Letture marxiane

Lettura III

La concezione dell'uomo e della storia
La critica dell'economia
La concezione dell'uomo di Marx
Alienazione
Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte

La critica dell'economia

La biografia e l’analisi della personalità di Marx pongono in luce la sua dedizione totale alla causa di una specie straordinaria che ha lavorato incessantemente per sopravvivere e per vivere meglio, trasformando il mondo e accumulando, anche senza una volontà determinata, una ricchezza sociale (materiale e culturale) che potrebbe essere utilizzata ai fini di un mondo fatto a misura d’uomo. Lo stato di cose esistente, però, sia all’epoca di Marx che ancora oggi, è inquietantemente lontano da un mondo siffatto.

Interpretare questo paradosso, riconducibile allo spreco della ricchezza sociale e del capitale umano, è l’impegno primario di Marx. Tale impegno è, però, giustificato solo dal fatto che esso, restituendo all’umanità il “sogno” che inconsapevolmente ha perseguito, la mobilita coscientemente verso un cambiamento radicale.

Per valutare il pensiero di Marx, non si deve dimenticare che il suo ruolo di intellettuale è totalmente subordinato al fine primario di promuovere una rivoluzione al tempo stesso politica, economica, sociale, culturale e psicologica. Al di là dell'onnipotenza del progetto, che gli assegna il ruolo di nuovo Mosé, che deve guidare l'umanità fuori dalla sua preistoria e verso la Terra promessa, il problema è che Marx ha una fiducia illimitata nella natura umana, nella storia e nella capacità degli oppressi di leggerne e capirne il significato reale e l'obiettivo implicito nel suo sviluppo.

Egli ritiene che la natura sia predisposta alla costruzione di un mondo fatto a misura d'uomo, che la storia, in virtù dello sviluppo delle forze produttive umane, graviti verso un mondo di ineguagliata ricchezza e libertà, e, infine, che la coscienza umana, seppure incline all'inganno ideologico, vale a dire a leggere la realtà storica come se essa fosse nell'ordine della natura, possa, costretta dalle circostanze oggettive, giungere ad una consapevolezza che promuova la fuoriuscita dell'umanità dalla sua preistoria.

La grandezza e i limiti di Marx, come già accennato nella prima lettura, stanno, per l'appunto, in questa illimitata fiducia. Per quanto riguarda la natura umana, le sue intuizioni, come vedremo, sono sconcertantemente attuali. Per quanto riguarda la storia, assegnare ad essa un fine predeterminato sembra non tenere conto che essa è proceduta, procede e procederà per tentativi ed errori. Per quanto riguarda, infine, la coscienza umana, Marx paga il prezzo di una visione sostanzialmente ingenua, che associa alla sofferenza dello sfruttamento non solo l'ovvia motivazione individuale e di classe di liberarsi da essa, ma addirittura la volontà di liberare tutta l'umanità.

Capire Marx significa apprezzarne la grandezza e riconoscere i suoi limiti, che oggi possono storicamente interpretati e, per alcuni aspetti, integrati con l'apporto delle scienze umane e sociali.

La cosa migliore, a tal fine, è procedere tenendo conto dello sviluppo storico del suo pensiero che riconosce una fase giovanile, che si può ritenere conclusa nel 1848 con la stesura del Manifesto del partito comunista, e una fase matura, vanamente protesa a portare a termine Il Capitale. La fase giovanile dura una frazione (circa sei anni) di quella matura, che supera i trenta anni. Essa, però, ha una grande importanza perché, nel suo corso, Marx mette a fuoco la concezione dell'uomo e della storia che non solo rimarranno sottese allo sforzo immane di portare a termine Il Capitale, ma soprattutto lo orienteranno verso la "dimostrazione" dell'inevitabile tramonto del capitalismo.

Alla fase giovanile risalgono vari lavori tra cui spiccano i Manoscritti economico-filosofici del 1844 e l'Ideologia tedesca, scritta nel 1845-46. Entrambe le opere non vedono la luce: la prima perché Marx l'abbandona, la seconda perché nessun editore l'accetta. Entrambe sono pubblicate nel 1932, allorché l'esperienza sovietica è già avviata da un quindicennio, e provocano una sorta di terremoto nel campo del marxismo.

In essi, infatti, risulta evidente che l’analisi critica che Marx fornisce successivamente del sistema capitalistico, nell’apparente oggettività scientifica, postula, per essere compresa nel suo autentico valore, di tenere conto dei presupposti antropologici e filosofici che Marx ha affidato ai Manoscritti e all’Ideologia tedesca, e sui quali, nell’opera maggiore, non torna più, dandoli come acquisiti.

Il problema, all’epoca, è che il regime sovietico, per effetto della rozzezza intellettuale di Stalin, ha già imboccato la via di una realizzazione dogmatica del pensiero di Marx, che privilegia l’analisi demonizzata del capitalismo e della classe borghese e procede sulla base dell’imposizione sociale dei principi comunisti (ateismo, abolizione della proprietà privata, collettivismo di Stato, lotta repressiva contro qualunque forma di resistenza o di dissidenza, ecc.), trascurando il problema della riforma delle coscienze.

Le opere giovanili di Marx, quando vedono la luce, sono di conseguenza abiurate dal regime sovietico, che legge in essi una fase ancora confusa di elaborazione teorica giovanile destinata ad esitare nella “scientificità” de Il Capitale.

Nell’ambito del marxismo occidentale, invece, o, per essere più precisi, di un certo numero di intellettuali marxisti che hanno già preso le distanze dal regime sovietico (Scuola di Francoforte, E. Bloch, R. Mondolfo, ecc.) e dai Partiti comunisti operanti in Occidente in gran parte ad esso subordinati, le opere giovanili di Marx vengono invece profondamente apprezzate. Essi, infatti leggono in essi le prove di un’antropologia storica indispensabile per capire l’autentico significato ultimo degli scritti successivi.

Il contrasto tra l’interpretazione sovietica, che si è autoproclamata sino alla fine dell’URSS come “ortodossa”, e l’interpretazione occidentale, può essere facilmente esemplificata.

La diffusione del marxismo nell’Unione Sovietica è avvenuto per molti anni sulla base di un libricino di Stalin incentrato su di una valorizzazione dell’aspetto più caduco del pensiero di Marx,

Tale principio è espresso sinteticamente nell’articolo Materialismo Dialettico e Materialismo Storico, pubblicato in "Storia del Partito Comunista", cap. 4, parte seconda nel 1938, da cui è tratta la seguente citazione:

“Se è vero che i legami reciproci tra i fenomeni della natura e il loro reciproco condizionamento rappresentano leggi necessarie dello sviluppo della natura, ne deriva che i legami e il condizionamento reciproco tra i fenomeni della vita sociale rappresentano essi pure non delle contingenze, ma delle leggi necessarie dello sviluppo sociale.

Vuol dire che la vita sociale, la storia della società, cessa di essere un cumulo di "contingenze", giacché la storia della società si presenta come uno sviluppo della società secondo leggi determinate, e lo studio della sto­ria della società diventa una scienza...

Se è vero che il mondo è conoscibile e se è vero che la nostra conoscenza delle leggi dello sviluppo della natura è una conoscenza valida, che ha il valore di una verità oggettiva, ne deriva che la vita sociale e lo sviluppo della società sono pure conoscibili, e che i dati della scienza sulle leggi dello sviluppo della società sono dati validi, che hanno il valore di verità oggettive.

Vuol dire che la scienza della storia della società, nonostante tutta la com­plessità dei fenomeni della vita sociale, può diventare una scienza altrettan­to esatta quanto, ad esempio, la biologia, capace di utilizzare le leggi di sviluppo della società per servirsene nella pratica.”

Se ci riconduciamo, viceversa, ad un marxista occidentale come Ernst Bloch, l’interpretazione di Marx cambia al punto che l’autore titola la sua opera principale Il Principio speranza (Garzanti, Milano 1994), scritta tra il 1938 e il 1947 e rivista nel 1959, nella cui premessa si legge:

“Chi siamo? Da dove veniamo? Dove andiamo? Che cosa ci aspettiamo? E che cosa ci aspetta?

Molti si sentono soltanto confusi. Il terreno vacilla, e non sanno perché e per che cosa. Una condizione d’angoscia, la loro, che diviene paura se assume più precisi contorni.

[…] Ora […] è tempo di un sentimento più degno.

L'importante è imparare a sperare. Il lavoro della speranza non è rinunciatario perché di per sé desidera aver successo invece che fallire. Lo sperare, superiore all'aver paura, non è né passivo come questo sentimento né, anzi meno che mai, bloccato nel nulla. L'affetto dello sperare si espande, allarga gli uomini invece di restringerli, non si sazia mai di sapere che cosa internamente li fa tendere a uno scopo e che cosa all'esterno può essere loro alleato. Il lavoro di quest'affetto vuole uomini che si gettino attivamente nel nuovo che si va formando e cui essi stessi appartengono. Non tollera una vita da cani, che si senta solo passivamente gettata in un’esistenza non capita nei suoi intenti o addirittura riconosciuta per miserabile.

[…] La vita di tutti gli uomini è attraversata da sogni a occhi aperti, una parte dei quali è solo fuga insipida, anche snervante, anche bottino per imbroglioni; ma un'altra parte stimola, non permette che ci si accontenti del cattivo presente, appunto non permette che si faccia i rinunciatari. Quest’altra parte ha nel suo nocciolo la speranza, ed è insegnabile...

[…] Il presente libro non tratta d'altro che dello sperare che supera il giorno che si è fatto. Il tema delle cinque parti di quest'opera (scritta dal 1938 al 1947, rivista nel 1953 e nel 1959) sono i sogni di una vita migliore. I loro tratti e contenuti immediati, ma soprattutto quelli mediabili, vengono individuati, studiati, esaminati in lungo e in largo. E, passando attraverso i piccoli sogni a occhi aperti, la nostra via conduce ai sogni forti, attraverso i sogni ondeggianti e dei quali si può abusare conduce ai sogni rigorosi, attraverso i mutevoli castelli in aria, a quella cosa unica che ancora non c'è e di cui c'è bisogno.” (pp. 5-14)

Stalin fa riferimento a presunte leggi oggettive dello sviluppo storico, omologabili a quelle che che vigono a livello naturale, ponendo tra parentesi il fatto che tali leggi siano destinate a realizzarsi dipendentemente o indipendentemente dall’azione umana. Egli pensa di essere fedele a Marx, ma sembra trascurare il fatto che questi, nel 1938, non avrebbe probabilmente scritto le stesse cose che ha scritto quasi un secolo prima. Bloch, viceversa, ha preso atto della paura e della disperazione che si è diffusa nel mondo in conseguenza di due guerre mondiali, del trionfo del capitalismo statunitense, dell’imborghesimento della classe operaia nei paesi occidentali, del burocratico grigiore repressivo che vige in Unione Sovietica, dell’avvento dell’esistenzialismo nichilista, ecc. Egli non esita a riproporre il marxismo nella forma dell’utopia concreta, vale a dire di un “sogno” che si potrà realizzare solo attraverso lo sforzo convergente di coscienze capaci di sormontare l’ottica dell’individualismo e di pensare al loro futuro e a quello delle generazioni che verranno.

Chi è più vicino allo spirito di Marx?

Cerchiamo di porre i presupposti per una risposta analizzando le opere giovanili.

Dai Manoscritti e dall’Ideologia tedesca, di fatto, si possono estrapolare tre nuclei fondamentali per gli sviluppi ulteriori del pensiero di Marx: la concezione dell'uomo, il problema dell'alienazione e la concezione della storia.

Dovrò necessariamente semplificare il discorso, adottando il metodo già utilizzato delle citazioni tradotte e analizzate. Molte di queste citazioni sono tratte dai Manoscritti e da L'ideologia tedesca. Esse vengono integrati da citazione tratte da opere successive, per dimostrare la continuità che si dà tra opere giovanili e opere mature.

Il metodo è naturalmente contestabile. Estrapolando singole frasi dalla nebulosa delle opere di Marx, si può dimostrare tutto e il contrario di tutto. L'economia di queste letture giustifica l'azzardo.

La concezione dell'uomo

Nonostante la sua ammirazione per Darwin e il riconoscimento che la sua opera ha sancito l'appartenenza dell'uomo alla storia naturale, Marx non ha mai dedicato alcuna riflessione esplicita alla natura umana. Egli è a tal punto avverso alla speculazione fine a se stessa che, in opposizione alla tradizione filosofica, cui ho fatto cenno nella lettura precedente, è giunto persino a negare l’esistenza di una natura umana, ritenendola un’astrazione in nome del fatto che tutte le sue manifestazioni sono storiche, dipendono cioè dall’interazione di un individuo con il suo gruppo di appartenenza e con l’ambiente naturale e culturale.

Quando egli afferma che l’atto di nascita dell’uomo è la storia, intende dire che l’uomo non è mai esistito se non sotto forma di animale sociale e culturale, vale a dire sotto forma di un essere immerso in un gruppo impegnato a trasformare la natura per adattarla ai suoi singolari bisogni.

