sostiene che Dio, in Nietzsche, è definitivamente morto, per "Dio" si intende, a rigore, ciò che, da parte dei filosofi, si è storicamente inteso per tale, ovvero l'Essere metafisico e il Valore dei valori.

D'altra parte, che Nietzsche, secondo la testimonianza di Salomé (Cfr. L.A. Salomé, Vita di Nietzsche, Editori Riuniti, Roma 1998, p. 76.), non sia riuscito a sopprimere, in se stesso, la "nostalgia" per Dio è una tesi che si può condividere o meno ma che non infirma, a rigore, il carattere «assoluto» e «onesto» (come egli lo chiama) del suo ateismo.

Come il mondo vero finì per diventare favola e l'autosoppressione della morale

Coincidendo con il venir meno delle certezze metafisiche, la morte di Dio corrisponde al tramonto definitivo del platonismo, concepito come la metafisica per eccellenza del pensiero occidentale. Lo stesso cristianesimo, per Nietzsche, è nient'altro che «platonismo per il popolo». Infatti, è stato Platone a «calunniare» filosoficamente questo mondo e ad inventare l'idea di un mondo che si contrappone a quello apparente in cui viviamo. In seguito, tale mondo ha finito per rivelarsi come una favola. Ciò è storicamente avvenuto attraverso un processo che Nietzsche, in Crepuscolo degli idoli, scandisce in sei tappe. In un primo tempo, con Platone e la filosofia greca, si ritiene che il mondo vero sia attingibile dai saggi. In un secondo tempo, con il cristianesimo, il mondo vero, momentaneamente inattingibile, viene "promesso" ai saggi e ai virtuosi. In un terzo momento, il mondo vero, ritenuto indimostrabile, viene ridotto a un obbligo o a un postulato morale (è questa la soluzione compromissoria di Kant, nato nella nordica città di Königsberg). In un quarto momento, con il «canto del gallo» del positivismo, che rappresenta il primo risveglio della ragione antimetafisica, il mondo vero viene decisamente prospettato come «inconoscibile» (Spencer). In un quinto momento, il mondo vero si rivela un'idea inutile e superflua, ormai confutata: è il trionfo di tutti gli spiriti liberi che godono per aver svergognato Platone. Infine, in un sesto momento, che corrisponde al tempo di Zarathustra, con l'eliminazione del mondo vero dell'aldilà si ha pure l'eliminazione del mondo apparente dell'aldiqua, ovvero la definitiva sconfitta di ogni prospettiva metafisico-dualistica che faccia del nostro mondo la copia negativa (e quindi biasimevole) di un altro mondo.

Ecco il testo integrale in cui Nietzsche, non senza una vena di sottile e brillante ironia, descrive il processo di cui abbiamo offerto la chiave di lettura e il senso filosofico:

Storia di un errore.

1) Il mondo vero, attingibile dal saggio, dal pio, dal virtuoso, - egli vive in esso, lui stesso è questo mondo.

(La forma più antica dell'idea, relativamente intelligente, semplice, persuasiva. Trascrizione della tesi «Io, Platone, sono la verità»).

2) Il mondo vero, per il momento inattingibile, ma promesso al saggio, al pio, al virtuoso («al peccatore che fa penitenza»).

(Progresso dell'idea: essa diventa più sottile, più capziosa, più inafferrabile - diventa donna, si cristianizza...).

3) Il mondo vero, inattingibile, indimostrabile, impromettibile, ma già in quanto pensato una consolazione, un obbligo, un imperativo.

(In fondo l'antico sole, ma attraverso nebbia e scetticismo; l'idea sublimata, pallida, nordica, kònigsbergica).

4) Il mondo vero - inattingibile. Comunque non raggiunto. E in quanto non raggiunto, anche sconosciuto. Di conseguenza neppure consolante, salvifico, vincolante: a che ci potrebbe vincolare qualcosa di sconosciuto?...

(Grigio mattino. Primo sbadiglio della ragione. Canto del gallo del positivismo).

5) Il "mondo vero" - un'idea, che non serve più a niente, nemmeno più vincolante - un'idea divenuta inutile e superflua, quindi un'idea confutata: eliminiamola! (Giorno chiaro; prima colazione; ritorno del bon sens e della serenità; Platone rosso di vergogna; baccano indiavolato di tutti gli spiriti liberi).

6) Abbiamo tolto di mezzo il mondo vero: quale mondo ci è rimasto? forse quello apparente?... Ma no! col mondo vero abbiamo eliminato anche quello apparente! (Mezzogiorno; momento dell'ombra più corta; fine del lunghissimo errore; apogeo dell'umanità; INCIPIT ZARATHUSTRA). (Crepuscolo degli idoli)

In Aurora Nietzsche presenta la fine del mondo vero (e quindi la morte di Dio) in termini di «autosoppressione della morale», intendendo dire, con questa formula, che è proprio in omaggio ai valori morali e cristiani della veracità e dell'onestà che noi abbiamo finito per sbarazzarci delle idee morali e metafisiche di matrice platonico-cristiana:

L'ateismo assoluto, onesto è [...] una vittoria finale e faticosamente conquistata della coscienza europea, in quanto è l'atto più ricco di conseguenze di una bimillenaria educazione alla verità, che nel suo momento conclusivo si proibisce la menzogna della fede in Dio. (La gaia scienza, 357)

8. Il periodo di Zarathustra
a) La filosofia del meriggio

Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno (1883-85) apre la terza, decisiva fase del filosofare nietzscheano, una fase che comincia là ove si era conclusa la filosofia del mattino, ossia con la consapevolezza che con l'eliminazione del mondo vero è tolto di mezzo anche il mondo apparente, cioè ogni scissione dualistica della realtà.

Dopo la «morte di Dio» si aprono due possibilità: l'ultimo uomo e il superuomo. «L'opposto del superuomo è l’ultimo uomo: li ho creati insieme.» (Frammenti postumi 1882-1884, 4 [171]). Zarathustra non ha dubbi: insegna il superuomo mostrando l'abiezione dell'ultimo uomo. Zarathustra non è il superuomo, ma soltanto il suo profeta: «io sono un messaggero del fulmine e [...] il fulmine si chiama superuomo». Così parlò Zarathustra, "Prefazione di Zarathustra")

Perché Nietzsche ha eletto la figura arcaica di Zarathustra a portavoce delle proprie idee? La questione è dibattuta. Certo è che in un passo di Ecce homo Zarathustra viene interpretato secondo il modello dell'autosoppressione della morale, ossia come colui che, essendo stato il primo ad aver tradotto la morale in termini metafisici, sarebbe stato anche il primo a essersi accorto dell'errore della morale:

Zarathustra ha creato questo errore fatale, la morale: di conseguenza egli deve essere anche il primo a riconoscere quell'errore [...] La morale che supera se stessa per veracità, i moralisti che superano se stessi diventando il loro opposto - me stesso -questo significa il nome di Zarathustra sulla mia bocca. (Ecce Homo)

Così parlò Zarathustra segna un'autentica rivoluzione stilistica. Non è un saggio, né una raccolta di aforismi, bensì una sorta di poema in prosa che mette capo a una singolare forma di poesia pensante e di pensiero poetante. Il tono profetico che caratterizza l'opera e il profluvio di immagini e di parabole in cui si articola la rendono, talora, di difficile lettura e interpretazione. Ciò non toglie che la sua trama di fondo, a cominciare dal racconto che ne costituisce la cornice, sia complessivamente chiara. A trent'anni (l'età in cui Gesù di Nazareth comincia il suo insegnamento) Zarathustra "si ritira ancora per dieci anni, in montagna, nella solitudine, e giunto così vicino all'essenza di tutte le cose, comincia il suo "tramonto", la sua discesa tra gli uomini per portar loro l'insegnamento, che prima annuncia sul mercato e poi ai singoli. Mi ancora gli orecchi non sono svegli e aperti al suo messaggio; egli ritorna e tiene a suoi seguaci la seconda serie di parabole, ma esita ad annunciare il suo pensiero piì profondo, il pensiero dell'Eterno Ritorno dell'Uguale; ritornerà così una terza volta per ritrovare se stesso e il nucleo essenziale del suo pensiero; la quarta parte [...] mo stra il tentativo di vita degli «uomini superiori», proprio di quelli che rappresentane il «resto di Dio», degli idealisti, ai quali il cielo ideale è sprofondato e ora provane il grande terribile vuoto: «tutti gli uomini della grande brama, della grande nausea del grande disgusto», i nichilisti. Ma il pensatore supera anche questi «uomini supe riori». Con essi egli festeggia, sì, la "cena", sacrilegamente parodiata, ma quando giun gè il suo segno, leone e colomba, allegorie della forza e della mitezza, si mette in cammino e abbandona la sua caverna, «ardente e forte come un sole del mattino, chi venga da nere montagne»".( E. Fink, op. cit., p. 70.)

