A. Fornero, S. Tassinari

Le filosofie del Novecento

Bruno Mondadori, Milano 2002
39. II postmoderno e le sue filosofie (pp. 1185-1196)
I. Moderno e postmoderno

"Postmoderno" non è un termine originariamente filosofico. Adoperato in maniera sporadica da Federico de OnIs negli anni trenta del Novecento per indicare un movimento di contrapposizione al modernismo letterario e da Arnold Toynbee per designare l'imperialismo di fine secolo, in seguito, soprattutto a partire dagli anni sessanta, è stato usato, dapprima in America e poi in Europa, sia per alludere ai mutati assetti della cosiddetta società postindustriale, sia per riferirsi a certe tendenze culturali specifiche (soprattutto letterarie e architettoniche). Alla fine degli anni settanta, grazie a Lyotard, esso ha cominciato a essere adoperato, in maniera tecnica, anche in ambito filosofico. Infatti, da quella data in poi, sono stati etichettati come "postmoderni" i filosofi secondo cui la modernità, almeno in alcuni dei suoi tratti essenziali, sarebbe giunta al termine. Parallelamente, il postmoderno è divenuto una sorta di categoria universale atta ad esprimere il "clima" o l"atmosfera" del nostro tempo.

Poiché il postmoderno, nella sua natura di autodiagnosi della contemporaneità, è un concetto che non si definisce da solo, in quanto implica una definizione per differenza rispetto al concetto di moderno, alla base di ogni filosofia postmoderna vi è una specifica interpretazione della modernità, sulla quale concordano, almeno in linea generale, i suoi principali teorici. Schematicamente, secondo i postmoderni, la modernità (cioè il periodo che va, grosso modo, da Cartesio a Nietzsche) sarebbe caratterizzata da alcune direttrici fondamentali, ossia dalla tendenza:

a) a credere in visioni onnicomprensive del mondo (idealismo, marxismo ecc.) capaci di fornire "legittimazioni" filosofiche al conoscere e all'agire;

b) a pensare in termini di "novità" e "superamento", ossia a identificare ciò che è "nuovo" con ciò che è "migliore" e ciò che è "trascorso" con ciò che è "superato". Credenza che dà luogo a quel tipico fenomeno che è la "moda" (termine che ha la stessa radice di "moderno");

c) a concepire la storia in termini di "emancipazione", ossia come percorso "progressivo" di cui gli intellettuali conoscono i fini (la libertà, l'eguaglianza, il benessere ecc.) e i mezzi idonei a realizzarli (la diffusione dei lumi, la rivoluzione proletaria, le conquiste della tecnoscienza ecc.);

d) a concepire l'uomo come "dominatore" della natura e ad esaltare la scienza, con la conseguente riduzione della realtà a "oggetto" omologabile e formalizzabile secondo criteri di tipo ipotetico-sperimentale. Idea che comporta una parallela identificazione della ragione con la ragione scientifica;

e) a pensare secondo le categorie di "unità" e "totalità", in modo da subordinare la folla eterogenea degli eventi e dei saperi a "gerarchie forti", mettenti capo a un unico "centro" e a un unico orizzonte globale di senso (ontologico, storico, gnoseologico ecc.). Tendenza che si accompagna a quell'uniformazione coatta della particolarità e della diversità che fa tutt'uno con la ragione-dominio dell'Occidente e con la sua vocazione "terroristica" (Lyotard) e "violenta" (Vattimo).

A queste idee-madri della modernità i postmoderni contrappongono una costellazione teorica che, pur non potendo venir ridotta a un semplice capovolgimento dialetticp del moderno, costituisce pur sempre un'alternativa rispetto a esso, ovvero:

a) la sfiducia nei macrosaperi onnicomprensivi e legittimanti e la proposta di forme "deboli" (Vattimo) o "instabili" (Lyotard) di razionalità, basate sulla convinzione dell'inesistenza di fondamenti ultimi e unitari del sapere e dell'agire. Sfiducia che, in concreto, si traduce in un congedo dai movimenti culturali dominanti degli anni sessanta e settanta, ossia dallo strutturalismo, dalla psicoanalisi e dal marxismo, accomunati da un monismo teorico e metodologico proteso alla ricerca di un fondamento unico dei fenomeni;

b) il rifiuto dell'enfasi del "nuovo" e della categoria avanguardista di "superamento". Tant'è che il postmoderno, più che come l'ultima avanguardia, intende essere la fine di tutte le avanguardie e dell'arrogante pretesa "moderna" di fare piazza pulita del passato;

c) la rinuncia a concepire la storia alla stregua di un processo universale o necessario, in grado di fungere da piattaforma "garantita" dell'umanità verso l'emancipazione e il progresso. Rinuncia che si accompagna all'elaborazione di una sorta di "pensiero senza redenzione", ossia a una sfiducia programmatica nei confronti di ogni terapia "salvifica" (politica, esistenziale, artistica ecc.) finalizzata al raggiungimento di una condizione umana "trasparente" e dialetticamente "riconciliata" con se stessa;

