K. Marx

Antologia di Scritti politici giovanili

a cura di Luigi Firpo
Einaudi, Torino 1950
INDICE DEL VOLUME
Prefazione
I. Dagli «Anekdota per la recente filosofìa e pubblicistica tedesca» {gennaio 1842)
1. Osservazioni di un cittadino renano sulle recenti istruzioni
per la censura in Prussia
2. Lutero arbitro fra Strauss e Feuerbach»
IL Dagli «Annali tedeschi per la scienza e l'arte» (settembre 1842)
1. Due parole ancora a proposito di Bruno Bauer e la libertà
dì insegnamento accademica del dott. O. F. Gruppe
III. Dalla «Gazzetta renana» (maggio 1842 - marzo 1843)
1. Dibattiti sulla libertà di stampa e sulla pubblicazione delle discussioni alla Dieta
2. Il problema dell'accentramento
3. L'articolo di fondo del n. 179 della «Gazzetta di Colonia»
4. Il manifesto filosofico della scuola storica del diritto
5. Il comunismo e la «Gazzetta generale di Augusta»
6. Dibattiti sulla legge contro i furti di legna
7. L' «opposizione liberale» ad Hannover
8. Decreto ministeriale riguardante la stampa quotidiana
9. Sui dazi protettivi
10. Rapporti di Herwegh e Ruge coi «Liberi»
11. La tattica polemica della «Gazzetta di Augusta»
12. Il progetto di legge sul divorzio
13. Sui comitati degli ordini in Prussia
14. La proibizione della «Gazzetta generale di Lipsia»
15. Giustificazione di un corrispondente dalla Mosella
16. Per l'elezione dei deputati alla Dieta
17. La «Gazzetta del Reno e della Mosella» in veste di grande inquisitore
18. Note di redazione
19. Dichiarazione
IV. Dagli «Annali francotedeschi» {agosto 1843 - gennaio 1844)
1. Il problema ebraico
2. Critica della filosofia del diritto di Hegel. Introduzione
3. La «Gazzetta di Brema»
4. «Ridatemi la mia coperta!»
5. Comunismo alla tedesca.
6. Il comunismo dell'Ordine del Cigno ed il lusso di Corte
a Berlino
V. Dall'« Avanti!» (agosto 1844)
1. Glosse critiche in margine all'articolo «Il re di Prussia e
la riforma sociale: osservazioni di un Prussiano»
2. Commenti illustrativi all'ultima esercitazione stilistica del Gabinetto di Federico Guglielmo IV
VI. Dallo «Specchio della società» {estate - autunno 1845)
1. Peuchet: del suicidio
VII. Appendice: Scritti giovanili
1. Temi d'esame per la licenza liceale [1835)
2. Poesie e altri scritti letterari giovanili {1837 - 1839)
3. Tesi di laurea: Differenze tra la filosofia naturale di Democrito e di Epicuro (1838 - 1841)
4. Lavori preparatori per una «Storia della filosofia epicurea,
stoica e scettica» (1838 - 1841)
5. Appunti degli anni 1839 - 43
6. Critica della filosofia del diritto di Hegel (1843)
7. Critica dell'economia politica, con un capitolo finale sulla
filosofia di Hegel
8. Appunti parigini (1844 - 1845)

Introduzione alla lettura

La trasformazione di Marx da giovane hegeliano di sinistra, che coltiva valori illuministici e liberaldemocratici contro il regime prussiano, retrivo e conservatore, in teorico del Comunismo, che combatterà intellettualmente e praticamente per tutta la vita al fine di sormontare il Capitalismo, avviene in pochi anni dal 1842 al 1845 ed è ancora oggi densa di mistero.

Il carattere di Marx, tendenzialmente oppositivo ed estremista, per quanto assoggettato ad una disciplina intellettuale rigorosissima, sicuramente ha avuto parte in tale trasformazione. Data l'epoca, però, caratterizzata in Germania, nell'impero austroungarico e in Russia, da regimi assolutistici, non c'era bisogno di arrivare al Comunismo per portare avanti, a rischio e a pericolo personale, una battaglia per la libertà.

Marx è stato espulso dalla Prussia per la sua attività giornalistica, sospettata di sobillare la popolazione contro il governo, quando ancora non aveva aderito al Comunismo. Ma quella attività ha avuto un grande ruolo nel portarlo sul terreno dell'economia – disciplina praticamente ignorata dai filosofi. E' stata in particolare la sua partecipazione ai dibattiti della Dieta renana a suggerirgli l'idea che dietro la contesa tra conservatori e liberali si celassero interessi diversi di tipo economico.

Nelle Conferenze ho dato grande valore alla Legge sui furti di legna. Ritengo infatti che la partecipazione di Marx come giornalista al Dibattito della Dieta renana su tale legge sia stata la matrice della conversione di Marx da filosofo “astratto” in economista attento ai processi reali del divenire storico. L'esplorazione delle opere giovanili di Marx conferma questa ipotesi.

Dal libro a cura di L. Firpo, ormai introvabile riporto la bella Prefazione e alcuni articoli a mio avviso di particolare interesse.

La scelta degli articoli segue il tragitto di Marx dall'originario orientamento liberal-democratico progressista al riconoscimento dell'importanza del Comunismo francese, che egli, confessa di conoscere poco, all'acuta percezione dei bisogni del proletariato e dei poveri, all'intuizione che la miseria sociale è il prodotto dell'organizzazione complessiva della società e della struttura in classi, e, infine, alla convinzione che i proletari potranno riscattarsi solo rivendicando attivamente i loro diritti, attraverso cioè la lotta organizzata.

Il mistero della trasformazione di cui parlavo all'inizio è nella sensibilità sociale, nel senso di giustizia di Marx e nella sua concezione dell'uomo come essere dotato di dignità. E' un orientamento antropologico, insomma, che porta Marx sul terreno dell'economia per scoprire le ragioni per cui lo Stato pur liberale non può realizzare il valore dell'uguaglianza a cui esso si ispira. Mutatis mutandis, le cose stanno ancora così.

