Letture marxiane

Lettura V

Marx tra passato e futuro
Che cosa ha detto veramente Marx
Limiti e contraddizioni di Marx
Ideologia e mentalità
Marxismo e psicoanalisi
Marx e l'evoluzionismo darwiniano
Adattamento e iperadattamento
Neurobiologia
Psicologia marxista
Storicismo utopismo e utopia

Che cosa ha detto veramente Marx

La letteratura su Marx è sterminata, ma si può ricondurre in toto ad un quesito univoco: che cosa ha detto veramente Marx? Il quesito ha la sua ragione d’essere non solo in un pensiero particolarmente complesso, e quindi inesorabilmente contraddittorio, bensì soprattutto nella circostanza storica per cui mentre le opere della maturità (Grundrisse e Il Capitale) hanno avuto una lenta ma massiccia diffusione dopo la loro pubblicazione, le opere giovanili (i Manoscritti economico-filosofici e L’Ideologia tedesca) hanno visto la luce solo negli anni '30 del secolo scorso.

Ho già fatto cenno al dibattito, aspro e per alcuni aspetti lacerante, intervenuto in seguito a tale circostanza tra i fautori di una lettura filosofico-umanistica di Marx, alla luce delle opere giovanili, e i sostenitori di una frattura netta tra il Marx giovanile, assunto come un filosofo hegeliano, geniale ma ancora incerto, e il Marx maturo, “scientifico” de Il Capitale.

Ancora oggi, nonostante la caduta del muro di Berlino, il dibattito prosegue. Per rendersene conto, basta pensare a saggi piuttosto recenti (Costanzo Preve, Marx inattuale, Torino 2004; Guido Carandini, Un altro Marx, Bari 2005; Roberto Fineschi, Un nuovo Marx, Roma 2008; J. Attali, Marx, 2008; Reinhard Marx, Il Capitale. Una critica cristiana alle ragioni del mercato, 2009 ) che propongono riletture di Marx più o meno divergenti.

Guido Carandini, per esempio, propone di recuperare la dimensione scientifica del pensiero economico marxiano. Egli scrive "occorre studiare nuovamente Marx per riacquistare una chiara coscienza di come effettivamente funziona la società del capitale e per comprendere quali sono, al di là delle sue eccezionali capacità di favorire la crescita economica, le sue contraddizioni e i suoi limiti." (p. 34) L’invito, presumibilmente poco gradito, è rivolto tra l’altro ai riformisti, affinché desistano dal cercare una Terza Via che non esiste: "Coloro che rifiutano la realtà antagonistica e anarchica o negano la base disuguale su cui si reggono le sorti del sistema capitalistico, e per questo contestano Marx, si precludono la sola possibilità di "riformare" quel sistema. Per paradossale che possa apparire, l’unica strada aperta ai riformisti è quella di prendere Marx alla lettera, ovviamente rinunciando alle fantasie utopistiche che hanno contaminato il suo pensiero scientifico." (id.)

Costanzo Preve, viceversa, individua nell’abbandono da parte di Marx della filosofia, intesa in senso socratico come ricerca continua della verità, a favore di un approccio scientifico alla realtà, un peccato originale reiterato dalla tradizione marxista, che ha impedito a Marx di depurare il suo pensiero da tre nefaste conseguenze prodotte da tale peccato: lo storicismo, l’economicismo e l’utopismo. Occorre dunque ritornare al Marx filosofo: "Senza conoscenza filosofica, e più esattamente senza una pratica veritativa della comunicazione filosofica, non c'è democrazia, e non c'è possibilità di interrogare razionalmente la religione e la scienza. Da sole, la religione e la scienza sono autoreferenziali. Applicate a una ideologia non consapevole di essere tale, esse si trasformano in una quasi-religione e in una pseudo-scienza. Abbiamo troppo a lungo sorriso con complicità a coloro che hanno sempre disprezzato la filosofia, ed erano disposti ad ammetterla solo come epistemologia e/o come ideologia." (p. 199) Solo su questa base, secondo Preve, sarà possibile una riorganizzazione gestaltica del pensiero marxiano che lo riabiliti come pratica filosofica rivoluzionaria in quanto protesa ad una verità cui gli esseri umani possono approssimarsi solo attraverso il dialogo, il confronto, il dubbio sistematico.

Per quanto incredibile, sembra ancora oggi difficile capire cosa ha detto veramente Marx.

A conclusione di queste fin troppo dense conferenze, cercherò di esporre il mio punto di vista singolare nella misura in cui esso postula la necessità di integrare il pensiero di Marx con le scienze umane e sociali più recenti per procedere nella direzione di un sapere panantropologico finalizzato a promuovere - culturalmente, economicamente, socialmente, psicologicamente - un processo di umanizzazione radicale. In questa cornice, il Marx scienziato e il panantropologo si integrano compiutamente.

Nella prima lettura, in un breve accenno al dibattito sul significato prevalentemente umanistico-filosofico o “scientifico” dell’opera marxiana, ho scritto che oggi il Marx “scientifico”, quello dei Grundrisse e de Il Capitale, va rivalutato come un formidabile diagnosta dei mali del sistema capitalistico, anche se la “terapia” che egli ha prescritto - incentrata sul riscatto e sulla presa di potere da parte degli oppressi - non è più agibile. La rivalutazione che, ovviamente, prescinde del tutto dall’adesione al comunismo, viene anche da economisti e studiosi di matrice liberale.

Il significato di tale rivalutazione è abbastanza chiaro. Marx ha già paradossalmente salvato una volta il sistema capitalistico che intendeva abbattere. Ponendone in luce, infatti, la disumanità ottocentesca e animando nelle masse popolari una volontà di lotta e di riscatto, egli ha prodotto, nel seno della società europea, una tensione sociale che ha costretto i governi, all’epoca conservatori e liberali, ad adottare misure legislative riguardo al lavoro, alla salute, all’assistenza e alla previdenza che hanno contribuito ad allentarla e sono esitate, in pieno Novecento, nel Welfare State.

Non è certo un caso che il primo governo a muoversi in questa direzione sia stato, nella seconda metà dell’800, quello dell’ultraconservatore BismarcK nella patria stessa di Marx e con l’esplicito intento di impedire una rivoluzione proletaria.

Legislazioni sociali dello stesso genere si sono diffuse, poi, in tutti i paesi europei, esitando nelle esperienze di Social-democrazia che hanno segnato la storia del Novecento.

Lo sprigionarsi degli “spiriti animali” del liberismo negli ultimi venti anni ha messo alle corde il modello del Welfare, ma ha prodotto anche la crisi economica più grave dopo quella del 1929.

La rivalutazione di Marx, paradossalmente, attinge al suo pensiero per sormontarla, introducendo dei correttivi soprattutto per quanto riguarda il Capitalismo finanziario, segnalato centocinquanta anni fa dallo stesso Marx come matrice di speculazioni e corruzioni senza limite.

Quando Obama tuona contro le Banche, afferma che sarà impedito ad esse di continuare a fare i loro giochi (implicitamente sporchi) a danno del bene comune, e si prefigge di tassare i loro guadagni speculativi, senza saperlo adotta un linguaggio marxista. Tutti, peraltro, riconoscono che la nazione che ha meglio reagito alla crisi economica è stata la Cina che, pur essendosi aperta al mercato, mantiene un potere di controllo politico sull’economia nazionale e ha una sola Banca centrale.

Occorrerebbe soffermarsi a lungo su questi aspetti, ma non è il caso di farlo. La rivalutazione di Marx come analista economico è un tributo importante al suo genio, ma non coglie l’essenza del suo pensiero.

Qual è questa essenza? La domanda è fondamentale perché la tradizione dogmatica e il senso comune influenzato dal liberismo la riconducono all’abolizione della proprietà privata e all’instaurazione di un regime politico che, per arginare gli squilibri sociali prodotti dall’individualismo borghese, inesorabilmente reprime la libertà individuale e fa regredire la società verso uno stato stazionario di povertà generalizzata.

Non è opportuno qui analizzare le esperienze storiche, a partire da quella sovietica, che hanno prodotto nell’immaginario collettivo l’associazione tra comunismo, dittatura e miseria. Basterà dire che esse hanno applicato pedissequamente il programma di Marx esposto nel Manifesto tradendone, però, non solo lo spirito, ma anche la lettera. Già nel 1848, Marx scrive scrive:

“Il primo passo sulla strada della rivoluzione operaia consiste nel fatto che il proletariato s'eleva a classe dominante, cioè nella conquista della democrazia.

Il proletariato adopererà il suo dominio politico per strappare a poco a poco alla borghesia tutto il capitale, per accentrare tutti gli strumenti di produzione nelle mani dello Stato, cioè del proletariato organizzato come classe dominante, e per moltiplicare al più presto possibile la massa delle forze produttive.

Naturalmente, ciò può avvenire, in un primo momento, solo mediante interventi dispotici nel diritto di proprietà e nei rapporti borghesi di produzione, cioè per mezzo di misure che appaiono insufficienti e poco consistenti dal punto di vista dell'economia; ma che nel corso del movimento si spingono al di là dei propri limiti e sono inevitabili come mezzi per il rivolgimento dell'intero sistema di produzione.

Queste misure saranno naturalmente differenti a seconda dei differenti paesi.

Tuttavia, nei paesi più progrediti potranno essere applicati quasi generalmente i provvedimenti seguenti:

1.- Espropriazione della proprietà fondiaria ed impiego della rendita fondiaria per le spese dello Stato.

2.- Imposta fortemente progressiva.

3.- Abolizione del diritto di successione.

4.- Confisca della proprietà di tutti gli emigrati e ribelli.

5.- Accentramento del credito in mano dello Stato mediante una banca nazionale con capitale dello Stato e monopolio esclusivo.

6.- Accentramento di tutti i mezzi di trasporto in mano allo Stato.

7.- Moltiplicazione delle fabbriche nazionali, degli strumenti di produzione, dissodamento e miglioramento dei terreni secondo un piano collettivo.

8.- Eguale obbligo di lavoro per tutti, costituzione di eserciti industriali, specialmente per l'agricoltura.

9.- Unificazione dell'esercizio dell'agricoltura e della industria, misure atte ad eliminare gradualmente l'antagonismo fra città e campagna.

10.- Istruzione pubblica e gratuita di tutti i fanciulli. Eliminazione del lavoro dei fanciulli nelle fabbriche nella sua forma attuale. Combinazione dell'istruzione con la produzione materiale e così via.

Quando le differenze di classe saranno scomparse nel corso dell'evoluzione, e tutta la produzione sarà concentrata in mano agli individui associati, il pubblico potere perderà il suo carattere politico. In senso proprio, il potere politico è il potere di una classe organizzato per opprimerne un'altra. Il proletariato, unendosi di necessità in classe nella lotta contro la borghesia, facendosi classe dominante attraverso una rivoluzione, ed abolendo con la forza, come classe dominante, gli antichi rapporti di produzione, abolisce insieme a quei rapporti di produzione le condizioni di esistenza dell'antagonismo di classe, cioè abolisce le condizioni d'esistenza delle classi in genere, e così anche il suo proprio dominio in quanto classe.

Alla vecchia società borghese con le sue classi e i suoi antagonismi fra le classi subentra una associazione in cui il libero sviluppo di ciascuno è condizione del libero sviluppo di tutti.”

Il corsivo sottolinea la saggezza di Marx in rapporto agli eredi che hanno tentato di realizzare il suo progetto. E’ vero che nei testi successivi sono reperibili non poche ambiguità a riguardo. Nel complesso, però, sembra possibile affermare che Marx pensava che il comunismo avrebbe dovuto: primo, conquistare il potere per via democratica, vale a dire sulla base del consenso della maggioranza dei cittadini; secondo, arginare e reagire ai tentativi di boicottaggio della classe borghese senza violare i diritti umani; terzo, incrementare, utilizzando le tecniche sviluppate dal Capitalismo, la produzione della ricchezza orientandola alla soddisfazione dei bisogni sociali; quinto, eliminare il sistema bancario privato sostituendolo con una banca centrale al fine di evitare la speculazione finanziaria; quarto, riconoscere il diritto al lavoro come obbligo solidaristico di ogni individuo, azzerando la possibilità di qualsivoglia sfruttamento e rendita parassitaria; quinto, investire massicciamente la ricchezza sociale nell’istruzione pubblica e gratuita eliminando la barriera tra lavoro intellettuale e lavoro manuale; sesto, procedere verso la sostituzione dello Stato centrale con forme decentrate, locali e comunitaristiche di amministrazione del bene comune, diversificate in rapporto alle varie esigenze del territorio e dei gruppi, ma unificate dal riferimento al socialismo; settimo, promuovere il libero sviluppo dei singoli attraverso il dispiegamento delle potenzialità individuali finalizzate all’autorealizzazione personale e sociale.

Si può ritenere tale progetto utopistico, ma non assurdo né insensato. Esso definisce un nuovo modello di società e un nuovo modo degli esseri umani di interpretare la vicenda della specie cui appartengono e quella che essi esperiscono in quanto individui.

L’essenza del pensiero di Marx, però, non sta nella proposta politica, che indubbiamente va aggiornata, bensì nella necessità di formulare un progetto alternativo al Capitalismo. Il grande significato storico del Capitalismo stesso, infatti, è di avere posto in luce le potenzialità dell’uomo di produrre un’incredibile ricchezza materiale, che si somma a quella culturale prodotta nel corso della storia. Esso, però, non solo non è in grado di finalizzare tale ricchezza alla soddisfazione dei bisogni sociali e allo sviluppo di un individuo consapevole della sua identità e della sua appartenenza sociale, ma promuove l’egoismo, la mercificazione dei rapporti, l’indifferenza sociale, l’alienazione dell’individuo nel mondo delle cose, lo svuotamento di senso dell’esistenza.