Dal punto di vista concettuale, i temi di base dello Zarathustra sono sostanzialmente: il superuomo (annunciato nella prima parte), la volontà di potenza (annunciata nella seconda parte) e l'eterno ritorno (annunciato nella terza parte). Poiché il tema della volontà di potenza viene sviluppato soprattutto negli ultimi scritti, in questa sezione ci soffermeremo sui temi del superuomo e dell'eterno ritorno.

b) Il superuomo

Il superuomo (Übermensch) è senz'altro il motivo più noto del pensiero di Nietzsche, ma anche uno dei più complessi e controversi. In linea generale, possiamo che il superuomo è un concetto filosofico di cui si serve Nietzsche per esprimere il progetto di un tipo di uomo qualificato da una serie di caratteristiche che coincidono con i temi di fondo del suo pensiero. Il superuomo è colui che è in gradi accettare la dimensione tragica e dionisiaca dell'esistenza; di dir di Sì alla vita ; di "reggere" la morte di Dio e la perdita delle certezze assolute; di far propria la prospettiva dell'eterno ritorno; di emanciparsi dalla morale e dal cristianesimo; di porsi come volontà di potenza; di procedere oltre il nichilismo; di affermarsi come attività interpretante e prospettica ecc. In quanto tale, il superuomo non può stagliarsi sull'orizzonte del futuro.

Infatti, sebbene Nietzsche si sforzi di trovare nel passato i precursori collettivi o individuali del superuomo (l'aristocrazia antica, la bella individualità di matrice umanistica, Napoleone ecc.), l’Übermensch di cui egli parla è irriducibile a tali modelli. L’Übermensch è piuttosto il tipo nuovo, cioè un essere radicalmente altro da quello che ci sta di fronte. Tant'è vero che, volendo evidenziare la differenza il superuomo e l'uomo, si può tradurre con oltreuomo (secondo la proposta di Vattimo) l'espressione Übermensch, dove il prefisso ùber, più che indicare un “uomo potenziato", sta a definire un uomo-oltre-1'uomo, cioè un uomo che si colloca il di là di ogni tipo antropologico dato. In sintesi, il superuomo nietzscheano, che non va confuso con un esteta di tipo dannunziano o con un'entità biologica di matrice darwiniana, non è l'uomo al superlativo, ma un uomo diverso da quello che conosciamo: un uomo oltre l'uomo, capace di creare nuovi valori e di rapportarsi in modo ìnedito alla realtà.

Nietzsche presenta il superuomo come «il senso della terra» e come il fautore di antidealistica fedeltà al mondo:

Vi scongiuro, fratelli, rimanete fedeli alla terra e non credete a quelli che vi parlano d i sovraterrene speranze! Lo sappiano o no: costoro esercitano il veneficio. (Così parlò Zarathustra, , "Prefazione di Zarathustra")

L’uomo è terra ed è nato per vivere sulla terra. L'anima, che dovrebbe essere il soggetto di un'ipotetica esistenza ultraterrena, è insussistente: l'uomo è sostanzialmente corpo. «Corpo io sono in tutto e per tutto», esclama Zarathustra, «e anima non è altro che una parola per indicare qualcosa del corpo» (Ivi, "Dei dispregiatori del corpo"). Questa rivendicazione della natura terrestre del superuomo fa tutt'uno con l'accettazione totale della vita che è propria dello spirito dionisiaco. In virtù di tale accettazione, la terra cessa di essere il deserto in cui l'uomo è in esilio per trasformarsi nella sua dimora gioiosa e il corpo non è più la prigione o la tomba dell'anima ma diventa il concreto modo di essere dell'uomo nel mondo.

Nel primo discorso, Nietzsche descrive la genesi e il senso del superuomo alla stregua di una libertà che libera se stessa, per approdare a un'innocente e creativa affermazione della vita: «Tre metamorfosi io vi nomino dello spirito: come lo spirito diventa cammello, e il cammello leone, e infine il leone fanciullo» (Ivi, "Delle tre metamorfosi"9. Il cammello rappresenta l'uomo che porta i pesi della tradizione e che si piega di fronte a Dio e alla morale, all'insegna del "tu devi". Il leone rappresenta l'uomo che si libera dai fardelli metafisici ed etici, all'insegna dell'"io voglio" e nell'ambito di una libertà ancora negativa: libertà "da" e non libertà "di". Il fanciullo rappresenta l'oltreuomo, cioè quella creatura non risentita di stampo dionisiaco che, nella sua innocenza ludica, sa dir di sì alla vita e inventare se stessa al di là del bene e del male, a guisa di «spirito libero».

Qualche studioso, assimilando Nietzsche a Marx, ha scorto nel superuomo l'incarnazione di un'umanità liberata e in Nietzsche una sorta di profeta progressista. In realtà, il superomismo del filosofo di Röcken presenta espliciti connotati antidemocratici e reazionari. In altri termini, che Nietzsche sia un "filosofo della liberazione" è un fatto. Ma la liberazione da tutte le autorità umane e divine che egli auspica - e in cui risiede il senso stesso del superuomo - non è qualcosa che riguarda tutta l'umanità, ma soltanto una parte di essa, ovvero un'elite di individui superiori che non si limita a erigersi al di sopra delle masse, ma che, nella sua qualità di «razza dominatrice», ha addirittura «bisogno della schiavitù» delle masse «come della sua base e condizione». (Frammenti postumi 1885-1887)

Contrariamente alle nostre attese "democratiche" di uomini del XXI secolo (e diversamente da quanto emerge da certe letture "di sinistra"), la filosofia antidemocratica e antiegualitaria di Nietzsche non giunge a vagheggiare «un'umanità di su-peruomini» o di «spiriti liberi», ma si limita a scorgere neìYUbermensch «il tipo riuscito al massimo grado», ovvero l'eccezione superiore che si contrappone al «gregge» degli inferiori. In conclusione, stando ai testi, il superuomo non rimanda a un possibile modo di essere di tutti, ma a un possibile modo di essere di pochi.

Ciò non significa che il superomismo nietzscheano metta capo a un progetto politico definito. Infatti, più che farsi "politico", Nietzsche denunzia, nel corso della sua opera, tutti gli idoli politici del suo tempo: dallo statalismo alla democrazia parlamentare, dal nazionalismo militarista al socialismo (di cui contesta gli ideali egualitari). Tutto ciò, se da un lato spiega perché i vari tentativi di "catturare" Nietzsche in senso politico si siano risolti in manifeste forzature del suo pensiero, dall'altro mostra chiaramente come il messaggio ultimo del suo pensiero non vada cercato sul piano politico, ma su quello filosofico, ossia nelle varie tematiche generali su cui ci siamo soffermati: l'accettazione totale della vita, la critica delle illusioni metafisiche, la morte di Dio ecc.

c) L'eterno ritorno come formula dell'accettazione totale dell'essere

Nietzsche presenta la teoria dell'Eterno Ritorno dell'Uguale {Ewige Wiederkehr des Gleichen), ovvero della ripetizione eterna di tutte le vicende del mondo, come il pensiero più profondo e decisivo della sua filosofia: «Io Zarathustra, l'avvocato della vita, l'avvocato del dolore, l'avvocato del circolo - io chiamo te, il più abissale dei miei pensieri» (Così parlò Zarathustra, "Il convalescente"). In una pagina di Ecce homo Nietzsche racconta di essere stato «folgorato» da questa idea durante una passeggiata a Sils Maria, in Alta Engadina, un giorno dell'agosto 1881, quando, «6000 piedi al di là dell'uomo e del tempo», stava percorrendo i viottoli che costeggiano il lago di Silvaplana e si perdono nei boschi. La prima formulazione di tale pensiero la troviamo nell'aforisma 341 de La gaia scienza:

Il peso più grande. Che accadrebbe se, un giorno o una notte, un demone strisciasse furtivo nella più solitaria delle tue solitudini e ti dicesse: «Questa vita, come tu ora la vivi e l'hai vissuta, dovrai viverla ancora una volta e ancora innumerevoli volte, e non ci sarà in essa mai niente di nuovo, ma ogni dolore e ogni piacere e ogni pensiero e sospiro, e ogni indicibilmente piccola e grande cosa della tua vita dovrà fare ritorno a te, e tutte nella stessa sequenza e successione - e così pure questo ragno e questo lume di luna tra i rami e così pure questo attimo e io stesso. L'eterna clessidra dell'esistenza viene sempre di nuovo capovolta e tu con essa, granello della polvere!»? Non ti rovesceresti a terra, digrignando i denti e maledicendo il demone che così ha parlato? Oppure hai forse vissuto una volta un attimo immenso, in cui questa sarebbe stata la tua risposta: «Tu sei un dio e mai intesi cosa più divina»? Se quel pensiero ti prendesse in suo potere, a te, quale sei ora, farebbe subire una metamorfosi, e forse ti stritolerebbe; la domanda per qualsiasi cosa: «Vuoi tu questo ancora una volta e ancora innumerevoli volte?» graverebbe sul tuo agire come il peso più grande! Oppure, quanto dovresti amare te stesso e la vita, per non desiderare più alcun'altra cosa che questa ultima eterna sanzione, questo suggello?». (La gaia scienza)

Sin da questo passo, il pensiero dell'eterno ritorno tende, sia pure in forme implicite, a palesare il suo carattere selettivo, fungente da spartiacque fra l'uomo e il superuomo. Infatti, la prima reazione di fronte alla prospettiva dell'eterno ripetersi del tutto - il terrore e il senso di "peso" - è propria dell'uomo, mentre la gioia entusiastica per «l'eterna sanzione» dell'essere si manifesta come tipica del superuomo e della sua accettazione totale della vita.

La formulazione più eloquente e suggestiva della teoria dell'eterno ritorno la troviamo in Così parlò Zarathustra, nel discorso dal titolo ha visione e l'enigma, in cui Nietzsche parla della «visione del più solitario tra gli uomini» (= il filosofo autentico). Zarathustra narra di una salita su un impervio sentiero di montagna (= il faticoso innalzarsi del pensiero), durante la quale egli, con il nano che lo segue, si trova di fronte a una porta carraia su cui è scritta la parola "attimo" (= il presente) e dinanzi alla quale si uniscono due sentieri che «nessuno ha mai percorso sino alla fine» in quanto si perdono nell'eternità: il primo porta all'indietro (= il passato) e l'altro porta in avanti (= il futuro). Zarathustra chiede al nano se le due vie sono destinate a contraddirsi in eterno oppure no. Alla risposta un po' affrettata del nano, che allude alla circolarità del tempo («Tutte le cose diritte mentono, borbottò sprezzante il nano. Ogni verità è ricurva, il tempo stesso è un circolo»), Zarathustra, dopo aver invitato il suo compagno a «non prendere le cose troppo alla leggera», espone un abbozzo di teoria dell'eterno ritorno: «non dobbiamo tutti esserci stati un'altra volta?», «non dobbiamo ritornare in eterno?».

A questo punto abbiamo una trasformazione di scena, una sorta di visione nella visione, entro la quale, sullo sfondo di un desolato paesaggio lunare e di orridi macigni, Zarathustra vede "un giovane pastore rotolarsi, soffocato, convulso, stravolto in viso, cui un greve serpente nero penzolava dalla bocca. Avevo mai visto tanto schifo e livido raccapriccio dipinto su di un volto? Forse, mentre dormiva, il serpente gli era strisciato dentro le fauci e - lì si era abbarbicato mordendo. La mia mano tirò con forza il serpente, tirava e tirava - invano! non riusciva a strappare il serpente dalle fauci. Allora un grido mi sfuggì dalla bocca: «Mordi! Mordi! Staccagli il capo! Mordi!» [...]. Il pastore, poi, morse così come gli consigliava il mio grido; e morse bene! Lontano da sé sputò la testa del serpente -: e balzò in piedi. Non più pastore, non più uomo, - un trasformato, un circonfuso di luce, che rideva! Mai prima al mondo aveva riso un uomo, come lui rise!" (Così parlò Zarathustra, "La visione e l'enigma")

Parecchi significati specifici di questo racconto rimangono enigmatici o polisensi -e Zarathustra stesso li annuncia come tali. (Per un tentativo di decifrazione analitica dei sensi riposti di questo racconto, cfr. G. Vattimo, Il soggetto e la maschera,). Tuttavia, la scena centrale del pastore che morde la testa al serpente, trasformandosi in creatura luminosa e ridente, allude in modo abbastanza chiaro, al di là della complessità del testo, al fatto che l'uomo (= il pastore) può trasformarsi in creatura superiore e ridente (= il superuomo), solo a patto di vincere la ripugnanza soffocante del pensiero dell'eterno ritorno (= il serpente, emblema del circolo), mediante una decisione coraggiosa nei suoi confronti (= il morso alla testa del serpente). Dopo più di duemila anni, Nietzsche torna dunque a recuperare una concezione precristiana del mondo, presente nella Grecia presocratica e nelle più antiche civiltà indiane (Cfr. M. Eliade, // mito dell'eterno ritorno: archetipi e ripetizione, Boria, Torino 1968. Eliade afferma, tra l'altro, che «la credenza della periodica distruzione e creazione dell'universo si trova già neìl'Atharva veda. La presenza di idee simili nella tradizione germanica [...] conferma la struttura indo-ariana di questo mito») la quale presuppone, alla lettera, una visione ciclica del tempo, in opposizione a quella rettilinea di tipo cristiano-moderno:

Tutto va, tutto torna indietro; eternamente ruota la ruota dell'essere. Tutto muore, tutto torna a fiorire, eternamente corre l'anno dell'essere. Tutto crolla, tutto viene di nuovo connesso; eternamente l'essere si costruisce la medesima abitazione. Tutto si diparte, tutto torna a salutarsi; eternamente fedele a se stesso rimane l'anello dell'essere. In ogni attimo comincia l'essere; attorno ad ogni "qui" ruota la sfera "là". Il centro è dappertutto. Ricurvo è il sentiero dell'eternità. (Così parlò Zarathustra, "Il convalescente",)

Che cos'è veramente la teoria dell'eterno ritorno? Forse una certezza cosmologica, come sembra far credere Nietzsche stesso, che in taluni luoghi della sua opera, rifacendosi al sapere contemporaneo, sembra inseguire l'obiettivo di una spiegazione "scientifica" di essa (sostenendo che siccome la quantità di energia dell'universo è finita, mentre il tempo in cui essa si esprime è infinito, le manifestazioni e le combinazioni di essa dovranno per forza ripetersi)? ( Come scrive Maurizio Ferraris, «non è a una generica e remota credenza, ma a un dibattito ben attuale nella scienza e nella filosofia dell'età di Nietzsche che questi faceva riferimento nell'affacciare l'ipotesi ciclica», in Aa.Vv., Guida a Nietzsche, a cura di M. Ferraris, Laterza, Roma-Bari 1999).

Forse un'ipotesi sull'essere che funge da schema etico o da nuovo imperativo categorico, il quale prescrive di amare la vita e di agire "come se" tutto dovesse ritornare? (Per un confronto della dottrina di Nietzsche con quella kantiana dell'imperativo categorico, si veda, tra l'altro, W.A. Kaufmann, Nietzsche. Filosofo, psicologo, anticristo, Sansoni, Firenze 1974) Oppure l’enunciazione metaforica di un modo di essere dell'essere che l'uomo può incarnare solo nella misura in cui è felice? E che cosa significa decidere l'eterno ritorno? Forse prendere atto di una struttura cosmica già data, come sostengono le letture tradizionali, oppure istituirlo tramite una scelta, come affermano taluni critici odierni? Ognuna di queste interpretazioni rivela notevoli difficoltà e conferma come la questione dell'eterno ritorno rappresenti il problema oggettivamente più complesso della storiografia nietzscheana.

