Luigi Anepeta

Intervista immaginaria a Nietzsche

 

A. Egregio dottor Nietzsche, la ringrazio anzitutto di avermi ricevuto nonostante sia un estraneo. Mi auguro di non toglierle la solitudine inutilmente. Lei non mi conosce, ma io la conosco bene (o penso di conoscerla bene) attraverso i suoi scritti. Mi permetta, dunque, anzitutto di esprimerle la mia ammirazione per la dignità con cui ha portato avanti un’esistenza che, pur avendo avuto momenti esaltanti, ne ha avuti forse più di terribilmente dolorosi.

N. Il dolore, il grande dolore – come sa – l’ho teorizzato come indispensabile viatico per raggiungere l’autenticità con se stessi. Ricordo d’avere scritto: “Soltanto il grande dolore, quel dolore grande e lento che si prende tempo e nel quale bruciamo come legna verde, costringe noi filosofi a scendere nei nostri abissi più profondi e a disfarci di tutta la fiducia, di tutto ciò che è bonario, dissimulante, mite, medio, in cui forse un tempo avevamo riposto la nostra umanità. Io dubito che un tale dolore possa «migliorare»; so però che ci rende più profondi.” Più di una volta, però, ho dubitato che questa teoria, pur vera, in quanto vissuta nella carne, fosse solo un modo per confortarmi e scongiurare un crollo nervoso.

A. Che poi, ahimé, ad un certo punto si è realizzato.

N. Certo, ma quando esso è sopravvenuto io non c’ero più, e non ricordo bene cosa è accaduto.

A. I testimoni attestano che lei ha continuato per alcuni anni a suonare il piano, ma non era quasi più capace di comunicare verbalmente e tanto meno di scrivere.

N. Se ne avessi avuto coscienza, e per quanto abbia amato la musica, mi sarei di sicuro suicidato.

A. L’ho pensato anch’io leggendo un suo aforisma: “Esiste un diritto per il quale noi togliamo la vita a un uomo, ma non ne esiste nessuno per il quale gli togliamo la morte: è pura crudeltà.”

N. E’ crudele sopravvivere a se stessi, ed ancora più essere stato costretto a dipendere da una madre e da una sorella con le quali non c’è mai stata alcuna affinità.

A. Partire da questa circostanza non mi sembra delicato. Sua madre e sua sorella si sono dedicate a lei nonostante le abbia definite, poco garbatamente, “canaille”.

N. Mia madre aveva una natura servile e non sarebbe mai venuta meno ai suoi “doveri”. Mia sorella era ambiziosa e, presumibilmente, ha tratto vantaggio dai diritti acquisiti sulle mie opere.

A. Mi scusi se sono entrato in medias res senza riservatezza. La stimo a tal punto (pur non condividendo parecchie delle sue idee) che non mi asterrò da farle ancora qualche domanda imbarazzante. E’ lei peraltro che ha scritto che l’uomo non deve avere paura della verità, per quanto sgradevole essa sia.

N. La prego, non abbia riguardi.

A. Desidererei sapere, anzitutto, come ha interpretato i malesseri depressivi ricorrenti, che la portavano sul ciglio della disperazione.

N. Non li ho interpretati, li ho vissuti come il prezzo da pagare per esplorare territori che nessuno prima di me aveva osato esplorare. Ho scritto da qualche parte: “Laddove un uomo giunge alla convinzione fondamentale di dover ricevere ordini, diviene credente: in caso contrario sarebbe pensabile una voglia e una forza di autodeterminazione, una libertà della volontà in presenza delle quali uno spirito prende commiato da ogni fede e da ogni desiderio di certezza, abituato com'è a tenersi a funi e possibilità lievi, continuando a danzare anche sull'orlo dell'abisso:” Ma qualche anno dopo ho aggiunto: “Chi lotta con i mostri deve guardarsi dal non diventare con ciò un mostro. E se guarderai a lungo in un abisso, anche l'abisso guarderà in te.” Penso che le depressioni corrispondessero ai giorni – ben squallidi giorni (e notti ovviamente) – nel corso dei quali l’abisso guardava in me.

