INDICE
Premessa 
                                                                              La nascita della tragedia e le considerazioni inattuali, IIII                                                                       
La nascita della tragedia                                                 
Schopenhauer come educatore                                      
Carteggio NietzscheWagner                                         
La filosofia nell'epoca tragica dei Greci e gli scritti dal 1870 al 1873                                                     
Sull'utilità e il danno della storia per la vita
Sull'avvenire delle nostre scuole                                  
Richard Wagner a Bayreuth                                          
Umano, troppo umano, I                                                
Umano, troppo umano, II                                               
Aurora                                                                                  
Aurora                                                                                  
La gaia scienza                                                                  
La gaia scienza                                                                
Così parlò Zarathustra                                              
Così parlò Zarathustra                                                  
Al di là del bene e del male e Genealogia della morale                                                                     
Al di là del bene e del male                                          
I frammenti postumi del 1884                                    
I frammenti postumi dall'autunno 1884 all'autunno 1885                                                                
I frammenti postumi dall'autunno 1885 all'autunno 1887             
I frammenti postumi dell'autunnoinverno 18871888                                                                          
I frammenti postumi dagli inizi del 1888 al gennaio 1889                                                                    
Ditirambi di Dioniso                                                     
Le opere e gli scritti postumi del 1888                      

L'anticristo                                                                        

PREMESSA

Che ai filosofi non vadano i vantaggi né i danni della fortuna popolare, è una verità nota da gran tempo, e di ciò non è neppur difficile indicare le ragioni; già lo strumento espressivo di un filosofo, il pensiero astratto, è ostico ai più. Questa mancanza di popolarità, se può essere spiacevole per il filosofo, è però compensata dall'isolamento stesso di lui, che in vita e dopo, mentre viene preservato da una partecipazione collettiva, non è neppure implicato in passioni che non sono le sue. Ma il pensiero talvolta agisce sulla vita, e a Nietzsche è toccata questa sorte. E ciò non nel senso più frequente, che il pensiero astratto di un filosofo intervenga mediatamente a modificare la vita degli uomini, come in realtà spesso è accaduto nella storia; nel caso di Nietzsche, piuttosto, il pensiero tocca il tessuto immediato della vita e si mescola con essa, suscitando negli uomini istantanee risonanze, e in ciascuno accendendo le passioni che la sensibilità di ciascuno avverte come affini.

Chiunque abbia letto qualche pagina di Nietzsche si è sentito scandagliare in profondità, si è sentito provocato a dare il proprio assenso su una questione scottante: alcuni non perdonano questa invadenza, altri rimuovono l'impressione, altri reagiscono con ardente partecipazione. Cosicché, al solo udire il nome di Nietzsche, sono poche le persone, cui non facciano difetto cultura e sensibilità, a non percepire un moto istintivo dell'animo, variabile secondo i caratteri, difficilmente definibile e certo non legato a schemi concettuali. Così Nietzsche si rivela un tipo paradossale di pensatore, per il quale cadono i confini tra i generi dell'espressione, e la cui impronta si avverte nell'animo prima ancora che nella ragione.

Questa condizione eccezionale ha dato a Nietzsche un posto, nel pensiero degli ultimi cento anni, che sembrava potersi definire, per le sue implicazioni, unico e incomparabile. Ma da quella condizione derivano le conseguenze. Certo può accadere che la musica di Beethoven accenda per breve tempo di un nobile fuoco l'animo di un violento o di un sopraffattore; se poi questa musica potesse tradursi in parole, chi affermerà che da tali parole non verrebbero tratte giustificazioni della violenza e della sopraffazione? Vorremmo proibire per questo la musica di Beethoven, la quale, proprio perché è universale, tocca in gran numero degli animi che non è possibile definire nobili? Eppure a Nietzsche è toccato anche questo, di essere bandito per le allucinazioni di animi bassi o patologicamente deviati. Su bagliori di frasi il cui contenuto sfuggiva loro, su esaltazioni momentanee che, sedimentando nei pensieri quotidiani, estenuati o loschi, cercavano di giustificare un legame vero con lo stimolo da cui erano sorte, costoro edificarono interpretazioni forsennate. Nietzsche divenne un fantasma, e contro un fantasma si rivolsero in seguito, e ancora oggi si rivolgono, le esecrazioni di coloro che erano subentrati ai fanatici esaltatori. In realtà, Nietzsche non ha bisogno di essere interpretato in nessun modo, di essere cioè determinato concettualmente secondo l'una o l'altra direzione, proprio perché la sua azione sulla vita individuale è diretta. Basta soltanto accoglierlo, non secondo frammenti casuali o variamente suggestivi, ma nella sua totalità e unità. Questa via più laboriosa dovrà privarlo di una falsa popolarità; in compenso la sua azione — quella che egli ha voluto — si manifesterà per la prima volta, e se essa sarà salutare o dannosa, nessuno può dirlo.

Invero questa persona è esistita, e una sorte accidentale ha preservato la totalità, si può dire, delle sue espressioni scritte; questo tutto ha l'apparenza di una congerie variopinta, ma ha una sostanza unitaria e compatta, poiché si può assumere come la sua vera manifestazione nell'esistenza, equivalente all'unità indubbia della sua persona. Per lui, infatti, vivere significò scrivere, e scrivere fu soltanto il dire con sincerità, quasi il riflettere in uno specchio, gli slanci della sua fantasia e i travagli del suo pensiero. D'altra parte, si può ascoltare o leggere in due modi: o quello che dice un uomo, attraverso il suo sviluppo, si intende ogni volta come qualcosa di compiuto e di concluso — e allora si ignorerà il futuro, e quanto al passato, lo si cancellerà in una prospettiva assoluta, e lo si considererà in una prospettiva storica — cosicché ciascuno rimane libero, in ogni occasione, di prendere o lasciare, di entusiasmarsi o detestare; oppure si contempla l'individualità in questione come un'«entelecheia», per la quale il tempo non è altro che la condizione del suo manifestarsi. L'apprendimento di una tale idea — per Platone le anime sono simili alle idee — la cui compattezza è primordiale, si sgrana attraverso la ricostruzione di una totalità presupposta, dove le espressioni delimitate hanno il valore di frammenti melodici e armonici di una musica ignota. È opportuno ascoltare Nietzsche in questo modo.

LA NASCITA DELLA TRAGEDIA E LE CONSIDERAZIONI INATTUALI, IIII

Sono passati cento anni dalla pubblicazione della Nascita della tragedia, eppure questo oggetto di ricerca, sotto il profilo storicocritico, rimane sempre oltremodo misterioso. Gli studiosi della Grecia arcaica hanno passato sotto silenzio, come non scientifica, la concezione di Nietzsche; ma che cosa hanno fatto di più essi stessi, per stabilire una verità storica? I dati della tradizione sono sempre quelli, scarsi e ambigui. Anzitutto le notizie della Poetica aristotelica sulla derivazione della tragedia dai corifei del ditirambo e dall'elemento satiresco. Certa è soltanto la connessione sia dell'origine del ditirambo sia della figura del satiro con il culto di Dioniso. Il resto è controverso o non illuminante, a cominciare dalla significazione di tragedia» in quanto «canto dei capri», sino alle notizie sull'introduzione del ditirambo a Corinto per opera di Arione, sotto il tiranno Periandro, sul trasferimento al culto di Dioniso dei cori tragici che commemoravano le sofferenze dell'eroe Adrasto, per opera del tiranno distene all'inizio del sesto secolo. Ma l'elemento di massima incertezza riguardo all'origine della tragedia consiste nel contrasto fra l'indiscutibile connessione con il culto di Dioniso e il contenuto delle tragedie a noi pervenute, che solo occasionalmente ha un riferimento con Dioniso e il suo culto, e che nella sostanza è tratto dai miti sugli eroi e gli«dèi greci, cioè dalla stessa sfera dell'epica. Su questo punto già gli antichi erano perplessi. A spiegare tale polarità Nietzsche suggerisce di considerare il mito come un sogno apollineo del coro, che si sottrae così alla sua passione dionisiaca. È vero che in questo modo i dati della tradizione vengono integrati attraverso una intuizione estetico-psicologica, ma si può dire che le altre interpretazioni di quest'ultimo secolo si siano comportate più «scientificamente»? O si sono accentuati certi elementi della tradizione, lasciandone cadere altri, oppure si sono interpolate ulteriori prospettive, soprattutto quelle etnologiche, nella ricerca di una spiegazione unitaria. Così si è posto in evidenza l'aspetto rituale, e si è stabilito un parallelo con i «dro mena» dei misteri eleusini, magari in una direzione giusta, ma con il torto di voler spiegare qualcosa di ignoto mediante qualcosa che è ancora più ignoto. O più superficialmente si è parlato di riti celebrati sulle tombe degli eroi, di rituali drammatici intesi magicamente ad assicurare il rigenerarsi primaverile della vegetazione e la fecondità animale, o ancora di uno stretto rapporto tra il culto di Dioniso e quello di Osiride, insistendo sulla presenza nella tragedia di una morte rituale.

Ma La nascita della tragedia non è un'interpretazione storica. Proprio mentre sembra svilupparsi come tale, si trasforma in un'interpretazione di tutta la grecità, e quasi non le bastasse neppure questa prospettiva ondeggiante, addirittura in una visione filosofica totale. Perché allora quella maschera falsamente modesta? In un senso tecnico, La nascita della tragedia è l'opera più «mistica» di Nietzsche, nel senso cioè che richiede un'iniziazione. Vi sono dei gradi che bisogna raggiungere e oltrepassare, per poter entrare nel mondo visionario della Nascita della tragedia. Iniziazione letteraria, beninteso, dove il rituale misterico è sostituito dalla parola stampata. Così La nascita della tragedia è anche l'opera più difficile di Nietzsche, perché altrove il mistagogo assume il linguaggio della ragione, e con questo introduce ogni volta in un mondo che si accinge a spiegare compiutamente e per disteso. Anche lo stile denuncia tale divergenza: nella Nascita della tragedia Nietzsche parla la lingua dei «classici» tedeschi, non ha ancora raggiunto una sua espressione nuova, unica, il che si addice a un contesto mistico: l'autonomia, la perfezione di una forma stilistica non aiuta a manifestare l'inesprimibile. Più tardi Nietzsche, distanziandosi dai contenuti, si scoprirà come razionale e conquisterà un «suo» stile. C'è di più: i gradi misterici che precedono La nascita della tragedia e ne condizionano la comprensione non stanno su una linea continua e ascendente, ma vengono attinti per così dire da sfere antitetiche, confluendo poi ed esaltandosi in una nuova visione, nell'epopteia che qui viene comunicata. Da un lato c'è il mondo della Grecia arcaica, scandagliato e percorso con l'erudizione, ma ancor più sognato, integrato dalla fantasia, ricostruito come una vita senza volto, sulla base delle parole folli, dello sconnesso balbettare di Pindaro e dei cori tragici. È un'esperienza estatica, dove l'approccio dell'iniziato si realizza attraverso la lettura degli autori antichi. Analogo condizionamento ha d'altro lato l'esperienza parallela e complementare che sta alle radici della Nascita della tragedia: la parola scritta è in questo caso moderna, è quella di Arthur Schopenhauer, ma la suggestione sullo sfondo viene dall'oriente indiano. Difatti non è stata la costruzione razionale del filosofo tedesco ad agire in modo decisivo su Nietzsche: Schopenhauer è il tramite di un'altra esperienza, è il portatore della visione del mondo di un'intera civiltà.

Se è vero che La nascita della tragedia presuppone tutto questo, sarà vano assumerne e valutarne le affermazioni in senso letterale, immediato. Si è detto peraltro che questo misticismo era condizionato letterariamente: il suo rituale è la lettura, e la comunicazione della nuova visione contemplata si realizza attraverso la scrittura. Questo è un pesante limite di Nietzsche, cogliere un'estasi che sembra sorgere e consumarsi tutta nei segni tipografici. È anche naturale che il linguaggio misterico di Nietzsche, suscitato a questo modo, si veli simbolicamente dietro un'interpretazione del passato, di un passato lontano: il discorso storico è quasi imposto dal meccanismo di tale esperienza esoterica, di tale visione interiore che fa rivivere miracolosamente e simultaneamente due mondi remotissimi della tradizione scritta. E in questo discorso storico il principio antitetico alla visione stessa, ciò che ne misura l'instabilità e l'eccezionalità, non a caso prende il nome di Socrate, che Nietzsche designa come «lo specifico nonmistico». Ma l'intensità dell'esperienza che sta alla base della Nascita della tragedia non può essere spiegata solo da un condizionamento letterario: un misticismo autentico, vissuto, interviene in questo contesto, e spezza la costrizione del discorso storico. Il rituale di questa esperienza diretta, non mediata, è la musica, ed è questo carattere che dà al contenuto della Nascita della tragedia — la quale diventa il racconto dell'epifania di un dio, di Dioniso — il valore di una visione primordiale, staccata dalle sue condizioni letterarie, quasi in antitesi a queste. Le pagine sul terzo atto del Tristano e Isotta, sulla dissonanza musicale sono rivelatrici di questa immediatezza. La dissonanza nel cuore del mondo, vissuta, ascoltata come uno scotimento, un brivido radicale, un'ebbrezza esaltante: questa è l'esperienza «sua». Mentre Schopenhauer e l'intuizione del pathos che sta alla base della tragedia, come dolore primordiale, come Urschmerz da cui i cori dionisiaci anelano di liberarsi nell'illusione del sogno drammatico, allontanano dalla vita, il pathos musicale di Nietzsche, non letterario, gli testimonia un «altro» fondo della vita, il «vero» Dioniso, il dio affermativo, che è una Urlust, una gioia primordiale. La confluenza di un misticismo letterario con uno soltanto vissuto, come se fossero omogenei, fa intervenire d'altro canto una disarmonia nella struttura della Nascita della tragedia: l'introduzione di Wagner in posizione preminente, di alcune tesi care a Wagner e di certi altri elementi contingenti della realtà tedesca di allora ne è la conseguenza più urtante. Qui, come più tardi in altre forme, Nietzsche ha creduto di poter congiungere vita e scrittura, ma in questo legame troppo stretto pecca di ingenuità.

La folle vita interiore di Nietzsche in questi anni, la cui ripercussione letteraria è La nascita della tragedia, viene compressa dolorosamente dalla realtà del tempo. Il nostro autore si sente un esiliato, e chiama tale sentimento «inattualità». Ma il mistico crede di essere, e vuol essere altresì un uomo di azione. Chi ha attinto la sua ricchezza in regioni così remote, diventa una forza dirompente per il presente : «questo devo potermelo concedere già per professione, come filologo classico: non saprei infatti che senso avrebbe mai la filologia classica nel nostro tempo, se non quello di agire in esso in modo inattuale — ossia contro il tempo, e in tal modo sul tempo e, speriamolo, a favore di un tempo venturo». Nascono così le « Considerazioni inattuali», come opere di transizione e di formazione. Qui infatti la mancanza di uno stile autonomo, inconfondibile, si fa sentire più duramente. Nella direzione polemica, in una prospettiva di lotta, lo stile è quasi tutto. E Nietzsche, con spietata severità verso se stesso, lo sa e cerca in questi anni di conquistarsi uno stile, ma non lo possiede ancora. Non sono anni felici per lui, e occasionalmente egli confessa di essere ancora lontano dalla meta, sente l'inadeguatezza del suo agire, per esempio alla fine dell'« Inattuale» sulla storia: «questa trattazione mostra, non voglio nasconderlo, nella smoderatezza della sua critica, nell'immaturità della sua umanità, nel frequente passaggio dall'ironia al cinismo, dall'orgoglio alla scepsi, il suo carattere moderno, il carattere della personalità debole».

Dunque la sua «inattualità» è da lui stesso sentita come ancora troppo attuale. A un'analoga conclusione si giunge, quando anziché la forma si considerino certi contenuti, in particolare i bersagli polemici scelti. Tipica è la prima considerazione inattuale, il David Strauss, che è la più debole fra tutte le opere pubblicate da Nietzsche, proprio per la sua «attualità». Che importa a noi oggi, dopo un secolo, di questo smorto filisteo? Come possiamo prendere sul serio la sua « nuova fede», contro cui Nietzsche scaglia i suoi superflui fulmini? Non mancano i bagliori annunziami il futuro polemista eccelso, ma in complesso anche Nietzsche è pesante qui, non soltanto per l'inconsistenza del suo bersaglio, ma per la sua propria pedanteria professorale, come nella stucchevole lista finale degli errori stilistici di Strauss. Nietzsche non ha avuto fortuna, non ha allora saputo scegliersi degli avversari che avessero dinanzi a sé una vita avvenire. Analogo è il caso del filosofo Eduard von Hartmann, attaccato con astio e prolissità nella seconda «Inattuale».

Quest'ultima, dal titolo Sull'utilità e il danno della storia per la vita, sale tuttavia a un grande livello speculativo, e la prospettiva non è più mistica, bensì razionale. L'ispiratore nascosto è ancora Schopenhauer ma il discepolo qui vede più acutamente del maestro. È chiaro dove Nietzsche pone l'accento: il «danno » della storia è di gran lunga più decisivo, più essenziale della sua « utilità». E la giustificazione teorica sta nel fatto che la vita si oppone intimamente al sapere storico: la prima fiorisce nell'oblio, in una immersione totale nel presente, mentre il secondo si fonda sulla memoria, sulla persistenza del ricordo. La vita storicizzata languisce, decade, s'impoverisce, soffre, si spegne: «è sempre una cosa sola quella per cui la felicità diventa felicità: il poter dimenticare o, con espressione più dotta, la capacità di sentire, mentre essa dura, in modo non storico». Questa fondamentale prospettiva teoretica appartiene in modo originale a Nietzsche, e la sua portata si estende assai al di là della tematica della seconda «Inattuale». Non è infatti soltanto il sapere storico a essere coinvolto da questa condanna: tutta la scienza, la filosofia, forse anche l'arte, se si può dire che l'arte sia conoscenza, si fondano sulla memoria del passato, si differenziano dall'immediatezza della vita. Il livello speculativo di questa «Inattuale» è d'altra parte adeguato al suo bersaglio polemico, che questa volta non è un filisteo cólto, ma l'intera, immane tendenza del mondo moderno al sapere storico. Qui l'eccellenza del polemista può dispiegarsi, l'«inattuale» ha buon giuoco nel contrapporre i suoi mondi remoti, sognati misticamente. « Quasi che il compito di ogni epoca fosse anche di dover essere giusta verso tutto ciò che una volta fu... Come giudici dovreste stare più in alto del giudicando; mentre siete solo venuti più tardi. Gli ospiti che vengono a tavola per ultimi devono avere gli ultimi posti: e voi volete avere i primi?».

Schopenhauer come educatore sviluppa la lotta di questo periodo secondo un'altra prospettiva: mediante la venerazione. Il piano elevato della trattazione è così posto sin dal principio, e del resto Nietzsche considerò anche in seguito con benevolenza, quasi con predilezione, questa sua opera. Schopenhauer è assunto come il modello della vera cultura contro quella falsa, non solo dei dotti e dei filistei cólti, ma qui estensivamente della scienza in generale. Speculativamente il tono è più dimesso che nell'«Inattuale» precedente, poiché di Schopenhauer non si discutono i temi teoretici, ma si presenta l'integrità della persona, la natura propriamente inattuale — in lotta contro il suo tempo — di semplicità e schiettezza, di veridicità. Anche il distacco di Schopenhauer dalla politica è additato come atteggiamento esemplare: Nietzsche sviluppa una contrapposizione fra Stato e cultura, in cui si avverte un'eco burckhardtiana. Lo Stato è per sua natura antitetico alla filosofia, e la filosofia dal canto suo è antitetica allo Stato. Per quest'ultimo il filosofo vero è un pericolo mortale: «l'amore della verità è qualcosa di terribile e violento». Così la sfida di Nietzsche contro il suo presente è completa: lo Stato vuol soggiogare la cultura, abbassarla a suo strumento, farsi esaltare e glorificare da essa come supremo valore. «Chi pensa... che un'innovazione politica basti a rendere gli uomini una volta per sempre soddisfatti abitatori della terra, merita davvero di essere professore di filosofia in un'università tedesca».

LA NASCITA DELLA TRAGEDIA

Tra i libri pubblicati da Nietzsche — se escludiamo gli scritti filologici — questo è l'unico dedicato ai Greci. Ê qui che lui accende il suo focherello, con frasi ottocentesche, talora timide e paludate, talora troppo scoperte, giovanilmente vibranti, e il fuoco languisce per un secolo. Ma ancora non è spento, e all'orizzonte si levano presagi, segni di un incendio vicino, che può divampare. Cinque, sei secoli fa un nuovo modo di guardare il passato trasfigurò il presente. Questo potrà essere l'incendio — e i presagi sono certi mutamenti, quasi impercettibili, nei gusti di coloro che studiano per professione l'antichità, uomini dai gusti immutabili. Così i filologi cominciano soltanto ora ad accorgersi che un secolo fa è stata scritta La nascita della tragedia. Nessun altro libro di Nietzsche ha alle spalle una preparazione così lunga e faticosa. Per dieci anni il giovane studioso vive tra i suoi libri, e dalle sue parole non si annuncia nessuna minaccia per la scienza. Accetta la tradizione della filologia, ammonisce i suoi amici a reprimere la fantasia, a rispettare il metodo, a controllare le ipotesi. Poi viene questo libro, dove tutto è contraddetto, dove nessuno allora riconobbe l'autore. Dall'università tedesca esce la rottura della sua stessa visione del mondo, d'improvviso, senza che nessuno potesse aspettarselo, da uno che aveva studiato a Pforta, a Bonn, a Lipsia.

Tutto ciò oggi non salta all'occhio, perché l'autore di questo libro ne scrisse poi altri che suscitarono incendi più appariscenti, attizzati dai problemi del presente. Ma lui già aveva rotto l'argine, e oggi si attende la grande onda di piena, che si getti attraverso quello e dilaghi. Nel Nietzsche maturo lo stile precorre i contenuti, li annunzia squillante prima ancora che si manifestino; qui nella Nascita della tragedia lo stile smorza contenuti troppo dirompenti, quasi li diluisce, li attenua nel fragore del loro disvelamento. E così sono rimasti imbozzolati, e già mena scandalo il loro pallido, modesto affiorare. Perché tutti capirono almeno che la scienza ufficiale era in pericolo, che quelli erano modi illeciti, contro il galateo, di trattare l'antichità. L'antichità doveva restare appunto qualcosa di antiquato, di inoffensivo, eventualmente edificante o illustrativo o retorico o dissezionato. Come si poteva permettere che diventasse qualcosa di ingombrante, di vivente, che non si può 'storicizzare', cioè sterilizzare?

Ma La nascita della tragedia parla anche a chi non si interessa per nulla dell'antichità. Qui vengono indicati degli strumenti di liberazione, in un'epoca incatenata da ogni parte, e in cui non manca il presentimento istintivo che le cosiddette liberazioni dalle catene non sono altro che nuove catene. E questi strumenti non sono proiezioni di miraggi futuri, sono l'ebbrezza e il sogno, compagni mandati all'uomo dalla natura, dalla primavera e dalla notte. Tale è il bisbiglio di questo libro, che si insinua sommesso negli spiriti più intorpiditi e accasciati, e dà un brivido agli speranzosi. — Allora c'è una salvezza, allora il mondo che ci circonda, con il suo cielo plumbeo e le sue ore digrignanti, è soltanto un incubo, e la vita vera è il sogno, è l'ebbrezza!

A dare una tale speranza Nietzsche non perviene più, in seguito. Anche il Così parlò Zarathustra è proiettato nell'avvenire, non mostra un'esperienza presente, che si possa toccare, e il suo godimento non è per tutti. Qui un ragazzo percepisce dove conduce la strada, e poi se ne dimenticherà. Ma il ragazzo quasi ha paura di aver visto troppo, e maschera il messaggio con due specie di rimorsi: i vincoli che ancora gli impone la corporazione erudita e le sollecitudini per un presente che ancora lo soggioga, per Wagner e per la Germania. Perciò l'opera rimase velata.

Né maschera né traviamento antiquario, per contro, è l'allusione agli dèi greci. Qui piuttosto è dove si rivela la lentezza del fuoco di questo libro. L'ebbrezza di Dioniso e il sogno di Apollo. Lo sguardo divinatorio di Nietzsche si manifesta in questa duplice, magica scelta. Per la liberazione la natura umana ha due strumenti, il mito greco ha due dèi. L'accoppiamento di questi dèi fa scoccare il lampo di un'intuizione, che scuote una fantasia appena mediocre, e ora comincia a far riflettere anche gli eruditi. In realtà quegli dèi non dispongono soltanto del sogno e dell'ebbrezza, come strumenti di liberazione. Prima d'ogni altra cosa, e in comune, possiedono l'uomo con la follia.

I giovani oggi hanno la possibilità di partire dalla Nascita della tragedia, di apprenderla con animo verginale. Molti ostacoli che si frapponevano a un accostamento non prevenuto sono stati sgombrati. Anche la maggiore disponibilità all'emozione è un elemento favorevole. E molto conta che questo possa essere un punto di partenza. Persino la natura composita di quest'opera non è ormai di grande impedimento. Ciò che è contingente, caduco, ottocentesco viene già eliminato — senza che occorra infiacchirsi con un addestramento critico — per lo spontaneo disinteresse di fronte a problemi estranei. Ma più forte è l'impatto della novità, è lo strappo dell'amo che ci risucchia fuori del quotidiano.

Noi siamo circondati dallo spettacolo, tutto oggi è spettacolo, non soltanto il teatro, il cinema, la televisione. Oggi anche gli uomini d'azione guardano, più che non agiscano. Perciò si rimane atterriti, quando viene qualcuno a rivelare che cosa fu la tragedia greca. D'un tratto ci si accorge che quello non era soltanto un vedere, che quello spettacolo era l'essenza del mondo, contagiarne, soverchiante gli oggetti che crediamo reali.

Nietzsche ci ha svelato che quanto lo spettatore ateniese vede laggiù — ben nitido e corposo sotto il sole greco — non è altro che uno spettacolo per il coro, una visione che appare al coro. Quindi chi agisce — l'attore sulla scena — non esiste, è soltanto uno spettacolo in assoluto, e quanto al coro, che agisce e contempla assieme, è spettacolo per lo spettatore. Costui guarda un'azione che è già spettacolo per chi agisce, non è spettatore direttamente, ma soltanto — per magia di Apollo — vede qualcuno che contempla uno spettacolo e glielo racconta, glielo fa vedere. E così l'azione è sogno, e spettacolo è già l'evento iniziale che si allarga dalla scena all'orchestra e alla cavea, contagiando nell'illusione totale chi si è aggiunto per ultimo dall'esterno, lo spettatore sulla cavea. Il distaccarsi dalla vita è talmente iniziale da confondersi con la vita stessa. Quindi la sensazione moderna «questo è soltanto uno spettacolo» è l'inverso dell'emozione della tragedia greca — di quella che Nietzsche ci ha fatto penetrare — che faceva dire «questa è soltanto la realtà quotidiana». L'uomo di oggi va a teatro per rilassarsi, per scaricarsi dal peso di tutti i giorni, perché ha bisogno di qualcosa che sia 'soltanto' spettacolo, perché viene dal di fuori e sa che cos'è reale. Lo spettatore della tragedia greca veniva e 'conosceva' qualcosa di più sulla natura della vita, perché veniva contagiato dall'interno, investito da una contemplazione — cioè da una conoscenza — che già esisteva prima di lui, che saliva dall'orchestra e suscitava la sua contemplazione, si confondeva con essa. E se la via dello spettacolo fosse la via della conoscenza, della liberazione, della vita insomma? Tale è la domanda posta dalla Nascita della tragedia.

SCHOPENHAUER COME EDUCATORE

Questo non è un libro distensivo, non si rivolge a coloro che leggono per riposarsi. E neppure a chi legge per estendere le sue cognizioni. È uno scritto destinato a chi ha ancora qualcosa da decidere, sulla sua vita e sul suo atteggiamento di fronte alla cultura. Quando sentiamo in noi una simile incertezza, il desiderio di muovere i primi passi e il bisogno di una guida che ci sorregga, allora arte, scienza, filosofia possono indirizzare la nostra vita, purché prendano la figura di una persona, che incuta in noi rispetto e ammirazione. È scegliendo un maestro, che cominciamo a diventare qualcosa, e ciò per la modestia dell'atto, che attenua l'orgoglio giovanile, e per la fiducia nel sostegno, che dà fermezza al nostro incedere. Questa è l'esperienza personale che Nietzsche ci racconta qui, e proprio le parole da lui adoperate — e la personalità che ne emerge — possono diventare per noi il modello per una ripetizione dell'esperienza. «Vivere, in generale, significa essere in pericolo». Così leggiamo in questo libro, e di tale natura sono i suoi insegnamenti. E se nelle parole di Nietzsche, e, attraverso lui, di Schopenhauer, noi cerchiamo la filosofia, la sua voce è ben diversa da quella che abbiamo inteso nelle scuole. È una voce troppo aspra, per una filosofia che dovrebbe, così ci hanno detto, interpretare la totalità della vita. Eppure, l'asprezza della vita tutti la conosciamo!

Ma se la filosofia deve discendere da una visione universale della vita, se deve, quanto più è possibile, «assomigliare» alla vita, allora Nietzsche e Schopenhauer sono gli ultimi filosofi, che non usurpino questo nome. Assumendoli come maestri impareremo qualcosa, sul conto della vita, e soprattutto sapremo come debba comportarsi colui che coglie una realtà dell'animale uomo al di là dei suoi interessi sensibili immediati, la conservazione dell'individuo e della specie. E non importa se, nella loro rivelazione del mondo, questi filosofi hanno fatto emergere una visione tragica, hanno mostrato il sostrato terribile e feroce della nostra esistenza, salvando dalla condanna della vita individuale e associata soltanto la cultura dell'uomo, l'arte, la religione, la filosofia. Dal dolore di questa conoscenza sorge una nuova possibilità del nostro agire, nel conservare e rafforzare l'esistenza della cultura. Questo è il senso più profondo del loro insegnamento, e capire questi filosofi significa operare nella direzione da essi indicata, in modo che l'«inattualità» della loro vita, il loro « distacco» dagli uomini e dagli interessi storici che li circondavano non si riproducano in altri filosofi solitari, simili a loro, ma siano il principio di un rivolgimento, che faccia risorgere la cultura come vita vivente, essenza di una società, sia pure ristretta, di uomini.

Perché tragica fu la loro vita individuale, come la loro rivelazione del mondo. Ma nulla può trapassare così durevolmente e intimamente in un animo giovanile, informandone di nobiltà la vita, quanto il destino tragico di un uomo esemplare. E, come Tucidide fa dire a Pericle, nell'orazione funebre: «In ciò sta peraltro un destino fortunato, nell'aver avuto in sorte, gli uni la morte più rifulgente, come adesso è toccato a costoro, e voi altri il privilegio di piangere la loro fine; per essi fu misurata una vita in cui la felicità si accompagnasse alla morte».

CARTEGGIO NIETZSCHE-WAGNER

Già l'iroso disprezzo, l'odio, la maledizione, e d'altra parte la smodata ammirazione, il fanatismo, che hanno accompagnato, prima e dopo la loro morte, questi due uomini, testimoniano la violenza della loro personalità, che nella storia recente dell'arte e del pensiero non ha avuto eguali. Sinora almeno non si è più presentata, dopo di essi, un'energia creativa la cui impronta restasse così segnata, che afferrasse, o respingesse, con tale prepotenza. Nell'attesa di altri «violenti», e nel dubbio sul loro apparire, ai nostri occhi Nietzsche e Wagner chiudono qualcosa, sono una fine...

In questo «crepuscolo» essi scendono assieme. E ciò che rappresentano di fronte agli uomini, essi già l'hanno vissuto nel loro destino individuale. Amici e nemici con pari intensità, uniti in una breve, inebriante speranza, divisi in una privazione, dove la vita dell'uno tramonta, e quella dell'altro è spezzata, ancora nella giovinezza.

Se poi, oltre che chiudere, essi aprano qualcosa, è sino ad oggi incerto. Che molti — indegnamente — abbiano agitato il loro nome, nella confusione dei sentimenti e dei concetti, poco importa; ma nella mischia del presente, dove è uso raccogliere l'arma del nemico caduto, e servirsene, non è facile scorgere da quale parte si schieri un combattente: e già essi furono nemici.

Indubbiamente, essi non erano dei contemplativi, e la loro espressione voleva dilagare nella sfera dell'agire. Non si contentavano di una breve attenzione — estetica o cerebrale — dello spettatore o del lettore; senza parlare a nome della politica o della religione, essi volevano tutto l'uomo, pretendevano di modificare e di riempire la sua esistenza. A questa richiesta l'uomo è sordo, e non soltanto oggi. Ma chi li ha seguiti nel pretendere — e nell'offrire — tanto?

Ciò che dice un grande uomo difficilmente riesce a smuovere anche le più superficiali convinzioni, e tanto meno le smuoverà, quanto più lontane sono le sue parole; ma ciò che lo riguarda come persona eccita in molti una maligna curiosità. La parte più nascosta di ciascuno, la sua intimità, è sempre attraente: Nietzsche per l'appunto — che dei due oggi è giudicato il più interessante — mette continuamente a nudo se stesso. E chi prova fastidio di fronte alla qualità superiore di quest'anima, così rivelata, si consola con la misera fine dell'uomo. Ma il suo rapporto con Wagner, e tutto ciò che lo documenta, conducono alla più profonda intimità, e parlano dell'estremo fallimento per la speranza di agire. Chi invidia la grandezza può rallegrarsi. Non sarà danno grave; e del resto da queste poche lettere — foglie secche cadute, di un albero ormai spoglio — la curiosità malsana non potrà trarre un gran bottino. Chi invece ha una fantasia diversa, potrà immaginare il verde fogliame, quale esistette per una breve stagione. È la vita stessa di Nietzsche e di Wagner in quel tempo: certo non potremo coglierla nella sua immediatezza, ma queste lettere ci offriranno il quadro, in cui il brivido che ci dà il Tristano si riconoscerà identico al brivido dello Zarathustra.

