Letture marxiane

Lettura 2

Lo sfondo storico-culturale, la personalità di Marx e la nascita del Rivoluzionario

La scienza della storia
Sfondo storico-culturale
La biografia di Marx
La personalità di Marx
L'illuminazione
Il metodo indiziario di Marx
Il diritto all'epoca di Marx

 

La scienza della storia

Capire criticamente la realtà storica come prodotto di processi economici, sociali e culturali che alienano l’uomo, allontanandolo dalla possibilità di uno sviluppo integrale del suo essere: questo è l’obiettivo primario di Marx, che analizza sistematicamente la contraddizione che, alla sua epoca, diventa massimamente evidente e inquietante tra sviluppo tecnologico e progresso.

Nel 1845 e nel 1846 egli formula due assiomi tra i più famosi:

“I filosofi hanno solo interpretato il mondo in modi diversi; si tratta però di mutarlo.” (XI Tesi su Feuerbach)

"Noi conosciamo soltanto una unica scienza: la scienza della storia.” (L’Ideologia tedesca, p. 44).

Capire criticamente la realtà storica non è, dunque, un fatto meramente intellettuale: esso impone di prendere posizione e di agire nella direzione di un mondo disalienato, fatto a misura d’uomo.

La pubblicazione, nel 1847, di Miseria della filosofia sancisce l’abbandono definitivo di un approccio speculativo alla realtà storica a favore di una riflessione teorica che miri ad incidere su di essa.

Se si pensa che, appena qualche anno prima, Marx. nonostante le resistenze paterne. ha abbandonato gli studi di giurisprudenza per dedicarsi anima e corpo alla filosofia, è evidente che, nel suo tragitto di esperienza, deve essere avvenuto “qualcosa” di radicalmente significativo, una sorta di “illuminazione” che ha prodotto l’assunzione del ruolo di intellettuale militante, cioè rivoluzionario.

A questa “illuminazione”, destinata ad incidere profondamente su tutta la vita di Marx, è dedicata questa lettura.

Parlo di “illuminazione” in senso proprio, vale a dire di un’intuizione che modifica radicalmente la visione del mondo di un soggetto e lo costringe a seguire un tragitto teorico e pratico ben lontano dal senso comune.

L’illuminazione in questione è vissuta da Marx come passaggio dall’approccio filosofico alla realtà, che comporta indefinite interpretazioni, tutte suggestive ma anche opinabili, all’approccio scientifico, che la rende intellegibile, vale a dire la spiega.

Nelle letture darwiniane abbiamo già considerato la distinzione tra scienze sperimentali e scienze induttive. Le prime riguardano eventi ripetibili, talora riproducibili anche in laboratorio sotto forma di esperimenti, che possono essere ricondotti a leggi universalmente valide. Le scienze induttive o storiche, invece, riguardano eventi unici e irripetibili, che, in quanto tali, non sono riconducibili a leggi in senso proprio. Nella misura in cui essi si succedono, però, è possibile avanzare delle ipotesi generali sulla loro evoluzione.

E’ quanto ha fatto Darwin in relazione all’evoluzione della vita, adducendo prove consistenti del meccanismo della selezione naturale.

E’ possibile, però, applicare il metodo induttivo agli eventi storici? E’ possibile, cioè, intravedere nella loro indefinita congerie, un’evoluzione, vale a dire uno sviluppo orientato in una qualche direzione?

L’evoluzionismo darwiniano, come si è visto, è casualista. Esso esclude qualunque fine intrinseco alla selezione naturale e mira solo a spiegare la nascita di nuove specie.

La storia, però, implica l’entrata in azione dell’uomo, con i suoi bisogni, la sua libertà, la sua capacità di operare scelte. Queste caratteristiche danno, secondo Marx, all’evoluzione storica un significato diverso rispetto a quella naturale. Esse permettono di intravedere, attraverso le indefinite vicissitudini apparentemente caotiche, un “sogno” vissuto dagli esseri umani inconsapevolmente: quello di un mondo fatto a misura d’uomo.

Per realizzare questo “sogno”, che va al di là di un semplice adattamento e connota, dunque, il “destino” di una specie particolare, l’uomo si è impegnato sin dall’inizio a trasformare il mondo piegando la natura ai suoi bisogni. All’epoca di Marx, lo sviluppo della tecnologia sembra attestare che egli sta vincendo la secolare battaglia contro le resistenze opposte dalla natura: in virtù degli sviluppi delle scienze, nei cui confronti Marx manifesta un entusiasmo senza limiti, la materia è diventata una creta che l’uomo può foggiare quasi a piacimento. Si danno dunque i presupposti, dapprima inesistenti, perché raggiunga la consapevolezza di appartenere ad una specie che ha lavorato perché quel “sogno” si realizzasse e si dedichi allo sviluppo integrale di sé e dei rapporti sociali.

Tali presupposti, però, non bastano. Giunto a dominare la natura e a sviluppare un mondo di incredibile ricchezza materiale e culturale, l’umanità è venuta ad urtare contro un’altra resistenza: l’ostacolo posto dall’organizzazione economico-sociale, vale a dire dall’uomo stesso, alla realizzazione del “sogno”. Tale ostacolo Marx lo identifica nella proprietà privata, che vincola l’uso dell’indefinita ricchezza che l’uomo ha prodotto ad una logica, quella del profitto, che ne comporta lo spreco.

Capire la pregnanza di questo pensiero, implica chiarire preliminarmente un concetto di base marxiano che è stato sempre equivocato. Quando Marx parla di ricchezza sociale egli non fa riferimento solo al denaro o ai beni, ma a tutto il patrimonio culturale (compresi il denaro e i beni) che l’umanità ha prodotto nel corso della sua storia. In questo straordinario patrimonio, egli vede l’espressione del sogno inconsapevole la cui realizzazione essa ha perseguito e che l’interesse privato contrasta.

Ancora oggi, non c’è alcuna difficoltà a portare le prove della fondatezza di questa concezione.

Gli studiosi affermano che le capacità produttive dell’uomo sul piano alimentare sono tali che esse potrebbero soddisfare attualmente dodici miliardi di persone. Un miliardo di cittadini del mondo, quindi un sesto della popolazione mondiale, soffrono, però, la fame.

Se si pensa poi allo spreco di potenzialità umane, il problema risulta ancora più inquietante. Nei paesi sviluppati c’è disoccupazione, sottoccupazione e una formazione che sembra orientato solo all’inserimento sociale e non allo sviluppo integrale dell’uomo. Per quanto riguarda gli altri paesi, lo spreco del capitale umano è addirittura enorme. Basta pensare ad un bambino dell’Africa che viene al mondo con un’attitudine artistica o scientifica spiccata, ma non potrà mai accedere alla ricchezza accumulata dall’uomo nell’ambito dell’arte e della scienza, che egli potrebbe contribuire a sviluppare ulteriormente.

E’ lo spreco della ricchezza materiale e culturale prodotta dall’uomo per realizzare il suo “sogno” il grande tema del pensiero marxiano. Non è un caso che tale tema affiori nell’800: se Marx fosse nato qualche secolo prima, sarebbe stato presumibilmente un filosofo geniale, ma non sarebbe divenuto il Marx che conosciamo.

Questa considerazione, che è banale e profonda al tempo stesso, rivela l’intimo nesso che si dà tra l’uomo e il contesto storico, sociale e culturale con cui interagisce.

C’è un rapporto indubbio tra il contesto socio-storico-culturale dell’800 e il pensiero di Marx.

Occorre tentare di chiarire preliminarmente tale nesso per approfondire la genesi di tale pensiero e l’illuminazione cui ho fatto cenno che ne promuove la realizzazione.

Sfondo storico e socio-culturale

L’800 è caratterizzato da rivoluzionari cambiamenti economici, sociali, scientifici, tecnologici, politici e culturali. Sarebbe impossibile qui tentare di analizzarli tutti. Occorre, però, almeno dire l’essenziale.

Quando si pensa all’Ottocento, vengono alla mente immediatamente due fatti: la Rivoluzione industriale e il Romanticismo. Sembrano fatti del tutto contrastanti: cosa ha a che vedere l’avvento della civiltà delle macchine con la rivendicazione di una soggettività individuale appassionata, aperta a coltivare il mistero dell’Infinito che l’uomo percepisce?

La Rivoluzione industriale si può ritenere una conseguenza dell’Illuminismo e del culto della Ragione, che valorizza non tanto, però, i principi filosofici dell’Illuminismo quanto il loro concretizzarsi sotto forma di sviluppo della scienza e della tecnologia. Rendere efficiente la produzione dei beni, impiegare in modo razionale le risorse naturali e quelle umane, entrambe essenziali ai fini della produzione stessa, rispondere nel modo migliore possibile alla pressione crescente dei bisogni umani, legati allo sviluppo demografico: questa è l’essenza della Rivoluzione industriale.

Il Romanticismo, peraltro, si può ritenere una reazione all’Illuminismo, nella misura in cui sottolinea il carattere passionale più che razionale dell’uomo, e rivendica l’emozionalità individuale come quintessenza della soggettività. Nell’ottica del Romanticismo, l’uomo non ha bisogno solo di sopravvivere o di vivere nel benessere materiale, ma di dare un senso personale e ideale alla sua esistenza.

La storia dell’800 si può leggere come espressione di un conflitto tra la razionalità imposta dalla Rivoluzione industriale, che assegna all’uomo il ruolo univoco di agente economico “libero” (sia esso capitalista o lavoratore) ma subordinato alle ferree leggi dell’economia, e la rivendicazione di una libertà che trascende quelle leggi e le subordina allo sviluppo integrale dell’essere umano.

Di questo conflitto, Marx si può ritenere il massimo interprete “dialettico”, perché, per un verso, egli vede nella Rivoluzione industriale la realizzazione di una passione trasformativa che è giunta a piegare la natura ai bisogni umani e, per un altro, ritiene che, raggiunto questo dominio, l’uomo non possa ridursi a vivere come mero agente economico, vale a dire come appendice delle macchine o come fattore di produzione (merce). Egli ha bisogno di dare un senso alla sua esperienza individuale e sociale; ha bisogno, dunque, di vivere con passione la sua individualità, di svilupparla e di riconoscere la sua appartenenza ad una specie che ha lottato, sia pure inconsapevolmente, per giungere ad affermare la dignità individuale e il valore dell’uomo, essere naturale, come fine.

Marx, in altri termini, identifica nell’avvento del capitalismo l’esplosione di un bisogno di individuazione che viene, però, irretito e ingabbiato dalla stessa spinta rivoluzionaria che lo fa affiorare, esitando nella definizione storica di un’individualità differenziata ma, al tempo stesso, mortificata nel suo legame di appartenenza: un’individualità liberata dai vincoli gerarchici e dai doveri parentali, ma, al tempo stesso, ripiegata nel culto dell’interesse privato. Marx interagisce con questa situazione portando all’estremo la rivendicazione di un’individuazione che non sciolga il legame sociale, ma lo potenzi fino a renderlo universale. Tanto, dunque, egli è affascinato dalla razionalità della rivoluzione capitalistica, che assoggetta la natura ai bisogni umani, tanto ritiene romanticamente che tale assoggettamento debba essere funzionale al dispiegamento completo degli esseri umani, e non al loro asservimento alla macchina capitalistica.

L’interpretazione dialettica di Marx, che mira a portare alle estreme conseguenze la rivoluzione capitalistica subordinandone l’efficienza che essa ha conseguito nell’uso delle risorse naturali allo sviluppo dei bisogni sociali, sembra abbastanza fedele ai fatti dell’epoca in cui vive, che sono caratterizzate da ondate rivoluzionarie che scalzano un ordine preesistente, ma ne instaurano, infine, un altro che mortifica le classi popolari che hanno più contribuito, con il sangue, a realizzare il cambiamento epocale.

L'800 ha contrassegnato il passaggio definitivo dall'ordine feudale, che ha governato l'Europa per alcuni secoli, all'ordine liberale, che dura tuttora. In termini economici, tale passaggio coincide con una rapida e per alcuni aspetti esplosiva industrializzazione che, attraverso la crescita degli scambi commerciali, produce la mondializzazione del mercato. In termini politici, esso si realizza sotto forma di costituzionalismo, vale a dire con il riconoscimento dei diritti inalienabili dell'uomo. In termini culturali, infine, esso chiude la stagione dell'individuo dipendente dalla nascita, dalla famiglia, dal gruppo, dalla gerarchia sociale, e inaugura quella dell'individuo "libero" e "indipendente" (almeno sul piano dei diritti che gli vengono riconosciuti).

Il passaggio è avviato repentinamente dalla Rivoluzione francese e si conclude verso la metà del secolo, allorché il fallimento dei moti del 1848 contrassegna il trionfo della borghesia moderata, che si allea con il conservatorismo, sulle masse popolari. Le due classi che, sia pure con intenti diversi e non pochi contrasti, hanno marciato sino allora sotto la comune bandiera del superamento dell'assolutismo, in nome della rivendicazione dell'uguaglianza degli esseri umani, in seguito a quei moti, si dissociano irreversibilmente sotto il profilo politico. In realtà, quello che accade è che la borghesia tende a compattarsi e a prendere pienamente coscienza del suo ruolo storico, che è quello di portare avanti lo sviluppo del capitalismo, mentre le masse popolari, che non hanno una guida, tendono a disperdersi

Il 1848 è anche l'anno in cui viene pubblicato il Manifesto del Partito comunista, che si inaugura con l'evocazione dello spettro del comunismo che si aggira per l'Europa e si conclude con l'invito, rivolto ai "proletari" di tutto il mondo, ad unirsi per realizzare, attraverso la lotta, il sogno di un mondo "nuovo", affrancato dalla miseria e dall'oppressione.

La coincidenza delle date può, a posteriori, indurre a pensare che il fantasma evocato da Marx abbia all'epoca una consistenza reale. In realtà esso esiste solo in forma embrionale. I "proletari", vale a dire gli operai industriali, che vengono chiamati ad unirsi per avviare la rivoluzione destinata a promuovere un mondo affrancato dall'oppressione dell'uomo sull'uomo, sono all'epoca nel contesto europeo, eccezion fatta per l'Inghilterra, un'infima minoranza. La grande massa della popolazione è ancora rappresentata dai contadini e dagli artigiani.

Il Comunismo di fatto già esiste, sia in Francia, laddove Etienne Cabet tiene ancora viva viva la fiaccola del babuvismo, sia in Germania, ove un sarto, Wilhelm Weitling, ha fondato la Lega dei giusti di ispirazione misticheggiante. Si tratta, però, di movimenti assolutamenti minoritari.