Incrementandosi il radicamento della logica individualistica e proprietaristica borghese nella soggettività, la conseguenza, secondo Marx, è un progressivo squilibrio sociale che si traduce in un malessere universale che investe, sia pure in forme diverse e per motivi diversi, sia gli abbienti che i meno abbienti e i non abbienti.

L’essenza del pensiero di Marx sta nell’avere colto il paradosso di una crescente ricchezza sociale associata ad una crescente miseria materiale per un verso e psicologica per un altro, e di avere ricondotto tale paradosso alle capacità produttive e al tempo stesso degenerative del Capitalismo e di avere sottolineato vigorosamente che entrambe implicano la sussunzione dei rapporti sociali nella cornice dell’economicismo psicologico, per cui essi sono mediati dalle cose e dal criterio costi/benefici.

E’ l’alienazione globale degli individui che si genera in conseguenza dello sviluppo capitalistico l’essenza del pensiero di Marx sicché denunciare, contrastare e sormontare tale alienazione è necessario per scongiurare una catastrofe sociale, antropologica e - occorre aggiungere oggi - ambientale.

Alienazione è, peraltro, un termine suggestivo, ma logorato dall’uso. Occorre riformularlo in termini più attuali e pregnanti. Questo è l’intento di questa ultima lettura, che, per non scadere nell’agiografia, muove da un’analisi dei limiti e delle contraddizioni di Marx. E’ a partire da questi, infatti, che il suo pensiero può essere integrato nella cornice di un modello panantropologico.

Limiti e contraddizioni di Marx

Ho già detto, nel primo incontro, che l'esperienza di Marx è un dramma intellettuale per due aspetti: sotto il profilo teorico, perché egli insegue la quadratura del cerchio in rapporto ad un oggetto esorbitante - il significato della storia umana e il “destino” dell’uomo - e, per non disperdersi, concentra progressivamente il suo pensiero sull’economia, che non ama e sa essere una scienza sui generis; sotto il profilo emozionale, poiché in lui, vita natural durante, la necessità assoluta di promuovere una prassi rivolta al cambiamento radicale dello stato di cose esistente convive con l’acuta consapevolezza delle capacità del sistema capitalistico di camuffare la sua logica disumanizzante sotto il velo ideologico di leggi economiche oggettive e di valori (la libertà individuale, l’uguaglianza, la proprietà privata) atti a catturare tenacemente le coscienze umane.

L’urgenza etica della rivoluzione, riferita ad uno stato di cose che era all’epoca orribile e, mutatis mutandis, rimane tale, pure essendo implicita nell’indignazione “biblica” che pervade tutte le opere, non sarà mai riconosciuta da Marx, il quale intende “dimostrare” che essa è scritta nella dialettica storica e quindi sopravverrà per forza di cose, anche se la sua realizzazione postula la partecipazione attiva degli “oppressi”. Questo intento dimostrativo, “scientifico”, è un collo di bottiglia del pensiero marxiano, che consente di spiegare sia alcuni irrigidimenti teorici sia alcune contraddizioni il cui peso è difficile minimizzare.

Gli irrigidimenti concernono essenzialmente la teoria sociologica. Ponendo la produzione materiale a fondamento dell'organizzazione sociale, Marx opera una scelta ideologica antitetica all'idealismo. Una scelta consapevole, fondamentalmente giusta e confermata dagli sviluppi storici ulteriori, che pongono sempre più in luce il peso crescente dei fenomeni economici nell'organizzazione delle società. Si tratta però di una scelta che, proprio per il suo carattere antitetico, lascia aperto il problema di definire i nessi tra la base economica - l’infrastruttura - e l'edificio sociale - la sovrastruttura - che su di essa si eleva, per pervenire ad una teoria integrata della realtà sociale.

Tale integrazione è resa necessaria dal fatto che, nella storia, la stessa base economica (nel linguaggio di Marx, lo stesso modo di produzione), pure entro limiti ben definiti, che da quella dipendono, dà luogo allo sviluppo di formazioni sociali diverse per molti aspetti. Ciò attesta che, tra i livelli sovrastrutturali, alcuni - come l'ordinamento giuridico e quello politico - rivelano più chiaramente la dipendenza dalla base economica rispetto ad altri - come la scienza, l'arte, la filosofia - che intrattengono con essa rapporti più complessi, e sembrano dotati anche di una relativa autonomia.

Ogni formazione sociale, ogni società pertanto, per essere spiegata nella sua totalità, richiede un immane lavoro di ricerca sui nessi, le articolazioni e le influenze reciproche tra le sue diverse componenti. Questo Marx non lo ignora, come risulta in più punti della sua opera e come è testimoniato dagli interventi di Engels a riguardo, postumi alla scomparsa dell'amico. Ma la necessità tattica di mantenere la teoria materialistica della storia immune dal morbo idealistico, irrigidisce Marx nell'affermazione del primato assoluto dell'economia e lo distoglie dal dare alla teoria stessa, anche solo in riferimento alla società borghese, un’articolazione integrata con gli altri aspetti che partecipano a strutturare un sistema sociale specifico (progetto - peraltro - presente nei suoi appunti). Da ciò la critica, ripetuta in tutte le salse, di economicismo, che, a ragion veduta, vale piuttosto per gli eredi ortodossi e non, per esempio, per i marxisti occidentali - da Gramsci a Habermas -, la cui fedeltà allo spirito di Marx è fuori dubbio.

L’irrigidimento materialistico è in realtà problematico per un altro aspetto. Esso induce Marx a porre tra parentesi il fatto che, se ogni struttura sociale è omologabile ad un edificio, con le sue fondamenta - l’infrastruttura - e i suoi piani - la sovrastruttura -, i soggetti storici, gli individui vivono nel corpo dell’edificio, ignorando le fondamenta. Di conseguenza, quanto più l’edificio è storicamente stratificato, socialmente articolato e culturalmente complesso, tanto più le coscienze sono irretite dall’interagire solo con ciò che di esso è visibile.

La storicità del mondo prodotto dall'uomo, nella quale riposa, con le sue contraddizioni oggettivate, il senso dell'avventura umana, esiste solo per le coscienze che si affrancano dai loro limiti intrinseci: il realismo, per cui il mondo storico appare dato come i fenomeni naturali; la contingenza esistenziale, che determina l'integrazione sociale sul registro dell'adattamento allo stato di cose esistente; e il bisogno ideologico, che determina la condivisione del sistema di valori culturale dominante e la visione del mondo che da esso discende.

Le contraddizioni sono una conseguenza dell’irrigidimento ideologico cui si è fatto cenno. Esse vertono essenzialmente sullo statuto della coscienza umana in rapporto alla realtà e, in senso lato, sul ruolo e sul peso della soggettività nella storia. Marx non ha dubbio riguardo al fatto che la coscienza è un prodotto sociale, e cioè che, pur affondando le sue radici nell'organizzazione biologica propria dell'essere umano, si organizza e funziona solo in virtù dell'interazione col mondo storico-culturale. Non esiste, insomma, una coscienza pura, bensì solo una coscienza storica, determinata dalla vita sociale, vale a dire da tutto ciò che gli individui associati e cooperanti producono per sopravvivere e adattarsi all’ambiente: dalla cultura, dunque, considerata nella sua totalità (beni di consumo, tecniche, linguaggio, istituzioni sociali, valori culturali, ideologie o visioni del mondo) che è la seconda natura umana.

La storia è, peraltro, un processo cumulativo: i suoi prodotti si trasmettono di generazione in generazione, e si accrescono per l’apporto che ogni generazione fornisce al patrimonio culturale. In conseguenza di ciò, ogni coscienza individuale viene ad essere determinata dal contesto storico cui appartiene. Ma la storia, proprio perché cumulativa, non è trasparente: i processi reali che, a partire dalla divisione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale, ne hanno determinato il corso, giacciono al di là delle apparenze dell’organizzazione sociale. Sono queste però a catturare immediatamente le coscienze che giungono a partecipare alla vita sociale, inducendole o ad accettare la realtà esistente, col suo carico di ingiustizie e di contraddizioni, come se essa fosse nell’ordine naturale delle cose, o ad opporsi ad essa sulla base di istanze che sono prevalentemente partecipative.

Per affrancare le coscienze dal potere stregante del mondo così come appare, e come viene fatto apparire dalle ideologie, occorre, per Marx, un cambiamento radicale delle condizioni oggettive di vita. Questo però non può avvenire che per effetto di una lotta portata avanti da coscienze riformate, vale a dire capaci di interpretare la realtà storica come espressione di processi invisibili. Il problema del cambiamento radicale dell’ordine di cose esistente si configura, dunque, come un circolo vizioso.

Marx ne è pienamente consapevole, ma, ricusando sprezzantemente la teoria dell'autocoscienza dei giovani hegeliani, il cui limite sta nell’élitarismo, nel proporre una liberazione accessibile solo al ceto intellettuale, deve trovare un’altra soluzione. Qual’è, infine, la forza motrice della liberazione della coscienza sociale dalle apparenze? Marx non ha dubbi: la dialettica storica, il cui movimento genera periodicamente un conflitto tra i rapporti sociali determinati dalla produzione, l’ordine reale del mondo - ingiusto -, e l’intuizione di un mondo giusto, fatto a misura d’uomo, già possibile per via dello sviluppo delle forze produttive, vale a dire della ricchezza prodotta dall’umanità nel corso del suo cammino.

Il problema è che quest’intuizione, per diventare efficace, postula che l’uomo prenda coscienza definitivamente delle potenzialità, dei bisogni e dei fini intrinseci alla sua natura. La storia pone le premesse per questo riconoscimento, ma non può determinarlo. Rifiutando di attribuire alla storia, sia pure interpretata dialetticamente, una sorta di determinismo fatalistico, Marx deve di necessità individuare un agente sociale - la classe operaia - il cui livello di coscienza, dovuto alle condizioni di vita disumane, è maturo per farsi carico dell’impresa di cambiare il corso della storia.

Alla luce degli ulteriori sviluppi storici, questa valutazione, appare ingenua, poiché non tiene conto dello scarto tra l'esperienza vissuta dello sfruttamento e della degradazione umana, che promuove aneliti di giustizia, e la comprensione, in termini non solo economici, bensì filosofici e storici, dello stato di cose esistente.

E’ paradossale che Marx, impegnando tutta la sua vita nella demistificazione dell’ideologia capitalistica, e imbattendosi di continuo in ostacoli che solo una capacità critica raffinatissima, e nutrita di una cultura sterminata, gli ha consentito di sormontare, abbia potuto pensare che la sua impresa potesse funzionare come poco più di una scorciatoia di un tragitto comunque difficile da percorrere per le coscienze umane. Il problema è che egli crede a tal punto nella potenza liberatoria del senso di giustizia di coloro che l’ingiustizia la sperimentano sulla pelle, da ignorare che le loro necessità immediate si traducono, con rare eccezioni, in rivendicazioni, per altro comprensibili, di ascesa sociale entro il sistema, e che il miraggio dello status borghese, imprescindibile dall'acquisizione di una mentalità individualistica, può risultare agevolmente vincente sulla coscienza di classe.

Marx, insomma, è perfettamente consapevole del potere stregante del sistema capitalistico sulla soggettività e sul senso comune, ma non giunge a capire che tale potere è ancora più inquietante di quanto egli pensi. Questa contraddizione dipende non solo dalla carenza all’epoca di conoscenze sul funzionamento della mente nella sua globalità, ma anche da una teoria della coscienza che egli ha messo a fuoco, ne L’Ideologia tedesca, senza approfondirla adeguatamente. Questi due aspetti sono fondamentali ai fini di integrare il pensiero marxiano nella cornice di una panantropologia.

Coscienza, Ideologia e Mentalità

Nella terza lettura abbiamo visto che Engels ha chiarito che, assumendo l’organizzazione economica della società come infrastruttura che condiziona il modo di pensare, di sentire e di agire degli individui nonché la produzione delle idee che caratterizzano le dottrine economiche, il Diritto, la filosofia, la religione, la scienza, la letteratura, ecc., Marx non intendeva negare la complessità dei nessi che si danno fra ‘infrastruttura” e “sovrastruttura”.

L’ortodossia marxista ha messo tra parentesi questa complessità, che è stata però ripresa da numerosi pensatori occidentali.

Un primo riferimento obbligato è Antonio Gramsci, che parte da Marx ma lo completa. Secondo Gramsci, infatti, non basta affermare che esistono indubbi rapporti tra infrastruttura e ideologia: si tratta di individuarli e di analizzarli. Egli muove dalla definizione per cui "un'ideologia... [è] una concezione del mondo che si manifesta implicitamente nell'arte, nel diritto, nell'attività economica, in tutte le manifestazioni della vita individuali e collettive." In altri termini, l'ideologia non costituisce un mondo astratto di idee che si sovrappone alla realtà concreta, ma è il manifestarsi di una "filosofia" determinata attraverso strutture storiche materiali di cui modifica forma e contenuto, "realizzandosi".

Esistono di sicuro "ideologie storicamente organiche", legate ad una classe fondamentale e necessarie al mantenimento di una certa struttura sociale. però, nell'ambito stesso dell'ideologia, coesistono una serie di livelli gerarchizzati, di cui la filosofia è il più elaborato e cui seguono, a livello inferiore, il senso comune e, al livello più basso, il folklore (le tradizioni o la cultura popolare).

Questi tre «stadi» costituiscono non solo forme ideologiche che procedono dalla più semplice alla più «raffinata», ma modi di realizzazione dell'ideologia, cioè espressioni o strutturazioni che essa riceve da ogni classe sociale. Per questo, come esiste un'ideologia dominante direttamente e organicamente legata alla classe dominante di cui maschera, giustificandola, l'egemonia fondata sulla base economica, esistono anche ideologie diffuse nell'ambito di ogni strato della formazione sociale, prodotte dall'ideologia dominante ma «adattate», «semplificate» per essere meglio assimilate e provocare più facilmente il consenso.