LA FILOSOFIA NELL'EPOCA TRAGICA DEI GRECI E GLI SCRITTI DAL 1870 AL 1873

Attraverso questa serie di scritti degli anni 1870 1873 sorprendiamo Nietzsche nella tensione e nella fervida ricerca in cui si esprime il nascere della sua ambizione letteraria. C'è qui l'ansia giovanile di forzare una rapida maturazione stilistica, c'è un anticipo della crisi di fronte alla professione filologica, nel tentativo di trattare i problemi dell'antichità con un linguaggio non specialistico, e c'è infine, in questa ambizione, un glande livello che agisce da freno, un rifiuto dei risultati parziali, un'autocritica precocemente vigile. È naturale che in questa fase la stesura letteraria manchi ancora di sicurezza; mentre negli anni successivi egli passerà in modo continuo dai piani agli schizzi e agli abbozzi, ai frammenti, agli sviluppi provvisori, sino alle redazioni definitive per la stampa, e in caso di insuccesso creativo si arresterà allo stadio frammentario, ora invece vengono alla luce questi scritti, dove egli tenta di realizzare opere compiute, ma ne giudica poi inadeguate la forma o l'elaborazione. Tali scritti risultano così o redazioni unilaterali, parziali e primitive di future opere edite da Nietzsche, oppure tentativi di trattare temi diversi, che non furono più ripresi in seguito da lui per una pubblicazione.

I primi tre scritti contenuti nel presente volume appartengono alla travagliata formazione della Nascita della tragedia. Soltanto nella Visione dionisiaca del mondo, scritta durante l'estate del 1870, vengono introdotte decisamente le categorie estetiche dell'apollineo e del dionisiaco. Nelle conferenze tenute all'inizio del 1870 si menzionavano i cortei dionisiaci, la vita naturale dionisiaca, ma il contesto era più concreto, più fluttuante; e per contro l'aggettivo apollineo compariva soltanto in un uso non estetico, dove si parlava curiosamente della «chiarezza apollinea» di Socrate, in riferimento alla dialettica e alla scienza. Per il resto, nel Dramma musicale greco la preoccupazione per le tesi wagneriane è troppo forte e ostacola un'esposizione originale. Si insiste sulla critica dell'opera moderna e della tragedia classica francese: in antitesi a ciò il dramma antico è presentato come una pluralità unificata di parallele prestazioni artistiche, dove la stessa musica viene abbassata a mezzo per uno scopo. In Socrate e la tragedia, per contro, la critica rivolta a Socrate e a Euripide si muove piacevolmente sulla falsariga di Aristofane, con uno sviluppo di concretezza più accettabile e convincente che nella Nascita della tragedia. Qui Euripide non è tanto il corruttore della tragedia, quanto il riformatore infelice, che tenta invano di restituire alla tragedia, ormai estranea al pubblico ateniese, un nuovo vigore. Secondo questo scritto, la tragedia era in crisi da quando vi erano stati introdotti due personaggi (ossia dai tempi di Eschilo): da allora aveva preso piede il dialogo a scapito del coro, con le sue conseguenze dialettiche e agonistiche, in una direzione cioè antidionisiaca. Non è che tali elementi manchino nella Nascita della tragedia, ma vi compaiono compressi da una tesi rigida, sono attenuati dalla struttura architettonica dell'opera. Questa maggiore libertà di trattazione degli «scritti» si avverte soprattutto nella Visione dionisiaca del mondo, dove si è stimolati da un vivacissimo ondeggiamento dei concetti stessi di apollineo e dionisiaco. Questi anzitutto sono parificati come istinti « artistici» primordiali, e nel caso dell'apollineo si dice che l'artista « giuoca» con il sogno, mentre nel caso del dionisiaco «giuoca» con l'ebbrezza. Il «giuoco», cioè l'attività dell'attore, unifica dunque i due istinti. Tale prospettiva viene poi variata — e l'accentuazione risulterà più evidente nella Nascita della tragedia — nell'identificazione del sogno con il veicolo specifico della creazione artistica, cosicché la sfera dell'arte è tipicamente designata dall'apollineo; per contro la natura più profonda del dionisiaco rimarrebbe concentrata nell'interiorità pura, nell'intuizione del dolore del mondo, della volontà metafisica secondo Schopenhauer, ossia in un elemento mistico. E la caratterizzazione storica dell'età pretragica è tracciata qui in modo più articolato e autonomo che nella Nascita della tragedia, quasi vi fossero più possibilità di epoche apollinee. La Visione dionisiaca del mondo si chiude con un'interessante trattazione, tuttavia appena abbozzata, su vari temi estetici (il «sentimento», il «linguaggio gestuale», il «simbolismo del linguaggio musicale», il «grido», eccetera), in vista di un approfondimento teoretico dell'intero problema dell'arte, cui nella Nascita della tragedia si rinunzierà.

Nelle conferenze Sull'avvenire delle nostre scuole, tenute nei primi mesi del 1872, l'interprete dei Greci cede il posto al moralista. L'importanza della classicità è anche qui centrale, ma non più come oggetto conoscitivo, bensì come strumento di educazione. Gli antichi sono fondamentali per la cultura, tuttavia non nel senso in cui li intende la scuola moderna (e Nietzsche allude particolarmente alla grande erudizione tedesca). Questa è indirizzata all'utile, alla più estesa istruzione per tutti, alla specializzazione scientifica, e inoltre, male peggiore di tutti, è subordinata nella sua essenza allo Stato. La cultura degli antichi è il contrario di tutto ciò, ma chi può favorirne la comprensione, approfondirne la vera natura, non può essere la scuola nella sua struttura moderna, ma un vero educatore, che dev'essere un filosofo. Nella cornice letteraria di queste conferenze la figura centrale è difatti un filosofo, e questo filosofo è ritagliato sul modello di Schopenhauer: brontolone, collerico, integro, ansioso di mordere sulla realtà, o almeno di essere riconosciuto nella propria importanza, e al tempo stesso sdegnoso e sprezzante verso tutto ciò che lo circonda. Nietzsche carica l'esposizione, autobiograficamente, di tutte le speranze, le fantasie, le trepidazioni da lui attraversate e sperimentate nell'affacciarsi giovanile sugli orizzonti della grande cultura. Il pathos dell'esposizione può apparire fastidioso, l'invenzione letteraria manca di malizia, ma la comunicazione dello stato d'animo gli riesce comunque, e alla fine l'elemento più prezioso dello scritto Sull'avvenire delle nostre scuole rimane quello di una testimonianza: così sentiva, così era Nietzsche a vent'anni, con tali vibrazioni e tale ingenuità.

Alla fine di questo stesso anno 1872, Nietzsche invia a Cosima Wagner le Cinque prefazioni. I temi sono ancora gli stessi, i Greci, la cultura, il filosofo, ma lo sguardo di Nietzsche si è fatto nel frattempo più ampio e si è approfondito. Un'interpretazione dell'arte non basta a esaurire la realtà greca: il giudizio sulla struttura politicosociale e sulla filosofia viene ad arricchire la prospettiva. Così nel saggio sullo Stato greco (in origine destinato al piano della Nascita della tragedia) è affrontato di petto l'argomento scabroso dello sfondo crudele della civiltà greca. La schiavitù greca fu necessaria perché potessero realizzarsi quelle grandi creazioni individuali. Questa dura sentenza non era allora destinata alla pubblicità, ma per l'estrema determinazione e coerenza con cui viene pronunciata costituisce la vera apertura delle ostilità, sia pure indiretta, contro il cristianesimo. E il curioso è che tale necessità della schiavitù viene motivata in base ai princìpi della filosofia di Schopenhauer (la potenza è sempre malvagia!). In un'altra di queste prefazioni ritorna il tema di un fondamento atroce del mondo greco, non come intuizione dionisiaca del dolore metafisico, ma come smodata dissennatezza, come ferocia orrenda dell'azione: qui Nietzsche indica come strumento di salvezza l'aspetto costruttivo dell'agonismo greco, la «buona Contesa» di Esiodo, il controllo dell'emulazione che sovrasta l'infuriare della naturalità. Infine viene ripresentato il rapporto vitale tra filosofo e cultura: quest'ultima appare come perpetuità, concatenazione delle grandezze passate. E mentre Schopenhauer continua ad agire quale modello del filosofo, la curiosità e l'attenzione si allargano e allontanano verso il mondo presocratico, per costruire più validamente l'immagine di una guida. Nel filosofo Nietzsche vuole ritrovare soprattutto il distacco dal presente, il modello più intangibile della grandezza. E la speranza nasce per lui dal fatto che questi modelli sono realmente vissuti. «L'autore non pretende di possedere null'altro che lo distingua dai rimanenti autori, se non un sentimento esasperato per l'elemento specifico della nostra attuale barbarie, di ciò che ci caratterizza come i barbari del XIX secolo, distinguendoci dagli altri barbari».

Nasce così un altro scritto, in cui all'ideale dell'arte che dominava La nascita della tragedia si sostituisce l'ideale della filosofia: Nietzsche lo elabora con grande impegno — è in fondo il tentativo centrale, fra gli scritti di questi anni — ma non riesce a portarlo a compimento, giudicando l'abbozzo inadeguato a una pubblicazione. In verità, nella Filosofia nell'epoca tragica dei Greci la grande ambizione del progetto si realizza solo parzialmente, imperfettamente. Ottima è l'impostazione: rinuncia alla completezza e all'erudizione, l'elemento personale in primo piano. Valida del pari è tutta la parte introduttiva, dove vengono massimamente distanziate dal presente quelle figure arcaiche, e si dice che il giudizio di quei filosofi sulla vita significa assai di più che un giudizio moderno, mentre oggi il filosofare non appartiene ormai a nessuno. Questo scritto documenta dunque un processo di maturazione, l'inizio di una conquista di autonomia da parte di Nietzsche: rispetto a Wagner, con il sostituirsi della filosofia all'arte, al vertice della cultura, e rispetto a Schopenhauer, con il sostituirsi a lui di Eraclito, come archetipo del filosofo. E infatti a Eraclito toccano le pagine più consistenti di questo scritto; del resto nel suo caso un approccio non discorsivo, una divinazione dell'elemento personale si presenta come un azzardo cui può arridere il successo. Nietzsche dice bene che sulla base di tre aneddoti è possibile cogliere la natura profonda di un pensatore, ma non considera che nel filosofo la personalità non si risolve nella risonanza emozionale, ma si fonde altresì con l'elemento dottrinale. E invece di fronte a quest'ultimo Nietzsche si mostra opaco, arrendevole alle opinioni altrui, privo di mordente. Sempre a proposito di Eraclito, per esempio, l'accentuazione del « divenire» non coglie nulla che appartenga intimamente, personalmente al filosofo; si tratta soltanto di una banalizzazione, del resto neppure originale, del suo pensiero. Il capitolo su Parmenide poi è totalmente da respingere. Qui non c'è neppure divinazione dell'elemento personale: si potrebbe anzi sospettare che la caratterizzazione dell'Eleata — freddezza, astrazione esangue, negazione della vita, tautologia conoscitiva — sia antitetica a quella autentica.

Del resto anche tutta la trattazione di questi presocratici sotto il profilo di una nascente scienza della natura non si può dire che tenga fede all'assunto iniziale di Nietzsche, alla sua promessa di rompere le tradizioni fossilizzanti. Colpevole di questa disarmonia complessiva della Filosofia nell'epoca tragica dei Greci è anche la tendenza viziosa di Nietzsche a fondare le sue informazioni sulla letteratura indiretta, di seconda e terza mano, antica e moderna. Si vede chiaramente che persino a proposito di Eraclito, le cui poche frasi autentiche erano facilmente rintracciabili (e le sole illuminanti), la suddetta inclinazione ha portato Nietzsche a preferire spesso le notizie della dossografia tarda ai frammenti originali del pensatore greco. Il saggio Su verità e menzogna in senso extramorale estende l'ambizione filosofica di Nietzsche alla sfera teoretica: i tentativi in questa direzione si ripeteranno poi periodicamente, nel 1881, nel 1884, nel 1888, e risultano degni di grande attenzione, anche se Nietzsche non li includerà in nessuna delle opere da lui pubblicate. Qui viene attaccato il concetto di verità oggettiva. La verità è «un mobile esercito di metafore ». L'intuizione è geniale, anche se la sua audacia è frutto di un approccio estemporaneo. La scelta della chiave interpretativa — la metafora — tradisce l'unilateralità della risoluzione, il punto di vista di chi è cresciuto come filologo. Il mondo che ci circonda si risolve idealisticamente nel « trasferimento» dell'enigmatico fondo delle cose in un linguaggio estraneo. Anche se la parola «apparenza» viene rifiutata, l'impostazione rimane qui schopenhaueriana; ma Nietzsche sceglie una forma circoscritta di manifestazione, di trasferimento, ancorata all'astrazione del linguaggio, per spiegare un fenomeno universale di cui il linguaggio è un aspetto particolare. In altre parole, Nietzsche pecca lui stesso di metafora mentre spiega tutto in termini di metafora, poiché il concetto di metafora da lui proposto è una «metafora» interpretativa di un processo vitale e universale che assomiglia alla metafora, la include, ma ha altri caratteri più complessi e inafferrabili. D'altro canto egli neppure dimostra che sia impossibile per un filosofo sfuggire alla metafora.

In questo momento Nietzsche si rivela ardito, ma acerbo, sul piano del pensiero puro. Per convincersi della cosa, basta confrontare il passo di Verità e menzogna in senso extramorale, dove Nietzsche intende il tempo come soggettivo (secondo Kant e Schopenhauer), perché ciò gli serve a concepire le leggi naturali come una riscoperta del numero, del tempo e dello spazio, che noi stessi abbiamo introdotto nelle cose, con il passo di Filosofia nell'epoca tragica dei Greci, dove Nietzsche — in odio all'«apparenza» — riporta una citazione di Afrikan Spir, approvandola, secondo cui la successione ha una realtà oggettiva e in cui la tesi kantiana sulla soggettività del tempo viene recisamente contestata. Tutto ciò sembra esprimere una fluttuazione e incertezza teoretica (che su altri piani continuerà anche in seguito), accoppiata alla sofistica e letteraria appropriazione di tesi filosofiche, secondo le necessità dell'argomentazione.

SULL'UTILITÀ E IL DANNO DELLA STORIA PER LA VITA

Canone dell'antistoricismo, questa «Considerazione» merita, se non altro, di non essere sottoposta a una critica storica. Indagare perché Nietzsche, nello sviluppo della sua persona o nella storia del suo tempo, sia giunto proprio a un tale scritto, a quali condizionamenti e a quali disegni abbia obbedito, sarebbe una tracotanza di metodo. Nietzsche esibisce i fondamenti intuitivi della sua tesi antistorica: altri, prima di trattare questo scritto storicamente, confuti l'intuizione. Se la storia è scadimento dalla vita, infelicità, se il suo eccesso porta al dissesto biologico — e Nietzsche non dimostra, porta soltanto esempi a favore di tale tesi — allora qualsiasi storicizzare questa posizione non fa che confermarla.

È il pensiero come tale, piuttosto, che merita qui di essere discusso, e la semplicità del discorso invita alla comprensione. Animale e uomo, felicità e infelicità, vita e storia: possente è la suggestione di questi accostamenti. Ma se il ricordo è la fonte dell'infelicità, il destino dell'uomo è allora più tragico di quanto non appaia dal seguito della trattazione. E il quadro leopardiano che si trova all'inizio lo suggerisce enigmaticamente. Difatti la potenza del ricordo è avvolgente per la vita umana, e si può dire che ogni coscienza sia rappresentazione di ciò che è già accaduto, o comunque di qualcosa la cui esistenza (un'altra rappresentazione) precede quella rappresentazione. Forse inavvertitamente, Nietzsche attenua la portata del suo pensiero. Se l'uomo è l'animale storico, tutta la sua esistenza dovrebbe essere segnata da questo destino: Nietzsche invece restringe la prospettiva, e la fosca sentenza sembra colpire soltanto l'eccesso di storia, ciò che lui chiama la malattia storica. In tal modo il giudizio pessimistico viene circoscritto 'storicamente', viene rivolto al nostro presente.

E qui si rivela deludente — non già l'attribuzione di una realtà di secondo grado a ogni rammemorare — ma la limitatezza che Nietzsche conferisce a questo concetto. Difatti l'assenza di vita e della sua immediatezza, di cui si può accusare ogni attività rammemorante, e in senso più ristretto ogni storia come ricerca, ricordo, è qualcosa che si dovrebbe rimproverare identicamente a ogni storia come evento, come oggetto. In altre parole, non è soltanto la memoria, la ricerca del passato, che rende infelici, ma è il passato stesso a risultare infelicità oggettivata, in quanto la realtà del passato, come tale, non è altro se non ricordo. Ma gli uomini e le loro azioni, non retrocessi nella storia, mentre vivono e si sviluppano, tutto ciò non è più conoscenza, afferma Nietzsche, è vita. «Per ogni agire ci vuole oblio», e la conoscenza dev'essere dominata dalla vita. Qui Nietzsche chiude, taglia quanto consegue dal suo pensiero, si salva dal pessimismo dell'onnipotente memoria. La sua soluzione tuttavia non convince, perché l'agire di cui egli parla è appunto l'oggetto della storia, un attimo prima di diventare storia, còlto in un oblio che non esiste, un oggetto che, ancor prima di retrocedere nel passato, è già passato.

«Colui che agisce è sempre senza coscienza» : non giova a Nietzsche chiedere aiuto a Goethe, perché questa affermazione non è vera. Ogni coscienza è fondata sul ricordo, si è detto, e le azioni degli uomini, proprio quelle che appaiono sulla scena della storia, mentre si sviluppano dovrebbero essere prive di coscienza? Esiste un'azione senza un fine, un movente, un oggetto cui rivolgersi? E che cosa sono i fini, i moventi, gli oggetti se non rappresentazioni di qualcosa di passato, di già costituito, di non nuovo, se non i componenti in cui si risolve ogni azione, gli elementi ciascuno dei quali è un pezzo di passato? Neppure il pascolare e il brucare di un armento si può dire privo di coscienza, come del resto la memoria è possente, costitutiva anche negli animali. Ma allora uno dei termini dell'opposizione, quello che Nietzsche chiama vita, oblio, felicità, non esiste, o se esiste, non si può denominare come cecità dell'azione. Vita, piuttosto, è qualcosa di intrecciato con ricordi e oggetti, azioni e conoscenze, e se si vuole contrapporre la vita alla memoria, all'infelicità, alla storia, bisogna cercare altrove un fondamento. Nietzsche tuttavia è nel giusto non soltanto per lo splendido avvio, ma anche quando dice : «chi non sa fissarsi sulla soglia dell'attimo dimenticando tutto il passato... non saprà mai che cosa sia la felicità». Solo gli è mancata l'espressione filosofica di questa intuizione, ed è caduto nell'ambiguità di contrapporre l'azione, sia pure immediata, come superiore alla conoscenza. Per un altro verso, non si tratta soltanto di inadeguatezza espressiva: alla base si può scoprire anche uno squilibrio di valutazione, un'ambivalenza radicale. Per chi ha riconosciuto nell'impulso storico un'aberrazione, una fonte di infelicità, e nel ricordo un allontanamento dalla vita, com'è possibile sostenere che noi abbiamo bisogno della storia per la vita, per l'azione, che si deve usare il passato a scopo di vita? Questa sarebbe l'utilità della storia. Ma ciò che allontana dalla vita, come può condurre alla vita? Alla base di questa forzatura c'è un'angoscia, nel tentativo di evadere dalla visione disperata di Schopenhauer, mediante armi offerte da Schopenhauer stesso. Difatti quell'identificazione tra vita e agire ha una tale matrice: e l'azione non soltanto è priva di coscienza, ma inoltre, e su questo insiste Nietzsche, è ingiusta. Perché questa coloritura negativa e intellettualistica? Alla storia appartengono giustizia e ingiustizia, ma alla vita, se è immediatezza, non appartiene nessun predicato.

Nietzsche prova attrazione e repulsione a un tempo, di fronte a «quella cecità e ingiustizia nell'anima di chi agisce». La repulsione è dell'uomo che egli chiama sovrastorico (Schopenhauer!), di colui per il quale «il passato e il presente sono la stessa e identica cosa», e che condanna assieme storia e vita, in nome della saggezza. Ma l'attrazione è più forte della repulsione: dopo aver contrapposto storia a vita, ora Nietzsche le riunisce contrapponendole alla saggezza, e poiché la vita conta più della saggezza, bisogna scegliere la prima, e quindi anche la storia, che conduce alla vita. La storia era condannata dalla vita, e questa, in quanto ingiusta, dalla saggezza: ma ora tali giudizi vengono rinnegati, in virtù della schopenhaueriana identificazione tra vita e cieco agire, e viene messo da parte il pensiero più originale di Nietzsche, più suo, sul ricordo come scadimento dalla vita. «Sia pure la nostra valutazione della sfera storica soltanto un pregiudizio occidentale... purché impariamo sempre meglio... a coltivare la storia a scopo di vital».

Nel seguito, il livello di questa «Considerazione» va progressivamente declinando: dall'inizio leopardiano si giunge a un finale hartmanniano, e all'inverso il tono, da sommesso, semplice e profondo che era da principio, si innalza sino allo stridulo, all'accento dell'invettiva. A lavoro compiuto, mentre procedeva la stampa del libro, Nietzsche era inquieto e depresso. Scrivendo a Rohde, gli confida il suo malumore, l'insoddisfazione di fronte a questo nuovo scritto. Più tardi, quando ricevettero il libro, l'accoglienza di Richard Wagner e di Jacob Burckhardt, che non lo consideravano con occhio filosofico, fu tiepida.

SULL'AVVENIRE DELLE NOSTRE SCUOLE

All'inizio del 1872, quando si accinge a tenere queste conferenze Sull'avvenire delle nostre scuole, per incarico della «Società Accademica», Nietzsche ha compiuto da poco i ventisette anni, e proprio nei primi giorni di gennaio distribuisce agli amici i primi esemplari, appena stampati, della Nascita della tragedia. Egli sa di avere lasciato dietro di sé un'opera decisiva, di essere andato al di là delle proprie speranze, di aver lanciato una sfida non solo al mondo erudito, che è il suo mondo, ma ai valori, ai giudizi dominanti, con il piglio di uno che si presenta sulla scena come filosofo, senza badare all'etichetta. Ciò lo fa sentire vecchio, svuotato, sfinito. Quindici anni più tardi, ricordando questa esperienza, egli dirà: «Che cosa si deve aver vissuto, per poter scrivere a ventisei anni la Nascita della tragedia!». Gli sembra che sia passata un'eternità, dagli anni in cui era ancora studente: per un momento Nietzsche fa riposare la sua volontà, si guarda attorno con nostalgia, si volge indietro. Alle sue spalle intravede ancora un barlume della sua gioventù — in fondo sono trascorsi pochi anni da allora —, spera ancora di recuperare qualcosa di quel tempo. In tale stato d'animo nascono queste conferenze, e a un ascoltatore di eccezione, Jacob Burckhardt, non sfugge il pathos che vi sta dietro: «Avrebbe dovuto sentirlo! In certi punti la cosa entusiasmava; ma poi si intuiva di nuovo una profonda tristezza...».

È forse questa l'occasione in cui Burckhardt comprese di più Nietzsche, gli fu vicino (Nietzsche per contro sentì il fascino di Burckhardt per molti anni). E nei corsi universitari che comincerà subito dopo sulla civiltà greca la traccia di Nietzsche è più incisiva — quasi una coloritura di fondo — di quanto possa apparire dal banale riconoscimento della Nascita della tragedia, che Burckhardt inserisce nelle sue lezioni. Per parte sua, anche Nietzsche subisce l'influsso di Burckhardt, e ciò si esprime nel modo più chiaro e rilevante proprio in queste conferenze Sull'avvenire delle nostre scuole. Nelle lezioni degli anni precedenti, che diventarono poi famose come Considerazioni sulla storia del mondo, Burckhardt aveva abbandonato per un certo tempo il suo asciutto atteggiamento abituale di cautela e di riserbo, per aprirsi quasi filosoficamente, per tentare una teorizzazione sul divenire storico.

Nietzsche raccoglie con entusiasmo questo invito, spera di coinvolgere lo storico trattenuto, di scatenarlo in un'impresa comune. Le conferenze erano in realtà rivolte a Burckhardt, che difatti stava lì ad ascoltare: il loro tema centrale è la contrapposizione burckhardtiana tra cultura e Stato, la radicale inimicizia che esiste tra queste due potenze. Tale prospettiva teorica Nietzsche la trasporta nel presente, fa vedere come in questa lotta oggi la cultura sia soccombente di fronte allo Stato, come l'estendersi dell'istruzione da un lato, e il suo indebolirsi e specializzarsi dall'altro portino fatalmente a una totale subordinazione della cultura allo Stato. Nietzsche sembra proporre la speranza di poter invertire questa tendenza. Forse pensava a gruppi di resistenza, all'unione di individui in nome dell'inattualità, alla restaurazione di un classicismo non universitario. Tale poteva essere l'accenno rivolto a Burckhardt, come un appello all'azione. Dal punto di vista teorico invece queste conferenze, pur attraverso la mediazione di Burckhardt, sono la testimonianza più ortodossamente Schopenhaueriana che Nietzsche ci abbia lasciato. E questa del resto è la ragione della momentanea benevolenza nei suoi confronti da parte di Burckhardt, fedele discepolo di Schopenhauer.

Certo nella Nascita della tragedia, e in parte nelle «Inattuali », Nietzsche si mostra egualmente attratto e soggiogato da Schopenhauer: ciò non gli impedisce tuttavia di contaminare il quadro schopenhaueriano della Nascita della tragedia con la commistione di tanti elementi wagneriani, come pure di circoscrivere e deviare l'antistoricismo della seconda «Inattuale», quella sulla storia, oppure di trasformare l'elemento specifico, dottrinale e personale, nell'ideale generico del filosofo, in Schopenhauer come educatore. In queste conferenze, per contro, Nietzsche si mostra stranamente arrendevole di fronte al maestro: non ci sono discussioni teoretiche, e neppure morali, è vero, ma tutti i riferimenti a una visione del mondo di base sono univoci e ortodossi. Certo, per dibattere i problemi dell'educazione e della cultura, Nietzsche si serve soltanto di una finzione letteraria, dove il personaggio dominante, un vecchio e venerabile filosofo, afferma appunto la tesi di un'autentica cultura classica, aristocratica, antimoderna, antistorica, antiaccademica. Eppure attraverso questo filosofo traspare chiara l'immagine di Schopenhauer; e non è dissimulata neppure l'ammirazione per i pensieri di questo personaggio principale da parte di chi pronuncia le conferenze.

Due sono i punti più notevoli di questa ortodossia di Nietzsche. Anzitutto l'adesione alla metafisica dell'arte schopenhaueriana, con quanto vi si connette, come l'esaltazione del genio, accolta qui con rigidezza persino eccessiva, e compresi i dettagli, come l'invettiva contro la degenerazione della lingua tedesca; e in secondo luogo un antistoricismo dichiarato con una nettezza insolita in Nietzsche, e accompagnato da una precisa presa di posizione antihegeliana. Di fronte alla cultura e ai suoi problemi, il giovane si trova in uno «stato naturale di estrema indigenza». Eppure «tutti quei seguaci dell'"epoca attuale"... si sforzano alacremente per reprimere e paralizzare questo stato naturale, per deviarlo o soffocarlo: e il mezzo più gradito consiste nel paralizzare mediante la cosiddetta "cultura storica" quell'impulso filosofico conforme a natura. Un sistema che sino a poco tempo fa godeva di una scandalosa celebrità mondiale ha scoperto la formula di questa autodistruzione della filosofia...». E poco oltre: «e oggi gli strani filosofi delle università sembrano aver complottato per rafforzare la fiducia del giovane accademico in questa cultura storica. Così, al posto di una profonda interpretazione dei problemi eternamente uguali, è intervenuta lentamente una valutazione storica, anzi addirittura una ricerca filologica...».

In questo momento Nietzsche appartiene di fatto al mondo universitario, e pensa forse che una lotta decisiva contro la cultura dell'università si possa combattere solo all'interno di essa. Tuttavia egli si rende conto della difficoltà di poter sceverare in modo illuminante la propria posizione, quando si attacca la cultura universitaria parlando da dentro l'università. Se si accetta quel linguaggio, come evitare la pedanteria, proprio quando si parla contro la pedanteria? Non è facile contrapporre una vera cultura classica a una falsa cultura classica, quando si accettano gli stessi presupposti formali della comunicazione. Nella Nascita della tragedia egli aveva osato presentare una teoria dell'origine della tragedia greca nella forma di un saggio letterario. Con una analoga rottura formale Nietzsche tenta in queste conferenze — che appaiono nella sfera più ortodossa e più torpida di comunicazione accademica — di risvegliare la fantasia e la memoria dell'ascoltatore, di obbligarlo a considerare i problemi della cultura come esperienze intime, personali, di cui tutti gli appartenenti al mondo accademico devono aver sentito, almeno per un momento, le vibrazioni. Il quadro di questa rievocazione è offerto da un intreccio di elementi autobiografici. Due studenti, in gita a Rolandseck, lungo le sponde del Reno, incontrano nella foresta che costeggia il fiume un vecchio filosofo, accompagnato da un discepolo, e ascoltano i loro discorsi sui problemi delle scuole tedesche. Nietzsche cuce assieme ricordi di gioventù. Nell'estate del 1860, durante una passeggiata in una foresta dello Harz, il sedicenne Nietzsche aveva deciso assieme a Wilhelm Pinder e a Gustav Krug, i due amici di Naumburg, di fondare una società di cultura, la «Germania», dove tutti e tre si erano impegnati di far confluire le loro dissertazioni di adolescenti, i loro tentativi letterari e musicali. Su questo ricordo si innestano, nel quadro delle conferenze, altre reminiscenze del periodo di Bonn, 18641865, quando l'amico che accompagnava Nietzsche nella foresta sul Reno, durante il suo primo anno universitario, era Paul Deussen. Infine l'immagine del filosofo burbero, iracondo, autoritario, la trascrizione letteraria di Schopenhauer, come si è detto, si lega nella fantasia di Nietzsche all'anno successivo, 1865 1866, quando, trasferitosi all'Università di Lipsia, egli lesse per la prima volta quel filosofo, e ne ricevette un'impressione così intensa, da raffigurarlo come persona vivente, incombente, quasi ossessiva.

E quella tristezza che Burckhardt sentiva attraverso le parole di Nietzsche ci spiega perché proprio in questo momento, nel suo volgersi indietro verso gli anni della prima giovinezza, venissero in mente a Nietzsche le immagini del Reno e di Bonn, legate al periodo della sua più struggente melanconia. Allora egli aveva visto da vicino il mondo accademico e studentesco, si era sentito per la prima volta «inattuale», lontano dalle aspirazioni e dalle credenze del presente, aveva scoperto che il suo trasporto per l'antichità significava proprio questo. Nell'ultima conferenza egli descrive appunto lo smarrimento, la disperazione del giovane che scopre di essere uno straniero nel mondo moderno, e si sente inerme in mezzo ai mostri che lo circondano. Qualcuno può forse salvarsi, ma chi sente a questo modo normalmente è destinato a una vita tormentosa e priva di grandezza.

«Nessuno dei giovani più nobilmente dotati è rimasto estraneo a quel bisogno incessante, logorante, imbarazzante e snervante di cultura: nel tempo in cui è apparentemente l'unica persona libera in una realtà di impiegati e di servitori, egli paga quella grandiosa illusione della libertà con tormenti e dubbi che si rinnovano continuamente... La sua situazione è spaventosa e indegna: egli oscilla tra un'attività frenetica e un melanconico rilassamento. In quest'ultimo caso è stanco, pigro, timoroso del lavoro, spaventato da tutto ciò che è grande, pieno di odio per se stesso... Cerca ormai di consolarsi con un'azione incessante e frettolosa, per nascondersi così a se stesso. In tal modo la sua perplessità e la mancanza di una guida verso la cultura lo spingono da una forma di esistenza a un'altra... ». Le nature meno dotate trovano invece il loro tornaconto: «il loro benessere tuttavia non costituisce un vero compenso, di fronte al dolore di un solo giovane che sia portato verso la cultura, che abbia bisogno di una guida, e che infine lasci cadere le redini scoraggiato e cominci a disprezzare se stesso». Questo è il destino dei giovani, più o meno dotati, e a ciò ha condotto il falso classicismo dell'università. «I nostri accademici "indipendenti" vivono senza filosofia e senza arte: come potranno perciò sentire il bisogno di occuparsi dei Greci e dei Romani, dato che nessuno ha ormai ragione di simulare una propensione verso di essi...?». Eppure, «se eliminate i Greci, con la loro filosofìa e la loro arte, su quale scala vorrete ancora salire verso la cultura?».