In realtà, c'è un fantasma che attanaglia sia il potere costituito che la borghesia moderata, ma è quello del disordine e della disgregazione sociale, residuato alla Rivoluzione francese, che fa riferimento però all'esplosione irrazionale della rabbia popolare e non certo ad una presa del potere da parte delle masse. A questo pericolo, a tal punto reale che nel 1848 esso prende nuovamente corpo, sia pure per pochi mesi, Marx associa la sua aspettativa di un cambiamento rivoluzionario dell'ordine esistente. Quest'aspettativa, però, nel 1848 è così poco fondata che l'influenza del suo pensiero è minima. Quando questa aumenterà, dopo il 1860, il sistema capitalistico ha già assunto un ritmo vertiginoso, incoercibile.

Marx nasce nel 1818, tre anni dopo il Congresso di Vienna, che in seguito alla sconfitta di Napoleone Bonaparte, tenta di rimediare allo sconvolgimento prodotto dalla Rivoluzione francese restituendo ai Monarchi il trono e il potere e cercando di stabilire tra le nazioni europee un equilibrio rivolto ad evitare ulteriori conflitti.

In realtà, per quanto animato da una volontà restauratrice che porta alcuni politici e intellettuali a sognare un potere nuovamente egemonizzato dalla classe nobiliare e da quella clericale, il Congresso di Vienna non può cancellare ciò che la Rivoluzione francese ha significato: la scoperta che il potere sovrano è dei cittadini e che gli esseri umani sono pari nella loro dignità.

Esso rappresenta un tentativo di frenare l'ascesa della borghesia e di reprimere le istanze di giustizia popolari. In realtà, in virtù dell'incremento del commercio e dell'avvio di un'organizzazione razionale del lavoro, la borghesia è già protesa verso l'egemonia economica e aspira all'egemonia politica. Per conseguire la prima, non può prescindere dall'utilizzare le masse popolari; per quanto riguarda la seconda, non è disponibile a condividerla con esse .

Che l'ordine instaurato dal Congresso di Vienna sia precario, è attestato da numerosi fremiti (in gran parte nazionalistici) che pervadono l'Europa nel 1820 e nel 1830 che esitano infine nella fiammata rivoluzionaria del 1848.

Per noi, oggi, è quasi impossibile ricostruire la temperie dell’Europa dalla Rivoluzione francese al 1848.

La grande difficoltà sta innanzitutto nel prendere atto che la rivolta contro l’ancien régime, che, per il predominio della nobiltà e del clero, aveva assunto quasi un carattere “castale”, è stata avviata dalla borghesia, che si sentiva pronta ad assumere un ruolo egemone, ma di fatto è stata realizzata dalle masse popolari (soprattutto urbane), la cui force de frappe e il cui tributo di sangue è stato decisivo.

Sulla base di questo tributo, il popolo ha preso sul serio i valori radicali sottesi alla rivolta (libertà, uguaglianza, fraternità) spingendo nella direzione di una loro realizzazione integrale. Fino a Robespierre, la spinta è stata recepita dalla borghesia. Con la fine di Robespierre e l’avvento del Termidoro, si avvia la restaurazione di un nuovo ordine, quello borghese, che culminerà nella presa di potere da parte di Napoleone Bonaparte.

Il bonapartismo diffonde in tutta Europa i germi del costituzionalismo mettendo ovunque in tensione l’ordine esistente assolutistico. La tensione promuove la lenta ascesa della borghesia la cui presa di potere, vivacemente contrastata dall’assolutismo, postula però ricorrentemente l’intervento delle masse popolari. La restaurazione seguita alla caduta di Napoleone sembra blindare l’ancien régime, ma i germi del cambiamento sono ormai troppo diffusi perché esso possa essere rimandato indefinitamente.

Si giunge pertanto all’esplosione, per molti aspetti inaspettata, del ‘48. E’ la primavera dei popoli, nella quale si mescolano istanze nazionalistiche, istanze borghesi e istanze popolari. La borghesia mira ad instaurare un sistema sociale che tuteli la libertà individuale, uno dei cui requisiti è la proprietà - la possibilità di disporre dei propri beni a piacimento -, e permetta ad essa di realizzarsi nella cornice del libero mercato. Nella misura in cui questo significa per il popolo la perdita di privilegi consuetudinari e dei mezzi di produzione, con la conseguente necessità di porre sul mercato la forza-lavoro come merce, le masse non possono accettarlo. Esse spingono nella direzione di un mondo nuovo nel quale non si dia la possibilità dello sfruttamento.

Il ‘48 è una sventagliata rivoluzionaria che svanisce rapidamente, segnando di nuovo, come è accaduto all’epoca del Termidoro, la sconfitta delle masse popolari a favore della classe borghese, che diventa egemone.

Si avvia, dopo il ‘48, un periodo di sviluppo economico di straordinaria intensità che contrassegna l’egemonia del libero mercato e del capitalismo sui residui protezionistici presenti in alcune nazioni. La ricchezza cresce in misura esponenziale, ma essa, in gran parte, si fonda sullo sfruttamento, atroce per alcuni aspetti, della classe operaia, alla quale seguirà, nell’ultimo venticinquennio del secolo, lo sfruttamento delle colonie e dei colonizzati.

I fermenti della stagione che va dalla Rivoluzione francese al 1848 hanno espressioni diverse nelle varie nazioni europee. La Francia naturalmente è la nazione più turbolenta. Nonostante con Napoleone Bonaparte la borghesia trionfi sul proletariato, essa è costretta, per non rimanere isolata, a tentare di allargare la sua sfera di influenza esportando i principi che valorizzano i diritti umani. L'Inghilterra, che ha già un regime parlamentare fondato sull'opposizione tra conservatori e progressisti, risente poco di tale influenza, che invece investe massicciamente l'Austria, la Prussia e la Russia, i cui regimi sono sostanzialmente assolutistici.

In questo contesto occorre considerare la situazione particolare della Renania, la terra natale di Marx, terra di frontiera tra mondo francofono e mondo tedesco.

All'epoca di Marx, la Renania, dopo il dominio napoleonico, fa parte della "Confederazione" tedesca in cui sono confluiti, dopo il Congresso di Vienna, 39 Stati dapprima appartenenti al regno di Prussia. La Confederazione ha esattamente gli stessi confini del "Sacro Romano Impero" dopo la Pace di Westfalia (ad eccezione delle Fiandre), ma contrariamente alla struttura precedente, gli Stati membri godono di una grande autonomia, per quanto formalmente subordinati ad un re (Federico Guglielmo III: 1797-1840; Federico Guglielmo IV: 1840-1861; Guglielmo I: 1861-1888, che nel 1871 assumerà il titolo di imperatore di Germania)

L'economia degli Stati appartenenti alla Confederazione tedesca ha ancora una forte configurazione feudale. Il predominio dei grandi proprietari terrieri è incontrastato. I tre quarti della popolazione sono contadini, che sopravvivono a stento in virtù di diritti consuetudinari maturati a partire dal Medioevo che consentono loro di raccogliere legna secca e frutti selvatici sui terreni demaniali. A livello manifatturiero predomina largamente il piccolo artigianato ancora organizzato secondo il modello delle corporazioni medievali. La pressione della nascente classe borghese, che porta avanti i principi del libero mercato, è debole ma si incrementa lentamente in particolare dal momento dell'Unione doganale del 1834, che crea un unico mercato tedesco.

In virtù dell'Unione doganale, si avvia un rapido sviluppo industriale che riduce progressivamente le distanze dall'Inghilterra, la nazione europea più industrializzata.

Tra il 1830 e il 1842 la produzione mineraria raddoppia, quella metallurgica triplica, come pure il numero delle macchine a vapore installate nelle fabbriche tedesche, mentre l'industria dei beni di consumo cresce di ben otto volte rispetto ai livelli del 1810.

Questo impetuoso sviluppo economico comporta una vera e propria esplosione demografica. In soli quarant'anni, tra il 1815 e il 1855, la popolazione tedesca aumenta di oltre il cinquanta per cento. Le città, pure in rapida crescita, e l'apparato produttivo non sono in grado di tenere dietro a questi ritmi. La disgregazione dei tradizionali assetti economici delle campagne aggrava la situazione. Il massiccio inurbamento, tipico dell'avvio dell'industrializzazione, crea i consueti problemi di affollamento nelle periferie, di sfruttamento, di degrado e di disoccupazione.

La valvola di sfogo è l'emigrazione verso le già congestionate aree industriali inglesi e francesi o la partenza verso gli Stati Uniti. Tra il 1818 e il 1848 oltre un milione di tedeschi prende la strada dell'emigrazione, andando a costituire a Parigi, Londra, Bruxelles, New York vere e proprie colonie, il cui orientamento è in genere radicalmente socialista. Presso questi esuli, più ancora che presso gli operai tedeschi e francesi, le idee e le sollecitazioni politiche di Marx troveranno ascolto.

E' in questo sparuto drappello di persone di umile estrazione sociale che hanno acquisito una coscienza politica che Marx vede i precursori di una consapevolezza destinata coinvolgere tutti gli oppressi della terra.

La biografia di Marx

Più che per tutti gli altri Grandi Demistificatori, la vicenda personale e la storia di Marx sono state fortemente influenzate dall’ambiente e dallo spirito dei tempi in cui è vissuto.

Marx nasce nel 1818 a Treviri, città nella parte occidentale del Land tedesco della Renania-Palatinato, terra di frontiera fra mondo tedesco e francofono.

All'inizio del secolo, Treviri, già sede di un principato-arcivescovado, è occupata dai Francesi ed incorporata da Napoleone nella Confederazione del Reno. Sotto il regime francese gli ebrei, che precedentemente hanno subito gravi discriminazioni civili, raggiungono la parità giuridica con gli altri cittadini. Le porte del commercio e delle professioni, che sono state loro precluse fino a quel momento, vengono ora aperte. Gli ebrei della Renania, in quanto devono la loro emancipazione al regime napoleonico, lo sostengono con passione: ma quando, dopo la sconfitta di Napoleone la Renania è assegnata dal Congresso di Vienna alla Prussia, dove gli ebrei sono ancora privi dei diritti civili, essi si trovano di fronte ad una grave situazione di discriminazione.

La famiglia di Marx è ebrea. Sia il padre sia la madre discendono da famiglie di rabbini, quella di Heinrich dalla Renania e quella di Henrietta dall'Olanda .

Il padre di Marx, il primo della sua famiglia a ricevere una educazione laica, ha rotto con il mondo del ghetto ed è diventato un discepolo dell'Illuminismo, di Leibniz e di Voltaire, di Kant e di Lessing.

Nel 1817, dopo la costituzione della Confederazione germanica, cui la Prussia aderisce, temendo di perdere l'esercizio della propria attività legale, il padre di Marx decide di "convertirsi" formalmente alla Chiesa luterana di Prussia, moderatamente liberale. Professando un vago deismo e non avendo più alcun rapporto con la sinagoga, egli considera la conversione come un semplice espediente senza alcun particolare significato.

Nonostante la conversione, il padre fornisce al giovane Marx un'educazione liberale, introducendolo nel mondo della filosofia e della letteratura e facendogli conoscere le grandi figure dell'Illuminismo, oltre ai classici greci e tedeschi.

Il giovane Marx ha la fortuna di trovare, in aggiunta a quello del padre, un altro modello nel barone Ludwig von Westphalen, suo vicino di casa. Westphalen, anche se socialmente superiore, è felice di mantenere relazioni cordiali con il padre di Marx: sono entrambi, almeno formalmente, protestanti in una città largamente cattolica e condividono l'ammirazione per l'Illuminismo e per le idee liberali.

Westphalen, uomo di cultura non comune, parla diverse lingue, conosce Omero a memoria ed è estremamente versato nella filosofia antica e moderna e nella letteratura. Ben presto si manifesta in lui un interesse per il figlio del proprio vicino: lo incoraggia, gli dà libri in prestito e lo accompagna in lunghe passeggiate durante le quali gli parla di Shakespeare e di Cervantes ed anche delle nuove dottrine sociali, in particolare di quelle dei sansimoniani che, di recente, hanno creato a Parigi un significativo movimento. I legami tra i due diventano assai stretti e l'eminente funzionario del governo prussiano, di nobile nascita, si pone come il consigliere “spirituale” del futuro leader comunista.

La predilezione del barone nei confronti del giovane Marx è tale che quando a 18 anni questi si innamora della figlia ventiduenne Jenny, una ragazza la cui bellezza e la cui vivacità intellettuale la destinano ad un matrimonio prestigioso, egli non ostacola in alcun modo il rapporto. Sarebbe stato peraltro difficile ostacolarlo. Se Marx, infatti, ha un carattere passionale e determinato, Jenny sviluppa rapidamente nei suoi confronti un amore destinato a durare tutta la vita.

L’influenza del padre reale e di quello spirituale sono decisive per Marx. Dotato di un’intelligenza fuori del comune, di una viva sensibilità sociale e di una valenza oppositiva di grande intensità, l’educazione illuministica lo pone rapidamente in contrasto con l’ambiente sostanzialmente conservatore e retrivo della Prussia dell’epoca, caratterizzato da una soffocante tradizione religiosa (tal che, nel 1793 Goethe, visitando Treviri, scrive: “All’interno delle mura è ingombra o, per meglio dire, addirittura oppressa da chiese, cappelle, chiostri, collegi, case generalizie di ordini cavallereschi e di comunità monastiche, al di fuori è bloccata o, per meglio dire, assediata da abbazie, fondazioni religiose, certose.”)

Affascinato dalle grandi idee alla cui luce è stato educato, le quali hanno trovato una natura straordinariamente fertile, Marx ha la fortuna di frequentare un liceo ove vige, diversamente dal resto della Prussia, un clima pedagogico antiautoritario per merito di un preside illuminato, amico del padre di Marx. Marx frequenta la scuola con successo, dedicandosi soprattutto alla letteratura (che rimarrà per sempre una viva passione) ma senza legare con i compagni che giudica “sempliciotti di campagna”.

Qui si realizza un primo impatto con l'autorità repressiva. Accusato di eccessiva inclinazione alle nuove idee, il preside viene posto sotto la stretta sorveglianza di un vicepreside reazionario, in pratica esautorato. Marx scrive al padre: "Avrei voluto piangere sull'umiliazione di quest'uomo, il cui unico errore è una troppo grande bontà." Quando abbandona l'istituto, per rappresaglia, non fa la rituale visita di congedo all'odioso vicepreside. E' il primo segnale, questo, del suo odio contro l'autorità repressiva.