Le difficoltà relative al concetto di eterno ritorno e ai suoi rapporti con la "decisione" umana non escludono comunque che la funzione di questa teoria, all'interno dell'economia complessiva del pensiero di Nietzsche, risulti sufficientemente chiara. Infatti, porsi nella prospettiva dell'eterno ritorno, per Nietzsche, significa escludere talune cose e difenderne altre. Da ciò la doppia portata, polemica da un lato e propositiva dall'altro, di questa dottrina. Innanzitutto, collocarsi nell'ottica dell'eterno ritorno vuol dire rifiutare una concezione lineare del tempo come catena di momenti, ognuno dei quali ha senso solo in funzione degli altri, quasi che ogni attimo fosse un figlio che divora il padre (= il momento che lo precede) essendo destinato a sua volta a essere divorato dal proprio figlio (= il momento che lo segue), secondo un processo che Vattimo ha denominato «struttura edipica del tempo». (G. Vattimo, Il soggetto e la maschera,) Evidentemente, una dottrina della temporalità di questo tipo ha come presupposto la mancanza di felicità esistenziale, poiché nessun momento vissuto, per essa, ha davvero in se stesso una pienezza autosufficiente di significato. Viceversa, credere nell'eterno ritorno significa ritenere che il senso dell'essere non stia fuori dell'essere, in un oltre irraggiungibile e frustrante, ma nell'essere stesso, ossia in ciò che Nietzsche chiama il divenire «innocente» e «dionisiaco» delle cose, significa disporsi a vivere la vita, e ogni attimo di essa, come coincidenza di essere e di senso, realizzando in tal modo «la felicità del circolo».

Ovviamente, il tipo di uomo capace di «decidere» l'eterno ritorno, e quindi di vivere come se tutto dovesse ritornare, non può essere l'uomo che conosciamo, cioè l'individuo occidentale caratterizzato dal risentimento, il quale soffre la scissione fra senso ed esistenza e concepisce il tempo come una tensione angosciosa verso un compimento sempre al di là da venire, ma solo un superuomo in grado di vivere la vita come un gioco creativo e avente in se medesimo il proprio senso appagante. Per questo motivo, l'eterno ritorno incarna al massimo grado l'accettazione superomistica dell'essere, ponendosi, per dirla con Nietzsche, come «la suprema formula dell'affermazione che possa mai essere raggiunta». (Ecce Homo)

9. L'ultimo Nietzsche

Nelle opere edite dell'ultimo periodo campeggiano i temi interconnessi della critica della morale e del cristianesimo. Esaurita, nello Zarathustra, la parte costruttiva del suo pensiero, Nietzsche, più "inattuale" che mai, entra in una serrata polemica con il proprio tempo e, fra toni esaltati e violenti, propri di un iconoclastico filosofare «con il martello», si propone di distruggere definitivamente le credenze dominanti per far posto all'avvento di un nuovo pensiero, finalizzato alla creazione del superuomo. Nei frammenti inediti, parallelamente al ventilato progetto di Der Wille tur Macht, ritroviamo i temi della volontà di potenza, del nichilismo e del prospettivismo.

a) Il crepuscolo degli idoli etico-religiosi e la trasvalutazione dei valori

Il tema dell'accettazione della vita - che costituisce il filo conduttore di tutto il pensiero di Nietzsche - porta il filosofo a polemizzare aspramente contro la morale e il cristianesimo, considerati come le tipiche forme di coscienza e di azione attraverso cui l'uomo è giunto a porsi contro la vita stessa.

Secondo Nietzsche la morale, attraverso i tempi, è sempre stata considerata come un fatto evidente che si autoimpone all'individuo. Tant'è vero che, in ogni scienza della morale esistita sino a oggi, puntualizza in Al di là del bene e del male, non è mai stato posto, per quanto possa riuscire strano, il problema stesso della morale: è mancato cioè il sospetto che ci potesse essere, su questo punto, qualcosa di problematico. Di conseguenza, il primo passo da compiere nei confronti della morale, come afferma la prefazione alla Genealogia della morale, è di mettere in discussione la morale stessa: «abbiamo bisogno di una critica dei valori morali, di cominciare a porre una buona volta in questione il valore stesso di questi valori»? Proprio in vista di ciò, Nietzsche intraprende un'analisi genealogica della morale, al fine di scoprirne l'effettiva genesi psicologica. Nell'ambito di questo "viaggio" alle sorgenti dei comportamenti etici, il filosofo è guidato da una convinzione che esprime con una frase famosa:

dove voi vedete cose ideali,

io vedo cose umane, ahi troppo umane. (Ecce Homo)

Egli ritiene infatti che i pretesi valori trascendenti della morale e la morale stessa, intesa come specifico modo di essere, siano nient'altro che una proiezione di determinate tendenze umane che il filosofo, in virtù della psicologia, «signora delle scienze», ha il compito di svelare nei loro meccanismi segreti. Innanzitutto la cosiddetta «voce della coscienza», da cui procederebbe la morale, secondo Nietzsche, è nient'altro che la presenza, in noi, delle autorità sociali da cui siamo stati ducati. Per cui, anziché essere «la voce di Dio nel petto dell'uomo», la coscienza risulta piuttosto «la voce di alcuni uomini nell'uomo». In altre parole, la moralità è l'istinto del gregge nel singolo», ovvero il suo assoggettamento a determinate direttive fissate dalla società. Anziché rappresentare entità ontologiche autonome, i valori etici, considerati dal punto di vista storico-psicologico, sono quindi il risultato di determinate prospettive di utilità per il mantenimento e il rafforzamento delle norme di dominio umano e solo falsamente sono proiettati nell'essenza delle cose. Tuttavia, mentre in un primo momento, soprattutto nel mondo classico, la morale, essendo espressione di un'aristocrazia cavalleresca, risulta improntata ai vari vitali della forza, della salute, della fierezza, della gioia (= la morale dei signo-), in un secondo momento, che giunge al suo apice con il cristianesimo, la morale viene a definirsi nei valori antivitali del disinteresse, dell'abnegazione, del sacrificio di sé ecc. (= la morale degli schiavi). Ma come si spiega la vittoria della morale degli schiavi, ossia l'avvento di una maniera antivitale di rapportarsi alla vita? Com'è possibile che, a un certo punto, l'umanità occidentale abbia imboccato la strada della malattia e della decadenza? Ciò è avvenuto, risponde Nietzsche, perché la morale dei signori originariamente comprende in sé non solo l'etica dei guerrieri, ma anche quella dei sacerdoti. Ora, se il guerriero si rispecchia nelle virtù del "corpo", il sacerdote tende a perseguire le virtù dello "spirito". Ma poiché la natura è irresistibile, il sacerdote non può fare a meno di provare un certo risentimento verso i guerrieri, ovvero una segreta invidia e un latente desiderio di rivalsa nei loro confronti. Non potendo dominare la casta dei guerrieri sul loro stesso terreno, la casta sacerdotale cerca quindi di affermare se stessa elaborando una tavola di valori antitetica a quella dei cavalieri.

In tal modo, al corpo viene anteposto lo spirito, all'orgoglio l'umiltà, alla sessualità la castità e così via. Questo «rovesciamento di valori» è rappresentato soprattutto dagli ebrei, nei quali Nietzsche vede il «popolo sacerdotale» per eccellenza. Infatti, a suo parere, "sono stati gli ebrei ad aver osato, con una terrificante consequenzialità, stringendolo ben saldo con i denti dell'odio più abissale (l'odio dell'impotenza), il rovesciamento dell'aristocratica equazione di valore (buono = nobile = potente = bello = felice = caro agli dèi), owerossia i miserabili soltanto sono i buoni; solo i poveri, gli impotenti, gli umili sono i buoni; i sofferenti, gli indigenti, gli infermi, i deformi sono anche gli unici devoti [...]". (Genealogia della morale)

Questo tipo di morale, allorché ottiene la partecipazione delle masse, si trasforma in una vera e propria potenza e dà origine al cristianesimo. In tal modo la Giudea, umiliata dai romani, capovolge i valori del mondo antico e conquista Roma stessa tramite il cristianesimo, ossia mediante una religione che è il frutto di un risentimento dell'uomo debole verso la vita. Nel cristianesimo storico dell'Occidente Nietzsche scorge infatti il simbolo della vita che si mette contro la vita, ovvero «la più sotterranea congiura che sia mai esistita contro salute, bellezza [...] contro la vita stessa»? (L’Anticristo)