RICHARD WAGNER A BAYREUTH

In questo periodo della vita di Nietzsche, poco più di un anno, è già notevole la sproporzione quantitativa tra l'opera da lui pubblicata e la massa del materiale postumo, a netto favore di quest'ultimo. La prevalenza tuttavia non è solo quantitativa. Nell'insieme degli scritti pubblicati da Nietzsche, Richard Wagner a Bayreuth è certo da considerarsi tra i più caduchi. Lo stesso sviluppo dell'autore ha declassato quest'opera, che pure è probabilmente il più forte saggio mai scritto a favore di Wagner. Nietzsche stesso infatti portò più tardi quello che è senz'altro il più duro attacco contro Wagner (Il caso Wagner), e un confronto imparziale delle due opere parla a favore della seconda. Non per questo sarà lecito dire che Richard Wagner a Bayreuth sia uno scritto insincero: qui piuttosto Nietzsche è già diviso in due, o meglio qui coesistono dolorosamente due fasi successive di uno sviluppo tumultuoso. Non solo, ma quello che sarà uno dei motivi conduttori della stroncatura — l'essenza di Wagner sta nella sua natura di attore, di commediante — è già presente qui, nello scritto panegirico, sia pure paludato nell'attributo di « drammaturgo ditirambico». Ugualmente, nonostante che le critiche in profondità a Wagner fossero cominciate prima ancora di questo periodo (se ne trovano tracce nei frammenti postumi all'inizio dell'anno 1874 e anche prima), Nietzsche si mostra geniale nel l'individuare i punti di forza, le capacità di seduzione del fenomeno Wagner, soprattutto nella sfera extramusicale. Quello che ora Nietzsche non sente più suo, tuttavia, è la visione del mondo che sta alla base di questi punti di forza. Il pessimismo schopenhaueriano e tutto quanto di cristiano vi si connette in Wagner, la sfrenatezza della passione, ma soprattutto il germane simo anch'esso con il suo seguito pesante, suonano ormai falsi all'orecchio di Nietzsche. E così, mentre scrive questa quarta « Inattuale», egli si trasforma senza avvedersene da panegirista in critico : ma lo scritto era anche di «occasione», era destinato all'inaugurazione del teatro di Bayreuth nell'estate del 1876, e Nietzsche doveva controllarsi. Di qui una lotta con se stesso che si traduce nell'estrema pena, nella fatica snervante con cui viene condotto a termine questo scritto. I quaderni preparatòri lo provano: mutamenti di piano, temi in parte ampiamente elaborati e poi lasciati cadere, manoscritti corretti e tormentati, con continue variazioni stilistiche. Noi possiamo ora ricostruire questo travaglio, e la pubblicazione del ricco materiale postumo che si riferisce a questa « Inattuale», assieme a numerose varianti dello scritto da lui pubblicato, ha forse nel suo complesso un interesse maggiore che non il testo stesso di Richard Wagner a Bayreuth.

Per sé, con maggiore serenità, egli segue intanto altri pensieri, cerca di dare forma e consistenza alle sue meditazioni sui Greci. Forse era questa l'ambizione più personale di questo periodo ba sileese, e qui sta forse il significato riposto del suo atteggiamento inattuale: negli anni precedenti si era proposto una Filosofia nell'epoca tragica dei Greci, ora una considerazione su Noi filologi, tentativi parziali nella ricerca di un'opera più matura e sintetica. Era il risultato che doveva coronare i suoi lavori filologici, i lunghi anni giovanili votati a uno studio senza soste, per dipanare quel filo d'Arianna di cui intuitivamente si sentiva in possesso, e rivelare l'enigma dei Greci. Eppure questo fu uno dei rari insuccessi nel tradurre in opera pubblicata un progetto meditato con serietà, parallelo allo scacco finale, suggellato dalla pazzia, per cui il progetto di un'opera filosofica «ultima» non potè essere realizzato. Così non giunsero a compimento, non solo un'opera culminante sui Greci, ma neppure la Considerazione inattuale Noi filologi, nonostante che il lavoro su quest'ultima e sulla Filosofia nell'epoca tragica l'avesse impegnato assai di più delle tre precedenti «Inattuali», ciascuna delle quali si era tradotta, a pochi mesi dall'ideazione, in opera pubblicata. Tanto più interessante per noi è la lettura del copioso materiale postumo che si riferisce a questi progetti. Nietzsche si muove in due direzioni, anche se spesso i temi si intrecciano: l'analisi del filologo moderno e una ricerca approfondita di quella che si suole chiamare antichità classica. Il filologo classico è attaccato brutalmente, con un'accentuazione dei motivi già presentati alcuni anni prima, in Sull'avvenire dei nostri istituti di cultura. Intellettualmente il filologo è incapace di comprendere l'antichità: quest'ultima è accessibile a pochi, comunque a un numero di persone assai inferiore a quella che è la consistenza numerica della classe dei filologi. Ma l'attacco si estende alle qualità morali di tale classe. Dove è presente una maggiore intelligenza, la filologia è una congiura per nascondere la vera natura dell'antichità. Se infatti il vero volto dell'antichità fosse rivelato nella sua crudezza, l'uomo moderno si ritrarrebbe con orrore e ribrezzo da questa immagine : così giudica Nietzsche. In generale, tutto il quadro « umanistico», con cui la filologia ha caratterizzato negli ultimi secoli l'antichità classica, è una grandiosa falsificazione.

Qui Nietzsche scende sul terreno di un'interpretazione diretta e originale, contrapponendo «umano» a «umanistico». Se con humanitas si vuole alludere a una natura fondamentalmente buona e dignitosa dell'uomo, che esclude da sé ogni rozzezza, smisuratezza, crudeltà, la si cerchi altrove, ma non nella Grecia antica: quest'ultima al contrario, se messa in chiaro nella sua vera natura, risulta per l'appunto antitetica all'umanesimo. Gli appoggi all'interpretazione «umanistica» vengono ricavati tutti quanti dalle idee dei Romani ellenizzati; ma questo secondo Nietzsche è l'aspetto declinante, indebolito dell'antichità, a lui interessa la Grecia e non Roma, e inoltre la Grecia preellenistica. Qui l'essenza non è «umanistica», bensì «umana». «L'elemento umano dei Greci consiste in una certa ingenuità, con cui presso di loro si rivelano l'uomo, lo Stato, l'arte, il vincolo sociale, il diritto di guerra e il diritto internazionale, le relazioni sessuali, l'educazione, i partiti: si tratta precisamente dell'elemento umano, che si mostra ovunque e presso tutti i popoli, ma che presso di loro si rivela senza maschera e con assenza di umanesimo...». «La perfetta trasparenza dell'anima nell'agire è già una prova, che essi erano senza vergogna, che non avevano una cattiva coscienza... una specie di ingenuità fanciullesca li accompagna. In tal modo, nonostante le loro malvagità, essi mostrano un tratto di purezza...». Ma in questo modo si dovrà riconoscere «come i più grandi prodotti dello spirito abbiano uno sfondo terribile e cattivo». E qui è possibile avvertire un'evoluzione nel concetto di dionisiaco, che dalla negatività scho penhaueriana in cui è inteso nella Nascita della tragedia si avvia già a quell'interpretazione affermativa, che sarà caratteristica del pensiero posteriore di Nietzsche.

A chiarire quell'aspetto «umano» della Grecia più antica può forse aver contribuito un accresciuto interesse per Tucidide, come documentano i frammenti postumi. Una Grecia siffatta è indubbiamente inattuale, e così si può comprendere meglio perché Nietzsche parli di una congiura della filologia: è difatti difficile pensare che l'uomo moderno si induca volentieri a fare istruire i suoi figli sul modello di un'antichità di tale natura. Con queste meditazioni Nietzsche si muove verso l'isolamento. In questo periodo pensare a sé significa, per lui, pensare ai Greci. All'epoca della Nascita della tragedia, se pensava ai Greci, egli pensava «anche» a Wagner. Non più ora, e le sue riflessioni non solo risultano indipendenti, ma più ampie e più mature. Anzitutto il concetto di cultura greca non è più deformato dalla considerazione preponderante dell'arte. In questo senso la liberazione aveva avuto inizio nel 1872, con i primi studi d'assieme sulla filosofia presocratica. Parallelamente la ricerca della Grecia autentica ed essenziale lo porta più indietro nel tempo, lo fa retrocedere dal quinto al sesto secolo. Di notevole interesse sono alcuni frammenti di Noi filologi, secondo cui le guerre persiane sarebbero state la causa della fine della grandezza greca. Il successo fu troppo grande, inebriante, e scatenò gli istinti tirannici, che presero corpo nei tentativi di unificare la Grecia sul puro terreno politico. Il dominio di Atene soffocò grandi forze spirituali; così non potè realizzarsi una grande riforma unificante, di natura più alta, che era stata preparata dai filosofi presocratici. In tal modo ciò che nel profondo è valido dell'antichità classica si allontana nel tempo, si restringe in un quadro remoto, dove i documenti sono esigui ed enigmatici. Eppure nulla è da tenere in maggior conto di un'educazione su questo modello. È qui il momento nella storia dell'uomo in cui fu creato il più grande numero di vere individualità.

Ma Nietzsche soggiunge che è assurdo il tentativo di impartire ai giovani un simile insegnamento: solo uomini maturi possono accoglierlo. Per contro, tutto il resto dell'antichità dev'essere condannato. E la ragione di questo rifiuto va forse cercata nel chiarirsi di un altro motivo antiwagneriano, ossia la condanna del cristianesimo, che già in questo periodo assume toni radicali. «Il più mostruoso delitto dell'umanità, ossia l'aver reso possibile il cristianesimo, quale in realtà fu possibile, è colpa dell'antichità. Assieme al cristianesimo, sarà tolta di mezzo anche l'antichità». Ma che cos'è l'antichità per noi? Qui si muove l'attacco mortale al filologo (ma non soltanto a lui). «La posizione del filologo di fronte all'antichità è di colui che vuol scusare, oppure di chi è ispirato dall'intenzione di rintracciare nell'antichità ciò che è tenuto in gran conto dalla nostra epoca. Il punto di partenza giusto è quello inverso, consiste cioè nel prendere le mosse dalla comprensione della follia moderna, e nel guardare all'indietro: in tal caso, molte cose urtanti dell'antichità si presentano sotto la luce di una profonda necessità. Ci si deve rendere chiaramente conto, che noi ci comportiamo in modo del tutto assurdo, quando difendiamo e discolpiamo l'antichità: che cosa mai siamo noi!». «...È solo dalla conoscenza del presente che si può ricevere l'impulso verso l'antichità classica. Senza questa conoscenza, donde mai potrebbe giungere l'impulso?». I filologi invece, dice Nietzsche, non conoscono il presente. Quindi sono tagliati fuori dal problema dell'antichità. E chi crede di conoscere il presente, aggiungiamo noi, non avverte l'impulso di cui sopra. Forse perché non comprende «la follia moderna»?

UMANO, TROPPO UMANO, I

La forma aforistica o comunque frammentaria, in cui si presenta Umano, troppo umano, è una novità che lo stacca in modo netto dagli scritti precedenti di Nietzsche. Il raffronto dei contenuti conferma questa impressione, già spontanea a una prima lettura, e del resto gli studiosi dello sviluppo di Nietzsche hanno insistito molto su tale frattura. Fu anche facile darne una spiegazione, con un richiamo alle vicende personali che precedono questo libro, in particolare al raffreddamento, che divenne in seguito rottura, dell'amicizia con Wagner. Affrettato però, anzi inesatto, è l'affermare che Umano sia condizionato da tali vicende. Approfondendo la questione, sembra giusto attribuire a esse piuttosto un'azione catalizzatrice: in altri termini, Umano non è da intendere come reazione, favorita dall'incrinatura dell'amicizia, a una visione del mondo fortemente influenzata da Wagner, ma come posizione conquistata attraverso il maturarsi di pensieri che il legame con Wagner, pur avendoli dapprima suscitati, o comunque arricchiti, aveva tuttavia alla fine ostacolati. Qui come altrove è possibile scorgere, al di là della manifestazione antinomica, contraddittoria, eterogenea nei pensieri di Nietzsche, una concordia in profondità, un filo conduttore dipanato in modo continuo, dove i contrasti più stridenti si ordinano come espressioni graduali di una personalità unitaria, la cui ricchezza tuttavia non poteva venire alla luce altrimenti. L'antitesi più appariscente, tra l'orizzonte di Umano e quello precedente, riguarda la scienza e l'arte. La preminenza che era stata concessa alla seconda, nel tempo della Nascita della tragedia e delle «Inattuali», viene ora a chiare lettere data alla scienza. Ma è questa veramente una ritrattazione? In Umano si dichiara in modo enigmatico: «L'uomo scientifico è l'ulteriore sviluppo dell'uomo artistico» (af. 222). E, a guardare bene, contro Wagner (che in Umano non è neppure nominato) non vi fu un esplicito rinnegamento; quello che vediamo è un tranquillo andare oltre. Wagner si infuriò, quando prese in mano il libro mandatogli in omaggio. La lettura non fu mai condotta a termine, e in questo momento propriamente interviene la sua rottura con Nietzsche. Si era accinto a leggere lo scritto di un discepolo, e lo ritrovò ormai uscito di tutela. Umano segna appunto il passaggio da una fase ancora unilaterale e circoscritta del pensiero di Nietzsche, dove l'originalità e la dipendenza non si distinguono chiaramente, a una conquista di autonomia, alla risoluzione di una disarmonia interiore, mediante un approfondimento filosofico, che d'un tratto gli fa trovare un linguaggio indipendente, e porta il suo pensiero a un'ampiezza che racchiude pacificamente tutto ciò che prima gli era sembrato antinomico.

Ma che cosa significa scienza per Nietzsche? Non certo scienza nel senso dell'antichità, cioè un sistema di proposizioni fondate su princìpi universali, legate in ferrea concatenazione, dedotte e dimostrate le une mediante le altre. Ma neppure nel senso moderno, ossia come conoscenze ottenute attraverso la raccolta, l'induzione, l'esperimento, e introdotte poi anch'esse nel meccanismo deduttivo, se, come pare, le tesi e le discussioni di Umano sono presentate da Nietzsche come esempi di attività scientifica. Egli sviluppa, già qui e in modo approfondito negli scritti che seguiranno, una critica serrata contro il pensiero logico e deduttivo, e la stessa forma aforistica che introduce in Umano accenna alla sua sfiducia nella produttività delle catene dimostrative. Si può anzi osservare un contrasto paradossale tra la prosa di Richard Wagner a Bayreuth, dove a esaltare l'arte e la passione egli cerca in modo elaborato, quasi faticoso, di spiegare, dedurre, dimostrare, e quella di Umano, in cui la preminenza della scienza, o in generale della ragione, si esprime in lampeggiamenti, tut t'al più in discussioni dove i pensieri vengono assai più coordinati che non subordinati. Per capacità scientifica invero Nietzsche intende soprattutto quella di giudizio, di un giudizio inoltre in cui i termini si collegano non per una necessità inerente alla ragione di tutti gli uomini, ma per un vincolo che non a tutti è dato di cogliere. Egli raggiunge così l'essenziale nel circoscritto. Ciò che caratterizza questo giudizio è la sua concretezza: soggetto e predicato sono assunti direttamente dalla sfera intuitiva, sensibile, o sono determinazioni interiori di natura etica, che si riportano alle radici del piacevole e del doloroso, del desiderabile e dell'evitabile, e in quanto debbano essere astratti, sono universali non già logici, bensì etici o comunque tratti dal mondo del divenire.

Per realizzare tale «scienza», che invero è più vicina al giuoco che alla necessità (perciò egli diceva che la scienza è destinata a continuare l'arte), occorre comunque un allargamento massimo del terreno di ricerca. Poiché questo dev'essere vivo, in divenire, è l'intera storia dell'uomo che dev'essere consultata. Con ciò si prende congedo dalla metafisica, che postula la fede nel l'« oggetto», nella sostanza, in genere nell'immutabile, e inoltre la fede, dal lato formale, nel sistematico; per Nietzsche poi la metafisica è rappresentata quasi esclusivamente da Schopenhauer, che è presente in ogni pagina di Umano, e di fronte a cui non c'è ancora astio, qui, ma allontanamento melanconico. Difficile è caratterizzare la nuova posizione, e non si batte la strada giusta quando si chiama positivistico l'atteggiamento di questo libro e di quelli che seguono, Aurora e La gaia scienza. La considerazione positivistica è del tutto centrata sul pensiero sistematico e deduttivo. Ma neppure si rende migliore giustizia a Nietzsche, togliendolo del tutto dalla sfera filosofica (se non col riconoscergli la dote di ottimo psicologo o moralista) e concedendogli la qualifica di storico. Nonostante le analogie e le concordanze con storici di primo piano, come Burckhardt e Taine, o addirittura come Machiavelli e Tucidide, a lui manca qualcosa che essi hanno posseduto, se non altro la conoscenza esauriente dei contenuti, la raccolta metodica dei materiali. Ed egli ha qualcosa che non si ritrova in quelli. Proprio qui sta il punto. Il giudizio concreto che fa la sua apparizione in Umano è una risoluzione, una conquista forse, tipicamente filosofica, e merita di essere considerato alla stregua di un nuovo metodo euristico. Questo solo problema basta per dare a Nietzsche un posto nella storia della filosofìa. È difficile attribuirgli dei precursori (ma si ponga mente a Eraclito), ed è certo che sinora non sono apparsi dei continuatori. La posizione infatti non è irrazionalistica, e per contestarla come razionalistica occorre che la filosofia dimostri il suo buon diritto di collegare deduttivamente rappresentazioni astratte (il che è stato praticato in seguito anche da pensatori che si dicono antimetafisici), confutando in ogni caso le critiche di Nietzsche alla ragione dimostrativa.

Dovremo così accogliere l'aforisma nietzscheano come conoscenza razionale, o addirittura scientifica? Se estendiamo la considerazione della capacità di giudizio dall'individuo conoscente, che nel suo retto uso deve trovare la chiave per comprendere la vita, all'umanità intera, che dal suo abuso (dall'errore) trae alimento per le sue fedi, le sue passioni e le sue follie, la risposta dell'autore sembra chiara. Alla base degli istinti, dell'apparente immediatezza della volontà (questo è l'attacco mortale contro Schopenhauer), stanno i giudizi primordiali dell'uomo, le sue valutazioni. L'istinto è subordinato all'intelletto, lo segue e ne è determinato. Dall'errore di giudizio discende l'innaturalezza dell'istinto, e di qui la perversione della fede. È il tratto socratico dell'anima di Nietzsche che vince in profondità. Questo, giova ricordarlo, non è che un momento nel pensiero di Nietzsche, anche se destinato a consolidarsi attraverso le opere degli anni successivi, e neppure in seguito mai dimenticato. Il nesso organico con l'epoca precedente può risultare così più chiaro. La risoluzione di Umano, nella forma e nel contenuto, presuppone una polarità di esperienze direttamente vissute. Da un lato l'indagine antiquaria, la diligenza appassionata di un precocissimo filologo classico, l'ampia raccolta di materiale storico, la meditazione e il distacco dal presente; d'altro lato l'immersione diretta nell'ebbrezza wagneriana, la liberazione degli istinti lievi, artistici, improvvisatori, la sfera del sentimento, della modernità, del pessimismo e della decadenza. Da entrambe le esperienze egli si ritrae spaventato, di fronte all'ottusità dei filologi, alla sclerotizzazione dello spirito tra cose morte, e all'altro estremo di fronte al fanatismo, alle idee folli del presente, ai pericoli dell'immediatezza, alla prospettiva di perdersi nella massa dei seguaci. Ma in quanto erano cose sue, quegli istinti andavano  conservati, e la forma dell'indipendenza, dopo un travaglio di anni, viene infine trovata. Attraverso i frammenti postumi del periodo di Umano (oltre la metà dei quali, nella presente edizione, è inedita) si può seguire più da vicino lo sviluppo di questi temi. Più vicino cioè alla persona di Nietzsche, perché tali scritti, presentati nella loro successione cronologica, documentano i singoli pensieri e gli stati d'animo nell'arco di questi due anni. Assistiamo così alla discussione quasi quotidiana con Schopenhauer. Anche Wagner ritorna qui di frequente; i pensieri su di lui rivelano un inesorabile approfondimento critico, ma non mostrano animosità.

Inoltre i piani di lavoro e i programmi di vita, assieme a notizie autobiografiche, a spunti poetici, in un'atmosfera meditativa, senza violenze. E la formazione, allo stato nascente, del concetto di «spirito libero».

UMANO, TROPPO UMANO, II

Scritti in poco più di un anno, le Opinioni e sentenze diverse e Il viandante e la sua ombra sono testimonianze, nell'attività di Nietzsche, di un ripiegamento su se stesso: è uno stato d'animo ciclico nella sua vita, anche se talora viene mascherato, come in questo caso. Gli oggetti non lo sospingono e gli uomini l'hanno lasciato solo, cosicché l'autore può interessarsi più di se stesso, come fa qui il viandante, costretto a parlare con la sua ombra. Discorrendo con sé, si parla più facilmente di sé. La cosa non appare, e ci troviamo di fronte a oggetti, a concreti argomenti di storia, arte, morale; del resto è pacifico che nell'opera di Nietzsche questo risulta il periodo più imparziale, scientifico, obiettivo insomma. Tuttavia tale oggettività è raggiunta paradossalmente — e non è agevole vedere il meccanismo — attraverso una concentrazione e una speculazione interiore. E forse questa è una astuzia di Nietzsche, il suo modo più profondo di essere obiettivo. Lo ammette lui stesso: «Il mio modo di riportare cose della storia consiste propriamente nel raccontare "esperienze" personali, prendendo a spunto epoche e uomini del passato. Non è qualcosa di organico — solo cose singole mi si sono chiarite, altre no. I nostri storici della letteratura sono noiosi, perché si impongono di parlare e di giudicare di tutto, anche dove non hanno vissuto».

Senza l'aiuto dei frammenti postumi sarebbe arduo ritrovare nella sua formazione questo atteggiamento produttivo. I taccuini del 18781879 sono pieni di ricordi personali, appuntati fugacemente, che risalgono alla fanciullezza o alla prima giovinezza. Frequenti sono anche le reminiscenze di paesaggi o richiami precisi a località. Dalle impressioni profonde del proprio passato Nietzsche trae lo stimolo per sentenziare e giudicare sul passato dell'uomo. I legami delle rappresentazioni abituali vengono tagliati e anche i sentimenti sono messi a tacere: momenti di rimembranza sognante liberano la mente, la dispongono alla chiaroveggenza. È una posizione che sta simmetricamente a riscontro di quella che nella Nascita della tragedia aveva ricevuto il nome di stato «apollineo». Il mondo che emerge secondo questa prospettiva risulta evanescente, e il «viaggio nell'Ade», con cui si chiudono le Opinioni e sentenze diverse, non testimonia soltanto lo stato d'animo dominante dell'autore, ma anche una sua filosofia umbratile, almeno in questa fase. Una filosofia silenziosa, per la quale gli «oggetti» perdono la loro corposità, e confacente a un uomo che appunto ora ha scoperto la vocazione e il destino della solitudine. Un enigmatico frammento postumo di questo periodo è un accenno in tale direzione: «Noi siamo come gli animali viventi sullo scudo di Efesto — fenomeni estetici ma crudeli!». Del resto le questioni concrete in cui si depositano tali fluttuanti meditazioni sono toccate e subito abbandonate, interrotte, lasciate a mezzo, senza sviluppi sistematici di nessun genere. Gli argomenti sono offerti sia dalla tematica di Umano, troppo umano, I, di cui Nietzsche stesso dichiara di voler dare una continuazione, sia da un allargamento dei problemi morali, che prelude ad Aurora. Singoli temi sono presentati con maggior insistenza, ad esempio riguardo alla libertà del volere, oppure alla giustizia punitiva e alla teoria del delinquente; in altri casi si hanno anticipazioni, abbozzate e spezzate, come sul concetto di vendetta.

Uno dei risultati più importanti di questo metodo (soprattutto per la sua efficacia educativa, e che quindi interessa noi da vicino) è la conquista di una dimensione in profondità, di uno spessore temporale, di una nuova configurazione dell'istinto di «inattualità». Il linguaggio storico e psicologico diventa lo strumento per comunicare una visione inattuale. La quale di solito risulta ostica al lettore già solo per il fatto che chi la esprime non può fare a meno di prescindere dalle immagini, dai concetti e dai personaggi del presente. Nietzsche sfugge a questa insidia (cioè al disinteresse dei contemporanei), e fingendosi immerso nell'attualità, realizza per contro, proprio nel modo di tale immersione, il distacco dal presente. È questo anzi uno dei suoi segreti, una delle sue prestazioni più misteriose: l'arte di avvincere mediante l'inattualità va perfezionandosi appunto in questo periodo. Nell'epoca basileese Nietzsche aveva cercato di esprimere una posizione inattuale per una via più diretta, richiamando a modello l'esperienza remota e irrecuperabile della tragedia greca. La rottura più radicale con il presente era il presupposto di quella fuga verso la Grecia antica, ma a offuscare l'autenticità di questo slancio sorgeva tosto la sua oscura commistione con la musicalità wagneriana, con qualcosa cioè, e sarà più tardi Nietzsche stesso a spiegarlo, che rappresentava in quel momento la quintessenza dell'«attualità ». Staccarsi dal proprio tempo per esservi troppo attaccati, sarebbe lecito dire degli scritti basileesi, così come per il periodo che si sta esaminando sembra possibile la caratterizzazione: con uno sguardo vivo appuntato sul presente, allontanarsene in profondità.

Qui si può parlare di «Nietzsche come educatore». La vita dell'uomo è considerata, con l'occhio di Schopenhauer, come un immutabile dato naturale, ma il suo manifestarsi nel tempo, la storia insomma, non è apparenza, bensì l'unica realtà che ci sia concessa. Nietzsche cerca di staccare sé e i suoi lettori dal proprio tempo, questo è da filosofo, anzi è ciò che caratterizza lo sguardo filosofico. Ma ciò che ha realtà è vivere e giudicare questo tempo presente, non però mediante le rappresentazioni del presente e secondo la configurazione dei problemi data dal presente, ma addossandosi nel far ciò tutto il «peso» del passato; ossia allontanarsi all'indietro di secoli e di millenni, e acquistare in questo tuffo un occhio nuovo, l'occhio limpido del passato. In Umano, troppo umano, II questa conquista è recente, e se lo stato d'animo che l'accompagna è lo sfinimento di un «convalescente», la sedimentazione espressiva è dal canto suo tenue, sussurrante, spezzata, mite. Lo scrittore degli accentuati divari, delle inversioni e dei rovesciamenti, può esser còlto qui in un momento mediano, in una delle rare pause di equilibrio, dove il congeniale radicalismo è ben tenuto sotto controllo, immerso in un'atmosfera conoscitiva. Il suo istinto inattuale, ben presto destinato a infuriare in battaglie estreme (e già in Aurora, dove pure si ritrova un altro momento di oggettività, condizionata però da uno stimolo meno interiore, si avvertono accenti di violenza), ora si richiama spesso a Epicuro e a Epitteto. Tipica di questa fase è la predilezione per il quadro in cui Senofonte ha presentato la figura di Socrate: si tratta com'è noto di un'interpretazione «assennata», quasi blanda, di un personaggio che per contro nella vita di Nietzsche incarna un aspetto estremo e fatale del suo radicalismo! Negli scritti di questo periodo del resto la stessa critica del cristianesimo si muove con una compostezza contemplativa. Così comincia ad esempio un aforisma del Viandante e la sua ombra: «Una mattina i prigionieri entrarono nel cortile di lavoro: il guardiano non c'era. Alcuni di loro andarono subito al lavoro, com'era loro abitudine, altri se ne stavano oziosi e guardavano caparbiamente intorno. Allora si fece avanti uno e disse ad alta voce: "Lavorate quanto volete o non fate niente: non importa. I vostri complotti segreti sono venuti alla luce, il guardiano della prigione vi ha di recente spiati e nei prossimi giorni pronuncerà su di voi un terribile giudizio. Lo conoscete, egli è duro e di animo vendicativo. Ora però fate attenzione: voi mi avete finora conosciuto male: io non sono quel che sembro, ma molto di più: io sono il figlio del guardiano e posso tutto presso di lui. Io posso salvarvi, io voglio salvarvi; ma, beninteso, solo quelli di voi che credono che io sono il figlio del guardiano; che gli altri raccolgano i frutti della loro incredulità"».

AURORA

«Con questo libro comincia la mia campagna contro la morale» : questa caratterizzazione di Aurora, formulata da Nietzsche stesso in Ecce homo, riflette bensì l'intenzione centrale dell'opera, ma non è del tutto esatta riguardo allo sviluppo del pensiero di Nietzsche. Nei tre libri che Nietzsche pubblicò tra il 1878 e il 1879 — riuniti poi nella seconda edizione nei due volumi di Umano, troppo umano — e soprattutto nell'ultimo, Il viandante e la sua ombra, questa «campagna» era stata non solo preparata e annunziata, ma già in parte combattuta. Gli obiettivi polemici di Umano erano stati — più che la morale — la religione (cristianesimo), l'arte (Wagner) e la filosofia (Schopenhauer). L'analisi psicologicoteoretica della morale, che prende l'avvio con Aurora, si appoggia cioè su riflessioni storicopolemiche, spesso suscitate da esperienze e vicende personali. In particolare è il rapporto con Wagner a costituire il punto di partenza di tutta questa concatenazione. Passando dall'ammirazione e dall'esaltazione alla critica silenziosa e poi a una presa di posizione contraria (tale mutamento avviene apertamente nel 1876, ma già prima si trovano segni di un'evoluzione in questo senso), Nietzsche considera l'arte sotto un punto di vista morale. Le sue prime esercitazioni psicologiche riguardano il carattere morale di Wagner (che egli con un atteggiamen to fortemente personale identifica senz'altro con l'artista in generale); e la demolizione dell'arte come valore supremo della vita, cioè di quella visione del mondo, basata sull'esaltazione del genio, cui egli stesso aveva dato un apporto originale e costruttivo negli anni di Basilea, tra il 1869 e il 1875, si fonda sulla demolizione morale di Wagner. La critica a Wagner si allarga poi naturalmente, quando l'esame viene esteso ai presupposti filosofici e agli sviluppi religiosi della sua visione del mondo, in una critica di Schopenhauer e del cristianesimo.

La polemica si sviluppa in Umano; a stimolare la riflessione intervengono nuove letture e uno spostamento della curiosità di Nietzsche verso la cultura francese. L'elemento personale lentamente retrocede, e la ricerca di Nietzsche diventa più obiettiva, teoreticamente più aperta. In Umano sostiene che il mondo non ha un significato estetico, come un tempo aveva egli stesso insegnato sotto l'influsso di Wagner; più tardi è maturo per sviluppare la tesi che il mondo non ha un significato morale, come invece Schopenhauer e il cristianesimo presuppongono. Per far questo bisogna capire anzitutto che cos'è la morale, analizzarne i fondamenti, vedere se si accordano o ripugnano a una realtà delle cose, quale si presenta a un'esperienza e a una riflessione sana. Assieme a questo allargamento speculativo, che pure non abbandona il terreno abituale della ricerca di Nietzsche, cioè l'analisi storica, ma si rivolge alla storia dei sentimenti morali piuttosto che alla storia delle idee, e che talvolta tenta poi l'elaborazione puramente teoretica, si ritrova in Aurora un'attenuazione del pathos soggettivo, un esposizione meno aspra e menu viuiamc, un distacco più controllato dal vortice dei pensieri. La stesura di Aurora è preceduta da un anno — il 1880 — di contenuta e faticosa elaborazione dei nuovi temi. In questo anno, destinato alla conquista dell'obiettività, egli inizia bensì, a Venezia, l'ordinamento del materiale raccolto, dettando a Gast i suoi appunti sotto il titolo provvisorio «L'Ombra di Venezia»; tuttavia solo una parte di questo manoscritto entrerà poi in Aurora. Nuove letture, filosofiche e scientifiche, sono intraprese da Nietzsche allo scopo di fornire un fondamento solido alle sue meditazioni : da un lato opere di positivisti, come John Stuart Mill, Comte, Spencer, Littré, d'altro lato studi di biologia (Semper). Anche il cristianesimo è considerato come oggetto di studio, soprattutto riguardo alle sue origini; molti appunti del 1880 riflettono letture su Paolo. Nietzsche rivolge il suo interesse anche ad altri periodi e personaggi della storia del cristianesimo: la Riforma e Lutero, il revivalismo inglese, il cattolicesimo francese del XVII secolo, e qui è specialmente il nome di Pascal a ricorrere molto di frequente nei suoi appunti. Affiorano inoltre interessi nuovi, che avranno in seguito sviluppi cospicui: la lettura delle Memorie di Mme de Rémusat è un avvenimento importante di quest'anno, e nei quaderni di Nietzsche troviamo moltissime annotazioni sulla figura di Napoleone. I frutti di questa preparazione portano nel 1881 alla stesura di Aurora.

La forma aforistica consente a Nietzsche di conservare, pur attraverso l'elaborazione letteraria, la vivezza delle intuizioni primitive. La ricerca dell'essenza della mo raie si sviluppa attraverso la critica di quelli che sono stati posti come i suoi fondamenti tradizionali: il dovere (Kant), l'utile (Spencer), la compassione (Schopenhauer). A sostituirli sembra intervenire (soprattutto nell'«Ombra di Venezia») il concetto di paura; quest'ultimo a sua volta è condizionato da una struttura primordiale della società, in cui la potenza è un elemento radicale. Viene così a svilupparsi una serie di pensieri sulle valutazioni morali, sulla loro stretta relazione con i vari ambienti storici, sull'importanza della lode e del biasimo (in immediato collegamento con la paura) per l'origine delle valutazioni morali, sull'inconsistenza delle varie concezioni finalistiche, sul concetto di pena e sul rapporto tra il delinquente e la società.