Nel saggio scolastico finale - intitolato Considerazioni di un giovane in occasione della scelta della professione - il diciassettenne Marx scrive: “non sempre possiamo abbracciare la professione per la quale ci sentiamo chiamati; la nostra posizione entro la società è in una certa misura già delimitata prima che siamo in grado di determinarla.” Egli di fatto aderisce alle aspettative del padre avvocato, che concluderà la sua carriera come giudice del Tribunale iscrivendosi alla facoltà di giurisprudenza di Bonn. L' ambiente, però, è piuttosto angusto per l’irrequieto spirito di Marx, che non per caso decide di trasferirsi a Berlino. Il certificato di congedo ufficiale rilasciato alla fine dell’anno segnala i risultati accademici conseguiti (“estrema assiduità e attenzione”), ma anche qualche comportamento “trasgressivo” (“pena di un giorno di carcere per schiamazzi notturni e ubriachezza”).

In realtà le “trasgressioni” sono molteplici: Marx si ubriaca quasi regolarmente in birreria, porta con sé una pistola per difendersi da una banda di giovani che vogliono costringere gli studenti a inginocchiarsi e a fare giuramento di fedeltà all’aristocrazia prussiana, accetta una sfida a duello con uno di loro cavandosela con una leggera ferita. Il padre è preoccupato, ma confida nell'intelligenza del figlio. sa peraltro che non ha un carattere affatto violento, ma temerariamente oppositivo nei confronti di ogni autoritarismo e di ogni prepotenza.

Tornato a casa per l'estate, Marx si fidanza con Jenny von Westphalen, che ha quattro anni più di lui. L'amore adolescenziale, contraccambiato, durerà per tutta la vita.

A Berlino, l’aria è diversa rispetto a Bonn. Aleggia ancora lo spirito di Hegel, scomparso nel 1831, la cui influenza ha dato luogo alla scissione tra hegeliani di destra (conservatori) e hegeliani di sinistra (progressisti). Benché Marx frequenti ancora giurisprudenza, egli è risucchiato dalla passione filosofica e dal pensiero di Hegel, che ha cercato di dare un significato spirituale dialetticamente progressivo alla storia e alla cultura umana. Egli ne legge le opere, con un orientamento critico, e finisce con l’aderire al movimento dei giovani hegeliani di sinistra, che ha un orientamento marcatamente antiteologico, laico e materialistico.

Il dato è tratto. Scoperta la sua prima vocazione e ottenuto il consenso paterno, Marx si iscrive a filosofia.

Il padre muore nel 1838. Marx ne serba un ricordo persistente al punto che porterà addosso fino alla fine la sua immagine.

Egli frequenta ben poco la facoltà, dominata dagli hegeliani di destra. Frequenta piuttosto il Doktorclub, ove si raccolgono i giovani hegeliani di sinistra. Legge, scrive e prepara la tesi di laurea (Differenza tra la filosofia della natura di Democrito e quella di Epicuro), il cui obiettivo di fondo radicale consiste nel dimostrare che la teologia dovrà cedere alla filosofia e all’autocoscienza:

“La filosofia, finché una goccia di sangue pulserà nel suo cuore assolutamente libero, dominatore del mondo, griderà sempre ai suoi avversari, insieme a Epicuro: «Empio non è chi nega gli dei del volgo, ma chi le opinioni del volgo applica agli dei". La filosofia non fa mistero di ciò. La dichiarazione di Prometeo - «detto francamente, io odio tutti gli dei» - è la sua propria dichiarazione, la sua propria sentenza contro tutti gli dei celesti e terreni che non riconoscono come divinità suprema l'autocoscienza umana. Nessuno deve stare a fianco di questa.”

L’odio degli dei celesti e terreni già implica il misconoscimento di qualunque autorità oppressiva che impedisce agli esseri umani di procedere sulla via dell’autoconsapevolezza e del libero uso della propria volontà, e di assumere il controllo sul proprio destino.

Su questa base, che attesta una concezione passionalmente, elevata della libertà e della dignità umana, non c’è da sorprendersi se, dopo la laurea, Marx, la cui carriera universitaria è preclusa per via del suo orientamento ideologico e del suo essere ebreo, si dedica al giornalismo difendendo a spada tratta i principi del liberalismo democratico, la cui matrice è illuministica. Nel corso di questa pratica, egli si imbatte, come vedremo, nei problemi economici, e scopre la sua seconda vocazione, che non è però l'economia, ma la giustizia sociale, vale a dire la politica.

Questa scoperta, che identifica nella miseria delle classi subordinate un’inaccettabile violazione dei diritti umani, lo trasforma in pochi anni nel filosofo più apertamente e radicalmente avverso al vecchio ordine autoritaristico e al nuovo ordine borghese.

E’ del tutto evidente il carattere congiunturale dell’esperienza di Marx, il cui senso di giustizia, pur provenendo egli da un’agiata famiglia alto-borghese, lo destina, via via che prende coscienza dello stato di cose esistente nel mondo, ad assumere il ruolo di rivoluzionario militante.

L'avvio della carriera di rivoluzionario comincia sul piano intellettuale, con gli articoli pubblicati sulla Gazzetta renana, che viene poi chiusa d'autorità.

Nel 1843 sposa Jenny von Westphalen e si trasferisce a Parigi, ove spera di trovare un'aria nuova. I suoi articoli, però, pubblicati sulla rivista Annali franco-tedeschi, aspramente critici nei confronti dell'influenza che la religione ha sullo Stato prussiano, provocano una viva protesta da parte del governo prussiano, la cui conseguenza è la chiusura della rivista e l'interdizione di rientrare nella sua terra di origine.

Marx si dedica a studi approfonditi di diritto e di economia, scrive, sull'onda di queste letture, i Manoscritti economico filosofici, conosce F. Engels, col quale stabilirà una collaborazione intensa fondata sull'affinità intellettuale e sull'amicizia, si avvicina e frequenta gli ambienti della sinistra radicale, entra nella Lega dei giusti, che porta avanti un progetto di comunismo umanitaristico. Viene espulso per ciò dalla Francia e trova rifugio in Belgio.

Qui scrive La sacra famiglia, nella quale polemizza con filosofi tedeschi, L'ideologia tedesca, nella quale espone per la prima volta la sua concezione materialistica della storia e le Tesi su Feuerbach, che sanciscono la definitiva presa di distanza da un pensatore che ha intensamente ammirato.

Nel 1847, la Lega dei comunisti, che ha sostituito la Lega dei giusti, gli affida il compito di redigere il documento programmatico. In quattro giorni Marx compila il Manifesto del partito comunista. In seguito alla pubblicazione e alla fiammata rivoluzionaria del '48, viene espulso dal Belgio e si reca di nuovo a Parigi, ove assiste ai moti popolari.

Torna in Germania, ove pensa che il clima sia divenuto meno repressivo, e fonda la Nuova gazzetta renana. Attacca frontalmente l'Imperatore, che non intende riconoscere la sovranità dell'Assemblea parlamentare e viene di nuovo espulso.

Torna a Parigi per ricongiungersi con la moglie, ma, sotto il regime di Luigi Napoleone Bonaparte, che ha ottenuto uno schiacciante vittoria elettorale, seguita dalla durissima repressione di tutti i rivoltosi, viene sottoposto ad un assiduo controllo della Polizia.

Decide di trasferirsi in Inghilterra con la famiglia, ove si avvia un lungo periodo di miseria appena sopperito dalle elargizioni di Federico Engels e dai proventi di collaboratore fisso della “New York Daily Tribune", giornale americano di orientamento liberale.

Nonostante le difficoltà economiche, che causano la morte di tre figli, Marx si dedica anima e corpo allo studio, avendo progettato la stesura della sua opera maggiore - Il Capitale - e all'attività militante. Il lavoro procede a rilento, perché Marx ha la pretesa di approfondire minuziosamente tutti gli argomenti che affronta. In previsione della crisi del 1857, egli si affanna a compilare i Lineamenti di critica dell'economia politica, che dovrebbero integrare il Manifesto dando ai partiti operai una solida base teorica. In questi egli espone compiutamente la sua analisi economica e sociologica del capitalismo.

La crisi del 1857 sopravviene, ma non dà luogo all'auspicata rivoluzione. Il capitalismo, anzi, si rilancia e imbocca la via di un lungo ciclo di espansione, che coinvolge tutta l'Europa in un processo di industrializzazione e tappe forzate. Lo sradicamento dei contadini dalle terre e la loro trasformazione in "liberi" lavoratori costretti a scambiare la loro vita con un misero salario, incrementa le speranze di Marx di una rivoluzione "proletaria".

Nel 1860, egli avvia la stesura de Il Capitale. l'opera che, nel suo intento, è destinata a far risuonare la campana a morte sul sistema capitalistico e che, nel progetto originario, si conclude con l'analisi della mondializzazione del sistema. Tenuto sistematicamente sotto controllo dai servizi segreti di tutta Europa, è ormai un punto di riferimento per i partiti operai.

Nel 1865, in occasione della fondazione dell'Associazione internazionale dei lavoratori, gli viene affidato l'incarico di redigere il programma. Anche se l'attività pratica dell'Associazione (denominata poi Prima Internazionale) non conseguirà risultati rilevanti, se non quello di accrescere la consapevolezza degli operai sui propri diritti, essa, nonostante violenti contrasti interni (tra Marx, Proudhon, Lassalle, Bakunin, ecc.), giunge ad essere temuta da tutti i governi europei.

Nel 1867 Marx pubblica il primo libro de Il capitale, che non ha alcun successo neppure presso coloro per cui è stato scritto - i proletari - data la sua struttura estremamente complessa.

Quando si pone e capo della Prima Internazionale, Marx, però, ha già capito che il sogno di una rivoluzione proletaria nell'immediato è irrealizzabile, che la borghesia ha trionfato e che la prospettiva di un superamento del capitalismo si pone nei tempi lunghi.

La Comune parigina del '70, che fa esplicitamente riferimento al suo pensiero, lo fa vibrare di commozione, ma egli ne prevede la tragica conclusione, che lo getta in uno sconforto sotteso dall'indignazione per la giustizia sommaria realizzata dall forze dell'ordine.

La tragica esperienza della Comune orienta i partiti socialisti confluiti nella Prima Internazionale a prendere le distanze da Marx e dal suo progetto comunista. La resa dei conti avviene nel 1875 allorché, nel corso del Congresso di Gotha nasce praticamente la Socialdemocrazia, che rilancia le istanze di giustizia sociale della classe operaia entro, però, un quadro politico che accetta la democrazia, il parlamentarismo e il mercato. La nota critica che Marx redige in occasione di tale Congresso contrassegna una definitiva scissione tra Socialisti e Comunisti.

Il nodo della scissione non è da ricondurre alla metodologia politica: all'epoca Marx ha già rinunciato alla rivoluzione violenta e accettato la necessità di conseguire il potere attraverso la via parlamentare. Il nodo è l'obiettivo ultimo della lotta politica a favore degli oppressi: secondo la Socialdemocrazia tale obiettivo è il miglioramento di vita della classe operaia entro la cornice del sistema capitalistico; per Marx, esso rimane il superamento del sistema stesso.

Su questo, egli non cederà fino alla fine, avvenuta nel 1883, quando ancora sta lavorando sul secondo e sul terzo libro de Il capitale, che saranno completati da Engels sulla base dei suoi appunti.

La vita di Marx è uno degli esempi maggiori del rivoluzionario disposto a pagare qualsiasi prezzo per i suoi ideali.

Egli vive per lunghi periodi nella miseria più nera, e impone alla moglie e ai figli inenarrabili sacrifici.

Sogna a lungo una rivoluzione europea, che liberi la classe operaia dall'oppressione e ponga termine alla colonizzazione del mondo. Dopo il 1870 egli è del tutto consapevole del trionfo del Capitalismo sul movimento socialista che si sta distaccando, almeno in parte, dai suoi insegnamenti e si orienta nella direzione del riformismo socialdemocratico.

Preso atto che la stagione rivoluzionaria è irreversibilmente tramontata, egli riconosce realisticamente la necessità di accettare le regole della democrazia parlamentare per giungere a conseguire una maggioranza che avvii la transizione verso il mondo della libertà e della giustizia. Ciò che non accetterà mai è che qualcuno possa mettere in dubbio l'obiettivo ultimo di un superamento del sistema capitalistico.

Marx non può prevedere l’avvento di una Rivoluzione, quella bolscevica, che trascinerà il suo nome nell’abominio, né la rinascita del suo pensiero nella cornice del marxismo occidentale degli anni ‘70 del secolo scorso, che influenzerà in maniera potente la cultura, e declinerà solo in seguito alla caduta del muro di Berlino.

Quando muore, di fatto, Marx è uno sconfitto, e, nonostante la relativa agiatezza in cui vive gli ultimi anni grazie al generoso vitalizio concessogli dall’amico F. Engels, la sconfitta convive ancora con un orgoglio intellettuale smisurato. Egli sa d'avere fatto il suo dovere di rivoluzionario.

Sarebbe ridicolo negare il dogmatismo con cui Marx difende le sue idee nel corso di tutta la vita, come pure la sua intolleranza sprezzante nei confronti di tutti coloro - borghesi e socialisti - che si oppongono a lui. Se si accentua questo aspetto, stabilire un nesso di continuità tra Marx e le esperienze comuniste che si sono realizzate successivamente, tutte all'insegna della dittatura, sembra legittimo. Marx è di sicuro un utopista, ma, nel corso della sua vita, ha dimostrato anche un grande realismo e una notevole flessibilità politica. Egli ha difeso a spada tratta solo l'obiettivo ultimo del socialismo: la fuoriuscita dal sistema capitalistico. Per sciogliere quel nesso, che grava come un macigno su Marx, occorre approfondire e contestualizzare la sua complessa personalità.

E' superfluo dire che egli, naturalmente, avrebbe contestato animosamente questo approccio soggettivistico. Fin dalla sua tesi di laurea, infatti, sostiene che ogni filosofo «non fa che oggettivare a se stesso il modo in cui la sua particolare coscienza si rapporta al mondo reale». Ma è proprio quest'ultimo, il mondo reale, quel che deve importare, non la tale o talaltra coscienza particolare. Anzi, le intenzioni soggettive di questo o quel filosofo, le idee che la sua «coscienza loquace, essoterica, fenomenologica» si fa intorno alla propria opera, sono del tutto inattendibili. «Così come dalla morte di un eroe si può dedurre la storia della sua vita», così anche il «corso della vita di una filosofia ridotto all'essenziale», ovvero il suo carattere «storico-universale» , si misura solamente dai suoi effetti concreti, dalla sua capacità di incidere sulla trasformazione pratica del mondo.