Un'ideologia in tanto è efficace in quanto riesce a diffondersi a tutta la popolazione, adattandosi agli strumenti culturali di cui essa dispone. I mezzi di diffusione sono i più vari: al di là delle istituzioni pedagogiche - famiglia, scuola, Chiesa - occorre considerare «la stampa, in generale: case editrici (...), giornali politici, riviste di ogni genere, scientifiche, letterarie, filologiche, di volgarizzazione ecc.», ma anche «tutto ciò che influisce o può influire sull'opinione pubblica direttamente o indirettamente: le biblioteche, i circoli e clubs di vario genere, fino all'architettura, alla disposizione delle vie e ai nomi di queste».

Di qui il potere egemonico di tale struttura ideologica che dispone di mezzi vari ed efficaci, tanto più in quanto «non confessano» la loro reale finalità, celandosi dietro una funzione dichiaratamente obbiettiva e neutra: l'informazione, l'espressione «libera», l'educazione ecc.

Pur essendo rigorosamente fedele a Marx, la riflessione di Gramsci rende il concetto di ideologia molto più proficuo. Una determinata visione del mondo si origine laddove una classe, raggiunto il potere politico, ha bisogno di cooptare nel suo progetto tutta la società, eleggendosi a paladina del bene comune.

Il potere di diffusione sociale delle ideologie avviene lentamente nel corso del tempo attraverso le istituzioni e gli strumenti cui Gramsci fa riferimento finché giunge ad irretire gran parte della popolazione trasformandosi in senso comune.

Abbiamo sotto gli occhi la prova della fondatezza del pensiero gramsciano se solo consideriamo il tentativo odierno dei capitali di assicurarsi una sorta di oligopolio sulla tv, i giornali, l'editoria libraria, la scuola, ecc. al fine di alimentare una visione del mondo depurata dalle infinite contraddizioni che la caratterizzano e schiacciato sul verbo per cui il nostro è il migliore dei mondi possibili.

Una conseguenza dell’ideologia liberista è da ricondurre poi al fatto che le persone credono di essere veramente libere nel loro modo di pensare, di discutere, di scegliere, di votare, mentre in realtà molti di essi sono poco più che automi, vale a dire fedeli funzionari del senso comune.

Gli operai, i sottoccupati, i disoccupati che votano, in Italia e in Europa, per partiti di centro-destra per difendere dalla marea dell’immigrazione privilegi che non hanno, avrebbero fatto inorridire Marx, ma forse meno Gramsci.

Questi, però, non affronta un problema essenziale: qual è il grado di consapevolezza e di volontarietà di coloro che producono l'ideologia, quale il grado di coloro che ad essa partecipano?

Questo problema è stato affrontato dalla Scuola di Francoforte determinando il tentativo di integrare il pensiero di Marx con la sociologia e la psicoanalisi.

Un bilancio critico sulla storia lunga e travagliata, che, oltre a Marcuse e Fromm di cui si parlerà ulteriormente, riconosce ancora oggi un erede in Jürgen Habermas, è molto difficile da fare. merito indubbio dei “francofortesi” è stato di recepire di aggiornare il marxismo in rapporto allo sviluppo della società industriale novecentesca, caratterizzata da una crescente adesione popolare al modello da essa propugnato. Da questo punto di vista, gli studi prodotti dalla Scuola hanno illuminato la complessità del rapporto tra sistema sociale e soggettività individuale, ponendo in luce i fattori consci e inconsci che rendono quest’ultima preda e connivente con l’ideologia dominante.

Al tempo stesso, accentuando in senso radicale la critica di Marx alla società liberal-democratica e, soprattutto, attaccando la scienza come matrice delle tecnologie produttive, che promuovono l’alienazione consumistica, la Scuola di Francoforte non solo tradisce il pensiero di Marx, che apprezzava enormemente lo sviluppo della ricchezza prodotto dal Capitalismo e riteneva che essa fosse il presupposto indispensabile per costruire una nuova società, ma giunge ad esiti di disperato pessimismo sul futuro dell’umanità che si possono ritenere del tutto estranei allo spirito di Marx, e che comportano come unico rimedio il “grande rifiuto” della società industriale interpretata come degenerazione dell’Illuminismo.

Negli anni '70, infine, un marxista italiano, Ferruccio Rossi-Landi, ha dedicato all'Ideologia un intero, corposo volume (che, tra l'altro, ha una bibliografia fittissima di un centinaio di pagine). Egli parte da una classificazione delle ideologie che muove dallo schema seguente:

In ordine a tale diagramma, egli distingue undici tipi di ideologia:

(1) mitologia, folklore, credenze popolari, stereotipi, pregiudizi diffusi

(2) illusione e autoinganno con varie sfumature indicate dai termini preconcetto, abbaglio, cecità, miopia, oscurantismo e molti altri.

(3) senso comune

(4) menzogna non deliberata, oscurantismo volontario ma non pianificato, auto-mistificazione semi-inconscia, contraffazione socialmente indotta e divenuta automatica nell'individuo.

(5) truffa o inganno consapevole

(6) falso pensiero in generale

(7) filosofia

(8) visione del mondo a carattere sistematico

(9) intuizione del mondo a carattere emotivo, religioso, irrazionale, o comunque diverso dall'esame scientifico del mondo stesso.

(10) sistema di comportamenti fondati su di una struttura di valori, al limite su di un unico valore assunto come fondamentale e generatore di altri valori.

(11) sentimento riferito a classi di cose appartenenti alla sola natura, o alla sola società, o a un qualche rapporto fra le due.

In rapporto a questa classificazione, la concezione marxiana dell'ideologia rientra soprattutto nel quarto tipo, ponendosi come illusione interessata, a metà tra il consapevole e l'inconsapevole ma sufficientemente motivata e indirizzata per proteggere se stessa, intessuta di autoinganno e al tempo stesso di inganno sociale. Essa, però, ingloba elencati nella classificazione sia prima che dopo.

Ciò significa che Marx ha colto a pieno la tendenza della coscienza umana a mistificare, ma ha lasciato in sospeso il problema dei rapporti reciproci tra fattori oggettivi, materiali e fattori soggettivi, mentali.

Una possibile e affascinante soluzione di questo problema è affiorata a partire dagli anni 40 del Novecento in seguito alla costituzione in Francia di una scuola storica, raccolta intorno alla rivista Les Annales (che ancora oggi va sotto il nome di nuova storia), che ha messo a fuoco una concezione della struttura sociale compatibile con il marxismo, tanto che parecchi suoi esponenti sono dichiaratamente marxisti.

Nell'ottica della nuova storia, ogni struttura sociale riconosce tre diversi livelli che interagiscono tra loro: l'economico, il sociale e il mentale. Il livello mentale è il più profondo, in gran parte inconscio, e il suo scorrimento è caratteristicamente inerziale. Esso, insomma, può persistere anche quando gli altri due livelli sono andati incontro ad un cambiamento rilevante.

Che cos'è, nella prospettiva della nuova storia, l'inconscio collettivo? Philip Ariès spiega:

"Sarebbe forse meglio dire il non-cosciente collettivo. Collettivo: comune a tutta una società in un dato momento. Non-cosciente: non percepito o scarsamente percepito dai contemporanei, in quanto spontaneo, facente parte dei dati immutabili della natura, delle idee ricevute e delle idee che sono nell'aria, luoghi comuni, norme di convenienza e di morale, conformismi o proibizioni, espressioni ammesse, imposte o escluse dai sentimenti e dai fantasmi. Gli storici parlano di «struttura mentale», di «visione del mondo», per indicare le componenti coerenti e rigorose di una totalità psichica che si impone ai contemporanei senza che lo sappiano."

George Duby è ancora più incisivo:

"È chiaro che la storia delle società deve fondarsi su un'analisi delle strutture materiali…

Per comprendere l'organizzazione delle società umane e per riconoscere le forze che le fanno evolvere occorre prestare ugualmente attenzione ai fenomeni mentali, il cui intervento indiscutibilmente non è meno determinante di quello dei fenomeni economici e demografici. Gli uomini in fatti regolano il loro comportamento in funzione non della loro reale condizione, ma dell'immagine che se ne fanno e che non ne è mai il rispecchiamento fedele. Si sforzano di conformarla a modelli di comportamento che sono il prodotto di una cultura, e che, nel corso della storia, possono adattarsi più o meno bene alle diverse realtà materiali.

L'articolarsi dei rapporti sociali, il movimento che li fa trasformare si operano cosi nel quadro di un sistema di valori, e la gente pensa comunemente che questo sistema orienti la storia di questi rapporti. Effettivamente esso governa il comportamento di ciascun individuo nei confronti degli altri membri del gruppo di cui fa parte. Su di esso si basano i condizionamenti che ciascuno accetta o tenta di trasgredire, ma di cui ciascuno sa bene che sono rispettati dagli altri. All'interno di questo sistema si sviluppa o si indebolisce la coscienza che la gente prende della comunità, del ceto, della classe di cui fa parte, della sua distanza nei confronti delle altre classi, ceti o comunità; una coscienza più o meno chiara, ma il cui disconoscimento ridurrebbe la portata di ogni analisi di una classificazione sociale e della sua dinamica. È proprio questo sistema di valori a far tollerare, o a rendere intollerabili, le regole del diritto e i decreti del potere. Proprio in esso, infine, risiedono i principi di un'azione che pretende di animare il divenire del corpo sociale, in essosi radica il senso che ogni società attribuisce alla sua storia, e si accumulano le sue riserve di speranza. Esso dà alimento ai sogni e alle utopie, che esse siano proiettate nel passato, verso un'esemplare età dell'oro dalle attrattive illusorie, oppure nel futuro, in un avvenire che si auspica e per il quale accade di battersi. Esso alimenta le passività e le rassegnazioni, ma contiene in germe anche tutti i tentativi di riforma, tutti i programmi rivoluzionari, e la molla di tutti i bruschi mutamenti. Uno dei compiti principali che toccano oggi alle scienze dell'uomo è quindi quello di misurare, in seno a una totalità indissociabile di azioni reciproche, la rispettiva pressione delle condizioni economiche, e, dall'altra parte, di un insieme di convenienze e di precetti morali, dei divieti che essi pongono e degli ideali che propongono.

In questa impresa, si può considerare decisivo il contributo degli storici. Infatti i sistemi di valori, che i procedimenti educativi trasmettono in diversi modi senza cambiamento apparente da una generazione all'altra, non per questo sono immobili: hanno la loro storia, di cui l'andamento e le fasi non coincidono con quelli della storia della popolazione e dei modi di produzione. È proprio attraverso tali discordanze che si possono discernere nella maniera più chiara le correlazioni tra le strutture materiali e le mentalità." (in Fare Storia, Einaudi, Torino 1981)

Definita l'ideologia, alla maniera di Althusser, come "un sistema (che possiede una propria logica e un proprio rigore) di rappresentazioni (immagini, miti, idee o concetti a seconda dei casi) dotato di un'esistenza e di un ruolo storico in seno ad una data società", Duby ne definisce le caratteristiche generali in questi termini:

"1. Appaiono come sistemi completi e sono naturalmente globalizzanti, dal momento che pretendono di offrire della società, del suo passato, del suo presente, del suo futuro, una rappresentazione di insieme integrata alla totalità di una visione del mondo…

2. Le ideologie, che hanno come prima funzione quella di rassicurare, sono, altrettanto naturalmente, deformanti. L'immagine che esse offrono dell'organizzazione sociale si costruisce su un incastro coerente di inflessioni, di slittamenti, di deformazioni, su di una prospettiva, su un gioco di chiaroscuri che tende a velare certe articolazioni proiettando tutta la luce su altre, per meglio servire interessi particolari…

3. in una società data, coesistono molteplici sistemi di rappresentazioni, che, naturalmente, sono concorrenti. Queste opposizioni sono in parte formali e corrispondono all'esistenza di molteplici livelli di cultura. Esse riflettono soprattutto antagonismi che nascono talvolta dalla giustapposizione di etnie separate, ma che sono sempre determinati dalla disposizione dei rapporti di potere. Un certo numero di tratti comuni avvicinano queste ideologie, dal momento che le relazioni vissute di cui esse offrono l'immagine sono le stesse, e si costruiscono in seno allo stesso insieme culturale e si esprimono negli stessi linguaggi. Tuttavia di solito le une si presentano come le immagini rovesciate delle altre, a cui si contrappongono…

4. Totalizzanti, deformanti, concorrenti, le ideologie si dimostrano anche stabilizzatrici. È, ovviamente, il caso dei sistemi di rappresentazioni che mirano a conservare i vantaggi acquisiti dagli strati sociali dominanti; ma questa osservazione è ugualmente valida per quelli, antagonisti, che riflettono, rovesciandoli, i primi. L'organizzazione ideale di cui fanno sognare le ideologie più rivoluzionarie è ancora effettivamente percepita, al termine delle vittorie che esse incitano a riportare, come qualcosa di stabile e definitivo: nessuna utopia chiama alla rivoluzione permanente. Questa inclinazione alla stabilità deriva dal fatto che le rappresentazioni ideologiche partecipano alla pesantezza insita in tutti i i sistemi di valori, la cui ossatura è fatta di tradizioni. La rigidezza dei diversi organi di educazione, la permanenza formale degli strumenti linguistici, la potenza dei miti, l'istintiva reticenza nei confronti dell'innovazione che si radica nel più profondo dei meccanismi della vita ostacolano la possibilità che esse si modifichino sensibilmente nel corso del processo che le trasmette a ogni nuova generazione…

Più comunemente, il conservatorismo si appoggia sulla stessa gerarchia sociale. I ceti dominanti, i cui interessi sono serviti da modelli ideologici più agguerriti degli altri, in genere, e nella misura in cui la loro superiorità materiale sembra loro più sicura, si concedono il lusso di incoraggiare le innovazioni nel campo dell'estetica e della moda. Tuttavia, nel profondo, si mostrano molto attenti a difendersi contro tutti i cambiamenti meno superficiali che potrebbero mettere in discussione i poteri e i vantaggi che detengono…

Infine, la tendenza al conservatorismo viene a essere ancora accentuata dal movimento che, in tutte le società, porta i modelli culturali a spostarsi di grado in grado, dal vertice della gerarchia sociale in cui hanno preso forma in risposta ai gusti e agli interessi dei gruppi dirigenti, verso ambienti progressivamente più estesi e più umili, da essi affascinati e che lavorano a farli propri." (op. cit. pp. 119-122)

E’evidente che sia Gramsci che Feruccio Rossi-Landi e Duby portano avanti il discorso sulle ideologie sulla scia delle intuizioni di Marx. Duby ha però il vantaggio di potere utilizzare un sapere che all’epoca di Marx non esisteva - la psicoanalisi -, anche se essa viene da lui elaborata in termini non certo freudiani e valorizzata soprattutto in rapporto alla tendenza delle coscienze a lasciarsi irretire dalla mentalità corrente e di compensare il danno che esse subiscono con rimedi che sono peggiori del male: adottando, cioè, meccanismi di mistificazione che le convincono di vedere le cose come stanno e di essere arrivate a vederle con la loro testa.