Da questo studio sulle origini della morale emergono, d'altra parte, concetti destinati ad approfondirsi e acutizzarsi nel pensiero posteriore di Nietzsche. Lo stretto condizionarsi reciproco degli uomini nella società (per cui il valore di un uomo risiede completamente nel giudizio che il suo prossimo si forma su di lui) anticipa il futuro concetto di «gregge» e costituisce il terreno da cui sorge il concetto stesso di morale; in contrapposizione a ciò, va delineandosi ora per la prima volta il concetto di «individuo», che sintetizza ciò che gli uomini intendono per immorale. L'«individuo» viene a prendere il posto, con il suo significato etico, che entro la concezione estetica dell'epoca di Basilea era occupato dal genio. È superfluo aggiungere che il «senso della potenza», che in Aurora interviene in modo rilevante a spiegare l'essenza della mo rale (e all'approfondimento di questo concetto non è probabilmente estraneo lo studio su Napoleone), diventerà sempre più centrale nell'ultimo periodo dell'attività letteraria di Nietzsche. La critica della civiltà moderna, e in particolare di quella contemporanea, si avvia fin d'ora a prendere un posto predominante, come avverrà in Gaia scienza e nelle opere posteriori. Come tutte le opere pubblicate dopo la rottura con Wagner, anche Aurora ebbe, al suo primo apparire, una scarsa risonanza. Nella stessa cerchia degli amici l'approvazione non fu unanime. Jacob Burckhardt rispose all'invio del libro con una lettera che Nietzsche definisce «flebile e timida ». Soltanto Overbeck, Gast e Rèe si dimostrarono entusiasti; Overbeck scrisse a Nietzsche: «Il tuo libro ispira un supremo coraggio di vivere, perché è radicalmente e sinceramente penetrato dall'idea che compito delle verità non è affatto quello di consolare, e perché distrugge ogni velleità alla Sancho Panza, con cui di solito ci si avvicina alla scienza». Per trovare una testimonianza di un certo peso, al di fuori dell'ambiente più vicino a Nietzsche, bisogna giungere al 1888, quando il poeta Carl Spitteler manifestò la sua ammirazione per Aurora, da lui nettamente anteposta a Umano: «La ricchezza di idee di Aurora è superiore a qualsiasi descrizione... In questo libro si agita un'enorme energia spirituale...».

AURORA

«Ho indagato me stesso», ha detto Eraclito. Ed ecco che qui la bruciante sintesi eraclitea è raccontata in un libro, attraverso una rapsodia. Meditando su di sé, Nietzsche vi ha trovato il mondo; su tutti gli oggetti che illustra, lui ha lasciato l'impronta di sé, del conoscitore. Ma questa indagine di sé non si ripercorre leggendo il libro di seguito, come una serie di meditazioni: sarebbe ingenua la presunzione. Se si fruga, con l'empietà filologica, nella gestazione di quest'opera, si scopriranno anzitutto i segni di lampeggiamenti conoscitivi, senza alcuna connessione apparente, e poi il travaglio di varie aggregazioni, con dosaggio alchimistico. Il tutto poi vien fuori attraverso diverse redazioni e ordinamenti architettonici degli aforismi. Quindi l'indagine di sé è avvolta, enigmaticamente ricoperta, manipolata da un istinto artistico, da un inganno artistico, e il lettore ingenuo, per cui il libro sembra essere nato così come lui lo legge, rimane almeno più disponibile e tranquillo del lettore accorto che è entrato nel labirinto di una conoscenza interiore che vuol mostrarsi a tutto il mondo. Perché quando appare l'arte, è Nietzsche stesso che esorta alla diffidenza, anche in questo libro: «Non c'è cosa che artisti, poeti e scrittori temano di più di quell'occhio che vede la loro piccola frode... quell'occhio che chiede loro conto se vollero vendere poco per molto» (af. 223).

Ma lo scavo entro il pozzo interiore della conoscenza, l'emergere di verità guizzanti, la ricerca di un mantello per queste verità, e l'aggiunta, in tale ricerca, di una spezia, dell'inganno, sono gli ingredienti del fascino di Nietzsche: è bene che il lettore sappia tutto questo, perché lui da Nietzsche deve imparare a prendere, ma anche a difendersi. Così del resto ci si educa alla conoscenza. E se si riesce almeno a capire che questo è un modo originale di afferrare e tiranneggiare tutte le cose del mondo — ciò significa indagare se stessi — se si è presenti mentre vengono spazzate via tutte le convinzioni, e non soltanto quelle morali, ce n'è abbastanza per lettori ingenui e per lettori accorti. In Umano, troppo umano Nietzsche aveva presentato una scienza fatta di intuizioni, in La gaia scienza fornirà ancora una scienza, la cui indicazione è di identificarsi con la poesia, qui lui dà sempre una scienza, i cui contenuti sono più variegati e fluttuanti, non appartengono alla sfera politica e statale, raramente si concentrano su figure di filosofi o di artisti. L'anima, l'istinto dell'uomo, ecco di regola il contenuto, quello che ingannevolmente Nietzsche suole chiamare speculazione morale, oppure psicologia. Ed è il caso di fornire degli esempi per quale nobilissimo alibi egli si avvalga, qui in Aurora, della parola «scienza».

Nell'af. 76, dove si parla della calunnia cristiana contro l'amore e la procreazione, leggiamo: «Infine questa diabolizzazione di Eros ha avuto un epilogo da commedia... che, fin nel bel mezzo della nostra epoca, la vicenda amorosa è divenuta l'unico reale interesse comune a tutti gli ambienti — in una esagerazione inconcepibile all'antichità, esagerazione cui seguirà più tardi, quando che sia, anche uno scoppio di ilarità». Ogni opera della nostra cultura, egli aggiunge, dalla più grande alla più insignificante, è dominata « dall'eccessiva importanza con cui la vicenda amorosa assume in essa il posto di vicenda principale». Ecco un bell'esempio di «scienza» in cui non è presupposta una larga raccolta di materiali, né la determinatezza spaziotemporale dell'oggetto, né un rigoroso percorso induttivo o deduttivo. Si tratta di un'intuizione e basta, sulla base di una normale esperienza, immediata e mediata. Se vogliamo determinarla in qualche modo, possiamo chiamarla intuizione storica. Nel senso che qui una valutazione del presente (società ottocentesca) è illuminata da un giudizio del passato (visione del mondo cristiana). Ma il quadro è più ricco, perché si aggiungono sul tema altre due valutazioni, di un passato più remoto (l'antichità) e di un futuro indeterminato: l'una è al di fuori di quei primi due giudizi, non sa che cosa significhino, e l'altra ne ride con divertimento. Questa è «scienza» antistorica sulla storia. E per coglierne il lampeggiamento, puntiamo uno sguardo sul fenomeno un secolo più tardi, dall'epoca di Nietzsche alla nostra: quello che allora era la «vicenda amorosa», non è forse oggi la sessualità e l'erotismo? Un altro esempio di intuizione, che non si può chiamare storica, e che d'altra parte si ribella questa volta a essere designata con il nome di «scienza», è fornito dall'af. 254: «Il carattere distintivo, ma anche l'aspetto pericoloso delle nature poetiche, è la loro fantasia esaustiva: quella che anticipa, precorre nel godimento e nel dolore ciò che avviene e potrebbe avvenire, e nel momento terminale dell'accadimento e dell'azione è già stanca». Chiamare questa scrittura psicologica non è forse degradarla? Qual è l'esperienza ripetuta, la regola di comportamento da cui lo psicologo potrebbe trarre questa sentenza? Qui è l'anima appartata l'oggetto dell'osservazione, l'anima di chi scrive forse, come oggetto della sua passione.

E se la suddetta intuizione è riluttante di fronte a qualsiasi tentativo di determinarla, come storica, o estetica, o psicologica, è troppo intima per le determinazioni, che dire di quest'altra, celata in un'immagine naturale da interpretare umanamente? «Il mare si stende pallido e scintillante, non può dire parola... Ma ho compassione di te, natura, perché devi tacere, anche se è soltanto la tua malvagità ad annodarti la lingua: sì, io ti commisero a causa della tua malvagità... e ancora una volta mi si gonfia il cuore... esso pure gode la dolce malvagità del tacere» (af. 423). Ma tutta la vita di Nietzsche è un «parlare»! Dunque lui ha sentito come bontà il suo dire, e come tentazione malvagia il chiudersi in sé. Questa malvagità lui la rifiuta: è un'interpretazione morale del mondo, dove il posto dell'azione è preso dal manifestarsi, dall'espressione, dalla parola.

Se tutto questo è vero — e molti altri aforismi si potrebbero aggiungere — allora che pensare del modo corrente di intendere Aurora come opera illuministica, razionalistica, positivistica?

Certo in questo libro si possono trovare molte dichiarazioni contro l'estasi, contro le visioni, contro l'ebbrezza, contro la contemplazione. Ma attenzione, si ricordi quanto si è detto sull'inganno artistico. Nietzsche chiama qui scienza l'opposto di quel che si intende comunemente con tale nome, ma è in buona fede che lui insiste sulla parola, perché in più vuole indicare, con essa, la passione ascetica dell'autorinnega mento, l'obiettività intesa come immedesimazione nelle ragioni e negli argomenti che ripugnano al suo istinto. Il modello della sua esposizione, in questo caso, è Tucidide: lui non vorrebbe lasciar trapelare dove si rivolge la sua simpatia. Così si preoccupa persino di non lesinare neppure al cristianesimo, qua e là, lodi e riconoscimenti. Ma c'è un punto in cui cade in trap pola, applicando con troppa disinvoltura questa tecnica del rovesciamento. Ed è quando, con stupefazione, lo ascoltiamo tessere un elogio della dialettica, la sua bestia nera di sempre: sarebbe come sentire un'esaltazione di Hegel intonata da Schopenhauer. Leggiamo infatti nell'af. 544: «Lo vedo bene: i nostri giovinetti... pretendono oggi dalla filosofia proprio il contrario di quel che ne ricevevano i Greci. Chi non sente il continuo tripudio che pervade ogni battuta e ogni replica in un dialogo platonico, il tripudio sulla nuova invenzione del pensiero razionale, che cosa comprende di Platone, che cosa dell'antica filosofia? Quando si praticava il giuoco asciutto e rigoroso del concetto...». Non si crede ai propri orecchi; ma Nietzsche ribadisce: « Socrate fu colui che scoprì l'incantesimo... della causa e dell'effetto, del fondamento e della conseguenza: e noi uomini moderni siamo così abituati alla necessità della logica e così educati a essa, che essa rappresenta per la nostra lingua il sapore normale, necessariamente spiacevole agli ingordi e ai boriosi. Quel che si distacca da esso, li manda in solluchero...». Se si leggono i frammenti postumi di questo periodo, si trova Nietzsche occupatissimo sui problemi della potenza mondana, soprattutto di quella politica. Assai numerose sono le tracce delle sue meditazioni su Napoleone e su Paolo. Ma ben poco di tutto questo si ritrova in Aurora, dove domina la dichiarazione: «Dello Stato, il meno possibile!» (af. 179). Qui si teorizza la conoscenza come supremo valore della vita, e nel far questo Nietzsche si sforza di debellare il valore contrapposto, l'azione. Poiché è sul metro della conoscenza che l'azione viene giudicata: «tutte le azioni sono essenzialmente ignote» (af. 116). Ma la preminenza del conoscere sull'agire non è soltanto speculativa, questa è scontata; si tratta anche di una preminenza morale : «E così sarebbe forse l'impulso ad agire nient'altro, in definitiva, che un fuggire se stessi?» (af. 549).

LA GAIA SCIENZA

La gaia scienza è presentata al lettore nell'atmosfera della «guarigione». E per chi la legga dopo aver conosciuto le opere precedenti di Nietzsche, qualcosa di nuovo, di piacevolmente nuovo, si impone sin dall'inizio. È una conquista di stile, ciò che dà subito questo sentimento di freschezza. Due anni prima Nietzsche diceva: «Poco tempo fa, ho tentato di fare la conoscenza con le mie vecchie opere, che avevo dimenticato; una loro comune caratteristica mi ha spaventato: esse parlano il linguaggio del fanatismo. Quasi dovunque, in esse, il discorso si rivolge a chi la pensa diversamente, si può notare quel modo sanguinoso di ingiuriare e quell'entusiasmo nella cattiveria, che sono i contrassegni del fanatismo: contrassegni odiosi, a cagione dei quali non avrei resistito a leggere fino in fondo quegli scritti, se avessi conosciuto un po' meno l'autore. Il fanatismo rovina il carattere, il gusto e, da ultimo, anche la salute: e chi voglia ristabilirli tutti e tre radicalmente, deve rassegnarsi a una cura lunga e noiosa». E ora il «gelido» Jakob Burckhardt, nel ricevere La gaia scienza, risponde a Nietzsche: «... e Lei può immaginare in quale nuova meraviglia mi ha trasportato quel libro. Innanzitutto gli insoliti, sereni accenti goethiani nelle rime, che da Lei giungono così inattesi: e poi, tutto il libro, e alla fine il "Sanctus Januarius"! Mi sbaglio, o quest'ultima parte è un monumento tutto speciale che Ella ha innalzato a uno degli ultimi inverni nel Sud? Vi si respira appunto un'unica atmosfera... molte cose (e temo siano le più eccellenti) di quelle che Lei scrive vanno troppo al disopra del mio vecchio cervello; ma dove non posso seguirLa, provo un senso ristoratore di meraviglia di fronte a tale enorme, e per così dire compressa, ricchezza...».

Il ricupero della salute si traduce nella lievità del periodare, in un misurato dominio della sfera del comunicabile, in una facile, spontanea e gioconda formulazione dei pensieri. La sofferenza che Nietzsche si è lasciato dietro dà ora i suoi frutti in una visione matura del mondo umano, in un distacco composto, e persino nella derisione maliziosamente tracotante. Parallelamente allo stile si trasformano, come è naturale, i pensieri. L'ispirazione provenzale di La gaia scienza allude a una più profonda conquista vitale. La sfera della conoscenza deve essere unita a quella della gioia: tale è il tema dominante di quest'opera. Le implicazioni polemiche di questo pensiero si rivolgono da un lato contro i «filosofi» in generale, da Platone in poi, i quali hanno congiunto la conoscenza con la repressione degli istinti naturali, con l'astrazione dal mondo sensibile o addirittura con la condanna dell'esistenza, e d'altro lato contro coloro che, come gli artisti, hanno collegato la gioia con la menzogna e con la vanità del commediante. Il contenuto di una conoscenza legata alla serenità e alla gioia non è per contro trattato a fondo. La discussione in senso psicologico (centrata sulla morale) oppure positivistico (riguardo alla scienza), che troviamo nelle opere precedenti, sembra qui avere una battuta di arresto.

Nuove intuizioni di fondo si affacciano, pur senza venire elaborate: la dottrina annunziata dall'«uomo folle», cioè la «morte di Dio», e più avanti l'accenno alla teoria dell'eterno ritorno. Alla fine del quarto libro, sotto il titolo Incipit tragcedia, fa la sua apparizione il persiano Zarathustra. L'unico appoggio fornito in La gaia scienza per l'introduzione di questi temi nuovi è la discussione teorica dell'origine della conoscenza (e parallelamente di quella della società civile) in un senso irrazionalistico. Assai di più per contro, sullo sviluppo del pensiero di Nietzsche, riusciamo a comprendere attraverso la lettura dei frammenti postumi di questo periodo. In particolare è un grosso quaderno di studio (Mill 1), che Nietzsche non utilizzò se non in minima parte per La gaia scienza, a fornire elementi di chiarificazione. In questo quaderno, accanto a un approfondimento di certi temi precedenti, ad esempio la considerazione dell'errore come l'origine della vita, oppure la contestazione alla volontà, alla gioia e al dolore di essere fatti immediati, si ritrovano discussioni sulla quantità di forza contenuta nel mondo, critiche al concetto di finalismo, argomentazioni negative riguardo alla stessa ipotesi circolare sugli eventi del mondo: tutto questo è come una preparazione razionale dell'intuizione dell'eterno ritorno, che vediamo annunziata più avanti nel medesimo quaderno, e poi discussa nelle ultime pagine ancora razionalmente, ma come un possesso ormai saldo. Qui e nei quaderni seguenti, che pure precedono la pubblicazione di La gaia scienza, prendono corpo, più di quanto non appaia dagli accenni in quest'opera, anche gli altri temi nuovi. Soprattutto la figura di Zarathustra è presente in molti abbozzi di questo periodo; in parecchi aforismi di La gaia scienza, anzi, la prima redazione aveva appunto introdotto Zarathustra come personaggio, poi soppresso.

Questa serie di frammenti postumi, presentando per la prima volta tali pensieri nella loro prospettiva genetica, non solo favorisce la comprensione di dottrine assai controverse, ma precisa da vicino le tappe dello sviluppo complessivo di Nietzsche. Risulterà ormai inesatto dire, come spesso si è fatto, che La gaia scienza chiuda un periodo, mentre Così parlò Zarathustra ne aprirebbe un altro. Le due opere sono in realtà complementari e assai vicine nei loro contenuti, anche al di là delle intuizioni di fondo. Molti temi zarathustriani si trovano disseminati già in La gaia scienza, sebbene qui non diano nell'occhio: l'amor fati, il «dire di si», l'elemento del caso, il motivo del coraggio, della guerra e della solitudine, l'intelligenza come rapporto reciproco degli istinti, e così via. Allo stile già si è accennato: le condizioni della forma «danzante» dello Zarathustra sono già presenti, ma tenute sotto severo controllo, in La gaia scienza. Qui infatti non soltanto si fanno notare le composizioni poetiche, che del resto ritornano frequentemente nei frammenti postumi di questo periodo, ma in generale l'elemento della fantasia si pone in primo piano, quasi a scapito dell'elaborazione razionale. Grande libertà di fronte all'oggetto da trattare, estrema varietà negli spunti, una fantasia lasciata capricciosamente libera, come in molti appunti frettolosi sui taccuini. Per contro i temi caratteristici delle precedenti opere aforistiche in parte si attenuano e in parte subiscono una variazione. Le critiche della morale, del cristianesimo, dell'arte sono presenti, ma non prevalgono: sono distribuite architettonicamente nelle varie parti. L'analisi psicologica, più che alla morale e alla religione, viene diretta ora alla storia in genere. Continua d'altronde a svilupparsi l'analisi di certe coppie di concetti, come egoismoaltruismo, oppure nobilevolgare, in quest'ultimo caso però con insistente riferimento alla realtà contemporanea. Si accentua il gusto per la teoria della conoscenza (molto materiale in proposito è offerto dai frammenti postumi), e tra l'altro viene approfondito il concetto di coscienza, come lo stadio ultimo, e il più debole, nello sviluppo di un organismo.

LA GAIA SCIENZA

Ogni volta che lo si legge, questo libro appare diverso, soprattutto nuovo, anche se la sua esposizione sembra benignamente accessibile, il suo linguaggio è limpido ed equilibrato, senza forzature nell'argomentare, senza ambiguità. Forse il distacco del risanato, la mancanza di invettive — chi inveisce non è gaio, è malato — sconcerta il lettore: l'accento duro e polemico chiarisce subito le intenzioni dell'autore, e inchioda unilateralmente l'interpretazione. In La gaia scienza sono rintracciabili tutte le contraddizioni di Nietzsche, che tuttavia qui non risultano né appariscenti né urtanti, anzi quasi non sembrano contraddizioni. Un esempio fra molti: Nietzsche inveisce altrove con grande insistenza contro il concetto di «apparenza» dei metafisici, e al tempo stesso sviluppa una propria concezione del mondo come menzogna, come qualcosa cioè di assai simile all'apparenza. Si legga ora l'aforisma 54 di La gaia scienza, e si vedrà riassorbita questa stridente antinomia in una visione superiore, contemplativa, più chiara, priva di animosità. In realtà questo libro è 'centrale' nella vita di Nietzsche, non soltanto nel senso esteriore di occupare una posizione mediana entro la sua produzione letteraria, ma anche nel significato più sottile di inserirsi tra i suoi scritti come un magico momento di equilibrio, come l'unica sua esperienza di 'salute' totale, dove tutti gli estremi sono presenti, ma collegati morbidamente, tenuti sotto controllo, svuotati di ogni fanatismo. E Nietzsche sapeva molto bene che per lui il fanatismo — o con maggior precisione l'irresistibile impulso a trasmodare in atteggiamenti personali, usando pensieri astrali come armi sanguinose — era un segno della malattia. Centrale La gaia scienza lo è anche rispetto all'opposizione tra arte e scienza.

La passione ininterrotta di Nietzsche per questo tema riflette le vicende della lotta interna tra le sue vocazioni antitetiche: di volta in volta un suo scritto rivela l'esito momentaneo di questa lotta. Qui invece già il titolo dell'opera accenna a una nuova risoluzione: il combattimento interiore — un altro significato della 'malattia' — non porta a eliminare uno dei due contendenti (reprimere, soffocare una parte vitale di sé non sarebbe difatti un risanare), ma a fondare una coesistenza, in una sfera trasfigurata. Questa è davvero 'salute', poter essere poeta e scienziato assieme, poter esercitare una scienza non imbronciata, né impettita, né soltanto seria. Già in Umano, troppo umano Nietzsche aveva proposto una scienza intuitiva, ma a costo di una grave lacerazione interiore, di una condanna astiosa dell'arte, a lui più congeniale. Quello non era risanamento, e non è un caso che ora, al contrario, la nuova scienza — «gaia» — venga annunziata, testimoniata da rime, o addirittura già si identifichi con esse.

Per queste ragioni La gaia scienza si presenta come un libro riformatore rispetto alla comunicazione filosofica, è il tentativo culminante di Nietzsche in questo campo. Lui si contrappone alla scienza come filosofo, e come filosofo si contrappone all'arte: ma al tempo stesso rifiuta il passato della filosofia e il linguaggio di questo passato. La filosofia non esiste più, ma i filosofi devono ancora esistere: non parleranno più di quei contenuti con quei termini, ma dovranno parlare in modo nuovo, strappando gli strumenti di comunicazione — e usandoli da filosofi — ai sopravvissuti, alla scienza e all'arte. Anche qui può giovare un esempio: si veda l'aforisma 49 sulla magnanimità. «Il magnanimo... mi pare un uomo immensamente assetato di vendetta, al quale si mostra un vicino soddisfacimento cui egli già nell'immaginazione dà fondo bevendoselo a pieni sorsi, interamente, fino all'ultima goccia, a tal punto che a questa precipitosa gozzoviglia segue un'enorme immediata nausea: egli... perdona il suo nemico, anzi lo benedice e gli rende onore». Qui l'oggetto da definire non è certo tipico della tradizione filosofica — sebbene già in Aristotele la magnanimità stia in una relazione contorta con la volontà di potenza — ma è altrettanto chiaro che rispondere a questo problema spetta al filosofo. Avere una conoscenza diretta di 'anime grandi' non appartiene difatti all'esperienza dello scienziato. Ma il metodo usato da Nietzsche è quello della scienza: dato un comportamento umano anomalo, qual è quello del magnanimo, si tratta di scoprire la causa dell'anomalia.

Certo questa scienza è «gaia», cioè s'interessa di preferenza, qui come altrove, degli individui eccezionali e dei comportamenti eccezionali; l'aspetto «serio» della scienza — la ricchezza dell'esperienza e la diligenza che si richiede per accumularla, 1 inda gine sul comportamento medio e la ricerca delle norme, la cautela e la relazione delle ipotesi — è invece assente. La fragilità, la difficile conquista di questo equilibrio inedito tra scienza e arte, e al tempo stesso l'impossibilità di evadere da questa alternativa, risultano comunque ancora oscure, sintanto che non si ponga mente a cosa significhi per Nietzsche, come sentimento ed esperienza vitale, ogni conquista della conoscenza. Se in lui la sobrietà e la schiettezza del conoscere si rivelano come qualcosa più desiderabile di tutto quanto possa suggerirgli la sua vocazione artistica, perché la questione non era stata chiusa sin dai tempi di Umano, troppo umano? Il punto decisivo al riguardo è la testimonianza di Nietzsche stesso sulla natura della propria esperienza conoscitiva: ovunque essa si accompagna al tormento, all'angoscia, allo sbigottimento. Negli anni dell'adolescenza la travagliata disciplina della conoscenza filologica si contrapponeva all'estasi dell'esperienza musicale. Poi venne la stagione della Nascita della tragedia e Nietzsche chiamò conoscenza, verità, la sconvolgente intuizione dionisiaca della radice orrenda della nostra esistenza. Seguono le altre conquiste conoscitive: la storia, come consapevolezza degli errori e degli orrori dell'uomo, come rivelazione che il passato grava su di noi con un'irrimediabile somma di sventure — e lo studio di questo passato spegne la vita e ottunde la creatività. E infine la scienza, che rimpicciolisce ciò che sembra grande, relativizza i giudizi, distrugge le consolazioni.

Questo è conoscenza per Nietzsche: e dentro il suo cuore tale dispensatrice di sotterenza è il demone più possente. Possente al punto da fargli ora dichiarare «la vita come mezzo della conoscenza» (af. 324). Di volta in volta egli insegue una nuova forma di conoscenza, forse sperando di trovarne una dal volto più mansueto. Ed ecco che ora, al contrario, egli si imbatte nella sua ultima conoscenza, nel pensiero dell'eterno ritorno (af. 341), nella verità più orrenda di ogni altra. Quel passato dell'uomo, fatto di scelleratezze e di angoscia, non soltanto è irrimediabile e non cederà mai il passo a un avvenire di gioia, ma è destinato a ritornare eternamente, uguale a se stesso. Così Nietzsche si riaccosta all'arte, si risolve a non soffocare totalmente quell'altra vocazione: l'attesa di trovare una verità che non stritoli è ora finita e alla gioia della conoscenza — che non sia un lampo estatico — egli ora rinunzia.

Non si pretende che queste considerazioni valgano a rendere più accessibili la serenità e la sovrana, lievissima sospensione di La gaia scienza. Nietzsche è filosofo già per la maestria nel maneggiare i concetti astratti, nell'intrecciare in modo impensato gli universali: ciò che lo contraddistingue, tuttavia, e che rivela la sua eccezionale vocazione artistica, è la variabilità iridescente del materiale magmatico su cui di volta in volta è costruito ogni suo universale. E i suoi concetti astratti, dagli identici nomi, nascondono in ogni occasione contenuti diversi. La gaia scienza fu pubblicata in seconda edizione nel 1887: Nietzsche aggiunse la prefazione, il quinto libro e le «Canzoni del principe Vogelfrei». Mentre nel libro conclusivo della prima edizione, il «Sanctus Januarius», giunge a compimento quel vertice espressivo di una magica armonia, cui si è accennato, le aggiunte successive non riescono a mantenere quell'equilibrio fragilissimo: si confronti, tra molti casi, l'aforisma 373, che critica astiosamente la scienza, con il precedente aforisma 293, indirizzato a un equanime, sottile, sfumato riconoscimento della medesima.

COSI' PARLO ZARATHUSTRA

Il moralista e lo psicologo sembrano prendere congedo in Così parlò Zarathustra: chi era abituato a quegli accenti ora sbigottisce, ascoltando i toni di un profeta e di un lirico, come sbigottì e si scandalizzò Burckhardt. Una rottura pare evidente e la maschera di ciò che è personale, doverosa in un filosofo — si pensi a Platone — viene strappata dal dilagare di effusioni soggettive. Tale esaltazione per contro negli scritti successivi va perduta, come pure il respiro profetico, almeno sino al sussulto finale — cosicché rimane aperto il problema di inquadrare Così parlò Zarathustra entro l'opera complessiva di Nietzsche, e il compito appare ostacolato dall'eccezionalità e dall'isolamento di tale forma espressiva. Questa almeno è l'apparenza, e anche la distribuzione della lode o del biasimo tributati a Nietzsche è stata spesso discordante tra Così parlò Zarathustra e i restanti scritti. C'è il rischio tuttavia che queste valutazioni rimangano in superficie. Già l'esame dei contenuti porta a scoprire una continuità di sviluppo, un'unità nel profondo. Che Al di là del bene e del male abbia i medesimi contenuti di Così parlò Zarathustra lo dice Nietzsche stesso, e che un'uguale tematica sia già prefigurata nell'epoca della Gaia scienza è agevole dimostrarlo attraverso un'analisi di quest'opera e dei relativi (rammenti postumi. Àia i contenuti non sono l'essenziale per Nietzsche, ed è solo attraverso Così parlò Zarathustra — cioè solo perché egli è stato capace di scrivere quest'opera — che la cosa può essere messa in evidenza. È vano ricercare qui il fondamento di una «teoria» del superuomo, o dell'eterno ritorno, o della volontà di potenza, anzitutto perché non c'è teoria che possa completamente prescindere da una giustificazione deduttiva, assente invece qui, e in secondo luogo perché in quest'opera ciò che conta è il dettaglio (i sei versetti di cui Nietzsche parla in Ecce homo), la singola visione, o addirittura quello che non c'è scritto, il tempo, il colore musicale, questo o quel cantabile, o smorzando, o crescendo, o teneramente, piuttosto che non i pensieri di fondo.

Con ciò non si vuol dire che per Nietzsche sia invece essenziale la forma, e tanto meno che nella conquista stilistica si scopra la prestazione di Così parlò Zarathustra. Il nostro discorso è filosofico, non letterario. Piuttosto la forma è rivelatrice di un tentativo particolare di comunicazione, dove ciò che importa è anzitutto quello che vuol essere comunicato. In genere per contro, poesia e filosofia consistono in questo: rievocare, collegare — in un certo modo e in una certa forma — immagini, sentimenti e concetti preesistenti; e dove venga usato un linguaggio simbolico, alludere, attraverso una trasposizione immaginativa, a immagini, sentimenti e concetti già costituiti. Ma quando questi manchino, ossia quando ciò che è manifestato da un'espressione non sia esso stesso espressione, bensì una certa immediatezza di vita, fuori della rappresentazione e della coscienza, allora intervengono forilo me espressive analoghe a quelle di Così parlò Zarathustra.

Questo libro sembra sorgere perciò dalla sfera delle espressioni primitive, ed è arduo classificarlo come opera filosofica. Una filosofia è di regola una manipolazione di concetti, i quali esprimono oggetti sensibili, mentre qui immagini e concetti non esprimono né concetti né cose concrete, sono simboli di qualcosa che non ha volto, sono espressioni nascenti. Nietzsche stesso descrive questa esperienza e questa comunicazione, molti anni prima di realizzarle, quando parla del coro nella Nascita della tragedia. Il coro tragico è il simbolo della massa dei seguaci di Dioniso, la cui ebbrezza oblitera il principio di individuazione. Il che in freddi termini teoretici si può chiamare uno stato di immediatezza extrarappresentativa. «In questo incantamento chi è esaltato da Dioniso vede se stesso come satiro, e di nuovo come satiro contempla il dio, cioè egli vede nella sua trasformazione una nuova visione fuori di sé, come compimento apollineo del proprio stato... Secondo questa conoscenza dobbiamo intendere la tragedia greca in quanto coro dionisiaco, che sempre di nuovo si scarica in un mondo apollineo di immagini». Questa visione è ciò che sopra è stato chiamato espressione nascente; qui ogni atto, ogni accadimento, ogni ferreo nesso tra rappresentazioni viene riassorbito in una conoscenza originaria, alle cui spalle sono tagliati i legami con altre immagini e altre conoscenze. «... siamo ora giunti a comprendere che la scena assieme all'azione fu pensata in fondo e originariamente solo come visione, che l'unica "realtà" è appunto il coro, il quale produce fuori di sé la visione e parla di essa con tutto il simbolismo della danza, del suono e della parola». Sotto questa prospettiva, Così parlò Zarathustra è non soltanto una prestazione eccezionale, in quanto riflesso diretto e comunicazione del fondo dionisiaco, ma rimane pur sempre collegato e in armonia con la restante opera di Nietzsche.

Già il nesso sotterraneo con La nascita della tragedia lo prova. E che cos'è — negli scritti «razionalistici» — che tronca ogni concatenazione deduttiva nella spezzatura aforistica, suggerendo che qui l'espressione razionale non è fine a se stessa? La deduzione si sviluppa tra rappresentazioni astratte, che sono lontane dalle espressioni nascenti: Nietzsche la rifugge. D'altro canto l'atmosfera sognante, che caratterizza la visione apollinea di cui sopra, la « tenera lentezza» (come si dice in Ecce homo) del tempo musicale in Così parlò Zarathustra, ci accade di riscoprirle in molte pagine di Aurora e della Gaia scienza. Addirittura i concetti di scienza e di giudizio scientifico, suggeriti da Umano, troppo umano, indicano in Nietzsche una tendenza metodologica — abbiamo già avuto l'occasione di osservarlo — che mira, se non a recuperare una immediatezza extrarappresentativa, almeno ad avvicinarsi a questo limite. Va tenuto presente inoltre che l'immediatezza dionisiaca di cui si è parlato non allude necessariamente a un'esperienza mistica inaccessibile. Così parlò Zarathustra accenna a un pullulare di momenti di immediatezza, quasi a uno stato continuo e molteplice, mentre i misticifilosofi di solito ruotano attorno a un'unica esperienza indicibile, a un'estasi fondamentale (in Nietzsche pare esserci tuttavia anche questo elemento, se si ricorda la forma in cui egli annota l'intuizione dell'eterno ritorno, in un quaderno del 1881). In realtà tutti gli uomini possiedono l'immediatezza dionisiaca, e in tutti esistono delle espressioni nascenti, dei riflessi diretti di quel fondo. Ma di regola immediatezze ed espressioni primitive vengono dimenticate, obliterate, si perdono nel flusso di espressioni derivate ed astratte che su quelle si innestano.