Alla luce delle scienze umane e sociali contemporanee, la distinzione tra la soggettività di un autore e i contenuti oggettivi della sua opera appare molto più complessa.

La personalità di Marx

E' oltremodo difficile tratteggiare la personalità di Marx. Tranne che un'autobiografia, il materiale non manca: lettere del padre e della madre, ricordi delle sorelle, testimonianze degli amici, dei nemici, degli amici divenuti nemici, degli agenti dei servizi segreti, di giornalisti, della moglie, delle figlie, dei generi. Il problema è che si tratta di un materiale a tal punto eterogeneo che talora si è indotti a pensare che non faccia riferimento alla stessa persona.

Basta fare un esempio. Nel 1850 un agente segreto prussiano, infiltratosi nel quartier generale dei comunisti a Londra, ove Marx si è rifugiato da poco, invia questo rapporto:

"L'assassinio di regnanti è formalmente insegnato e discusso. In una riu­nione presieduta da Wolff e Marx, tenutasi l'altro ieri e alla quale assistetti, sentii uno degli oratori dire ad alta voce: «Anche Moon Calf [la regina Vitto­ria] non sfuggirà al suo destino. L'acciaio inglese è il migliore, qui le lame sono particolarmente affilate, e la ghigliottina aspetta tutte le teste coronate». Così l'assassinio della regina d'Inghilterra è gridato ai quattro venti dai tedeschi a poche centinaia di metri da Buckingham Palace ... Prima della fine della riunione Marx disse ai partecipanti che potevano stare assolutamente tranquilli, i loro uomini erano tutti al proprio posto. Aggiunse poi che il momento culminante si avvicinava e che erano state prese misure infallibili in modo tale che nessuno dei boia europei con la testa coronata potesse sfuggire."

Nel 1879, la principessa Vittoria, figlia della regina inglese, incarica un parlamentare liberale inglese di fornirle informazioni dettagliate su Marx. Dopo un lungo incontro, il parlamentare scrive: "Il suo sguardo ha un che di severo, ma l'intera espressione del volto è piuttosto affabile, ben diversa da quella dell'uomo avvezzo a divorare i neonati nella culla, come pensa di lui - è ben il caso di dirlo - la polizia.

La sua conversazione è quella di un uomo colto, anzi coltissimo (si interessa molto alla grammatica comparata, cosa che l'ha indotto a studiare lo slavo antico e altre discipline insolite); essa si è sviluppata secondo strane e complicate associazioni, resa di tanto in tanto più piccante da un asciutto umorismo…

Nel corso della conversazione Marx parlò più volte di Vostra Altezza Imperiale e del principe ereditario, sempre con il rispetto e il decoro che si conviene. Ma anche quando il discorso cadde su eminenti personaggi dei quali egli non parlava affatto con rispetto, nelle sue parole non c'era traccia d'ira o di violenza; la sua critica era molto profonda e sferzante, ma senza toni alla Marat.

Sulle cose orribili che vengono attribuite all'Internazionale, Marx si espresse come avrebbe fatto ogni uomo per bene. ...

Insomma, la mia impressione, considerando il fatto che Marx ha idee del tutto opposte alle mie, non è stata affatto sfavorevole; anzi, lo rivedrei volentieri. Non sarà lui - che lo voglia o no - a mettere il mondo a soqquadro."

L'eterogeneità delle testimonianze, che spaziano dalla demonizzazione alla beatificazione, sono senz'altro riconducibili ai diversi punti di vista dei testimoni. L'agente segreto agisce in nome del fratellastro della moglie di Marx, che lo ha sempre odiato e all'epoca è ministro degli interni prussiano. Non essendo riuscito a impedire il matrimonio, egli farà di tutto per rovinare Marx, che ritiene un buono a nulla irresponsabile, esaltato e pericoloso, e riportare all'ovile la sorellastra. L'intento urterà sempre contro l'amore totale che essa manifesterà fino alla fine nei confronti di un uomo di cui condivide le idee e il destino.

Anche considerando i diversi punti di vista, è fuori di dubbio che essi pongono di fronte ad un dato reale: Marx ha una personalità complessa e contraddittoria, che manifesta talora tratti di straordinaria umanità, empatia, generosità, altruismo e, talaltra, di estrema durezza, scarsa sensibilità, intolleranza e cinismo. E' il padre che ha colto per primo questa contraddizione rilevando che il figlio, la cui natura è ardente e lirica, può apparire in alcuni momenti duro e distaccato.

Nessuno ha mai rilevato il carattere marcatamente introverso e oppositivo di Marx. E' il momento di farlo.

La passionalità è di sicuro il dato di fondo della sua personalità. Essa, però, non ha nulla a che vedere con il soggettivismo romantico.

Educato dal padre e dal barone von Westphalen ai principi dell'Illuminismo, in un componimento scritto nel 1835, all’epoca del Liceo, Marx scrive: «… la guida principale che ci deve soccorrere nella scelta di una professione è il bene dell'umanità, la nostra propria perfezione. Non si creda che i due interessi possano contrapporsi ostilmente l'uno all'altro». E perché no? Perché la natura umana è fatta in modo tale che gli individui raggiungano il massimo della perfezione quando si dedicano agli altri. Chi lavora solo per sé «potrà bensì diventare un dotto celebre, un grande sapiente, un eccellente poeta, giammai però un uomo compiuto e veramente grande. La storia rende onore solo a chi si è nobilitato arricchendo la propria tribù.”

In queste affermazioni, scritte a 17 anni, c'è l'intuizione che l'affermazione dell'individuo è piena solo quando essa comporta, oltre all'oggettivazione delle proprie potenzialità, un valore sociale aggiunto per la comunità. A questa intuizione, Marx è rimasto rigorosamente fedele. Ma è proprio essa, potenziata dall'educazione paterna, a determinare il primo indurimento.

La professione che egli, costretto dalle circostanze, dovrebbe scegliere, per soddisfare le aspettative del padre, è quella dell'avvocato. Ci prova, ma capisce rapidamente che non è la sua strada. Lo comunica al padre, la cui prima risposta non è solo avversa alla scelta di filosofia, ma contesta globalmente il suo stile di vita: "Ahimè! Disordine, cupo vagare in tutti i campi del sapere, cupo rimugi­nare presso la tetra lampada a olio; inselvatichimento nella veste da camera da studioso e con capelli scarmigliati, al posto dell'inselvatichimento da­vanti al bicchiere di birra; insocievolezza costante, con l'abbandono di ogni decoro... E qui, in questa fucina di erudizione insensata e senza scopo, do­vrebbero maturare i frutti che confortino te e i tuoi cari, qui dovrebbe essere accumulato il raccolto che possa servire a adempiere sacri doveri?"

Nonostante in una successiva lettera, prima di morire, il padre cambia parere ed esprime la sua fiducia e l'affetto nei confronti del figlio, la dura reprimenda ha conseguito l'effetto di ferirlo e di indurirlo. Egli non partecipa ai suoi funerali, anche se ne porterà sul petto il dagherrotipo fino alla fine dei suoi giorni.

A questo livello, l'insensibilità di Marx è evidentemente funzionale ad affermare un bisogno di individuazione spiccato. Tale bisogno riposa su di un senso di libertà e di dignità tale da postulare l'inibizione dei doveri di appartenenza. Si direbbe che, al limite, esso inibisce anche l'istinto di conservazione. Poco dopo i diciotto anni, egli che è miope e ben poco esperto nell'uso delle armi, accetta senza pensarci troppo un duello con un giovane di una formazione paramilitare di destra, perfettamente addestrato. Se la cava, per fortuna, con una lieve ferita alla fronte.

I valori della dignità e della libertà non sono però vissuti da Marx solo in riferimento a sé, bensì a tutta l'umanità.

Per ciò, nel giro di pochi anni, egli, pur confermando la sua vocazione intellettuale, sceglie un'altra professione ancora più distante dalla tradizione familiare, quella del rivoluzionario e su due diversi fronti: il primo è quello del potere tradizionale, poliziesco e clericale, che vige nella sua patria (oltre che in Austria e in Russia); il secondo è quello della nascente borghesia che In Inghilterra e in Francia, si avvia verso il trionfo al prezzo di lacrime e sangue per i contadini e gli operai.

La valenza oppositiva e tendenzialmente ribelle di Marx permette di comprendere la sua avversione nei confronti di ogni forma di autoritarismo, vale a dire la sua adesione ai principi liberal-democratici.

Schierandosi precocemente tra i giovani hegeliani di sinistra, Marx opera una scelta che avrebbe potuto soddisfare quella valenza per tutta la vita. Se fosse rimasto allineato, sull'onda degli insegnamenti paterni e del barone von Westphalen, dalla parte dei liberali democratici che, all'epoca, erano invisi al potere costituito, egli, pur rinunciando alla carriera universitaria, avrebbe conseguito di sicuro un grande successo come uomo politico illuminato e avrebbe avuto motivi molteplici di soddisfare la sua passionalità e la sua inclinazione al conflitto .

Il problema è che Marx non solo ha un'onestà intellettuale e uno spessore morale fuori del comune, ma ha una capacità empatica che lo porta naturalmente ad identificarsi con i deboli e gli oppressi e ad assumere, nei loro confronti, il ruolo del paladino. Non appena - lo vedremo tra poco -, come corrispondente della Gazzetta renana, si trova a contatto con i "giochi" politici della Dieta renana, la verità che salta ai suoi occhi è che essi ammantano di nobili principi gli interessi di chi ha di più e inesorabilmente ledono quelli di chi ha di meno. Questa scoperta ha su Marx più o meno l'effetto della caduta di Saulo da cavallo, con la differenza che egli apre gli occhi sulla realtà del mondo nascosta sotto le razionali apparenze del diritto.

Da questo momento, la sua scelta di campo è definitiva: egli, che pure è nato da una famiglia alto-borghese, sta dalla parte dei deboli e degli oppressi. Il ribellismo giovanile si canalizza nella direzione della critica sociale e della lotta politica. Il momento critico-teorico, che richiede una grande disciplina intellettuale, è per Marx assolutamente fondamentale.

In una lettera ad Arnold Ruge del settembre de 1843 egli scrive: "Quanto più gli eventi lasceranno all'umanità pensante il tempo di riflettere e a quella sofferente di raccogliersi, tanto più compiutamente verrà alla luce il prodotto che il presente porta nel suo grembo", il mondo nuovo fatto a misura d'uomo.

La disciplina intellettuale Marx la impone anzitutto a se stesso, potendo avvalersi di una genialità con pochi confronti. Nel 1842, Moses Hess, un giovane socialista di famiglia abbiente, che poi passerà nella schiera dei nemici, lo presenta in questi termini ad un amico: "La comparsa di questa persona ha avuto su di me, che pure mi muovo nello stesso campo di interessi, un effetto straordinario. Abituati pure all'idea di fare la conoscenza con il massimo, forse l'unico filosofo nel vero senso della parola oggi vivente; fra poco - comunque scelga di presentarsi al pubblico, con gli scritti o dalla cattedra poco importa - egli attirerà su di sé gli occhi di tutta la Germania . ... Il dottor Marx, così si chiama il mio idolo, è giovanissimo (avrà al massimo ventiquattr'anni), ma darà il colpo di grazia alla religione e alla politica medievali. Egli unisce alla più profonda serietà filosofica l'arguzia più tagliente, immagina Rousseau, Voltaire, Holbach, Lessing, Heine e Hegel uniti in una persona (e dico uniti, non messi insieme alla rinfusa), e avrai Karl Marx."

Oltre alla genialità intellettuale, Marx, come si è accennato, ha un vivo senso della giustizia sicchè, quando, con la testimonianza e l'aiuto di Engels, prende atto della miseria dei lavoratori, e ha modo, frequentando i circoli operai socialisti, di apprezzare la profonda dignità e la vivacità teorica, spontanea, dei diseredati, il suo destino è segnato. Nulla, ai suoi occhi, potrà mai giustificare la miseria, la degradazione e l’abiezione in cui vive la stragrande maggioranza delle persone. L’adesione al comunismo radicalizza ed estende all’umanità tutta il diritto, vissuto da Marx come primario, di una vita che abbia senso: senso per l’individuo in quanto tale e per l’individuo in quanto ente sociale.

La miseria in cui vive l’umanità, e l’intuizione di una incoercibile aspirazione alla felicità propria della natura umana, resa evidente dal mondo prodotto dall’uomo, il mondo dei beni di ogni genere - materiale e culturale - è l’ossessione destinata a perseguitare Marx vita natural durante e a spiegare il suo radicalismo. Si tratta del radicalismo di un "sognatore", il quale, dotato di una straordinaria intelligenza, ritiene che il suo "sogno" di un mondo fatto a misura d'uomo sia latente nella storia dell'umanità e che esistano ormai le condizioni per realizzarlo.

Tali condizioni le hanno prodotte l'industrializzazione e la classe borghese, la cui intraprendenza, il cui spirito di sacrificio, la cui incoercibile tendenza a superare ogni limite egli apprezza profondamente. Il problema, dal suo punto di vista, è che la rivoluzione industriale, che pone le premesse per un nuovo mondo, è avvenuta sulla pelle degli operai, e questo per Marx è inaccettabile.

Nonostante nelle opere sia costante il riferimento al fatto che i comportamenti umani sono determinati più dalle circostanze oggettive che dalla coscienza, e che dunque anche i capitalisti sono vittime (privilegiate) dell’ingranaggio che essi hanno messo in movimento, quella miseria attiva in Marx, dall'inizio della sua adesione al comunismo sino alla fine dei suoi giorni, un’indignazione e una rabbia biblica, spietata.

Nel corso del suo funerale, uno degli amici che lo ha frequentato lungamente - Liebknecht - coglie appieno il senso di quest’orientamento passionale riconducendolo ad un amore infinito per l'uomo, per ciò che l'uomo potrebbe essere, che genera odio nei confronti dello stato di cose esistente, del potere che lo mantiene e della classe dominante che ad esso affida la tutela dei suoi privilegi.

A differenza di molti intellettuali umanitaristici, per i quali l’umanità è un’astrazione, per Marx esistono solo gli individui reali, in carne e ossa. Accettare che essi, in gran parte, vivano in condizioni degradanti, significa per Marx comportarsi da “bue”. La necessità e l’urgenza del cambiamento impongono di mettere da parte ogni remora morale o, meglio, di privilegiare i diritti e gli interessi dell’umanità tutta rispetto ai diritti e agli interessi di una classe particolare, minoritaria.