A. Il suo punto di vista è, al solito, originale, profondo e suggestivo, tanto più se per abisso intendiamo (penso che sia d’accordo) l’intuizione dell’infinito che sottende l’attività psichica umana e, in alcuni soggetti creativi, esercita una sorta di cattura ipnotica senza scampo. Alcuni suoi cultori hanno ricondotto il problema alla estrema tensione intellettuale cui si è sottoposto nello straordinario decennio che ha preceduto la malattia. Interpretazioni del genere mi hanno indotto ad apprezzare maggiormente il suo modo critico di affrontare il problema della verità come un gioco di scatole cinesi. Quelle interpretazioni non sono sbagliate, in sé e per sé: sono semplicemente superficiali.

Se mi consente, però, una pro-vocazione, mi verrebbe da dire che anche il suo punto di vista non è del tutto soddisfacente. Ammettere che una mente impegnata a danzare sull’orlo dell’abisso, vale a dire ad accettare la sfida dell’infinito, debba necessariamente sprofondare nel dolore, nella depressione e alla fine perdersi è una visione romantica dell’attività intellettuale. Che lei abbia affrontato quella sfida giungendo per primo alla conclusione, quasi intollerabile emotivamente, che l’infinito è vuoto di senso e che l’affanno degli esseri umani di riempirlo di significati è un patetico inganno, è una verità inconfutabile. Che, però, il dolore che si ricava da questa scoperta debba provocare una catastrofe psichica implica un nesso tra genialità e disagio psichico che va molto al di là di quello che sembra essere vero. La genialità ha un prezzo in termini di dolore, ma non è sempre lo stesso.

Del resto, la sua prima citazione merita di essere completata. Mi permetta di consultare il testo. Che lei ricordi a memorie le cose che ha scritto con tanta lucida passione non mi sorprende. Ma io non posso pretendere da me altrettanto. Ecco, a proposito del grande dolore, lei aggiunge: “Sia che impariamo a contrapporgli il nostro orgoglio, il nostro scherno e la nostra forza di volontà, come quell’indiano che, per quanto violentemente maltrattato, oppone al suo aguzzino la violenza della sua lingua; sia che di fronte al dolore ci ritraiamo in quel niente orientale ― lo chiamano Nirvana ― che altro non è se non un muto, rigido, sordo arrendersi, dimenticarsi, spegnersi; in ogni caso da tali lunghi e pericolosi esercizi di autodominio si esce diversi, con alcuni punti interrogativi in più, ma soprattutto con la volontà di porre più interrogativi, più profondi, più rigorosi, più duri, più cattivi, più taciti di quanto non si fosse fatto fino a quel momento… Da tali abissi, da tali gravi malattie, dal morbo del dubbio radicale, si esce come rinati, con una nuova pelle, più critici, più cattivi, con un gusto più raffinato per la gioia, con una lingua più tenera per tutte le cose buone, con sensi più vogliosi, con una seconda, pericolosa innocenza nella gioia, più infantili e allo stesso tempo più raffinati di quanto non si sia mai stati.” Mi sembra che lei dia al grande dolore una funzione sostanzialmente terapeutica. Rimane, dunque, un mistero perché alla fine questa terapia non abbia funzionato.

N. Che il grande dolore abbia funzionato come un potente stimolo a risalire dall’abisso, a danzare di nuovo e addirittura a librarmi su di esso, è un’esperienza che ho fatto tante volte da non potere mettere in dubbio il suo significato terapeutico. Perché esso poi abbia assunto progressivamente un carattere che oserei definire maligno, togliendomi la facoltà di pensare e di scrivere, è un mistero sul quale non sono in grado di esprimere alcuna opinione.

A. A riguardo (ben consapevole di difettare di ogni delicatezza), posso permettermi di chiederle quanto c’è di vero nella storia del cavallo battuto dal padrone che lei avrebbe abbracciato a Torino?

N. Mi pone una domanda cui mi riesce difficile rispondere. La memoria non mi soccorre. Dato che la notizia è stata diffusa da testimoni oculari, un fondo di verità deve esserci.

A. Poniamo per ipotesi che sia attendibile. Essa attesterebbe un’identificazione (che oggi definiremmo empatica) con un essere naturale maltrattato dal padrone.