a') il rifiuto di identificare la ragione con la ragione tecnico-scientifica e di concepire l'uomo come padrone incontrastato della natura e dell'ambiente. Diniego che connette la sensibilità postmoderna all'ecologismo, inteso come movimento di reazione agli effetti distruttivi del dominio tecnologico sulla natura e ricerca di una nuova cultura dell'abitare;

e) il privilegiamento del paradigma della molteplicità rispetto al paradigma dell'unità, ossia la consapevolezza che «il mondo non è uno, ma molti». Consapevolezza che fa tutt'uno con la tesi della natura storico-localistica (o "etnica") delle credenze e che si traduce in una difesa programmatica della plurivocità e della differenza, accompagnata da una serie di pratiche culturali di rottura, quali la frammentazione, la regionalizzazione, la dissociazione, la decanonizzazione, l'ibridazione, la carnevalizzazione ecc. tese a far valere i diritti del molteplice, del particolare, del diverso, del difforme, dell'incommensurabile. Tutte pratiche e situazioni che, a differenza di quanto accadeva nelle cosiddette "filosofie della crisi" della prima metà del Novecento, non vengono tuttavia prospettate e in ciò risiede una delle maggiori novità del postmoderno con un senso di nostalgia o di rimpianto per l'intero perduto, ma come un fatto positivo, ovvero come un segno della raggiunta maturità dell'uomo contemporaneo. Come simboli di questo "mondo a frammenti", i postmoderni scelgono figure quali il labirinto (incarnazione tipica dell'inesistenza di mappe o fili conduttori certi), Orfeo (il mitico semidio che continua a cantare anche dopo la morte per smembramento) o la torre di Babele, emblema, quest'ultima, della proliferazione dei linguaggi e di un mondo irrimediabilmente diversificato e sconnesso, in cui cessa di avere senso il tentativo tradizionale di trovare un «metavocabolario che in qualche maniera tenga conto di tutti i vocabolari possibili, di tutti i modi possibili di giudicare e sentire».

2. Problemi terminologici e critici

Nonostante il suo indiscutibile successo, il concetto di postmoderno è apparso problematico sin dall'inizio e, anche in seguito, è sembrato alludere a un fenomeno sostanzialmente "vago", ovvero a un pulviscolo indeterminato di dottrine, prive di denominatore comune:

Ogni studente di cultura moderna deve notoriamente esprimere il suo parere sui modernismo e sul postmodernismo, anche se non è chiaro che cosa queste parole significhino.

Non c'è accordo se non, forse, per quanto concerne il fatto che il postmodernismo si configura come una sorta di reazione o di allontanamento dal modernismo.

Tant'è che, agli occhi di qualche critico, il concetto di postmoderno ha finito per configurarsi come una semplice etichetta "giornalistica" priva di autentica portata storiografica. In realtà, come abbiamo scritto anni addietro, esprimendo un punto di vista oggi largamente condiviso dagli studiosi, compresi gli storici della filosofia, non risulta (più) possibile ridurre il postmoderno a una semplice "moda da rotocalco" priva di consistenza storicoteoretica.

In primo luogo perché è certo che il postmoderno è culturalmente "esistito", ed "esiste" tuttora, nella stessa maniera in cui sono "esistiti" gli altri movimenti intellettuali del passato, ossia non come un corpo rigido e teoreticamente unitario di dottrine, bensì alla stregua di una fluida e sfaccettata "atmosfera" di pensiero che raggruppa in sé una pluralità nient'affatto "scandalosa" di posizioni e di soluzioni. In secondo luogo, perché al di là delle contrapposizioni di superficie e delle differenziazioni interne, nella nebulosa postmoderna esistono pur sempre dei topoi e delle koinai, e quindi dei tratti comuni di fondo, che legittimano l'uso di concetti come "postmoderno." e "postmodernismo" e che rendono sensate e intelligibili espressioni quali "architettura postmoderna", "romanzo postmoderno", "filosofia postmoderna".

Anche il termine postmoderno che nella sua accezione sostantivata, ormai codificata dall'uso, continua ad apparire più comprensivo di "postmodernità" e "postmodernismo" e quindi più adeguato a esprimere sia uno stile o una condizione epocale, sia la consapevolezza riflessa di essi ha suscitato parecchie resistenze. Tant'è che la sua vaghezza e polivalenza semantica ha spinto lo stesso Lyotard a definirlo «pessimo». D'altro canto, al di là di tutti i suoi limiti e ambiguità, è possibile constatare come non si sia trovato sinora un termine migliore (o più adatto) per esprimere la convinzione secondo cui, a un certo punto, all'interno della modernità, sarebbe accaduto qualcosa come un mutamento di paradigma nel modo di interpretare il mondo, ossia un verificabile distacco dai codici teorici e linguistici più in auge negli ultimi secoli.