Ma proprio perché ha inibito gli impulsi primari dell'esistenza e ha corrotto le sorgenti naturali della gioia e del piacere mediante la nozione di "peccato", il cristianesimo storico, cioè concreto e non puramente dottrinale, ha prodotto un tipo d'uomo malato e represso, in preda a continui "sensi di colpa" che avvelenano la sua esistenza. Infatti, poiché «tutti gli istinti che non si scaricano all'esterno si rivolgono all'interno», l'uomo cristiano, al di là della maschera di serenità, è psichicamente un autotormentato che, nel suo risentimento, nasconde in sé un'aggressività contro la vita e uno spirito di vendetta contro il prossimo. Questo spiega perché dalla religione dell'amore sia potuta scaturire una casta sacerdotale spesso oppressiva e crudele, che lungo i secoli non ha esitato a bagnarsi del sangue altrui. Si noti come Nietzsche, più che contro la figura del Galileo, verso cui non nasconde simpatia (considerandolo un heiliger Anarchist, cioè un «santo anarchico») sia polemico contro i suoi pretesi seguaci:

Già la parola "cristianesimo" è un equivoco; in fondo è esistito un solo cristiano e questi morì sulla croce [...]. La Chiesa è esattamente ciò contro cui Gesù ha predicato e contro cui egli ha insegnato ai suoi discepoli a combattere. (Ivi)

A tutte le negazioni imposte dalla morale e dal cristianesimo, Nietzsche contrappone le più risolute ed entusiastiche affermazioni. Da ciò la sua proposta di una radicale «trasvalutazione di tutti i valori» {Umwertung aller Werte):

La mia verità è tremenda: perché fino a oggi si chiamava verità la menzogna. Trasvalutazione di tutti i valori: questa è la mia formula per l'atto con cui l'umanità prende la decisione suprema su se stessa, un atto che in me è diventato carne e genio. (Ecce homo)

Trasvalutazione che non va intesa alla stregua di un semplice rifiuto dei valori antivitali a favore di quelli vitali, ma come un nuovo modo di rapportarsi ai valori, che non vengono più intesi alla stregua di entità metafisiche autosussistenti, ma come libere proiezioni dell'uomo e della sua antiascetica volontà di potenza.

In rapporto a questa trasvalutazione, Nietzsche si sente investito di una missione epocale, finalizzata a porre le basi di un nuovo tipo di civiltà. Da ciò la figura del filosofo come legislatore e costruttore di storia. Gli operai della filosofia, come Kant e Hegel, non sono i veri filosofi. I veri filosofi sono dominatori e legislatori. Essi dicono «così deve essere!» e stabiliscono la meta dell'uomo, utilizzando i lavori preparatori di tutti gli «operai scientifici della filosofia» e di tutti i dominatori del passato: «Il loro conoscere è creare, il loro creare è una legislazione». (Al di là del bene e del male, 211)

La volontà di potenza
Vita e potenza

Nietzsche identifica la volontà di potenza con «l'intima essenza dell'essere» (Frammenti postumi 1888-1889 ),ovvero con il carattere fondamentale di ciò che esiste:

Volete un nome per questo mondo? Una soluzione per i suoi enigmi? Una luce anche per voi [...]? Questo mondo è la volontà di potenza - e nient'altro! E anche voi stessi siete questa volontà di potenza - e nient'altro! (Frammenti postumi 1884-1885)

Più in particolare, la volontà di potenza si identifica con la vita stessa, intesa come forza espansiva e autosuperantesi:

Ogni volta che ho trovato un essere vivente, ho anche trovato la volontà di potenza [...] E la vita stessa mi ha confidato questo segreto: «Vedi, disse, io sono il continuo, necessario superamento di me stessa»? (Così parlò Zarathustra, "Della vittoria su se stessi")

La molla fondamentale della vita non sono gli impulsi autoconservativi o la ricerca del piacere, ma la spinta all''autoaffermazione: «Volontà di vita? Al suo posto ho sempre soltanto trovato volontà di potenza»; (Frammenti postumi 1882-1884)«Avere e voler avere di più, in una parola la crescita - ciò è la vita stessa». (Frammenti postumi 1884-1885) Di questo costitutivo espandersi della vita troviamo tracce in ogni forma di esistenza e di attività:

Volontà di potenza come "legge di natura"

Volontà di potenza come vita

Volontà di potenza come morale

Volontà di potenza come politica

Volontà di potenza come scienza. (Frammenti postumi 1888-1889)

Essa trova la sua espressione più alta nel superuomo, che non è über solo perché è oltre l'uomo del passato, ma anche perché la sua essenza consiste nel continuo oltrepassamento di sé. Ma dire che la vita è autopotenziamento significa dire che la vita è autocreazione, cioè libera produzione di sé medesima al di là di ogni piano prestabilito:

Mille sentieri vi sono non ancora percorsi, mille salvezze e isole nascoste della vita. Inesaurito e non scoperto è ancora sempre l'uomo e la terra dell'uomo. (Così parlò Zarathustra, "Della virtù che dona")

La volontà di potenza come arte

Ma se l'essenza della vita è il potenziamento della vita e se tale potenziamento si identifica con la creazione che la vita fa di se stessa, ne segue che l'arte, intesa nel senso ampio di forza creatrice, non è soltanto una forma della vita, ma la sua forma suprema. Tant'è vero che Nietzsche arriva a parlare del mondo come di «un'opera d'arte che genera se stessa». (Frammenti postumi 1885-1887) Inoltre, poiché la volontà di potenza trova la sua espressione ultima nel superuomo, ne segue che l'artista si configura come «una prima visibile figura dell'oltreuomo». (G. Vattimo, Introduzione a Nietzsche)

Inizialmente Nietzsche aveva esaltato l'arte, poi nella fase illuministica ne aveva denunciato i limiti; in seguito, soprattutto nell'ultimo periodo, torna a rivalutarla, tanto più che egli la considera, almeno nella sua forma propria, come espressione di forza e potenza. Da ciò la contrapposizione fra l'arte sana di origine greca e l'arte malata di tipo romantico:

L'arte è una conseguenza dell’insoddisfazione per il reale! O un'espressione di riconoscenza per la felicità goduta} Nel primo caso romanticismo, nel secondo aureola e ditirambo (insomma arte d'apoteosi). (Frammenti postumi 1885-1887)

Analoga rivalutazione subisce la tragedia, intesa come modello di comprensione della realtà e capacità di cogliere l'aspetto spaventoso e problematico della vita, rinunciando a ogni soluzione di comodo:

Il gusto della tragedia contraddistingue i tempi e i caratteri forti [...]. È segno di benessere e di potenza riconoscere alle cose il loro carattere terribile e problematico; bisogna vedere per contro se uno abbia in genere bisogno di "soluzioni" finali. (Frammenti postumi 1887-1888)

In virtù di queste caratteristiche, l'arte funge da "contromovimento" rispetto all'ascetismo e al nichilismo:

L'arte e nient'altro che l'arte! Essa è la grande creatrice della possibilità di vivere, la grande seduttrice alla vita, il grande stimolante per vivere. L'arte come l'unica forza antagonistica superiore, contro ogni volontà di rinnegare la vita, come l'elemento anticristiano, antibuddhistico antinichilistico per eccellenza. (Frammenti postumi 1888-1889)

L'essenza creativa della volontà di potenza si manifesta nella produzione di valori, che non sono proprietà delle cose, ma proiezioni della vita e condizioni del suo esercizio:

Per conservarsi, l'uomo fu il primo a porre dei valori delle cose - per primo egli creò un senso alle cose, un senso umano! Perciò si chiama "uomo", cioè colui che valuta. (Così parlò Zarathustra, "Dei mille e uno scopo")

Da ciò l'essenza ermeneutica o interpretativa della volontà di potenza che, ai suoi livelli più alti, si configura come «la forza con cui nel corso della storia gli uomini progettano e instaurano valutazioni e interpretazioni». (P. De Gennaro, Introduzione a F. Nietzsche, Antologia, SEI, Torino 1975) Forza che trova il suo apice nella creazione superomistica di nuovi valori e nel suo tentativo di dare un senso all'insensatezza caotica del mondo.

Da questo punto di vista, la volontà di potenza trova il proprio culmine nell'accettazione-istituzione dell'eterno ritorno, ovvero nell'atto tramite cui il superuomo si libera dal peso del passato e "redime" il tempo. La volontà di potenza sembra urtare contro un ostacolo insuperabile: l'immodificabilità e l'irrevocabilità del passato, che le si impone e la rende prigioniera. Di questa situazione sono indice le dottrine dettate dallo «spirito di vendetta» (immagine di cui si serve Nietzsche per denotare quella rivolta impotente contro il passato che fa della sofferenza l'esito di una punizione o di un castigo), dottrine secondo cui la vita è un castigo e le cose passano perché "meritano" di passare:

Lo spirito di vendetta: amici, su nient'altro finora gli uomini hanno meglio riflettuto: e dov'era sofferenza, sempre doveva essere una punizione. "Punizione", infatti chiama la vendetta se stessa: con una parola bugiarda si dà ipocritamente una buona coscienza.