Il senso di giustizia di Marx è esasperato dal confronto con una civiltà che si sta delineando - quella borghese - che, per quanto concerne l'oppressione dell'uomo, è più insidiosa di tutte quelle che l'hanno preceduta. Essa, infatti, promuove l'oppressione in nome della libertà. Sul piano del mercato, gli individui liberi contrattano lo scambio. Nessuno è obbligato ad accettare le condizioni poste dall'altro. Nel momento in cui, però, lo scambio riguarda la forza-lavoro - l'unico bene che alcuni soggetti posseggono - ed essa viene equiparata ad una merce, si realizza il paradosso per cui essi devono accettare liberamente le catene dello sfruttamento.

Che questo aspetto strutturale, intrinseco alla civiltà borghese, venga vissuto e ideologizzato dalla classe dominante come una legge oggettiva o naturale, spiega la durezza con cui Marx si confronta con essa, facendo risuonare sul suo capo la campana a morte.

La spietatezza di Marx, insomma, è la risposta ad un sistema socio-economico che si avvia e fiorisce sulla base di una pressoché totale indifferenza ai bisogni dei lavoratori. Implacabile, la denuncia di Marx della condizione operaia non è però vana. Nel 1876, di fronte alla pressione dei partiti che si battono per i diritti degli operai, pur divisi tra socialisti e comunisti, Bismarck è costretto a varare le prime leggi a tutela delle classi lavoratrici. E' lo stesso politico che, per anni, dopo avere tentato vanamente di incontrare Marx, ha manovrato attraverso i servizi segreti, proseguendo la strategia del fratellastro della moglie, per farlo passare in Inghilterra come un delinquente comune e indurne l'arresto attribuendogli il folle progetto di un regicidio.

Nonostante il suo spessore politico, Bismarck incarna in maniera non ambivalente il cinismo della Realpolitik, per cui il fine - vale a dire la difesa di un determinato ordine sociale - giustifica i mezzi. Il cinismo di Marx è di segno opposto: esso è funzionale ad abbattere quell'ordine in quanto iniquo.

Spietato a parole con la borghesia, Marx, però, non lo è di meno con i socialisti o anche con i comunisti che, ritenendo impossibile una rivoluzione e puntando sul riformismo, diventano ai suoi occhi, sia pure non sempre consapevolmente, dei traditori. Sterminato è l'elenco di coloro con cui Marx, dopo un qualche sodalizio, per scritto o di persona, litiga e polemizza aspramente, giungendo a condanne inappellabili, quasi sempre associate ad un perdurante disprezzo: Bruno Bauer, Arnold Ruge, Moses Hess, Pierre Joseph Proudhon, Ferdinad Lassalle, ecc.

Marx è un polemista al vetriolo: gli avversari li demolisce sia sul piano teorico che su quello personale. Le poche righe della premessa alla Miseria della filosofia (Editori Riuniti, Roma, 1993), redatta come risposta alla Filosofia della miseria di Proudhon danno la misura della vis polemica di Marx: “Il signor Proudhon ha la sventura di essere misconosciuto in Europa in un modo singolare. In Francia egli ha il diritto di essere un cattivo economista perché passa per un buon filosofo tedesco. In Germania ha il diritto di essere un cattivo filosofo, perché passa per uno dei migliori economisti francesi. Noi, nella nostra duplice qualità di tedeschi e di economisti, abbiamo voluto protestare contro questo duplice errore”. Dal saggio, Proudhon viene fuori, ovviamente, come un cattivo filosofo e un cattivo economista. La replica di Proudhon non è da meno: "Marx è la tenia del socialismo."

Solo di fronte alla morte degli amici-avversari, Marx sembra ammorbidirsi. Quando muore F. Lassalle, che nel suo intimo egli ha prima apprezzato per il suo giovanile entusiasmo e poi disprezzato per la sua ambizione e la pochezza intellettuale, scrive: "Egli era pur sempre uno della vecchia souche e nemico dei nostri nemici. […] Riesce difficile credere che un uomo così rumoroso, stirring, pushing sia adesso un freddo cadavere e debba tacere per sempre. Sa il diavolo, la schiera si assottiglia di continuo, di nuovi non se ne vedono." Ma aggiunge, con una terribile ironia:"[La sua morte] non è che una delle molte mancanze di tatto commesse da lui in vita."

La “durezza” e il "cinismo" di Marx va dunque riferita ad un contesto storico per alcuni aspetti terribilmente disumano: essa investe tutti coloro che esplicitamente o, almeno ai suoi occhi, implicitamente ostacolano un cambiamento radicale che egli ritiene necessario.

Alcuni critici di Marx hanno enfatizzato questi tratti caratteriali sottolineando che, al di là del piano politico, che, in una certa misura, consente di comprenderne il significato tattico, essi si riscontrano anche nella vita privata.

Per quanto riguarda il padre, l'essenziale è stato detto.

Il rapporto con la madre è più complesso. Si tratta di una donna perbenista, di scarsa cultura, che, a differenza del marito, non capirà mai le scelte di vita dell'erede maschio, e coinvolgerà le figlie nella vergogna per il "disonore" da esse arrecato ad una rispettabile famiglia di professionisti.

Il rapporto si raffredda dopo la morte del padre allorché essa, pur riconoscendo il suo diritto, non gli versa la sua parte di eredità dovendo provvedere agli altri membri della famiglia. La reazione sicuramente eccessiva di Marx, a questa epoca, rivela l'abitudine, già stigmatizzata dal padre, a spendere senza alcuna preoccupazione per il futuro. Ancora peggiore è la reazione che sopravviene allorché, venuto a sapere della morte della madre, egli corre a prendere i soldi della "vecchia" senza manifestare alcuna commozione. Del resto, qualche mese prima, in risposta alla notizia fornitagli da Engels sulla morte della sua compagna, egli ha scritto: "Non avrebbe potuto, in luogo della Mary, morire mia madre che è ormai piena di acciacchi e che ha vissuto quanto doveva?" La frase terribile è commentata in questo modo: "Vedi a quali stravaganti fantasie giungono "gli uomini civilizzati" sotto la pressione di certe circostanza?"

Il cinismo, in questo caso, è dovuto ad una prolungata e logorante precarietà economica, che ha messo a dura prova la moglie e le figlie.

Per quanto criticabile, esso va ricondotto al fatto che Marx, emotivamente e teoricamente, non sacralizza i rapporti di sangue, privilegia anzi quelli acquisiti, soprattutto quando essi si fondano su di una profonda affinità. Egli non teme di mettere da parte o di violare i doveri dovuti alla consanguineità perché è capace di amare profondamente.

Egli conosce la futura moglie - Jenny von Westphalen - quando ha appena diciott’anni. Il legame che si instaura tra di loro è destinato a durare tutta la vita. E’ un legame sentimentale, culturale e ideologico. Benché di nobili natali, la moglie ha una spiccata sensibilità per i problemi sociali e, pur non avendo alcuna predisposizione per gli studi teorici, condividerà sempre le idee del marito, accettando, senza mai lamentarsi, una scelta di vita pagata a caro prezzo. Essa ne diventa, con Engels, la collaboratrice più assidua. A lei Marx sottopone i suoi testi, per avere un giudizio critico, ed è lei che li trascrive in bella copia riuscendo a decifrare una scrittura criptica. Nonostante l’amore, a Marx è stato imputato un comportamento poco attento nei confronti della moglie Jenny, che è pressoché di continuo incinta, e, tra gravidanze, allattamenti e gestione domestica, spesso, pur senza protestare, versa in uno stato di prostrazione completa.

Le bocche da sfamare sono l’incubo costante di Marx, e non sorprende che, in un momento di particolari difficoltà, egli abbia scritto in una lettera ad Engels del 1854: “Beatus ille che non ha famiglia”. Questa confessione induce a pensare che il numero dei figli (7, di cui uno morto alla nascita) corrisponda più al desiderio della moglie che non al suo. In una lettera scritta all'epoca del fidanzamento, quando il matrimonio era ancora lontano, Jenny scrive: "Mio unico amore, […] l'amore della fanciulla è diverso da quello dell'uomo […]. La fanciulla in effetti non può dare all'uomo nient'altro se non amore e se stessa, la sua persona così com'è, totalmente indivisa e per sempre."

Nonostante il continuo impegno intellettuale e politico, Marx ha un senso profondo degli affetti familiari ed è un padre estremamente tenero (sarà tale anche da nonno).

Dopo la morte del figlio Edgar, di sicuro il suo prediletto, egli scrive ad Engels: «Ho già sopportato ogni sorta di guai, ma solo ora so che cosa sia una vera sventura. Mi sento broken down [a pezzi]». Tre mesi dopo, scrive a Lassalle: «Bacone dice che gli uomini veramente notevoli hanno tante relazioni con la natura e il mondo, tanti oggetti d'interesse da poter superare facilmente il dolore di ogni perdita. Io non appartengo alla categoria di questi uomini. La morte di mio figlio mi ha profondamente sconvolto il cuore e il cervello, e io sento la perdita così vivamente come il primo giorno. La mia povera moglie è pure completamente broken down»

Ancora anni dopo, capitando nei paraggi del quartiere ove il bambino è morto, appunta: «So ben io quale orrore m'assale quando, per caso, capito nei paraggi di Soho Square».

Egli, di fatto, non si perdonerà mai gli stenti cui ha sottoposto la famiglia per diversi anni, e che hanno causato la morte di altri due figli.

Il rapporto con le tre figlie viventi, peraltro, è ottimale. Nonostante l’impegno intellettuale quotidiano, Marx ci gioca spesso, racconta loro interminabili favole a puntate di sua invenzione e, non appena sono grandicelle, le introduce al mondo della letteratura, rendendole partecipi della sua visione del mondo, libertaria, laica e appassionata. Quando dispone di un po' di denaro, egli non esita a dilapidarlo per ripagarle dei sacrifici del passato e assicurare loro uno sviluppo integrale della personalità.

Ciò nondimeno, via via che le figlie crescono, Marx non manca di interferire ripetutamente nella loro vita affettiva con atteggiamenti talora morbosamente gelosi, talaltra sorprendentemente conservatori. I giovani che si avvicinano alle figlie sono sottoposti ad un esame rigoroso: non solo devono essere ideologicamente progressisti, ma devono avere intenzioni serie e una posizione tale da assicurare ad esse un avvenire sereno.

Il conservatorismo di Marx, come marito e come padre, è di ordine emozionale più che ideologico. Nel suo profondo, il conservatorismo convive con una sorprendente timidezza rilevata da Wilhelm Liebknect, il quale scrive: "Nelle discussioni politiche ed economiche non si peritava di esprimersi nel modo più rude, se non addirittura cinico, davanti ai bambini e alle donne si esprimeva con una delicatezza da fare invidia ad una governante inglese. Quando il colloquio scivolava verso un argomento scabroso, egli cominciava a dar segni di nervosismo, si dimenava a disagio sulla sedia e poteva arrossire come una fanciulla sedicenne."

Ideologicamente, invece, Marx ha una grande apertura. Egli litiga con Arnold Ruge allorchè questi critica il comportamento immorale di un comune amico, accusandolo di essere un filisteo. L'apertura culturale non arriverà mai peraltro alla condivisione del progetto di alcuni socialisti di comunanza delle donne. Marx contesta l'ipocrita "ultra-morale" borghese che, quando non riconduce la famiglia ad un calcolo di interesse, considera la donna come uno strumento di produzione, e sfrutta il proletariato anche sotto forma di prostituzione. Egli ritiene, però, che la famiglia, laddove si fondi su sulla comunanza degli affetti e degli interessi, sia un'istituzione preziosa.

Le figlie - Jennychen, Laura ed Eleanor -, hanno nutrito per il padre un affetto e una stima smisurate. Non è un caso che esse si sono tutte impegnate a livello di militanza politica.

Si è molto speculato sul fatto che due di esse sono morte suicide anni dopo la fine del padre. Nel caso di Eleanor il suicidio è dovuto ad uno strano ménage. Essa si fa carico di conservare i documenti lasciati dal padre coinvolgendo il compagno, Edward Aveling, con cui convive, brutto ma seducente. Nel marzo del 1898, Eleanor scopre che egli ha sposato in segreto un'attrice molto giovane. Per riparare la colpa, Aveling le propone un patto suicida. Eleanor lo accetta e ingerisce l'acido prussico. Aveling, che non ha alcuna intenzione di suicidarsi, si libera cos' di lei e non subisce neppure un processo.

Laura, invece, sposata con Paul Lafargue, vive fino al 1911, allorché, quando lui ha sessantanove anni e lei sessantasei, decidono che non hanno più alcuna ragione per vivere e si tolgono la vita stoicamente..

Come accennato, le amicizie di Marx sono state spesso turbolente, perché il suo carattere passionale comporta il repentino viraggio dall’idealizzazione alla demonizzazione. Una sola amicizia dura invece tutta la vita - quella con F. Engels - e si tratta di un rapporto del tutto singolare, che ha indotto una figlia a rievocare il modo in cui gli antichi coltivavano questo affetto.

F. Engels, di famiglia agiata ma non meno ostile all'ordine borghese di Marx, lo conosce in età giovanile e, dopo un primo incontro molto freddo e formale, rimane abbagliato dalla sua genialità. Benché non laureato, Engels non rinuncerà mai a coltivare i suoi studi e le sue idee. Egli è dunque un intellettuale. Ciò nondimeno accetta senza remore la superiorità di Marx e, in un certo qual modo, sviluppa nei suoi confronti un atteggiamento che è collaborativo, ma nella cornice di un rapporto nel quale il suo ruolo è quello del discepolo e collaboratore in rapporto al Maestro.

Engels non ha una personalità influenzabile o tendente alla dipendenza. Il suo stile di vita è del tutto diverso rispetto a quello di Marx: ama le donne, i cavalli e ha una certa inclinazione per le armi. Egli è autonomo anche intellettualmente, come si può ricavare dall’Antidhuring e da L'origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato, pubblicati dopo la morte di Marx.

Ciò nondimeno, Engels adora letteralmente Marx al punto di arrendersi alla necessità di lavorare nell'azienda paterna per aiutare economicamente l'amico in perenne difficoltà, di assegnare a Marx, dopo avere ereditato la fortuna paterna, un cospicuo vitalizio, e di dedicare gran parte delle sue energie al compito immane di compilare, sulla base degli appunti lasciati da Marx, il secondo e il terzo volume del Capitale.

Marx, peraltro, ripaga Engels di una stima e di un affetto senza limiti. Prova di ciò è che egli propone di associare il nome dell'amico al suo allorché pubblica il Manifesto del Partito comunista, che pure ha scritto da solo sia pure sulla base di una bozza da quegli redatta.