Ammesso che il termine postmoderno possegga una propria legittimità storiografica, come va inteso il post di cui parlano i postmoderni, ovvero quel cruciale prefisso che ha costituito la fortuna e il tormento ditale movimento di pensiero? In primo luogo, avverte Gianni Vattimo, il post non allude a un "superamento" del moderno, poiché, in tal caso, si cadrebbe nella temporalità lineare, ossia in quella logica storicistica del progresso da cui il postmoderno intende prendere le distanze:

La pura e semplice consapevolezza o pretesa di rappresentare una novità nella storia, una nuova e diversa figura della fenomenologia dello spirito, collocherebbe infatti il postmoderno sulla linea della modernità, nella quale domina la categoria di novità e di superamento. Le cose, però, cambiano, se, come pare si debba riconoscere, il postmoderno si caratterizza non solo come novità rispetto al moderno, ma anche come dissoluzione della categoria del nuovo, come esperienza di "fine della storia", piuttosto che come presentarsi di uno stadio diverso, più progredito della storia stessa.'°

In altri termini, secondo uno dei più autorevoli esponenti del movimento, il postmoderno non sarebbe un momento ulteriore del moderno, ma qualcosa di intrinsecamente diverso rispetto a esso (e alla sua autocomprensione teorico-filosofica). In secondo luogo, il post, pur alludendo a una diversità, non rimanda a una contrapposizione radicale al moderno. Infatti, in antitesi all'idea di rottura e a tutta una serie di opposizioni tipiche della modernità (nuovoantico, presentepassato, progressoreazione ecc.), i postmoderni, a differenza dei moderni, non credono nella possibilità di «riportare le lancette dell'orologio sullo zero», e quindi non interpretano il postmoderno come qualcosa di completamente estraneo e opposto al moderno - come se moderno e postmoderno fossero separati «da una Cortina di Ferro o da una Muraglia Cinese» - ma come qualcosa che, pur avendo "digerito" il moderno e pur perseguendo obiettivi diversi da esso, risente comunque dei suoi condizionamenti. Più in generale, i postmoderni reputano che il passato non possa essere messo da parte, ma solo "rivisitato", concetto, questo, che ha trovato un'ironica (quanto efficace) esemplificazione da parte di Umberto Eco:

La risposta postmoderna al moderno consiste nel riconoscere che il passato, visto che non può essere distrutto, perché la sua distruzione porta al silenzio, deve essere rivisitato: con ironia, in modo non innocente. Penso all'atteggiamento postmoderno come a quello di chi ami una donna, molto colta, e che sappia che non può dirle «ti amo disperatamente», perché lui sa che lei sa (e che lei sa che lui sa) che queste frasi le ha già scritte Liala. Tuttavia c'è una soluzione. Potrà dire: «Come direbbe Liala, ti amo disperatamente». A questo punto, avendo evitata la falsa innocenza, avendo detto chiaramente che non si può più parlare in modo innocente, costui avrà però detto alla donna ciò che voleva dirle: che la ama, ma che la ama in un'epoca di innocenza perduta. Se la donna sta al gioco, avrà ricevuto una dichiarazione d'amore, ugualmente. Nessuno dei due interlocutori si sentirà innocente, entrambi avranno accettato la sfida del passato, del già detto che non si può eliminare, entrambi giocheranno coscientemente e con piacere al gioco dell'ironia... Ma entrambi saranno riusciti ancora una volta a parlare d'amore.

Questa libera rivisitazione del passato all'insegna di una programmatica commistione di frammenti dislocati nel tempo e nello spazio si connette a quella specifica forma di nomadismo culturale che è propria dell'uomo contemporaneo e della forma mentis postmoderna, nomadismo che porta a viaggiare nella storia come in una banca dati, come si naviga su Internet, e che McLuhan ha paragonato alla situazione dell'uomo primitivo raccoglitore di frutti. Infatti, nella società moderna, grazie all'accorciamento delle distanze consentito dalla tecnologia, tutto risulta vicino e a portata di mano e il mondo finisce per configurarsi come un villaggio globale. Con la differenza che ciò che l'uomo raccoglie non sono opere della natura, ma prodotti della cultura (testi, informazioni, messaggi ecc.).

Un'altra questione riguardo la natura ideale o cronologica del post. Il postmoderno va pensato in termini storico-epocali, ossia alla stregua di una "categoria storia" che rimanda a un periodo determinato (come se moderno e postmoderno fossero tappe successive o consequenziali di un medesimo processo diacronico), o in termini tipi ideali, ossia alla stregua di una "categoria metastorica" che allude a una modalità possibile del sentire e del pensare? Per esempio, secondo Lyotard, moderno e postmoderno non alludono tanto a rigide scansioni storiografiche, quanto a flessibili tipi ideali, al punto che egli può parlare, senza cadere in contraddizione, di possibili atteggiamenti moderni nel postmoderno e di possibili atteggiamenti postmoderni nel moderno. Già ne Il postmoderno spiegato ai bambini, il filosofo francese aveva osservato che la modernità «non è un'epoca, bensì un modo ... proprio del pensiero, dell'enunciazione, della sensibilità»." Più tardi, nel corso di un colloquio-intervista con Vattimo, riprendendo lo stesso discorso, ha dichiarato:

nel libro [La condizione postmoderna] e sempre più dopo, mi sono reso conto che non si può parlare di un'epoca postmoderna. Anche nella modernità si incontrano posizioni, idee, opere, personaggi che non si pensano in relazione a un cammino progressivo, regressivo, della storia in generale, e dunque non sono moderni. Penso per esempio a Montaigne, a Cervantes, a Machiavelli.