Da questo presupposto, che si può ritenere ancora oggi convalidabile, la tradizione marxista ha ricavato un rigido determinismo ambientale che si è contrapposto a lungo alla valorizzazione della genetica nella comprensione dell’uomo, anche perché tale scienza è stata utilizzata da alcuni studiosi per confutare il “mito” dell’uguaglianza umana e interpretare la disuguaglianza tra gli esseri umani come espressione di diversità genetiche.

Oggi non nutriamo dubbi sul fatto che la natura umana esista, che sia riconducibile al corredo genetico che governa lo sviluppo dell’essere umano, e che essa comporti capacità universali (come per esempio la predisposizione ad acquisire un linguaggio) e attitudini individuali, il cui sviluppo dipende dall’interazione con l’ambiente.

Possiamo utilizzare concetti sofisticati come quelli di genotipo e fenotipo, di norma di reazione, di ridondanza funzionale, di ex-aptation: concetti assenti nel periodo in cui vive Marx.

Nella sua onnivora fame di sapere, questi ha studiato anche la fisiologia umana e, presumibilmente, si è interessato del sistema nervoso. Le conoscenze dell'epoca non potevano essere certo di grande aiuto. Per ciò, parlando dell'uomo, egli parte da dati empirici, poco confutabili. Poi naturalmente ci aggiunge del suo…

Marx non ha dubbio riguardo al fatto che l'uomo sia un essere naturale. Esprime questa convinzione con estrema chiarezza:

"Il primo punto di partenza di tutta la vicenda umana è, naturalmente, l'esistenza di esseri umani viventi. La prima realtà da constatare è, quindi, la strutturazione fisica di questi esseri e il rapporto che ne deriva con il resto della natura." (L'ideologia tedesca)

"La natura è il corpo inorganico dell'uomo, cioè quella natura che non è essa stessa corpo umano. Che l'uomo viva della natu­ra significa che la natura è il suo corpo con cui deve stare in costante rapporto per non morire." (Manoscritti economico-filosofici del 1844)

La condizione oggettiva dell'uomo come essere vivente, dunque, sotto il profilo biologico, non è diversa rispetto a quella degli animali:

"L'uomo è immediatamente ente naturale. Come ente naturale, e ente naturale vivente, è da una parte fornito di forze naturali, di forze vitali, è un attivo ente naturale, e queste forze esistono in lui come disposizioni e capacità, come impulsi; e d'altra parte, in quanto ente naturale, corporeo, sensibile, oggettivo, è un ente passivo condizio­nato e limitato, come è anche l'animale, e la pianta: e cioè gli oggetti dei suoi impulsi esistono fuori di lui come oggetti da lui indipendenti, e tuttavia questi oggetti sono oggetti del suo biso­gno, oggetti indispensabili, essenziali alla manifestazione e conferma delle sue forze essenziali." (Manoscritti economico-filosofici del 1844)

Si danno, però, numerose differenze che, senza trascendere il piano della natura, consentono di affermare che la specie umana è del tutto particolare.

La prima è che l'uomo soffre del suo stato bisognoso e stato "carenziale" di cui è consapevole:

"Esser sensibile, cioè reale, [significa] avere oggetti sensibili fuori di sé, avere degli oggetti della propria sensibilità. Esser sensibile è esser passivo. L'uomo in quanto è un ente oggettivo è dunque un ente sofferente, e poiché è un ente che avverte il suo patire esso è un ente appassionato. La passione è la sostanziale forza umana tendente con energia al suo oggetto." (Manoscritti economico-filosofici del 1844)

Gli oggetti della "passione umana" sono tre, correlati tra loro: la relazione con l'Altro, la natura, nella misura in cui può essere trasformata e adattata ai bisogni umani, l'autorealizzazione dell'Io. L'ordine di questi oggetti è importante poiché definisce il fatto che se tale "passione", specificamente umana, si è sempre espressa dacché esiste l'uomo, essa si è espressa secondo modalità storiche diverse.

La relazione con l'Altro è stata sempre il fondamento stesso dell'Io:

"L’uomo non nasce portando con sé uno specchio, né come un filosofo […] dicendo: Io sono io; egli si riconosce, in un primo momento, riflesso negli altri uomini." (Il Capitale, libro primo)

"L'individuo è ente sociale. La sua manifestazione di vita — anche se non appare nella forma diretta di una manifestazione di vita comune, compiuta a un tempo con altri — è quindi una manifestazione e una affermazione di vita sociale." (Manoscritti filosofico-economici)

"L'umanità della natura c'è soltanto per l'uomo sociale: giacché solo qui la natura esiste per l'uomo come legame con l'uomo, come esserci dell'uomo per l'altro e dell'altro per lui; e solo in quanto elemento vitale della realtà umana essa è fondamento della umana esistenza. Solo così l'esistenza naturale dell'uomo è per lui la sua esistenza umana, e la natura per lui si è umanizzata." (Manoscritti economico-filosofici del 1844)

"Solo in un rapporto relazionale con gli altri, ogni individuo può trovare i mezzi per un pieno sviluppo di tutte le sue dispo­sizioni; solo in un rapporto relazionale con gli altri diventa, dunque, possibile l'esercizio della propria libertà." (Marx-Engels, L'ideologia tedesca, 1846)

L'uomo nasce, dunque, sulla base dell'intersoggettività, è un ente sociale e si umanizza mantenendo e coltivando un legame umano con l'altro.

La socialità in Marx, come vedremo, ha anche significati che trascendono la sopravvivenza. Il suo significato primario è però legato alla carenza dell'uomo: solo il legame sociale cooperativo consente ad esso di inventare e di utilizzare gli strumenti che gli consentono di sopravvivere. La socialità, insomma, è l'unico rimedio alla carenza costitutiva dell'uomo nella misura in cui è essenziale al fine di avviare la trasformazione culturale del mondo, di adattare la natura esterna - il corpo non organico - ai bisogni umani.

Tra gli strumenti in questione, che consentono all'uomo di avviare quella trasformazione, Marx considera sia il linguaggio che la coscienza:

"Il linguaggio è antico quanto la coscienza. Il linguaggio è la coscienza reale, pratica che esiste anche per gli altri uomini e che, dunque, a ragione di questo, esiste anche per me: e il linguaggio, come la coscienza, sorge soltanto dal bisogno, dalla necessità di una relazione con gli altri uomini." (L'ideologia tedesca).

"La coscienza si presenta, dunque, fin dagli inizi come un prodotto della società." (L'ideologia tedesca).

"Non è la coscienza che determina la vita, ma la vita che determina la coscienza." (L'ideologia tedesca).

Il linguaggio e la coscienza concorrono potentemente a realizzare la coesione cooperativa del gruppo, necessaria al fine di avviare la trasformazione del mondo naturale:

"Si possono distinguere gli uomini dagli animali per la coscienza, per la religione, per tutto ciò che si vuole; essi cominciarono a distinguersi dagli animali dal momento in cui iniziarono a produrre i loro mezzi di sussistenza, uno sviluppo che è condizionato dalla loro organizzazione fisica. Producendo i loro mezzi di sussistenza, gli uomini producono indirettamente la loro stessa vita materiale." (L'ideologia tedesca)

L'originaria condizione dell'essere umano è legata alla famiglia e alla tribù, è caratterizzata da una dipendenza totale dell'individuo dal gruppo e corrisponde ad uno sviluppo tecnologico scarso la cui incidenza è locale, vale a dire riferita ad un territorio di caccia e di raccolta.

La percezione che l'uomo ha dei suoi bisogni e la sua "passione" trasformativa comportano, però, nel corso del tempo, l'incremento della capacità produttiva, l'aumento della popolazione e la diffusione della specie sul pianeta.

In questa incessante attività rivolta ad adattare il mondo ai propri bisogni, che ha coinvolto tutte le generazioni sinora esistite, Marx identifica la specificità dell'uomo e la sua creatività:

"La creazione pratica di un mondo oggettivo, la trasformazione della natura inorganica è la riprova che l'uomo è un essere appartenente ad una particolare specie e dotato di coscienza." (Manoscritti economico-filosofici del 1844)

"Proprio soltanto nella trasformazione del mondo oggettivo l'uomo si mostra quindi realmente come un essere che appartiene ad una specie particolare." (Manoscritti economico-filosofici del 1844)

"L'oggetto del lavoro è quindi l'oggettivazione della vita dell'uomo come essere che appartiene ad una specie, in quanto egli si sdoppia non soltanto, come nella coscienza, intellettualmente, ma anche attivamente, realmente, e si guarda quindi in un mondo da lui stesso creato." (Manoscritti economico-filosofici del 1844)

Qual è il fine ultimo di questa tendenza dell'uomo ad agire per trasformare il mondo? Senz'altro egli ha bisogno di sopperire alla carenza costitutiva del suo essere, ma Marx legge in quella tendenza molto di più: legge l'autocreazione dell'uomo, la scoperta di una ricchezza di bisogni materiali e "spirituali" indefinitamente ridondante e la tensione verso la realizzazione dell'uomo totale o universale:

"L'uomo ricco è al contempo l'uomo bisognoso di una totalità di manifestazioni di vita umane. L'uomo per cui la sua pro­pria realizzazione è come interna necessità, come bisogno." (Manoscritti economico-filosofici del 1844)

"L'appropriazione sensibile dell'esistenza e vita umana, dell'uomo oggettivo, delle opere umane, per e attraverso l'uomo, non è da prendersi soltanto nel senso dell'immediato, unilaterale godimento, nel senso del possedere, dell'avere. L'uomo si immedesima, in una guisa onnilaterale, nel suo essere onnilaterale, dunque da uomo totale. Ognuno dei suoi umani rapporti col mondo, il vedere, l'udire, l'odorare, il gustare, il toccare, il pensare, l'intuire, il sentire, il volere, l'agire, l'amare, in breve ognuno degli organi della sua individualità, come organi che sono immediatamente nella loro forma organi comuni, sono, nel loro oggettivo contegno, ossia nel loro comportamento verso l'oggetto, appropriazione di questo medesimo. L'appropriazione dell'umana realtà, il comportamento umano verso l'oggetto, è la verifica dell'umana realtà, è umano agire e umano patire, che il patire umanamente inteso è auto-fruizione dell'uomo." (Manoscritti economico-filosofici del 1844)

"È soltanto per la dispiegata ricchezza oggettiva dell'ente umano che la ricchezza della soggettiva umana sensibilità, che un orecchio musicale, che un occhio, per la bellezza della forma, in breve le fruizioni umane, diventano dei sensi capaci, dei sensi che si affermano quali umane forze essenziali, e sono in parte sviluppati e in parte prodotti. Giacché non solo i cinque sensi, ma anche i sensi detti spirituali, la sensibilità pratica (la volontà, l'amore etc), in una parola la umana sensibilità, l'umanità dei sensi, c'è soltanto per l'esistenza del suo oggetto, per la natura umanizzata. L'educazione dei cinque sensi è opera dell'intera storia universale fino a questo tempo. Il senso costretto al rozzo bisogno pratico ha anche soltanto una sensibilità limitata. Per l'uomo affamato non esiste il carattere umano del cibo, bensì soltanto la sua astratta esistenza di cibo: questo potrebbe indifferentemente presentarsi a lui nella forma la più rozza; e non si può dire in che questa attività nutritiva si distingua da quella bestiale. L'uomo assorbito da cure, bisognoso, non ha sensi per lo spettacolo più bello. Il mercante di minerali vede solo il loro valore mercantile, non la bellezza e la peculiare natura del minerale; non ha alcun senso mineralogico. Dunque, si richiede l'oggettivazione dell'ente umano, e sotto l'aspetto teorico e sotto quello pratico, tanto per rendere umani i sensi dell'uomo che per creare la sensibilità umana corrispondente all'intera ricchezza dell'ente umano e naturale." (Manoscritti economico-filosofici del 1844)

E' nella ricchezza dei bisogni umani che si esprime la differenza rispetto agli altri animali:

"Certamente anche l'animale produce. Si costruisce un nido o delle abitazioni come fanno le api, i castori, le formiche, ecc. Ma esso produce soltanto ciò che immediatamente gli occorre, per sé o per i suoi nati, produce, dunque, in modo unilaterale, mentre la produzione dell'uomo ha un carattere universale; (l'animale) produce solo se spinto da un bisogno fisico immediato, mentre l'uomo produce anche libero dal bisogno fisico, e produce veramente quando è libero da quest'ultimo. L'animale riproduce soltanto se stesso, mentre l'uomo riproduce l'intera natura; il prodotto dell'animale appartiene immediatamente al suo corpo fisico, mentre l'uomo si pone in un rapporto di libertà dinanzi al suo lavoro. L'animale forma le cose soltanto secondo la misura e il bisogno della specie cui appartiene, mentre l'uomo è in grado di produrre secondo la misura di ogni specie e sa in ogni caso predisporre la misura conforme a quello specifico oggetto, quindi l'uomo forma anche secondo le leggi della bellezza." (Manoscritti economico-filosofici del 1844)

E' evidente che Marx fa rientrare nella produzione ogni attività che oggettiva le potenzialità umane. Da questo punto di vista, non si dà alcuna sostanziale differenza tra lavoro manuale e lavoro intellettuale. In un certo senso, anzi, il lavoro manuale non esiste, perché anche il più primitivo cacciatore-raccoglitore deve disporre di un'abilità tecnica che è frutto della tradizione e dell'apprendimento e di categorie che gli consentano di identificare il cibo commestibile rispetto a quello che non lo è o addirittura è tossico. Per quanto riguarda l'attività intellettuale in senso proprio, poi, Marx scrive:

"Anche quando io sono attivo scientificamente etc - un'attività ch'io medesimo posso realizzare in comunanza diretta con altri - io sono sociale perché attivo come uomo. Non soltanto il materiale della mia attività - lo stesso linguaggio con cui il pensatore opera - mi è dato come prodotto sociale, ma la mia propria esistenza è attività sociale, e però ciò che io faccio da me lo faccio da me per la società e con la coscienza di me come ente sociale." (Manoscritti economico-filosofici del 1844)

"Un lavoro realmente libero, per esempio comporre, è, al tempo stesso, la cosa maledettamente più seria di questo mondo, lo sforzo più intensivo che ci sia." (Lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica)

L'oggettivazione delle potenzialità umane attraverso il lavoro - quest'impresa che dura dacché esiste l'uomo - ha prodotto un mondo oggettivo - di beni, di tecniche, di saperi, di opere d'arte, ecc. - la cui ricchezza è sorprendente, e il cui fine per Marx è triplice.