Per questo Così parlò Zarathustra è «un libro per tutti», e con esso Nietzsche ha inteso introdurre una riforma rivoluzionaria nell'esposizione filosofica. Il che in parte attenua l'impressione di degenerazione patologica che dànno le sue ultime dichiarazioni autoesaltative. Difatti Così parlò Zarathustra è stato un serio tentativo di portare la filosofia su un piano essoterico, strappandola al tecnicismo, all'isolamento di cerchie senza risonanza, alla derisione che viene riservata a un'arte pretenziosa fuori moda. Viene in mente come parallelo l'innovazione platonica del dialogo filosofico. Ma la riforma di Platone è un declassamento, lui stesso ne è convinto; è l'adattamento della «sapienza» presocratica a un pubblico cólto. In Nietzsche antitetico è il cimento, poiché la sua esposizione essoterica si contrappone a un esangue manichino di sapienza. Che egli sia riuscito nel suo intento per ora non si può dire: se si tratta davvero di una nuova apparizione della dea Sophia, allora Così parlò Zarathustra non è fine a se stesso e bisognerà attendere che nuove trame lo arricchiscano e nuove giustificazioni deduttive vi si attacchino.

Quest'opera può dunque esser vista altresì come una battaglia di vasta portata; ma quello che sul fondo di essa vi è di remoto, nascosto, inaccessibile, intorbida la chiarezza della comunicazione. Il distacco sdegnoso, eracliteo, da cui sgorga quell'espressione si perpetua in una ambiguità, che solo esteriormente si può ricondurre a un rapporto simbolico, a un salto espressivo tra significante e significato. Perciò si tratta anche di «un libro per nessuno». Quel distacco non è soltanto l'esperienza della solitudine, di cui più volte Nietzsche tenta qui liricamente un'espressione diretta, ma l'abisso dionisiaco, inteso come dolore del mondo, che si scarica simbolicamente nell'idea del superuomo. Qui come nel caso dell'eterno ritorno, più che di idee generali sembra giusto parlare di temi musicali conduttori, anch'essi espressioni nascenti di un'immediatezza fondamentale. È il grande disgusto, la contemplazione dell'ultimo uomo, dell'uomo più piccolo — insomma dell'umanità concreta, quale vive dinanzi a noi — che si traduce apollineamente nella figura del superuomo. Qui si scopre qualcosa che Nietzsche ama nascondere, un'avversione contro la vita, un tratto pessimistico in profondità, un istinto contro l'istinto. Sullo sfondo si erge il maestro mai vinto, Schopenhauer. La melanconia di Zarathustra, i suoi lunghi silenzi, i sogni orrendi, l'ora senza voce, alludono di continuo a una natura precocemente armata contro la vita, esposta al contagio pessimistico. Ma in questo fondo non c'è solo sensibilità, bensì anche reattività: è possibile una risoluzione apollinea, e già il grande disgusto, segnalando il distacco, permette il recupero, che si sviluppa ancora sotto la di Schopenhauer, con il declassamento della ragione (rivolto con ingratitudine contro il maestro, a colpire morale e metafisica), sino alla raffigurazione di un superuomo che afferma di nuovo la naturalità. Tutto ciò peraltro non consente un'interpretazione nichilistica. In Così parlò Zarathustra non c'è una rappresentazione che esprima un'altra rappresentazione o si rivolga contro di essa, poiché le sue radici affondano direttamente nell'immediatezza, dove non c'è nulla che possa venir distrutto. Di contro sta la grande esperienza mistica affermativa, ciò che Nietzsche chiama la conoscenza dell'eterno ritorno. Qui sono i Greci sullo sfondo — i soli da cui egli abbia imparato il dire di sì — e non soltanto il dio della tragedia, ma uomini reali che dànno senso all'esistenza, ne costituiscono il culmine, la pienezza. Ed è perché anche questi ritornane eternamente, che quell'intuizione è esaltante. Nietzsche non lo dice a chiare lettere, ma la natura catartica della rivelazione ha questo appoggio. I temi della danza, della casualità, dell'antifinalismo, della lievità, sono variazioni di questa esperienza fondamentale. Alla base della Visione dell'eterno ritorno non va ricercato tanto l'eco di notizie dossogra fiche su un'antica dottrina pitagorica o di ipotesi della scienza ottocentesca, quanto piuttosto il riaffiorare di momenti culminanti della speculazione presocratica, che hanno indicato un'istantaneità ritrovabile nel tempo, la quale tuttavia conduce al di fuori di esso, annullandone l'uni direzionalità irreversibile. Retrocedendo verso l'irrapresentabile si può dire soltanto che l'immediato fuori del tempo — il «presente» di Parmenide e l'«aión» di Eraclito — è intrecciato nel tessuto del tempo, cosicché in ciò che appare prima e dopo realmente ogni prima è un dopo e ogni dopo un prima, e ogni istante è un inizio.

COSI' PARLO ZARATHUSTRA

— Ho bevuto il ciceone — diceva l'iniziato ai misteri di Eleusi, dichiarandosi degno della visione suprema. Mescolanza di orzo triturato, acqua e menta, il ciceone è la bevanda che ristora Demetra nella ricerca della figlia rapita, allude perciò nel rituale eleusino a un'immedesimazione con la dea, all'assimilazione di una molteplicità frantumata nell'unità divina. Ma ciceone è anche chiamato il filtro con cui Circe tenta di stregare Odisseo, e perderlo: solo che qui ai suoi ingredienti si aggiungono vino, miele e spezie magiche. Per noi moderni, abituati a bevande sin troppo precisate e tutto sommato non troppo sconvolgenti, almeno riguardo all'anima, il Così parlò Zarathustra si presenta davvero come un ciceone, e a decidere se sia di Demetra oppure di Circe è l'intima natura dei bevitori. La comparazione si può seguire in profondità, poiché il libro di Nietzsche è realmente un conglomerato di particelle minute, annegate nel miele del mito di Zarathustra. Per anni Nietzsche elaborò, scarnificò le sue sentenze, i suoi aforismi lampeggianti che nascevano come preparazione di un'opera suprema; pazientemente raccolse il suo orzo triturato, raggruppandolo successivamente in un ordine e in un altro, variandolo, aggiungendo del nuovo e scartando del vecchio, sino a che, nei periodi brevissimi e intermittenti di 'ispirazione', gli riuscì di fondere tutto quel molteplice di similitudini e di sentenze nella magia di un racconto favoloso e continuo. Questa nascita dell'opera dovrebbe mettere paura: di fronte a essa è meglio la cautela o l'abbandono? La seconda risposta, oltre che dalla suggestione eleusina, sembra essere consigliata dalla pur enigmatica parola di Eraclito: «il ciceone si disgrega, se non è agitato».

Affrontare il problema di Così parlò Zarathustra con una speculazione diagnostica non è d'altronde impertinente. Che questo libro agisca come una droga, è un dato di fatto più o meno generalizzato, che i suoi avversari vorrebbero contestare, mentendo a se stessi. Ma l'orzo triturato che forma il tessuto molecolare dell'opera non è altro che un mescolarsi di conoscenze intuitive allo stato nascente, e il miele della narrazione in cui tale materiale viene agitato non può che accrescerne la potenza immediata di comunicazione. D'altra parte, se non agitiamo il ciceone, che cosa succede? Con la sua disgregazione, non solo viene meno il potere esaltante, ma si sedimenta sterilmente il suo contenuto razionale, un precipitato inerte in cui è obliterato il portento della comunicazione. Si è spesso tentato con grande serietà di tenere Così parlò Zarathustra sotto la lente di una sobria considerazione scientifica, ma tale procedimento è qui assurdo, improduttivo, è proprio quello che non si deve fare. Prendiamo l'esempio più evidente. Quando si tratti questo libro come elaborazione di una teoria del superuomo, tentando magari di delineare sistematicamente tale dottrina, intesa come edificio razionale, attraverso i nessi con altre tesi di Nietzsche, in questo caso si potrà cer to riuscire a inventare un tacile Dersagiio per una demolizione basata sul buon senso, ma altrettanto sicuramente ci si allontanerà mille miglia da questo libro. Non è che Nietzsche abbia voluto dirci che come la scimmia è diventata uomo, cosi l'uomo diventerà superuomo. Rilevare l'artificiosità di questo passaggio non è un'osservazione arguta né profonda. Nietzsche non si può maneggiare così grossolanamente. Lasciamo dunque da parte i moduli positivistici: tuttavia non basta neppure constatare che questa bevanda è magica. Qual è l'effetto positivo del filtro?

Il pathos che sta alle radici di Così parlò Zarathustra è quello di un illuminato dalla conoscenza suprema, ma l'espressione in cui questo pathos si scarica non è destinata a trasmettere la scintilla di quella conoscenza, bensì solo a comunicare il riflesso di una visione più alta della vita, e quindi ad agire sugli uomini con la seduzione di questa immagine. La grandezza di Zarathustra sta nel suo conoscere, ma dalla sua conoscenza sgorga una fonte, il suo canto, che disseta gli uomini, e li riavvince a una vita trasfigurata, riscoperta come ricchezza terrestre di gioia. Ancora una volta si affaccia il paragone con l'evento eleusino: tutti i cittadini, senza distinzioni di classi, possono entrare nel corteo sacro che da Atene muove verso Eleu si, ma pochi soltanto saranno iniziati sino alla visione in cui culmina il rituale misterico. Dalla visione di questi pochi tutti i cittadini di Atene traggono per sé la giustificazione più alta della vita. Questo pare che voglia essere l'effetto del filtro, e c'è da credere che tale sia già stato per molti, anche senza chiara coscienza. Sotto questa luce, Così parlò Zarathustra si impone come modello inaudito di una vita ascendente, dove la gioia, pur attraverso le angosce e gli incubi orrendi dell'esistenza, prevale sul dolore e la lievità sulla pesantezza, dove le sofferenze, le sordide meschinità, le insufficienze sono riscattate da una speranza più alta, che nasce dalla rivelazione che quella gioia, quella danza sono una realtà una volta vissuta da un uomo. La forza catartica della dottrina dell'eterno ritorno sta nella sicurezza che, in base a essa, ogni gesto esaltato, ogni sentimento vittorioso di Zarathustra è destinato a ritornare eternamente, e forse già nell'esistenza di quelli che ricevono l'insegnamento.

Se si vuole tentare una riprova di tutto ciò per via indiretta, si può esaminare il contenuto razionale di Cosi parlò Zarathustra. Spogliandolo di ogni immagine e di ogni magia, ritroveremo precisamente le stesse tesi, gli stessi giudizi che leggiamo in altre opere di Nietzsche: valutazioni sul presente e sul passato, sulla religione e sulla morale, persino un'identica dottrina sugli affetti e sulle passioni. Soltanto la teoria del superuomo non la troviamo negli altri scritti di Nietzsche, ed è naturale, poiché il superuomo non è una dottrina, bensì un mito. Se si vuole esprimere in termini concettuali il superuomo, si stringe poco tra le dita, qualcosa di inconsistente, anzi qualcosa che suona ridicolo. Quando ci troviamo di fronte a un mito di Platone, noi moderni lo interpretiamo come un'esemplificazione, una trasposizione allegorica, una superflua, ridondante invasione in una sfera pseudofilosofica. Invece il mito e la comunicazione diretta del pensatore, di fronte alla quale tutto il resto diventa una tortuosa divagazione. I Greci ci presentano molte favole serie, ci narrano la storia degli dèi e del mondo: Esiodo e Parmenide, Pindaro e Platone, Eschilo ed Eraclito ci raccontano come sono veramente le cose intorno a noi, viste da un occhio più penetrante. Le immagini della loro fantasia ci mostrano la filigrana della realtà. E ancor più che Platone, la figura del superuomo richiama i miti orfici, dove si allude a un contenuto astratto assai intricato, la cui comunicazione è però filtrata da una densa e palpabile vicenda mitica, attraverso cui soltanto si è guidati verso il viluppo razionale. Quanto agli altri contenuti dottrinali, nudi e crudi, di Così parlò Zarathustra, i giudizi sulla cultura, sullo Stato, sulla morale sono gli stessi che nelle altre opere di Nietzsche, e così quelli sulla scienza, sull'arte, sulla ragione («in ogni cosa soltanto questo è impossibile: razionalità!»). Ma negli altri scritti di Nietzsche qual è il risultato finale cui conduce quest'analisi scettica, questo sezionamento delle fedi e delle convinzioni? L'essenza corrosiva, distruttiva della ragione finisce per avere la meglio sull'aspirazione affermativa di Nietzsche. Il teorizzare generalizzato sulla decadenza, la diagnosi e la condanna del nichilismo moderno contagiano l'autore stesso: alla fine si accorge di essere lui stesso un nichilista e un decadente. Tale è la fatalità trascinante con cui la forma espressiva si impone alla volontà del pensatore.

Antitetica è la forma di Così parlò Zarathustra e antitetica la sua potenza di comunicazione. Quello che si è detto per il superuomo vale per l'intera opera, che ci offre il mito di Zarathustra. Ma l'immagine di una vita ascendente, trionfante era suscitata agli occhi di Nietzsche dal modello della Grecia antica. È la suddetta forma espressiva che gli fa scegliere il quadro persiano, anziché quello greco. La presentazione di quest'ultimo non avrebbe potuto evitare di essere concettuale, perché legata alla sfera storica e ai suoi schemi. Dire: questo è già stato così, significa un declassamento, una comunicazione mediata, esangue, lontana dalla vita. Nel mito il passato dev'essere presente, mentre la Grecia non può venir immaginata come presente, perché troppo nota, astrattamente nota, troppo verificabile, soffocata dagli schemi della tradizione. Il pathos della narrazione è spento dal «così è già stato», è acuito dal «così sarà». Nietzsche ha voluto accuratamente nascondere che il modello del suo Zarathustra è greco; ha usato dei simboli storicamente antitetici, orientali, persiani e biblici. Ma l'originale greco di questa traduzione orientale non è difficile a scoprirsi, e non soltanto per i richiami intuitivi ed espliciti, come le isole dei Beati e la dottrina dell'eterno ritorno. I temi etici e speculativi sono un'allusione continua in tale direzione, per orecchie fini: l'amicizia, il caso e la necessità, la crudeltà, la tracotanza, la naturalità intrecciata alla bellezza. E infine il segno culminante, il carattere più alto dell'opera: Zarathustra è l'uomo che ha còlto la conoscenza misterica, e la sua azione — la più benigna e la più feconda — non è altro che un riflesso di quella conoscenza sugli uomini. Il valore più alto della vita nella conoscenza, e il riassorbimento di ogni azione nella conoscenza: di questo i Greci soltanto sono stati il modello.

AL DI LA DEL BENE E DEL MALE E GENEALOGIA DELLA MORALE

Un filosofo, che sente di non essersi ancora pienamente realizzato come tale, che ha parlato dei Greci, si è espresso come psicologo, moralista, storico, è giunto infine all'effusione lirica di Così parlò Zarathustra, ma vuole affermarsi anche sul terreno teoretico, mira, forse addirittura con un'intenzione sistematica, a legiferare sui princìpi dell'esistenza: è questo il Nietzsche dell'ultimo periodo, che con Al di là del bene e del male comincia appunto a manifestarsi. Allo stato frammentario, già gli scritti precedenti, soprattutto i postumi, avevano rivelato questa aspirazione, particolarmente nel campo della teoria della conoscenza. Ora però la polemica anti schopenhaueriana, mentre si accentua nella dottrina morale, regredisce invece riguardo all'indagine teoretica, dove alcuni risultati faticosamente raggiunti vengono da Nietzsche messi da parte, come la preminenza dell'intelletto su volontà e sentimento. Altri temi antischopenhaue riani, è vero, rimangono, e l'importante critica alla nozione di «soggetto» viene condotta avanti in Al di là del bene e del male e nella Genealogia della morale. In profondità si avverte comunque un riaccostamento a Schopenhauer (e non a caso nella prefazione alla Genealogia della morale egli dice: «... il mio grande maestro Schopenhauer»), e addirittura alla metafisica, poiché la riduzione di tutto il reale al concetto di «volontà di potenza», da cui è regolato il principium individuationis, questa unificazione delle qualità in una sola, benché multiforme, radice, è, nonostante l'intenzione contraria di Nietzsche, un atteggiamento metafisico.

La costruzione di un «sistema» della volontà di potenza prende inizio proprio in questo periodo e la prima elaborazione di questa sostanza unificante, sia pure in aderenza al metodo concreto, caro a Nietzsche, di riflessioni sul mondo storico, coesiste non senza difficoltà con la condanna, secondo la prospettiva morale, dei filosofi metafisici, cui viene addossata la colpa, nella terza dissertazione della Genealogia della morale, di aver favorito il predominio degli ideali ascetici. La parentela del nuovo principio filosofico della «volontà di potenza» con il principio schopenhaueriano della «volontà di vivere» è evidente e indiscutibile (e lo dice Nietzsche stesso). La prima si presenta anzi come una variante della seconda. Il nucleo delle due concezioni è identico, e anche il principio di Schopenhauer era immanente come quello di Nietzsche: in entrambi i casi si tratta di una sostanza irrazionale, che è in noi (ogni teologia è superata) e di cui diventiamo partecipi per un'apprensione immediata. La differenza rispetto a questa sostanza si riduce al fatto che Schopenhauer la rifiuta e vuole negarla, Nietzsche invece l'accetta e vuole affermarla. Insomma non sta nel principio l'originalità di Nietzsche, ma nella reazione al principio, nell'atteggiamento che del resto risale agli anni giovanili della Nascita della tragedia. Entrando ora nella fase conclusiva della sua opera, dove, prima delle convulsioni estreme, l'esordio in Al di là del bene e del male mostra una notevole pacatezza (si osservi tuttavia il lento dosaggio del pathos, che aumenta di intensità solo nelle ultime pagine), Nietzsche riprende questo tema, che ancora una volta trova un'espressione simbolica nel dio greco della tragedia.

Dioniso peraltro non è più un simbolo estetico, ma emerge ora sul piano eticoteoretico. Nietzsche difatti è riluttante a condurre un'indagine teoretica, o addirittura metafisica, con i termini appropriati. Questo avviene soltanto nelle sue note postume, a partire dal 1884. L'elaborazione del concetto filosofico di «volontà di potenza», in Al di là del bene e del male, nella Genealogia della morale e ancora più tardi, continua ad appoggiarsi alle esperienze moralistiche e psicologiche, a giovarsi cioè, come del resto era naturale, delle immagini e dei concetti già forgiati in precedenza. Dioniso diventa ora, in Al di là del bene e del male, colui che sa (... «Dioniso è un filosofo, e quindi anche gli dèi fanno filosofia») che l'essenza del mondo è volontà di potenza, e inoltre accetta questo, vuole che sia così. L'atteggiamento morale completa l'approfondimento teoretico, cosicché quest'ultimo non può rimanere isolato. In tal modo l'indagine filosofica continua a rimanere vincolata alla sfera degli affetti. Il principio filosofico è velato dal modo in cui il filosofo «sente» questo principio.

In Al di là del bene e del male e nella Genealogia della morale è il concetto di dolore, assieme alle rappresentazioni che vi si connettono o ne derivano, che costituisce una pietra di paragone per la filosofìa della «volontà di potenza». Anche qui è Schopenhauer a guidare l'interpretazione: l'accento con cui questo filosofo pone il dolore nel quadro della vita è per Nietzsche un'esperienza giovanile (il dolore è un ingrediente essenziale nella concezione dionisiaca della Nascita della tragedia), da cui non riuscirà più a liberarsi. Col sorgere della metafisica della volontà di potenza, il dolore, con quanto vi si collega, diventa il mediatore che permette di trasferire la discussione al campo del divenire storico. Ê infatti difficile parlare della volontà di potenza come tale, in sé: ma dal punto di vista del dolore, del giudizio sul dolore, è possibile osservare la reazione morale all'impulso metafisico.

La volontà di potenza porta con sé il dolore, questa è la conoscenza terribile che Nietzsche chiama dionisiaca. Qualsiasi morale, qualsiasi concezione del mondo voglia rifiutare il dolore — e questo fanno non soltanto il buddhismo e Schopenhauer, ma tutto ciò cui Nietzsche darà l'attributo di decadente, includendovi il movimento democratico delle «idee moderne» — è qualcosa che rifiuta la volontà di potenza, cioè la vita stessa. La debolezza moderna, la sua decadenza, sta «nell'odio mortale contro il dolore in generale, nella quasi femminea incapacità di poter restare a guardare, di poter lasciare che si soffra» (JGB 202). Ecco invece la contrapposizione dionisiaca: «Voi volete... eliminare la sofferenza... e noi? — sembra proprio che si preferisca averla, questa sofferenza, in un grado ancor più elevato e peggiore di quanto non sia mai accaduto» (JGB 225). La sostanza del mon do non dev'essere velata, nascosta ipocritamente; e se nell'abisso della vita c'è qualcosa di orrendo, il «pathos della verità» ci impone di dichiararlo. «... la più caratteristica nota dominante delle anime moderne... è l'innocenza incarnata nella bugiarderia moralistica» (GM III 19). Perché peggiori di coloro che, rivelato quell'abisso, vogliono negare la vita, sono coloro che chiudono gli occhi e vogliono far credere che il dolore non è nel profondo e che si può togliere di mezzo. «... appartengono... ai livellatori, questi falsamente detti "spiriti liberi"... che sono... ridicolmente superficiali, soprattutto per la loro tendenza fondamentale a vedere nelle forme della vecchia società sino a oggi esistente la causa di ogni miseria e il fallimento... — e lo stesso dolore viene preso da essi come un qualcosa che deve essere eliminato» (JGB 44). Questa tematica del dolore illumina egualmente la controversa antitesi tra morale dei signori e morale del gregge, sviluppata soprattutto nella Genealogia della morale. Anche qui ciò che sospinge Nietzsche è il fanatismo dell'essere «veritieri» (anche se è doveroso non passare sotto silenzio certi squilibri, certi toni troppo accesi, dove il mettere a nudo le piaghe che suscitano vergogna nell'uomo civilizzato talvolta si ribalta in un'esaltazione priva di controllo), cioè l'impulso a rivelare sino in fondo il dolore della vita. La famosa dottrina della «bestia bionda», dell'aggressiva sopraffazione su cui si fonda ogni morale dei signori, ha questo significato: la società umana si basa su delitti orrendi, e sempre sarà così. Dioniso comanda di dire questa verità senza velami, e impone al tempo stesso di accettarla, di affermarla. £ la stessa visione della realtà di cui è testimone Tucidide, nel colloquio tra i Melii e gli ambasciatori ateniesi. Nietzsche non è un esaltatore della violenza, come non lo è Tucidide. Gli Ateniesi che sterminano con spietata crudeltà i cittadini di Melo sono gli stessi — cioè gli Ateniesi della stessa generazione — che da Pericle nel discorso funebre sono chiamati educatori della Grecia, amanti del bello e della sapienza. Rifiutarsi a questo, secondo Nietzsche, significa o negare la vita in generale o dire il falso sul principio della vita. E la morale del gregge, dal canto suo, si fonda sull'odio e la vendetta, mentre la sua cultura, che rifiuta il dolore, percorre le strade della decadenza e del nichilismo. Dire questo può essere falso, se lo si considera solo come interpretazione storica, ma il valore della teoria di Nietzsche sta nel rapporto «veritiero» con l'essenza del mondo e nell'esigenza dionisiaca di accettare il dolore, perché questo non può essere soppresso che assieme alla vita stessa, se con vita intendiamo quella da cui sorge la tragedia greca o la filosofia di Dioniso.

Il tema del dolore è dunque un filo conduttore, poco appariscente forse, ma in realtà collegato ai vari argomenti trattati qui da Nietzsche e illuminante il nuovo corso dei suoi pensieri. È un riflesso discorsivo di quella conoscenza sconvolgente che in Co5Ì parlò Zarathustra si traduce nel motivo dell'«eterno ritorno». Il giudizio sul dolore da parte del mondo moderno è utilizzato da Nietzsche per dedurre un suo giudizio non storico, ma vitale, su questo stesso mondo. Nel far questo egli anatomizza le varie rappre seriazioni che si congiungono al dolore, le reazioni contro di esso, percorre, si può dire, la costellazione del dolore. Ritorna a questo modo in una sfera di analisi che aveva caratterizzato le opere che precedono Così parlò Zarathustra, e con questa indagine anticipa parecchi risultati importanti della psicologia a lui posteriore. Ciò avviene soprattutto nella seconda e nella terza dissertazione della Genealogia della morale, con la tesi della dimenticanza attiva (« Dimenticare non è una semplice vis inertice... ma piuttosto una facoltà attiva, positiva nel senso più rigoroso, d'inibizione, cui è da ascriversi la circostanza che qualsiasi cosa venga da noi vissuta entra tanto poco nella nostra coscienza...», GM II 1), dell'interiorizzazione degli istinti («tutti gli istinti che non si scaricano all'esterno, si rivolgono all'interno», GM II 16) e temi consimili. Ma il concetto del dolore, che sta alla base di questi sviluppi di pensiero, dalla psicologia posteriore sarà giudicato in modo opposto a quello di Nietzsche, il quale quasi prevede la cosa quando dice: « ... per esempio, quando si vuol dimostrare l'erroneità della sofferenza, nell'ingenuo presupposto che la sofferenza debba sparire, non appena l'errore è in essa riconosciuto — ma vedi caso! si è ben guardata dallo sparire...» (GM III 17).

È peraltro nel conoscitore, in chi coglie alle radici la volontà di potenza, che il dolore è massimo. La filosofìa stessa, le opinioni paradossali sono una maschera per sopportare questo dolore. La conoscenza non è più un valore in se stesso, come nelle opere che precedono Così parlò Zarathustra, e difatti nell'ultima parte della Genealogia delia morale cominciano a delinearsi gli argomenti e le tesi contro la scienza. «Tutto ciò che è profondo ama la maschera; le cose più profonde hanno per l'immagine e l'allegoria perfino dell'odio. Non dovrebbe essere soprattutto l'antitesi il giusto travestimento con cui incede il pudore di un dio?» (JGB 40). Il che significa: non prendetemi alla lettera; può darsi anzi che quello che io penso sia l'opposto di quello che dico. E il ristoro invocato dal viandante suona: «Una maschera ancora! una seconda maschera!» (JGB 278). «... sino a quale profondità possano soffrire gli uomini è un fatto che quasi determina la gerarchia... La profonda sofferenza rende nobili... e talvolta la follia stessa è la maschera per un sapere infelice troppo certo» (JGB 270). «L'eremita non crede che un filosofo... abbia mai espresso in libri le sue intime ed estreme opinioni: non si scrivono forse libri al preciso scopo di nascondere quel che si custodisce dentro di sé?... Ogni filosofia nasconde anche una filosofia; ogni opinione è anche un nascondiglio, ogni parola è anche una maschera» (JGB 289). In quanto precede è stato posto l'accento sui temi che in Al di là del bene e del male e nella Genealogia della morale dànno l'avvio all'ultima fase dell'opera di Nietzsche. Anche stilisticamente si avverte qui un trapasso, anzitutto nel declino della forma aforistica, conservata solo incidentalmente in Al di là del bene e del male e del tutto abbandonata nella Genealogia della morale; lo stile è maturo, senza strappi né effusioni, il pathos è tenuto sotto controllo. È avvertibile anche una certa stanchezza, quasi una sazietà; poi, con la Genealogia della morale, interviene un'evoluzione verso il tentativo sistematico, con accenti talora un po' dogmatizzanti o quasi pedanteschi, o per contro con una paradossalità provocatoria e anche dissestata. Per un altro verso Al di là del bene e del male, come avverte lo stesso Nietzsche, rappresenta il chiarimento e lo sviluppo concettuale di alcuni temi che in Così parlò Zarathustra avevano ricevuto una trattazione simbolica, lirica e allusiva (sopra, per esempio, si è posto a raffronto il motivo del dolore con quello dell'eterno ritorno). È anche da ricordare che la prima stesura di parecchi passi di Al di là del bene e del male risalgono ad alcuni anni addietro. Così va tenuto presente che entrambe le opere qui considerate riprendono e sviluppano temi centrali del periodo fra Umano, troppo umano e La gaia scienza, in particolare la discussione sulla natura e l'origine dei concetti morali. Sotto questa prospettiva soprattutto Al di là del bene e del male può rappresentare una fine, una conclusione, e lo è in ogni caso nell'esperienza intima dell'autore.

Le opere che seguiranno questa, Nietzsche non sarà più in grado di staccarle da sé, di contemplarle come tappe da lasciarsi dietro, e ne sarà sempre più vorticosamente afferrato. Un indizio in questo senso può forse essere fornito dall'osservazione che negli anni della pazzia la sola testimonianza di una scrittura di Nietzsche è data da alcuni tentativi con mano incontrollata di riportare su un piccolo quaderno i primi versi della poesia Da alti monti, che chiude Al di là del bene e del male. Qui terminavano i ricordi confusi della sua vita passata: quanto era seguito rimase poi del tutto obliterato dal trauma graduale e definitivo della sua esistenza.

AL DI LÀ DEL BENE E DEL MALE

Questo libro è anzitutto una sfida al cervello del lettore: tutti, anche senza saperlo, si sentono provocati. Di conseguenza è anche l'illustrazione più pertinente di quanto difficile sia parlare di Nietzsche. Per far questo il lettore deve accettare la sfida, deve — a parer suo — vincerla, e rovesciare poi contro Nietzsche la sfida stessa. Perché parlare di lui significa dare a intendere che lo si è capito, e poi inquadrarlo, sussumere il suo presunto pensiero sotto certi concetti.

Ma qui Nietzsche vuole veramente intessere dei pensieri, nel senso di sostenere certe opinioni, sviluppare certe dottrine? C'è da dubitarne, anche se nessuno in cuor suo vuole ammetterlo, perché allora si sentirebbe più insicuro, più inerme, e soprattutto soccombente. Perché se là c'è una dottrina, la si può combattere o accettarla; ma se non c'è, donde viene e che cosa significa quel turbamento, quel disagio, quel sentirsi scandagliati e giudicati? Ciascuno certo reagisce secondo il suo temperamento, e molti già si cavano dall'imbarazzo semplicemente buttando via il libro. Ma molti non possono farlo, o perché l'attrazione supera la repulsione, o perché sono vincolati in qualche modo a dare il loro giudizio. E cosi si ingrossa il fiume delle interpretazioni di Nietzsche. E se Nietzsche raccontasse soltanto se stesso, dietro il pretesto di paradossali scorribande del pensiero? Forse lui, quando discute di qualcosa, non mira a stabilire che cos'è questo oggetto, e neppure come va giudicato, ma vuole semplicemente raccontare che cosa sente di fronte a questo oggetto. A lui interessa il modo di sentire — istintivamente, in base alla natura dell'individuo — rispetto alle cose del mondo e ai pensieri degli uomini. Per far questo ha bisogno di cambiare continuamente le prospettive, di far ruotare le cose osservate, in modo di stordire il lettore, di metterne alla prova l'istinto, di obbligarlo alla menzogna reticente, al rifiuto della provocazione. Il fascino di questo libro, forse, deriva dallo spettacolo di qualcuno che si mostra e fugge.

Tutto, qui, si riduce a una dichiarazione di gusto, e il gusto, si sa, è la cosa più incomunicabile e meno confutabile. Nient'altro infatti significa la domanda, con cui Nietzsche intrappola il lettore: «Che cos'è aristocratico?». Il libro culmina in questa domanda finale, sapientemente preparata, suggerita da un caleidoscopio di discussioni all'apparenza rapsodiche. E per contro, che cos'è volgare? Il punto di partenza, per rispondere a questa duplice domanda, è illusionistico. Qui, nell'y4Z di là del bene e del male, la precisazione delle classi aristocratiche e delle virtù aristocratiche non è lo scopo principale, anche se Nietzsche lo pone in evidenza. Viene spiegato che cosa nel mondo della storia manifesta l'istinto aristocratico e quello volgare, per alludere alla natura degli istinti stessi. L'interiorità primitiva con cui un individuo sente il mondo che lo circonda, e reagisce in conseguenza, è ciò che interessa Nietzsche. La documentazione grossolana, macroscopica di questi istinti, è la storia degli uomini. Ma il gusto aristocratico e quello volgare vanno poi rintracciati all'origine, prima che intervenga la mediazione del collettivo. Ed è allora che Nietzsche racconta, velatamente, se stesso.

L'istinto del distacco, ecco, forse è questa la radice dell'aristocratico. Il dividersi, il contrapporsi a tutto quanto sta intorno, nel pensiero, nell'azione, il tenersi fuori, lontano, separato. Questo sembra il pathos sotterraneo che sta alla base di tutte le configurazioni del gusto aristocratico. «La profonda sofferenza rende nobili; essa divide». Il dolore è nel gusto di Nietzsche — ed è contro il gusto del mondo moderno. E il distaccarsi, nell'azione, porta al nascondersi di fronte agli altri: così la separazione non sarà turbata. Di qui l'insistenza, nell'y4/ di là del bene e del male, sul tema della maschera. Esaminando l'agire degli aristocratici, si scopre che esso esprime prima di ogni altra cosa il loro istinto del distacco, e lo manifesta con una molteplicità di maschere, che vengono fraintese dai volgari come gli unici, come i veri volti. I libri, le opere, le filosofie — se dietro c'è un aristocratico — sono soltanto maschere. Qui si cela il tranello teso da Nietzsche al lettore, ciò che nessuno si aspetterebbe da lui, e che anche in questo libro appare solo fugacemente. — Voi andate a caccia delle mie opinioni, delle mie dottrine; ma queste sono soltanto delle maschere! E quando parlo degli altri, non datemi retta. — Leggiamo addirittura che è un gesto aristocratico «il lodare sempre solo quando non si è d'accordo».

Ma allora il biasimare può anche voler dire che si è d'accordo?