PREFAZIONE

La lettura degli scritti giovanili di un pensatore, al di là dei concreti apporti speculativi delle pagine considerate, rappresenta pur sempre uno degli esercizi intellettuali più affascinanti. Per una sorta di trasposizione le parole assumono un duplice significato: quello aperto, testuale, e quello implicito in forma di anticipazione o presagio; si ha in sostanza la sensazione di percorrere un cammino ignoto, vario e sorprendente, che conduce tuttavia ad una meta ben conosciuta, e con compiacimento si misurano i passaggi più ardui, le svolte improvvise, le subitanee illuminazioni che dai confusi entusiasmi dell' adolescenza condussero alle posizioni definite della maturità.

Nel caso del Marx questo itinerario può dirsi fulmineo per rapidità e intensità, se tre anni bastano a racchiuderlo, dal primo articolo sulla libertà di stampa, del gennaio 1842, alle Tesi su Feuerbach, compiute ai primi del '45. Prima di questa gremita stagione non si hanno che le esperienze e i tentativi dell' adolescenza: i temi della licenza liceale, poche lettere, qualche embrionale componimento letterario, la tesi di laurea. Punto di partenza è il patriarcale ambiente di Treviri, quieta borgata di viticoltori; la vivace Renania, che vent'anni di annessione francese avevano ridestato da un vieto regime feudale a moderni istituti democratici e che la Restaurazione, col paternalismo assolutistico della Prussia, costringeva a intollerabili regressi; un ambiente famigliare di agiata borghesia, in cui si contrapponeva alla figura arida e gretta della madre la personalità formatrice del padre, uomo di fine sensibilità e cultura, educato al razionalismo illuministico e al culto della libertà. Di tali sentimenti è un eco nel più antico scritto del Marx, il tema di tedesco composto per la licenza liceale, in cui si esprimono aspirazioni confuse verso nobili idealità e slancio di sacrificio per il bene dei propri simili.

Il secondo tempo della formazione, dopo un anno di scapestratura goliardica a Bonn, ha per teatro l'università berlinese, che vide il definitivo allontanarsi del Marx dagli studi giuridici vagheggiati dal padre e il riconoscimento della sua vocazione genuina nella filosofia: gli scherzosi epigrammi per Hegel segnano il primo accostarsi del ventenne studente, tra intimorito e affascinato, a una dottrina ch'egli presto farà propria con adesione entusiasta. Gli anni berlinesi sono segnati dall'evoluzione del «Doktorclub», il circolo dei giovani hegeliani raccolti intorno a Bruno Bauer — ma presto anche la personalità di Marx vi farà spicco —, che si avviava a passare dall'ortodossia fedele alle teoriche del maestro a un radicalismo critico, religioso dapprima e quindi, sotto l'influsso del Ruge, anche politico. Nelle discussioni di quei giovani dottrinari l'hegelismo tende a dar voce alle aspirazioni liberali della borghesia tedesca, a uscire dal piano speculativo per farsi dottrina d'azione, leva ideale per smuovere la greve realtà politica della retriva Germania. Tuttavia gli interessi del Marx in seno all'hegelismo sono dapprima logici ed estetici, finché non sopravviene, a richiamarlo duramente alla considerazione della realtà politica, un duplice evento: la persecuzione accademica contro l'amico Bauer e l'aggravarsi della censura governativa sulla stampa, invano palliata dalle untuose esortazioni sovrane ai pubblicisti perché si dedichino a una critica «seria e moderata».

Il primo saggio politico del Marx, scritto nel gennaio del 1842 per gli «Annali tedeschi» del Ruge, rivela d'improvviso nel giornalista ventiquattrenne uno scrittore di piena maturità: il romanticismo d accatto delle poesie, il penoso umorismo a freddo del romanzo lasciano il posto subitamente a un linguaggio immaginoso, vibrante di contrapposizioni brusche, di vivi contrasti, talvolta incline a qualche scoperto artificio retorico, ma spesso smagliante e incisivo. Accade talora che l'abituale capovolgimento del soggetto nel predicato si ripeta con una frequenza troppo insistente, quasi che la prima applicazione del rovesciamento dialettico dell'hegelismo trovi il suo campo nella retorica; accade che l'argomentare appaia talvolta anche troppo sottile e capzioso; ma è indubbia l'implacabile vigoria di molte pagine, che smascherano i compromessi ipocriti dell'assolutismo, la falsa rispettabilità paternalistica della legislazione prussiana, fino a ridurre la tesi combattuta ad una finale posizione sintetica di insanabile contraddizione. Presto dalle colonne della «Gazzetta renana», organo della borghesia liberale, il precoce giornalista potrà scendere in campo aperto per le sue prime battaglie: il radicalismo della sinistra hegeliana, costretto dal timorato cattolicesimo dominante nella Renania ad attenuare gli assalti della propria critica religiosa, si getta con lui a viso aperto nella lotta politica nel nome di un ideale assoluto: la libertà. Per dieci mesi, dal maggio 1842 al marzo '43, Marx combatte giorno per giorno una coraggiosa, impari lotta contro i soffocanti apparati del reazionarismo prussiano, ammantati di unzione religiosa e di retorica nazionalistica, in nome della libertà, «aristocrazia eterna della natura umana» (p. 112), certo che «umanamente buono può essere soltanto ciò ch'è attuazione della libertà» (p. 101). Con acre ironia egli bersaglia i reazionari ottusi, i difensori ostinati dei residui privilegi feudali, i pavidi conformisti su cui ricade la responsabilità della «lenta evoluzione politica» (p. 125) della Germania, e rivendica con la libertà di pensiero, di parola, di associazione, di riunione, di stampa, la validità piena e l'imprescindibile urgenza degli istituti democratici, proclamando che la legge deve esprimere la volontà popolare (p. 247) e che la rappresentanza politica del popolo intero non è «una concessione ai deboli indifesi», ma «l'autocosciente vitalità della più alta forza» (p. 266).