N. Immagino dove intende arrivare, ma questo cosa c’entra con il mio pensiero, che è l’unica cosa cui tengo?

A. Probabilmente non c’entra, però ammetterà che provare compassione per un animale brutalmente percosso e non provarla affatto, anzi disprezzare gran parte degli animali umani, e soprattutto quelli sottoposti a indescribili maltrattamenti (la plebaglia proletaria), sembra una bella contraddizione.

N. Sarei l’ultimo a sorprendermi per una cosa del genere. Nella mia opera, le contraddizioni abbondano, e mi fanno sorridere coloro che non le vedono. Io ho insegnato agli uomini a non avere paura delle contraddizioni, a leggere in esse gli indizi della loro straordinaria complessità e ad utilizzarle per procedere verso una maggiore autenticità. Il mio sentire verso i miei simili (mi auguro che colga l’ironia di questo termine) è stato sempre caratterizzato dall’ambivalenza: il più spesso mi infastidivano, talora mi facevano pena.

A. Forse è questo l’aspetto che più mi ha colpito nel leggere le sue opere. Mi sono sempre chiesto come fosse possibile per un essere così straordinariamente sensibile giungere ad eccessi di crudeltà intellettuale nei confronti dei suoi simili e, soprattutto, come potesse scampare a gravi sensi di colpa.

N. Io non mi sono mai sentito in colpa, e, peraltro, perché avrei dovuto nutrire sentimenti del genere, dato che non ho fatto male a nessuno?

A. La sua inoffensività è fuori di dubbio, ed averla assunta come ispiratore di violenza è una banalità su cui non vale la pena soffermarsi. Un suo grande ammiratore, che ha però egli stesso travisato non poco il suo pensiero, ha avuto un’intuizione geniale secondo la quale gli esseri umani, tutti gli esseri umani, possono sperimentare potenti emozioni che rimangono del tutto al di fuori della coscienza, tanto più se il soggetto non intende in alcun modo riconoscerle.

N. Questa intuizione è implicita in tutta la mia opera.

A. E’ vero al punto che quell’ammiratore, la cui inconscia ambizione di successo era illimitata, ha sfumato alquanto il debito nei suoi confronti. Il problema è (glielo dico con schiettezza) che egli ha scoperto che, tra le emozioni che possono rimanere del tutto inconsce, si dà proprio e spesso il senso di colpa. Egli pensava che il senso di colpa fosse espressione di un’eccessiva aggressività. Ma sbagliava. Se fosse vero, infatti, gli uomini più aggressivi (tra i quali quelli che, purtroppo, travisando il suo pensiero si sono ispirati a lei) dovrebbero essere preda di intollerabili rimorsi, ma non è così.

N. Intuisco che stenta a dirmi qualche verità che ritiene offensiva. Le ho fatto presente di non avere riguardi.

A. La verità è tutt’altro che offensiva, ma non le farà piacere. Per dirla franca: gli esseri sensibili non sviluppano sensi di colpa inconsci in seguito a comportamenti aggressivi, ma anche semplicemente in rapporto a pensieri ed emozioni che violano la dignità degli esseri umani. Le ho espresso la mia grande stima, ma ho dimenticato di specificare che non sono un filosofo né uno studioso di filosofia. Comunque è lei che ha detto che ogni grande filosofia affonda le sue matrici nella storia personale e nell’inconscio dell’autore.

N. Lo confermo, ma intendevo dire che la mia filosofia è stato un perenne tentativo di affrancare la mia natura profonda dai pregiudizi culturali, di permettere ad essa di esprimersi liberamente.