La stessa tesi ricorre, in termini più radicali, in Eco, secondo il quale il postmoderno, più che a individuare un'epoca, serve a identificare una categoria dello spirito:

credo che il postmoderno non sia una tendenza circoscrivibile cronologicamente, ma una categoria spirituale, o meglio un Kunstwollen, un modo di operare. Potremmo dire che ogni epoca ha il proprio postmoderno, così come ogni epoca avrebbe il proprio manierismo (tanto che mi chiedo se postmoderno non sia il nome moderno del Manierismo come categoria metastorica.

Di parere diverso è Vattimo che, rifiutandosi di ridurre il postmoderno a una generalità metastorica, tende a prospettarlo alla stregua di un nuovo momento della storia dell'essere (o dello sviluppo socioculturale complessivo dell'umanità). Tuttavia, queste due maniere di rapportarsi al postmoderno non sono necessariamente in antitesi, poiché il postmoderno può essere interpretato sia in termini epocali, cioè come la condizione dominante o paradigmatica in cui vive e pensa l'uomo della tarda modernità, sia in termini ideali, ossia come un modo della sensibilità e del pensiero che trova possibili manifestazioni o corrispondenze anche nel passato, un modo, come è stato detto, che accompagna il moderno come un'ombra, a guisa di una sua potenziale o permanente "confutazione interna".

Ammesso che il postmoderno sia (anche e soprattutto) un fenomeno culturale storicamente circostanziato, nasce il controverso problema della sua periodizzazione. C'è chi ha creduto, non senza ironia, di poter fissare la data precisa della fine del modernismo alle ore 15.32 del 15 luglio 1972, quando il complesso Pruitt-Igoe di Saint Louis, nel Missouri (costruito negli anni cinquanta secondo i dettami modernisti) venne abbattuto perché considerato ormai inabitabile, e chi ha sostenuto che se il moderno coincide con il periodo che va dalla scoperta dell'America alla Rivoluzione francese, il postmoderno è ciò che accade dopo quest'ultima. A prescindere da queste tesi estreme e dalla pretesa di rinvenire una precisa data di nascita, vi è attualmente una certa convergenza di massima nel ritenere che il postmoderno abbia cominciato a "fare storia", dapprima in America e poi in Europa, negli anni sessanta e settanta, sino a raggiungere il proprio apice di diffusione (ciò vale specificatamente per il postmoderno filosofico) negli anni ottanta. Analogamente, parecchi studiosi pensano che le origini storiche del postmoderno vadano ricercate alla fine dell'Ottocento o agli inizi del Novecento. Per esempio, secondo un'ipotesi assai diffusa negli Stati Uniti, il postmoderno sarebbe connesso alla rivoluzione teorica rappresentata dalla "crisi dei fondamenti" e quindi al relativismo epistemologico e letterario primo-novecentesco (Pirandello, Svevo ecc.). Da parte sua, Vattimo, persuaso che l'obiettivo polemico del postmoderno non sia la modernità in quanto tale, ma piuttosto la sua "autocomprensione" terico-filosofica, ha individuato le radici intellettuali del postmoderno in quei critici per eccellenza del modernità che sono Nietzsche e Heidegger, senza con questo voler mettere in dubbio che il postmoderno, in linea generale, sia diventato culturalmente visibile e abbia raggiunto la propria esplicita consapevolezza riflessa solo più tardi. Tant'è che Lyotard, pur rintracciando la genesi del postmoderno nelle trasformazioni culturali avvenute «a partire dalla fine del XIX secolo» , nel contempo scrive_

La nostra ipotesi di lavoro è che il sapere cambi di statuto nel momento in cui le società entrano nell'età detta "postindustriale" e le culture nell'età detta "postmoderna". Questa evoluzione è iniziata almeno a partire dalla fine degli anni cinquanta.

Matrici storiche e filosofiche della cultura postmoderna

La "filosofia' postmoderna risulta strettamente connessa a una serie di trasformaioni storiche e sociali. Infatti, alle spalle della sua contestazione del moderno troviamo quell'insieme variegato di avvenimenti storici (le guerre mondiali, gli orrori dei campi di concentramento, i fallimenti del socialismo reale, gli inconvenienti del capitalismo, i pericoli di un conflitto atomico, la minaccia di una catastrofe ecologica ecc.) che hanno minato alla base i principali "miti" degli ultimi secoli, a cominciare da quello del "progresso" necessario e senza fine. Avvenimenti che Lyotard sintetizza con quel «nome paradigmatico per l"incompiutezza" tragica della modernità» che è Auschwitz:

Seguendo Theodor W. Adorno ho ripreso il nome di "Auschwitz" a significare quanto la materia della storia occidentale recente sembri inconsistente per ciò che riguarda il progetto "moderno" di emancipazione dell'umanità."