L'impronta della sua formazione berlinese rimane in questo periodo affatto evidente: nel campo della critica religiosa ci manca purtroppo l'articolo sul conflitto tra l'arcivescovo di Colonia e il governo prussiano, che la censura distrusse, ma le due brevi difese di Feuerbach e di Bauer (pp. 5464) bastano a rivelarci la sua piena adesione al radicalismo critico, difeso vuoi contro l'ottuso conformismo di Gruppe, vuoi contro la parziale e irresoluta esegesi dissolvitrice di Strauss. Quanto all'impostazione filosofica del problema politico, è palese il perdurare degli schemi hegeliani , dai quali Marx non riesce in sulle prime a staccarsi, si che, seguendo il suo discorso polemico, par di assistere a tratti ad un curioso sdoppiamento dell'avversario, onde il governo prussiano, responsabile dell'arretrata situazione politica tedesca, si dissocia dall' astratto Stato prussiano, che rimane valido modello di un ideale assoluto: un significativo esempio di questa incertezza può leggersi alle pp. 25-45; si avverta tuttavia che, pochi giorni avanti, un dubbio ormai pungente si era affacciato all'animo di Marx, ed egli aveva scritto: «un vero Stato, un vero matrimonio, una vera amicizia sono indissolubili, ma nessuno Stato, nessun matrimonio, nessuna amicizia corrispondono interamente al loro concetto» (p. 246): egli è volto ormai a spiegare e a definire questa riconosciuta frattura fra ideale e realtà. La ricerca non tarda a risolversi nell'inevitabile distacco dagli amici berlinesi, i «Liberi» riuniti attorno al Bauer, che proclamavano essere sufficiente eliminare col vaglio della critica gli elementi irrazionali inclusi nel reale e avevano a lungo nutrito una ingenua fiducia nella perfettibilità dello Stato prussiano. Col loro conclamato ateismo, l'esteriorità d'una vita spregiudicata, il chiassoso disordine, il radicalismo politico spinto fino al repubblicanesimo, essi avevano finito coll'isterilirsi nell'intellettualismo, incapaci di applicare la tattica paziente della quotidiana battaglia contro la censura, convinti di poter annullare la realtà politica col solo impiego astratto della critica filosofica. Già nelle pagine della tesi di laurea Marx aveva riconosciuto come la filosofia critica, isolandosi dal mondo, si paralizzi nell'impotenza: nel novembre '42 egli denuncia sulla «Gazzetta renana» (p. 232) «il romanticismo politico», la «ricerca dello stravagante», la «millanteria», «la frivolezza, le movenze affettate, lo scimmiottare supinamente i clubs francesi», lo «scandalo e la sguaiatezza» dei suoi amici d'un tempo, quasi che con tanta durezza di linguaggio egli voglia tagliare dietro di sé tutti i ponti e procedere da solo per vie nuove.

Queste gli venivano additate fin dall'estate precedente dal circolo «Giovane Germania», che adunava in Colonia amministratori e collaboratori della «Gazzetta renana» per la discussione di problemi politico-sociali. In quei raduni Mevissen portava l'eco delle teorie sansimoniane, illustrava il malcontento degli operai inglesi, annunciava l'imminenza d'una rivoluzione economica; Hess vi criticava il liberalismo e la monarchia costituzionale francese, analizzava la natura dei conflitti di classe, additava nel comunismo la soluzione della crisi incombente. Quando un giornale concorrente, la «Gazzetta di Augusta», irrise quegli atteggiamenti, rimproverando ai ricchi proprietari della «Renana» di trastullarsi col comunismo e invitandoli a distribuire i loro averi agli operai, Marx prese la penna per replicare: si tratta palesemente per lui di un terreno mal noto, sul quale si muove con evidente disagio, ma quel che sorprende sin dalle prime battute è il senso di profonda serietà, l'impegno morale che egli pone nella questione: «dovremmo forse negare», egli afferma, «che il comunismo è un'importante questione contemporanea, solo perché non è una questione elegante, perché porta biancheria sporca e non olezza di acqua di rose?». E ancora: «Lo Stato deve realizzarsi nella classe lavoratrice. Se per il lavoratore la sua classe dev'essere lo Stato, se il lavoratore moderno... intende e può intendere lo Stato soltanto come la sfera comune a tutti i suoi concittadini, in qual modo allora vuole sintetizzare le sue idee, se non in uno Stato di lavoratori?» (p. 173). Con umile onestà Marx riconosce la propria impreparazione, sdegna di ricorrere alle «trovate superficiali del momento», sente che è necessario affrontare «uno studio lungo, assiduo e molto approfondito» delle teorie del socialismo, per giungere a una piena chiarificazione dottrinale: «agli esperimenti pratici)), egli proclama (p. 174), «sia pure esperimenti di massa, si può sempre rispondere col cannone, ma le idee che la nostra intelligenza ha acquisito vittoriosamente, che il nostro animo ha conquistato, alle quali l'intelletto ha forgiato la nostra coscienza, sono vincoli dai quali non ci si strappa senza lacerarsi il cuore, sono demoni che l'uomo può vincere soltanto sottomettendosi ad essi». Marx contraeva cosi con se stesso un serio impegno di lavoro e intuiva nel contempo il proprio imminente destino.

Nelle pagine della «Renana» non erano mancati anche in precedenza accenni alla situazione del proletariato, amare constatazioni dell'avvilente miseria operaia («il castoro è un muratore con la pelliccia e il muratore un castoro senza pelliccia», p. no), rivendicazioni di sapore sindacalistico («il salariato è più autorizzato del teologo a discutere se si debba o no lavorare nei giorni di festa», p. 122), un senso di istintiva fiducia nelle larghe masse escluse dalla vita politica e dal benessere economico («sappiamo che l'uomo da solo è debole, ma sappiamo anche che la totalità è forte», p. 113), che non rappresentano «una bruta massa inorganica» (p. 255), ma la realtà concreta in cui si esplica la vita dello Stato. Ben presto l'occasione chiamò Marx a un esame approfondito di specifiche questioni sociali, inducendolo ad analizzare i provvedimenti repressivi escogitati dalla sesta Dieta renana contro le asportazioni abusive di legna e ad assumere le difese di un anonimo corrispondente del giornale, che aveva sollevato le ire della censura per la sua obiettiva indagine sulla crescente miseria dei viticoltori della Mosella. Cinquanta e più anni dopo, scrivendo a R. Fischer il 15 aprile 1895, Federico Engels ricordava di aver «udito sempre da Marx, che proprio occupandosi della legge sul furto di legna e della situazione dei contadini della Mosella egli era passato dalla pura politica a questioni di carattere economico, e di qui al socialismo».