A. Questo è chiaro, ma mi chiedo se, nel perseguire quell’obiettivo, non possa riconoscere di essere andato un po’ fuori misura. Capisco che lei possa essere rimasto disgustato dagli uomini del suo tempo (e forse lo sarebbe ancora di più se vivesse nel nostro mondo). Ricorderà di aver scritto: “A questo punto non posso fare a meno di esalare un sospiro. Vi sono giorni in cui sono ossessionato da un sentimento più tetro della più nera malinconia: il disprezzo per gli uomini. E per non lasciare alcun dubbio su ciò che disprezzo e su chi disprezzo, dirò che si tratta dell'uomo di oggi, del quale sono fatalmente contemporaneo. L'uomo di oggi: soffoco a causa del suo alito impuro…” Ma ha scritto anche:” Chi mai prova avversione verso degli uomini pii, muniti di una robusta fede? Al contrario, non guardiamo forse a loro con silenzioso rispetto e non ci rallegriamo di essi, con un profondo rammarico per il fatto che questi uomini eccellenti sentano in modo diverso da noi? Ma da dove ha origine allora quella profonda, improvvisa ripugnanza senza motivi per chi una volta possedeva tutta la libertà dello spirito e alla fine è divenuto «credente»? Se ci pensiamo, è come se avessimo visto uno spettacolo nauseante che velocemente dovessimo cancellare dall'anima! Non volteremmo forse le spalle all'uomo più venerato, se per questo riguardo ci divenisse sospetto? E in verità non per una condanna di tipo morale, ma per il presentirsi di un'improvvisa nausea e raccapriccio! Da dove l'acutezza di questa sensazione? Questo o quell'altro vorrà forse darci ad intendere che noi al fondo non siamo più del tutto sicuri di noi stessi? Che, in tempo, abbiamo piantato attorno a noi siepi di spine del più pungente disprezzo, affinché nel momento decisivo, quando l'età ci rende deboli e smemorati, non ci sia possibile abbandonare il nostro stesso disprezzo?”

Ecco, penso che lei abbia recintato se stesso in siepi di spine che, alla fine, hanno lacerato le sue stesse carni.

Lo ha fatto con un nobile intento: aiutare l’umanità a fare i conti con la verità della sua condizione e ad abbandonare tutte le patetiche illusioni che ha prodotto per mantenersene al riparo. Ma lo ha fatto, forse, con un eccesso di incomprensione nei confronti dell’umana debolezza, costringendosi ad essere duro, crudele e spietato. Ricorda d’avere scritto: “noi crediamo che durezza, prepotenza, schiavitù, pericoli nelle strade e nel cuore, segretezza, stoicismo, tentazioni e diavolerie di ogni tipo, che ogni malvagità, mostruosità, tirannia, tutto quanto vi è di rapace e di viscido nell'uomo, serva alla sua elevazione quanto il suo contrario”? Non riesco a credere che pensieri del genere esprimessero veramente quello che sentiva. Esprimevano piuttosto la sua intolleranza nei confronti di uno stato di cose che può essere compreso se si tiene conto che la specie umana, costretta dal caso (come lei ha giustamente sottolineato) a cimentarsi con una sfida estrema – vivere nella coscienza dell’insignificanza del tutto – è ancora in uno stadio di sviluppo infantile per accettarla. Al di là di questo, mi sono sempre chiesto come mai la sua straordinaria comprensione nei confronti dei criminali, non si sia mai estesa agli uomini comuni.

N. Penso che lo sappia. E’ la loro codardia che mi ha sempre disgustato

A. Non pensa che il determinismo comportamentale che lei ammette per i primi, debba valere anche per gli altri, e che su questa base si possa giungere ad un’autentica comprensione dell’umano in tutti i suoi aspetti? Per dirla franca: presumo che lei abbia pagato con intensi sensi di colpa inconsci l’eccesso di durezza che si è imposto nei confronti degli esseri umani.

N. Sono a tal punto consapevole della complessità abissale della mente umana, che non escludo nulla. Un’ipotesi del genere, peraltro, mi lascia oltremodo perplesso.

A. Posso fornirgliene (ahimé impietosamente) le prove. Lei non ricorda nulla di quanto è accaduto dopo che la sua mente è precipitata nella follia (che forse è servita solo a impedirle di continuare a scrivere: sarebbe atroce, ma lo penso). Alcuni testimoni però sostengono che lei si sia rimproverato di aver fatto soffrire tante persone e che, in alcuni momenti, abbia sperimentato la paura che qualcuno volesse ucciderla. Oggi è difficile non interpretare questi vissuti se non come espressione di intensi e terribili sensi di colpa.

N. Non rispondo di tutto ciò che può avere detto e fatto l’Altro. Per quanto mi concerne, sono certo di avere amato, a modo mio l’umanità.