E poiché in colui che vuole è la sofferenza di non poter volere a ritroso - così il volere stesso e la vita in tutto e per tutto dovrebbe essere - punizione! Ed ecco che sullo spirito si accumulò nube su nube: e alla fine la demenza si mise a predicare: «Tutto perisce, perciò tutto è degno di perire!». (Così parlò Zarathustra, "Della redenzione")

Zarathustra afferma invece il carattere creativo e redentore della volontà rispetto al tempo, grazie alla quale il macigno del così fu si scioglie nel così volli che fosse pronunciato dal superuomo:

Ogni "così fu" è un frammento, un enigma, una casualità orrida - fin che la volontà che crea non dica anche: «ma così volli che fosse!». Finché la volontà che crea non dica anche: «ma così voglio! Così vorrò!». (Frammenti postumi 1885-1887,)

Questa redenzione del tempo, che fa tutt'uno con l'accettazione della sua essenza eternamente ritornante (amor fati!, formula di matrice stoica che in Nietzsche non ha un significato passivo, bensì attivo, in quanto il superuomo non subisce, ma istituisce l'eterno ritorno), coincide a sua volta con l'apoteosi del divenire, ossia con l'atto tramite cui il divenire, in quanto eternizzato, riceve il sigillo dell'essere: «Imprimere al divenire il carattere dell'essere - è questa la suprema volontà di potenza». (Frammenti postumi, 1885-1887)

Potenza e dominio

La volontà di potenza di cui parla Nietzsche non ha solo queste valenze teoriche, che sono certamente le più decisive sul piano filosofico. Essa ne contiene anche altre, ben più "crude" (e storicamente funeste), connesse al concetto della volontà di potenza come sopraffazione e dominio. Valenze che si trovano non solo nei frammenti postumi, ma anche nelle opere edite (e quindi approvate) da Nietzsche. Anche a prescindere dall'immagine, di triste memoria, della «magnifica bestia bionda che vaga bramosa di preda e di vittoria» (Genealogia della morale), vi sono taluni passi che manifestano con chiarezza le posizioni di Nietzsche. Eccone alcuni:

La vita è essenzialmente appropriazione, offesa, sopraffazione di tutto quanto è estraneo e più debole, oppressione, durezza, imposizione di forme proprie [...].

Trattenerci reciprocamente dall'offesa, dalla violenza, dallo sfruttamento, stabilire un'eguaglianza tra la propria volontà e quella dell'altro: tutto questo può [...] divenire una buona costumanza tra individui, ove ne siano date le condizioni (vale a dire la loro effettiva somiglianza in quantità di forza e in misura di valore, nonché la loro mutua interdipendenza all'interno di un unico corpo). Ma appena questo principio volesse guadagnare ulteriormente terreno, addirittura, se possibile, come principio basilare della società, si mostrerebbe immediatamente per quello che è: una volontà di negazione della vita, un principio di dissoluzione e di decadenza. (Al di là del bene e del male, 259)

Ogni elevazione del tipo "uomo" è stata, fino a oggi, opera di una società aristocratica - e così continuerà sempre a essere: di una società, cioè, che crede in una lunga scala gerarchica e in una differenziazione di valore tra uomo e uomo, e che in un certo senso ha bisogno della schiavitù. (Ivi, 257)

Nella dottrina del socialismo mal si cela una "volontà di negazione della vita"; devono essere razze o uomini falliti, che escogitano tali teorie. (Frammenti postumi 1884-1885)

Primo principio: nessun riguardo per il numero; la massa, i poveri e gli infelici mi importano poco - bensì i primi e più riusciti esemplari [...]. Annientamento dei malriusciti - a questo fine bisogna emanciparsi dalla morale passata. (Frammenti postumi 1884)

Di fronte all'inequivocabilità di tali passaggi - che avevano già impressionato Lukàcs e che nessun successivo esorcismo interpretativo è riuscito a minimizzare o a edulcorare - non si può fare a meno di riconoscere che nel concetto nietzscheano di volontà di potenza albergano aspetti antidemocratici e antiegualitari che fanno parte della componente reazionaria del suo pensiero. Componente che spinge Nietzsche a individuare il soggetto della volontà di potenza non in un'umanità democratica vivente in modo libero e creativo, ma in una specie aristocratica di «spiriti dominatori e cesarei».

e) Il problema del nichilismo e del suo superamento

Il problema del nichilismo costituisce uno dei motivi più rilevanti (e "attuali") della riflessione di Nietzsche. In una prima accezione, Nietzsche intende per nichilismo «la volontà del nulla», ovvero ogni atteggiamento di fuga e di disgusto nei confronti del mondo concreto, che vede incarnato soprattutto nel platonismo e nel cristianesimo. In una seconda accezione, connessa alla precedente ma più caratterizzante, Nietzsche adopera il termine "nichilismo" "per indicare il movimento storico da lui riconosciuto per la prima volta, ma che domina già i secoli precedenti e che darà l'impronta al prossimo, e di cui egli compendia l'interpretazione più essenziale nella breve sentenza: "Dio è morto"." (M. Heidegger, Nietzsche, Adelphi, Milano 1994)

In altri termini, Nietzsche intende per nichilismo la specifica situazione dell'uomo moderno e contemporaneo che, non credendo più nei «valori supremi» (Dio, la Verità, il Bene ecc.) e in un "senso" o in uno "scopo metafisico" delle cose, finisce per avvertire, di fronte all'essere, lo sgomento del "vuoto" e del "nulla". Ora, poiché Nietzsche presenta se stesso come «il primo perfetto nichilista d'Europa, che però ha già vissuto in sé fino in fondo il nichilismo stesso - che lo ha dietro di sé, sotto di sé, fuori di sé» (Frammenti postumi 1887-1888), nasce il problema di chiarire perché questo filosofo, pur avendo "attraversato" il nichilismo, si senta ormai sopra e dopo di esso.

La questione è storiograficamente dibattuta. In compenso alcuni testi del filosofo risultano, su questo tema, sufficientemente chiari. Per esempio, alla domanda che egli stesso si pone: «che cos'è il nichilismo?», Nietzsche risponde: «manca il fine; manca la risposta al "perché?"» e «i valori supremi si svalorizzano». (Ivi) Ma per quale motivo, e in che senso, a un certo punto della sua storia, l'uomo sostiene che non c'è un fine e che tutto è niente? Ciò è da collegarsi, puntualizza Nietzsche, al fatto che l'uomo, in virtù delle dottrine metafisiche, dapprima si è immaginato dei fini assoluti e delle realtà trascendenti e in seguito, avendo scoperto che tali fini e oltremondi non esistono e che l'essere non è né "uno" (cioè una totalità razionale ordinata), né "vero" (in quanto non esiste una verità assoluta scritta negli enti), né "buono" (poiché la realtà non si conforma alle nostre aspettative etiche), è piombato nell'angoscia nichilistica:

Il nichilismo come stato psicologico subentra di necessità in primo luogo quando abbiamo cercato in tutto l'accadere un "senso" che in esso non c'è, sicché alla fine a chi cerca viene a mancare il coraggio. (Ivi)

Anzi, quanto più l'uomo si è illuso, tanto più è rimasto deluso, come testimonia, per esempio, il caso dell'individuo postcristiano, che avendo smesso di credere nell'aldilà, nel Dio-provvidenza ecc., non può fare a meno di soffrire un terribile senso di vuoto, che non percepirebbe così acutamente se non fosse passato attraverso il cristianesimo:

Sta venendo il tempo in cui dovremo pagare di essere stati cristiani per due millenni; perdiamo il centro di gravità che ci faceva vivere - per un certo tempo non sapremo come cavarcela. (Ivi)

L’equivoco del nichilismo moderno, come mostra il suo meccanismo "genealogico", risiede dunque nel fatto che esso identifica la mancanza di fini e strutture metafisiche "razionali" e "provvidenziali" con la mancanza di senso tout court. In altre parole, tale equivoco consiste nel dire che il mondo, non avendo quella serie di significati "forti" che i metafisici gli attribuivano (unità, verità assoluta ecc.), non ha nessun senso:

Risultato: il credere nelle categorie di ragione è la causa del nichilismo - abbiamo misurato il valore del mondo in base a categorie che si riferiscono a un mondo puramente fittizio. (Ivi)