Ad "Auschwitz" si è distrutto fisicamente un sovrano moderno: tutto un popolo. Si è tentato di distruggerlo. E’ questo il crimine che inaugura la postmodernità.

Nascendo da un atto di sfiducia nei confronti delle varie "storie di emancipazione”, il postmoderno si configura quindi come post-istorico, nel senso che tende a collocarsi oltre la concezione della storia che è propria della modernità. Inoltre, esso risulta parte integrante e cifra riassuntiva di quella cultura del "post" che è propria della seconda metà del Novecento (caratterizzato da un esteso fiorire di termini come "postindustriale", postcapitalistico", "postcristiano", "postfilosofico", "postcomunista" ecc.).

Particolarmente stretti risultano anche i rapporti fra postmoderno e società "complessa". L'elemento mediatore è costituito dagli assetti pluralistici di tale società, di cui il postmoderno vuole essere la coscienza riflessa. Infatti, come si è visto, contro ogni forma di omogeneizzazione coatta, il postmoderno si sforza di far valere le istanze della molteplicità e della differenza, sino a farsi portavoce della fisionomia intrinsecamente diversificata della società odierna, ossia di un"umanità al plurale" capace di lasciarsi definitivamente alle spalle il sogno ("medievale") di un'unica verità, di un'unica fede e di un unico sistema di valori.

Altrettanto stretto è il rapporto del postmoderno con la società "informatizzata", ossia con le tecnologie telematiche e multimediali che hanno finito per trasformare la terra in un immenso villaggio informatico basato sulla nuova figura dell'uomo come ricetrasmettitore di messaggi. A differenza dei francofortesi, che nei mezzi di comunicazione di massa scorgevano degli strumenti (negativi) di un'inevitabile schiavitù totalitaria (alla maniera del Grande Fratello di Orwell), i postmoderni, Vattimo in primis, considerano i media come elementi (positivi) ineliminabili di ogni società policentrica e democratica, cioè basata su una molteplicità non omologabile di informazioni e messaggi che, nella loro pluralità irriducibile, finiscono per coincidere con l'ambito stesso della "realtà". Infatti, rifacendosi all'ermeneutica, i postmoderni affermano che l'essere nelle odierne società tecnologiche tende ormai a risolversi nella serie delle notizie e delle interpretazioni che i media (giornali, libri, televisioni ecc.) diffondono. Senza che nessuna di queste interpretazioni, in un «mondo divenuto favola» (Nietzsche) poiché privo di una (intrinseca) verità assoluta e oggettiva, abbia il diritto di soffocare o azzerare le altre:

Se abbiamo un'idea della realtà, questa, nella nostra condizione di esistenza tardo-moderna, non può essere intesa come il dato oggettivo che sta al di sotto, al di là delle immagini che ce ne danno i media. Realtà, per noi, è piuttosto il risultato dell'incrociarsi, del "contaminarsi" (nel senso latino) delle molteplici immagini, interpretazioni, ricostruzioni che, in concorrenza tra loro o comunque senza alcuna coordinazione "centrale", i media distribuiscono.

Una versione radicale di questa semiotizzazione e "fabulizzazione" del mondo è rappresentata dal pensiero di Jean Braudrillard (che taluni considerano un "postmodernista apocalittico" e altri un "ipermodernista"). Minando il presupposto rappresantazionalista tradizionale, incentrato sul nesso triadico significante-significato-realtà, egli afferma che, nel mondo odierno della simulazione, i segni si riducono a semplici «simulacri» senza significato e senza referente, in quanto la realtà è stata sostituita da quella nuova dimensione, più reale di quella reale (plus relle que le relle) che è l'iperreale (l'hyperréel). Un esempio di ciò è la guerra virtuale e "televisiva" rappresentata dal conflitto del Golfo, di cui Baudrillard parla nel volume La guerre du Golfe n'a pas eu lieu (1991). Guerra in cui è venuta meno ogni distinzione fra realtà e messa in scena mediatica e che qualcuno non ha esitato a definire esplicitamente come «postmoderna» .

Per quanto concerne le matrici intellettuali e i presupposti filosofici del postmoderno, essi vanno cercati nel filone di pensiero che, a partire dai problemi del moderno, ha finito per tematizzare la modernità stessa come problema. Tale filone risulta incarnato soprattutto dai filosofi che, sulla base di una ricerca volta a chiarire l'essenza e la genealogia della modernità, si sono fatti portavoce di un nuovo Denkweg (percorso di pensiero) in grado di porsi al di fuori dell'orizzonte storico-epocale della Neuzeit. Tant'è che Vattimo, come si è accennato, fa iniziare il postmoderno con Nietzsche, sostenendo che è solo in virtù delle problematiche poste da lui e da Heidegger, che le sparse teorizzazioni del postmoderno acquistano "rigore e dignità filosofica" in quanto “ciò che quest'ultimo cerca di pensare con il prefisso post è proprio l'atteggiamento che, in termini diversi ma [..j profondamente affini, Nietzsche e Heidegger hanno cercato di costruire nei confronti dell'eredità del pensiero europeo."