Qui non interessano più parole, opinioni, pensieri. Indicare la propria natura, conta solo questo. E neppure il bisogno di nobiltà interessa, lo dichiara lui stesso. Chi è aristocratico non sente il bisogno di esserlo, chi ne sente il bisogno non lo è. Infine la solitudine, il pathos caratteristico di Nietzsche, qui viene spiegata nella sua origine. La solitudine non è uno stato di abbandono, non è un risultato, non dipende dall'esterno, non è qualcosa che si patisce. La solitudine è istinto per la pulizia, come spontaneità, come qualcosa che nasce dalla natura. Dunque è in questo slancio — «sublime inclinazione e trasporto per la pulizia» — che Nietzsche esprime nel modo più fisiologico, epidermico, veramente immediato e antiastratto, la sua risposta alla domanda «Che cos'è aristocratico?».

Nella solitudine come istinto di pulizia si traduce più concretamente — di fronte alla collettività degli uomini — quell'impulso al distacco, che è uno slancio radicale dell'anima aristocratica. «Ogni comunità rende in qualche modo, in qualche cosa, in qualche momento — 'volgari'».

Ma una vita aristocratica è sopportabile? Chi si distacca sfugge al contatto, sfugge anche — attraverso la maschera — all'esser pensato, conosciuto, ma non è questo un abisso di annientamento? Chi si distacca a quel modo, però, getta uno sguardo attorno a sé, spia l'orizzonte, spera nella solitudine di scorgere un suo simile. In questa duplicità congiunta si svela compiuta mente l'anima aristocratica; se così non fosse, che senso avrebbe, per il solitario, dichiarare il suo istinto, il suo gusto aristocratico, scrivere un Al di là del bene e del male} Questa rimane la grande speranza, mai spenta, l'attesa degli amici, e il libro si chiude con tale allusione, nel tragico, straziante epodo.

Prima ancora lo struggimento si era elevato all'allucinazione. Poiché i nobili non appaiono, gli amici, ecco che Nietzsche evoca il suo dio come compagno, amico, conoscitore. È un nuovo Dioniso quello che così ci appare di fronte, il dio che contrasta l'impulso al distacco di cui si parlava, pur essendo distaccato, il dio adescatore, tentatore. Per questo Nietzsche lo chiama ambiguo: soltanto qui è la risposta totale — in questa ambiguità — alla domanda «Che cos'è aristocratico?». Tale è ora il pathos dionisiaco: il venir risucchiati fuori di noi, sopra di noi, venir sedotti, proprio mentre ci si distacca da tutto. E Dioniso non è più la «volontà di vivere», e neppure la volontà di potenza, bensì «il genio del cuore», dove sta «la delicatezza nell'afferrare», la sapienza insomma.

I FRAMMENTI POSTUMI DEL 1884

Questi frammenti postumi, scritti nel 1884, si inseriscono tra la composizione della terza parte di Così parlò Zarathustra e quella della quarta parte, nascono in una disposizione d'animo rilassata, riflettono una pausa tra due momenti di effusione creativa. Nietzsche si rivolge in se stesso, quasi per esaminare il cammino percorso, rimugina pensieri vecchi e nuovi, senza essere afferrato dall'ansia espressiva, ha un animo recettivo e si dedica a varie letture, le cui tracce si ritrovano nei suoi appunti. È un riflusso pacato, un'alternativa di sobrietà rispetto alle esaltazioni precedenti, in cui un groviglio di immagini e di simboli si dipana in un linguaggio più tranquillo, disteso, attraverso meditazioni più assennate. In questo accomodamento dell'astratto all'intuitivo, del discorsivo al lampeggiante, emergono alcuni nodi problematici, accenni anteriori s'infittiscono e cercano nuove formulazioni. Il tema della casualità fornisce uno degli esempi più interessanti di questo sviluppo. In Così parlò Zarathustra il motivo del giuoco e del caso si attacca visceralmente al carattere del protagonista, mentre il motivo contrapposto della necessità, la cui accentuazione deriva a Nietzsche dagli anni precedenti di amore per la scienza, viene tuttavia conservato, anzi si intreccia curiosamente con il primo motivo. La necessità non è un carattere che riesca facile a Nietz sehe di congiungere al personaggio di Zarathustra, eppure in quest'opera si parla assai più di necessità che di casualità, e nell'esaltazione della necessità si tenta di riassorbire in essa il giuoco.

Nel periodo di riflessione che ora consideriamo, di sedimentazione degli affetti violenti, riemerge in primo piano la casualità, e tende talora — come del resto è naturale — a contrapporsi alla necessità. Tutta una serie di questi frammenti elabora il tema, tende anzi a inserire la casualità nella trama dei concetti portanti della visione complessiva di Nietzsche in questo periodo, e verificare discorsivamente la sua pertinenza ed essenzialità secondo le diverse prospettive. Così leggiamo, riguardo alla formazione dell'organismo: «l'uomo, in fondo, è anche una pluralità di esistenze: queste non si sono formate gli organi comuni, come la circolazione del sangue, la concentrazione dei sensi, lo stomaco, e così via, a questi scopi; bensì formazioni casuali, che produssero il vantaggio di conservare meglio la totalità, si sono sviluppate meglio e si sono conservate» (26[157]). E rispetto alla prospettiva della conoscenza, alla struttura dell'intelletto, si dice: «questa condizione effettuale dell'esistenza forse è solo casuale e forse non è affatto necessaria. Il nostro apparato conoscitivo non è organizzato per la 'conoscenza'» (26[127]).

Un analogo discorso viene esteso alla sfera del comportamento: «In ogni azione, per quanto consapevole dello scopo, la somma di ciò che è casuale, non conforme allo scopo, inconsapevole dello scopo, è assolutamente prevalente» (25[127]). Applicato alla sfera storica, questo punto di vista fa dire a Nietzsche: «Nella storia non si deve cercare la necessità, riguardo al mezzo e allo scopo! La regola è l'irrazionalità del caso!» (25[166]). Prospettiva che ritorna anche nei giudizi storici rivolti al presente: «L'enorme massa di elementi casuali, contrad dittòri, disarmonici, sciocchi nell'odierno mondo degli uomini indica il futuro...» (26[228]). E rispetto alla struttura dell'individuo di eccezione: «'Caso' — nei grandi spiriti, abbondanza di concezioni e possibilità, per così dire giuoco di figure, di qui scelta e adattamento a qualcosa di scelto in precedenza» (26[53]). In particolare, l'elemento della casualità viene ritrovato da Nietzsche nel grande individuo della conoscenza, nel sapiente: «L'uomo più saggio sarebbe quello più ricco di contraddizioni, che per così dire ha antenne per tutte le specie di uomo: e in mezzo i suoi grandi attimi di conoscenza grandiosa — il caso nobile anche dentro di noi!» (26[119]). Lodi del caso si ritrovano in Nietzsche anche negli anni che precedono Così parlò Zarathustra, ma ora egli giunge a coinvolgere, attraverso questa valutazione di fondo, tutte le sue prospettive. Alcuni dei passi citati prospettano già l'antitesi tra caso e necessità, che non emerge invece in Così parlò Zarathustra. Il pensiero dominante di Nietzsche in questo periodo, il pensiero dell'eterno ritorno, riflette nel suo sorgere la matrice della necessità. Nei frammenti del 1884 si prospetta invece un distacco da questa matrice. Entro la tematica dell'eterno ritorno si dice infatti: «Indicare il carattere straordinariamente casuale di tutte le combinazioni; ne consegue che ogni azione di un uomo ha un'influenza illimitatamente grande su tutto ciò che deve venire» (25[158]). E in modo del tutto esplicito, tra ciò che è indispensabile «per sopportare il pensiero del ritorno» viene citata la «eliminazione del concetto di necessità» (26[283]). Parallelamente alla casualità, viene esaltato il giuoco, quello che si può chiamare la sua faccia intuitiva: «Nel considerare il mondo un giuoco divino e al di là del bene e del male — ho come predecessori la filosofia del Ve danta ed Eraclito» (26[193]). Analogamente si muove la speculazione morale. Nella sfera dei comportamenti umani Nietzsche cerca un punto saliente, una costante di concretezza. E nei frammenti postumi del 1884 si può forse ritrovare un risultato di questa ricerca, attraverso il tema dell'ipocrisia. La psicologia di Nietzsche ricorre spesso a tale concetto, com'è noto, ma qui esso viene posto al centro di nessi decisivi, in parecchi contesti illuminanti. «Il segno distintivo del grande uomo fu la profonda penetrazione nell'ipocrisia morale di ognuno» (26[98]). Anche in questo caso si assiste a un'elaborazione discorsiva di momenti intuitivi già vissuti: nelle parole di Zarathustra il riferimento all'ipocrisia umana è costante.

Qui nei frammenti viene tracciata una teorizzazione generale : «mi son guardato attorno, ma finora non ho visto per la conoscenza pericolo maggiore dell'ipocrisia morale: o meglio, per non lasciar dubbi d'alcun genere, di quella ipocrisia che si chiama la morale» (26[188]), e viene difatti proposto il titolo «La morale come ipocrisia». Di questo enunciato sintetico si trovano anche alcuni schemi di sviluppo: «... dissimulazione davanti ai 'propri pari' come origine della morale del gregge: paura; volersi intendere; eguagliarsi; diventare eguale... Ancora generale ipocrisia. La moralità come pulizia e ornamento, come travestimento della natura ontosa». E con un allargamento di prospettiva: «di fronte al gregge, l'ideale dell'animale del gregge (eguale) — eli fronte al potente lo strumento più devoto e utile (servile, 'ineguale'): di qui deriva una duplice ipocrisia » (27[42]). Poco oltre Nietzsche tenta un'altra formulazione: «Morale dal punto di vista della dissimulazione (parificare), astuzia e ipocrisia ('non farsi riconoscere') — come falsificazione dell'espressione dell'animo (dominio di sé) per suscitare un equivoco» (27[56]). L'accenno è notevole: anche il dominio di sé viene ricondotto al punto di vista dell'ipocrisia. Con ciò la prospettiva sul comportamento si allarga sino a considerare le nature superiori. E difatti proprio in questo periodo Nietzsche va meditando sulla quarta parte di Così parlò Zarathustra, che sarà scritta poco dopo e il cui tema centrale sarà fornito dagli «uomini superiori». I filosofi e gli scienziati vengono in primo piano. «Sull'ipocrisia dei filosofi. I Greci: nascondono il loro affetto agonale, si drappeggiano come 'i più felici' per la virtù, e come i più virtuosi (ipocrisia duplice)... Leibniz, Kant, Hegel, Schopenhauer, la loro duplice natura tedesca. Spinoza e l'affetto vendicativo, l'ipocrisia del superamento degli affetti. L'ipocrisia della 'scienza pura', la 'conoscenza per la conoscenza'» (26[285]). E l'ipocrisia dei filosofi non si manifesta soltanto nei loro atteggiamenti, ma anche nelle loro dottrine : «Sulla disonestà dei filosofi di dedurre qualcosa che essi credono anticipatamente buona e vera (tartuferia, per esempio Kant: ragione pratica)» (27[76]). Considerazioni analoghe vengono fatte per la scienza. «La scienza è una cosa pericolosa : e se non siamo perseguitati a causa sua, la sua 'dignità' non esiste». Falsa è la popolarità della scienza: «ciò è dovuto al fatto che essa è sempre stata esercitata con tartuferia morale. Io voglio por fine a tutto ciò» (25[309]).

L'accentuazione del tema dell'ipocrisia si estende infine, com'è normale in Nietzsche, alla sfera storica. «La 'trasformazione' di un uomo mediante una rappresentazione dominante è il fenomeno originario psicologico su cui è costruito il cristianesimo... Non credo affatto che l'uomo diventi d'un colpo un uomo nobile e di grande valore; per me, il cristiano è un uomo del tutto abituale con qualche parola e valutazione diversa. Alla lunga, certamente, queste parole e queste opere creano forse un tipo: il cristiano come il tipo di uomo più ipocrita» (25[499]). E quando si avvicina al presente, dice: «La profonda ipocrisia è europea. Chi vuole agire in grande stile sugli europei, ha dovuto ricorrere finora alla tartuferia morale (per esempio il primo Napoleone nei suoi proclami, recentemente Richard Wagner con la sua musica contraffatta)» (25[254]). Ciò vale non solo per chi vuole agire in grande stile : «io credo che, tutto sommato, l'ipocrisia nelle cose della morale sia un tratto del carattere di questa epoca democratica. Un'epoca come questa, che ha preso come suo motto la grande menzogna dell"eguaglianza degli uomini', è piatta, frettolosa, preoccupata solo di risvegliare l'apparenza che tutto va bene per quanto riguarda l'uomo» (26[364]). Che si può fare contro l'ipocrisia? Trasformarla in menzogna voluta. Si tratta, secondo Nietzsche, di «trasformare il contegno dei sovrani e degli uomini politici in menzogna intenzionale, togliere loro la buona coscienza, e estrarre dal corpo dell'uomo europeo l'inconsapevole tartuferia» (25 [294]). Con ciò si ottiene uno spaccato approssimativo della visione complessiva di Nietzsche in quest'anno 1884, dove il caso si presenta come il principio delle cose, e l'ipocrisia come il principio della morale. I due princìpi sono anzi unificabili, in quanto ciò che viene chiamato ora caso diventerà, nell'ultima fase del pensiero di Nietzsche, il principio della menzogna, come radice universale dell'uomo e di ogni vita organica. L'ipocrisia è difatti un aspetto della menzogna, l'aspetto aberrante, e quindi da rifiutare, così come ogni attività dell'uomo, dall'arte alla scienza, è menzogna, creazione illusionistica, dove la morale è l'aspetto aberrante della menzogna. Nell'ipocrisia si fìnge una cosa che è approvata e se ne nasconde una che è disapprovata. Nel giuoco, nella menzogna si finge senza appoggi, creativamente, mentre nell'ipocrisia quell'approvazione e quella disapprovazione si fondano su un giudizio del gregge, sono comunque una cristallizzazione, quindi la menzogna non è creativa, primigenia, sbocciata dalla natura, ma ribadisce un giudizio già esistente.

Bisogna dire d'altra parte che in questi frammenti postumi del 1884 la tendenza a teorizzare appare raffrenata, quasi posta in secondo piano, di fronte non tanto all'«agire», quanto piuttosto all'«essere ». A Nietzsche sembra interessare più la vita che il pensiero. E parallelamente, nel filosofo lo attraggono più la persona, le qualità vitali, che non le dottrine. In questo senso, non sono soltanto gli aspetti negativi del filosofo a essere considerati, ma anche quelli positivi. Lo stesso interesse si manifesterà nei frammenti postumi dell'anno seguente, come pure, con una prospettiva allargata dai filosofi agli «uomini superiori», nella quarta parte di Così parlò Zarathustra. Del filosofo, come individuo compiuto, come tipo culminante di uomo, si dice qui nel 1884: «il filosofo raramente riesce. Alle sue condizioni appartengono qualità che di solito sono la rovina di un uomo» (26[425]). E altrove si specifica: «Un intelletto splendido è l'effetto di una massa di qualità morali, per esempio: coraggio, forza di volontà, equità, rigore; ma, in pari tempo, anche di molta polytropem, dissimulazione, trasformazione, esperienza degli opposti, protervia, temerità, malvagità, indocilità» (26[101]). Lo slancio fuori di sé, l'immediatezza vitale sono altre condizioni: «Bisogna essere capaci di ammirazioni impetuose e accogliere in cuore molte cose con amore: altrimenti non si è adatti a fare i filosofi. Occhi grigi e freddi non sanno il valore delle cose; spiriti grigi e freddi, non sanno il peso delle cose» (26 [451]).

In quanto il filosofo è tutto questo assieme, egli cessa di essere l'uomo della conoscenza discorsiva: «contraddizione tra le funzioni prime del 'conoscere' e la vita. Quanto più una cosa è conoscibile, tanto più essa è lontana dall'essere, tanto più essa è concetto» (26[70]). O per meglio dire, la conoscenza discorsiva è abbassata a stadio preparatorio: «Il nuovo senso di potenza: la condizione mistica, e la razionalità più limpida, più temeraria come via che porta a essa» (26[241]). Si noti che Nietzsche non parla di « conoscenza», bensì di «condizione», di stato mistico, cioè di un essere, non di un conoscere (diversamente dall'epoca della Nascita della tragedia, dove «conoscenza» in senso eminente era l'intuizione dionisiaca del dolore del mondo). Inoltre non va sottovalutato il riconoscimento dello stato mistico come vertice della vita filosofica. «Scopo vero e proprio di ogni filosofare la intuitio mystica» (26[308]). Ciò avviene soltanto in questo periodo: altrove Nietzsche dà alla parola «misticismo» un colorito negativo. È il ricordo della propria esperienza che gli fa cambiare idea, il ricordo dell'intuizione dell'eterno ritorno. A quest'ultima infatti, o a qualcosa di simile, egli collega il misticismo di Spinoza: «Che qualcosa come l'amor dei di Spinoza abbia potuto essere vissuto di nuovo, è il suo grande evento... Che fortuna se le cose più preziose possono esserci per la seconda volta! — Tutti i filosofi! Sono uomini che hanno vissuto qualcosa di eccezionale» (26[416]). Ma la riflessione su questo tipo di esperienza lo riporta verso la Grecia antica. «Più in alto del 'tu devi' sta Y'io voglio' (gli eroi); più in alto deir'io voglio' sta 'io sono' (gli dèi dei Greci)» (25[351]). Sotto questa luce persino l'astio abituale di Nietzsche nei confronti di Platone si mitiga, anzi si rovescia in ammirazione. «Platone vale di più della sua filosofia! I nostri istinti sono migliori della loro espressione in concetti» (26[355J). E ancora: «Le estasi sono diverse in un uomo religioso, sublime, nobile come Platone — e in cammellieri che fumano hascisc» (26[312]). Ê perciò verosimile che il motivo polemico antisistematico abbia in questo periodo, non già l'abituale sostrato scettico, bensì uno sfondo mistico : «Tutti i sistemi filosofici sono superati; i Greci risplendono più che mai, soprattutto i Greci prima di Socrate» (26 [43]).

I FRAMMENTI POSTUMI DALL'AUTUNNO 1884 ALL'AUTUNNO 1885

Il primo gruppo di questi frammenti postumi, scritto nell'autunno del 1884 e nell'inverno successivo, è costituito dal materiale preparatorio onde sorse la quarta parte di Così parlò Zarathustra. Si tratta di brevi immagini poetiche, di piani, di raccolte di sentenze e similitudini che devono ancora essere organizzate e articolate, e anche di stesure preliminari, ma già continue, di capitoli. L'interesse letterario di questi frammenti è notevole, sia per lo studio della formazione stilistica della grande opera di Nietzsche, sia in assoluto, quando ci troviamo di fronte a passi non ripresi nella stesura definitiva di Così parlò Zarathustra. I frammenti postumi che seguono, scritti dalla primavera all'autunno del 1885, offrono un quadro diverso, passano gradualmente dalla sfera poetica a quella astratta. Lo stato di esaltazione ditirambica è concluso, si trasforma in meditazione matura e melanconica: Nietzsche si ripiega su se stesso e sul proprio passato, pensa alla rielaborazione di sue opere precedenti.

Lo Zarathustra l'ha fatto progredire «al di là» della filosofia. Egli si sente di colpo svuotato di interesse per tutto quello che è stato considerato dalla tradizione come filosofia. Non soltanto la scrittura è incapace di comunicare gli stati interiori di eccezione, ma neppure la parola lo può fare. «Per capirsi... si devono usare le stesse parole... per la stessa specie di esperienze interiori». La comunicazione è tagliata, quando sfugge l'interiorità. «Ciò è detto per spiegare perché è difficile capire gli scritti come i miei: le esperienze interiori, le valutazioni e i bisogni sono in me diversi» (34[86]). Questa sfiducia nella comunicazione spinge Nietzsche verso il passato. «Un uomo per il quale quasi tutti i libri sono divenuti superficiali, conserva la fede, di fronte a pochi uomini del passato, che essi abbiano posseduto abbastanza profondità per — non scrivere ciò che sapevano» (34[147]). Ritorna in primo piano per lui la Grecia, dove la sapienza più alta non era stata condizionata né dalla scrittura né dalla parola. E del resto Nietzsche non fa che ritornare a quanto già prima aveva indicato: il suo concetto di «dionisiaco» alludeva appunto a tale sapienza. «Questo accesso all'antichità è... ostruito nel modo migliore... Sembra che il mondo greco sia cento volte più nascosto ed estraneo di quel che possa desiderare l'indiscreta natura degli odierni dotti. Se qualcosa si conoscerà in questo campo, sarà certo solo l'uguale che potrà conoscere l'uguale» (34[4]).

In conformità alla sua intuizione dell'angoscioso isolamento dell'interiorità, alla sua certezza dell'incomunicabilità della sapienza, la sua visione della Grecia assume un carattere diverso, misterioso, nascosto, arcano. Il quadro è dominato dall'ambiguità. «Io credo che la magia di Socrate stesse in ciò: egli aveva un'anima, e dietro a questa ancora un'altra, e dietro a questa ancora un'altra » (34[66]). L'antitesi è questa: Dioniso è vita immediata, mentre la nostra filosofia è scrittura o parola. «Quando "fiorivano" il corpo greco e l'anima greca, e senza gli stati di morbosa esaltazione e follia, sorse quel misterioso simbolo della più alta affermazione del mondo e trasfigurazione dell'esistenza che si siano mai raggiunti sulla terra». Agli occhi di Nietzsche il concetto di «dionisiaco» si è dunque approfondito: l'aspetto orgiastico, esaltato, non ne costituisce più il nucleo. «È dato qui un metro, commisurato al quale tutto ciò che da allora è cresciuto risulta troppo corto, troppo povero, troppo stretto; basta pronunciare la parola "Dioniso" di fronte alle migliori cose e ai migliori nomi moderni, di fronte a Goethe, diciamo, o Beethoven, o Shakespeare, o Raffaello: e di colpo sentiamo giudicati le nostre cose e i nostri momenti migliori. Dioniso è un giudice! Mi si è compreso?». Quello che Nietzsche ha in mente non è vita immediata pura e semplice, senza qualità, ma vita come conquista conoscitiva, come vertice dell'uomo. «Non c'è dubbio che i Greci abbiano cercato di interpretare per sé, in base alle loro esperienze dionisiache, i misteri ultimi "del destino dell'anima"... ecco la grande profondità, il grande silenzio riguardo a tutto ciò che è greco — non si conosceranno i Greci finché quel nascosto accesso sotterraneo rimarrà sepolto» (41 [7]). È dunque l'esperienza misterica dei Greci che viene posta al centro di quell'enigma. L'«accesso sotterraneo» conduce a una visione mistica. E del resto già prima Nietzsche aveva detto che la fede dei misteri, in Grecia, consisteva nell'intuizione dell'eterno ritorno. A questo nuovo orientamento del suo pensiero, nella primavera del 1885, Nietzsche dà il nome di «filosofia di Dioniso».

Persino in epoca recente egli trova degli appoggi che favoriscono questa nuova filosofia: i pessimisti, per la loro condanna del presente, gli artisti che, come Byron, credono nella gerarchia tra gli uomini, e infine gli studiosi dell'antichità. «È oggi ancora possibile il "filosofo"?». Il campo della conoscenza è troppo vasto: è assai probabile che chi tenta di essere un filosofo non giunga ad abbracciarlo, o vi giunga troppo tardi, quando il suo tempo migliore è passato, o vi giunga danneggiato. E quello che più conta, gli manca l'immediatezza. «Non dovrebbe avere personalmente sperimentato cento modi di vivere, per poter parlare sul valore della vita?» (35[24]). Il filosofo è ormai staccato dalla vita. «Ci si lamenta per le difficoltà tra cui sono vissuti finora i filosofi; la verità è che in tutti i tempi le condizioni per educare uno spirito potente, scaltrito, temerario e inesorabile, furono più favorevoli di oggi» (34[68]). Parallelamente diventa ora completo il ribaltamento di valore che investe il concetto di verità. Il rifiuto della filosofia (e della scienza) è un rifiuto della verità. Il grande uomo, «quando non parla con se stesso, ha una maschera. Preferisce mentire che dire la verità: costa più spirito e volontà» (34[96]). E se la filosofia e la scienza sono sempre state la ricerca della verità, la «filosofia di Dioniso» dovrà essere la ricerca dell'inganno. «Posto che il mondo fosse falso... non potrebbe la norma essere proprio questa: "devi essere un ingannatore"?... Gli uomini veramente grandi e potenti sono stati finora ingannatori: la loro missione volle questo da loro». Ma il mondo è senz altro falso, e 1 filosofi, in quanto ricercatori della verità, ripugnano al senso della vita. «Se la vita e il valore della vita riposano su errori ben creduti, allora proprio chi dice la verità, chi vuole la verità potrebbe essere colui che arreca danno» (40[44]). E addirittura la vita coincide con l'errore, e la morte con la verità: «posto che viviamo grazie all'errore, che cosa può essere allora la "volontà di verità"? Non dev'essere per forza una "volontà di morte"?» (40[39]).

A questo punto Nietzsche era maturo per il silenzio misterico. Ma il distruttore della filosofia era ancora un filosofo, e soprattutto la natura della sua solitudine non poteva rinunziare alla consolazione della parola. Così egli passa a delineare una filosofia dell'errore, dell'inganno, dell'illusione. L'illusione più generalizzata, la più concreta e avvolgente, è il mondo degli esseri che ci stanno intorno, il principio dell'individuazione. «L'uomo è una pluralità di forze che sono ordinate secondo una gerarchia». L'individuo è fatto di tanti esseri viventi «e colui che di solito comanda deve talvolta ubbidire. Il concetto "individuo" è falso. Questi esseri non esistono affatto isolatamente» (34[123]). Sull'illusione dell'individuo si costruisce l'illusione più vasta della coscienza, dell'intelletto. «Come un condottiero non vuol sapere e non deve sapere nulla di molte cose, per non perdere lo sguardo d'insieme, così nel nostro spirito cosciente ci dev'essere soprattutto un impulso che esclude e che scaccia, che trasceglie, che si lascia mostrare solo certi fatti. La coscienza è la mano con cui l'organismo estende di più la sua presa intorno a sé». Un concetto è un'invenzione che non corrisponde a nulla, «ma corrisponde un po' a molte cose». La via dell'astrazione potenzia ulteriormente l'illusorietà. «Ma con l'invenzione di questo rigido mondo concettuale e numerico, l'uomo acquista un mezzo per impadronirsi, come con segni, di immense quantità di fatti... Questo mondo spirituale, questo mondo di segni è mera "parvenza e illusione"» (34[131]).

E proprio il dissolvimento della realtà nell'errore e nell'inganno richiama l'esigenza di un supporto di tutto ciò, di un fondo originario, rispetto a cui appunto l'illusorietà può configurarsi. Ecco il primo sviluppo della dottrina della volontà di potenza. «Intendere la persona come illusione... una volontà di potenza attraversa le persone, essa ha bisogno del rimpicciolimento di prospettiva, dell'"egoismo", come temporanea condizione di esistenza... Il rimpicciolimento del principio agente nella "persona", nell'individuo» (35[68]). L'individuazione è l'inganno di cui si avvolge la volontà di potenza. Si prospetta così a Nietzsche la possibilità di sviluppare una dottrina costruttiva. Ma il filo di queste speculazioni gnoseologiche si era interrotto nell'epoca di Così parlò Zarathustra. Lui adesso lo riprende, trovandosi di fronte a un quadro teoretico che non gli appare ormai adeguato. In questi frammenti postumi dell'estate 1885 si assiste a un momento interessante nello sviluppo di Nietzsche: la genesi della teoria della volontà di potenza prende le mosse dal linguaggio del suo cosiddetto periodo positivistico, dalle formulazioni meccanicistiche e dal concetto scientifico di «forza». «È la volontà di potenza che guida anche il mondo inorganico... L'"azione a distanza" non si può eliminare: qualcosa attira a sé qualcos'altro, qualcosa si sente attirato. Il fatto fondamentale è questo: invece la rappresentazione meccanicistica dell'urto e della pressione è solo un'ipotesi basata sull'apparenza visiva e sul tatto» (34[247]). Come si vede, il tentativo è ancora quello di tenersi aderente al terreno positivistico. «Il vittorioso concetto di "forza", con cui i nostri fisici hanno creato Dio e il mondo, abbisogna ancora di un completamento: gli si deve assegnare un mondo interno, che io chiamo volontà di potenza, cioè un insaziabile desiderio di manifestare potenza». Ecco il passaggio metafisico: alla forza viene assegnato un mondo interno, un di dentro, un sostrato; qualcosa di non fisico, di non sperimentabile, un desiderio, un conatus spinoziano e schopenhaueriano. «Non c'è niente da fare: bisogna intendere tutti i movimenti, tutti i "fenomeni", tutte le "leggi" come meri sintomi di un accadere interno, e servirsi alla fine dell'analogia con l'uomo» (36[31]). La scienza è tradita: si sa quanto sia scientificamente malfamato il metodo analogico, e inoltre quanto sia ingenua, riguardo a una valutazione rigorosa dell'accadere cosmico, questa professione antropomorfica.

La struttura interna di questa volontà di potenza è vista in modo empedocleo, come un giuoco di attrazione e repulsione. «Ciò che è più debole si stringe a ciò che è più forte .. Inversamente, il più forte respinge da sé... Quanto più forte è la spinta verso l'unità, tanto più si può concludere alla debolezza; quanto più forte è la spinta verso la varietà, la diversità, l'interna dissociazione, tanto più c'è di forza». Compare qui un'intuizione logica di alto livello, che la separazione è ancora un legame. «L'impulso di avvicinarsi e l'impulso di respingere qualcosa sono, sia nel mondo organico sia in quello inorganico, il legame. La separazione netta è un pregiudizio. La volontà di potenza in ogni combinazione di forze, che si difende contro ciò che è più forte e che si precipita su ciò che è più debole, è un'ipotesi più corretta» (36[21]). Come nella struttura dell'individuo l'impulso a escludere, a scacciare, è costitutivo dell'allargamento della coscienza, così accade nella struttura della volontà di potenza, di cui l'individuo è la proiezione illusoria. «Il legame tra organico e inorganico deve risiedere nella forza respingente, esercitata da ogni atomo di forza. Si potrebbe definire la vita come una forma durevole di processo delle determinazioni di forza... In che senso c'è un'opposizione anche nell'obbedire; la forza propria non va affatto perduta. Allo stesso modo, nel comandare c'è un ammettere che la forza assoluta dell'avversario non è sconfitta, fagocitata, dissolta. "Comandare" e "obbedire" sono forme complementari della lotta» (36[22]). Quest'ultima formulazione fa addirittura pensare a un sostituirsi, come principio, della «lotta per la potenza» alla «volontà di potenza» : «un combattimento, posto che s'intenda il termine in senso così lato e profondo da concepire come una lotta anche il rapporto di chi è dominato con chi domina, e come una opposizione anche il rapporto di chi obbedisce con chi comanda» (40 [55]). La stessa cosa viene detta, con un linguaggio più «fisico» e positivistico: «Lotta degli atomi... L'atomo combatte per il suo stato, ma altri atomi lo attaccano, per accrescere la loro forza. Intendere entrambi i processi — quello della dissoluzione e quello della condensazione — come effetti della volontà di potenza» (43 [2]). Per consolidare questa visione, bisogna estendere la prospettiva dell'«interiorità», postularne la validità universale e oggettiva, occorre cioè completare l'operazione metafisica. «La questione è... se noi riconosciamo veramente la volontà come agente. Se sì, essa può naturalmente agire solo su qualcosa che è della sua stessa specie, e non sulla "materia". Delle due una, o bisogna concepire ogni azione come illusione... e allora niente è comprensibile; oppure bisogna provare a pensare tutte le azioni come della stessa specie, come atti di volontà, ossia fare l'ipotesi che ogni accadere meccanico, in quanto vi sia dentro una forza, sia appunto forza di volontà» (40[37]).

Il quadro si riassume in questi termini: in noi lo spirito, i sentimenti, le sensazioni sono al servizio delle nostre valutazioni. Ma queste svelano qualcosa sulle nostre condizioni di vita, in massima parte sulle condizioni che rendono possibile la vita in generale (40[69]). Tali condizioni di esistenza sono riducibili alla volontà di potenza. Questa formulazione è ambigua, e difatti Nietzsche aggiunge: «La volontà di potenza è l'ultimo fatto a cui perveniamo scendendo in profondità» (40[61]). Ma che la volontà di potenza non sia un «fatto», basta a provarlo quello che è stato detto e citato in precedenza.

La prevenzione positivistica è dura a morire, e anche quando vola fra le astrazioni metafisiche, Nietzsche pensa ancora di stringere fra le mani dei « fatti». Più abile è Nietzsche nel parare un altro attacco che si potrebbe muovere alla volontà di potenza, nel caso la si volesse intendere in modo troppo sostanziale, quasi in opposizione all'illusorietà del mondo da cui la ricerca era partita. «"Illusione", come la intendo io, è la vera e unica realtà delle cose... Un nome preciso per questa realtà sarebbe "la volontà di potenza", se viene designata dall'interno, e non in base alla sua inafferrabile e fluida natura proteiforme» (40[53]).