Il discorso va ulteriormente approfondito affrontando il problema del rapporto tra pensiero di Marx e psicoanalisi.

Marxismo e psicoanalisi

I rapporti tra marxismo e psicoanalisi sono stati a lungo glaciali, nonostante uno dei primi allievi di Marx, W. Reich, abbia tentato una precoce integrazione tra le due correnti di pensiero. Come accade a tutti i precursori, Reich è stato radiato sia dalla psicoanalisi ufficiale che dal movimento comunista, all’epoca (anni Trenta del secolo scorso) egemonizzato dall’ortodossia sovietica.

Il problema maggiore ovviamente era da ricondurre alla teoria della coscienza, alla quale i marxisti ortodossi associavano una funzione di rispecchiamento della realtà oggettiva, mentre gli psicoanalisti insistevano sulla sua funzione di mascheramento di un mondo interiore caratterizzato dal gioco delle pulsioni e delle interpretazioni soggettive.

Un passo in avanti verso l’integrazione è da ricondurre, come si è già detto, alla Scuola di Francoforte, che utilizza ampiamente gli apporti della psicoanalisi per spiegare i modi in cui l’ambiente socio-storico condiziona le coscienze individuali orientandole verso livelli di mistificazione ideologica sempre più elevati.

Non è un caso che la Scuola di Francoforte abbia riconosciuto il suo massimo splendore in conseguenza alla pubblicazione dei Manoscritti e de l’Ideologia tedesca, vale a dire delle opere giovanili di Marx più ricche di suggestioni filosofiche e antropologiche.

Alla scuola di Francoforte si riconducono due pensatori che hanno portato avanti la loro riflessione critica sui rapporti tra marxismo e psicoanalisi anche dopo il loro trasferimento negli Stati Uniti, conseguente alla persecuzione razziale nazista: H. Marcuse e E. Fromm.

La parabola intellettuale di Marcuse, allievo originariamente di Heidegger, è contrassegnata da una lunga frequentazione di Hegel e di Marx sulla quale si innesca una revisione del pensiero freudiano. Marcuse ha una fiducia illimitata nella ragione critica, soprattutto se essa si esercita in termini dialettici, sotto forma di pensiero negativo che smaschera le contraddizioni della realtà e delle ideologie che tendono a rimuoverle. In nome di questa fiducia, egli dà per scontato che i grandi pensatori non possono non essere, quali che siano i loro orientamenti coscienti, rivoluzionari. Quello che in Marx è esplicito, in Hegel e Freud, ritenuti comunemente conservatori, è dunque implicito e va decodificato. La rilettura marcusiana di Hegel e di Freud, dichiaratamente di sinistra, ha una precisa funzionalità. Interpretando Hegel come un precursore di Marx, Marcuse può revisionare la teoria marxista della sovrastruttura ideologica e assegnare ai fattori culturali un peso rilevante nella strutturazione della coscienza e della soggettività. Ricavando da Freud il riferimento ad una pulsione psicobiologica verso la felicità, egli aggancia la necessità di una rivoluzione politica, sociale e culturale non già ad una presunta coscienza di classe, bensì ad un bisogno incoercibile scritto nella psiche umana.

L'interesse prevalente di Marcuse è dunque di mantenere viva e di assegnare un carattere di necessità all'utopia rivoluzionaria in un periodo storico caratterizzato, in Occidente, dall'imborghesimento della classe operaia e, nei paesi del socialismo reale, da un regime oppressivo, causa di un'infelicità collettiva. Questo intento, eminentemente politico, determina un interesse per la struttura della coscienza individuale e dell'inconscio su cui vale la pena ancora oggi riflettere.

Filosofo serio e accademico, per quanto politicamente impegnato, Marcuse raggiunge una fama repentina nella stagione del '68, allorché due saggi (Eros e civiltà del 1955 e L'uomo a una dimensione del 1964), tradotti in Europa, divengono un punto di riferimento di molti giovani aderenti al movimento di contestazione.

Entrambi i libri hanno come oggetto il sistema sociale occidentale che viene sottoposto ad una critica radicale in nome del fatto che la razionalità cui esso si ispira, essendo sostanzialmente finalizzata alla crescita illimitata del capitale e alla subordinazione dei soggetti a tale finalità, produce l'alienazione delle coscienze che sono asservite a tal punto da ritenersi libere e felici senza esserlo, sollecitate per un verso a lavorare freneticamente, e per un altro a compensare lo stress del lavoro alienato con il consumismo e un edonismo degradato. La dimensione totalitaria del dominio tecnologico, vale a dire del potere, sulle coscienze e sulle soggettività, che risultano irretite da falsi valori e da falsi bisogni, non pone in gioco solo il problema di come la storia sociale possa produrre un'ideologia che diventa un "recinto mentale". Essa implica anche dei densi interrogativi sullo statuto delle coscienze e sui rapporti tra la coscienza e l'inconscio.

Se il pensiero di Marcuse conserva oggi un qualche valore per una scienza critica dell'uomo e dei fatti umani, questo va ricondotto al problema, che egli ha colto, dello statuto della coscienza in rapporto alla realtà sociale, perennemente esposto al rischio dell'alienazione e della mistificazione. Ma tale statuto, che determina nei più un orientamento adattivo alla realtà così com'è, si sovrappone ad un mondo inconscio che veicola un bisogno insopprimibile di libertà e di felicità. Il malessere profondo che sottende e permea, ancora oggi, molte esperienze normali è l'indizio che quell'adattamento è un adattamento per difetto.

L'attribuzione di Marcuse all'inconscio di un potenziale psicobiologico rivoluzionario è un'intuizione di grande interesse. Ciò che è sfuggito al pensatore tedesco è che lo stesso inconscio veicola, sotto forma di un bisogno di appartenenza che promuove l'adesione al modello normativo dominante, le ragioni di un adattamento che può condurre all'alienazione.

Anche Fromm è un assiduo lettore di Marx e di Freud. Il suo sforzo di coniugare marxismo e psicoanalisi è del tutto evidente sia in Fuga dalla libertà (che riprende alcuni temi de La personalità autoritaria) sia in Psicoanalisi della società contemporanea, nella quale analizza il paradosso per cui il processo di svincolamento dell’individuo dalla rete dei rapporti comunitaristici e parentali, vale a dire il riconoscimento della libertà e dell’indipendenza come diritti naturali dell’individuo, ha prodotto, nella prima metà del Novecento, uno smarrimento psicologico tale da indurre la rinuncia alla libertà in due diverse forme: la sottomissione al Capo, in quanto rappresentante della Nazione, nei paesi la cui organizzazione sociale è di tipo gerarchico, e il conformismo, l’adesione passiva al modello normativo dominante, nei Paesi democratici.

Fromm è del tutto consapevole che l’applicazione degli strumenti analitici ad un’intera società è un procedimento azzardato, tanto più che egli, in nome della sua cultura marxista, non considera l’insieme sociale come una semplice somma di individui. Si autorizza comunque a procedere nell’analisi sulla base di una concezione antropologica originale che assume la natura umana come un prodotto dell’evoluzione naturale che contiene dei programmi. Nell’interazione con l’ambiente, tali programmi possono dispiegarsi, dando luogo all’autorealizzazione dell’essere, oppure arrestarsi ad un livello di sviluppo carente. In questo secondo caso, l’individuo può sviluppare un disagio psichico franco o apparire normale senza di fatto esserlo.

La pseudonormalità è un concetto molto profondo messo a fuoco da Fromm in questi termini.

"Ciò che trae specialmente in inganno quando si considerino le condizioni mentali dei membri di una società, è la «convalida consensuale» dei loro concetti. Si ritiene ingenuamente che, se certi sentimenti o certe idee sono condivisi dai più, essi sono giusti. Niente è più lontano dal vero. La convalida consensuale in sé non ha nulla a che vedere con la salute mentale. Come c'è una folie à deux, così c'è una folie à mìllions. Il fatto che milioni di persone condividano gli stessi vizi non fa di questi vizi delle virtù, il fatto che essi condividano tanti errori non fa di questi errori delle verità, e il fatto che milioni di persone condividano una stessa forma di malattia mentale non fa che questa gente sia sana.

C'è tuttavia una differenza importante tra malattie mentali individuali e sociali, che suggerisce una differenziazione tra i due concetti: quello di deficienza e quello di nevrosi. Se una persona non riesce a raggiungere libertà, spontaneità e genuina espressione di sé, si può ritenere che essa abbia delle gravi forme di deficienza, sempre che si creda che libertà e spontaneità siano delle mete obiettive raggiungibili da ogni creatura umana. Se poi questa meta non è raggiungibile dalla maggioranza dei membri di una data società, allora abbiamo a che fare con il fenomeno di una deficienza socialmente strutturata. L'individuo la condivide con molti altri, ma non crede si tratti di una deficienza e la sua sicurezza non è minacciata dalla consapevolezza di essere diverso, di essere, per così dire, un proscritto. Ciò che può aver perso in ricchezza, in sentimento genuino di felicità, è compensato dal senso di sicurezza datogli dall'adattamento al resto dell'umanità, sempre però com'egli la vede. In effetti può avvenire che proprio questa deficienza sia stata elevata a virtù dalla sua cultura, e che pertanto gliene derivi un accresciuto sentimento di successo." (pp. 22-24)

La deficienza socialmente strutturata è una condizione di pseudonormalità, che Fromm vede fortemente rappresentata nella società:

"Oggi ci incontriamo con persone che agiscono e sentono come automi: che non hanno mai avuto un'esperienza veramente propria, che conoscono se stessi non come sono nella realtà, ma come gli altri si attendono che siano, il cui sorriso convenzionale ha sostituito la risata genuina, le cui chiacchiere insignificanti hanno sostituito il colloquio comunicativo, la cui opaca disperazione ha preso il posto di un'autentica sofferenza. Due cose si possono dire per costoro: una è che soffrono di una mancanza di spontaneità e di individualità che può sembrare incurabile; nello stesso tempo si può anche rilevare come essi non sono essenzialmente diversi da milioni di altri che si trovano in eguali condizioni. Alla maggior parte di loro la cultura fornisce strutture che li mettono in grado di vivere con una deficienza senza ammalarsi. È come se ogni cultura fornisse il rimedio contro le esplosioni di evidenti sintomi nevrotici, conseguenza della deficienza che questa stessa cultura ha provocato."

In Marx e Freud, l’analisi dei due pensatori porta poi Fromm a realizzare sintesi come quella seguente.

“L'uomo moderno della società industriale ha cambiato la forma e l'intensità dell'idolatria. E divenuto un oggetto in balia di cieche forze economiche che dominano la sua vita: venera l'opera delle sue mani trasformando se stesso in cosa. L'alienazione non è propria soltanto della classe operaia (in realtà un operaio specializzato non è tanto alienato quanto coloro che manipolano uomini e simboli) ma coinvolge ognuno di noi. Tale processo di alienazione in atto nei paesi industrializzati europei e americani, indipendentemente dalla loro struttura politica, ha dato origine a nuovi movimenti di protesta. La rinascita dell'umanesimo socialista è un sintomo di tale protesta. Proprio perché l'alienazione ha raggiunto un punto tale da rasentare la pazzia nell'intero mondo industrializzato, minando e distruggendo le sue tradizioni religiose, spirituali e politiche, e minacciando il suo annientamento con la guerra nucleare, a molti risulta ora più chiaro che Marx aveva individuato il motivo fondamentale della malattia dell'uomo moderno. Non solo egli aveva individuato tale «malattia», come Feuerbach e Kierkegaard, ma aveva dimostrato che l'idolatria contemporanea è connessa ai modi di produzione attuali e che la si può cambiare solo trasformando completamente l'assetto economico-sociale dando al tempo stesso avvio a una liberazione spirituale dell'uomo.