A. Di fatto, l’ha amata. Ha scritto: “Trattare tutti gli uomini con uguale benevolenza ed esser buoni senza far distinzione tra le persone, può derivare tanto da un profondo disprezzo per gli uomini quanto da un profondo amore per essi.” Mi consente di affermare che amore e disprezzo per gli esseri umani nella sua anima sono state le due facce di una stessa medaglia, e che lei ha soffocato il primo per la paura di cedere alla compassione? L’ho pensato, peraltro, leggendo un suo aforisma:

“Si deve tener saldo il proprio cuore; se si lascia andare, presto si perde anche la testa!

Ah, dove nel mondo accaddero stoltezze maggiori che presso i compassionevoli? E che cosa nel mondo causò più sofferenza delle stoltezze del compassionevole?

Guai a chi ama e non può collocarsi più in alto della propria compassione!

Così mi disse una volta il diavolo: «Anche Dio ha il suo inferno: è il suo amore per gli uomini».

E poco tempo fa gli sentii dire questa parola: «Dio è morto; Dio è morto della sua compassione per gli uomini».

Così guardatevi dalla compassione: di là s'aduna sugli uomini una nube cupa! In verità me ne intendo di segni meteorologici!

Ma ritenete anche questa parola: ogni grande amore è al di sopra di tutta la sua compassione: perché vuole ancora creare la cosa amata!

«Offro me stesso al mio amore, al mio prossimo come a me» così devono dire tutti i creatori.

Tutti i creatori sono duri.”

N. E’ il mio Zarathustra, la mia anima stessa!

A. Densa di passione, di umanità e di durezza. La durezza, però, alla fine, ha prevalso e lei è sembrato incapace, dall’alto della sua genialità, di capire le debolezze degli esseri umani e, in particolare, la necessità di dare credito a coloro che li hanno preceduti per non ricominciare sempre da capo. Tra le sue straordinarie intuizioni, ce n’è una che mi ha sempre colpito. Suona così: “Il tu è più vecchio dell'io; il tu è stato santificato, l'io non ancora: così l'uomo si spinge verso il prossimo.” Potrà mai l’io venire prima del tu? Il rapporto tra le generazioni postula che l’io riceva dal tu o meglio dal noi i rudimenti per orientarsi nel mondo. Non le sembra un’utopia ritenere possibile per gli esseri umani affrancarsi da tutti i pre-giudizi culturali?

N. Data come è andata a finire la mia vicenda, oggi direi di no, ma rimango convinto che quello che gli esseri umani definiscono come cultura spesso è semplicemente uno strumento di alienazione. Del resto, pare che qualcun altro alla mia epoca abbia sognato un mondo affrancato dall’alienazione religiosa, politica e culturale.

A. Suppongo che faccia riferimento a Karl Marx. Lei ha espresso giudizi implacabili nei confronti dei ricchi borghesi e ancora peggiori nei confronti degli operai. Se avesse avuto modo di conoscere le opere di Marx ne sarebbe rimasto probabilmente orripilato.

N. Penso anch’io.

A. Però anche Marx nutriva l’utopia di un mondo di esseri umani pienamente sviluppati nella loro individualità sociale.

N. Non riesco a capire cosa significhi individualità sociale. L’individuo nasce dal momento in cui si affranca dall’istinto del gregge.

A. Marx ha scritto che l’uomo è un animale a tal punto sociale che può isolarsi solo in società. Intendeva forse dire che l’Altro rimane sempre e comunque il referente dell’Io. Non è un caso che, per rimediare al suo isolamento, lei abbia sentito il bisogno di crearsi degli amici immaginari, gli spiriti liberi.

N. Non li ho solo creati, li ho anche cercati senza trovarne.

A. Penso che intenda in carne ed ossa penso. Gesù e Schopenhauer, per fare solo due esempi, li ha sentiti come spiriti liberi, suoi affini.

N. Sì, certo, ma anche con loro forse non sarei riuscito ad andare d’accordo. Troppa virtù, troppa ascesi. L’amore della vita mi ha impedito di cedere a suggestioni del genere.

A. Il sì alla vita, in effetti, è il suo capolavoro: un sì che non ha alcunché di edonistico e di ascetico, un sì asciutto che si fa carico della condizione esistenziale, dell’essere gettati a caso nel mondo, e, ciò nonostante, comporta l’abbandono e l’apertura a tutto ciò che può dare un senso soggettivo alla vita: la musica, l’arte, la filosofia, la scienza, ma anche l’amicizia, gli affetti autentici. Cosa c’entra tutto ciò con la “la trionfante bestia bionda che vaga alla ricerca della preda e della vittoria”?