Un'altra matrice è costituita dal poststrutturalismo francese, da cui i postmoderni hanno derivato una mentalità iconoclasta e antigerarchica, esprimentesi in pratiche di rottura come la "decostruzione" e la "frammentazione", al punto che il postmoderno, almeno per certi aspetti, ha potuto essere considerato come un ritorno delle tesi poststrutturaliste dall'America all'Europa. Una fonte di notevole importanza è costituita inoltre dall'ermeneutica, da cui i postmoderni, soprattutto Vattimo, hanno tratto un'ontologia contestualistica che fa leva sulla concezione dell'uomo come ente storico-finito e sull'immagine del mondo come rete aggrovigliata di interpretazioni. Un'altra è rappresentata dall'epistemologia postpositivistica, con cui i postmoderni condividono la tesi della natura "non fondata", "instabile" e "anarchica" del sapere. Una certa influenza (soprattutto su Lyotard) l'hanno anche esercitata quei pensatori, come Kant e Wittgenstein, che hanno insistito sull'eterogeneità delle facoltà e sulla molteplicità dei «giochi linguistici».

Un autore che ha influito sul postmoderno filosofico è Arnold Gehlen (vedi cap. 44) che, per definire lo stato della cultura e delle società odierne, ha usato i termini di cristallizzazione e di post-histoire, intendendo con essi una situazione di ristagno, in cui si sono ormai realizzate tutte le possibilità e sono venute meno tutte le forze protese verso il nuovo, per cui all'uomo non resta che muoversi nel quadro del già compiuto. Fine della storia, in questo caso, non significa che non vi sia più divenire, ma che il progresso stesso è diventato routine, ossia che le novità non hanno più nulla di veramente rivoluzionario e la storia, dopo aver offerto tutto quello che poteva offrire, ha cessato di essere elemento propulsivo. Al punto che, nell'ambito di questa «seconda secolarizzazione» che ha investito la fede laica nel progresso, l'ansia del nuovo viene dislocata nel territorio estetizzante e formalista delle arti”

Sebbene appartengano all'«atmosfera» postmoderna critici e pensatori disparati (ricordiamo, fra tutti, lo studioso americano Ihab Hassan), coloro che hanno maggiormente contribuito alla sua elaborazione "filosofica" sono Jean-Francois Lyotard e Gianni Vattimo. Altre figure di spicco che, pur non avendo teorizzato esplicitamente il concetto di "postmoderno", hanno accolto con favore alcune sue teorie, insistendo sulla necessità di uscire dalla tradizione filosofica moderna, sono Rorty e Derrida.

In Italia, oltre a Vattimo, si sono confrontati con le problematiche della crisi della ragione e con il postmoderno una serie di noti studiosi. Nel 1979 Aldo G. Gargani ha curato un volume dal titolo Crisi della ragione. Nuovi modelli nel rapporto tra sapere e attività umane che ha suscitato un acceso dibattito, mettendo in circolazione il fortunato slogan «crisi della ragione». Nel 1983 è apparso Il pensiero debole, curato da Gianni Vattimo e Pier Aldo Rovatti, destinato a fungere da "manifesto" di una nuova corrente filosofica di matrice postmoderna. Fra i collaboratori, in parte allievi di Pareyson e in parte discepoli di Paci, figurano: Leonardo Amoroso, Gianni Carchia, Giampiero Comolli, Filippo Costa, Franco Crespi, Alessandro Dal Lago, Umberto Eco, Maurizio Ferraris, Diego Marconi.

Riflessi del sentire postmoderno sono presenti anche nei lavori di Mario Perniola, Franco Rella e Vincenzo Vitiello. Fra i critici e oppositori ricordiamo Carlo Augusto Viano (che in Va' pensiero 1985, ha polemizzato con il «pensiero debole», assimilandolo spregiativamente a «pensiero flebile») e Paolo Rossi (che in Paragone degli ingegni moderni e postmoderni 1989, ha accusato i postmoderni di offrire una visione unilaterale e distorta della modernità).

Risvolti politici ed etici del postmoderno

Sulle conseguenze politiche e sulle implicazioni etiche del postmoderno hanno pesato i giudizi di due autori di matrice neomarxista: Habermas e Jameson. Habermas scorge, nel postmoderno, una sorta di tradimento delle istanze progressiste del moderno, ovvero una forma di neoconservatorismo destinato a geerare posizioni immobilistiche e oscurantistiche (suggellate dall'alleanza fra postmodernisti e premodernisti). A sua volta, Jameson riduce il postmoderno a proiezione ideologica del tardo capitalismo multinazionale e globalizzato:

Tutta questa cultura postmoderna, mondiale e tuttavia americana, è l'espressione interna e sovrastrutturale di tutto il nuovo corso del dominio economico e militare dell'America nel mondo.