Nel primo caso egli si trovava di fronte a un tipico esempio di egoismo dei possidenti, i quali, forti della loro rappresentanza politica, avevano votato una legge che trasformava l'asportazione abusiva della legna caduta (riducibile all'esercizio di un diritto consuetudinario su antichi boschi comuni) in furto qualificato, punibile coi lavori forzati. «Se qualunque offesa alla proprietà», obietta Marx {p. 182), «senza distinzione, senza specificazioni, è furto, non sarebbe da dirsi furto ogni proprietà privata?». Questo negare ai poveri un loro antico diritto medievale non è per lui che un aspetto delle «usurpazioni arbitrarie delle classi privilegiate», che tendono a ridurre a «concessioni casuali» e finalmente a sopprimere i diritti dei diseredati (p. 188). Questi diritti originari insopprimibili Marx rivendica per la «povera gente» (p. 183), per quella classe «che, simile a un polipo, abbarbicato alla gleba, possiede solo le molte braccia per produrre i frutti della terra alle razze superiori, mentre per sé campa di polvere» (p. 186), quella classe, «che il diritto di occupazione esclude da tutte le altre proprietà e nella società borghese occupa lo stesso posto » della legna secca caduta nel bosco (pp. 188-189). Per questo interesse «di chi possiede la vita, la libertà, l'umanità, lo Stato, cioè di chi non possiede altro che se stesso» (p. 217) Marx si batte contro il gretto egoismo dei ricchi, contro le «classi privilegiate», che «nella legge hanno trovato non solo il riconoscimento del loro diritto razionale, ma sovente anche il riconoscimento delle proprie prepotenze irrazionali» (p. 187) e che della Dieta hanno fatto espressione del loro avido particolarismo (p. 223); la sua difesa si fonda ancora — è vero — su argomenti giuridici e morali più che economico-sociali, egli ha ancora fede nella razionalità dello Stato, cui l'avaro materialismo borghese ha teso un attentato con quella legge iniqua, ma ormai ha messo radici nella sua coscienza l'ipotesi pregnante d'una struttura politica determinata non già dalla ragione illuminata, ma dall'intrico degli interessi terreni.

Poco più tardi, nell'analizzare cause e rimedi della miseria d'un laborioso distretto agricolo, egli non trova solo calde parole di commiserazione e di protesta, col tono di chi «ascolta direttamente e frequentemente la voce imperiosa del bisogno in mezzo al popolo» (p. 294), ma giunge a una considerazione che è forse il primo delinearsi della concezione materialistica della storia: «Nell'esame delle condizioni politiche», egli dichiara, «si è cercato con troppa leggerezza di non tener conto della effettiva natura delle situazioni e di far tutto dipendere dalla volontà delle persone agenti. Ma si danno situazioni, che determinano tanto le azioni dei privati quanto delle singole autorità, eppure sono indipendenti da esse quanto il sistema respiratorio» (p. 300). È evidente qui l'influsso del Feuerbach, cui Marx si è ormai accostato con slancio, condividendo la sua tesi centrale: non dipendere cioè l'evoluzione storica, come Hegel proclamava, dall'evoluzione dello spirito, ed essere invece i fatti, indipendentemente dalla volontà individuale, che provocano l'evoluzione della filosofia e del diritto, determinando in ultima istanza il moto della storia. Accertata la sterilità della critica intellettualistica e il fallace astrattismo dello Stato razionale e morale di Hegel, soffocata con la soppressione della «Gazzetta renana», nel marzo 1843, la libera tribuna da cui aveva sperato di bandire le necessarie riforme politico-giuridiche, Marx sente ormai l' insufficenza dei propri schemi filosofici, trapassa rapidamente, attraverso l'umanesimo feuerbachiano, dall'idealismo hegeliano al materialismo; non rassegnato all'impotenza cui la reazione costringe il liberalismo tedesco, si getta con slancio verso un nuovo radicalismo, quello del comunismo e della rivoluzione di massa, all' estremo opposto dei suoi antichi compagni berlinesi, rivendicatori della gelosa supremazia della coscienza soggettiva e avviati ormai alle soluzioni dell'individualismo anarchico.

La successiva evoluzione del Marx, volto apertamente con l'Hess, col Ruge, coll'Engels a un concreto realismo politico, è frammentariamente documentata nelle pagine che seguono, sia perché dopo la primavera del '43 si aperse per lui un periodo di intenso raccoglimento studioso, fecondo più di ricerche e di meditazioni che non di scritti, sia perché i due testi capitali di quel periodo, la Critica alla filosofìa del diritto di Hegel del marzosettembre 1843 e il Manoscritto economicofilosofico del 1844, rimasero inediti fino ai giorni nostri e non sono accolti, per ragioni concettuali e pratiche, nella presente silloge di articoli e saggi politici giovanili.

Basti qui ricordare come nel primo scritto, salvando dell'hegelismo solo il dinamico principio dialettico, Marx abbia demolito l'edificio politico-giuridico del maestro, ravvisando nello Stato non già l'espressione più alta della volontà razionale e della libertà, una pura creazione spirituale, ma una meccanica conseguenza delle strutture sociali, e giungendo a concludere che, essendo la proprietà privata l'essenza della società borghese, l'essenza dello Stato borghese è la tutela statica di quella proprietà. Siamo, come si vede, alle soglie del comunismo.