N. Basta che mi osservi attentamente per capirlo. Sono piuttosto tarchiato, di altezza appena media, quasi cieco, goffo e inoffensivo. Che io possa aver fantasticato un compenso del genere, non mi sembra incomprensibile. E’ piuttosto incomprensibile che qualcuno questa fantasia l’abbia presa sul serio.

A. Le confesserò che ho sempre pensato che si fosse trattato di una sorta di lapsus.

N. Forse, ma penso di avere nel mio intimo desiderato veramente di essere una trionfante bestia bionda, un uomo d’azione piuttosto che un topo di biblioteca, per quanto ritengo che il mondo sia null’altro che un’inutile biblioteca e che i libri possono essere più violenti di una spada.

A. Non penso che sia il caso di insistere su questo punto. Piuttosto, se mi permette, desidero chiederle un chiarimento su un passo della sua autobiografia (una delle tante) che ha fatto impazzire i commentatori. Risale al 1868 e suona così: “Ciò ch'io temo non è l'orrenda figura dietro la mia sedia, ma la sua voce; e nemmeno le parole, bensì il tono terribilmente inarticolato e disumano di questa figura. Sì, se parlasse almeno come parlano gli uomini!” Si direbbe che lei abbia descritto, una tantum, un’allucinazione.

N. Tra visioni e allucinazioni ho perso il conto. La mente è uno strano congegno. Spesso ho avuto l’impressione che mi portasse dove essa voleva. Riguardo a quell’appunto, non saprei cosa dire. Ho sempre avuto l’impressione di vivere portandomi dentro una popolazione di anime e di demoni.

A. Be’, in effetti oggi ne sappiamo a riguardo più di quanto si sapesse alla sua epoca e più di quanto un uomo, sia pure geniale, potesse arrivare a capire. Comunque, la sua intuizione che nella mente esiste un’esuberanza indefinita di energie che tendono verso lo sviluppo dell’individuo è semplicemente sublime.

N. Ci sono arrivato in conseguenza della mia stessa esperienza. La mia mente è stata iperattiva e incoercibile per un decennio e più. Certo, ritengo ammirevole la mia autodisciplina intellettuale, ma, senza quell’iperattività ingovernabile, sarei diventato un mediocre erudito.

A. E’ probabile. Ce ne sono tanti che leggono e scrivono di continuo, ma non hanno nulla di particolare da dire. Si può essere intellettuali senza essere creativi.

N. La mia solitudine riguardava soprattutto l’incapacità di comunicare con loro.

A. Dicevo che l’esuberanza della mente umana, le potenzialità ridondanti di cui essa dispone, per quanto distribuite diversamente da soggetto a soggetto, possono lasciare pensare che l’umanità dei suoi tempi e quella di oggi sia ancora lontana dalla possibilità di utilizzarle.

N. Non penso che una cosa del genere accadrà mai. Solo alcuni soggetti non ne hanno paura. In fondo, tutta la mia opera verte su questo: sul rifiuto degli esseri umani di riconoscere la loro reale condizione di animali casuali gettati nel caos dell’universo e di vivere se stessi come infinitesimali frammenti infinitesimali di un caos che non ha senso.

A. La valenza esistenzialista del suo pensiero è stata colta ormai in maniera piena e, forse, enfatizzata dai filosofi. Non ritiene però che proprio la condizione che lei ha descritto obblighi gli esseri umani a produrre un quadro di valori condiviso? Pensa veramente che tutti i valori che permettono agli esseri umani di organizzare una vita sociale siano per forza di cose mistificati? Mi rendo conto che è una domanda retorica.

N. Appunto. Io so (per esperienza anche personale) che gli uomini tendono ad ingannare se stessi, e, se si mettono insieme, il pericolo aumenta. Solo l’individuo può procedere verso una qualche autenticità, e per farlo, deve isolarsi.