Dall'analisi del pensiero di Marx e di quello di Freud sulle malattie mentali, risulta evidente che Freud si occupa soprattutto della patologia individuale mentre Marx si occupa della patologia propria di una società e che è provocata dal particolare sistema di quella società. Inoltre è chiaro che il contenuto della psicopatologia è del tutto diverso in Marx e in Freud. Freud individua l'aspetto patologico soprattutto nell'incapacità di trovare un equilibrio soddisfacente tra Es e lo, tra le esigenze istintuali e quelle della realtà; per Marx la malattia principale è quella che il XIX secolo chiamò la maladie du siècle: l'estraniazione dell'uomo dalla sua stessa umanità e quindi dal suo simile. Tuttavia, spesso sfugge il fatto che Freud non pensò esclusivamente in termini di patologia individuale. Egli parla anche di una «nevrosi sociale»:

Se l'evoluzione della civiltà è tanto simile a quella dell'individuo e se usa i suoi stessi mezzi, non è forse lecita la diagnosi che alcune civiltà, o epoche civili, - e magari l'intero genere umano - sono divenuti «nevrotici» per effetto del loro stesso sforzo di civiltà? Alla dissezione analitica di queste nevrosi potrebbero far seguito suggerimenti terapeutici in grado di rivendicare un grande interesse pratico. Non voglio dire che un simile tentativo di applicare la psicoanalisi alla comunità civile non avrebbe senso o sarebbe condannato alla sterilità. Ma bisognerebbe andar molto cauti, non dimenticare mai che in fin dei conti si tratta solo di analogie, e che è pericoloso, non solo con gli uomini ma anche coi concetti, strapparli dalla sfera in cui sono sorti e si sono evoluti. La diagnosi di nevrosi collettive s'imbatte poi in una difficoltà particolare. Nella nevrosi individuale l'impressione di contrasto suscitata dal malato sullo sfondo del suo ambiente considerato «normale» ci offre un immediato punto di riferimento. Un simile sfondo verrebbe a mancare in una massa tutta ugualmente ammalata e dovrebbe essere cercato altrove. Quanto poi all'applicazione terapeutica della comprensione raggiunta, a che cosa gioverebbe un'analisi, sia pure acutissima, delle nevrosi sociali, visto che nessuno possiede l'autorità di imporre alla massa una cura siffatta? Nonostante tutte queste difficoltà, aspettiamoci pure che un giorno qualcuno si arrischi a lavorare su questa patologia delle comunità civili.

Nonostante l'interesse di Freud per le «nevrosi sociali», tra il pensiero di Marx e quello di Freud permane una differenza fondamentale. Marx considera l'uomo formato dalla sua società, e scorge quindi le radici della patologia nelle caratteristiche specifiche dell'organizzazione sociale.

Freud crede invece che la formazione dell'uomo dipenda essenzialmente dalla sua esperienza nel gruppo familiare ma trascura il fatto che la famiglia rappresenta la società e ne è lo strumento; egli giudica le varie società in base alla quantità di rimozione da loro imposta anziché in base alla qualità della loro organizzazione e all'impatto esercitato da tale qualità sociale sulla qualità del modo di pensare e di sentire di una data società.”

E’ inutile negare l’influenza profonda esercitata da Marcuse e da Fromm sulla mia formazione intellettuale. Al tempo stesso, sono stato sempre consapevole del fatto che le loro analisi, profonde per tanti aspetti, muovevano da presupposti precari. Marcuse identifica nell’uomo un’aspirazione incoercibile alla felicità, attribuendola all’Eros come unica spinta motivazionale umana. Fromm si limita a rilevare che in ogni soggetto si danno spinte regressive verso forme di dipendenza, di sottomissione all’Autorità, di onnipotenza infantile e spinte progressive verso lo sviluppo dell’essere in opposizione all’avere.

Io ho tentato di integrare psicoanalisi e marxismo sulla base della teoria dei bisogni intrinseci, uno dei quali - il bisogno di appartenenza/integrazione sociale - rende l’individuo in qualche misura “schiavo” del contesto socio-culturale cui appartiene, modellando l’inconscio sulla base dei valori e degli stili di vita che esso pone come normativi, mentre l’altro - il bisogno di opposizione/individuazione - tende a sciogliere i vincoli di dipendenza dall’ambiente e orientare l’individuo ad operare scelte di ordine personale e a procedere sulla via della realizzazione della sua personale vocazione ad essere.

Su questa base, l’analisi che Marx fa del sistema capitalistico è riconducibile ad un’esplosione storica del bisogno di individuazione che, se restituisce agli individui una piena consapevolezza della loro libertà e dei loro diritti, li rende però progressivamente schiavi di una macchina che li porta sul terreno alienato dello sviluppo di un’individualità irretita da falsi bisogni e orientata a vivere la relazione sociale in termini strumentali, laddove un’autentica individuazione comporta la coltivazione dell’empatia e una viva e solidaristica partecipazione sociale.

Nell’ottica della teoria dei bisogni, Freud viene recuperato come lo studioso che ha descritto con maggiore profondità le conseguenza psicopatologiche della scissione dei bisogni senza riuscire a valutare adeguatamente le circostanze ambientali e socio-culturali che concorrono a promuoverla.

Non è qui il caso di insistere sul fatto che la teoria dei bisogni, in quanto postula una programmazione genetica di essi, è incompatibile con la lettera del pensiero di Marx, ma non con il suo spirito. Quando, infatti, egli ricostruisce con una modalità visionario il lento passaggio da forme antiche di vita comunitaristiche, all’interno delle quali l’individuo era più o meno totalmente subordinato al gruppo, a forme contemporanee di vita sociale incentrate sull’acquisizione da parte dell’individuo della consapevolezza della sua identità distinta dal gruppo e dell’essere dotato di una libertà e di una volontà propria che possono comportare anche scelte conflittuali in rapporto al gruppo e alla cultura di appartenenza, sembra descrivere la storia fenotipica dei bisogni intrinseci.

La sua analisi dell’individualismo borghese diventa ancora più pregnante se la spinta competitiva da cui nasce e l’indifferenza sociale che la caratterizza viene ricondotta all’esplosione un bisogno di individuazione alienato, che postula l’anestesia sociale come strumento di affermazione personale.

Il suo riferimento infine all’individuo pienamente sviluppato implica l’intuizione e la convinzione che l’appartenenza sociale e l’individuazione non sono dimensioni antitetiche, bensì dimensioni complementari e interattive che, attraverso lo sviluppo di tutte le potenzialità umane, possono portare al modello di uomo totale o onnilaterale che egli ritiene possibile solo in una società comunista.

Certo, sarebbe assurdo negare che in Marx il dispiegamento dei bisogni radicali dipende fortemente dall’ambiente e dalle opportunità che esso mette a disposizione dell’individuo: dipende, insomma, dallo sviluppo di una ricchezza sociale in difetto della quale si possono dare solo singole personalità ricche per vocazione o per circostanze favorevoli.

Questo riferimento all’importanza dei fattori oggettivi, ambientali non contrasta minimamente con l’assunzione dei bisogni come programmi genetici che sottendono l’esperienza umana.

Ammettere che il cervello sia geneticamente programmato e riconoscere nei bisogni intrinseci l’aspetto più singolare di tale programmazione implica però di fare i conti con l’evoluzionismo, la neurobiologia e la psicologia per verificare in quale misura queste discipline possano integrare una panantropologia marxista.

Marx e l'evoluzionismo darwiniano

Nel corso delle letture darwiniane, più volte mi sono soffermato sul rapporto tra Darwin e Marx, sottolineando che questi ha colto la portata rivoluzionaria del pensiero darwiniano, mentre Darwin non è riuscito a capire il significato del pensiero di Marx, se addirittura non lo ha rifiutato per il suo carattere socialmente eversivo.

Considerando le cose così come stavano all’epoca, occorre riconoscere che il fraintendimento è avvenuto da parte di Marx.

Ci sono, di fatto, aspetti di incompatibilità tra l'originaria teoria darwiniana e l'assunzione marxiana di tale teoria come sfondo storico-naturale del suo pensiero. Il darwinismo originario si incentra sull'individuo e su di un'evoluzione graduale che esclude qualunque salto rivoluzionario. Essa inoltre comporta il fatto che la comparsa di nuove specie, anche se apparentemente più evolute rispetto alle precedenti, è un fatto casuale, né necessario né deterministico. Infine, va sottolineato il fatto che la selezione naturale darwiniana non comporta alcun riferimento ad un qualsivoglia progresso.

Anche se si mette da parte la banalità del darwinismo sociale, che applica allo sviluppo storico le stesse leggi che valgono per l’evoluzione biologica, vale a dire la selezione degli individui più adatti, rimane il fatto che il pensiero di Darwin è marcatamente casualista e gradualista, mentre quello di Marx è determinista e fortemente incentrato sulla possibilità di un cambiamento rivoluzionario.

Ci sono stati vari tentativi, nella storia del marxismo, di comporre questo contrasto in nome del fatto che il darwinismo avalla l’appartenenza dell’uomo alla storia della natura, quindi al materialismo.

I più rilevanti sono riconducibili ad Engels e a Kautsky. Ne La dialettica della natura Engels giunge ad affermare che “la natura è il banco di prova della dialettica”, vale a dire dell’evoluzione attraverso conflitti tra forze opposte che, alla fine, danno luogo ad un salto di qualità il quale porta alla comparsa di qualcosa di assolutamente nuovo. Il problema è che nulla del genere sembra intrinseco al darwinismo.

Kautsky, invece, ne Il catechismo rivoluzionario, sostituisce l’interpretazione dialettica di proposta da Marx e da Engels come chiave di lettura del movimento storico/sociale con una lettura del socialismo in chiave di evoluzionismo sociale gradualista. Anziché sulla rivoluzione, l’accento è posto sull’oggettività e sulla gradualità dei processi. Secondo Kautsky, il crollo del capitalismo è qualcosa di necessario e oggettivo: nell’attesa che esso si verifichi, il movimento operaio non ha altro da fare se non “organizzarsi e attendere”. Il momento della rivoluzione, che non dipende affatto per Kautsky dalla lotta operaia ma solo ed esclusivamente dal corso della storia, è rinviato ad un futuro non meglio identificato: non occorre adoperarsi per far avvenire ciò che avverrà necessariamente, cosicché “poiché la rivoluzione non può essere fatta a nostro arbitrio, non possiamo dire assolutamente nulla circa il tempo, le condizioni e le forme in cui essa avverrà”.

Kautsky, insomma, accetta pedissequamente il gradualismo darwiniano, ma accentuando uno degli aspetti più discutibili del pensiero marxiano, il determinismo. Ma in nome di cosa potrà avvenire l’avvento di una società affrancata dallo sfruttamento dell’uomo sull’uomo se non in virtù della consapevolezza e della scelta volontaria da parte dell’umanità di assumere il controllo sul suo destino?

Come abbiamo visto parlando di Darwin, il gradualismo si può considerare un aspetto ideologico dell’evoluzionismo. Esso è stato confutato dai teorici degli equilibri punteggiati in nome del fatto che i reperti preistorici non confermano un’evoluzione graduale, ma fanno piuttosto pensare a lunghe fasi di inerzia intervallate da periodi nel corso dei quali nascono quasi repentinamente nuove specie. La teoria degli equilibri punteggiati valorizza al massimo grado la partecipazione dell’ambiente naturale, con i suoi cambiamenti, all’evoluzione della vita.

Si tratta, a ben vedere, di un nuovo modello che pone in luce la tendenza delle specie alla conservazione, che viene meno soltanto quando esse si confrontano con cambiamenti spesso catastrofici dell’ambiente, che le costringono, in un certo qual modo, ad evolvere.

Si può ammettere che la tendenza alla conservazione sia una caratteristica propria di tutti i sistemi da quelli biologici a quelli sociali, e che, all’uno e all’altro livello, i cambiamenti, più o meno repentini e radicali, punteggino un’evoluzione che, in conseguenza di quella tendenza, è normalmente graduale.

S. Y. Gould, autore con Niles Eldridge della teoria degli equilibri punteggiati, è stato non per caso perseguitato dalla fama di essere un marxista. Egli ha riconosciuto senza remore di avere tenuto presente, nell’elaborare quella teoria, della concezione della storia di Marx. Ciò nondimeno, ha fatto presente che essa è l’unica che possa risolvere le contraddizioni del darwinismo in una dimensione naturalistica e scientifica.

A livello naturale, dunque, il fattore decisivo dell’evoluzione sarebbe il sopravvenire di circostanze ambientali critiche o catastrofiche.

A livello storico, le circostanze critiche le realizzerebbe il sistema capitalistico stesso con il suo sfruttamento sistematico delle risorse umane e naturali portato oltre ogni limite, che determinerebbe una situazione insostenibile per gli esseri umani (e oggi possiamo dire anche per la Natura).

L’integrazione del darwinismo con il marxismo sembra dunque possibile nell’ottica della teoria degli equilibri punteggiati.

Ma questa integrazione sembra anche avere un significato più profondo, che attiene la comparsa della specie umana e la sua evoluzione culturale.

Adattamento e iperadattamento

L’incorporazione dell’evoluzionismo nella cornice del liberismo ha prodotto il “mostro” del darwinismo sociale. Si può parlare di mostruosità perché esso assume la capacità di avere successo in un determinato contesto sociale come prova di una dotazione genetica migliore rispetto ad altri.

Dopo la tragica esperienza del nazismo, che, in qualche misura, portava alle estreme conseguenze l’ideologia del darwinismo sociale, questa è stata abbandonata da tutti (anche se essa residua nelle pieghe della società occidentale sotto forma di razzismo).

L’adattamento al mondo così com’è, ricavabile dal grado di inserimento e di integrazione sociale dell’individuo, rimane però un parametro intrinseco al liberismo, che quindi assume il cervello come un organo la cui funzionalità specifica è adattiva.