In un rapporto durato quarant'anni, e che ha dato luogo ad una delle collaborazioni e dei sodalizi intellettuali più proficui nel corso della storia della cultura, oggettivata da un ricchissimo epistolario, c'è una sola ombra, che risale al 1863. Il 7 gennaio Engels comunica a Marx la morte della sua compagna, Mary Burns, una vivace proletaria irlandese con la quale conviveva apprezzandola profondamente: "Caro Moro, Mary è morta. Ieri sera si mise a letto presto: quando Lizzy, verso le 12, volle andare a dormire, era già morta. Del tutto improvvisamente, mal di cuore o apoplessia. lo l'ho saputo stamattina, lunedì sera stava ancora benissimo. Non ti posso dire quale animo sia il mio. La povera ragazza mi ha amato con tutto il cuore. Tuo FE." Marx risponde il giorno seguente laconicamente («La notizia della morte di Mary mi ha altrettanto sorpreso che costernato. Ella era buona, d'umore lieto e ti era molto attaccata»), elenca diffusamente le sue disavventure economiche, e conclude: "È un orribile egoismo da parte mia il raccontarti in questo momento tali horreurs. Ma il rimedio è omeopatico. Una disgrazia scaccia l'altra. E au bout du compte, che cosa posso fare?»

Engels se la prende e rimane freddo finché non riceve le scuse di Marx: "Fu un mio gran torto l'averti scritto quella lettera, e ne fui pentito appena l'ebbi spedita. Ma in nessun caso avvenne per mancanza di cuore. Mia moglie e le bambine mi saran testimoni che all'arrivo della tua lettera (arrivò di prima mattina) fui scosso come alla morte d'un mio prossimo parente. Ma quando ti scrissi la sera, lo feci sotto l'impressione di circostanze molto disperate. Avevo in casa il broker [ufficiale giudiziario] mandato dal landlord [padrone di casa], un protesto cambiario del macellaio, mancanza di carbone e di cibo in casa e la piccola Jenny a letto. In tali circumstances generally [circostanze di solito] non so aiutarmi che col cinismo." Generosissimo come sempre, Engels risponde: "Caro Moro, ti ringrazio della tua sincerità. Capisci tu stesso quale impressione mi aveva fatto la tua penultima lettera. [Essa] mi rimase fissa in capo per tutta la settimana, non potevo dimenticarla. Never mind [Non fa nulla], la tua ultima compensa quella, e sono lieto di non aver perduto con Mary anche il mio più vecchio e migliore amico."

Lo scambio epistolare è importante per due aspetti. In primo luogo, esso rivela che Marx è consapevole di reagire con il cinismo alle sventure della vita. In secondo luogo, esso apre uno spiraglio sulla precarietà economica che ha perseguitato Marx per molti anni, finché essa si è risolta in virtù della morte della madre, dell'eredità della moglie, di un'eredità inaspettata da parte di un ammiratore e del vitalizio concessogli da Engels.

Per quanto la precarietà economica che, in più momenti è coincisa con uno stato di indigenza assoluto, abbia coinvolto profondamente la famiglia, Marx ha sempre rifiutato qualsiasi lavoro che non fosse quello di intellettuale. Escluso dall'Università, poteva solo fare il giornalista e scrivere libri: attività entrambe aleatorie sotto il profilo economico. Egli, però, ha rivendicato di continuo il suo diritto di seguire un tragitto vocazionale, tanto più che sentiva che esso era devoluto al bene dell'umanità. Rinfacciargli questo atteggiamento come irresponsabile o addirittura cinico è oggettivamente legittimo, ma riduttivo: equivale a tacciare di cinismo un qualunque dissidente che, per la difesa dei valori in cui crede, espone i familiari a conseguenze di ogni genere.

Al di là della famiglia, Marx, accusato dai critici di essere un intellettuale snob che, nel suo intimo, disprezza gli operai, ha sempre intrattenuto nei confronti di coloro che manifestavano una coscienza di classe un atteggiamento rispettoso e generoso. Il caso più famoso è legato a Johann Georg Eccarius, sarto di mestiere, che Marx propose come rappresentante tedesco presso la Associazione internazionale dei lavoratori. Eccarius non ha certo una personalità priva di spigoli. Pure Marx è sempre attento e comprensivo nei suoi confronti, tenta in ogni modo di sottrarlo al duro lavoro facendolo diventare pubblicista, lo aiuta economicamente in un periodo in cui era malato e indice una colletta per il funerale di tre dei suoi figli morti per un’epidemia di scarlattina.

Della generosità di Marx, peraltro si danno prove molteplici. Nonostante le precarie condizioni economiche in cui vive sino a quando Engels mette a sua disposizione un vitalizio, non viene mai meno al dovere di assistere e aiutare in ogni modo i suoi compagni di lotta, i rifugiati politici, ospitandoli nella sua casa e dividendo con loro il suo magro bilancio. Nonostante il suo odio nei confronti del filantropismo, l'incontrare per strada dei miserabili lo coinvolge totalmente, ed egli si spoglia del poco che ha anche a costo di affamare la famiglia.

Il tratto più rilevante della personalità di Marx, comunque, è la coerenza etica. L'accusa che gli è stata più volte rivolta di aver contagiato il proletariato della sua invidia “nevrotica” nei confronti dei capitalisti è francamente ridicola. Il fatto è che, dal momento in cui - cominciando a interessarsi delle condizioni della classe lavoratrice - Marx s’imbatte nell'ingiustizia, nello sfruttamento e nella degradazione umana, egli non ha più scampo. L'onestà intellettuale e la capacità di mettersi nei panni degli oppressi lo inducono a mettere da parte i privilegi di nascita (relativi peraltro, per via delle origini ebraiche) e ad operare una scelta di campo definitiva. La scelta è stata pagata (e fatta pagare alla famiglia) al prezzo di una vita che, in molti periodi, si è svolta sullo stesso registro di precarietà e di bisogno in cui versava la classe lavoratrice. Egli stesso ha ironizzato sul fatto di essersi interessato sempre di denaro senza quasi mai averne.

Nel prezzo pagato alla coerenza, occorre aggiungere anche le sofferenze psicosomatiche, alle quali egli spesso fa cenno nelle lettere ad Engels. di solito per sottolinearne il carattere invalidante in rapporto all’attività intellettuale e "giustificare" i suoi ricorrenti ritardi nel tenere fede agli impegni editoriali. Di certo, si sa che egli ha sofferto di un non meglio precisato mal di fegato, di terribili emicranie, di attacchi di neurastenia che duravano, talora, alcuni mesi, e di dolorosissimi favi su tutto il corpo e, in particolare, sulle natiche. Molteplici fattori devono aver concorso a mantenere una condizione psicosomaticamente squilibrata, della quale egli era del tutto consapevole avendo scritto che tutti i suoi mali sono "di testa".

Marx è un intellettuale perfezionista, mai appagato dalla documentazione di cui dispone e perennemente alla ricerca di un’esposizione stilisticamente e logicamente inattaccabile. Non riesce quasi mai a rispettare i tempi che si dà e, se i tempi sono dettati da impegni editoriali, il suo rendimento addirittura peggiora. Nonostante i periodi di riposo forzato imposti dai sintomi psicosomatici, egli lavora accanitamente, al punto che, nei periodi di più intensa creatività, rinuncia spesso al sonno, si alimenta male, eccede nel fumo e talora nell’alcol. Benché perfezionista, ha una natura libertaria, insofferente d’ogni vincolo. Sommando queste due circostanze, riesce chiaro che, per portare a termine un lavoro, deve farsi letteralmente violenza. Via via che la sua ricerca si tecnicizza, diventando sempre più una critica dell’economia borghese, e richiedendo un aggiornamento continuo, Marx accantona, sia pure malvolentieri, gli interessi letterari, artistici, filosofici.

E’ presumibile che gran parte dei disturbi psicosomatici siano da ricondurre a una disciplina intellettuale troppo rigorosa, coartante e poco compatibile con una fame di vivere mai doma. Né si può escludere che, nonostante le conclamate certezze che egli esprime nelle sue opere, il lavoro intellettuale sia stato animato a più riprese da dubbi di ogni genere: anche sulla teoria materialista e dialettica, ma soprattutto sui tempi e sui modi di realizzazione del comunismo.

Occorre, inoltre, tener conto che Marx, pienamente consapevole della sua genialità, vive per anni nella frustrazione dell'anonimato e degli scarsi riconoscimenti sociali conseguiti. La sua fama di capo della I Internazionale, a partire dagli anni '60, si estende a tutta l’Europa e varca anche le frontiere continentali. Ma intanto, eccezion fatta per i lavoratori, si tratta di una fama sinistra, che lo qualifica come sobillatore del popolo contro il potere costituito e l'ordine sociale.

C'è, poi, da considerare che Marx, che ha sacrificato all’attività intellettuale, secondo la sua stessa testimonianza, il successo, la famiglia, la salute, tiene molto, oltre che alle sue idee, alle sue opere. Quasi tutte quelle pubblicate, però, sono clamorosi insuccessi editoriali. Perfino Il Capitale, nell’anno della sua pubblicazione, viene venduto in un numero irrisorio di copie e ha una ben scarsa risonanza.

Da ultimo, non si può per nulla escludere che Marx abbia nutrito intensi sensi di colpa per i sacrifici economici imposti alla moglie e ai figli,e per la morte di tre dei suoi eredi, dovuta sicuramente alla miseria e a condizioni di vita perennemente precarie.

In una sola circostanza, Marx si è arreso alla necessità di trovare un regolare lavoro, facendo domanda di essere assunto presso le ferrovie come impiegato, ma, per sua fortuna, è stato rifiutato in conseguenza della sua scrittura illeggibile.

Nella biografia di molti Grandi, la passione intellettuale e l’affettività confliggono inesorabilmente. Per quanto concerne Marx, poi, quella passione è animata da una tensione etica che dà ad essa per l’appunto il carattere di un’impresa inderogabile. Tale tensione subordina il privato al politico: è un dato di fatto, che s’impone alla coscienza come un dovere assoluto. Marx ha più volte riconosciuto che un rivoluzionario di professione non dovrebbe assumersi le responsabilità di un capofamiglia. Lo si può incolpare, forse, di aver coltivato troppo l’odio contro il capitalismo, non di non aver ceduto alle ragioni del cuore. Anzi alle ragioni di due cuori: quello del rivoluzionario e quello dell’uomo.

La personalità di Marx risulta contraddittoria soprattutto in conseguenza di questa scissione. La sua identificazione totale con l’umanità diseredata, al di là degli esiti teorici cui perviene in virtù di uno studio condotto avanti per tutta la vita, lascia pensare ad un corredo originario particolarmente ricco sotto il profilo emozionale. Il suo motto preferito - l’ovidiano Nihil umani a me alienum puto - attesta anche una comprensione nei confronti delle debolezze e delle contraddizioni umane che male si accorda con l’assunzione del ruolo di minaccioso fustigatore biblico della classe borghese. In effetti il Marx - per così dire - migliore si ritrova, negli scritti, laddove l’analisi del sistema capitalistico si configura come un prodotto della storia le cui leggi, assunte ideologicamente come oggettive, sfuggendo al controllo di tutti, irretiscono gli stessi capitalisti: in breve, laddove il rapporto tra soggettività e storia sociale viene intuito come tale da trascendere la consapevolezza individuale.

C’è da chiedersi dove sarebbe giunta la teorizzazione di Marx se egli avesse potuto approfondire quest’intuizione, e approdare alla nozione di inconscio sociale che è implicita in molti passi della sua opera. In difetto di quest’approfondimento, l’umanesimo di Marx deve piegarsi alle esigenze della politica. Le colpe del sistema capitalistico implicano degli agenti umani, dunque dei responsabili che, in conseguenza della trasformazione del giudizio oggettivo in giudizio morale, diventano dei colpevoli. E si tratta di colpe contro l’umanità a tal punto terribili che obbligano ad accantonare la pietas per una specie che è ancora alla ricerca di se stessa e impongono il richiamo alla lotta di classe violenta, alla "critica delle armi". Il fine di questa lotta, peraltro, non è la vendetta (poiché le vittime della storia non potranno in alcun modo essere ripagate), quanto piuttosto l’evitare ulteriori sacrifici inutili.

Solo chi sa a qual punto una sensibilità ulcerata dall’ingiustizia può promuovere l’indurimento e l’anestesia emozionale, può comprendere l’indignata spietatezza di Marx.

L’Illuminazione e la nascita del Rivoluzionario

Come Darwin, anche Marx è un genio precoce. Darwin intuisce l’esistenza della selezione naturale nel corso del viaggio sul Beagle, quando ha poco più di venti anni, e la concettualizza a 30 anni, in seguito alla lettura di Malthus. Marx intuisce che l’essenza della realtà sociale non coincide con le apparenze o con le ideologie che la giustificano e la “naturalizzano” intorno a 24 anni, si pone da allora sulla via di demistificarla e scrive di getto, in quattro giorni, quando ha trenta anni, il Manifesto del partito comunista, il libro - dicono le statistiche - più letto dopo la Bibbia.

La biografia di Marx attesta che egli, dotato di qualità emozionali e intellettive fuori del comune, ha una natura marcatamente oppositiva. L'educazione illuministica che ha ricevuto dal padre e dal barone von Westphalen, consentono di capire la sua precoce opposizione all'assolutismo monarchico e la sua adesione ai principi del liberalesimo democratico. Come avviene, però, il passaggio da questi principi al comunismo?

E' importante, a riguardo, tenere conto dell'influenza di Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831), con il cui pensiero Marx viene a contatto quando si trasferisce a Berlino.

Hegel è il pensatore più influente dell'epoca, dotato tra l'altro di una tale presunzione da avere scritto a chiare lettere che la storia della filosofia si esauriva con lui. Cosa lo induceva a pensare una cosa del genere? Semplificando le cose, si può dire che egli partiva dall'assunto che la realtà materiale cela ed esprime al tempo stesso l'evoluzione dello Spirito (Idea, Ragione o Dio), sicché lo sviluppo storico può essere interpretata come un lento, progressivo e dialettico processo di autocoscienza in virtù del quale lo Spirito, oggettivatosi nella natura e nel mondo, si rende conto che la realtà è una sua produzione e si ricompone come Assoluto.