Per un verso, essa dovrebbe promuovere "il ritorno completo, consapevole, compiuto all'interno di tutta la ricchezza dello sviluppo storico, dell'uomo per sé quale uomo sociale, cioè uomo umano." (Manoscritti economico-filosofici del 1844) Ciò significa che ogni individuo dovrebbe sviluppare la consapevolezza di appartenere ad una specie universale, la cui storia ha trasformato il mondo per porre a disposizione di ciascuno adeguate opportunità di sviluppo.

In secondo luogo, questa consapevolezza dovrebbe promuovere l'uomo totale, vale a dire l'individuo le cui potenzialità particolari sono dispiegate totalmente in virtù della sua interazione con il mondo sociale e con il mondo della cultura:

"...l'antica concezione secondo cui l'uomo, quale che sia la sua limitata determinazione nazionale, religiosa, politica, è sempre lo scopo della produzione, sembra molto elevata rispetto al mondo moderno, in cui la produzione si presenta come scopo dell'uomo e la ricchezza come scopo della produzione. Di fatto però, se la si spoglia della limitata forma borghese, che cos'è la ricchezza se non l'universalità dei bisogni, delle capacità, dei godimenti, delle forze produttive ecc. degli individui generata nello scambio universale? cos'è se non il pieno sviluppo del dominio dell'uomo sulle forze della natura, sia su quelle della cosiddetta natura, sia su quelle della sua propria natura? Cos'è se non l'estrinsecazione assoluta delle sue doti creative, senza altro presupposto che il precedente sviluppo storico, che rende fine a se stessa questa totalità dello sviluppo, cioè dello sviluppo di tutte le forze umane come tali, non misurate su un metro già dato. Nella quale l'uomo non si riproduce in una dimensione determinata, ma produce la sua totalità? Dove non cerca di rimanere qualcosa di divenuto, ma è nel movimento assoluto del divenire?" (Grundrisse)

In terzo luogo, giunta al suo massimo grado di sviluppo, la ricchezza produttiva inaugura il regno della libertà:

"... il regno della libertà comincia soltanto laddove cessa il lavoro determinato dalla necessità e dalla finalità esterna; si trova quindi per sua natura oltre la sfera della produzione materiale vera e propria. Come il selvaggio deve lottare con la natura per soddisfare i suoi bisogni, per conservare e per riprodurre la sua vita, così deve fare anche l'uomo civile, e lo deve fare in tutte le forme della società e sotto tutti i possibili modi di produzione. A mano a mano che egli si sviluppa il regno delle necessità naturali si espande, perché si espandono i suoi bisogni, ma al tempo stesso si espandono le forze produttive che soddisfano questi bisogni. La libertà in questo campo può consistere soltanto in ciò, che l'uomo socializzato, cioè i produttori associati, regolano razionalmente questo loro ricambio organico con la natura, lo portano sotto il loro comune controllo, invece di essere da esso dominati come da una forza cieca; che essi eseguono il loro compito con il minore possibile impiego di energia e nelle condizioni più adeguate alla loro natura umana e più degne di essa. Ma questo rimane sempre un regno della necessità. Al di là di esso comincia lo sviluppo delle capacità umane, che è fine a se stesso, il vero regno della libertà, che tuttavia può fiorire soltanto sulle basi di quel regno della necessità." (Il Capitale, libro terzo)

Per quanto, infatti, il lavoro possa essere inteso, affrancato dallo sfruttamento, come un'attività sociale e umanizzante, il fine ultimo dell'impresa umana di trasformare il mondo è di creare tempo libero in misura sempre maggiore. Non meno del tempo dedicato al lavoro, il tempo libero è produttivo se esso viene investito in attività che valorizzano l'uomo, universalizzandolo: nella cura degli affetti, nella partecipazione ad attività collettive, nella coltivazione degli interessi, nella pratica culturale aperta alla letteratura, alla filosofia, alla storia, alle arti, alle scienze.

In questa ottica si possono comprendere pienamente queste singolari e sorprendenti citazioni:

"Supponiamo d'aver prodotto in quanto uomini: ciascuno di noi avrebbe, nella sua produzione, affermato doppiamente se stesso e l'altro. Io avrei 1) oggettivato, nella mia produzione, la mia individualità e la sua peculiarità, ed avrei quindi goduto, nel corso dell'attività, di una manifestazione individuale della vita, così come, contemplando l'oggetto, avrei goduto della gioia individuale di sapere la mia personalità come una potenza concreta, sensibilmente visibile e quindi elevata sopra ogni dubbio. 2) Nel tuo godimento e nel tuo uso del mio prodotto io proverei immediatamente il godimento consistente tanto nella consapevolezza di aver soddisfatto col mio lavoro un bisogno umano, quanto di aver oggettivato l'essere umano e quindi di aver procurato al bisogno di un altro essere umano l'oggetto ad esso corrispondente; 3) di esser stato per te l’intermediario tra te e la specie e dunque di venire inteso e sentito da le come una integrazione del tuo proprio essere e come una parte indispensabile di te stesso, di sapermi dunque confermato tanto nel tuo pensiero quanto nel tuo amore; 4) di aver posto immediatamente nella mia individuale manifestazione di vita la tua manifestazione di vita, e dunque di aver confermato e realizza­to immediatamente nella mia attività la mia vera essenza, la mia essenza comune e umana." (Manoscritti economico-filosofici del 1844, 1844)

"Se supponi l'uomo come uomo e il suo rapporto col mondo come rapporto umano, tu puoi scambiare amore solo contro amore, fiducia solo contro fiducia, ecc. Se vuoi godere dell'arte, devi essere un uomo colto in fatto di arte; se vuoi esercitare un'influenza su altri uomini, devi essere un uomo attivo realmente stimolante e trascinante altri uomini. Ogni tuo rapporto con gli uomini — e con la natura — dev'essere un'espressione determinata, corrispondente all'oggetto da te voluto, della tua reale vita individuale." (Manoscritti economico-filosofici del 1844)

E' evidente che Marx ha intuito quella che oggi si può ritenere la caratteristica più singolare del cervello umano: la ridondanza funzionale, che lo rende non solo un organo adattivo, ma iperadattivo, nel senso che esso tende verso un equilibrio caratterizzato da un rapporto attivo e creativo con l'oggetto (il mondo della natura, il mondo della cultura) e con l'Altro.

Trasformando il mondo, attraverso un'impresa collettiva che pone in gioco tutte le generazioni, l'uomo crea i presupposti per sviluppare pienamente il proprio essere, per esprimere al massimo grado le potenzialità individuali e riconoscere l'intimo legame che lega la sua esperienza a quella di tutti gli altri: per riconoscersi, dunque, come individuo sociale universale o totale.

E' facile stigmatizzare la concezione dell'uomo di Marx come utopistica, in quanto egli ritiene che l'uomo onnilaterale possa realizzarsi solo dopo il superamento del sistema capitalistico il quale tende a passivizzare gli esseri umani nei diversi ruoli assegnati di agenti economici: il capitalista sempre più avido di ricchezza, il lavoratore che agisce con l'unico fine di sopravvivere e, se possibile, migliorare il suo tenore di vita, il consumatore frustrato dall’infinità dei suoi desideri, il povero che non riesce a soddisfare i suoi bisogni primari, ecc.

In realtà, a ben vedere, facendo riferimento all’uomo onnilaterale (in opposizione a quello unilaterale prodotto dal sistema capitalistico), Marx ha colto una verità profonda che oggi è confermata addirittura dalle scienze neurobiologiche.

Il benessere umano postula la soddisfazione di bisogni primari, comuni a tutti gli animali (come la fame, il riparo [tana], la regolazione della temperatura corporea,la protezione dai pericoli, ecc.), e di bisogni specificamente umani, che si possono ricondurre genericamente a tutto ciò che dà senso all’esistenza individuale. Questi ultimi bisogni sono vincolati a due sistemi biochimici: il sistema della ricerca, mediato dalla dopamina, e il sistema del piacere, mediato dall’endorfina.

Il sistema dopaminico è sostanzialmente un sistema psicoattivante, che spinge l’uomo a realizzare esperienze che lo rendono felice; il sistema endorfinico, segnala che le esperienze realizzate sono veramente appaganti.

Il problema è che che questi due sistemi possono facilmente dissociarsi, se l’individuo persegue mete unilaterali: il successo sociale, il lavoro, lo studio, il denaro, la cura dell’immagine estetica, la soddisfazione sessuale fine a se stessa, il consumo di beni, ecc. L’appetizione unilaterale mantiene un’elevata attivazione del sistema dopaminico, ma inibisce quello endorfinico. La conseguenza di questa dissociazione è la compulsione, vale a dire un comportamento appetitivo sempre più spiccato che non giunge mai alla soddisfazione e mantiene uno stato di perenne frustrazione.

Nell’Abbecedario ho sintetizzato il problema in questi termini:

“Più di ogni altro animale l’uomo aspira alla felicità. Non può fare altrimenti essendo ricco di potenzialità emozionali e intellettive, e per giunta motivato da un’angoscia di precarietà che è solo sua. L’antifona dell’infinito, a questo punto, è chiara. Se le consapevolezze che essa comporta – i lutti, i dolori, le malattie, la vecchiaia, la morte – fossero sempre al centro della coscienza, ci troveremmo tutti a pensare come Buddha che la vita è una moneta falsa. Quelle consapevolezze, invece, sono tenute al margine della coscienza dall’aspirazione alla felicità. Il problema è come realizzarla. Le strategie non funzionano tutte.

Il sistema del piacere non è specializzato, non riconosce un centro per la fame, uno per il sesso, uno per i soldi, uno per la musica e via dicendo. È polivalente e, per di più, esigente, maledettamente esigente. Si mantiene in equilibrio solo se è stimolato in più modi. Predilige insomma i piaceri eterogenei, da quelli fisici a quelli spirituali. E, dato che è un sistema unico, pare che questa differenza, alla quale si appellano gli edonisti per un verso, le vittime della virtù per un altro, la natura non la riconosca. Mens sana in corpore sano è una bella formula di saggezza, ma, da Cartesio in poi, gli uomini hanno sempre più difficoltà a praticarla. Esistono troppi corpi nel nostro mondo scolpiti nelle palestre che mascherano un cervello da gallina. Non meglio se la cavano quei pochi, che, disprezzando le mode e coltivando solo lo spirito, vanno in giro con la testa piegata da un peso che il corpo macilento sembra non reggere.

Qualunque limitazione della pratica delle diverse attività da cui un individuo può ricavare piacere è controproducente. Così, se uno pretende di soddisfarsi ingurgitando solo del cibo, ne può mettere dentro quanto ne vuole: gli rimane la fame (di vivere); se un altro vuole appagarsi solo con le letture dei libri, si incupisce. Idem per gli assatanati del lavoro, dei soldi, del potere, del sesso e di tutte le ossessioni unilaterali. La verità più o meno è questa: per avere un po’ di pace, l’uomo è costretto a sviluppare tutte le sue qualità – fisiche e psichiche – in un rapporto significativo, cioè vissuto, sentito, partecipato, con il mondo (con se stesso, la natura, gli altri e la cultura). Questa è la dura (?) lex scritta nel congegno.”