Uno dei meriti della teoria degli equilibri punteggiati è di avere posto in crisi l’ideologia adattamentista sulla base del concetto di exaptation, secondo il quale il cervello umano ha di sicuro potenzialità adattive, ma contiene un numero indefinito di potenzialità che non sono state selezionate: è, insomma, un cervello ridondante.

Questo concetto era, ovviamente, del tutto estraneo a Marx. A maggior ragione, è sorprendente che egli lo abbia in qualche misura intuito e preconizzato

Intanto egli assume il cervello come un organo attivo perpetuamente impegnato a trasformare la realtà per adattarla ai bisogni umani. Certo, la trasformazione dell’ambiente è una necessità legata alla sopravvivenza, ma laddove, nei manoscritti economico-filosofici del 1844, Marx scrive che “l'animale forma le cose soltanto secondo la misura e il bisogno della specie cui appartiene, mentre l'uomo è in grado di produrre secondo la misura di ogni specie e sa in ogni caso predisporre la misura conforme a quello specifico oggetto, quindi l'uomo forma anche secondo le leggi della bellezza”, è difficile non pensare che egli abbia colto nella motivazione estetica qualcosa di irriducibile all’adattamento in sé e per sé, e quindi di ridondante.

Del resto, la scoperta nei siti archeologici più antichi di pitture murali associate ad oggetti funzionali alla vita quotidiana ha confermato senza ombra di dubbio la singolare presenza nell’uomo di motivazioni che vanno al di là dell’adattamento.

In secondo luogo, Marx afferma che i bisogni umani sono infiniti, ma non li riconduce pedissequamente al piano materiale. Il bisogno umano più radicale è il bisogno di autorealizzazione che implica la trasformazione culturale dell’ambiente al fine di promuovere uno sviluppo dell’individuo sia nella sua dimensione soggettiva che in quella sociale.

Allorché Marx parla di uomo totale egli fa riferimento ad un essere che, trasformando il mondo e producendo un’enorme ricchezza sociale, la utilizza per raggiungere livelli di autorealizzazione sempre maggiori: livelli, dunque, che trascendono l’adattamento in senso proprio e implicano un iperadattamento, vale a dire l’uso e l’oggettivazione di potenzialità ridondanti.

Nella storia Marx legge per l’appunto una tensione verso un’umanizzazione più ricca e profonda rispetto a tutte le epoche precedenti.

La sua critica nei confronti del sistema capitalistico verte sul riconoscere che esso ha consentito all’uomo di scoprire le sue potenzialità e la ricchezza dei suoi bisogni, ma, anziché orientarle nella direzione dell’umanizzazione, le sfrutta ai fini dell’accrescimento del Capitale.

Qualcuno ha criticato l’elogio di Marx della civiltà industriale come se egli avesse confuso lo sviluppo socio-economico e il progresso. Questa critica ha una matrice spiritualistica. In quanto materialista, Marx riconosce che il bisogno umano di felicità postula anche un tenore di vita al di sopra della sopravvivenza. Al tempo stesso, però, egli afferma con chiarezza che lo sviluppo della tecnologia deve avere come finalità quella di ridurre il tempo che l’uomo è costretto a dedicare al lavoro, in maniera tale che egli possa utilizzare il tempo libero per umanizzarsi, dedicandosi agli affetti, alla pratica sociale, all’impegno politico, alla cultura, alla coltivazione di svariati interessi.

Questa concezione antropologica implica l’esistenza di potenzialità ridondanti che la natura ha depositato nel cervello umano. Ma implica anche che l’uomo, oltre ad avere una natura attiva, è un essere radicalmente sociale. La neurobiologia e la psicologia oggi confermano questi aspetti.

Neurobiologia

Due scoperte neurobiologiche inerenti il cervello sono, da questo punto di vista, fondamentali.

La prima riguarda la condizione neotenica umana, la seconda la presenza nel cervello umano di neuroni specchio.
Nessun animale come l’uomo viene al mondo nella condizione di prematurità e di sprovvedutezza caratteristica del neonato, nessuno ha un periodo evolutivo altrettanto sterminatamente lungo, nessuno, tra i mammiferi, manifesta la persistenza nell’adulto di caratteristiche fetali e infantili.

Tali caratteristiche sono riconducibili alla neotenia, vale a dire ad un ritardo dello sviluppo che, mantenendo un elevato tasso di crescita neuronale, fa sì che il cervello umano cresce sino a 23 anni, determinando una ristrutturazione tra la neocorteccia e i centri emozionali.

La neotenia comporta sia una dipendenza prolungata dall’ambiente sociale sia un’estrema plasticità cerebrale. La dipendenza prolungata è funzionale al fine di consentire la replicazione della cultura, vale a dire la trasmissione di valori, competenze e moduli di comportamento da una generazione all’altra.

Essa, però, nella misura in cui implica un’interazione sociale perpetua, dà luogo ad una strutturazione del mondo interiore all’interno del quale l’Altro rimane rappresentato per sempre come referente dinamico dell’Io.

La socialità, dunque, non è solo una condizione di sviluppo dell’Io, ma, attraverso l’interiorizzazione dell’Altro, giunge a rappresentarne anche l’indispensabile complemento. L’io in tanto esiste non solo perché interagisce con il sociale, ma perché lo porta dentro di sé sotto forma di rappresentazione simbolica.

La radicale socialità di cui parla Marx, dunque, non è una tautologia per cui l’uomo vive in una relazione costante con i simili, ma una verità scientifica molto più profonda per cui Io e Altro sono soggettivamente due facce di una stessa medaglia.
Questo aspetto è stato corroborato dalla scoperta neurobiologica più importante degli ultimi anni: quella dei neuroni-specchio.

Per valutare l’importanza di tale scoperta, cito M. Iacoboni, che ha dedicato ad essa un saggio (I Neuroni specchio, Bollati Boringhieri 2008), di grande interesse. Egli scrive:

“Per secoli i filosofi si sono scervellati sulla capacità umana di capirsi reciprocamente. Uno sconcerto più che comprensibile, il loro, non avendo di fatto dati scientifici a disposizione. Negli ultimi centocinquanta anni, psicologi, scienziati cognitivi e neuroscienziati ne hanno avuti abbastanza, di dati scientifici su cui lavorare (e negli ultimi cinquant'anni, moltissimi), eppure per lungo tempo ancora hanno continuato a scervellarsi. Nessuno era in grado di fornire delle spiegazioni soddisfacenti su cos'è che ci permette di capire quello che gli altri fanno, pensano e provano.

Oggi siamo in grado di fornirle, queste spiegazioni: la nostra capacità penetrante di capire gli altri è dovuta a cellule cerebrali chiamate neuroni specchio. Queste sono le cellule che creano i piccoli miracoli della nostra quotidianità, che sono alla base del modo in cui governiamo le nostre vite, che ci legano gli uni agli altri, sul piano mentale e su quello emotivo..." (pp. 11-12)

"Quando vediamo qualcun altro che soffre o sente dolore, i neuroni specchio ci aiutano a leggere la sua espressione facciale e a farci provare la sofferenza o il dolore di quell'altra persona. Simili momenti sono la base fondante dell'empatia, e probabilmente anche del senso morale, un senso morale profondamente radicato nella nostra biologia..." (p. 12)

L’empatia consente di interpretare intuitivamente lo stato d’animo degli altri, ma essa sembra attivarsi in maniera elettiva allorché ci si confronta con stati d’animo che attestano una condizione di bisogno o di sofferenza:

“I neuroni specchio sono cellule cerebrali che sembrano essere specializzate nel comprendere la nostra condizione esistenziale e il nostro essere in relazione con gli altri. Dimostrano che non siamo strutturati come esseri soli, bensì abbiamo una base biologica, modellata attraverso l'evoluzione, che ci conduce a una profonda connessione reciproca con i nostri simili. La nostra neurobiologia (i neuroni specchio, nella fattispecie) ci vincola agli altri. I neuroni specchio sono la prova del modo più profondo che possiamo mettere in atto di interagire con gli altri e di capirli: dimostrano che l'evoluzione ci ha predisposti all'empatia, e dovrebbe essere questa l'idea guida sulla base della quale modellare la società in cui viviamo allo scopo di renderla migliore.” (p. 226)

Giacomo Rizzolati, in So quel che fai (Raffaello Cortina, 2006), ha espresso questo concetto in termini più pregnanti:

“Il sistema dei neuroni specchio appare decisivo per l’insorgere di quel terreno di esperienza comune che è all’origine della nostra capacità di agire come soggetti non soltanto individuali ma anche e soprattutto sociali. Forme più o meno complicate di imitazione, di apprendimento, di comunicazione gestuale e addirittura verbale, trovano, infatti, un riscontro puntuale nell’attivazione di specifici circuiti specchio. Non solo: la nostra stessa possibilità di cogliere le reazioni emotive degli altri è correlata ad un determinato insieme di aree caratterizzate da proprietà specchio. Al pari delle azioni, anche le emozioni risultano immediatamente condivise: la percezione del dolore o del disgusto altrui attivano le stesse aree della corteccia cerebrale che sono coinvolte quando siamo noi a provare dolore o disgusto.

Ciò mostra quanto radicato e profondo sia il legame che ci unisce agli altri.” (p. 4)

Sia la condizione neotenica umana che la scoperta dei neuroni specchio invalidano l’antropologia borghese, che fa riferimento all’individuo come un ente primario che utilizza le risorse dell’ambiente per costruire se stesso.

E’ senz’altro vero che le scoperte cui ho fatto riferimento non comportano conseguenze univoche. E’ per effetto della neotenia che i soggetti in fase evolutiva interiorizzano una determinata cultura, con i suoi valori, ma anche i suoi luoghi comuni e i suoi pregiudizi, come se fosse assoluta. E’ per effetto dei neuroni specchio che essi tendono ad imitare gli altri e ad orientarsi verso forme di conformismo e di omologazione.

E’ importante sottolineare, però, che queste caratteristiche del cervello umano sembrano predisposte per promuovere uno sviluppo che, partendo dall’interiorizzazione di una cultura locale o storicamente determinata, la utilizza come punto di leva per giungere ad una socialità universale, vale a dire ad un riconoscimento empatico della dignità, dei diritti e dei bisogni del soggetto e di ogni altro essere umano.

La natura non poteva non produrre un cervello consonante e adattabile in rapporto al gruppo di appartenenza e alla sua cultura. Al tempo stesso, dotandolo di un’indefinita ridondanza, è come se essa lo avesse predisposto, se non programmato, per giungere ad un’universalizzazione dell’umano.

Se le cose stanno così, c’è da chiedersi come si sia potuto affermare il Capitalismo, il cui sviluppo comporta una spinta verso l’affermazione personale egoistica imprescindibile da un’inibizione o un’anestetizzazione dell’empatia.

La risposta non è affatto semplice. Il capitolo sulla giornata lavorativa de Il Capitale è un documento agghiacciante sulla disumanità dei capitalisti, che sembrano assolutamente indifferenti alla sorte della “merce” (i lavoratori) di cui hanno bisogno. Pur stigmatizzando in maniera implacabile tale disumanità, Marx però prescinde da un giudizio di valore moralistico. Egli sa che i comportamenti “mostruosi” dei capitalisti non sono agiti da mostri, ma da rispettabili cittadini, da buoni mariti e da padri impegnati a costruire il futuro dei loro figli.

La verità, dunque, è che essi sono il frutto di cambiamenti storici che hanno determinato la necessità di un cambiamento antropologico, il cui modello filosofico è agevolmente identificabile in Th. Hobbes.

L’empatia è una funzione psichica intuitiva, vale a dire precognitiva e preriflessiva, dunque inconscia. Essa deve fare i conti con la cultura e, per quanto riguarda il Capitalismo, con una razionalità utilitaristica incentrata sul vantaggio individuale, che si impone come una legge. L’individualismo competitivo, promosso da quel modello, spinge l’affermazione personale sulla via dell’egoismo e dell’indifferenza sociale.

ll sistema capitalistico, in breve, è una “macchina” che, una volta avviata dai cambiamenti storici, va per la sua strada e riduce progressivamente il grado di libertà di cui le persone dispongono. Essa postula la rimozione dell’empatia, perché chi la coltiva inesorabilmente perde e viene emarginato.

Con l'anestetizzazione dell'empatia, la personalità umana viene ad essere mutilata per quanto essa possa funzionare in maniera intraprendente ed efficiente. Tale mutilazione viene mascherata attraverso l'adesione all'ideologia dominante e all'adozione di meccanismi molteplici di mistificazione.

Gli spietati Capitalisti dell’800, già condizionati dalla macchina del sistema, erano solo gli antesignani di una trasformazione antropologica destinata a diventare epidemica nel mondo occidentale. Tale trasformazione postula che la società non esiste se non come somma di indefiniti individui distinti tra loro, ciascuno dei quali, per realizzarsi, deve sovrapporre il calcolo utilitaristico alla ragione del cuore e reprimere l’empatia, la quale comporta il rischio di una regressione dell’umanità verso una forma di ugualitarismo indistinto, mediocre e miserabile.

La grande intuizione, in gran parte inconscia, di Marx è che questa mutilazione non è affatto necessaria al progresso dell’umanità, e che la ricchezza sociale prodotta dall’umanità nel corso della sua storia e portata all’estremo dal Capitalismo, fondi i presupposti di uno sviluppo integrale dell’individuo, che comporta il dispiegamento del suo bisogno di socialità universale e del suo bisogno di individuazione.

I dati forniti dalle discipline di cui abbiamo parlato (la psicoanalisi dialettica, la teoria evoluzionistica degli equilibri punteggiati, la neurobiologia, ecc.) sembrano, nel loro complesso, supportare tale “utopia”.
Un ulteriore passo in avanti si può fare tenendo conto che la teoria dei bisogni intrinseci, che tiene conto di tutti quei dati, può essere agevolmente integrata con la corrente psicologica che, nel Novecento, ha tentato di verificare la pertinenza scientifica, sul terreno pedagogixo, del pensiero di Marx.