Affiancandosi al Ruge nella direzione degli «Annali tedeschi», lasciata la Germania sotto l'accusa di ribellione e tradimento e presa coraggiosamente la via dell'esilio, Marx pubblica a Parigi, nel febbraio 1844, l'Introduzione alla sua critica dell'hegelismo, nella quale l'impronta comunistica è ormai evidente, anche se il proletariato — come bene osserva il Comu — non è ancora analizzato in se stesso, ma come semplice idea-forza, come strumento materiale, quasi un «braccio secolare» della filosofia. Ancora inesperto di concreti problemi economico-sociali, Marx vede nella rivoluzione proletaria lo scatenarsi di una forza della natura, destinata a realizzare le anticipazioni filosofiche: «anche la teoria diventa potenza materiale non appena si impadronisce delle masse» (p. 404). Ma nello stesso fascicolo degli «Annali» l'articolo polemico contro il Bauer sulla questione ebraica, in cui sono indagati acutamente aspetti e motivi della lotta tra borghesia e proletariato, segna un passo innanzi nell'uscita della filosofia dal suo isolamento dottrinale verso la concreta azione sociale in cui Marx la condurrà a dissolversi. Il concetto feuerbachiano dell'alienazione dell'uomo nella sfera religiosa è trasferito qui alla sfera economica, nella quale la società borghese ha costruito i suoi idoli d'oro; inutile dunque parlare, come fa Bauer, di emancipazione politica dell'Ebreo, se non si realizza ad un tempo Vemancipazione totale dell'uomo, non religiosa e politica soltanto, ma economica, cioè radicale; invano l'Ebreo aspira alla libertà, se la sua stessa esistenza è il simbolo concreto dell'alienazione umana, il suo mondo il traffico, il suo ideale l'accumulata ricchezza. Nello Stato contemporaneo non si è dunque realizzata la ragione, ma il «materialismo della società borghese», e l'emancipazione dal giogo politico non è stata altro che «l'emancipazione dai vincoli che tenevano avvinto lo spirito egoistico della società borghese» (p. 383), spirito maligno, che ora imperversa senza freno. Avrà dunque fine l'alienazione umana «non appena la società riesca a sopprimere l'essenza empirica dell'ebraismo, il mercanteggiare e i suoi presupposti» (p. 393), non appena la società borghese si sarà trasformata in una società comunista.

Non passano che pochi mesi, e già il Marx è andato oltre, segnando al cadere del luglio 1844 il suo duro distacco dal Ruge con le Glosse critiche pubblicate sull'n Avanti!». Analizzando pochi giorni prima sullo stesso giornale i moti di rivolta dei tessitori slesiani esasperati dalla miseria, il Ruge aveva dichiarato che, data l'arretratezza politica della Germania, quel movimento non usciva dall'ambito d'un tumulto locale, tosto facilmente soffocato, e che non v'era da attendersi che il governo aprisse gli occhi e ascoltasse quelle voci: lo squallido pauperismo era considerato a Berlino nuli'altro che inevitabile calamità naturale, che solo l'impulso caritatevole dei «cuori cristiani» poteva mitigare con opere di beneficenza. Ruge concludeva pertanto condannando i prematuri moti sociali, votati al fallimento fino al giorno in cui un'adeguata preparazione e organizzazione politica non avesse sollevato quegli oscuri tumulti sul piano di una consapevolezza, capace appunto di fornire «un'anima politica» al corpo ottuso della rivoluzione sociale.

Con linguaggio aspro, sferzante, Marx capovolge questa tesi di sfiducia, rivendica con fierezza la maturità ormai piena del proletariato tedesco e proclama che l'impulso di ribellione che lo sommuove non è rivolto contro lo Stato, il re, la Prussia, non ha nulla di politico, perché il popolo non ha mai potuto neppure affacciarsi sulla scena politica, ed è invece moto antiborghese, economico, moto schiettamente sociale e come tale perfettamente consapevole. Di fronte a questa miseria che si ribella nulla può la politica, lo Stato è paralizzato: «Di fronte alle conseguenze derivanti dalla natura insociale di questa vita borghese, di questa proprietà privata, di questo commercio, di quest'industria, di questo mutuo saccheggio delle diverse sfere della borghesia, veramente l'impotenza è la legge naturale dell'amministrazione. Infatti questo abisso, questa infamia, questa schiavitù della società borghese, è il fondamento naturale su cui riposa lo Stato moderno, come la società borghese della schiavitù fu la base naturale su cui riposava lo Stato antico» (p. 436).

Non il proprio isolamento dalla vita politica dovrà spezzare il lavoratore tedesco, ma un ben più totale isolamento, «senza confronto più universale, più insopportabile, più terribile, più contraddittorio», poiché il bene da cui esso è separato «è la vita stessa, la vita fìsica e spirituale, l'umana moralità, l'umana attività, l'umano godimento, l'umanità insomma» (p. 444). Una rivoluzione sociale «è una protesta dell'uomo contro la vita inumana» (p. 445), è dunque un fatto più radicale e totale di una rivoluzione politica, anche se in sé la assume per la necessità di rovesciare le vecchie forme di governo: con voce alta Marx proclama la sua piena fede nella matura forza del proletariato, che muove ormai al proprio riscatto attraverso il socialismo e la rivoluzione.

Staccatosi con si duro commiato anche da Ruge, Marx è ormai solo, svincolato da tutti gli impacci e le suggestioni d'ambiente e di scuola, libero di procedere per la sua via. Nelle febbrili veglie del 1844 percorre i testi degli economisti classici, discute con Proudhon e con Engels, critica il rozzo comunismo materialistico, approfondisce l'analisi del pensiero feuerbachiano, stende il Manoscritto economico-filosofico, la Sacra famiglia, le Tesi su Feuerbach; ai primi dell'anno seguente, espulso dalla Francia e rifugiato a Bruxelles, sarà in grado di esporre, ridotte ormai a chiarezza concettuale assoluta, le due enunciazioni fondamentali della sua precoce maturità: il materialismo storico e la filosofìa della prassi.

Dalla “Gazzetta Renana” (maggio 1842-marzo 1843)
DIBATTITI SULLA LIBERTÀ DI STAMPA E SULLA PUBBLICAZIONE DELLE DISCUSSIONI ALLA DIETA
(«Gazzetta renana», 5 maggio 1842, n. 125, supplemento).