L’orientamento compulsivo, che mortifica la natura umana, nella misura in cui essa ha bisogno di realizzarsi attraverso una serie di oggettivazioni che riguardano la vita nei suoi diversi aspetti, è per Marx una conseguenza del sistema capitalistico.

Esso, infatti, per un verso, ha prodotto un'accelerazione della produzione della ricchezza e della trasformazione del mondo che non ha uguali nel corso della storia precedente, ponendo, con la mondializzazione, le premesse perché l'umanità riconosca l'universalità del legame sociale. Per un altro, in conseguenza del "mito" di una proprietà privata sottratta al controllo sociale, ha separato l'uomo da se stesso e dall'altro uomo, generando la duplice alienazione dell'egoismo individualistico e della miseria:

"La proprietà privata ci ha fatti talmente ottusi e unilaterali che un oggetto è nostro solo quando lo abbiamo, quando, dunque, esiste per noi come capitale, o è immediatamente posseduto, mangiato, bevuto, portato sul nostro corpo, abitato etc, in breve utilizzato.

Tutti i sensi, fisici e spirituali, sono stati quindi sostituiti dalla semplice alienazione di essi tutti, dal senso dell'avere. A questa asso­luta povertà doveva ridursi l'ente umano, per produrre alla luce la sua intima ricchezza." (Manoscritti economico-filosofici del 1844)

La verità, dunque, è che gli esseri umani vivono in un mondo la cui ricchezza è indefinita, ma, sia pure in maniera diversa a seconda dello status e della collocazione nell'ordinamento sociale, vivono male perché la carenza di una coscienza universale, il restringimento dell'esperienza alla singola individualità, l'incapacità di cogliere la vicenda personale nel flusso della storia, la difficoltà di utilizzare la ricchezza sociale prodotta dall'umanità ai fini di uno sviluppo integrale della personalità, determina un disagio diverso ma universale.

Tale disagio Marx lo ha ricondotto al processo di alienazione, che, all'epoca, era del tutto evidente a livello di subordinazione del lavoro al capitale. Il concetto di alienazione ha, però, una portata molto più ampia.

L'alienazione

Marx è giunto a prendere coscienza dell'alienazione economica partendo dall'analisi che Feuerbach ha fatto dell'alienazione religiosa, la più antica, la più insidiosa, che alla sua epoca ancora persiste inducendo nelle masse popolari l'accettazione della loro condizione miserabile come espressione della volontà divina. Egli ha scritto:

"... l'uomo fa la religione, e non la religione l'uomo. Infatti, la religione è la coscienza di sé e il sentimento di sé dell'uomo che non ha ancora conquistato o ha già di nuovo perduto se stesso. Ma l'uomo non è un'entità astratta posta fuori del mondo. L'uomo è il mondo dell'uomo, lo Stato, la società. Questo Stato, questa società producono la religione, una coscienza capovolta del mondo, poiché essi sono un mondo capovolto...

La religione è soltanto il sole illusorio che si muove intorno all'uomo, fino a che questi non si muove intorno a se stesso. E' dunque compito della storia, una volta scomparso l'al di là della verità, quello di ristabilire la verità dell'al di qua. E innanzi tutto è compito della filosofia, la quale sta al servizio della storia, una volta smascherata la figura sacra dell'autoestraneazione umana, smascherare l'autoestraneazione nelle sue figure profane. La critica del cielo si trasforma così nella critica della terra, la critica della religione nella critica del diritto, la critica della teologia nella critica della politica." (LQE)

“Eliminare la religione in quanto illusoria felicità del popolo vuol dire esigere la felicità reale. L’esigenza di abbandonare le illusioni sulla sua condizione è l’esigenza di abbandonare una condizione che ha bisogno di illusioni.” (LQE)

Non è peraltro l’alienazione religiosa che preoccupa Marx. Egli intuisce che il sistema economico capitalistico è destinato sia pure lentamente a spostare l’attenzione degli esseri umani sulla vita mondana e sulla felicità terrena. Il problema è che lo stesso sistema che alimenta questa incoercibile aspirazione pone le premesse di un’alienazione più pericolosa di quella religiosa - l’alienazione economica - che egli analizza in questi termini:

"Noi partiamo da un fatto economico, attuale. L'operaio diventa tanto più povero quanto più produce ricchezza, quanto più la sua produzione cresce in potenza e in estensione. L'operaio diventa una merce tanto più a buon mercato quanto più crea delle merci. Con la messa in valore del mondo delle cose cresce in rapporto diretto la svalutazione del mondo degli uomini... " (Manoscritti economico-filosofici del 1844)

"In che cosa consiste l'espropriazione del lavoro? In primo luogo in questo: che il lavoro resta esterno all'operaio, cioè non appartiene al suo essere, e che l'operaio quindi non si afferma nel suo lavoro, bensì si nega, non si sente appagato ma infelice, non svolge alcuna libera energia fisica e spirituale, bensì mortifica il suo corpo e rovina il suo spirito. l'operaio si sente quindi con se stesso soltanto fuori del lavoro, e fuori di sé nel lavoro...

Il lavoro non è quindi la soddisfazione di un bisogno, bensì è soltanto un mezzo per soddisfare dei bisogni esterni ad esso. La sua estraneità risalta nel fatto che, appena cessa di esistere una costrizione fisica o d'altro genere, il lavoro è fuggito come una peste…

Il risultato è che l'uomo (il lavoratore) si sente libero ormai sol­tanto nelle sue funzioni bestiali, nel mangiare, nel bere e nel gene­rare, tutt'al più nell'aver una casa, nella sua cura corporale etc, e che nelle sue funzioni umane si sente solo più una bestia." (Manoscritti economico-filosofici del 1844)

"L'alienazione dell'operaio nel suo oggetto si esprime… in modo che, quanto più l'operaio produce, tanto meno ha da consumare, e quanto più crea dei valori e tanto più egli è senza valore e senza dignità, e quanto più il suo prodotto ha forma e tanto più l'operaio è deforme, e quanto più è raf­finato il suo oggetto e tanto più è imbarbarito l'operaio, e quanto più è potente il lavoro e tanto più impotente diventa l'operaio, e quanto più è spiritualmente ricco il lavoro e tanto più l'operaio è divenuto senza spirito e schiavo della natura." (Manoscritti economico-filosofici del 1844)

Non c'è nessuna drammatizzazione in queste parole. L'avvio della civiltà industriale, sia in Inghilterra che in Francia e in Germania, di fatto è coincisa con un processo di degradazione dell'uomo che non ha confronto in alcuna altra epoca storica. Uomini, donne, bambini sono stati messi letteralmente alla catena per 12-14 ore al giorno. Molti di essi sono morti di fame, di sfinimento, di alcolismo e di sostanze oppiacee (distribuite dai medici sotto forma di sciroppo per lenire tutti i "dolori"). Questa realtà non è più sotto i nostri occhi, ma la recente globalizzazione ha offerto la prova che, ovunque una società imbocca la via dell'industrializzazione, si ripete più o meno lo stesso fenomeno: la ricchezza cresce, ma al prezzo della schiavizzazione dei lavoratori (compresi donne e bambini).

All'epoca di Marx la spoliazione del lavoratore dal suo prodotto è la sua disumanizzazione sono realtà determinate dall'avvio del capitalismo. Su quale base, però, essa si realizza, si mantiene e viene, sia pure malvolentieri, accettata dalla classe operaia? Sulla base di un'ideologia - quella liberista - che si sovrappone al processo storico e giunge a ricondurlo a leggi oggettive dell'economia, del tutto indipendenti dalla volontà umana.

Il lavoratore di fatto è un individuo libero. Costretto dalla privatizzazione delle terre ad abbandonare la campagna, ove egli poteva almeno in parte produrre i beni di sussistenza ed avvalersi di una comunità in qualche misura solidale, egli si ritrova sprovvisto di ogni risorsa che non sia la sua forza-lavoro. Nessuno formalmente lo obbliga a scambiarla per un salario. Se vuole sopravvivere, però, è costretto a venderla come una merce e ad accettare l'uso che il capitalista intende farne, ricavando da essa un profitto.

Egli non può negare di essere libero: volendo, infatti, può affrancarsi dalla catena di montaggio. Di fatto, non può farlo se non a rischio di morire. Rischio, peraltro, che si realizza nel momento in cui, se non serve, egli viene messo sulla strada.

La libertà raggiunta dall’uomo sulla carta lo rende di fatto schiavo e dipendente dal mercato. E’ evidente per Marx che questa contraddizione risulterebbe immediatamente clamorosa se essa non fosse mascherata dall’ordinamento giuridico e da quello politico.

L’alienazione politica di fatto coincide con la costituzione dello Stato moderno, nato sull’onda della Rivoluzione francese:

"Là dove lo stato politico ha raggiunto il suo vero sviluppo, l'uomo conduce non soltanto nel pensiero, nella coscienza, bensì nella realtà, nella vita, una doppia vita, una celeste e una terrena, la vita nella comunità politica nella quale egli si considera come ente comunitario, e la vita nella società civile nella quale agisce come uomo privato, che considera gli altri uomini come mezzo, degrada se stesso a mezzo e diviene trastullo di forze estranee." (LQE)

Per capire meglio questa dissociazione tra cittadino e uomo, occorre tenere conto dell’analisi che Marx fa, ne La questione ebraica (1844), dei diritti dell’uomo e del cittadino sanciti nella Carta della Rivoluzione francese del 1793:

“I cosiddetti diritti dell'uomo, i droits de l'homme, come distinti dai droits du citoyen non sono altro che i diritti del membro della società civile, cioè dell'uomo egoista, dell'uomo separato dall'uomo e dalla comunità. La costituzione più radicale, la costituzione del 1793 può dire:

"Déclar. des droits de l'homme et du citoyen":

Art. 2.: "Ces droits, etc. (les droits naturels et imprescriptibles) sont: l'égalíté, la líberté, la sûreté, la propriété".

In che consiste la líberté?

Art. 6.: "La liberté est le pouvoir qui appartient à l'homme de faire tout ce qui ne nuit pas aux droits d'autrui", secondo la Dichiarazione dei diritti dell'uomo del 1791: "La liberté consiste à pouvoir faire tout ce qui ne nuit pas à autrui".

La libertà è dunque il diritto di fare ed esercitare tutto ciò che non nuoce ad altri. Il confine entro il quale ciascuno può muoversi senza nocumento altrui, è stabilito per mezzo della legge, come il limite tra due campi è stabilito per mezzo di un cippo. Si tratta della libertà dell'uomo in quanto monade isolata e ripiegata su se stessa... Il diritto dell'uomo alla libertà si basa non sul legame dell'uomo con l'uomo, ma piuttosto sull'isolamento dell'uomo dall'uomo. Esso è il diritto a tale isolamento, il diritto dell'individuo limitato, limitato a se stesso.

L'utilizzazione pratica del diritto dell'uomo alla libertà è il diritto dell'uomo alla proprietà privata?

In che consiste il diritto dell'uomo alla proprietà privata?

Art. 16, (Const. de 1793): "Le droít de proprieté est celui qui appartient à tout citoyen de jouir et de disposer à son gré de ses biens, de ses revenus, du fruit de son travaìl et de son industrie" .

Il diritto dell'uomo alla proprietà privata è dunque il diritto di godere arbitrariamente (à son gré), senza riguardo agli altri uomini, indipendentemente dalla società, della propria sostanza e di disporre di essa, il diritto dell'egoismo. Quella libertà individuale, come questa utilizzazione della medesima, costituiscono il fondamento della società civile. Essa lascia che ogni uomo trovi nell'altro uomo non già la realizzazione, ma piuttosto il limite della sua libertà. Ma essa proclama innanzi tutto il diritto dell'uomo "de jouir et de disposer à son gré de ses biens, de ses revenus, du fruit de son travail et de son industrie".

Restano ancora gli altri diritti dell'uomo, la égalité e la sûreté.

L'égalité, qui nel suo significato non politico, non è altro che l'uguaglianza della libertà sopra descritta, e cioè: che ogni uomo viene ugualmente considerato come una siffatta monade che riposa su se stessa. La Costituzione del 1795 stabilisce così il concetto di tale uguaglianza, conforme al suo significato:

Art. 5 (Const. de 1795): "L'egalité consiste en ce que la loi est la même pour tous, soit qu'elle protège, soit qu'elle punisse".

E la sûreté?

Art. 8 (Const. de 1795): "La sûreté consiste dans la Protection accordée par la société à chacun de ses membres pour la conservation de sa personne, de ses droits et des ses propriétés".

La sicurezza è il più alto concetto sociale della società civile, il concetto della polizia, che l'intera società esiste unicamente per garantire a ciascuno dei suoi membri la conservazione della sua persona, dei suoi diritti e della sua proprietà...

Per il concetto di sicurezza la società civile non si innalza oltre il suo egoismo. La sicurezza è piuttosto l'assicurazione del suo egoismo.