 

Psicologia marxista

Una critica ricorrente rivolta a Marx concerne lo scarso interesse manifestato nei confronti degli aspetti psicologici dell'esperienza umana. L'economicismo deterministico di Marx, che ridurrebbe gli esseri umani a variabili dipendenti del sistema produttivo, ignorando il peso della personalità e della soggettività (conscia e inconscia), sarebbero addirittura le cause fondamentali del fallimento delle esperienze del socialismo reale.

Fortemente influenzata nel corso del '900 dallo sviluppo delle scienze psicologiche, e della psicoanalisi in particolare, tale critica difetta alquanto di profondità. Una lettura anche superficiale delle opere di Marx lascia trasparire, al di sotto dell'analisi dei fenomeni economici e storici, una trama complessa di passioni, di motivazioni e di convinzioni. La lotta di classe, che segna la storia umana, pur essendo incentrata sul conflitto per il possesso dei mezzi di produzione, che determina la distribuzione dei prodotti, materiali e ‘spirituali’, e la loro fruizione, è di fatto riconducibile all’opposizione irriducibile tra due visioni del mondo: l’una, modellata dalla realtà storica, che, riconoscendo il diritto dei più forti come espressione del loro valore personale e della loro libertà individuale, approda inesorabilmente al darwinismo sociale, vale a dire a considerare insignificante l’esperienza degli altri, dei perdenti; l’altra, determinata dall’oppressione e dalla disumanità, che, opponendo alla libertà individuale la giustizia, rivendica la pari dignità (non l’eguaglianza) di tutti gli esseri umani e alimenta, in nome di questo valore, il ‘sogno’ di un mondo fatto a misura d’uomo.

E' vero che, in Marx, queste visioni del mondo sono determinate dal modo di produzione proprio di ogni sistema sociale in cui si realizzano, e che, pertanto, si pongono come forme del sentire, del pensare e dell'agire riconoscibili solo nella loro generalità: forme, dunque, della coscienza sociale che non implicano le sfumature e le varianti che le specificano come vissuti all'interno delle singole esperienze soggettive. Ma, intanto, dare rilievo alla forma socio-storica o ai contenuti soggettivi dell'esperienza individuale rappresenta un'opzione di fondo nell'interpretazione del modo di essere e di porsi dell'uomo nel mondo, e, in secondo luogo, tale opzione dipende dallo scopo che viene perseguito. Marx è un filosofo, uno storico e un'economista impegnato a cercare una chiave interpretativa che dia senso all'intera vicenda terrena della specie umana - un senso che consenta a questa di appropriarsene e di porla sotto controllo -, non uno psicologo.

Nella misura in cui quella ricerca non può prescindere dall'uomo reale, concreto, in carne e ossa, e cioè dall'individuo che sente, pensa e agisce nel mondo, essa non abbisogna d'altro che di una psicologia storica, vale a dire di una psicologia che ponga tra parentesi quanto, nella singola esperienza, si dà di unico e irripetibile, e privilegi quanto si dà di comune ad altre esperienze.

Minimizzare, ritenere riduttivo questo approccio o, addirittura, invalidarlo come incapace di spiegare la soggettività nella sua unicità e irripetibilità, implica, per un verso, riferirsi all'individuo come espressione di un'autoproduzione e assegnare alle circostanze ambientali un significato relativo; per un altro, negare il fatto che - visti da lontano, e cioè nel loro modo di essere e di porsi nel mondo - gli uomini di una determinata epoca appaiono, in riferimento alla loro collocazione nella gerarchia sociale e al loro comportamento, sorprendentemente simili o, meglio, assimilati dai sistemi di valori culturali dominanti (il cui dominio si riverbera anche nei sistemi di valori antitetici...).

Contrapporre, nello studio dei fatti umani, il sociologismo e lo psicologismo è sterile poiché l'uomo è, in senso letterale, un prodotto sociale che si autoproduce, e cioè differenzia una sua identità unica e irripetibile a partire dall'acquisizione di un'identità culturale, resa possibile dalla sua appartenenza ad un determinato contesto socio-storico. Ma il fatto che l'autoproduzione è subordinata alla socializzazione significa che una psicologia storica può arricchirsi di strumenti estensibili alla soggettività individuale, mentre una psicologia individuale o microsociale rimane inesorabilmente sul piano della comprensione dei vissuti e delle interazioni: in breve, non può pervenire alla loro spiegazione.

Il progetto di una psicologia storica trova oggi un sostegno nella scoperta dei neuroni specchio e nel recupero dei lavori della psicologia sovietica, e soprattutto di Lev Vigotskij.

La scoperta dei neuroni specchio è di avere valorizzato il ruolo dell’intersoggettività e dell’azione nella costruzione della personalità. L’apprendimento originario in gran parte è dovuto all’attività di neuroni specchio che decodificano i movimenti degli altri e consentono di imitarli. Se si tiene conto del ruolo dell’imitazione nello sviluppo della personalità, si comprende che la scoperta dei neuroni specchio rovescia le carte in tavola rispetto ad una tradizione che ha sempre identificato nel linguaggio e nel pensiero, intese come dimensioni simboliche se non addirittura “spirituali”, le matrici della coscienza. Ora, l’entrata in azione di queste funzioni psichiche sembra imprescindibile dall’empatia, dall’intersoggettività e dall’attività di neuroni motori che decodificano il significato dei comportamenti altrui e consentono di simularlo interiormente, prima eventualmente di agirlo.

E’ la precognizione e la preriflessività dei neuroni specchio che sembra, oggi, avviare l’attività del linguaggio, del pensiero e della riflessione.

La scoperta dei neuroni specchio non ha fatto altro che confermare le intuizioni di Lev Vigotskij, uno psicologo marxista la cui breve ma intensa stagione intellettuale (è morto a 37 anni) ha profondamente segnato la storia delle scienze psicologiche. Egli, infatti, fedele all’insegnamento marxiano, ha gettato le basi di una psicologia concreta, che mira a rendere dialettico il rapporto tra mondo esterno e mondo interno sottolineando il valore della socialità nella evoluzione della personalità umana.

Basterà fornire alcune citazioni a riguardo:

“Sebbene l'intelligenza pratica e l’uso di segni possano operare indipendenti l'una dall'altro nei bambini piccoli, l'unità dialettica di questi sistemi è nell'adulto l'essenza stessa del complesso comportamento umano. La nostra analisi attribuisce all’attività simbolica una funzione organizzativa specifica che inserisce nel processo dell'uso di strumenti e che produce forme dl comportamento fondamentalmente nuove.

Il momento più significativo nel corso dello sviluppo intellettuale, che dà vita alle forme puramente umane dell'intelligenza pratica e astratta, avviene quando linguaggio e attività pratica, due linee di sviluppo che precedentemente erano del tutto indipendenti, convergono.

Sebbene nei bambini l'uso di strumenti durante il periodo prelinguistico sia paragonabile a quello delle scimmie, appena il linguaggio e l'uso di segni sono incorporati in qualsiasi azione, l'azione si trasforma e si organizza lungo linee del tutto nuove. Si realizza così l'uso di strumenti specificamente umano che va oltre l'uso più limitato di strumenti possibile tra gli animali superiori.

Prima di padroneggiare il suo comportamento, il bambino comincia a padroneggiare ciò che lo circonda con l'aiuto del linguaggio. Questo fornisce nuovi rapporti con l'ambiente oltre alla nuova organizzazione dello stesso comportamento. La creazione di queste forme di comportamento unicamente umane in seguito forma l'intelletto e diviene la base del lavoro produttivo, cioè la forma specificamente umana dell'uso di strumenti.” (pp. 42-43)

“Potremmo formulare come segue la legge genetica generale dello sviluppo culturale: ogni funzione nel corso dello sviluppo culturale del bambino fa la sua apparizione due volte, su due piani diversi, prima su quello sociale, poi su quello psicologico, dapprima tra le persone, come categoria interpsichica, poi all'interno del bambino, come categoria intrapsichica. Ciò vale ugualmente sia per l'attenzione volontaria che per la memoria logica, che per la formazione dei concetti e lo sviluppo della volontà. Siamo nel pieno diritto di considerare questa assunzione come una vera e propria legge, ma s'intende che il passaggio dall'esterno all'interno trasforma il processo stesso, ne muta la struttura e le funzioni. Dietro a tutte le funzioni superiori e ai loro rapporti stanno geneticamente delle relazioni sociali, relazioni reali tra gli uomini. Ne segue che uno dei principi fondamentali della nostra volontà è quello della divisione delle funzioni tra gli uomini, una nuova suddivisione binaria di ciò che ora è fuso insieme, il dispiegarsi, sperimentale, del processo psichico superiore nel dramma che ha luogo tra gli uomini.

Potremmo perciò definire la sociogenesi delle forme superiori del comportamento come il risultato principale della storia dello sviluppo culturale del bambino.

La parola 'sociale' applicata al nostro oggetto ha un significato importante. Innanzitutto, come dice il significato più ampio della parola, significa che tutto ciò che è culturale è sociale. La cultura è il prodotto della vita sociale e dell'attività collettiva dell'uomo, e perciò la stessa posizione del problema dello sviluppo culturale del comportamento ci introduce immediatamente sul piano sociale dello sviluppo, inoltre si potrebbe osservare che il segno, che si trova al di fuori dell'organismo ed è, come lo strumento, separato dalla persona, è sostanzialmente un organo collettivo, o uno strumento sociale. Potremmo ulteriormente dire che tutte le funzioni superiori non si son venute costituendo nell'ambito della biologia, e neppure semplicemente nella storia della sola filogenesi, ma che il meccanismo che sta a loro fondamento è il calco di quello sociale. Tutte le funzioni psichiche superiori rappresentano delle relazioni sociali interiorizzate, il fondamento della struttura sociale della persona. La loro composizione, la struttura genetica, il loro funzionamento, in una parola tutta la loro natura è sociale; persino trasformandosi in processi psichici la natura ne rimane sociale. L'uomo, anche preso isolatamente, conserva le funzioni della comunicazione.

Modificando la nota affermazione di Marx, potremmo dire che la natura psicologica dell'uomo rappresenta l'insieme delle relazioni sociali trasportate all'interno e divenute funzioni della personalità e forme della sua struttura. Non desideriamo con questo affermare che sia proprio questo il significato della posizione di Marx, ma che noi vediamo in essa la più piena espressione dì tutto ciò a cui conduce la storia dello sviluppo culturale" (1931, pp. 201-2)

Perché questi aspetti di psicologia marxista si possono ritenere ancora oggi estremamente importanti?

Identificando nell’azione, nel linguaggio e nel pensiero “strumenti” finalizzati ad estendere il potere dell’uomo sulla realtà, intimamente correlati tra loro, Vigotskij, in piena fedeltà con lo spirito di Marx, promuove l’avvio di una formazione pedagogica che integri l’attività pratica e quella riflessiva e pone le premesse per capire in quale misura la divisione del lavoro manuale e di quello intellettuale ha danneggiato l’umanità.

Dagli anni ‘80 del secolo scorso, con l’avvento del cognitivismo, il pensiero di Vigotskij è stato recuperato e ampiamente utilizzato. Il problema è che esso è stato depurato dei presupposti marxisti che lo sottendono.

Intanto, si è messa tra parentesi la genesi intersoggettiva e sociale della personalità, che postula invece di capire i nessi interattivi e reciproci che si danno tra mondo esterno e mondo interno, vale a dire le dimensioni culturali entro le quali inesorabilmente si declina l’esperienza soggettiva anche nei suoi aspetti più intimi e inconsci.

In secondo luogo, non si è tenuto conto della contestazione vigotskiana alla divisione dell’attività manuale da quella intellettuale, che segna la storia dell’umanità ed ha raggiunto l’apice con l’avvento della società borghese.

Tale divisione rende l’uomo unilaterale, sia che si tratti di un intellettuale incapace di farsi da mangiare o di riparare un rubinetto, di una casalinga che non vede l’ora di seguire le puntate dei teleromanzi, di un operaio le cui uniche distrazioni sono il calcio, le bevute con gli amici, ecc.

Se ci si rende conto di questa mutilazione dell’umano, si capisce che il progetto di una società rivolta a produrre l’uomo onnilaterale, che sviluppa le sue potenzialità in tutte le direzioni possibili, non potrà realizzarsi con riforme pedagogiche che si ispirano al concetto di individuo borghese. Esso postula una riprogrammazione radicale della società finalizzata al massimo sviluppo dell’individuo sociale che non potrà avvenire se non sulla base di un’antropologia che restituisca all’uomo l’orizzonte della mondanità come unico orizzonte esistenziale, all’interno del quale la sua vicenda individuale assume senso perché essa è vissuta come immersa nel flusso della storia e condivisa con gli altri.

Storicismo, utopismo e speranza

Oltre all’economicismo, a Marx sono stai imputati due difetti, peraltro ad esso correlati: lo storicismo - la tendenza a leggere nello sviluppo storico un movimento orientato verso un fine deterministico, la fuoriuscita dalla preistoria caratterizzata dall'oppressione dell'uomo sull'uomo; e l'utopismo - la certezza che tale fine si realizzerà allorché l'umanità oppressa prenderà coscienza della possibilità, prodotta materialmente dal Capitalismo, di costruire un mondo fatto a misura d'uomo.

E' fuori di dubbio che, in misura maggiore rispetto all’economicismo, questi aspetti sono presenti nel pensiero di Marx, anche se i critici, compresi quelli benevoli, sono indotti spesso ad esasperarli e a caricaturizzarli, come se Marx fosse privo di una capacità autocritica che, invece, in lui era fin troppo spiccata.