A. In linea di principio, il suo messaggio – invitare gli uomini a coltivare la solitudine e la loro libertà interiore – è oggi più che mai attuale e inascoltato. Ma, per arrivare a tanto, sembra proprio necessario pagare il prezzo dell’alienazione primaria: appartenere ad un gruppo e interiorizzarne i valori culturali. Lei ha criticato in maniera spietata, e giusta, la cultura tedesca della sua epoca. Ma l’ha criticata utilizzando, in maniera originale e eccellente peraltro, la lingua-madre. Intendo dire che un bambino viene al mondo sprovveduto di tutto, ha bisogno di affidarsi agli adulti, di credere in loro e di prendere per buoni i valori che gli trasmettono.

N. Purtroppo, le cose stanno così. Ma occorrerebbe non ingannarli, i bambini, non raccontare loro favole di ogni genere profittando della loro credulità.

A. Temo che questo sia ancora un nodo che la stringe alla gola. Da adulto è giunto addirittura a negare di avere speso un solo minuto della sua vita sul terreno del problema religioso, ma le sua autobiografie dicono tutt’altro.

N. Se lei conosce bene le mie opere sa che ho scritto: “«Ho fatto questo» dice la mia memoria. «Non posso aver fatto questo» dice il mio orgoglio e resta irremovibile. Alla fine è la memoria a cedere.” Non è certo l’orgoglio che ha difettato alla mia vita.

A. Le pesava tanto riconoscere di avere avuto una fede ingenua e quasi mistica fino all’adolescenza?

N. Non era tanto la fede che mi pesava, ma l’aver scoperto, dopo averla perduta, il grado in cui la mente umana si fa irretire dalle tradizioni e può interiorizzare ingenuamente valori del tutto falsi.

A. E’ per questo che ha sentito il bisogno di sottoporli tutti - religione, morale, filosofia, scienza, arte, ecc. - ad una critica radicale e demolitiva?

N. Ho fatto quello che ritenevo giusto, e l’ho fatto in parte per me e in parte per l’umanità tutta.

A. Ma è questo che le ha assegnato l’etichetta del nichilista, anche se il suo nichilismo è stato compensato dal sì alla vita. Lei sa quali paradossali conseguenze ha provocato il suo nichilismo attecchendo in seno ad una società, quella borghese, che non vedeva l’ora di liberarsi dei valori tradizionali per abbandonarsi alla compulsione dell’edonismo?

N. Il sì alla vita del borghese è il contrario di ciò che io intendo. La cosa mi era già chiara all’epoca. Per questo mi sono messo fuori dal commercio del mondo.

A. E’ evidente che il suo pensiero è stato equivocato in modi molteplici. Ma lo è stato anche dai suoi colleghi e cultori, i filosofi.

N. La cosa mi dispiace, ma non mi sorprende. Da Socrate a Hegel non è ho salvato uno. E penso di essere stato molto chiaro nell’affermare che ritenevo la Psicologia e non già la Filosofia come disciplina dell’avvenire.

A. Il problema è che alla sua epoca la Psicologia non esisteva ancora. In questo senso, è stato un precursore, per quanto gli sviluppi della psicologia (tranne forse alcuni aspetti della psicoanalisi) non l’avrebbero soddisfatta.

N. Per Psicologia intendevo una disciplina che andasse alla radice dell’uomo e ne ricostruisse le vicende a partire dalla sua appartenenza al mondo della natura.

A. La natura umana è ancora relativamente misteriosa. Le farà piacere, però, venire a sapere che la sua volontà di potenza è stata riconosciuta come una spinta motivazionale di base. Oggi si parla di un bisogno di individuazione, la cui funzione è di affrancare l’uomo dall’inesorabile alienazione dovuta all’appartenenza sociale.

N. Sono contento.

A. Lo sarà forse meno se aggiungo, però, che oggi si ritiene il bisogno di appartenenza come altrettanto fondamentale. Per volare nel cielo dell’individuazione occorre che la personalità maturi prima nel bozzolo dell’appartenenza. Senza crisalide, insomma, non si dà la farfalla, lo spirito libero.

N. Ma quanti esseri umani rimangono imbozzolati ancora oggi?

A. Ha ragione. La libertà terrorizza ancora gli esseri umani.

N. Finché li terrorizzerà, il mio messaggio non perderà valore.