Nessuno dei cosiddetti diritti dell'uomo oltrepassa dunque l'uomo egoistico, l'uomo in quanto è membro della società civile, cioè individuo ripiegato su se stesso, sul suo interesse privato e sul suo arbitrio privato, e isolato dalla comunità. Ben lungi dall'essere l'uomo inteso in essi come specie, la stessa vita della specie, la società, appare piuttosto come una cornice esterna agli individui, come limitazione della loro indipendenza originaria. L'unico legame che li tiene insieme è la necessità naturale, il bisogno e l'interesse privato, la conservazione della loro proprietà e della loro persona egoistica.

È già abbastanza enigmatico il fatto che un popolo, il quale appunto incomincia a liberarsi, ad abbattere tutte le barriere tra i diversi membri del popolo, a fondare una comunità politica, che un tale popolo proclami solennemente (Déclar. de 1791) il diritto dell'uomo egoista, isolato dal suo simile e dalla comunità... Ancor più enigmatico diviene questo fatto quando vediamo che la cittadinanza, la comunità politica viene abbassata dagli emancipatori politici addirittura a mero mezzo per la conservazione di questi cosiddetti diritti dell'uomo, che pertanto il citoyen viene considerato servo dell'homme egoista, che la sfera nella quale l'uomo si comporta come ente comune viene degradata al di sotto della sfera nella quale esso si comporta come ente parziale, infine che non l'uomo come citoyen, bensì l'uomo come bourgeois viene preso per l'uomo vero e proprio.” (LQE)

Focalizzando l'attenzione sull'alienazione religiosa, economica e politica, che, alla sua epoca, si integrano tra loro, Marx ha scoperto, quasi senza rendersene conto, lo statuto proprio della coscienza umana, incline a naturalizzare l'ordine di cose in cui è immersa e ad essere irretita dalle apparenze. Le apparenze sono riconducibili alla complessità dei processi storici che, pur prodotti dagli esseri umani nei loro sforzi incessanti di trasformare la natura, scorrono sotterraneamente e giungono a manifestarsi come espressioni di leggi naturali, come potenze estranee e indipendenti dalla volontà umana.

La tendenza alla mistificazione della coscienza concerne la storia totale della specie umana, ed è riconducibile alla sua difficoltà di prendere atto del significato reale della storia come prodotto umano. Essa si declina, pertanto, nel tempo, in forme varie, espressive dei modi in cui le società hanno organizzato il loro rapporto produttivo con la natura e dei modi in cui esse tendono a coprire, a razionalizzare e a giustificare l'esistente attraverso le ideologie.

Il ruolo svolto dalle ideologie, e cioè dalle visioni del mondo prodotte dai ceti dominanti, e soprattutto dagli intellettuali, a partire dall'epoca, coincidente con l'inizio della storia umana, in cui si è definita la separazione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale, nel ratificare le apparenze - l'organizzazione dei sistemi sociali - come espressioni di leggi di natura, è, per Marx, fuor di dubbio, e peraltro agevolmente verificabile. Ma è pur vero che la produzione ideologica solo in minima parte può essere ricondotta ad una deliberata attività di mistificazione operata da alcuni essere umani a danno di altri. Nel suo complesso, essa esprime un limite proprio della coscienza nel suo rapportarsi alla realtà: un limite non insormontabile, per Marx, ma il cui superamento non può prescindere da uno sviluppo delle forze produttive molto elevato che fonda la possibilità che l'uomo, infine, riconosca se stesso, le potenzialità della sua natura nella ricchezza del mondo storico che egli ha prodotto. E' evidente che tale superamento implica che tra le forze produttive si considerino anche quelle intellettuali.

Se l’insistenza di Marx sulla produzione dei beni viene riferita, come è esplicito in tutta la sua opera, alla totalità della ricchezza sociale, vale a dire alla cultura - il cui aspetto materiale non è meno importante di quello spirituale -, il concetto di alienazione si radicalizza in senso storico-esistenziale.

"Gettato" nel mondo dall'evoluzione naturale come un essere sociale dotato di straordinarie potenzialità il cui uso dipende dalla scoperta delle potenzialità intrinseche alla natura inorganica, e quindi da uno sviluppo necessariamente lento, secolare delle forze produttive; separato dunque naturalmente da entrambe le potenzialità, che solo storicamente e progressivamente si attualizzano, non v'è da sorprendersi che l'uomo abbia colmato lo scarto segnato da quella separazione con una produzione simbolica, mitologica che è divenuta, poi, via via che le forze produttive si sono sviluppate, dando luogo all'organizzazione di sistemi sociali sempre più complessi, ideologica.

E' evidente, in altri termini, che l'alienazione, intesa come espropriazione dell'uomo di un potere di controllo su di una realtà storica che egli ha prodotto, si pone, in Marx, come una chiave interpretativa della storia della specie umana nella sua vicenda mondana: una chiave il cui significato ultimo verte sullo scarto tra lo sviluppo delle forze produttive, nel quale si esprimono le potenzialità proprie della natura umana, e lo statuto della coscienza, limitata intrinsecamente nel suo potere di consapevolezza dal calarsi e dal definirsi in rapporto ad un mondo storico e impregnata di un sapere ideologico che, nel contempo, la stabilizza e la fuorvia.

Il concetto di alienazione, considerato nelle varie forme in cui esso si è realizzato nel corso della storia dal momento in cui, con la divisione del lavoro manuale e di quello intellettuale, si sono differenziate le classi sociali, porta al cuore di una problematica contraddittoria onnipresente nell'opera di Marx. Per un verso, infatti, fuoriuscire dalla preistoria umana, che impedisce la realizzazione generica, universale della singola individualità, implica l'abolizione di quella divisione, e dunque il superamento dell'ordinamento in classi sociali e della proprietà privata. Da questo punto di vista, il cambiamento delle condizioni oggettive alienate in cui si realizza l'attività produttiva è essenziale e inderogabile.

Per un altro verso, quell'abolizione, che, attraverso la proprietà collettiva della ricchezza sociale, sancisce il dovere e il diritto dell'individuo di partecipare ad essa nella pienezza delle sue potenzialità, per non esaurirsi sul piano di una rivendicazione assistenzialistica, comprensibile in virtù delle memorie collettive di sfruttamento che rappresentano esse stesse un patrimonio storico - un patrimonio mentale, in parte almeno inconsapevole -, postula una riforma radicale della coscienza umana incentrata sulla consapevolezza dell'identità sostanziale tra individualità pienamente sviluppata e essenza umana generica.

L'alienazione intesa come presa di coscienza dello sfruttamento può promuovere una ribellione collettiva contro l'ordine di cose esistente classista, ma, per approdare ad un nuovo ordine sociale umanizzato e umanizzante, essa non basta. Occorre una cultura collettiva radicalmente nuova, una cultura antropologica, filosofica e storica che estingua la possibilità di altre alienazioni - per esempio stataliste. In difetto di condizioni oggettive affrancate dalla divisione del lavoro, tale cultura non può, evidentemente, darsi; ma, in difetto di una nuova cultura collettiva adeguata alla natura umana, quelle condizioni non permettono di fuoriuscire dalla preistoria umana.

Questa contraddizione, che Marx risolve fideisticamente, presumendo che l’abolizione della proprietà privata restituisca immediatamente all’uomo la coscienza del suo essere sociale e universale, rivela indubbiamente il punto debole del sistema marxiano sotto forma di un approccio ingenuo al rapporto tra soggettività, coscienza sociale e storia.

In tutte le sue forme, l’alienazione, che separa l’uomo dal suo prodotto - il mondo umanizzato -, è un processo storico, che si realizza sulla base della produzione e della riproduzione della vita. Ma ciò non basta a capire come e perché, in tutte le fasi della storia, essa si sia imposta alla coscienza umana. Pur considerando il ruolo delle ideologie, che naturalizzano l’ordine di cose esistente, riuscendo a far passare come bene e interesse comune quanto è interesse della classe dominante, è impossibile trascurare il fatto che l’alienazione pone in luce anche una debolezza specifica, strutturale della coscienza umana: la sua propensione spontanea a credere nelle apparenze, e la difficoltà di trascendere il piano della fenomenologia sociale e della contemporaneità.

E’ singolare che Marx, procedendo nell’analisi del capitalismo nella sua estensione a livello mondiale, e cogliendo il potere "stregante" che esso esercita per via del fatto che le categorie in cui cela la sua natura selvaggia diventano sempre più astratte, sempre più difficili da ricondurre ai processi reali di produzione, e alla fine del tutto ingannevoli perché incentrate sui valori liberal-democratici, non si sia quasi mai posto il problema di analizzare l’efficacia di quel potere sulla coscienza umana.

Certo, le ideologie sono in gran parte prodotte dai ceti dominanti. Ma perché esse vengono solitamente accettate e condivise dai ceti subordinati? Marx ha esplicitamente affrontato questo problema affermando che alle masse popolari, ricche di intuizioni su ciò che potrebbe essere un mondo giusto, fatto a misura d'uomo, manca l'arma della critica, vale a dire una teoria esplicativa e concreta della condizione in cui vivono. Egli ha trascorso gran parte della sua vita al fine di fornire ad esse quest'arma critica.

Se consideriamo le cose come sono andate e come stanno, riesce ulteriormente evidente il limite già segnalato del pensiero di Marx, che va ricondotto ad una teoria ingenua della mente umana.

Si può, oggi, sormontare tale limite? Forse sì, se tiene conto che una delle intuizioni più visionarie di Marx suona così:

"La tradizione di tutte le generazioni scomparse pesa come un incubo sul cervello dei viventi, e proprio quando sembra che essi lavorino per trasformare se stessi e le cose, per creare ciò che non è mai esistito, proprio in tali epoche di crisi rivoluzio­naria essi evocano con angoscia i fantasmi del passato ponen­doli al loro servizio; ne prendono a prestito i nomi, le parole d'ordine per la battaglia, i costumi per rappresentare, sotto questo vecchio e venerabile travestimento e con queste frasi prese a prestito, la nuova scena della storia." (Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte)

Questa frase ha anticipato la scoperta dei nuovi storici francesi del peso che i fattori mentali, in gran parte inconsci, esercitano sulla società e sugli individui che ad essa partecipano.

Questo argomento può essere svolto in maniera più propria analizzando la concezione della storia di Marx.

La concezione della storia

La concezione della storia di Marx è esposta in gran parte ne L’ideologia tedesca, un libro scritto nel 1847 con Engels proprio per chiarirsi le idee a riguardo e mai pubblicato (ha visto la luce solo nel 1932). Successivamente, Marx ha applicato la sua teoria, oltre che nel Manifesto del partito comunista, in saggi storici dedicati ad eventi contemporanei (Le lotte di classe in Francia, Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte, La guerra civile in Francia), che sono tutti di grande interesse.

La concezione della storia marxiana, nei suoi aspetti essenziali, muove dal presupposto materialistico, di cui abbiamo parlato, secondo il quale l'uomo si distingue dall'animale perché, date le sue carenze e le sue potenzialità, è in grado di agire sull'ambiente per adattarlo ai suoi bisogni. Sulla base di questo principio, la definizione stessa della storia e il suo sviluppo sono facili da definire:

“La storia non è altro che la successione delle singole generazioni, ciascuna delle quali sfrutta i materiali, i capitali, le forze produttive che le sono stati trasmessi da tutte le generazioni precedenti, e quindi da una parte continua, in circostanze del tutto cambiate, l’attività che ha ereditato; d’altra parte modifica le vecchie circostanze con un’attività del tutto cambiata...

A mano a mano che nel corso di questo sviluppo si allargano le singole sfere che agiscono l'una sull'altra, a mano a mano che l'originario isolamento delle singole nazionalità viene annullato dal modo di produzione sviluppato, dalle relazioni e dalla conseguente divisione naturale del lavoro fra le diverse nazioni, la storia diventa sempre più storia universale” (L'ideologia tedesca).

Lo sviluppo storico, riferito alle sempre maggiori competenze tecnologiche che si accumulano nel corso dei secoli, determina il passaggio da economie locali, comunitaristiche, all'interno delle quali gli individui dipendono personalmente gli uni dagli altri e producono beni che utilizzano direttamente, a economie nazionali, che comportano scambi sempre maggiori di beni valutati in rapporto al loro valore di scambio e, in una certa misura affrancano gli individui dalla dipendenza personale. Via via che il mercato si mondializza, gli scambi diventano sempre più universali. Sono di fatto rapporti sociali, ma vengono mediati dal denaro e dalle cose:

"Quanto minore è la forza sociale posseduta dal mezzo di scambio, quanto più esso è legato alla natura del prodotto immediato del lavoro e ai bisogni immediati dei soggetti di scambio, tanto maggiore deve ancora essere la forza della comunità che lega gli individui gli uni agli altri, rapporto patriarcale, comunità antica, feudalesimo, corporazione...

I rapporti di dipendenza personale (dapprima in modo del tutto naturale) sono le prime forme sociali, nelle quali la produttività umana si sviluppa solo in misura ristretta e in punti isolati.