In questa ottica idealistica, che connota hegel come un precursore dell'Intelligent Design, tra realtà e razionalità vi è compenetrazione e connessione, che può essere interpretata secondo due formule famose:

* Tutto ciò che è reale è razionale

* Tutto ciò che è razionale è reale

Dopo la morte di Hegel, sulla base di queste formule si definiscono due diversi orientamenti che a lui si ispirano. La destra hegeliana privilegia la prima formula, e dunque vede nello stato di cose esistente ( e, in particolare, nello Stato prussiano) una realtà che è già razionale. La sinistra hegeliana, invece, privilegia la seconda formula, la quale comporta che ciò che è razionale e giusto in rapporto ai diritti umani va realizzato. Tra i due orientamenti c'è uno scarto generazionale: quasi tutti gli hegeliani di sinistra sono giovani. Essi rifiutano la conciliazione della filosofia con il trono e con l'altare, propugnata dai vecchi hegeliani, e traggono dal pensiero di Hegel conseguenze anticonformistiche, anticlericali, ateistiche, democratiche o, addirittura, rivoluzionario-borghesi.

Marx naturalmente aderisce alla sinistra hegeliana e, dedicandosi al giornalismo politico, si batte per valori tipicamente liberal-democratici (libertà di stampa, superamento del protezionismo, diritti dei lavoratori, ecc.), che, all'epoca e nel contesto del regno prussiano, erano di fatto rivoluzionari. E' l'esperienza del giornalismo che lo porta casualmente sul terreno dei problemi economici, che sino allora gli sono del tutto estranei, ma lo coinvolgeranno - bon gré, mal gré - per tutta la vita.

Nella Prefazione a per la critica dell’economia politica, in uno dei rarissimi abbandoni autobiografici, Marx fa cenno a questa circostanza nei termini seguenti:

“La mia specialità erano gli studi giuridici, ma io non li coltivavo se non come disciplina subordinata, accanto alla filosofia e alla storia. Nel 1842-43, come redattore della Rheinische Zeitung, fui posto per la prima volta davanti all'obbligo, per me imbarazzante, di esprimere la mia opinione a proposito di cosiddetti interessi materiali. I dibattiti della Dieta renana sui furti forestali e sullo spezzettamento della proprietà fondiaria, la polemica ufficiale che il signor von Schaper, allora primo presidente della provincia renana, iniziò con la Rheinische Zeitung circa la situazione dei contadini della Mosella, infine i dibattiti sul libero scambio e sulla protezione doganale, mi fornirono le prime occasioni di occuparmi di problemi economici. D'altra parte, in un'epoca in cui la buona volontà di "andare avanti" era di molto superiore alla competenza, si era potuta avvertire nella Rheinische Zeitung una eco, leggermente tinta di filosofia, del socialismo e comunismo francese. Mi dichiarai contrario a questo dilettantismo, ma nello stesso tempo, in una controversia con la Augsburger Allgemeine Zeitung, confessai senza reticenze che gli studi che avevo fatto sino ad allora non mi consentivano di arrischiare un giudizio indipendente qualsiasi sul contenuto delle correnti francesi. Fui invece sollecito nell'approfittare dell'illusione dei gerenti della Rheinische Zeitung, i quali credevano di poter far revocare la condanna a morte caduta sul loro giornale dandogli una linea più moderata, per ritirarmi dalla scena pubblica nella stanza da studio.”

La testimonianza è importante perché conferma che, all’epoca, Marx è solo un filosofo “progressista”, un hegeliano di sinistra che interpreta la realtà sulla base del riferimento a diritti umani ritenuti universali. Il viraggio verso il “socialismo” avviene in conseguenza della sua partecipazione come giornalista ai dibattiti della Dieta renana (il Parlamento regionale di una delle federazioni confluite nella Prussia). E' nel corso di questa esperienza che egli ha un'"illuminazione" che si può ricostruire attraverso la lunga analisi che egli dedica a “La legge sui furti di legna”.

L’argomento preso in esame sembra di secondaria importanza. La legge, infatti, trasforma in reato penale uno dei diritti consuetudinari concessi alle classi indigenti sin dal Medio Evo per lenire la loro povertà, quello di raccogliere legna secca nei boschi demaniali. Attraverso tale diritto, si è mantenuto il riferimento atavico alla proprietà comune del suolo.

Subentrati nella proprietà di quei boschi, nobili e borghesi, che spesso si sono appropriati con la frode delle terre demaniali o comunali, intendono non solo abolire tali diritti, ma far considerare la raccolta della legna nei boschi, una volta destinati a «uso civico», come un vero e proprio furto, equiparabile all'abbattimento di rami e alberi verdi. Il dibattito alla Dieta renana, dominata da una maggioranza di nobili e borghesi, finisce naturalmente con l'approvazione di una legge che infligge pene assai gravi a coloro che raccolgono legna da ardere per i propri miseri focolari: tale raccolta viene addirittura equiparata ad un furto aggravato e punito con la condanna ai lavori forzati. La sorveglianza dei terreni è poi affidata a guardie forestali private che agiscono, con ampi potere, a difesa dei diritti dei proprietari.

Storicamente, l'evento è minuscolo, ma, agli occhi di Marx, assume un significato storico indiziario. Egli vi legge infatti l'espressione di una trasformazione epocale dell'organizzazione sociale, del diritto e del funzionamento dello Stato in nome della proprietà privata.

Fino alla partecipazione ai dibattitti della Dieta renana, alla luce del principi illuministici, Marx legge nell'irrazionalità dell'organizzazione feudale il male da superare. Ora scopre che quell'organizzazione aveva una propria razionalità, una logica di funzionamento, che in particolare comporta un duplice diritto privato: "un diritto privato del proprietario e un diritto privato del non proprietario", un miscuglio di diritto pubblico e di diritto privato. Il sistema che subentra, privilegiando la proprietà privata, manifesta una totale indifferenza nei confronti dei bisogni sociali. In nome di un'astrazione giuridica, che il povero diventi ancora più povero è una conseguenza del fatto che il suo diritto consuetudinario riguarda ormai una "merce".

Il legislatore, peraltro, non legifera in astratto. La modernizzazione del diritto ha una matrice molto concreta. La definizione giuridica della proprietà è affidata ai proprietari: "poiché la proprietà privata non ha i mezzi per elevarsi al piano dello Stato, lo Stato ha il dovere di abbassarsi ai mezzi del proprietario privato"; “questa logica […] trasforma l'autorità statale in un dipendente del proprietario.”

La subordinazione dello Stato alla proprietà privata implica però che lo Stato "moderno", che pretende di essere più razionale rispetto all'ordinamento feudale, funziona sulla base degli interessi della classe che accede al potere e, in conseguenza di questo, decreta e legifera, escludendo dall'organizzazione dello Stato la classe subordinata.

Non c'è ovviamente, in queste considerazioni, alcuna nostalgia del passato. Marx prende atto del fatto che la Dieta “[ha] degradato il potere esecutivo, le autorità amministrative, l'esistenza dell'accusato, l'idea dello Stato, il delitto stesso e la pena a strumenti materiali dell'interesse privato.” E lo ha fatto perché "l'interesse del diritto può parlare nella misura in cui è il diritto dell'interesse, ma deve tacere non appena contrasta con questo sacro principio.”

Su questa base egli giunge a quest’amara conclusione:

“Meraviglia soltanto che al proprietario forestale non sia anche concesso di accendere le proprie stufe con i ladri di legna.”

Non siamo ancora al Comunismo, ma poco ci manca. Tra poco, Marx scoprirà, attraverso il geniale schizzo storico di Engels sulla condizione operaia in Inghilterra, che nelle fabbriche i lavoratori sono usati tutt'altro che metaforicamente come legna da ardere.

Se per rivoluzionario si intende colui che dispone di una teoria che postula il cambiamento della realtà, a quest'epoca Marx ancora non lo è perché il suo modo di rapportarsi all'esistente è ancora contrassegnato dal prevalere dell'indignazione sulla analisi critica, che spiega perché le cose stanno come stanno e non come dovrebbero essere. Se, viceversa, per rivoluzionario si intende colui che, ad un certo punto della vita, intuisce, anche senza rendersene pienamente conto, del perché le cose stanno come stanno, si può sostenere che La legge sui furti di legna è l'indizio di un'illuminazione che ha portato Marx sul suo terreno vocazionale, quella di un filosofo che si confronta con la realtà storica per capire cosa c'è dietro di essa.

Il metodo indiziario di Marx

La legge sui furti di legna è, a mio avviso, il primo esempio del metodo indiziario di demistificazione critica che Marx poi adotterà sistematicamente in rapporto al diritto, all'economia, alla politica. Il principio di tale metodo è che la realtà storica, che si organizza sulla base dello sviluppo materiale e sociale, viene costantemente razionalizzata, consapevolmente e inconsapevolmente, da chi ha interesse o motivi per celarne le contraddizioni, e in questa forma razionalizzata appare agli occhi degli esseri umani.

Sormontare le apparenze, che ingannano appunto perché inducono ad identificare il reale con il razionale, implica la capacità di cogliere gli indizi, talora apparentemente minimali, attraverso i quali si può risalire alla dinamica strutturale che li sottende. La legna secca che, da bene liberamente disponibile diventa merce, è per l’appunto un indizio del genere.

L'illuminazione prodotta in Marx dalla sua partecipazione ai dibattiti della Dieta renana concerne una distinzione implicita tra sviluppo socio-economico e progresso. Rispetto alla società feudale, quella nella quale si trova a vivere Marx è percorsa da una febbrile tendenza a produrre ricchezza in una misura incommensurabile al passato. Lo sviluppo è massimamente evidente in Inghilterra, ma, come si è visto, esso ha già investito la Francia e la Confederazione germanica, di cui fa parte la Renania.

Tale sviluppo coincide, però, con un regresso della qualità della vita di gran parte della popolazione, e ciò avviene nello stesso periodo in cui il diritto sancisce, sia pure formalmente, l'uguaglianza dei cittadini.

Da questo punto di vista, il diritto medievale, che comportava "un diritto privato del proprietario e un diritto privato del non proprietario", un miscuglio, dunque, di diritto pubblico e di diritto privato, risulta più “umano” del diritto Razionale che liquida spietatamente le concessioni consuetudinarie alle masse prive di ogni bene.

Marx, ovviamente, non ha alcuna nostalgia dell’ordine medievale. Egli si limita a constatare che lo sviluppo socio-economico non coincide necessariamente con un progresso civile. Trasformando in reato un diritto consuetudinario, infatti, “l'accettazione [della legge] porta necessariamente a recidere una quantità di uomini mondi di intenzioni delittuose dal verde albero della moralità e a buttarli come legna secca nell'inferno del delitto, dell'infamia e della miseria.”

En passant, questa sola affermazione contiene in germe un approccio al problema della criminalità che identifica in essa, almeno per quanto concerne la piccola criminalità, una forma di inconsapevole e talora inesorabile protesta contro un ordinamento sociale che non offrendo ad alcuni soggetti, adeguate opportunità di sviluppo, li costringe a porsi sul piano della devianza.

La criminologia di ispirazione marxista, che assume la devianza come un fenomeno sociogenetico, è stata duramente contestata da due sponde opposte negli ultimi decenni: dai riduzionisti biologici, che hanno tentato di identificare il gene della criminalità, e dagli “spiritualisti”, i quali rifiutano l’ipotesi che i condizionamenti sociali possano ridurre o vanificare il libero arbitrio. La questione è ancora aperta.

Più della criminalità, però, qui ci interessa il rapporto che la società intrattiene con i poveri ed emarginati che essa produce.

Adottiamo il metodo indiziario di Mrax e applichiamolo al presente.

L'8 settembre, su Repubblica,il sociologo sociologo Ulrich Beck pubblica il seguente articolo intitolato significativamente Quelle vite devastate che i ricchi non vedono:

“SAN Francisco, primi di agosto 2009; bighellono nei dintorni dell' hotel Hilton, sede del congresso americano di sociologia di quest' anno, dove devo tenere una relazione. I sociologi, simili in questo ai chirurghi che operano d' urgenza, sono gente alquanto insensibile; i tempi di crisi sono per loro alta stagione. Non è così per i senzatetto e i mendicanti che mettono in mostra la loro povertà o per la gente di colore che difende il suo territorio nei ghetti e nelle favelas. C' è un fagotto d' uomo sul margine della strada. Un poliziotto controlla rapidamente che dia segni di vita e se ne va. Sono proprio tanti quelli che si trascinano a fatica, cercando di evitare al loro corpo le lussazioni sempre in agguato.

A pranzo sediamo in un ristorante vietnamita, cucina eccellente, posto accanto alla finestra. All' improvviso, come giunta dal nulla, appare una grande, magra figura, vestita di stracci svolazzanti, come un grande uccello che copre tutta la finestra, gustandosi l' orrore da lui (o da lei, non è chiaro) provocato. Con un gesto ripetuto già tante volte il cameriere lo caccia come un cane fastidioso, che si conosce e si bastona. Là uno barcolla attraverso la strada trafficata, in mezzo ai clacson e allo stridio di freni del fiume di macchine. Non riesco a togliermi di mente gli occhi spenti dei corpi in parte gonfi come palloni, in parte magri come un chiodo che mi si fanno incontro (uno su dieci passanti, grosso modo). Qui l' inumanità della società spietatamente capitalistica che si richiama all' umanità della libertà e della democrazia ha i suoi volti.

Ingiustizia sociale che grida vendetta. Anche nella crisi dell' economia mondiale i ricchi pagano - nel peggiore dei casi - in valori azionari, mentre i più vulnerabili, che non hanno proprio niente a che fare con la crisi, la "pagano" con la moneta contante della loro cosiddetta esistenza. Non sono più "poveri" - il concetto è troppo debole. Parlare di "classe" sarebbe un cinico eufemismo. Zygmunt Bauman le ha chiamate "wasted lifes", in un' analogia che si fa fatica a tollerare con le montagne di rifiuti prodotte permanentemente dal "capitalismo sempre più veloce e sempre più bello". Bauman parla delle sottocittà invisibili nelle quali vegetano questi wasted humans. Non è già un progresso che essi siano onnipresenti nelle vie principali di San Francisco? Certo, la coesistenza ravvicinata tra la povertà più desolante e la ricchezza non è nulla di nuovo. Ma nella politica interna mondiale è un' ingiustizia che grida vendetta oggi, quando l' uguaglianza sociale è diventata un' aspettativa diffusa in tutto il mondo e le crescenti disuguaglianze non possono essere giustificate come volute da Dio, né essere nascoste dietro i muri degli Stati nazionali.”