Tra lo stupore di tutti gli scrittori e i lettori tedeschi, una bella mattina della primavera berlinese la «Gazzetta di Stato» prussiana ha pubblicato le sue confessioni. [Si riferisce ai seguenti articoli della «Allgemeine Preussische Staatszeitung»: Gli effetti delle disposizioni sulla censura del 24 dicembre 1841 (n. 75, del 16 marzo 1842); La discussione sugli affari interni, sua estensione e limiti naturali (n. 78, del 19 marzo 1842); Stampa interna e statistica interna (n. 86, del 26 marzo 1842).]. Sceglie però una forma piacevole, diplomatica, non già la forma sbrigativa della confessione. Vuole aver l'aria di presentare ai colleghi uno specchio perché si riconoscano; mentre con accento mistico parla di giornali prussiani in genere, in realtà si riferisce al giornale prussiano par excellence, cioè a se stessa. Questo fatto dà adito a ogni sorta di spiegazioni. Cesare parlò di sé in terza persona: perché dunque la «Gazzetta di Stato» prussiana non dovrebbe parlare di terze persone alludendo a sé? I bambini parlando di sé non dicono «io», ma «Giorgio», ecc. Perché dunque la «Gazzetta di Stato» prussiana non dovrebbe avere il diritto di usare «vossiano» o «speneriano» [Allude a Johann Heinrich Voss (1751-1826), letterato e filologo, che con le sue superbe traduzioni dei classici influenzò profondamente la cultura tedesca.ed a Philip Jakob Spener (1635-1705), il dottissimo teologo alsaziano che diede l'avvio al pietismo. Qui Marx irride l'uso della «Gazzetta di Stato» di avallare con nomi e citazioni illustri le proprie idee retrive) o altri nomi sacri, anziché dire «io»?

Le nuove istruzioni per la censura erano già apparse. I nostri giornali credettero allora di dover adottare l'apparenza e la forma convenzionale della libertà. Anche la «Gazzetta di Stato» fu costretta a svegliarsi e ad assumere qualche atteggiamento liberale, o almeno indipendente. Ma condizione necessaria della libertà è di saper conoscere se stessi, e l'autocoscienza non è possibile senza autoconfessione. Si tenga dunque ben presente che la «Gazzetta di Stato» prussiana ha scritto una confessione; non si dimentichi che abbiamo qui il primo ridestarsi a coscienza della neonata stampa semi-ufficiale, e tutti gli enigmi saranno risolti. Ci si persuaderà che detto giornale «ha profferito inconsciamente delle grandi parole» e solo si rimarrà incerti se ammirare di più l'incoscienza della grandezza o la grandezza dell'incoscienza.

Da poco le istruzioni per la stampa erano apparse, da poco la « Gazzetta di Stato» s'era riavuta da questo colpo, ed eccola uscire nella domanda: — A che vi ha giovato, o giornali prussiani, questa maggior libertà dalla censura? — E voleva dire senza dubbio: — A che mi hanno giovato tutti questi anni di stretta osservanza della censura? Che cosa sono diventata, nonostante la più scrupolosa ed assoluta sorveglianza e tutela? E che sarà di me ora? Non ho imparato a camminare, e un pubblico curioso e beffardo aspetta ora di vedere un paralitico fare scambietti. E sarà lo stesso anche per voi, fratelli miei! Riconosciamo dunque al cospetto del popolo prussiano la nostra debolezza, cercando però di essere diplomatici nella nostra confessione. Non spiattelliamogli senz'altro la nostra dappochezza. Diciamogli invece che, se i giornali prussiani sono privi d'interesse per il popolo, altrettanto lo è lo Stato prussiano per i giornali.

L'ardita domanda della «Gazzetta di Stato», le ancor più ardite risposte, sono un semplice preludio al suo ridestarsi, una fugace allusione al materiale ch'essa tratterà. Si ridesta a coscienza, esprime il suo spirito: ascoltate l'Epimenide! [Epimenide, vate e sacerdote cretese del vii secolo a. C, autore di una teogonia di cui ci restano esigui frammenti, è ricordato da Platone e da Diogene Laerzio. S. Paolo (Lettera a Tito, I, 12) ne rammenta le aspre invettive contro i suoi viziosi concittadini]. Com'è noto, la prima attività teorica dell'intelletto, quando ancora ondeggia tra istinto e pensiero, è quella di contare. Contare è il primo libero atto teorico dell'intelletto infantile. — Orsù contiamo! — è il grido della «Gazzetta di Stato» prussiana ai confratelli: — La statistica è la prima scienza politica! Conosco la testa d'un uomo, se so quanti capelli produce. Fa agli altri ciò che vuoi sia fatto a te. E come si potrebbe onorare meglio noi, me stessa, «Gazzetta di Stato» prussiana, se non con statistiche? E la statistica dimostrerà non solo che io compaio con la stessa frequenza d'un giornale inglese o francese, ma anche che vengo letta meno di qualunque altro giornale del mondo civile. Se si eccettuano gli impiegati, che devono interessarsi a me anche loro malgrado, se si eccettuano i locali pubblici, nei quali un organo semi-ufficiale non può mancare, chi mi legge, io domando, chi? Calcolate quanto vengo a costare, calcolate quanto rendo, e dovrete confessare che non è ufficio lucroso quello di dire inconsciamente cose di grande importanza. Vedete come la statistica è schiacciante, come il contare rende superflue mille altre operazioni spirituali! Contate dunque! Le tabelle di conti istruiscono il pubblico, senza peraltro eccitare le sue passioni. E il nostro giornale, col peso delle sue statistiche, non solo si affianca ai Cinesi, non solo al primo misuratore del mondo, Pitagora, ma mostra d'essere stato influenzato dai grandi filosofi della natura dei tempi recenti, che volevano rappresentare con serie di numeri le differenze tra gli animali, ecc. Cosi la «Gazzetta di Stato» prussiana non manca di moderni fondamenti filosofici, anche se sembra completamente empirica. È assoluta. Non si ferma al numero, alla grandezza temporale; spinge ancor oltre la sua accettazione del principio quantitativo, esprime anche la determinazione della grandezza spaziale. Lo spazio è la prima cosa la cui grandezza si imponga al bambino, è la prima grandezza del mondo che il bambino apprende. Questi ritiene che un uomo di grossa corporatura sia un grand'uomo; a sua volta la « Gazzetta di Stato», nella sua semplicità infantile, ci viene a dire che i libri grossi senza confronto sono migliori dei sottili giornali, a volte addirittura semplici fogli, che ci forniscono ogni giorno una sola pagina di stampa. Voi Tedeschi potreste bene esprimervi più particolareggiatamente! Scrivete pure libri ponderosi sulle istituzioni pubbliche, libri eruditissimi che nessuno legge tranne il signor autore e il signor recensore; ma riflettete che i vostri giornali non sono libri. Pensate quante pagine contiene un'opera fondamentale in tre volumi! Non cercate quindi nei giornali, che intendono fornirvi solo tabelle statistiche, lo spirito del giorno e del tempo; cercatelo invece nei libri, la cui estensione è già garanzia della loro profondità. Pensate, miei cari ragazzi, che si tratta qui di cose «dotte», andate alla scuola dei grossi libri, e allora imparerete ad amare noi giornali per il nostro formato arioso e per la nostra mondana leggerezza, che sono un vero ristoro dopo quei pesanti tomi.