L'indipendenza personale fondata sulla dipendenza materiale è la seconda grande forma in cui si realizza per la prima volta un sistema del ricambio sociale generale, dei rapporti universali, dei bisogni universali e delle capacità universali.

La libera individualità, fondata sullo sviluppo universale degli individui e sulla subordinazione della loro produttività collettiva, sociale, come loro patrimonio sociale, è il terzo stadio...

(E' stato detto e si può dire che la bellezza e la grandezza risiedono proprio in questo ricambio materiale e spirituale, in questa connessione spontanea, indipendente dal sapere e dal volere degli individui, e che presuppone proprio la loro indipendenza e indifferenza reciproche. E questa connessione oggettiva è certo preferibile alla loro mancanza di connessione o a una connessione soltanto locale, fondata su rapporti naturali di consanguineità, o di signoria e servitù...

Il grado e l'universalità dello sviluppo delle capacità in cui questa individualità diviene possibile, presuppone appunto la produzione sulla base dei valori di scambio; quest'ultima produce, per la prima volta, insieme all'universalità, l'estraneazione dell'individuo da sé e dagli altri, ma anche l'universalità e la versatilità delle sue relazioni e capacità.

Negli stadi precedenti dello sviluppo, il singolo individuo appare più compiuto appunto perché non ha ancora elaborato la pienezza delle sue relazioni e non se l'è ancora posta di fronte come insieme di potenze e di rapporti sociali da lui indipendenti. E' ridicolo rimpiangere quella pienezza originaria, proprio com'è ridicolo pensare di dover permanere in questa condizione di totale svuotamento" (Grundrisse).

Ma gli uomini non producono solo beni di consumo o merci. La storia è caratterizzata anche da una ricca produzione intellettuale, vale a dire dalla produzione di miti, racconti, idee, valori, rappresentazioni, visioni del mondo, ecc. Qual è il rapporto tra la produzione materiale e quella intellettuale? Marx scrive a riguardo:

“La produzione delle idee, delle rappresentazioni, della coscienza, è in primo luogo direttamente intrecciata all’attività materiale e alle relazioni materiali degli uomini, linguaggio della vita reale. Le rappresentazioni e i pensieri, lo scambio spirituale degli uomini appaiono qui ancora come emanazione diretta del loro comportamento materiale. Ciò vale allo stesso modo per la produzione spirituale, quale essa si manifesta nel linguaggio della politica, delle leggi, della morale, della religione, della metafisica, ecc. di un popolo. Sono gli uomini i produttori delle loro rappresentazioni, idee, ecc., ma gli uomini reali, operanti, così come sono condizionati da un determinato sviluppo delle loro forze produttive e delle relazioni che vi corrispondono fino alle loro formazioni più estese” (L'ideologia tedesca).

"Al di sopra delle differenti forme di proprietà e delle condizioni sociali di esistenza si eleva tutta una sovrastruttura di differenti impressioni, di illusioni, di particolari modi di pensare e di particolari concezioni della vita... L'individuo singolo, cui queste cose pervengono attraverso la tradizione e l'educazione, si può immaginare che esse costituiscano i veri motivi determinanti e il punto di partenza della sua attività." (Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte)

La sovrastruttura intellettuale tende a dare un certo ordine alla realtà, vale a dire a dare ad essa una certa coerenza e razionalità. Per Marx è scontato che la razionalizzazione dell'esistente, che pure soddisfa un autentico bisogno umano, muove, corrisponde ed esprime soprattutto le esigenze della classe dominante:

"Le idee della classe dominante sono in ogni epoca le idee dominanti; cioè, la classe che è la potenza materiale dominante della società è in pari tempo la sua potenza spirituale dominante. La classe che dispone dei mezzi della produzione materiale dispone con ciò, in pari tempo, dei mezzi della produzione intellettuale, cosicché ad essa in complesso sono assoggettate le idee di coloro ai quali mancano i mezzi della produzione intellettuale. Le idee dominanti non sono altro che l'espressione ideale dei rapporti materiali dominanti, sono i rapporti materiali dominanti presi come idee: sono dunque l'espressione dei rapporti che appunto fanno di una classe quella dominante, e dunque sono le idee del suo dominio" (L'ideologia tedesca).

“C’è bisogno di profonda comprensione per capire che anche le idee, le opinioni e i concetti, insomma, anche la coscienza degli uomini cambia col cambiare delle loro condizioni di vita, delle loro relazioni sociali, della loro esistenza sociale? Cos’altro dimostra la storia delle idee, se non che la produzione intellettuale si trasforma assieme a quella materiale? Le idee dominanti di un’epoca sono sempre state soltanto le idee della classe dominante.” (Manifesto del Partito Comunista).

"Ogni classe che prenda il posto di un'altra che ha dominato prima è costretta, non fosse che per raggiungere il suo scopo, a rappresentare il suo interesse come interesse comune di tutti i membri della società, ossia, per esprimerci in forma idealistica, a dare alle proprie idee la forma dell'universalità, a rappresentarle come le sole razionali e universalmente valide." (L'ideologia tedesca)

In conseguenza di tutto questo è evidente per Marx che:

"Gli uomini fanno la propria storia, ma non la fanno in modo arbitrario, in circostanze scelte da loro stessi, bensì nelle circostanze che essi trovano immediatamente davanti a sè, determinate dai fatti e dalle tradizioni..." (Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte)

I fatti sono le condizioni oggettive di vita, espressivi della produzione materiale, le tradizioni sono le idee (in senso lato), espressivi della produzione intellettuale.

Le citazioni fanno pensare che Marx assuma la sovrastruttura come un occultamento, un mascheramento e una falsificazione dei fatti prodotti dai rapporti materiali. Qui come altrove, il problema è che Marx oggettiva un’intuizione profonda che non sviluppa, dando per scontato le sue implicazioni.

E' Engels che torna sull’argomento per confutare le rozze interpretazioni economicistiche del rapporto tra infrastruttura. In una lettera del 5 agosto del 1890 a Conrad Schmidt, egli scrive:

"In generale in Germania il termine «materialista» è usato da molti tra i più giovani scrittori come fosse una mera frase fatta, con cui etichettare ogni cosa senza studiarla ulteriormente: si attacca l'etichetta e si crede così di aver liquidato la faccenda. Ma la nostra concezione della storia è anzitutto una guida nello studio, non una leva per la costruzione alla maniera hegeliana. Tutta la storia deve venir da capo studiata, le condizioni di esistenza delle diverse formazioni sociali devono venir esaminate nei particolari, prima di tentare di far derivare da esse le corrispondenti concezioni della politica, del diritto privato, dell'este­tica, della filosofia, della religione, ecc. In quest'ambito finora è successo poco, perché solo pochi si sono messi seriamente al lavoro. In quest'ambito abbiamo bisogno di massicci aiuti, il territorio è infinitamente grande, e chi ha voglia di lavorare seriamente può riuscire a fare grandi cose e distinguersi. Ma invece di tutto ciò la frase fatta del materialismo storico (proprio di tutto si può fare una frase fatta) a molti tra i più giovani tedeschi serve solo a comporre come si deve al più presto possibile in sistema le loro conoscenze storiche relativamente misere — la storia eco­nomica è davvero ancora in fasce! — e credersi così molto potenti!"

Il 21 settembre del 1890, in risposta ad una lettera di Joseph Bloch che gli chiedeva se secondo la concezione materialistica della storia i rapporti economici costituiscano di per sé il momento determinante o solo per così dire la base concreta di tutti gli altri rapporti, i quali possono operare anche indipendentemente, Engels è ancora più chiaro:

"Secondo la concezione materialistica della storia la produzione e riproduzione della vita reale è nella storia il momento in ultima istanza determinante. Di più né io né Marx abbiamo mai affermato. Se ora qualcuno distorce quell'affermazione io modo che il momento economico risulti essere l'unico determi­nante, trasforma quel principio in una frase fatta insignificante, astratta e assurda. La situazione economica è la base, ma i diversi momenti della sovrastruttura — le forme politiche della lotta di classe e i risultati di questa — costituzioni stabilite dalla classe vittoriosa dopo una battaglia vinta, ecc. —, le forme giuridiche, anzi persino i riflessi di tutte queste lotte reali nel cervello di coloro che vi prendono parte, le teorie politiche, giuridiche, filosofiche, le visioni religiose ed il loro successivo sviluppo in sistemi dogmatici, esercitano altresì la loro influenza sul decorso delle lotte storiche e in molti casi ne determinano in modo preponderante la forma. È un'azione reciproca di tutti questi momenti, in cui alla fine il movimento economico si impone come fattore necessario attraverso un'enorme quantità di fatti casuali (cioè di cose e di eventi il cui interno nesso è così vago e così poco dimostrabile che noi possiamo fare come se non ci fosse e trascurarlo). In caso contrario, applicare la teoria a un qualsiasi periodo storico sarebbe certo più facile che risolvere una semplice equazione di primo grado.

Ci facciamo da noi la nostra storia, ma, innanzitutto, a presupposti e condizioni assai precisi. Tra di essi quelli economici sono in fin dei conti decisivi. Ma anche quelli politici, ecc., anzi addirittura la tradizione che vive nelle teste degli uomini ha la sua importanza, anche se non decisiva…

La storia si fa in modo tale che il risultato finale scaturisce sempre dai conflitti di molte volontà singole, ognuna delle quali a sua volta è resa quel che è da una gran quantità di particolari condizioni di vita; sono perciò innume­revoli forze che si intersecano tra loro, un gruppo infinito di parallelogrammi di forze, da cui scaturisce una risultante — l'avve­nimento storico — che a sua volta può esser considerata come il prodotto di una potenza che agisce come totalità, in modo non cosciente e non volontario. Infatti quel che ogni singolo vuole è ostacolato da ogni altro, e quel che ne viene fuori è qualcosa che nessuno ha voluto. Così la storia, quale è stata finora, si svolge a guisa di un processo naturale, ed essenzialmente è sog­getta anche alle stessi leggi di movimento. Ma dal fatto che le singole volontà — ognuna delle quali vuole ciò a cui la spinge la sua costituzione fisica e le circostanze esterne, in ultima istanza economiche (le sue proprie personali o quelle generali e sociali) — non raggiungono ciò che vogliono, ma si fondono in una media complessiva, in una risultante comune, da questo fatto non si può comunque dedurre che esse vadano poste = 0. Al contrario, ognuna contribuisce alla risultante, e in questa misura è compresa in essa…

Del fatto che da parte dei più giovani si attribuisca talvolta al lato economico più rilevanza di quanta convenga siamo in parte responsabili anche Marx ed io. Di fronte agli avversari dovevamo accentuare il principio fondamentale, che essi nega­vano, e non sempre c'era il tempo, il luogo e l'occasione di rico­noscere quel che spettava agli altri fattori che entrano nell'azione reciproca. Ma appena si arrivava alla descrizione di un periodo storico, e perciò a un'applicazione pratica, le cose cambiavano, e nessun errore era qui possibile. Ma purtroppo è fin troppo frequente che si creda di aver capito a fondo una nuova teoria e di poterne senz'altro fare uso non appena ci si sia impadroniti dei suoi principi fondamentali, e anche questo non sempre in modo corretto. E questo rimprovero non posso risparmiarlo neanche a qualcuno dei recenti «marxisti», e ne è venuta fuori anche della robaccia incredibile. [...]."

E' difficile assumere il pensiero di Engels come una "correzione" di quello di Marx.

Per definire la struttura globale della società, questi fa ricorso ad una metafora la cui interpretazione non è di poco conto. Se la produzione è la base o il fondamento dell'edificio sociale, la funzionalità o agibilità dello stesso si identifica con gli spazi che stanno sopra le fondamenta, con gli spazi socio-culturali, laddove gli uomini vivono la loro vita cosciente e si rapportano gli uni agli altri. Il modo di produzione, importante in quanto definisce il grado di sviluppo delle forze produttive, e, di conseguenza, la ricchezza generale che una società riesce a produrre in virtù della divisione del lavoro, di determinati rapporti sociali, è, nel concreto processo del divenire storico, solo un aspetto di una totalità organismica - la formazione socio-economica - della quale esso rappresenta l'anatomia. L'analisi di una formazione socio-economica postula, dunque, uno studio attento delle articolazioni tra i diversi piani strutturali.

Affrontando ulteriormente il problema, il tardo Engels giunge ulteriormente a scrivere: "Quanto più il terreno che stiamo indagando si allontana dal terreno economico e si avvicina al terreno ideologico puramente astratto, tanto più troveremo che esso presenta nella sua evoluzione degli elementi fortuiti, tanto più la sua curva procede a zig-zag." Se si traccia, però, "l'asse medio della curva" si "troverà che, quanto più lungo è il periodo preso in esame e quanto più è esteso il terreno studiato, tanto più questo asse si avvicina e corre parallelo all'asse dell'evoluzione economica." (Lettera a Walter Borgius del 25 gennaio 1894)

Nonostante le precisazioni di Engels, il rapporto tra infrastruttura - la produzione materiale come base dello sviluppo e dell'organizzazione sociale - e sovrastruttura - la teoria economica, il diritto, la filosofia, l'arte, la letteratura, l'etica, la religione, il senso comune, ecc. - è rimasto sempre un nodo problematico della concezione materialistica della storia, ampiamente contestato in nome della sua presunta rozzezza.