I FRAMMENTI POSTUMI DALL'AUTUNNO 1885 ALL'AUTUNNO 1887

Un frammento inedito di questo volume è particolarmente degno di attenzione, per l'amatore deir'enigma' Nietzsche: «Essotericoesoterico. 1. Tutto è volontà contro volontà. 2. Non c'è affatto una volontà. 1. Causalismo. 2. Non c'è qualcosa come causaeffetto...». Se non andiamo errati nell'interpretare, qui Nietzsche richiama la distinzione, di stampo antico, tra un'espressione, una comunicazione divulgativa e una iniziatica, ed esemplificando abbassa la volontà — cioè la volontà di potenza — al rango di un'esposizione divulgativa. Tutto ciò è consono al livello speculativo più alto di Nietzsche, e ci mette in possesso di una chiave per decifrare atteggiamenti incompatibili, apparentemente impenetrabili, del suo pensiero, senza dover ricorrere ad acrobazie interpretative. Di fronte a molte sue formulazioni costruttive, o addirittura sistematiche, che caratterizzano gli scritti di questi anni e di quelli successivi, è dunque inutile stupirsi, o sforzarsi di criticarle: per Nietzsche si trattava di un'elaborazione essoterica, e lui stesso ne conosceva le debolezze, se a esse contrappone un punto di vista esoterico. Da questa prospettiva emerge per noi un nuovo e più alto interesse dei frammenti postumi, che vanno considerati qualcosa di più che una raccolta di materiale in vista di future pubblicazioni: difatti sarà soltanto nei quaderni postumi di Nietzsche che si potrà rintracciare la coesistenza di una elaborazione essoterica tendente alla divulgazione e di un approfondimento segreto, personale del suo pensiero. Accenni di una simile intenzione compariranno anche nei frammenti del 18871888. Va detto comunque che quanto viene enunciato nel suddetto appunto non si trasformò per Nietzsche in una direttiva costante, e neppure si può affermare che un'esposizione esoterica sia stata del tutto esclusa nelle opere pubblicate da Nietzsche. Difatti la seconda antitesi citata nel frammento, tra causalismo e anticau salismo — di cui il primo sarebbe un'espressione essoterica e il secondo un'espressione esoterica — è chiaramente rintracciabile nelle opere edite. Il sapere tutto questo scaltrisce il lettore, gli fornisce occhi più penetranti. Non a caso la suddetta doppia prospettiva di Nietzsche subentra in un momento di riflusso creativo.

Si direbbe che Nietzsche, dopo l'esaltazione di Così parlò Zarathustra, di cui Al di là del bene e del male appare come un'eco pacata, consideri concluso il proprio compito, senta di avere oltrepassato l'acme, o almeno non sia sicuro di riuscire ancora a produrre in sé la passata tensione. Si avverte in lui un ripiegamento su se stesso, un guardare indietro: e difatti a questo punto il suo interesse si rivolge a una riedizione di varie opere precedenti, e il suo impegno si applica a fornire tali scritti di nuove prefazioni. Nietzsche mira a recuperare, a salvare il suo passato, dubita del futuro. Ma questo atteggiamento gli offre nuove speranze, produce una trasformazione affermativa; gli orizzonti della sua speculazione si allargano, i ricordi sopiti si ravvivano, la ricchezza della Nascita della tragedia gli dà nuove forze. Quel passato, che lui voleva salvare, gli viene in aiuto. E una nuova disposizione creativa si insinua in lui. Notevole è il fatto che Nietzsche non si renda conto della possibilità di un'antitesi espressiva tra essoterico ed esoterico al termine di un'elaborazione dottrinale, magari in seguito alla scoperta dei suoi punti deboli, ma la ponga invece all'inizio della sua costruzione di una dottrina della volontà di potenza. Prima ancora di essere sviluppata, questa teoria è agli occhi dell'autore null'altro che un'espressione essoterica del suo pensiero. E pensare che per un secolo ci si è azzuffati per penetrare entro la formula magica della volontà di potenza, e soprattutto per giudicarla! Sembra quasi che Nietzsche abbia pensato: un filosofo ha bisogno di un sistema, di una forma conclusa, che parli anche all'intuizione e fornisca certi punti fermi, plastici, immutabili, se vuol raggiungere un'efficacia persuasiva. L'antimetafìsico deve diventare metafisico. Quindi Schopenhauer, il bersaglio abituale del suo scetticismo, aiuterà, fornirà materiale per la fase costruttiva.

Tutta la prima formulazione del sistema della volontà di potenza — quella enunciata appunto nei frammenti di questo volume — non è altro che un travestimento del pensiero di Schopenhauer. E questo non soltanto per l'aspetto più evidente, in cui la volontà di vivere si modula in volontà di potenza, ma anche per l'aspetto contrapposto, più abilmente mascherato. Difatti tutta la dottrina del 'prospettivismo', che viene qui elaborata, si rivela, se analizzata nei suoi elementi, una nuova esposizione, in chiave più spericolata, della teoria schopenhaueriana della 'rappresentazione'. Che cosa significa risolvere al denominatore comune di un'interpretazione ogni dato della nostra esistenza, ogni piacere e dolore, ogni valutazione morale, se non intendere ciascuno di tali elementi come una relazione inessenziale tra soggetto e oggetto, il che costituisce appunto la 'rappresentazione' di Schopenhauer? Solo che quest'ultima è intesa in senso restrittivo: per dirla in termini schopenhaueriani, la rappresentazione astratta prevarica in Nietzsche su quella intuitiva. La concezione 'prospettivistica', 'interpretativa' della nostra esistenza pone l'accento soprattutto sul 'giudizio', cioè sulla faccia astratta della 'rappresentazione'. «L'uomo è soprattutto un animale giudicante; ma nel giudizio si celano le nostre credenze più antiche e costanti...». La trasfigurazione essoterica si manifesta perciò come più paradossale, più maliziosa: al deprezzamento metafisico di Schopenhauer ('apparenza') si sostituisce il deprezzamento morale ('menzogna').

Questo quadro è comunque riduttivo, inadeguato: al di là delle inconsapevoli variazioni sottilizzanti, psicologizzanti su un tema teoretico schopenhaueriano, di questo impulso plastico e divulgativo, si scopre attraverso il divagare speculativo una notevole capacità di raffigurazione originale, come già abbiamo detto altrove. E qui la variazione su Schopenhauer diventa superamento di Schopenhauer. La teoria della 'rappresentazione' è riformata, approfondita con la critica del 'soggetto', sviluppata non solo in questo periodo. Qui il soggetto è indagato nelle sue cause, è riportato allo sdoppiamento primitivo tra il fare e l'agente. E la volontà di vivere risulta superata dalla volontà di potenza, solo quando si consideri come carattere discriminante di quest'ultima il concetto di 'ostacolo', inteso come presupposto, indizio, occasione vitale della volontà di potenza. Ma è proprio qui che ciò avviene, attraverso i termini 'resistenza', 'ostacolo', 'impedimento'. I contesti sono i più vari : «la forza meccanica ci è nota solo come un sentimento di resistenza»; oppure: «un oggetto è la somma degli ostacoli sperimentati di cui siamo divenuti consapevoli»; oppure : «tutti i fenomeni di piacere e dispiacere sono intellettuali, sono giudizi complessivi su fenomeni di impedimento, loro interpretazioni».

Né vorremo ormai stupirci nel leggere le ripetute invettive derisorie contro la tendenza della filosofia moderna alla teoria della conoscenza, e constatare poi che una buona parte di questi frammenti sviluppano per l'appunto una teoria della conoscenza. Quando Nietzsche afferma che ogni unità è un'apparenza di unità, quando contrappone qualità e quantità, e subordina la seconda alla prima, tutto ciò non è forse gnoseologia? Anche qui l'atteggiamento distruttivo è esoterico, quello costruttivo è essoterico. Nell'elaborazione plastica di questo periodo sovvengono anche, come si è detto, gli sguardi retrospettivi. Le incontinenze positivistiche di alcuni anni addietro vengono ora utilizzate in una ricerca più sottile di divulgazione metafisica, con largo uso dell'analogia, di un ingrediente cioè non propriamente rigoroso. Così leggiamo: «tutto il pensare, il giudicare, il percepire, in quanto confrontare, ha come presupposto un "porre come uguale" e anzi un "fare uguale". Il fare uguale è la stessa cosa dell'incorporazione della materia assimilata nell'ameba». O addirittura troviamo formulata la dottrina graziosa: «la divisione di un protoplasma interviene quando la forza non basta più a domare il possesso di cui esso si è appropriato: la generazione è l'effetto di un'impotenza»; poi generalizzata: «il nutrimento : solo una conseguenza dell'appropriazione insaziabile, della volontà di potenza. La generazione: la disgregazione che subentra per l'impotenza delle cellule dominanti a organizzare le sostanze assimilate».

Dunque Nietzsche parla contro la gnoseologia e ne traccia lui stesso una: attacca la metafìsica e fa lui stesso il metafisico. In queste effusioni essoteriche ha una parte notevole il riaffiorare della tematica della Nascita della tragedia. In Nietzsche la metafisica si accompagna all'estetica. Certi suoi giudizi su quell'opera suonano come un'autoanalisi, per esempio quando egli scava nel suo pessimismo giovanile, e definisce il brutto come nausea per il passato. Altrove tradisce il suo struggimento per una metafisica apollinea («il mondo è un avvicendarsi di divine visioni e redenzioni nella parvenza»), e si può trovare persino un'interpretazione 'sublimata' del dionisiaco («la tortura del dover creare, come impulso dionisiaco»). E infine, anche al di fuori della suggestione estetica, riusciamo a scoprire in questi frammenti addirittura un'immediata confessione metafisica, una dichiarazione a favore dell"essere'l « Imprimere al divenire il carattere dell'essere — è questa la suprema volontà di potenza. Duplice falsificazione, attraverso i sensi e attraverso la mente, per conservare un mondo dell'essere, del persistere, dell'uguaglianza di valore, ecc. Che tutto ritorni, è l'estremo avvicinamento del mondo del divenire a quello dell'essere: culmine della contemplazione».

I FRAMMENTI POSTUMI DELL'AUTUNNOINVERNO 1887-1888

«Non bado più ai lettori: come potrei scrivere per lettori?... Ma annoto me stesso, per me» (9[188]). Che dire di queste parole di Nietzsche, contenute nel materiale postumo di questo tomo, se le mettiamo a confronto con le opere da lui destinate poco dopo alla stampa, con il Crepuscolo degli idoli, con l'Anticristo, con Ecce homo? Certamente queste opere Nietzsche le ha scritte per lettori, non per se stesso, di ciò nessuno può dubitare. C'è dunque un momento in cui Nietzsche scrive per se stesso, e un altro in cui scrive per lettori. Non sono cose diverse quelle che egli scrive nei due momenti, ma sono dette in modo diverso, con un cambiamento di prospettiva e di intenzione tale da trasformare anche i contenuti. Quando vuol pubblicare un libro, Nietzsche pensa anzitutto ai lettori, e 'per questa ragione' diventa artista, cioè — secondo la sua accezione del termine — menzognero e commediante. «Si è artisti solo al prezzo di sentire ciò che tutti i non artisti chiamano 'forma' come contenuto, come 'la cosa stessa'. Con ciò ci si ritrova certo in un mondo capovolto: perché ormai il contenuto diventa qualcosa di meramente formale — compresa la nostra vita» (11 [3]). Dovremo allora cercare nei frammenti postumi il Nietzsche che dice la verità, il filosofo, e per contro nelle opere edite il Nietzsche artista? La formulazione è semplicistica, soprattutto se la si vuole estendere in generale al rapporto tra scritti postumi ed editi, ma può essere una chiave interpretativa per illuminare l'ultimo anno dell'attività letteraria di Nietzsche, dall'autunno 1887 alla fine del 1888.

I frammenti postumi contenuti in questo tomo sono il frutto di meditazioni, prevalentemente teoretiche, durante l'autunnoinverno 1887-1888, nonché di considerazioni storiche, scritte con tono notevolmente distaccato, sul nichilismo e sul cristianesimo. Seguono appunti su varie letture fatte da Nietzsche in questo periodo. Tale raccolta di frammenti, una volta scritta, fu ritenuta da Nietzsche come la base, semplicemente materiale, per realizzare l'opera da lui progettata, la Volontà di potenza. Per portarla a compimento egli fece un secondo passo: scegliendo da questo materiale, numerò una serie di frammenti destinati a entrare, in altra forma, nella nuova opera. Nietzsche giunse cioè a delineare il contenuto di tale opera, sino al limite tuttavia in cui egli rimaneva ancora un pensatore ripiegato su se stesso. Perché la Volontà di potenza diventasse un'opera di Nietzsche, doveva intervenire il momento artistico, come si può constatare per ogni altra sua opera edita. Questo non accadde, neppure attraverso un primo tentativo, e lo dimostra la numerazione stessa di Nietzsche in questi quaderni, che è una semplice numerazione materiale secondo l'ordine delle pagine, non una numerazione 'architettonica'. Architettonica è soltanto la parziale distribuzione del materiale scelto nei quattro libri in cui allora egli voleva dividere l'opera. Poco più di nulla, quindi, del Nietzsche artista.

Eppure, com'è noto, si volle presentare ugualmente la Volontà di potenza 'come se' fosse stata prodotta altresì artisticamente da Nietzsche, ossia si manipolò, si mutilò, si smembrò, si accrebbe, si sistematizzò quel materiale con la presunzione di potersi sostituire, di avere la vocazione, il destino e l'autorizzazione di sostituirsi al Nietzsche artista. Il prodotto fu menzognero, non nel senso in cui Nietzsche intende il termine, ma menzognero come può esserlo il risultato di una falsificazione utilitaria. E poiché la Volontà di potenza postuma, come l'aveva lasciata interrotta Nietzsche, non era 'rivolta a lettori', si cercarono lettori mediante una 'forma' nuova: ma l'artista era l'Archivio Nietzsche! In compenso, considerando questo abbozzo disorganico della Volontà di potenza come ci è pervenuto nei manoscritti, possiamo avvantaggiarci di una prospettiva privilegiata sul Nietzsche pensatore che 'annota se stesso'. Anzi, se togliamo dal conto tutto ciò che di questo materiale postumo dell'autunnoinverno 18871888 verrà utilizzato per realizzare il Crepuscolo degli idoli e l'Anticristo, quando un affannoso impulso artisticopolitico cercherà di attualizzare l'inattuale, frammentando la progettata Volontà di potenza in scritti polemici, turbolenti, decadenti, con una scelta dei temi più vicini alla realtà contemporanea, allo scopo di suscitare un pubblico, di scuoterlo e affascinarlo, ecco che quanto rimane potrà considerarsi come il sedimento di una meditazione pura. Qualcosa di simile è possibile ritrovarlo in altri quaderni di frammenti che rimasero postumi, senza ulteriori utilizzazioni, nell'epoca di Gaia scienza e di Così parlò Zarathustra. Il caso che qui ci interessa è tuttavia più rilevante, perché rappresenta senza dubbio il punto estremo, e forse anche il più elevato, cui giunse il pensiero teoretico di Nietzsche. Si potrebbe anche ritenere che l'intento sistematico non gli fosse estraneo. Alcuni frammenti sembrano confermare la cosa, e non è possibile stabilire con sicurezza se l'aver respinto la tentazione sistematica sia conseguenza, per Nietzsche, di uno scacco oppure di un superamento. Non si tratta comunque di integrare un sistema che Nietzsche non raggiunse, e forse neppure volle raggiungere, quanto piuttosto di richiamare l'attenzione su certi pensieri la cui intenzione teoretica mira a un'interpretazione complessiva del reale, perciò articolata e in qualche modo coerente, attraverso determinate prospettive gnoseologiche.

Il perno di questa visione teoretica è fornito dalla critica del concetto di 'soggetto', che in questa fase viene condotta alle sue conseguenze più radicali. Non esiste né un soggetto del conoscere, né un soggetto del volere, né un io né un'anima, né in genere, in qualsiasi individuo, un centro permanente. La sfera di ogni soggetto si trasforma continuamente. Il soggetto come realtà, o anche semplicemente come punto di riferimento stabile, è dunque una finzione. Da questa finzione peraltro derivano i concetti metafisici di 'essere', di 'sostanza'. Per contro non esiste neppure il 'pensiero': ciò che viene chiamato con questo nome è del pari una finzione, che si ottiene con l'isolare un elemento da un processo o con l'unificare un complesso di elementi di cui ignoriamo il prodursi. A questo modo l'errore è il presupposto del pensiero: prima che si pensi qualcosa dev'essere già intervenuto un accomodamento, un aggiustamento, una falsificazione. E tutto ciò che entra nella nostra coscienza, sia le rappresentazioni del mondo esterno sia quelle del mondo interno, non è altro che una costruzione, un'interpretazione sulla hase di elementi la cui connessione, la cui causalità ci è del tutto nascosta. Quello che chiamiamo 'cosa' è quindi una schematizzazione arbitraria: tuttavia sull'insieme di tali falsificazioni costruiamo la nostra logica. Il principio di contraddizione è un imperativo «non per conoscere il vero, ma per porre e ordinare un mondo che dev'essere vero per noi» (9[97]). Il mondo ci appare logico perché noi l'abbiamo logicizzato: la costrizione in base alla quale foggiamo concetti, forme, scopi, leggi non riflette un mondo vero, ma mira ad accomodarci un mondo che ci renda possibile la vita. L'aver aperto una tale prospettiva gnoseologica rappresenta una prestazione di grande livello teoretico, anche se i filosofi del nostro secolo non sembrano averla compresa e apprezzata come meritava (può giustificarli in parte la tradizione infedele della Volontà di potenza). Certo è che non ci troviamo sul piano della speculazione positivistica o semplicemente psicologica.

Di fronte a questa critica radicalissima delle condizioni, degli strumenti e dei prodotti della conoscenza sembra anzi vacillare la nuova metafisica di stampo schopenhaueriano, che Nietzsche aveva elaborato nell'epoca di Al di là del bene e del male e della Genealogia della morale. L'estensione e la maturazione della critica sul 'soggetto' non può non ripercuotersi — a bella riprova dell'onestà intellettuale di Nietzsche — sulla concezione stessa dell'azione e della volontà. Nell'azione ciò che corrisponde al soggetto, ossia chi agisce, è stato estratto concettualmente da essa, quindi è una finzione, così come è una finzione lo 'scopo', T'intenzione'. A sua volta la volontà non esiste, come non esiste il pensiero: c'è soltanto un 'voler qualcosa'. Il concetto metafisico di volontà di potenza, spogliato di ogni riferimento a un soggetto permanente, minaccia così di sgretolarsi. Nietzsche tenta variamente di consolidarlo, in antitesi alle determinazioni schopenhaueriane: solo l'opporsi di una resistenza rivela la volontà di potenza, e l'impulso di questa non è di autoconservazione, non è una volontà di vivere, poiché il protoplasma «prende in sé, in modo assurdo, più di quel che esigerebbe la conservazione; e soprattutto il protoplasma in tal modo non si conserva, bensì va in rovina...» (11[121]). La filosofia del dolore, sviluppata all'epoca di Al di là del bene e del male, si intreccia in questa tematica. La vita non tende alla felicità, ma alla potenza, e a tendere non sono gli individui — che non hanno vera realtà — bensì le loro sfere di potenza, inafferrabili nel loro perenne trasformarsi. Le resistenze alla volontà procurano dolore, ma questo dolore, l'insoddisfazione degli istinti, non deprime la volontà di potenza, bensì la rafforza. Il piacere stesso è un ritmo di piccoli dolori. È falso per Nietzsche che il piacere sia causato dalla soddisfazione della volontà: «la volontà vuole andare avanti e afferma sempre di nuovo il suo dominio su ciò che le si para dinanzi: il sentimento di piacere sta proprio nell'insoddisfazione della volontà, nel fatto che senza limiti e resistenze non è ancora sazia abbastanza...» (11 [75]).

Tutta questa ricerca, questo variare di prospettive e di formulazioni tende a dare una espressione all'oscuro fondamento dell'esistenza che egli 'sente', nell'ansia di eludere l'irrigidimento sistematico, la concettualizzazione metafisica (lo spettro di Schopenhauer!). Soccorre persino l'esegesi intellettualistica degli istinti e dei sentimenti, che risale all'epoca di Umano, troppo umano. «'Piacere' e 'dolore' sono i più stupidi mezzi che si possano pensare per esprimere dei giudizi... La loro origine è nella sfera centrale dell'intelletto» (11 [71]) D'altra parte «il giudicare stesso è solo questa volontà di potenza... Valutare l'essere stesso; ma lo stesso valutare è ancora questo essere; e dicendo no, facciamo ancora ciò che siamo» (11 [96]). Alla fine ci troviamo di fronte a una volontà di potenza, che è la valutazione e che è l'essere: quasi una unificazione mistica, dove la sostanza metafisica, T'essere', risulta simultaneamente giudizio e volontà, ossia si presenta come razionale e irrazionale al tempo stesso. I fili si intrecciano, aggrovigliati senza rimedio. La ricerca teoretica spinta in profondità, alla ricerca delle inafferrabili condizioni della coscienza, della falsificazione della coscienza, incespica, annaspa, sembra arenarsi alla fine, senza ormai trovare appagamento nello scetticismo, poiché il suo tormento non può acquietarsi.

Contro questa vertigine neppure la scienza, a questo limite, può offrire un aiuto. Già da qualche anno Nietzsche ha tolto alla scienza il ruolo di protagonista; ora dice : «Profondo indebolimento della spontaneità; lo storico, il critico, l'analitico, l'interprete, l'osservatore, il collezionista, il lettore: tutti talenti reattivi; tutta scienza!» (10[18]). In compenso la scienza rientra nella catartica esaltazione della menzogna, che sola agli occhi di Nietzsche può dare un senso, fornire una trasfigurazione, allo scacco teoretico. Se soltanto la menzogna può aiutare l'uomo a vivere, e se d'altra parte tutto ciò che entra nella nostra coscienza è prodotto da un istinto di falsificazione, l'uomo non ha altra scelta che mentire, in tutte le sue aspirazioni ed espressioni. «La metafisica, la morale, la religione, la scienza... vengono prese in considerazione solo come diverse forme di menzogna: col loro sussidio si crede nella vita» (11[415]). Ma questo istinto della menzogna è appunto la stessa cosa, secondo Nietzsche, dell'istinto artistico, cosicché l'arte si manifesta come la categoria dominante e avvolgente, in cui ricadono tutte le cosiddette attività spirituali dell'uomo. «Che il carattere dell'esistenza venga misconosciuto — è il profondissimo e supremo fine recondito della scienza, della religiosità, della tendenza artistica Molte cose non vederle mai, molte cose vederle falsamente e vederne molte altre che non ci sono... Nei momenti in cui l'uomo diventa l'ingannato, in cui crede nuovamente alla vita, in cui ha raggirato se stesso: oh, come allora egli si gonfia! che delizia!... E ogni volta che l'uomo si allieta, è sempre lo stesso nella sua gioia: si allieta come artista, gode se stesso come potenza. La menzogna è la potenza...» (11 [415]). In tal passa nella filosofia della menzogna. Con altri nomi, ancora una volta ritorna la metafisica dell'arte della Nascita della tragedia, chiudendo il cerchio delle avventure speculative di Nietzsche.

La filosofia della menzogna che emerge dal suddetto scacco teoretico è comunque una visione del mondo «singolarmente fosca e spiacevole», come dice Nietzsche stesso. Ma questo pessimismo teoretico ha come riscontro un ottimismo vitale: «Tutta la bellezza e la sublimità da noi prestata alle cose reali e immaginarie, voglio rivendicarla come patrimonio e prodotto dell'uomo: come la sua più bella apologia. L'uomo come poeta, come pensatore, come Dio, come amore, come potenza: oh, la regale generosità con cui ha donato alle cose, per impoverirsi e sentirsi miserabile!» (11 [87]). Perché attraverso la menzogna si svela l'eternità: «a me sembra... che tutto abbia troppo valore per poter essere così fuggevole: io cerco un'eternità per ogni cosa... e la mia consolazione è che tutto ciò che è stato è eterno: il mare lo rigetta a terra» (11 [94]).

Questo per quanto riguarda il Nietzsche che 'annota se stesso'. Tuttavia anche nella parte del materiale postumo che tratta questioni storiche e culturali il tono di Nietzsche è insolitamente sobrio, quasi contemplativo. Non si ha che da confrontare, con l'aiuto delle nostre note, i passi paralleli del Crepuscolo degli idoli e dell'Anticristo, dove tale materiale verrà rielaborato 'artisticamente'. Nell'uso ambivalente del termine 'nichilismo', che da un lato designa un bersa giio polemico, cioè un movimento antico e moderno di décadence che dev'essere debellato, e d'altro lato una fase necessaria che apre la strada verso una vita autentica e affermativa, i frammenti qui considerati forniscono una testimonianza prevalente dell'accezione positiva. A più riprese Nietzsche designa se stesso come nichilista, loda il nichilismo come conseguenza di una adulta veracità. Oggi, come fenomeno complessivo, il nichilismo è segno di una crescita decisiva. Per il filosofo, è un riposo. « Il credere che non ci sia nessuna verità, la fede del nichilista, è come un piacevole stirarsi le membra per uno che, come uomo di guerra della conoscenza, si trova incessantemente in lotta con verità tutte brutte» (11 [108]).

Con questa valutazione positiva del nichilismo si accordano tutti i frammenti antipolitici, in cui si raccomanda di non resistere alla negatività del presente, di non intervenire nella sfera dell'azione. Di fronte a ciò, si pensi alla «legge contro il cristianesimo», che Nietzsche proclamerà rabbiosamente pochi mesi dopo! Qui invece si dice che l'ideale cristiano deve continuare a esistere, perché sono necessari forti avversari; si raccomanda di lasciare ai mediocri il gusto della loro mediocrità, e si dichiara che l'odio contro la mediocrità è indegno di un filosofo; si dice che la stupidità e la delinquenza devono crescere, e che in ciò sta il progresso. Il livellamento dell'umanità, il mito dell'uguaglianza è qualcosa di buono, deve estendersi sino allo sfruttamento massimo dell'uomo, sino al raggiungimento di una macchina totale, perché soltanto così può sorgere un contromovimento. Nella contemplatività di questo suo ultimo inverno mediterraneo di pensatore, Nietzsche giunge ancora più in là, per il distacco da sé e dalle sue 'convinzioni'. Parecchi frammenti ci presentano addirittura un'inversione profetica del suo immoralismo. Profetica, perché sembra anticipare un problema dei nostri giorni. Se l'immoralismo trionfasse, se i 'molti' diventassero immorali, che si dovrebbe dire della virtù? In tal caso infatti l'immoralità dei molti diventerebbe 'moralità'... Ad affrontare questo problema proprio Nietzsche l'immoralista viene in aiuto, quando inaspettatamente egli dice che l'ascesi, il digiuno, il chiostro sono stati rovinati dalla Chiesa; quando esalta la virtù come avventura, come finezza, scaltrezza, avidità di potenza; quando loda il bene come lusso, raffinatezza, vizio; quando ci dice che l'intolleranza contro i preti ha fatto il suo tempo — proprio perché è immorale credere in Dio si giustifica la fede... La virtù ha contro di sé gli istinti dell'uomo mediocre, non è un ideale per tutti; essa isola, è affine alla passione, è il peggior vizio. «Alla fine che cosa ho ottenuto? Non nascondiamoci questo stranissimo risultato: ho conferito alla virtù una nuova attrattiva: essa agisce come qualcosa di proibito. La virtù... ha un profumo antiquato, anticheggiante, sicché finisce ormai con l'allettare e rendere curiosi i raffinati; — insomma agisce come vizio. Solo dopo aver riconosciuto in tutto la menzogna e l'illusione, ci è consentito riavvicinarci a tale bellissima falsità, quella della virtù» (10[110]).

I FRAMMENTI POSTUMI DAGLI INIZI DEL 1888 AL GENNAIO 1889

I frammenti postumi contenuti in questo tomo si legano strettamente, per continuità cronologica e per i temi trattati, a quelli del tomo precedente. Insieme, essi costituiscono il vasto deposito di materiale onde Nietzsche trasse o sceverò i suoi ultimi scritti pubblicati, o destinati alla pubblicazione. Questo materiale di costruzione, caotico, ammucchiato con impegno incredibile, sorprende per la volontà di realizzarsi che vi sta dietro, che esso rivela. Teoreticamente, i frammenti di questo tomo tradiscono un riflusso, rispetto a quanto Nietzsche aveva scritto nei mesi precedenti; in compenso vi affiora gradualmente un elemento nuovo, la narrazione autobiografica, la documentazione personale come ingrediente filosofico, o addirittura come risoluzione catartica. È come se Nietzsche si fosse stancato di maneggiare concetti astratti: lui aveva ricavato, da quei gusci dei filosofi, tutte le combinazioni possibili, e in particolare tutti gli accostamenti più paradossali, più stridenti. Ma alla fine i concetti erano sempre quelli, non si poteva ormai, o lui non poteva, ricavarne altro. Esplorare altre sfere dell'astrazione gli parve futile, forse troppo faticoso, ma soprattutto ciò richiedeva troppo tempo. Lui ormai aveva fretta, e d'altra parte gli sembrava di aver schiacciato tutte quelle noci: i concetti della morale, della logica, della metafisica erano stati demoliti dal suo scetticismo, e alla fine ne erano stati coinvolti gli stessi concetti che avevano guidato la sua distruzione.

Attraverso questi frammenti si scopre l'altra faccia del filosofo, quella che Nietzsche voleva tenere nascosta: un assetato di vita che si condanna all'astrazione, che in questa è costretto a cercare i suoi stimoli, uno che trasforma in ombre esangui tutto ciò che tocca. Alla fine, sazio di parole, di gusci vuoti, senza compagni, per trovare la vita deve tirarla fuori da se stesso. Qui, di fronte a questo materiale postumo, nell'ultimo anno in cui Nietzsche pensa e scrive, è come se noi penetrassimo nel laboratorio in cui egli va sperimentando tecniche nuove: prima dello scatenamento espressivo finale, quando sorgeranno all'improvviso gli edifici degli ultimi scritti, in fondo nuovi allettamenti per coinvolgere altri, il mondo, nelle vicende del suo cervello, ecco ora l'uomo solo con se stesso, schiacciato dalle sue ripetizioni, incerto sulla via da prendere, a corto di espedienti, imprigionato e paralizzato dalle reti delle sue argomentazioni. Era giunto propriamente a un punto morto, perché non riusciva, per una via ancora razionale, a evadere dagli universali troppo maneggiati — «scienza», «arte», «filosofia», «decadenza», «morale», e così via — né verso nuove, illuminanti differenze specifiche, né verso la purezza delle categorie logiche. La sazietà di questi contenuti lo sospinge verso l'interiore: lo si vede accanirsi, nei frammenti della primavera 1888, alla ricerca di un'ispirazione che insorga durante la scrittura (contrariamente al suo insegnamento), lo si osserva ripresentare stancamente enunciazioni, critiche, schemi, programmi già formulati più volte, ritornare a impostazioni gnoseologiche già superate, e persino rinnovare confutazioni scontate delle dottrine cristiane. In questa desolazione, in cui tutti gli strumenti e gli oggetti astratti da lui manipolati gli sembrano consunti, inutilizzabili, solo rivolgendosi alla propria persona trova qualcosa di palpitante. Questa è una tecnica disperata, per raggiungere quello stato in cui da lui potesse fluire il miracolo letterario, stilistico, in cui potessero confondersi forma e contenuto.

Così vediamo emergere nel materiale postumo il ricordo di Wagner, i primi ripiegamenti sulle vicende della sua vita, una serie di effusioni liriche frammentarie. E in modo paradossale la regressione teoretica suscita formulazioni dottrinali finalmente nuove, in cui, dietro l'apparenza di una superficialità brillante e tracotante, si cela una profondità immersa in una regione inesplorata. Che il valore di un filosofo, di un artista risieda in un elemento personale, non tanto in un comportamento, quanto nella sua natura, nel suo carattere, è un'indicazione che tende a superare la letteratura, o comunque l'espressione mediata, a favore di una manifestazione diretta della sapienza, della superiorità di una sapienza fisiologica. Questa è la dottrina nuova, sebbene troncata sul nascere, che Nietzsche raggiunge nel suo ultimo anno. Che l'eccellenza, la forza dei pensieri di un filosofo discenda dalla genialità della sua alimentazione sembra una paradossale esaltazione di un banale modulo materialistico o positivistico. Ma sono forse positivistici i discorsi sul nutrimento che troviamo nelle Upanishad?

Perciò il aiscutere di alimentazione non è per se stesso un segno di una deviazione patologica in Nietzsche: è un accenno serio alla sazietà dell'astratto, all'insorgere di nuovi sguardi, di nuove esigenze in un filosofo. Del resto si sa che presso gli Indiani la disciplina della respirazione rientra nella tecnica per conseguire la suprema conoscenza. In un senso più generale, questo ripiegarsi di Nietzsche sulla propria persona, dentro la propria persona, è il cammino seguito da ogni misticismo filosofico, sebbene Nietzsche sappia mascherarlo mondanamente, con una raffigurazione illusionistica. Nietzsche rientra in se stesso, e scopre nuovi paesaggi. Ma non si tratta di una risoluzione, di una pacificazione, poiché questo ritrarsi è parziale, riguarda una faccia soltanto di un individuo ormai sdoppiato.

Nietzsche non può abbandonarsi a una disposizione mistica: un inappagamento, una tensione, una lacerazione interiore glielo impedisce. Nel suo pensiero, prima ancora del dissesto vero e proprio, interviene gradualmente un'anarchia dei contenuti. I frammenti postumi scritti in questi mesi ne offrono testimonianza. Da un lato ritornano i cenni di approfondimento della tematica della Nascita della tragedia, già affiorati nell'inverno 18871888, con cui Nietzsche tende a superare la concezione della volontà di potenza in una filosofia della menzogna. Secondo questa prospettiva arte, religione, filosofia, scienza sono altrettanti aspetti di una tendenza universale alla menzogna. Era, teoreticamente, un passo avanti, ma lui si fermò a questi accenni, non vi furono sviluppi. Per contro, in questo stesso periodo, talora ritornano lodi della scienza (accanto a biasimi) — senza l'aggiunta di argomenti nuovi — che denunziano una regressione, di fronte a precedenti obiezioni; così pure si ripresenta un'antitesi tra scienza e filosofia, risolta a favore della prima. Inoltre le critiche alla contrapposizione tra mondo «vero» e mondo «apparente», cui sono dedicati parecchi di questi frammenti e che ritorneranno nel Crepuscolo degli idoli, sono teoreticamente fiacche, illusionistiche, comunque inferiori ad altre argomentazioni già da lui formulate. La stessa cosa si può dire riguardo alle critiche del concetto di casualità, che riprendono moduli scontati. Talvolta infine ci sembra quasi di trovarci di fronte al Nietzsche di dieci anni prima, lo vediamo accanirsi lungo filoni di esegesi positivistica. Rivelatore di questo aspetto regressivo è un passo in cui Nietzsche contesta la «creazione » del mondo: sembra strano che, giunto a questa fase del suo pensiero, lui si soffermi su un tale problema, anche solo per un istante.