In realtà i significati, non esistendo come strutture metafisiche date e quindi come gli assoluti, esistono come prodotti della volontà di potenza che affrontando il caos dell'essere impone a esso i propri fini:

La domanda del nichilismo "a che scopo?" procede dalla vecchia abitudine di vedere il fine come posto, dato, richiesto dall'esterno - cioè da una qualche autorità sovrumana. Anche dopo aver disimparato a credere in quest'ultima, si continua a cercare, secondo la vecchia abitudine, un'altra autorità in grado di parlare un linguaggio assoluto e di imporre fini e compiti. Viene quindi in primo piano l'autorità della coscienza (quanto più si emancipa dalla teologia, tanto più la morale diventa imperativa), in sostituzione di un'autorità personale. O l'autorità della ragione. O l'istinto sociale (il gregge). O la storia con uno spirito immanente, che ha il suo fine in sé e a cui ci si può abbandonare. Si vorrebbe aggirare la necessità di avere una volontà, di volere uno scopo, il rischio di dare a se stessi un fine. (Ivi)

Questo mostra come Nietzsche, pur essendo anch'egli nichilista radicale (in quanto nega la presenza di fini o valori intrinseci alle cose stesse), lo sia in modo tale da superare il nichilismo stesso. Infatti, poiché «patologica è l'immensa generalizzazione, la conclusione che non c'è nessun senso» (Ivi), il nichilismo appare a Nietzsche tanto uno stadio "intermedio", ovvero un No alla vita che prepara il grande Sì a essaa, attraverso l'esercizio della volontà di potenza. Del resto, Nietzsche, sia pure modo disorganico, abbozza una variegata tipologia del nichilismo. Egli distingue, per esempio, fra nichilismo incompleto e nichilismo completo. Il nichilismo incompleto è quello in cui i vecchi valori vengono distrutti, ma i nuovi che a loro subentrano hanno la medesima fisionomia dei precedenti:

Nel nichilismo incompleto rimane ancora operante una fede; per rovesciare il mondo dei valori si deve ancora credere in qualcosa, in un ideale, si ha ancora un "bisogno di verità". Come forme di nichilismo incompleto Nietzsche nomina: a) in ambito politico il nazionalismo, lo chauvinismo, il socialismo e l'anarchismo; b) in ambito scientifico lo storicismo e il positivismo; e) in ambito artistico il naturalismo e l'esteticismo francese. (F. Volpi, voce Nichilismo, in Dizionario di filosofia di N. Abbagnano, terza edizione aggiornata e ampliata da G. Fornero, UTET, Torino 1998)

Il nichilismo completo è il nichilismo vero e proprio e può essere segno di debolezza o di forza. Nel primo caso, cioè come sinonimo di «declino e regresso della potenza dello spirito», si ha il nichilismo passivo che si limita a prendere atto del declino dei valori e a crogiolarsi nel nulla o in una serie di narcotici posticci. Nel secondo caso, cioè come sinonimo della «cresciuta potenza dello spirito», si ha il nichilismo attivo, che si esercita come «forza violenta di distruzione». Nietzsche chiama estrema la forma di nichilismo attivo che distrugge ogni residua credenza in qualche verità in sé di tipo metafisico:

Che non ci sia una verità; che non ci sia una costituzione assoluta delle cose, una "cosa in sé" - ciò stesso è un nichilismo, è anzi il nichilismo estremo. (Frammenti postumi 1887-1888)

La forma estrema del nichilismo sarebbe il sostenere che ogni fede, ogni tener per vero sia necessariamente falso: perché non esiste affatto un MONDO VERO. (Ivi)

In riferimento al fatto che in tal modo il nichilismo estremo crea spazio per nuove possibilità e viene fuori allo scoperto, Nietzsche parla anche di nichilismo estatico.

Il nichilismo attivo, estremo o estatico raggiunge la sua completezza, cioè diviene classico, quando, fungendo da premessa per il superamento del nichilismo stesso e per l'esercizio della volontà di potenza, passa dal momento distruttivo (o reattivo) al momento costruttivo (o creativo), ovvero quando si rende conto che il senso, non essendo (ontologicamente) dato, deve essere (umanamente) inventato: «DARE UN SENSO - questo compito resta assolutamente da assolvere, posto che nessun senso vi sia già» (Ivi)

In conclusione, dal punto di vista di Nietzsche, progettare di vivere senza certezze metafisiche assolute, senza i «valori supremi», non significa distruggere ogni senso o norma, ma responsabilizzare l'uomo a porsi come fonte di valori e di significati. Accettare il rischio e la fatica di dare un senso al caos del mondo dopo la morte delle antiche certezze e delle vecchie fedi: ecco il significato ultimo del superamento nietzscheano del nichilismo. Ed ecco per quale motivo Nietzsche ha inteso essere «paziente, diagnostico e terapeuta, nella stessa persona, della malattia mortale del nichilismo».(H. Kung, Dio esiste?, A. Mondadori, Milano 1979)

10. Al di là dell'oggetto e del soggetto: il prospettivismo e il superuomo ermeneutico

La sconfessione della pretesa di cogliere le cose in se stesse e la tendenza a ridurre ogni conoscenza a un'interpretazione condizionata da qualche interesse prendono la forma, nell'ultimo Nietzsche, di un radicale "prospettivismo". Con questo termine, che il filosofo non inventa ma semplicemente mutua, sulla scia di certa vulgata (neo) leibniziana, dallo studioso Gustav Teichmüller (1832-88), egli intende la teoria secondo cui non esistono cose o fatti, ma solo interpretazioni circostanziate di cose o di fatti. Se già nelle Considerazioni inattuali Nietzsche aveva affermato che «il fatto è sempre stupido e in tutti i tempi è apparso più simile a un vitello che a un Dio», ora, escludendo con decisione l'esistenza di un ipotetico mondo extraprospettico scrive:

Contro il positivismo, che si ferma ai fenomeni: "ci sono soltanto fatti", direi: no, proprio i fatti non ci sono, bensì solo interpretazioni. Noi non possiamo constatare nessun fatto "in sé". (Frammenti postumi 1885-1887)

Ne segue che il mondo non ha un senso, ma innumerevoli sensi che corrispondono ad altrettante interpretazioni formulate da angoli prospettici diversi: «esso è interpretabile in modi diversi, non ha dietro di sé un senso, ma innumerevoli sensi. "Prospettivismo " ». (Ivi)

Tale prospettivismo, «in virtù del quale ogni centro di forza - e non solo l'uomo - costruisce tutto il resto del mondo a partire da se stesso, cioè lo misura, lo modella, lo forma secondo la sua forza» (Frammenti postumi 1888-1889), non è da confondersi con una forma di idealismo che alla base di tutto ponga l'io. Infatti, per l'ultimo Nietzsche, nell'ambito di una prospettiva per cui «tutto è forza» (Alles ist Kraft) (Frammenti postumi 1882-1884), non solo non si danno centri sostanziali dell'interpretazione, anche il "soggetto" risulta una costruzione interpretativa:

«Tutto è soggettivo», dite voi; ma già questa è un'interpretazione, il "soggetto" non è niente di dato, è solo qualcosa di aggiunto con l'immaginazione, qualcosa di appiccicato dopo. - È infine necessario mettere ancora l'interprete dietro l'interpretazione? Già questa è invenzione, ipotesi.” (Frammenti postumi 1885-1887)

Del resto, anche la presunta certezza del cogito cartesiano, secondo la quale quando si pensa ci deve essere qualcosa che pensa, è semplicemente «una formulazione della nostra abitudine grammaticale, che fa corrispondere a un fare uno che fa» (Frammenti postumi 1887-1888), ovvero della nostra abitudine logica a supporre un'unità dietro la molteplicità.