Approfondiremo questo problema nell’ultima lettura. Qui basta dire che l’accusa rivolta a Marx di materialismo e di economicismo, ripetuta infinite volte, è diventata un luogo comune. Essa, però, si fonda in gran parte su di una conoscenza approssimativa, orecchiata della sua opera.

Il vero limite di Marx è un eccesso di genialità che si traduce in una congerie di intuizioni straordinarie che egli non approfondisce, anzi sacrifica letteralmente sull’altare della dimostrazione scientifica dell’inesorabilità del declino del Capitalismo. Quasi tutti i suoi manoscritti sono densi di rimandi a temi da sviluppare, sui quali, invece, egli non tornerà più.

E’ agevole fornire un esempio a riguardo.

Nell'Introduzione alla critica dell'economia politica, tra i punti che Marx si ripromette di approfondire in seguito c'è anche "il rapporto ineguale tra sviluppo della produzione materiale e per es. quella artistica."

Poco più avanti nel testo, c'è un ulteriore accenno al problema:

"Prendiamo, ad es., il rapporto dell’arte greca ed anche di Shakespeare con il presente. E’ ben noto che la mitologia greca non fu solo l’arsenale, ma anche il terreno di coltura dell’arte greca. La concezione della natura e dei rapporti sociali, che stanno al fondo della fantasia e, quindi, della mitologia greche son forse compatibili con le filatrici automatiche, con le ferrovie, le locomotive e i telegrafi elettrici? Dove può andare a cacciarsi Vulcano di fronte a Roberts and Co., e Giove di fronte ai parafulmini ed Ermes di fronte al Crédit mobilier? Ogni mitologia vince e domina e plasma le forze della natura nella e colla immaginazione; scompare, dunque, con l’effettivo dominio su di esse. Cosa ne è della fama quando esiste Printinghouse square?

L’arte greca presuppone la mitologia greca, vale a dire, la natura e le stesse forme sociali inconsapevolmente rielaborate dalla fantasia popolare in modo artistico. Questo è il suo materiale. Non una qualsivoglia mitologia, non una qualsivoglia rielaborazione artistica della natura (ivi compreso tutto l’oggettivo, quindi, anche la società). La mitologia egizia non poteva essere né il terreno di coltura né il grembo dell’arte greca. Ma, comunque, una mitologia. In nessun caso uno sviluppo sociale, che esclude ogni rapporto mitologico con la natura e con se stessa e che, invece, pretende dagli artisti una fantasia indipendente dalla mitologia.

Da un altro lato: è forse possibile Achille quando esistono polvere da sparo e piombo? O in generale l’Iliade con il torchio e la macchina da stampa? Con il torchietto da stampa non finiscono necessariamente il canto, la leggenda e la Musa? Non scompaiono, insomma, le condizioni necessarie della poesia epica?

La difficoltà, tuttavia, non consiste nell’intendere che l’arte e l’epos greci siano legati a certe forme di sviluppo sociale. Consiste, invece, nel fatto che quell’arte e quell’epos ci assicurino godimento artistico e, in certo aspetto, valgano come norma e modello inarrivabile.

Un uomo non può tornar fanciullo, senza diventare infantile. Ma forse che non lo rallegra la spontaneità del fanciullo e non deve forse - sia pure collocandosi ad un livello superiore - tendere a riprodurne la verità? Non è forse vero che nella natura del fanciullo sopravvive il carattere proprio di ogni epoca nella sua verità naturale? Perché l’infanzia storica dell’umanità, laddove si è svolta nel modo più bello, non dovrebbe esercitare un eterno fascino, proprio come epoca destinata a non ritornar più? Vi sono fanciulli ineducati e fanciulli saccenti. Molti dei popoli antichi appartengono a quest’ultima categoria. Fanciulli normali furono i Greci. Il fascino della loro arte non è in contraddizione con il livello non sviluppato della società, da cui nacque. Piuttosto ne è il risultato ed è inseparabile dal fatto che non possano tornare le condizioni sociali immature da cui nacque e da cui esclusivamente poteva nascere."

Si può ritenere sublime l’intuizione per cui la mitologia è l’ideologia propria di una società il cui tasso di sviluppo economico e tecnologico è ancora basso. Si può addirittura approfondirla chiedendosi, per un verso, se la mitologia greca non ha impedito addirittura la nascita della scienza, laddove si davano tutte le premesse perché ciò potesse avvenire, e per un altro se sia un caso che l’arte sia rimasta a lungo, nel contesto della nostra civiltà, vincolata alla mitologia religiosa, e se sia un caso che tale nesso (che ci costringe ad ammirare la genialità di Michelangelo, Raffaello, Masaccio, Tiziano, ecc. nonostante essa sia costretta a rappresentare immagini religiose) è venuto meno con l’avvento della scienza e della tecnologia.

Per capire che Marx non è un economicista volgare, possiamo, però, anche prescindere dai numerosi testi che contestano tale accusa e fornire una prova più esplicita. Tale prova è fornita dai libri di storia scritti da Marx, e soprattutto dal suo capolavoro: Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte.

Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte

C’è una premessa importante da fare. Le opere storiche di Marx (Rivoluzione e controrivoluzione in Germania, Le lotte di classe in Francia, Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte e La guerra civile in Francia) sono tutte dedicate ad eventi contemporanei e, in particolare, ad eventi che hanno segnato la sconfitta del sogno rivoluzionario delle masse popolari residuato alla stagione della Rivoluzione francese. Data la sua adesione agli ideali rivoluzionari, ci si aspetterebbe dunque un’analisi rivolta ad identificare i colpevoli di quella sconfitta o ad illuminare il fatalismo delle condizioni per cui le cose sono andate in un certo modo perché non potevano andare diversamente.

In quelle opere non si trova invece nulla di tutto questo. Marx è impegnato a cercare sotto l'illusorio il reale; sotto il politico, il sociale; sotto l'interesse generale, l'interesse di classe; sotto le forme dello Stato, le strutture della società civile. Cercare sotto significa dare per scontato che gli eventi e gli agenti storici sono irretiti da una trama illusoria.

L’analisi de Il 18 brumaio non è comprensibile se non si tiene conto della mistificazione delle coscienze, a cui Marx si richiama esplicitamente:

“Al di sopra delle differenti norme di proprietà e delle condizioni sociali di esistenza si eleva tutta una sovrastruttura di impressioni, di illusioni, di particolari modi di pensare e di particolari concezioni della vita. La classe intera crea questa sovrastruttura e le dà una forma sulla base delle sue proprie condizioni materiali e delle corrispondenti relazioni sociali. L'individuo singolo, cui queste cose pervengono attraverso la tradizione e l'educazione, può immaginarsi che esse costituiscano i veri motivi determinanti e il punto di partenza della sua attività.”

“Come nella vita privata si fa distinzione tra ciò che un uomo pensa e dice di sé e ciò che dice e fa in realtà, tanto più nelle lotte della storia si deve far distinzione fra le frasi e le pretese dei partiti e il loro organismo reale e i loro reali interessi, tra ciò che essi si immaginano di essere e ciò che in realtà sono.”

Si tratta dunque di capire ciò che è avvenuto al di là della mistificazione delle coscienze.

Ciò che è avvenuto in Francia, tra il 48 e il 52, di fatto è un paradosso: la rivoluzione popolare del 48 fallisce perché le classi borghesi, spaventate dal socialismo, si alleano e la reprimono con la violenza. Esse instaurano un regime repubblicano, ma, conseguita l’egemonia, cominciano a litigare perché rappresentano interessi diversi (la grande proprietà fondiara, il Capitale, la piccola borghesia). A forza di litigare, esse paralizzano il regime parlamentare e aprono la via all’avvento di un Salvatore della patria, Luigi Bonaparte, nipote di Napoleone Bonaparte, che, dopo un anno dall’elezione a presidente, fa un colpo di Stato, proclamandosi Imperatore e instaurando una dittatura.

L’evento sembra lontano nel tempo e, alla luce del presente, insignificante. La sua importanza sta nel fatto che il Salvatore della Patria, che ripete nel 1852 il colpo di Stato effettuato dallo zio il 9 novembre (brumaio) del 1799 destituendo il Direttorio e impadronendosi del potere, è uno strano personaggio. Quello che Marx ne pensa è chiaro fin dall’esordio del libro:

“Hegel nota in un passo delle sue opere che tutti i grandi fatti e i grandi personaggi della storia universale si presentano per, così dire, due volte. Ha dimenticato di aggiungere la prima volta come tragedia, la seconda volta come farsa.” La tragedia è lo zio, Napoleone Bonaparte, la farsa il nipote, Luigi Bonaparte.

L’esordio lascia pensare ad un libro di insulti. A Marx, però, a differenza di Victor Hugo, che scrive un libro sprezzante su Napoleone il Piccolo, non interessa stigmatizzare il personaggio, bensì capire come la storia della società civile, con la sua fobia delle istanze popolari di giustizia e il conflitto di interessi all’interno delle classi borghesi (alta, media, piccola) abbia potuto far assurgere al rango di Eroe un personaggio mediocre, se non grottesco.

E’, insomma, un’analisi di come una democrazia può finire in crisi se essa tradisce le istanze di uguaglianza sociale, che dovrebbero essere ad essa intrinseche, e, stigmatizzandole come espressione di anarchia, sovvertimento sociale, pretese assurde, socialismo, comunismo, si rivolge a “salvare” la società dai suoi “nemici” all’insegna di valori elevati: "Proprietà, famiglia, religione, ordine".

Senza saperlo, Marx, insomma, fornisce le chiavi atte a spiegare l’avvento delle dittature di destra del ‘900 - Mussolini, Hitler, Franco, Colonnelli greci, Pinochet, Generali argentini, ecc. - che si sono realizzate sulla base ideologica della difesa di quei valori dall’anarchia. Ma egli fornisce anche chiavi più sottili.

La crisi della democrazia francese, infatti, consegna il potere ad un uomo la cui mediocrità è assoluta, ma che è compensata non solo da un’astuzia fuori del comune, ma anche dalla sua volontà di erigersi a difensore del popolo minuto.

In cosa consiste l’astuzia di Luigi Napoleone? Nello sfruttare le debolezze dell’Assemblea parlamentare per accaparrarsi un’ingente quantità di denaro (il suo stipendio passa rapidamente da 600000 a tre milioni di franchi) e nell’utilizzare questo denaro per mettere su una singolare Società: la Società del 10 dicembre.

“Questa società era stata fondata nel 1849. Col pretesto di fondare un'associazione di beneficenza il sottoproletariato di Parigi era stato organizzato in sezioni segrete; ogni sezione era diretta da agenti bonapartisti; alla testa della Società vi era un generale bonapartista. Accanto a veri mariuoli, dalle risorse e dalle origini equivoche; accanto ad avventurieri corrotti, feccia della borghesia, vi si trovavano vagabondi, soldati in congedo, forzati usciti dal bagno penale, galeotti evasi, birbe, furfanti, lazzaroni, tagliaborse, ciurmatori, bari, ruffiani tenitori di postriboli, facchini, letterati, sonatori ambulanti, straccivendoli, arrotini, stagnini, accattoni, in una parola, tutta la massa confusa, decomposta, fluttuante, che i francesi chiamano la bohème. Con questi elementi a lui affini Bonaparte aveva costituito il nucleo della Società del 10 dicembre. "Società di beneficenza", - in quanto i suoi membri, al pari di Bonaparte, sentivano il bisogno di farsi della beneficenza alle spalle della nazione lavoratrice.

Questo Bonaparte, che si erige a capo del sottoproletariato, che soltanto in questo ambiente ritrova in forma di massa gli interessi da lui personalmente perseguiti, che in questo rifiuto, in questa feccia, in questa schiuma di tutte le classi riconosce la sola classe su cui egli può appoggiare senza riserve, è il vero Bonaparte, il Bonaparte senza giri di parole. Vecchio e consumato mariuolo, pieno di vizi e di debiti, egli concepisce la vita storica dei popoli, le loro azioni capitali e di Stato, come una commedia, nel senso più ordinario della parola, come una mascherata in cui i grandi costumi, le grandi parole e i grandi gesti non servono ad altro che a coprire le furfanterie più meschine...