Tutto questo materiale, è noto, era raccolto da Nietzsche in vista del progetto di una grande opera, la Volontà di potenza. Ma evidentemente Nietzsche, riguardo a tali frammenti scritti nella primavera del 1888, dal punto di vista quantitativo assai consistenti, non giudicò di aver fatto un passo decisivo verso l'attuazione del suo progetto. Si direbbe piuttosto il contrario, che lui sentì ormai come più lontano il suo scopo. Mancano qui i segni di un tentativo articolato di ordinamento del materiale, le rubriche, le numerazioni dei frammenti che troviamo invece nei quaderni dell'inverno precedente. La discussione teoretica del concetto di volontà di potenza è interrotta, con l'eccezione di pochi frammenti. Dopo qualche tempo il «grande» progetto sarà abbandonato, si frammenterà nella realizzazione di una serie di scritti. Ma più ancora della sfiducia in un tentativo sistematico che ripugnava alla natura più profonda di Nietzsche, e forse anche della constatazione di una sua impotenza, di una sua debolezza in proposito, più ancora della demolizione di concetti basilari, che eran serviti da strumenti per la sua ricerca e che ora, attraverso la sua scepsi corrosiva, gli si sbriciolavano tra le mani, come si può osservare in questi frammenti per il concetto di azione, e persino per quello di volontà, più di tutto contò in quel momento, riguardo alla rinunzia alla Volontà di potenza, l'intervenire di un senso di vuoto, di un impoverimento teoretico, la mancanza di intuizioni nuove, di invenzioni astratte. Nei quaderni di questi mesi sorprende la frequenza con cui Nietzsche traccia i possibili frontespizi della sua opera progettata, annota gli schemi dei contenuti delle varie parti, la successione dei capitoli, e tutto ciò con ripetizioni quasi testuali, con una tematica monotona, da lui risaputa, con sintesi di argomentazioni che ritornano continuamente. La sua volontà lo inchioda al tavolo di lavoro: in questo inaridimento, sono più gli schemi che butta giù sui quaderni che non gli svolgimenti articolati, ricchi, scritti per fermare qualcosa che avesse meditato in precedenza. Anche la sua abituale ricerca di stimoli attraverso le letture sembra declinare in questo periodo: tuttavia il libro di Jacolliot sul codice indiano di Manu gli fa un'impressione assai forte, anzi eccessiva. Le tracce di questa lettura sono numerose nei quaderni, e passeranno anche nel Crepuscolo degli idoli. Di fronte all'ingrandimento di prospettiva con cui Nietzsche considera qui tale legislazione, non si può fare a meno di pensare all'esaltazione di cose e persone che caratterizzerà l'ultimo periodo torinese. In questa circostanza tutto fu suscitato dalla casualità di una singola lettura.

Nelle ultime pagine di questo tomo si trovano i frammenti che documentano (assieme alle lettere dello stesso periodo) il passaggio alla follia. Già prima è possibile rintracciare segni di un tragico dissesto mentale, per esempio nella «Legge contro il cristianesimo», oppure, emblematicamente, nella violenza di certe sue dichiarazioni contro gli antisemiti. Eppure ciò che suscita meraviglia è l'esiguità dei testi propriamente patologici. Si tratta di poche pagine dedicate alla «grande politica», in cui si proclama una guerra mortale agli Hohenzollern. In altre parole, «quasi» nello stesso tempo in cui Nietzsche esce di senno, cessa anche di essere letterato. Chi ha vissuto scrivendo, non può cessare di colpo di scrivere, se la malattia glielo concede: l'inerzia lo trascina ancora per un poco. In questo tragico, repentino passaggio si può avvertire solo una lieve sbavatura nei confini tra il sano e l'insano. Per il resto ogni ipotesi è possibile, a cominciare dal suggerimento che in ogni sua epoca, e in ogni sua opera, Nietzsche scrive come «un posseduto dal dio», ossia, secondo la visione dei Greci, come rapito dalla «mania»; nel dettaglio, quanti passi dell'Ecce nomo appaiono folli a un occhio freddo, sobrio, e si rivelano come allusioni esoteriche, simboli di un'arcana tragedia, trasposizioni gestuali, per chi voglia e sappia concedersi a un'altra comunicazione?

DITIRAMBI DI DIONISO

Nietzsche poeta non è altra cosa da Nietzsche filosofo, e neppure alcunché di più essoterico. Al contrario, la mancanza di un appoggio concettuale rende più difficile l'accostamento. Chi ama la disarticolazione dell'intuitivo, il lampeggiamento dell'intensità, può comunque azzardarsi sulla strada dell'espressione versificata. Se è possibile cogliere il tutto attraverso una singola manifestazione, se si può afferrare sinotticamente un mosaico di parole come cifra per disserrare un'impervia interiorità, è certo che molte immagini della poesia di Nietzsche, passaggi ritmici, molti accenti ironici, aspri, struggenti, assurdi, sognanti, offrono al riguardo un materiale ricco di suggestioni. Bisogna però contentarsi di un'esperienza non verificabile; dare giudizi su questa espressione poetica, per esempio sul suo livello estetico, è già temerario per l'irripetibilità di quegli stati interiori, e mal si giustifica inoltre proprio perché tale poesia si congiunge intrinsecamente a tutta la prosa di Nietzsche e a molte altre cose sullo sfondo, ossia per sé manca di una autentica autonomia espressiva. Né dire questo suoni come sottovalutazione, perché chi osa comunicare certi contenuti va incontro, per la natura delle cose, a uno scacco espressivo. Bene infatti dice Platone, che cita Omero per dare solennità alla sua sentenza: «... quando si vedono opere scritte di qualcuno... si deve concludere che esse non erano per costui la cosa più profonda, se questi è veramente profondo, e che questa cosa più profonda riposa nella regione più bella di lui; ma se veramente egli mette per iscritto il frutto della sua profondità, 'allora è certo che' non gli dèi, ma i mortali 'gli hanno tolto il senno'». Del resto Nietzsche, a parte gli episodici Idilli di Messina, non pubblicò versi se non per un fine architettonico, ad accentuare un elemento di giocosità e lievità, oppure ad allentare una tensione in modo effusivo, nell'àmbito di elaborati scritti in prosa. Nella sua opera la poesia è collaterale, al più complementare. In certi momenti pensò anche a un libro di sole poesie, ma tali progetti furono abbandonati. Eppure alla fine questo atteggiamento, che sembra di resistenza all'allettamento della poesia, viene smentito nei Ditirambi di Dioniso, che sono l'ultimo scritto da lui destinato alla stampa, ultimo al punto che, negli stessi giorni in cui ricopiava nitidamente il manoscritto, con pieno controllo e vigilanza pedante, Nietzsche già inviava, per uno stupefacente sdoppiamento, lettere e messaggi dissennati.

È vero d'altro canto che in questi ultimi giorni di vita cosciente Nietzsche non compose i Ditirambi (che erano già stati scritti nell'epoca di Così parlò Zarathustra e nel corso dell'ultimo autunno torinese), ma soltanto li raccolse e dopo qualche aggiunta e correzione li ricopiò. Bisogna dunque guardarsi dal parlare di una trasfigurazione finale nella poesia. Se la vita letteraria di Nietzsche si chiude sotto il segno della poesia, la cosa va interpretata seguendo anzitutto le indicazioni che Nietzsche stesso fornisce riguardo al termine «poesia». Inoltre si ricordi che i Ditirambi di Dioniso, come scritto destinato alla stampa, seguono da vicino la conclusione di Ecce homo, di un'opera cioè in cui l'interesse per problemi oggettivi di pensiero si rovescia in una sovreccitata contemplazione della propria persona, che di tali problemi diventa l'abbreviazione, il compendio visibile. Un evento, tra il mistico e il patologico, sta alla base di quest'ultimo processo involutivo. È come se i nodi teoretici d'un tratto si fossero allentati, addirittura sciolti; l'assillo dei problemi che negli ultimi anni invano egli aveva cercato di circoscrivere, di dominare, improvvisamente risulta svanito, il grande progetto di elaborare una filosofìa sistematica è lasciato cadere senza che trapeli nessun turbamento profondo, nessuna indecisione al riguardo, senza segni di crisi. Forse è subentrata una sazietà di fronte ai tormenti e agli allettamenti della ragione, l'ansia di mettere a nudo le radici dell'agire umano si è spenta, forse la verità stessa cessa inavvertitamente di essere desiderabile; oppure si tratta di impotenza, come quella di un cacciatore che ha esaurito le sue frecce. Notevole è che questo scacco, come dopo tutto doveva essere sentito l'abbandono di un progetto lungamente perseguito, non si accompagni per nulla a un rilassamento, a uno stato di depressione, ma si manifesti al contrario in un sentimento di leggerezza, come per un grave fardello deposto, anzi in un'esaltazione e in un'euforia irreversibili. Qui si innesta il patologico, poiché un impeto visionario presenta la frustrazione come una conquista, mediante una trasposizione aberrante che tende freneticamente a rapide realizzazioni letterarie. L'aspetto mistico della questione è il sostituirsi quasi materiale della propria persona ai suoi problemi: in modo allucinatorio Nietzsche vede se stesso come staccato da sé. «E così mi racconterò la mia vita», si dice all'inizio di Ecce homo. La lotta filosofica per abbracciare un universo di relazioni, per ridurle in cifra si è arenata, il tormento si è mutato in baldanzosa lievità, poiché l'oggetto arcigno è stato soppresso, il soggetto è diventato oggetto docile che si lascia raccontare.

I Ditirambi di Dioniso sono l'ultimo prodotto di questa inversione. Ora che la verità è stata congedata, rimane aperta la strada, proprio secondo la prospettiva di Nietzsche, alla menzogna della poesia. E ora che il personaggio Nietzsche prende il posto di tutti gli oggetti, è inevitabile un'effusione lirica, una lirica tuttavia condizionata dall'evento sopra descritto, per cui la comunicazione non riguarda in modo primario gli stati interiori del poeta, quanto piuttosto l'«aspetto» che questi assumono agli occhi di uno spettatore che contempli il personaggio NietzscheZarathustra. Questo distacco di chi è congiunto, questo guardarsi allo specchio in una sospensione crepuscolare si accorda del resto con l'insolita forma lirica dei Ditirambi, dove viene usato il «tu» mentre si attenderebbe l'«io», e addirittura si intessono pseudodialoghi, quasi a dare un'apparenza drammatica al contesto lirico. E chi si rivolge, beffardo o compassionevole, con moniti o esortazioni, al personaggio NietzscheZarathustra? Non Nietzsche stesso, ma una voce che parla attraverso di lui, la voce del dio da cui i Ditirambi traggono il nome: si tratta forse dell'oscura presenza sovrumana che Nietzsche avverte vicino a sé, incombente e minacciosa, anche in altri momenti della sua vita? Ma nei Ditirambi l'esaltazione rifluisce talora in atteggiamenti sognanti, ed è il motivo dello scacco già accennato, che nel momento del suo primo verificarsi era rimasto inavvertito, cui allora tocca di manifestarsi. E non soltanto negli accenti di melanconia, nello struggimento della solitudine, nel presagio di un tramonto imminente, ma talora anche nella sensazione angosciosa di chi — nella ricerca della verità — è caduto in una trappola mortale e senza uscita. Tutto ciò rende difficile una considerazione dei Ditirambi come semplice opera di poesia. Manca una sufficiente caratterizzazione di forma e di contenuto. Quest'ultimo è sfrangiato in ogni direzione, condizionato all'estremo, e quanto alla forma, resta l'impressione che Nietzsche non vi abbia applicato la punta più acuminata della sua volontà. La base è data da un materiale improvvisato, da una serie di notazioni istantanee di stati d'animo, ma non si rintraccia qui, come di regola altrove in Nietzsche, il grande tormento dell'astrazione. La forma del verso, usata con estrema libertà, ma entro una cornice ritmica che si richiama al modello greco, non raggiunge tuttavia l'ultima evanescenza, un'astratta lievità. In Così parlò Zarathustra, dove un immenso bagaglio di pensiero astratto era stato ricondotto alle fibre dell'immediato onde germoglia, il risultato espressivo era stato più alto, poiché, inversamente e paradossalmente, la comunicazione dell'interiore costituiva un distacco finale dai presupposti razionali, e l'accento mistico concludeva l'oscillazione del riflusso creativo, dell'astrazione artistica. Qui nei Ditirambi, dove i contenuti della ragione non entrano nel giuoco, dove il nesso col pensiero astratto è taciuto, dovrebbe avvenire l'opposto e l'astrazione, con una fuga dall'interiorità, dovrebbe questa volta essere restaurata nell'espressione. La cosa riesce invece imperfettamente a Nietzsche, all'infuori di isolate punte espressive, come le divagazioni grottesche nelle « Figlie del deserto» (composte del resto alcuni anni prima). La maschera, la menzogna del poeta è invocata, ma non raggiunta, perché ciò che dovrebbe venir celato, la terribilità di un destino umano, l'angoscia di un individuo a brandelli che scrive poesie, risulta al contrario tanto più evidente.

LE OPERE E GLI SCRITTI POSTUMI DEL 1888

Questi scritti suonano come un «finale» tempestoso: precipitandosi, incalzandosi in una successione serrata, che poi d'improvviso si tronca nel silenzio definitivo. Il contrasto fra progetti anteriori di vasto respiro e una realizzazione frammentaria, affrettata, dove l'elaborazione in compostezza, secondo l'interesse oggettivo di un'opera, viene sovrastata dall'ansia di un immediato agire, è il primo segno di un'involuzione incontrollabile. Assieme all'infittirsi nel tempo — in meno di un anno cinque o sei scritti appaiono a Nietzsche come autonomi e completi — è naturale che ciascuno di questi si accorci nell'estensione rispetto alle opere precedenti, lungamente organizzate con sapiente architettura. L'impazienza di pubblicare ottunde il senso architettonico. E parallelamente indietreggia la tendenza teoretica, in certo senso addirittura sistematica, che all'epoca di Al di là del bene e del male e della Genealogia della morale aveva preparato nuovi sviluppi, con l'appoggio di una massa cospicua di appunti, frammenti, abbozzi. Nel 1888 Nietzsche si getta in una situazione che risulta senza scampo — prima ancora che fisiologicamente — per la sua vita come pensatore, cioè per il rapporto tra il suo pensiero e la sua azione letteraria. Il nodo paradossale della sua esistenza, quello che lui stesso ha chiamato «inattualità», a questo punto lo stritola. Poi che è la natura doppiamente anomala di tale inattualità ad aggravare sempre più una lacerazione iniziale, che qui diventa distruttiva.

Questo è il sostrato patologico di Nietzsche, che sin dalla Nascita della tragedia si rivela in forma blanda. Tutti i valori messi in alto dal presente sono degni di disprezzo: tale è la formula della sua «inattualità», quasi il filo conduttore del suo pensiero. È duro vivere con questa convinzione, ma diventa addirittura impossibile, quando si tenda con volontà rabbiosa a imporre tale convinzione al proprio presente, ossia ad attualizzare l'«inattualità». Questo è assurdo, ma appunto questa è la sotterranea deviazione patologica di Nietzsche. Ciascuno può ridere del proprio presente come gli pare, e molti già l'hanno fatto in piena tranquillità d'animo. Ma non si può pretendere che il presente si convinca di ciò e disprezzi in tutto e per tutto se stesso. Tutte le opere di Nietzsche, anzi, si possono considerare come tappe di uno sviluppo, attraverso cui vengono chiariti i termini della sua inattualità, o positivamente, con l'evocazione di una esperienza radicalmente eterogenea rispetto al presente, mediante la visione dionisiaca della tragedia, e più in generale, mediante la concezione «umana» degli antichi, o negativamente, con il progressivo smantellamento degli «idoli» che stanno alla base dei valori e delle fedi del mondo moderno, ossia morale, cristianesimo, metafisica, arte, democrazia, progresso. Tutto quello che Nietzsche scrive dagli anni di Basilea sino alla Genealogia della morale è una illustrazione della sua «inattualità », ma i suoi accenti raramente raggiungono la compostezza, il distacco, la contemplatività che si addicono a un tale compito. Sembra spesso che la contestazione conoscitiva del presente miri altresì a una soppressione effettiva del presente. L'infatuazione giovanile per Wagner e il tono profetico dello Zarathustra tradiscono tale sotterranea aspirazione a un agire diretto. Per questo la sua inattualità è così «attuale» : mentre disprezza il mondo moderno, Nietzsche lo prende terribilmente sul serio, si cala personalmente nel problema dell'oggi, vuol diventare lui stesso a ogni costo un problema di oggi.

Ed ecco la cosa più singolare: proprio quest'ultimo atteggiamento di Nietzsche è ciò che ha suscitato nel nostro secolo un interesse quasi morboso per lui. Il suddetto intreccio degenerante, l'interno dissidio senza risoluzione spezza alla fine l'unità del suo organismo pensante; di quest'ultimo travaglio sono testimoni significativi gli scritti del 1888. Qui inattualità e attualità non trovano più una conciliazione espressiva controllata, si spingono in direzioni contrastanti verso due punti estremi. Il demone dell'inattualità infuria e si manifesta come assolutamente personale, aggressivo, violento. Il miraggio teoretico della volontà di potenza è troppo oggettivo (troppo staccato dal presente!); nel Crepuscolo degli idoli e nelì'Anticristo viene dissolvendosi la consistenza stessa, l'attendibilità dottrinale del concetto di «volontà» ; ogni costruzione teoretica sembra abbandonata, né ora offre più un sufficiente appagamento quello che in precedenza era stato contemplato come un punto di arrivo, l'ideale del sovrano scetticismo. Al mondo moderno egli non dichiara il suo disprezzo, ma lo grida. Non si limita a dire, in termini ancora controllati: «che cosa desidera anzitutto, e in definitiva, un filosofo da se stesso? Di superare in se stesso il proprio tempo, di diventare "senza tempo"», ma esplode poi senza ritegno: «e per non lasciare nessun dubbio su che cosa io disprezzo, su chi io disprezzo: è l'uomo di oggi, l'uomo di cui fatalmente io sono contemporaneo. L'uomo di oggi — soffoco per il suo fiato impuro... il mio sentimento si rivolta, erompe, non appena entro nell'età moderna». Cosicché tutti gli elementi teorici si irradiano in modo ormai scoperto da una nausea, un ribrezzo verso il presente, e questo stesso ribrezzo viene trasformato, sedimentato nel suo problema centrale, il problema della décadence. La chiave di quest'ultimo è il cristianesimo, la forza che ha prodotto il nostro presente e la sua molla intrinseca, per quanto variamente mascherata. Nietzsche ha bisogno di individuare con precisione il suo nemico, di semplificarlo, di unificare il bersaglio polemico, contro cui scaricare il suo odio per il presente. Di tutto ciò che suscita il suo sdegno egli riconosce un fondo comune, la radice cristiana: è questa che ha corrotto l'arte, i cui istinti sono oggi declinanti, menzogneri, nichilistici, è questa stessa radice che ha nutrito gli ideali ascetici della metafisica, che ha costruito la nostra morale e la nostra visione del mondo, fondate sulla calunnia della vita, la vendetta e l'ipocrisia, la repressione degli istinti affermativi; infine è ancora il cristianesimo che ha suscitato la grande rivolta degli schiavi, che conduce verso il livellamento democratico.

In tale rigurgito di passionalità la progettata Volontà di potenza perde ogni interesse agli occhi di Nietzsche e viene sostituita, superata, sintetizzata dall'Anticristo. Il problema della décadence è risolto con l'attacco al cristianesimo. E nel trapasso patologico, lui stesso diventa — l'Anticristo. In generale i vecchi temi sono trattati ora in un modo soltanto personale, il pensiero di Nietzsche si identifica qui con la persona Nietzsche. Per questo riemerge prepotente nel 1888, come oggetto polemico, la figura di Wagner. L'intolleranza per l'arte moderna ha come presupposto fisiologico la sua nausea concreta in mezzo all'ambiente wagneriano, ed è a tale esperienza che egli ritorna ora con estrema passione. L'attacco contro la visione morale e politica del mondo moderno, analogamente, è la sedimentazione concettuale di tanti ricordi tormentosi — ora divenuti ossessivi — delle sue esperienze con amici e parenti, soprattutto con la sorella. E così in queste ultime opere, con una generalizzazione letteraria, erompono le invettive proprio contro i Tedeschi e i loro vizi, contro il Reich e gli antisemiti. Tale compenetrazione fra pensiero e persona spiega anche la decisione repentina di scrivere un'autobiografia, l'Ecce homo. I problemi sono ormai rappresentati dalla propria persona e dalle sue vicende, vivono in essa. È a questo punto che Nietzsche perde contatto con la realtà. Risulta chiaro che chi accentui così fanaticamente, rabbiosamente la sua inattualità, e agisca come letterato, non come conquistatore di popoli, strappa in tal modo i suoi legami con il presente, resta isolato, respinto, messo da parte. Qui, dove inattualità e presente sono diventati per lui due poli inconciliabili, dove lui stesso ha reso smisurata la loro distanza, interviene l'allucinazione a convincerlo di una miracolosa convergenza. Egli farnetica che per il suo pensiero, per la sua persona giunge ormai l'attualità — ma in questo è già demente. E tale obnubilazione non riguarda soltanto gli ultimi giorni che precedono la follia, ma quasi tutto l'autunno torinese. Alla fine del settembre 1888 Nietzsche parla di una « grande dichiarazione di guerra», di una «legge contro il cristianesimo» : il momento in cui egli formula quest'ultima segna l'inizio di una nuova èra nella storia del mondo. Si tratta di un'euforia politica: nella fantasia ingenua di Nietzsche la configurazione politica allude alla sfera autentica dell'attualità, di ciò che è realizzato, riconosciuto da tutti. Nelle lettere di amici e conoscenti, analogamente, egli avverte in ogni parola di assenso, di riconoscimento, il segno dell'esplosione della sua fama, addirittura di un capitale rivolgimento storico.

Tutto ciò è noto. Ma quello che Nietzsche ha mescolato nella sua follia, intrecciando l'inattualità con una illusoria attualità, risulta fuorvian te per noi. Negli scritti anteriori al 1888, è lo sguardo rivolto al presente (non importa se in modo critico), è l'aderenza del suo pensiero ai nostri problemi, ciò che ancora oggi suscita interesse per Nietzsche. Per contro la sua inattualità, che è la chiave per capire il suo modo istintivo, primitivo di guardare al presente, non è messa nel conto, oppure viene fraintesa come condanna di qualcosa a favore di qualcos'altro, che per Nietzsche apparterrebbe pur sempre alla negatività del presente. Questo nostro at pretazioni su Nietzsche, che tendono o a recuperarlo, ossia a utilizzare il suo pensiero per una visione che in un modo o nell'altro sorge dal presente e appartiene a esso, oppure a giustificarlo, distinguendo i suoi lati positivi da quelli negativi, affrontandolo sul piano dell'esegesi storica, preoccupandosi degli influssi che partono da lui, delle distorsioni dei seguaci e degli avversari. Il punto essenziale non sta in tutto questo, bensì nel riconoscere la sua inattualità secondo la prospettiva più radicale, che è un allontanamento non da questa o quella posizione dottrinale o interpretazione storica, a favore di questa o quella, ma da tutto quanto è moderno, con un'estensione vertiginosa della sfera della modernità, dove i riferimenti al passato servono a chiarire le condizioni di tale sfera. Non si tratta di vedere a che serve per noi il pensiero di Nietzsche, dove tocca, arricchisce, stimola i problemi moderni: in realtà il suo pensiero serve a una cosa sola, ad allontanarci da tutti i nostri problemi, a farci guardare al di là di tutti i nostri problemi. Poiché i problemi del suo presente sono ancora gli stessi del nostro presente. Negli scritti del 1888 la difficoltà di distinguere la faccia inattuale da quella attuale viene accresciuta dalla confluenza visionaria cui si è accennato. Tuttavia quella lacerazione, che solo la follia poteva sanare con la visione allucinata del mondo moderno distrutto dall'Anticristo Nietzsche, ha preservato per noi in modo tanto più estremo e violento la faccia inattuale di Nietzsche, ossia quella che «non può» interessare il mondo moderno, poiché è la sua confutazione più radicale, tormulata attraverso una miracolosa prestazione espressiva, dove la più assennata politura stilistica sovrasta lo sfacelo di un individuo. Quest'erma bifronte che ci guarda con gli occhi della follia è l'ultimo enigma del suo autore: ma dietro nell'oscurità, sull'altra faccia, altri occhi guardano indietro, lontano da noi.

L'ANTICRISTO

Se gli istinti contano più delle convinzioni, e se gli uomini non sono uguali — come Nietzsche insegna qui e altrove — allora la differenza fra cristiano e pagano dovrebbe consistere soltanto in un grado minore o maggiore di vitalità, di volontà di potenza. E invece dalla violenza, dalla tensione di questa opera sembra essere presupposto un qualcosa di più forte, che stabilisca l'antitesi: non si tratta di quantità, bensì di qualità. È vero che la tendenza di Nietzsche a ridurre in termini storici contenuti che evadono da tali limiti in parte già spiega la grandiosa semplificazione dichiarata nell'antitesi tra cristiano e anticristiano: eppure rimane qualcosa di misterioso nell'impianto di questo libro, una motivazione oscura che ne potenzia il fascino. Nell'interpretare L'anticristo invece non si è andati tanto per il sottile, mentre andare per il sottile proprio qui, dietro questa presentazione troppo netta, era il compito primario. I più si sono lasciati sconvolgere — di sdegno o di entusiasmo — all'annuncio di una «maledizione del cristianesimo» : i più hanno pensato di sapere già che cosa sia il «cristianesimo» — evidentemente determinati da diverse esperienze — e si sono interessati soltanto del giudizio distruttivo di Nietzsche contro questo oggetto a loro noto.

In realtà, quando Nietzsche scriveva L'anticristo, poteva destare perplessità la violenza del suo attacco. Tale violenza presupponeva un nemico in pieno vigore, mentre già a quei tempi la dottrina cristiana era più risibile che temibile. Che a Naumburg e in mille altri luoghi, dentro la Germania e fuori, vigesse ancora una prassi religiosa e morale che si diceva cristiana, poteva apparire come un segno di inerzia sclerotizzata, un'anticaglia, una sterile sopravvivenza, piuttosto che come una tremenda calamità. Eppure venne il libro di Nietzsche contro il cristianesimo, e fu sconvolgente. Certo qui non leggiamo che è diffìcile pensare un Dio unico, il quale sia diviso in tre persone: ciò che sconvolge, in questo libro, è un teatrale scambio delle parti, per cui proprio coloro che avevano condotto in precedenza attacchi di ogni genere contro il cristianesimo si vedono con grande sorpresa coinvolti nella sua condanna. E proprio perché costoro credevano di aver distrutto il cristianesimo, il sentirsi chiamare cristiani da Nietzsche li fece indignare e vacillare, come accade a colui che, mentre applaude, si sente beffeggiato da chi lui applaude, e mentre vede demolite idee a lui odiose, le sente parificare alle sue proprie. Da allora le cose non sono cambiate: si legge L'anticristo con un sentimento di esultanza — nel veder colpito a morte un nemico tradizionale — che si rovescia in un impeto di ira e di dispetto, quando si trovano additate come cristiane da Nietzsche proprio le tendenze che stanno alla base di quell'avversione per il cristianesimo. Questa è la situazione psicologica — variamente dissimulata nell'intimo — in coloro che leggono anche oggi L'anticristo, e si sentono confusamente attratti e respinti, senza riuscire a sbrogliare questo intreccio di sentimenti.

Perché, poco dopo di aver scritto L'anticristo, Nietzsche ritenne di avere ormai compiuto la tanto vagheggiata «trasvalutazione di tutti i valori»? Forse perché in questo breve momento — prima che la forsennata volontà di realizzare l'inattuale trapassasse nel delirio della follia — gli parve davvero di aver trovato l'espressione decisiva, il cui impatto su coscienze sonnolente potesse appiccare il grande incendio, tradurre in realtà concreta il pensiero del più solitario. Non si sbagliava del tutto, perché il sommovimento provocato da questo libro si propaga ancor oggi. E l'astuzia forse inconsapevole di Nietzsche, per attualizzare l'inattuale, consistette in questo: concentrare ogni maledizione sul nome del cristianesimo, attirando in tal modo contro questo organismo decrepito l'odio di tutti coloro che attendevano soltanto di essere incoraggiati. Ma quelli che avevano o hanno da lamentarsi del cristianesimo sono moltissimi, mentre la prefazione dell 'Anticristo dice: «questo libro si conviene ai pochissimi». L'astuzia consiste dunque nell'eccitare i moltissimi con un libro destinato ai pochissimi, o in altre parole, nel proporre come obiettivo da distruggere il cristianesimo, bersaglio strettamente collegato da Nietzsche a molti altri, verso cui i sedotti dal verbo anticristiano non si sentono per nulla in contrasto. Cristianesimo viene così a implicare morale, metafìsica, giustizia, uguaglianza degli uomini, democrazia, in breve assomma in sé i valori del mondo moderno. La distruzione del cristianesimo, per tale ragione, è davvero secondo Nietzsche una trasvalutazione 'di tutti' i valori.

Questo machiavellismo di Nietzsche, del resto, è soltanto apparente, riguarda semplicemente un artificio psicologico per accendere grandi passioni collettive. In realtà, come gli è riuscita la vastissima semplificazione storica, con cui 'cristiano' si è caricato di tutti quei significati che si sono detti, e con cui di conseguenza egli ha messo a nudo la cattiva coscienza di tutti gli avversari del cristianesimo? Gli è bastato uno spostamento di prospettiva, a rendere cosi stupefacente la sua diagnosi del cristianesimo: l'uomo antico viene contrapposto all'uomo moderno, la cui condanna riesce più accettabile, se lo si chiama uomo cristiano. E difatti il criterio dell'antitesi — il più vigorosamente efficace tra i criteri — viene stabilito in base alla naturalità, alla salute, alla pulizia degli istinti, cioè in base alla costituzione dell'uomo antico. Ma rimane un problema: se il cristiano è l'uomo che rinnega, opprime, calunnia la natura in ogni suo istinto e pensiero, se il cristianesimo è la contronatura, che cosa dev'essere indicato all'origine di questa corruzione, qual è la radice di questa mostruosa inversione dell'impulso vitale? Come può la natura rinnegare se stessa? Proprio L'anticristo dà una risposta teoretica al quesito. Il cardine supremo su cui poggia il cristianesimo è la menzogna. «Ogni parola sulla bocca di un "primo cristiano" è una menzogna; ogni azione da lui compiuta è un'istintiva falsità». E Nietzsche precisa: «Chiamo menzogna il non voler vedere qualcosa che si vede, il non voler vedere qualcosa così come lo si vede... La menzogna più consueta è quella con cui si mente a se stessi: mentire ad altri è, relativamente, l'eccezione». Questa radice del cristianesimo ha uno sfondo ebraico, testimoniato dall'inizio della Bibbia. «"Tu non devi conoscere" — da ciò deriva tutto il resto». Alla base sta un odio primordiale contro la conoscenza. L'uomo non deve pensare, e poiché il pensiero ha bisogno di ozio e di felicità, il prete cristiano si preoccupa in primo luogo di rendere l'uomo infelice, di torturarlo e di farlo soffrire. E già Paolo parlava contro «la sapienza del mondo». Con ciò l'indicazione suprema dell'Anticristo è conoscitiva, la sua risoluzione è teoretica, in un contesto dove l'interesse pratico appare soverchiarne, attraverso discorsi sulla storia, sull'azione, sul soffrire e il far soffrire, sulla natura e la contronatura. Eppure è ancora il linguaggio storico — e usato stavolta senza astuzie espressive — quello che ci troviamo di fronte nella sezione più appartata dell'Anticristo, là dove si tratta della psicologia del redentore, e si presenta la figura di Gesù Cristo in stridente opposizione con il 'cristianesimo'. Qui il discorso è storico in senso concreto, e l'intuizione di Nietzsche è individuale, sembra togliere il velo da ciò che la tradizione cristiana ha obnubilato e stravolto. Di fronte a questo Cristo, Nietzsche non disprezza, ma si oppone con una trepidazione piena di risonanza («Dioniso crocifisso»!). Il Cristo da lui rivelato non è un fanatico né un negatore, odia la parola ed è estraneo alla cultura e alla dialettica, è fanciullesco, è un folle che non conosce colpa né castigo, non va in collera né oppone resistenza.

Questo Cristo insomma è un mistico - anche se Nietzsche non usa questa parola - la cui verità è soltanto interiorità. Tutto il resto non è che segno, e anche le sue parole sono simboli, per esempio «Padre» e «Figlio»: "con la parola «figlio» è espresso l'immergersi nel sentimento di una trasfigurazione totale di ogni cosa (la beatitudine), con la parola «padre» questo sentimento stesso, il senso dell'esternità e della perfezione”. Non risulta che Nietzsche abbia letto Bohme, ma di fronte a questa sorprendente affinità di linguaggio, a questa poesia dell'interiorità, vacillano le certezze e le presunzioni di aver colto il fondo della sua anima.

 

 

Giorgio Colli

Scritti su Nietzsche

Adelphi, Milano 1980