Infatti, rifacendosi alla nota periodizzazione di Ernest Mandel, il quale distingue tre momenti di base dello sviluppo del capitalismo (mercantile, monopolistico, multinazionale o del consumatore), Jameson scorge, nel postmoderno, la logica culturale del tardo capitalismo e l'effetto della sua mercificazione complessiva del mondo, derivante dalla totale riduzione di ogni valore d'uso (arte inclusa) a valore di scambio. Secondo altri studiosi, il sostanziale «conservatorismo» del postmoderno sarebbe connesso al suo strategico e onnipervasivo rifiuto del marxismo:

Il lettore non si lasci fuorviare dal fatto che Lyotard enumeri cinque diverse Grandi Narrazioni; è una sola la grande narrazione che Lyotard desidera realmente falsificare, ed è quella comunista e marxista. Per cancellare meglio le tracce, Lyotard le confonde. Per tagliare l'albero, brucia l'intera foresta. Per ammazzare il padre, uccide tutti gli adulti.

Il fatto che l'indirizzo postmoderno del pensiero contemporaneo sia stato attaccato da autori "di sinistra" non è tuttavia un motivo sufficiente per ritenerlo, tout court, "di destra". Il discorso è probabilmente più articolato e complesso. Certo, il postmoderno, come testimonia il cammino intellettuale di Lyotard, originariamente attestato su posizioni dì sinistra radicale, nasce anche da una delusione politica nei confronti del movimento comunista internazionale e si configura, sin dall'inizio, come post-marxista, nel senso che viene dopo il grande racconto dell'alienazione e disalienazione dell'uomo. Esso rappresenta, infatti, il definitivo congedo dalla concezione della storia come percorso unitario proteso verso l'emancipazione, ovvero come processo di cui il Partito e i suoi intellettuali possiedono la chiave interpretativa. Del resto marxismo e postmodernismo appaiono strutturalmente antitetici, poiché il marxismo, agli occhi dei postmoderni, tende a configurarsi come un (tipico) metaracconto "moderno", ossia come un (tipico) "pensiero forte" qualificato sia da una mentalità monolitico-assolutistica (erede della pretesa hegeliana di possedere la Verità intorno al mondo), sia da uno sforzo di categorizzazione dualistica del reale (che viene diviso tra progressisti e conservatori, tra "noi" e "loro"). Pensiero manicheo (e intollerante) di cui le dittature comuniste del secolo scorso costituirebbero la concreta e tragica realizzazione. Viceversa, proprio in virtù della sua carica antitotalizzante (e antitotalitaria), il postmoderno appare costitutivamente portato a simpatizzare con la democrazia liberale e con l'economia di mercato, considerate entrambe come pilastri ineliminabili della società complessa:

Questo tipo di società non è certo, secondo i postmoderni, la realizzazione di una presunta razionalità all'opera nella storia, ma semplicemente un esperimento politico tra tanti altri, contingente, come gli altri; si tratta però di un esperimento particolarmente ben riuscito, a cui non è possibile contrapporre alternative, e che è quindi, di fatto, l'ultima e definitiva forma di società."

Da ciò la tendenziale scomparsa del futuro (nell'accezione "forte" della progettualità politica moderna) e un culto esasperato del presente che, a tratti, sembra riproporre una sorta di "conciliazione" della filosofia con la realtà di matrice hegeliana:

Il "venire dopo", sentimento dominante della vita postmoderna, attribuisce una speciale enfasi politica al presente (nonché al "passato-del-presente" e al "futuro-del-presente"), che, se non interviene una catastrofe nucleare, è la nostra unica eternità.

Senza che tutto questo, al di là di talune analogie di fondo, implichi una coincidenza necessaria con la teoria della «fine della storia» proclamata da Francis Fukuyama, il quale, per il suo presupposto di un movimento storico unitario e dotato di senso non può, a rigore, venir considerato postmoderno; né tutto questo autorizza a fare, del postmoderno, un semplice alleato ideologico del nuovo ordine planetario fondato sull'occidentalizzazione e americanizzazione del mondo, ossia una filosofia sostanzialmente "conservatrice". Infatti, sul piano politico, il postmoderno filosofico tende a identificarsi con una ragione postmarxista e postliberale che va oltre le categorie "moderne" di destra-sinistra, conservazione-progresso. Tant'è vero che, pur respingendo il mito marxista della Rivoluzione, i filosofi del postmoderno sono ben lontani dal concepire il postmoderno alla stregua di un recupero del premoderno o di qualche ideologia antimoderna. Del resto, in virtù della sua opposizione a ogni metaracconto totalizzante e a ogni forma di reductio ad unum, ossia in virtù della sua forma mentis pluralista, favorevole a concedere la parola a chiunque, il postmoderno ospita in se stesso una potenziale carica liberatrice che ne fa un possibile interlocutore delle voci sommerse ed emarginate. Come scrive Lyotard

i secoli XIX e XX ci hanno saziato di terrore. Abbiamo pagato abbastanza cara la nostalgia del Tutto e dell'Uno. La risposta è: guerra al Tutto... attiviamo i dissensi