(Traduzione di Carlo Sandrelli)

Ulrich Beck ha il merito di rilevare la cecità dei ricchi in rapporto ai fenomeni di povertà e degradazione umana che hanno sotto gli occhi. Non è un fenomeno diverso da quello che si realizzava all’epoca di Marx nella Dieta renana. Sottrarre la legna secca a poveri che non hanno altri mezzi per sopperire alla rigidità del clima implica la stessa cecità e la stessa anestetizzazione morale.

C’è qualcosa di diverso, però, oggi, rispetto all’epoca in cui Marx scriveva, allorché le classi vivevano in un contesto che implicava una rigida separazione spaziale. Gli spazi urbani, anche se riconoscono quartieri privilegiati che, come accade già in America, sono destinati a diventare fortezze assediate dalla miseria, sono spazi di commistione tra ceti medi, poveri ed emarginati. Chiudere gli occhi è sempre più difficile: l’effetto visivo della povertà è irritante e sconveniente. Occorre farla scopmarire alla vista, emarginarla ulteriormente.

Un indizio prezioso, da questo punto di vista, è il seguente riportato sui giornali a metà ottobre:

“Dal 2010 a Roma saranno disponibili le panchine anti-bivacco con braccioli divisori. Lo ha annunciato l'assessore comunale all'Ambiente Fabio De Lillo, nel corso di una conferenza stampa per inaugurare un giardino a piazza Ragusa, nel IX municipio.

Le panchine, stando a quanto assicurato dall'assessore, sono già state progettate, e a breve si partirà con i finanziamenti per farle introdurre nell'arredo urbano di ville e parchi. Le vecchie panchine verranno spostate in zone dove il degrado non c'è. De Lillo ha detto che le panchine anti-bivacco sono già presenti in altre capitali. Dovrebbero essere installate all'interno dei parchi che non prevedono una chiusura notturna, quelle aree cioè, che non sono controllate.

De Lillo ha anche detto che le panchine anti-bivacco sono già presenti in altre capitali, quindi non c’è da stupirsi se verranno adottate anche a Roma.

Tempi duri quindi anche per i senza tetto della capitale. Perché a Roma, a dormire nei giardini o direttamente sulla strada, gli homeless sono circa 4mila, poveri disgraziati possessori di nulla. Lo ha rilevato uno studio a supporto delle iniziative a sostegno dei senza fissa dimora promosse dall’Azienda ospedaliera San Camillo-Forlanini e da Commercity, in collaborazione con la Rete della Solidarieta’ e con la Comunita’ di Sant’Egidio. Lo studio è stato presentato a Settembre 2009 ed ha dimostrato che Roma è la capitale dei senza tetto. In assoluto gli homeless romani sono circa 6mila e rappresentano il 35% della popolazione homeless in Italia. Di questi, sono 4mila quelli che trovano riposo, almeno fino al 2010, sulle panchine dei parchi.”

La motivazione addotta dall’Assessore fa riferimento al decoro, alla necessità di salvaguardare la quiete laddove le oneste famiglie portano i loro bambini a giocare.

Se disponessi della verve sarcastica di Marx, mi verrebbe da definire indecoroso che esistano in una città come Roma 4mila homeless e ancora meno decoroso che si impedisca loro di sdraiarsi sulle panchine d’inverno, costringendoli a sdraiarsi per terra con il rischio di morire assiderati.

Excursus sulla critica marxiana del Diritto

Nell’Introduzione generale alle letture, ho anticipato che l’analisi del pensiero di Marx ci avrebbe costretto ad interessarci di storia, politica, economia e diritto. La storia (più male che bene) si studia a scuola. La politica, l'economia e il diritto non fanno parte, se non marginalmente e in alcuni ordini di scuole, dell'apprendimento scolastico. Ritengo che questa lacuna formativa, complementare all'assenza di ogni insegnamento riguardante la neurobiologia, la psicologia e la psicoanalisi, incida profondamente sulla cultura media.

Ritengo marxianamente che, tra i diritti umani, oggi occorrerebbe inserire anche l'accesso ai saperi indispensabili ad un cittadino contemporaneo consapevole, tra cui inserirei le discipline citate.

La pretesa di colmare qui tali lacune sarebbe del tutto fuori luogo, non fosse altro per le mie competenze, che sono relative.

Qualcosa, però, occorre dire sul Diritto, rimandando l'economia alla prossima lettura, tenendo conto che il primo approccio critico di Marx ai problemi storici avviene sulla base di un'analisi giuridica.

All'epoca di Marx si è già avviata in tutti i Paesi europei uno sforzo di riforma del Diritto reso necessario dalla enorme confusione prodotta dalla sovrapposizione al codice giustinianeo di origine romana, di consuetudini e norme giuridiche maturate nel corso dei secoli: opinioni di giureconsulti e sentenze di tribunali, che venivano considerati fonti di diritto, il diritto canonico, il diritto feudale, il diritto proprio dei singoli stati. Questa sovrapposizione è giunta a produrre una situazione particolarmente confusa ed incerta. Per questo sul finire del 700 si definisce l'esigenza di una nuova codificazione.

Il primo codice vero e proprio entra in vigore nel regno di Prussia nel 1794. Dell'ideologia illuministica il codice prussiano accoglie il principio secondo il quale il codice deve essere completo e senza lacune, in modo che all'interprete fosse lasciata la minima libertà possibile. Tale disposizione soddisfa una delle istanze dell'illuminismo, cioè quella del vincolo assoluto del giudice alla legge. Al tempo stesso, però, il codice prussiano non riconosce l'uguaglianza dei cittadini: esso sancisce la divisione della società in tre stati, i contadini, la borghesia e la nobiltà. Ogni cittadino appartiene necessariamente a ognuno di questi tre stati o per la nascita o per l'attività svolta, ma diversi sono i diritti e i doveri a seconda del suo stato.

La stessa esigenza di razionalizzazione del diritto affiora anche in Francia, in seguito alla Rivoluzione. Le assemblee rivoluzionarie si propongono la redazione di un codice generale di leggi semplici e chiare, e nella Costituzione del 1791 viene stabilito il principio del codice unico per tutto il regno.

I progetti di codice che precedono il testo definitivo presentano tutti una più o meno marcata impronta illuministica. Nella loro successione, però, essi risentono dei cambiamenti politici che sopravvengono rapidamente: l'influenza dell'illuminismo, dominante nel primo e nel secondo. appare assai attenuata nel terzo che è del 1796, quando alla Convenzione era già succeduto il Direttorio.

L'ultimo progetto è ormai lontano dall'illuminismo, mostrando una volontà riformatrice ancora più moderata: esso accoglie il vecchio diritto, cercando di conciliare quello romano e quello germanico, con richiami ai principi giusnaturalistici piuttosto generici. Il codice entra in vigore sotto Napoleone nel marzo 1804.

Sia in Prussia che in Francia, l'evoluzione del diritto segue dunque una parabola tale per cui i principi illuministici, proverbialmente riconducibili al principio per cui "la legge è uguale per tutti", si piegano gradualmente ad una realtà sociale caratterizzata da una rigida gerarchia in Prussia e dall'ascesa della classe borghese in Francia.

Il rapporto tra l'evoluzione del Diritto e la realtà politica non può sfuggire a Marx. In un certo senso, gli articoli che dedica ai Dibattiti della Dieta renana possono essere interpretati come precursori di quella disciplina che oggi va sotto il nome di sociologia del Diritto, che identifica in esso "una tecnica di regolazione e, in senso lato, di controllo sociale, fondata sull'elaborazione e sull'applicazione, in parte consensuale e in parte coercitiva, d'una classe particolare di norme sociali - appunto le norme o regole di D. - che in complesso formano un ordinamento sistematico il cui fine ultimo, perseguito alla luce d'una nozione storica di giustizia, è la costruzione e il mantenimento di un determinato ordine sociale." (L. Gallino, Dizionario di sociologia)

Sociologizzando il Diritto, Marx coglie anche la contraddizione tra diritto oggettivo (quello codificato come insieme) e diritto soggettivo vale a dire il “potere di agire per soddisfare un interesse tutelato dalle norme giuridiche".

I diritti soggettivi si distinguono in due categorie:

1. Diritti della personalità o diritti fondamentali dell'uomo, tutti di natura non patrimoniale (diritto alla vita, all'integrità fisica, alla salute, all'immagine, all'onore, alla privacy, diritti di libertà personale, di pensiero, di religione, di associazione, di riunione, etc... riconosciuti e garantiti dalla Costituzione e dai principali strumenti convenzionali internazionali);

2. Diritti patrimoniali, i quali hanno ad oggetto i beni; al loro interno, i diritti "reali" sono diritti sulle cose e il principale fra questi diritti è il diritto di proprietà che garantisce al soggetto il potere pieno ed esclusivo di godere delle utilità ricavabili da un bene entro i limiti e con l'osservanza degli obblighi stabiliti dalla legge.

La Rivoluzione francese, al suo esordio, pone in luce il conflitto intrinseco a questi diversi diritti soggettivi. Non per caso, essa viola i diritti patrimoniali dei nobili e del clero ritenendoli iniqui. Via via, però, che, con il Termidoro prima e con l'avvento di Napoleone poi, la classe borghese riesce a prevalere sulle masse proletarie, i diritti patrimoniali vengono nuovamente restaurati, e i diritti fondamentali dell'uomo, pur senza essere negati, vengono subordinati ad essi.

La parabola della Rivoluzione francese, da questo punto di vista, è esemplare di come la civiltà borghese si afferma sull'assolutismo rivendicando i diritti fondamentali dell'uomo, ma poi di fatto li subordina ai diritti patrimoniali, al sacro diritto di proprietà.

E' questo il nodo che Marx coglie nella Legge sui furti di legna, la quale, per tutelare i diritti dei nuovi proprietari terrieri, destina ad un'ulteriore miseria e alla delinquenza i rappresentanti delle classi non abbienti.

Attraverso questa analisi, egli capisce che, nella cornice dei principi razionali del diritto, in realtà sono gli interessi materiali che determinano l'organizzazione sociale e la pratica della giustizia. Scopre cioè lo scarto tra lo Stato, che tutela quei principi e opera per mantenere un ordine sociale identificato con il bene comune, e la società civile, laddove prevale la legge del più forte che, attraverso la rappresentanza parlamentare, piega al suo dominio anche lo Stato.

Per approfondire le sue intuizioni, egli si impegna in un vero e proprio corpo a corpo con Hegel che, nella sua Filosofia del diritto, ha inteso naturalmente dire l'ultima parola a riguardo, giungendo ad esaltare lo Stato prussiano come espressione suprema della razionalità del diritto, vale a dire come eticità. In questa ottica astratta, per cui lo Stato incarna la Ragione, egli giunge a scrivere: "Il benessere di uno Stato ha un diritto tutto diverso dal benessere del singolo". Ciò significa che esso non ricava la sua sovranità dal popolo. In conseguenza di questo, la partecipazione democratica agli affari dello Stato è un non senso: la società civile deve subordinarsi allo Stato, non lo Stato alla società civile.

Perché il confronto di Marx con Hegel può interessarci? Perché nella Critica alla filosofia del diritto hegeliana, Marx, rivendicando il fatto che l'uomo in carne ed ossa è il solo e l'unico soggetto del processo politico, e che dunque la società civile viene prima dello Stato, si esprime nettamente a favore della democrazia. Egli scrive: "Nella democrazia la costituzione stessa appare semplicemente come una determinazione, cioè autodeterminazione del popolo"; "Nella democrazia l'uomo non esiste per la legge, ma la legge per l'uomo, è esistenza umana"; "[Nella democrazia] la costituzione è... ricondotta continuamente al suo reale fondamento, all'uomo reale, al popolo reale, e posta come opera propria di esso"; "[La democrazia] è l'uomo socializzato in una particolare costituzione politica."

All’epoca, dunque, Marx è schierato nettamente a favore della democrazia. Non è superfluo osservare, a riguardo, che la Critica alla filosofia del Diritto di Hegel segue di appena qualche anno la pubblicazione de La democrazia in America di Alexis de Tocqueville, che ha identificato nella tensione verso l’uguaglianza il carattere proprio e differenziale della democrazia in rapporto a tutti gli altri regimi.

Nell’opera di Tocqueville, l’esaltazione della democrazia si associa a due dubbi sulla sua futura realizzazione. Il primo concerne la dittatura della maggioranza, il secondo il prevalere dell’interesse privato su quello pubblico. Tocqueville assegna alla storia il compito di dimostrare che la democrazia può scongiurare questi pericoli e realizzare un regime sociale fondato sull’uguaglianza.

Per Marx, in particolare dopo la sconfitta delle masse nel 1848, gli sviluppi futuri della democrazia borghese sono contrassegnati dal peccato originale da cui essa si è originata, vale a dire dall’avere privilegiato i diritti patrimoniali, di una classe particolare e di singoli individui, rispetto ai diritti fondamentali degli esseri umani.

Questa contraddizione, secondo Marx, non potrà mai essere risolta nella cornice della democrazia borghese, destina a rimanere una democrazia formale, non sostanziale.

A posteriori, sembra chiaro che i pericoli preconizzati da Tocqueville, che egli riteneva potessero essere scongiurati, si sono di fatto realizzati, e che il peccato originale segnalato da Marx è risultato irrimediabile.

Formalmente, la democrazia ancora oggi si può considerare il miglior regime politico che gli uomini abbiano prodotto. Nella sostanza, vale a dire nella concreta sua realizzazione storica, è difficile non prendere atto che si tratta di un regime in crisi, in quanto l’uguaglianza è stata soppiantata dall’interesse privato al punto che attualmente il potere politico si può ritenere subordinato a quello economico.

In questo quadro, è opportuno fare un cenno alla nazione occidentale nella quale tale crisi si manifesta con particolare evidenza, e purtroppo è l’Italia. L’egemonia berlusconiana, che ormai dura da anni, è il sintomo più evidente di una crisi che identifica, quasi patologicamente, il bene comune con l’interesse di una persona e della classe che egli rappresenta.

Il motivo per cui il berlusconismo è contestato dalle democrazie occidentali non va ricondotto al fatto che queste godano un’ottima salute, bensì al fatto che intravedono nel sistema italiano l’indizio di uno smascheramento di quanto c’è di formale e non sostanziale nella democrazia incentrata sulla proprietà privata.

In senso proprio, il berlusconismo non è un pericolo per la democrazia, ma l’incarnazione stessa del peccato originale da cui essa è nata.

In quanto consapevole di questo peccato originale, e della sua irrimediabilità, non c’è da sorprendersi che Marx, dopo il giovanile entusiasmo per la democrazia, abbia identificato nel Comunismo la realizzazione sostanziale del principio dell’uguaglianza.