Ma certo! Ma certo! L'epoca nostra non ha più quel senso reale della grandezza, che ammiriamo nel Medioevo. Considerate i nostri esigui trattatelli pietistici, i nostri sistemi filosofici in ottavo piccolo, e volgete poi lo sguardo ai venti giganteschi in folio di Duns Scoto [L'edizione corrente delle opere di Giovanni Duns Scoto (1274-1308), curata a Lione da L. Wadding nel 1639, è in dodici volumi in folio]. Non già che vi occorra leggerli: già la loro straordinaria vista vi turba il cuore, vi sconvolge la mente come un edificio gotico. Quelle gigantesche opere naturali agiscono materialmente sullo spirito: esso si sente oppresso sotto il loro peso, e questo senso di oppressione è il principio della venerazione. Non voi possedete i libri, essi vi posseggono. Per loro siete un accidente, e allo stesso modo, pensa la «Gazzetta di Stato» prussiana, il popolo dovrebbe essere un accidente rispetto alla sua letteratura politica. Cosi detto giornale non è privo di fondamenti storici che risalgono alla solida età del Medioevo, anche se parla in tono nettamente moderno.

Ma se il pensare teorico del bambino è quantitativo, al contrario il suo giudizio, come il suo pensare pratico, è innanzitutto pratico e sensorio. Il carattere sensibile è il primo vincolo che lo lega al mondo. I sensi pratici, e innanzitutto bocca e naso, sono i primi organi con i quali il bambino giudica il mondo. L'infantile «Gazzetta di Stato» prussiana giudica perciò a lume di naso il valore dei giornali, e quindi il valore suo proprio. Mentre un pensatore greco riteneva che le anime asciutte fossero le migliori di tutte, a sua volta essa ritiene «buoni» giornali quelli «profumati». Non si stanca di lodare il «profumo letterario» della «Gazzetta generale di Augusta» e del «Journal des débats». Rara, preziosa ingenuità! Grande, grandissimo Pompeo!

Dopo averci permesso, con si originali e meritorie asserzioni, di penetrare a fondo il suo stato d'animo, riassume infine la sua concezione dello Stato in un'ampia riflessione, il cui succo è la geniale scoperta: «che in Prussia l'amministrazione e tutto l'organismo dello Stato sono separati dallo spirito politico; per questo non poterono avere interesse politico né per il popolo né per i giornali».

Dunque, secondo l'opinione della prussiana «Gazzetta di Stato», l'amministrazione pubblica in Prussia non avrebbe spirito politico, ovvero lo spirito politico non avrebbe amministrazione pubblica. Com'è indelicato da parte sua argomentare ciò che il più acerrimo nemico non potrebbe rimproverare con più malignità: che cioè la vita reale dello Stato è priva di spirito politico, e che a sua volta lo spirito politico non risiede nello Stato reale!

Ma non dimentichiamo che il suo punto di vista è infantile e sensorio. Essa ci dice che nella ferrovia non dobbiamo vedere altro che ferro e via, nei trattati commerciali altro che zucchero e caffè, nelle concerie altro che cuoio. Certamente il bambino si ferma alla percezione sensibile, vede solo la cosa singola e gli sfuggono gli invisibili nessi che collegano queste singole cose con la generalità e che, come dovunque, cosi anche nello Stato fanno della parte materiale un membro animato del tutto spirituale. Il bimbo crede che il sole giri intorno alla terra, che il generale giri intorno al particolare. Esso perciò non crede allo spirito, ma agli spiriti.

Cosi la «Gazzetta di Stato» prussiana ritiene che lo spirito politico sia un fantasma francese e crede di poterlo esorcizzare gettandogli sulla testa cuoio, zucchero, baionette e cifre. Ma, potrebbe qui interloquire il lettore, dovevamo discutere dei dibattiti alla Dieta renana e invece ci portate davanti l'innocente angioletto, la senile neonata della stampa, la «Gazzetta di Stato» prussiana, e ricantate le vecchie e sagge ninne-nanne con le quali essa cerca ancor sempre di cullare se stessa e i confratelli in un comodo letargo. Ma ben dice Schiller [Cfr. F. Schiller, Die Worte des Glaubens (Le parole della fede), w. 17-18; si tratta di una lirica anonima del 1797, che può anche attribuirsi a Korner]:

E ciò che la mente dei saggi non vede occupa talora l'anima d'un fanciullo .

La «Gazzetta di Stato» prussiana in tutta innocenza ci ha ricordato che in Prussia, come in Inghilterra, abbiamo Diete provinciali, i cui dibattiti dovrebbero venir discussi dalla stampa quotidiana, se questa ne fosse in grado; essa ritiene infatti, nella sua grande coscienza classica, che ai giornali prussiani manchi non l'autorizzazione, ma la capacità. Conveniamo con lei nel riconoscere nel secondo punto una sua tipica caratteristica, ma nello stesso tempo, senza ulteriori spiegazioni sulla sua potenza, ci prendiamo la libertà di realizzare l'idea ch'essa concepi in perfetta innocenza.