Nella sua Società del 10 dicembre egli raccoglie 10.000 straccioni che debbono rappresentare il popolo, come Klaus Zettel il leone [Allusione a un personaggio (in inglese Nick Bottom) del Sogno di una notte di mezza estate di Shakespeare. Bottom (atto I, Scena II) aveva proposto ai colleghi, con i quali avrebbe dovuto recitare in occasione di una festa nuziale, di affidargli la parte del leone, affermando che, per non spaventare le signore, avrebbe ruggito "pianino come una colomba di latte" o come un "rosignolo".]. In un momento in cui la borghesia stessa rappresentava una perfetta commedia, ma nel modo più serio possibile, senza violare nessuna delle più pedanti regole dell'etichetta drammatica francese, ed essa stessa era a metà ingannata, a metà convinta dalla solennità delle sue proprie azioni capitali e di Stato, in questo momento la vittoria spettava all'avventuriero, per cui la commedia non era altro che commedia.

Solamente quando si è liberato dal suo solenne avversario, quando prende egli stesso sul serio la sua parte di imperatore e pensa di rappresentare, in maschera napoleonica, il vero Napoleone, solo allora egli diventa la vittima della propria illusione, e si trasforma in un pagliaccio serio, che non prende più la storia per una commedia, ma la propria commedia per storia universale.

Per Bonaparte la Società del 10 dicembre fu […] la sua personale milizia di partito. Durante i suoi viaggi le sezioni della società, spedite a destinazione per ferrovia, avevano il compito di improvvisargli un pubblico, di simulare l'entusiasmo pubblico, di urlare Vive l'Empereur!, di insultare e di picchiare i repubblicani, naturalmente sotto la protezione della polizia. Al suo ritorno a Parigi esse avevano il compito di formare l'avanguardia, di prevenire o di disperdere le contromanifestazioni. La Società del 10 dicembre gli apparteneva, era opera sua, era il suo più genuino pensiero. Quando Bonaparte si impadronisce di qualche cosa, è la forza delle circostanze a dargliela; quando egli fa qualcosa, sono le circostanze per lui, oppure si accontenta di copiare quello che fanno gli altri; ma quando egli parla ufficialmente dell'ordine, della religione, della famiglia, della proprietà davanti a un pubblico borghese, ed ha dietro di sé la società segreta degli Schufterle e degli Spiegelberg [Sono i nomi dei personaggi più ripugnanti dei Masnadieri di Schiller, ladri e assassini che hanno perduto ogni freno morale.], la società del disordine, della prostituzione e del furto, allora egli è Bonaparte in persona, in edizione originale. La storia della Società del 10 dicembre è la sua propria storia.”

Il regime di Luigi Bonaparte, insomma, è una miscela di cesarismo e di populismo. Dopo avere ammaliato le “pescivendole”, proponendosi come un nuovo Masaniello, e l’esercito, promettendo un futuro di Grandeur, Luigi Bonaparte conquista la classe industriale, alla quale, in occasione della consegna di premi conquistati all’Esposizione di Londra, rivolge questo discorso:

“In presenza di successi così insperati, io sono in diritto di dichiarare ancora una volta quanto la repubblica francese sarebbe grande se le fosse permesso di occuparsi dei suoi interessi reali e di riformare le sue istituzioni, invece di essere continuamente turbata .. dai demagoghi. […]

Si vedono degli uomini, che un tempo erano i sostenitori più zelanti dell'autorità..., diventare partigiani di una Convenzione unicamente allo scopo di indebolire l'autorità uscita dal suffragio universale (applausi entusiastici e prolungati). Vediamo alcuni uomini che più hanno sofferto della rivoluzione e più se ne sono lamentati, provocarne una nuova unicamente per incatenare la volontà della nazione... Io vi prometto la tranquillità per l'avvenire, ecc. (Bravo! Bravo! Applausi fragorosi)."

Sulla base di questo consenso popolare, Luigi Bonaparte può andare al colpo di stato:

“Il secondo Bonaparte,[…], non cercò il suo modello negli annali della storia, ma negli annali della Società del 10 dicembre, negli annali della giustizia criminale. Rubò alla banca di Francia 25 milioni di franchi; comprò il generale Magnan con un milione, i soldati con 15 franchi a testa e con acquavite; si riunì la notte, di nascosto, come un ladro, con i suoi complici; fece invadere le case dei capi parlamentari più pericolosi ..., fece occupare militarmente le piazze principali di Parigi e l'edificio del Parlamento, e affiggere al mattino su tutti i muri manifesti ciarlataneschi, in cui si annunciava lo scioglimento dell'Assemblea nazionale e del Consiglio di Stato, il ristabilimento del suffragio universale e la messa in stato d'assedio del dipartimento della Senna.

Poco dopo fece inserire nel Moniteur un documento falso, secondo il quale un certo numero di parlamentari influenti si erano riuniti attorno a lui in una Consulta di stato... Così finivano il partito dell'ordine, l'Assemblea legislativa e la Rivoluzione di febbraio.”

Salvatore della patria, di fatto Luigi Bonaparte salva se stesso e l’ordine borghese:

“La borghesia francese ha gridato dopo il colpo di stato: "Soltanto il capo della Società del 10 dicembre può ancora salvare la società borghese! Soltanto il furto può ancora i salvare la proprietà; soltanto lo spergiuro può salvare la religione; il bastardume, la famiglia; il disordine, l'ordine!" Bonaparte, come forza del potere esecutivo resosi indipendente, sente che la sua missione consiste nell'assicurare "l'ordine borghese". Ma la forza di quest'ordine borghese è la classe media. Egli si considera perciò rappresentante della classe media e in questo senso emana decreti. …

In pari tempo Bonaparte si considera rappresentante dei contadini e del popolo in generale contro la borghesia e vuole, entro la società borghese, rendere felici le classi popolari inferiori. Ed ecco nuovi decreti, che frodano in anticipo i "veri socialisti" della loro sapienza governativa [66]. Ma Bonaparte si considera soprattutto capo della Società del 10 dicembre, rappresentante del sottoproletariato, al quale appartengono egli stesso, il suo entourage [67], il suo governo e il suo esercito, e per il quale si tratta anzitutto di aver cura dei propri interessi e di trarre dal tesoro pubblico premi per la lotteria della California.”

Per mantenere il regime populista, occorre però un’enorme quantità di denaro. Per ciò dalle ceneri dell’Eroe salvatore della Patria sorge di nuovo il mariuolo:

“Egli vorrebbe rubare tutta la Francia, per farne un regalo alla Francia, o piuttosto per poter comprare la Francia con denaro francese, perché come capo della Società del 10 dicembre, deve comprare ciò che gli deve appartenere. E allo scopo di comprare servono tutte le istituzioni dello Stato: il Senato, il Consiglio di Stato, il Corpo legislativo... Ogni posto nell'esercito e nell'apparato governativo diventa strumento di una compera. L'essenziale però, in questo procedimento per cui la Francia viene derubata per farle dei regali, sono le percentuali che durante tale circolazione cadono nelle mani del capo e dei membri della Società del 10 dicembre. Il motto di spirito con cui la contessa L., l'amante del signor di Morny [83], ha definito la confisca dei beni degli Orléans: "C'est le premier vol de l’aigle” [84], si adatta ad ognuno dei voli di quest’aquila, che è piuttosto un corvo. […]

Alla corte, nei ministeri, alla testa dell'amministrazione e dell'esercito si accalca una massa di individui, del migliore dei quali si può dire che non si sa donde venga; una bohème turbolenta, malfamata, avida di saccheggio che strisciando indossa abiti gallonati, con la stessa dignità grottesca dei grandi dignitari di Soulouque [Faustin Soulouque (1782-1867), presidente della repubblica negra di Haiti. Per imitare Napoleone I, nel 1849 egli si fece proclamare imperatore, circondandosi di uno stato maggiore e di una corte da operetta. Egli realizzò nel paese un dispotismo sanguinario. "Soulouque francese" era uno degli epiteti con cui, già nel 1850, veniva chiamato L. Bonaparte dai suoi avversari.].

[…] Non sarebbe giusto ricordare, a proposito della corte e della tribù di Luigi Bonaparte, la Reggenza di Luigi XV. Perché la "Francia ha conosciuto un numero abbastanza grande di governi di mantenute ma non aveva ancora mai avuto un governo di mantenuti".

Spinto dalle esigenze contraddittorie della sua situazione e costretto, in pari tempo, come un giocatore di prestigio, a tener gli occhi del pubblico fissi sopra di sé con delle continue sorprese, come surrogato di Napoleone, e a far quindi ogni giorno un colpo di stato in miniatura, Bonaparte sconvolge tutta l'economia borghese; mette le mani su tutto ciò che era parso intangibile alla Rivoluzione del 1848; rende gli uni rassegnati alla rivoluzione e gli altri desiderosi di una rivoluzione; in nome dell'ordine crea l'anarchia, spogliando in pari tempo la macchina dello Stato della sua aureola, profanandola, rendendola repugnante e ridicola. Egli rinnova a Parigi il culto della sacra tunica di Treviri sotto la forma di culto del mantello imperiale di Napoleone [La sacra tunica di Treviri è una camicia senza cuciture, la quale fu esposta nel 1844 nel duomo di Treviri (la più antica basilica della Germania) e ritenuta la tunica di Cristo]”

E’ evidente che Marx come storico tiene conto di tutti i fattori che concorrono a mantenere l’evoluzione storia al di qua della linea di confine che sancisce il dominio della classe borghese sull’intera società: fattori economici, sociali, culturali, psicologici. Egli coglie il limite della democrazia borghese nella sua incapacità di realizzare l’ideale di uguaglianza da cui essa è nata: limite che non esclude però né un orientamento conservatore compassionevole né un orientamento populista, che può rivolgere le sue attenzioni agli anelli deboli del sistema (i piccolo-borghesi, i sottoproletari) e manipolarli.

Ne Il 18 Brumaio Marx stigmatizza anche le pretese della socialdemocrazia di poter sopperire efficacemente alle disfunzioni del sistema capitalistico. Egli scrive:

“Il carattere proprio della socialdemocrazia si riassume nel fatto che vengono richieste istituzioni democratiche repubblicane non come mezzi per eliminare entrambi gli estremi, il capitale e il lavoro salariato, ma come mezzi per attenuare il loro contrasto e trasformarlo in armonia. Ma per quanto diverse siano le misure che possono venir proposte per raggiungere questo scopo, per quanto queste misure si possano adornare di rappresentazioni più o meno rivoluzionarie, il contenuto rimane lo stesso. Questo contenuto è la trasformazione della società per via democratica, ma una trasformazione che non oltrepassa il quadro della piccola borghesia. Non ci si deve rappresentare le cose in modo ristretto, come se la piccola borghesia intendesse difendere per principio un interesse di classe egoistico. Essa crede, il contrario, che le condizioni particolari della sua liberazione siano le condizioni generali, entro alle quali soltanto la società moderna può essere salvata e la lotta di classe evitata. Tanto meno si deve credere che i rappresentanti democratici siano tutti bottegai o che nutrano per questi un'eccessiva tenerezza. Possono essere lontani dai bottegai, per cultura e situazione personale, tanto quanto il cielo è lontano dalla terra. Ciò che fa di essi i rappresentanti del piccolo borghese è il fatto che la loro intelligenza non va al di là dei limiti che il piccolo borghese stesso non oltrepassa nella sua vita, e perciò essi tendono, nel campo della teoria, agli stessi compiti e alle stesse soluzioni a cui l'interesse materiale e la situazione sociale spingono il piccolo borghese nella pratica. Tale è, in generale, il rapporto che passa tra i rappresentanti politici e letterari di una classe e la classe che essi rappresentano.”

Ogni riferimento alla singolare situazione italiana non è certo immaginario. Il problema però è più ampio e grave, se si considera che la mentalità piccolo-borghese è maggioritaria in tutti i Paesi occidentali (e spiega la recente egemonia dei governi di centro-destra) e che essa è destinata ad incrementarsi via via che la globalizzazione, per effetto soprattutto delle logiche intrinseche al sistema capitalistico, oltre che a provocare squilibri economici di ogni genere a livello planetario, eroderà il reddito e la tranquillità del ceto medio.

Non è superfluo, per concludere questa lettura, rilevare che, quando Marx intraprende l’analisi del sistema capitalistico, Alexis de Tocqueville ha già pubblicato il suo capolavoro (La democrazia in America), nel quale l’elogio del nuovo regime istauratosi negli Stati Uniti, ispirato al principio dell’uguaglianza, si associa al timore che esso possa degenerare. I pericoli che Tocqueville analizza sono la dittatura della maggioranza e l’egemonia della mentalità piccolo-borghese. Egli ritiene che tali pericoli possano essere scongiurati: crede, cioè, nella democrazia. Ne Il 18 Brumaio, Marx dimostra che tali pericoli non sono degenerativi, ma costitutivi della democrazia, nella misura in cui essa, sotto l’egida del principio dell’uguaglianza, assegna di fatto il potere ad una sola classe, la borghesia.

Questa mistificazione impedisce la realizzazione del sogno dell’uguaglianza perché essa implica il connubio tra democrazia e capitalismo. E’ il capitalismo, dunque, l’ostacolo maggiore sulla via della realizzazione di un mondo fatto a misura d’uomo.