Affermando che il mondo è caos e l'interpretazione è ciò che dà forma umana a] caos, Nietzsche sembra concordare con Kant che assimila «il molteplice della sensibilità» a un caos ordinato dalle categorie dell'intelletto. In realtà, fra prospettivismo e criticismo esistono numerose differenze, riassumibili nel fatto che mentre per Kant esiste un'unica e immutabile chiave di recezione della realtà (rappresentata dalle forme a priori), per Nietzsche esistono molteplici e mutevoli punti di vista sul mondo:

Il mondo è [...] divenuto per noi ancora una volta "infinito"; in quanto non possiamo sottrarci alla possibilità che esso racchiuda in sé interpretazioni infinite. (La gaia scienza, 374)

Alla base di ogni "interpretazione", argomenta genealogicamente Nietzsche, ribadendo la genesi pragmatica e pulsionale delle nostre credenze, stanno bisogni e interessi collegati all'istinto di conservazione e alla volontà di potenza: «Sono nostri bisogni, che interpretano il mondo: i nostri istinti e i loro pro e contro».(Frammenti postumi 1885-1887 )

Le cosiddette "verità", aveva già scritto in Su verità e menzogna in senso extramorale, sono soltanto «illusioni di cui si è dimenticata la natura illusoria» e il linguaggio è solo un «esercito di metafore».(Su verità e menzogna in senso extramoral) Ora puntualizza che la conoscenza e la logica sono invenzioni per porre sotto controllo il caos multiforme dell'esperienza quotidiana. Concetti e categorie sono schematizzazioni e convenzioni che per il fatto di essersi consolidate, vengono scambiate per verità oggettive e dimensioni intrinseche della realtà. La stessa idea dell'io o del soggetto come sostanzi unitaria permanente, causa ultima dei nostri atti, è soltanto una finzione, anzi la prima finzione, sulla cui base sono costruite tutte le altre finzioni, a cominciare dal concetto di sostanza:

Il concetto di sostanza è una conseguenza del concetto di soggetto: non inversamente! Se abbandoniamo l'anima, al "soggetto" viene a mancare il presupposto di un qualunque "sostanza". (Frammenti postumi 1887-1888)

Contestando l'ideale positivistico di un sapere «scevro di presupposti», Nietzsche mostra come la scienza sgorghi anch'essa da determinati presupposti extrascientifici, grazie ai quali essa acquista «una direzione, un senso, un limite». Tali sono, per esempio, il desiderio di «comprendere nel miglior modo la bontà e la sapienza divina», l'ideale dell'«assoluta utilità della conoscenza» o la convinzione di possedere, tramite essa, «qualcosa di disinteressato, di pacifico, di autosufficiente». Inoltre, in virtù della sua "adorazione" della verità oggettiva e della sua predilezione per un mondo di matematica semplicità e perfezione, ben lontano da quello caotico e polimorfo della vita e della storia, la scienza risulta «la miglior alleata dell'ideale ascetico». (Genealogia della morale)

L'atteggiamento complessivo di Nietzsche nei confronti della scienza risulta quindi ambivalente poiché da un lato, come nella fase illuministica del suo pensiero, egli tende a scorgere in essa una scuola di rigore e di libertà nei confronti del mondo e delle costruzioni sistematiche del passato e, dall'altro, tende a imparentarla con l'ascesi e a fare dello scienziato una sorta di sacerdote della conoscenza.

Il radicale prospettivismo nietzscheano, ossia il concetto secondo cui tutto è interpretazione e, come afferma Jaspers, «l'essere del mondo è un puro e semplice essere-interpretato», è stato attaccato da taluni critici, soprattutto di tendenza analitica, che lo hanno accusato di mettere capo a un paradosso autoreferenziale:

Supponiamo di caratterizzare il prospettivismo di Nietzsche come la tesi (P) che ogni concezione è un'interpretazione. Ora, sembra derivarne che, se (P) è vera, e se ogni concezione è allora in effetti un'interpretazione, questa conclusione si applicherebbe a (P) stessa. In quel caso anche (P) si rivelerebbe a sua volta come un'interpretazione. Ma se è così, allora non ogni concezione deve necessariamente essere una interpretazione, e (P) sembra aver confutato se stessa. (A. Nehamas, Nietzsche. La vita come letteratura, Armando, Roma 1988)

In tal modo, questi critici hanno finito per scorgere nel prospettivismo un'ennesima versione del paradosso del mentitore, ovvero dell'autocontraddizione performativa in cui cade chi pretende di negare la verità (se è vero che non esiste la verità, allora questa stessa tesi è falsa; viceversa, se è falsa, deve esistere qualcosa come la verità ecc.). Del resto, non è possibile negare la verità, ogni verità, e allo stesso tempo proclamare, con entusiasmo profetico, la propria verità. Da tutto ciò lo scandalo scientifico di una tesi («tutto è interpretazione») che non può fornire i criteri della propria verità (la fondazione contraddicendo lo statuto prospettico), e neppure dimostrarsi vera, dato che ciò equivarrebbe a una smentita, prospettando appunto la possibilità di uno status extraermeneutico. (T. Griffero, Teoria dell'interpretazione, in Aa.Vv., Guida a Nietzsche)

Comunque si giudichi a questo proposito (il dibattito è tuttora aperto e non mancano gli studiosi che, reputando inadeguate le critiche di stampo analitico, cercano di "salvare" Nietzsche e di offrire uno schema di soluzione dei suoi paradossi), è un fatto che per il filosofo tedesco dire che non esiste una verità in sé - e che quindi il mondo si riduce a un tessuto di interpretazioni privo di oggetto e di soggetto - non significa dire che tutte le interpretazioni siano equivalenti e che di fronte allo scontro fra le diverse volontà di potenza, portatrici, ognuna, di una determinata prospettiva sul mondo, non vi siano criteri di scelta. Infatti, in questo caso, non si spiegherebbero né l'impianto programmaticamente polemico della filosofia di Nietzsche, né la sua critica incessante della morale e della metafisica, ovvero dell'interpretazione cristiana del mondo. In realtà, il filosofo (coerentemente secondo alcuni, incoerentemente secondo altri) tende a individuare criteri di scelta nella salute e nella forza, cioè, in definitiva, nella vita stessa che «rimane per Nietzsche istanza suprema e principio filosofico fondamentale». (W. Weischedel, op. cit) Una vita, si intende, che coincide con l'accrescimento della vita stessa, cioè con la volontà di potenza. Con questo non si vuole affermare che i concetti di potenza, salute, malattia, forza e debolezza, ovvero di ciò che "incrementa" e "debilita" il nostro essere, abbiano un significato riduttivamente "fisiologico" o "vitalistico". Infatti, con tali nozioni, Nietzsche intende anche - e soprattutto - la capacità di dir di sì alla vita nella totalità dei suoi aspetti, anche in quelli più raccapriccianti e medusei:

Quanta verità può sopportare, quanta verità può osare un uomo? Questa è diventata la mia vera unità di misura, sempre più. (Ecce Homo)

Da una parte l'istinto degenerante, che si rivolta contro la vita con rancore sotterraneo (il cristianesimo, la filosofia di Schopenhauer, in un certo senso già la filosofie di Platone, tutto l'idealismo ne sono forme tipiche) e dall'altra una formula dell'afférmazione suprema, nata dalla pienezza, dalla sovrabbondanza, un dire sì senza ri serve, al dolore stesso, alla colpa stessa, a tutto ciò che l'esistenza ha di problematico e di ignoto. (Ivi)

Stimo la potenza di una volontà da quanta resistenza, sofferenza, tortura tale volonti sopporta e sa trasformare in proprio vantaggio. (Frammenti postumi 1887-1888)

E poiché la vita si concretizza in una molteplicità ineliminabile di interpretazioni, il rifiuto del monismo e l'accettazione del pluralismo ermeneutico, come di ogni circostanza volta a incrementarne lo sviluppo, diventa una manifestazione di salute:

Quanto più forte è la spinta verso l'unità, tanto più si può concludere alla debolezza; quanto più forte è la spinta verso la varietà, la diversità, l'interna dissociazione, tanto più c'è di forza. (Frammenti postumi 1884-1885)

L'unità (il monismo) è un bisogno dell'inerzia; la pluralità dell'interpretazione è un segno di forza. Non voler contestare al mondo il suo carattere inquietante ed enigmatico! (Frammenti postumi 1885-1887)

In conclusione, la salute di cui parla Nietzsche allude al modo d'essere globale del superuomo come colui che, dotato di spirito di coraggio e di avventura, sa vivere senza certezze o fedi assolute:

La suprema misura di vigore è data da quanto uno può continuare a vivere sulla base di ipotesi, lanciandosi per così dire su di un mare infinito, invece che sulla base di "una fede". Tutti gli spiriti inferiori periscono.(Frammenti postumi 1884)

Da ciò la figura del superuomo ermeneutico, inteso come (ulteriore) simbolo dell'accettazione della vita nella sua essenza di libero esperimento interpretativo condotto al di là di ogni verità e certezza precostituita.