Il vero limite di Marx in realtà è paradossale e consiste nel fatto che il maggior critico che sia mai esistito dell'ideologia, vale a dire della tendenza della coscienza umana a mistificare, a sovrapporre alla realtà una visione del mondo che, in qualche misura, la semplifica, la razionalizza e la distorce, ha pagato egli stesso un prezzo a tale tendenza.

Il prezzo in questione è riconducibile ad una teoria ingenua della mente umana. In quanto Grande Demistificatore, Marx sa che la coscienza, proprio in quanto "prodotto sociale", e quindi influenzata dalla divisione del lavoro, dalle tradizioni culturali e dalle visioni del mondo che ogni società costruisce per mascherare le sue contraddizioni, può cadere facilmente nella trappola delle apparenze, del senso comune, del conformismo. Egli sa di conseguenza che ciò che una società e gli individui che la compongano pensano di se stessi e della realtà di cui sono partecipi può essere null'altro che un'astrazione, una mistificazione, vale a dire un inganno inconsapevole.

Ciò nondimeno, è convinto che laddove le contraddizioni reali sono a tal punto clamorose da risultare incontenibili nella gabbia delle ideologie, si creano i presupposti per un salto di qualità che porta gli esseri umani a prendere atto di esse e a risolverle praticamente. Nella misura in cui lo sviluppo storico procede producendo contraddizioni sempre maggiori, che tenta di razionalizzare e di mascherare, esso pone le premesse per un salto di qualità radicale sulla via della costruzione di un mondo fatto a misura d'uomo.

Il cambiamento, che Marx identifica con la fuoriuscita dell'umanità dalla sua preistoria, caratterizzata dall'oppressione dell'uomo sull'uomo, non si realizzerà spontaneamente, ma in conseguenza della presa di coscienza di coloro che le contraddizioni le vivono sulla propria pelle, della loro capacità di organizzarsi e di lottare contro coloro che ne ricavano vantaggio.

In questa ottica, dato che le contraddizioni sono prodotte dalla storia, per innescare il cambiamento è necessaria solo una teoria critica che dia a coloro che le vivono gli strumenti per capire il significato reale che esse hanno.

La contraddizione che Marx coglie alla sua epoca è lo scarto tra l'enorme crescita della ricchezza, prodotta dal sistema capitalistico, e lo stato di miseria, di degradazione e di "svuotamento" in cui versa una quota consistente della popolazione, che concerne i lavoratori sfruttati nelle fabbriche e l'esercito di riserva dei disoccupati. Tale scarto, ai suo occhi, è la conseguenza paradossale dello scioglimento dei vincoli di dipendenza che, in precedenza, subordinavano l'individuo al gruppo di appartenenza e alla gerarchia sociale. Libero e indipendente, l'individuo, nel contesto del capitalismo, deve darsi da fare per sopravvivere. Questa nuova condizione, lo pone però fronte a fronte con le leggi "oggettive" dell'economia, per cui la sua libertà può significare, a seconda delle circostanze, la necessità di vendere la sua forza-lavoro, la sua stessa vita, accettando lo sfruttamento, o di rimanere escluso, nell'attesa che il sistema abbia bisogno di essa come "merce".

Cos'è che non funziona in questo sistema, che pure promuove una smisurata crescita della ricchezza? Che esso, pur essendo nato sulla base della rivendicazione della libertà dell'individuo, di fatto la assoggetta a leggi economiche che, ponendosi come oggettive, sembrano indipendenti dalla volontà umana.

La Mano Invisibile di Smith, che è un’anticipazione della Teoria dei sistemi complessi, fa riferimento appunto alla “misteriosa” capacità del sistema capitalistico di giungere ad una configurazione di equilibrio, vantaggiosa per tutti.

Marx si assume il compito di dimostrare: primo, che le leggi in questione non sono oggettive, bensì il prodotto dello sviluppo storico e dell'ordine sociale e culturale maturato in virtù di esso; secondo, che il sistema capitalistico, spinto dal la necessità di uno sviluppo illimitato, tende solo apparentemente verso l’equilibrio. Esso, di fatto, comporta contraddizioni intrinseche tali per cui periodicamente si generano crisi catastrofiche che, con il loro aggravarsi, postulano il suo superamento.

Proponendosi di demistificare l'economia politica, e di dimostrare che essa descrive ma non spiega, né peraltro potrebbe spiegare la realtà storica, caratterizzata da una nuova forma di oppressione dell'uomo sull'uomo, più insidiosa rispetto a quelle del passato, perché, appunto, fondata sulla libertà individuale, Marx non nutre dubbi sul fatto che la presa di coscienza a riguardo mobiliterà gli oppressi sulla via di un cambiamento radicale dello stato di cose esistente.

Egli identifica addirittura una classe - il proletariato - che, in nome delle condizioni in cui vive, che mortificano la dignità umana, sarebbe pervenuta per prima alla consapevolezza della necessità di sormontare la divisione del lavoro e la proprietà privata dei mezzi di produzione, avviando una rivoluzione che avrebbe guidato l'umanità tutta verso un nuovo mondo affrancato dallo sfruttamento, dai conflitti, dalle superstizioni, dai pregiudizi: un mondo, insomma, nel quale l'uomo, pienamente realizzato come individuo sociale, fosse riconosciuto come fine e non come mezzo.

A posteriori, risulta del tutto evidente che se le contraddizioni del sistema capitalistico poste in luce da Marx sono del tutto reali (al punto che, per fare un esempio, negli Usa la crescita della ricchezza prodotta dalla fase espansiva degli anni Novanta ha fatto sì che i redditi dei manager sono aumentati trecento volte rispetto a quello dei lavoratori, che sono rimasti stabili), la tendenza delle coscienze a rimanere in uno stato di mistificazione non lo è di meno.

Se si può parlare, in riferimento a Marx, di utopia, il termine concerne non tanto il mondo che egli sogna, il quale è del tutto compatibile con la natura umana, ma lo statuto della coscienza umana, nella quale, soprattutto per quanto riguarda gli oppressi, egli ripone una cieca fiducia.

Come spiegare la genialità analitica di Marx e questa illimitata fiducia nella coscienza umana?

Marx è un filosofo totale: in contrapposizione ad Hegel, egli costruisce un sistema sulla base del principio per cui la storia umana non è la progressiva rivelazione dello Spirito (Uno, Dio, Logos o altro che si voglia pensare), bensì la manifestazione dei modi diversi in cui gli esseri umani affrontano i problemi reali legati alle loro esigenze di sopravvivere, di riprodursi e di aspirare alla soddisfazione di un oscuro bisogno non riconoscibile in alcun altro animale: il bisogno di felicità.

Le esigenze di sopravvivenza sono soddisfatte dalla produzione, vale a dire dallo sfruttamento delle risorse naturali che avviene in virtù di strumenti e di tecniche che, nel corso dei secoli, diventano sempre più complessi. I modi di produzione, che implicano l'insieme delle forze produttive e il sistema complessivo dei rapporti sociali all'interno dei quali avviene la produzione dei beni, determinano, almeno a partire dal superamento del comunitarismo originario, dovuto alla totale dipendenza dell'individuo dal gruppo, l'organizzazione complessiva della società con una distribuzione della ricchezza, dei beni e del potere che consente di distinguere in ogni epoca classi dominanti e classi dominate.

La riproduzione sociale, che assicura la perpetuazione della società, è anzitutto riconducibile al modo di produzione, nel senso che ogni generazione trasmette a quella successiva la tecnologia acquisita da quelle precedenti, con gli eventuali miglioramenti apportati. Essa, però, implica anche la trasmissione di principi, idee, valori - vale a dire di una cultura "immateriale" incarnata dalle istituzioni - che assicurano alla società una certa unità e coesione.

Marx ritiene che il modo di produzione rappresenti l'infrastruttura della società che consente di spiegare i principi, le idee e i valori che la caratterizzano e ne rappresentano la sovrastruttura.

Accettabile o meno che sia (vedremo che non lo è del tutto), fin qui il discorso marxiano è assolutamente coerente.

Il vero problema insorge quando egli analizza l'aspirazione alla felicità, riconducibile ad un insieme di bisogni radicali (pari dignità, libertà e giustizia). Da dove vengono questi bisogni? La risposta di Marx è che essi sono un prodotto della storia e della progressiva consapevolezza che gli uomini assumono riguardo alla loro condizione di esseri liberi e uguali, che rende sempre meno tollerabile l'oppressione dell'uomo sull'uomo. Lo stesso processo storico che li ha prodotti è destinato, dunque, a promuoverne inesorabilmente la realizzazione universale ad opera degli oppressi, che li sentono più vivamente perché soffrono della loro frustrazione.

Attribuendo la genesi dei bisogni radicali alla storia, Marx nega che essi siano costitutivi della natura umana. Egli in pratica sostiene che lo stesso processo storico che li ha fatti affiorare non potrà non esitare nella loro realizzazione universale. Allo stato attuale non si vede alcun soggetto storico collettivo che intenda farsi carico di questa realizzazione.

Nonostante la lucida analisi del sistema capitalistico, che trova puntuale riscontro nelle crisi economiche e antropologiche che stiamo vivendo, il pensiero di Marx, per risultare attuale, va integrato sulla base del riconoscimento che i bisogni radicali cui egli fa riferimento (dignità, libertà, senso di giustizia) hanno la loro matrice nella natura umana, vale a dire nell’organizzazione del cervello come prodotto dell’evoluzione naturale.

Attribuire i bisogni radicali alla natura umana comporta il vantaggio di poter continuare a pensare che, comunque vadano le cose, l'umanità dovrà fare i conti con essi fino alla fine.

L'innatismo dei bisogni radicali non implica ovviamente alcun determinismo biologico. La loro presenza nel corredo genetico umano nulla toglie al fatto che un mondo che ne consenta una piena realizzazione non può essere costruito che dall'uomo attraverso la pratica storica, e che ciò potrà avvenire solo in virtù del superamento del capitalismo che, per la sua logica intrinseca, non potrà mai consentire che la ricchezza sociale venga utilizzata anzitutto per offrire ai singoli individui opportunità di sviluppo adeguate alle potenzialità del loro corredo genetico.

Quella presenza, dunque, non implica alcuna necessità fatale: essa restituisce solo agli esseri umani una piena responsabilità sul loro presente e sul loro futuro.

Se il determinismo finalistico marxiano si può ritenere infondato, i giochi dunque vanno considerati aperti ad ogni possibile sviluppo storico.

Il conflitto, ovviamente, è tra la disumanizzazione prodotta dal Capitalismo, che va ricondotta al fenomeno dello sfruttamento così come l’ho definito nella precedente lettura, e l’umanizzazione che una rivoluzione socio-economica e culturale può promuovere.

I termini, per quanto suggestivi, peraltro, lasciano il tempo che trovano. C’è da chiedersi, infatti, quando, come e per effetto di chi e di cosa si potrà realizzare la rivoluzione di cui il mondo ha bisogno per non precipitare nella spirale di una “civilizzazione” barbara e selvaggia. C’è, inoltre, da chiedersi se essa potrà avvenire solo per effetto di un “ritorno” a Marx, che abbiamo visto nella prima lettura essere in atto, ma a livello intellettuale e in stretto riferimento all’analisi che egli ha fatto della globalizzazione centocinquanta anni prima che si realizzasse.

Non sono in grado ovviamente di rispondere a questi quesiti. Posso solo dire che, per un verso, l’analisi di Marx della logica intrinseca al sistema capitalistico è stata confermata dai suoi sviluppi anche recenti, ed essa postula che se ne progetti un superamento. Per un altro verso, sottolineo che la concezione dell’uomo di Marx, espressa in forma filosofica negli scritti giovanili e confermata dagli sviluppi scientifici cui ho fatto riferimento, conserva un incredibile fascino, configurandosi come antropologia laica che assegna alla specie umana un destino univocamente mondano ma sotteso da una incoercibile spinta all’umanizzazione come dimensione che appaga l’individuo nel suo intimo e realizza appieno la sua vocazione di ente sociale universale.

E’ superfluo aggiungere che, senza questi presupposti antropologici, la denuncia di Marx del sistema capitalistico non avrebbe i toni indignati che essa ha.

Quando egli scrive, nei Manoscritti economico-filosofici, che "la proprietà privata ci ha fatti talmente ottusi e unilaterali che un oggetto è nostro solo quando lo abbiamo, quando, dunque, esiste per noi come capitale, o è immediatamente posseduto, mangiato, bevuto, portato sul nostro corpo, abitato etc, in breve utilizzato” e che “tutti i sensi, fisici e spirituali, sono stati quindi sostituiti dalla semplice alienazione di essi tutti, dal senso dell'avere.” concludendo che “a questa assoluta povertà doveva ridursi l'ente umano, per produrre alla luce la sua intima ricchezza" è come se anticipasse la trama profonda de Il Capitale, volto a dimostrare che l’alienazione umana è un passaggio necessario per andare al di là di essa.

Il problema è che quest’al di là, per realizzarsi, postula che le coscienze lo credano, lo sentano e lo vogliano.

La situazione nella quale viviamo sembra non comportare molte speranze a riguardo. Occorre però tenere conto che la dialettica storica, che è stata da alcuni anni riformulata in riferimento alla Teoria dei sistemi complessi, non implica un movimento continuo, ma lunghe fasi di apparente stagnazione che esitano, imprevedibilmente, in bruschi e radicali cambiamenti di una struttura sociale e della visione del mondo che la sottende.

Non ha senso essere ottimisti, ma non lo ha neppure disperarsi e pensare che la storia non riservi ancora grandi novità alla specie umana. I giochi, come ho detto, si possono ritenere ancora aperti. Se lo sono, ciò è dovuto in gran parte al pensiero di Marx.