Anche se non bisogna dimenticare che la sua impostazione tollerante e debolistica (come testimoniano le polemiche con i movimenti più estremistici e "arrabbiati" del femminismo) lo rende inadatto o esplicitamente contrario a ogni tipo di rivendicazione "forte" e di contrapposizione frontale:

Il postmodernismo consente senz'altro ogni forma di ribellione. Quello che manca è però un obiettivo grande e unico che consenta una ribellione collettiva e complessiva. "Va bene tutto" può significare: tu ribellati pure contro quello che ti pare, ma lascia che io mi ribelli contro quello che mi pare. Oppure, in alternativa, lascia che io non mi ribelli affatto, visto che mi sento del tutto a mio agio.

In ogni caso, da un'iniziale assenza di progettualità politica, che in nome della rinuncia al progetto in favore dei progetti sembrava tradursi in una semplice ratifica dell'esistente (con particolare predilezione per la società dei consumi e dello spettacolo, con le relative tecnologie), il postmoderno, rinunciando a porsi come una forma di semplice amministrazione dello status quo e di disincantata apologia della dimensione superficiale delle cose, è andato sempre più accentuando quegli aspetti ne fanno un effettivo, o potenziale, alleato delle politiche incentrate sull'ecologismo, sul pluralismo, sul multiculturalismo, sulla difesa delle minoranze e sul rispetto di ogni forma di diversità. Vattimo, secondo il quale il postmoderno si identifica con una ragione tollerante, nemica di ogni forma di dogmatismo teorico e di dispotismo pratico, è giunto ad affermare, in antitesi a ogni cultura uniformante, che «il massimo dell'uguaglianza è la possibilità di essere diversi».

Se il nocciolo e la forza del postmoderno risiedono nell'accettazione della pluralità delle culture e dei discorsi, il suo limite, agli occhi dei critici, sembra consistere nella propensione relativistica e contestualistica che lo qualifica, ovvero sia, nel rifiuto di uno spazio etico comune (su cui insiste invece l'etica del discorso) sia nella tendenza ad accogliere (e giustificare) tutti i punti di vista, senza fornire criteri di giudizio che permettano di preferire un discorso all'altro o di legittimare (o delegittimare) determinati comportamenti rispetto ad altri:

Laddove il relativismo morale, che rappresenta senza dubbio una delle opzioni postmoderne, ha la meglio, perfino la valutazione delle deportazioni di massa e del genocidio diviene una questione di gusto (il "fascismo postmoderno" di Le Pen dimostra che si tratta di qualcosa di più di una possibilità teorica...).`

Da ciò l'appunto di immobilismo e indifferentismo (etico-politico) rivolto al postmoderno, tacciato di favorire la (ri)nascita di spinte fondamentaliste:

Va sottolineato l'insorgere di un pericoloso effetto collaterale: l'altrettanto vigoroso emergere del fondamentalismo religioso (e laico). Il nuovo fondamentalismo dà voce alla cattiva coscienza della condizione postmoderna, autoflagellantesi a causa del proprio eccessivo indulgere nel relativismo.

Questi rilievi, che focalizzano alcuni limiti (possibili o reali) della cultura postmoderna, facendo leva sulla doppia accusa di conservatorismo e di relativismo, non hanno lasciato indifferenti i postmoderni o, più in generale, i filosofi di matrice poststrutturalista, i quali, anche come forma di «reazione a un rimprovero», si sono mostrati sempre più sensibili alle problematiche di tipo etico ed eticopolitico. Tali filosofi, osservava già qualche anno fa Axel Honrieth riferendosi a Derrida e Lyotard,

si volgono oggi a questioni di etica e di giustizia in misura tale che alcuni osservatori già parlano di una svolta etica. Il campo della teoria morale, che per tutti i rappresentanti del poststrutturalismo era fino a poco fa un esempio particolarmente marcato dell'universalismo costrittivo dei moderni, è diventato il vero e proprio medium di un ulteriore sviluppo delle teorie postmodeme.

Particolarmente significativo il caso di Vattimo, che ha finito per farsi promotore di un «oltrepassamento della filosofia nell'etica», oltrepassamento che, al di là di ogni forma di relativismo indifferentistico e di tendenza conciliatrice ("hegelianamente" protesa a rimuovere i limiti e le contraddizioni del presente) si sforza di recuperare sia gli aspetti critico-emancipativi del discorso postmoderno della sua progettata estetizzazione del mondo (che il filosofo torinese cerca di connettere alla tradizione francofortese e "di sinistra"), sia l'esigenza di reperire, dopo la fine dei grandi racconti, un filo conduttore normativo in grado di orientare le (complesse) scelte eticopolitiche dell'uomo contemporaneo.