La pubblicazione dei dibattiti delle Diete provinciali diventerà una realtà solo quando sarà trattata come un fatto pubblico, cioè come un oggetto della stampa [Si era avuta solo la pubblicazione dei Sitzungs-Protokolle des sechsten Rheinischen Provinzial-Landtags. Als Manuskript gedruckt (Protocolli delle sedute della sesta Dieta provinciale renana), Koblenz, Kehr, 1841]. L'ultima Dieta renana è quella che più c'interessa. Iniziamo con i suoi «Dibattiti sulla libertà di stampa»], avvertendo di passaggio che, mentre in questo problema la nostra obbiettiva opinione personale interverrà a tratti a dir la sua, negli articoli seguenti invece accompagneremo e riporteremo più da osservatori storici il corso delle discussioni. La natura stessa delle discussioni determina questo diverso comportamento. Infatti in tutti gli altri dibattiti troviamo che le diverse opinioni alle Diete provinciali sono su di un medesimo piano; nella questione della stampa invece gli avversari di una stampa libera godono di qualche vantaggio. A parte le frasi fatte e i luoghi comuni che sono nell'aria, troviamo in questi avversari un'affezione patologica, una prevenzione appassionata, che dà loro una posizione ben reale e non immaginaria nei riguardi della stampa; mentre invece nel complesso i difensori di questa alla Dieta non hanno alcun rapporto reale con la loro protetta. Non hanno mai imparato a conoscere la libertà di stampa come un bisogno. Essa è per loro una questione del cervello, nella quale il cuore non ha parte alcuna. È una pianta «esotica», e il loro rapporto verso di lei è quello d'una semplice « inclinazione». Accade perciò che ad un ragionamento troppo vago e generico si contrappongono i «buoni motivi» particolari degli avversari, e la più meschina delle idee può ritenersi importante, almeno finché non viene confutata.

Goethe disse una volta, che a un pittore riescono bene soltanto quelle bellezze femminili il cui tipo egli ha amato almeno in un essere vivente [Goethe, Verschiedenes iiber Kunst (Varietà sull'arte), cap. II (citato a memoria)]. Anche la libertà di stampa è una bellezza — sebbene non femminile — che dobbiamo aver amato per poterla difendere. L'esistenza di ciò che amo è per me necessaria, indi-spensabile: senza di essa la mia natura non può attuarsi in modo pieno, soddisfatto e compiuto. Quei difensori della libera stampa sembravano soddisfatti, sebbene la libertà di stampa non fosse affatto presente alla Dieta.

(«Gazzetta renana», 8 maggio 1842, n. 128, supplemento).

L'opposizione liberale ci testimonia il livello di un'assemblea politica, come l'opposizione in genere quello di una società. Una epoca nella quale dubitare dei fantasmi è ardimento filosofico, nella quale ribellarsi ai processi contro le streghe è paradosso, un'epoca simile è appunto l'epoca legittima dei fantasmi e dei processi contro le streghe. Un paese che, come l'antica Atene, considera i piaggiatori, i parassiti e gli adulatori come eccezioni alla ragione popolare e come buffoni, è il paese dell'indipendenza e dell'autonomia. Un popolo invece che, come tutti i popoli dei tempi antichi, per pensare ed esprimere il "diritto e la verità ha bisogno dei buffoni di Corte, può essere solo un popolo di dipendenti e di schiavi. Una Dieta nella quale l'opposizione assicura che la libertà del volere appartiene alla natura stessa dell'uomo, perlomeno non è la Dieta della libertà del volere. L'eccezione conferma la regola. L'opposizione liberale ci mostra che cos'è diventata la posizione liberale, fino a che punto la libertà s'è fatta uomo. Perciò, se abbiamo osservato che i difensori della libertà di stampa alla Dieta non furono affatto all'altezza del loro compito, tutto ciò vale ancor più per l'intera Dieta.

Pertanto intraprendiamo su questo punto l'esposizione delle discussioni provinciali, non solo per un interesse particolare verso la libertà di stampa, ma altresì per un interesse generale verso la Dieta. In nessun luogo potremmo trovar espresso con più chiarezza, decisione e completezza lo spirito peculiare degli ordini [Stände: si tratta dei ceti sociali distinti cui era riconosciuta una parziale rappresentanza politica] provinciali, che nei dibattiti sulla stampa. Ciò vale in particolare per l'opposizione contro la libertà di stampa, poiché in genere nell'opposizione contro una libertà universale lo spirito di una sfera ben precisa, l'interesse personale di un ceto particolare, la parzialità naturale del carattere si manifestano nella maniera più aspra e netta e quasi mostrano i denti.

I dibattiti ci mostrano la polemica contro la libertà di stampa dell'ordine dei principi, dell'ordine dei nobili e degli ordini cittadini, cosicché non è l'individuo ma l'ordine a polemizzare. Quale specchio potrebbe dunque riflettere più fedelmente di questi dibattiti sulla stampa l'intima natura della Dieta? Cominciamo dunque dagli oppositori della libera stampa, e cioè, come si conviene, da un oratore della rappresentanza dei principi. Non approfondiamo minuziosamente la prima parte del suo retorico discorso, vale a dire che «libertà di stampa e censura sono ambedue una calamità», ecc., perché tale tema venne trattato da un altro oratore con maggior fondatezza; ma non possiamo passare sotto silenzio le sue singolari argomentazioni. «La censura» sarebbe «un male minore che non il disordine della stampa». « Questa persuasione si rafforzò a poco a poco nella nostra Germania» (ci si domanda a quale parte della Germania voglia alludere l'oratore), «tanto che anche da parte della Confederazione vennero emanate al riguardo delle leggi, che anche la Prussia ha sancito, sottomettendovisi». La Dieta discute sul modo di liberare la stampa dai suoi vincoli. Questi stessi vincoli, esclama l'oratore, queste catene tra le quali la stampa è stretta, dimostrano com'essa non sia destinata alla libertà. L'essere incatenata testimonia contro la sua natura. Le leggi contro la libertà di stampa confutano la libertà della stampa.

Si tratta di un argomento diplomatico contro ogni riforma, che esprime nel modo più risoluto la teoria classica di un partito determinato. Ogni limite posto alla libertà è una prova effettiva e irrefutabile che un tempo i potenti avevano la convinzione di dover limitare la libertà, e questa convinzione serve da norma che il sole si muoveva intorno alla terra. Venne forse confutato Galileo? Cosi anche nella nostra Germania s'era costituita a legge la convinzione ufficiale, condivisa da alcuni principi, che l'esser soggetti alla servitù della gleba fosse una particolarità di alcuni individui [ Nell'originale si ha un intraducibile giuoco di parole fra Leibeigenschaft (servitù della gleba) ed Eigenschaft... Leiber (peculiarità dei corpi)], che la verità venisse accertata nella maniera più esatta per mezzo di un'operazione chirurgica — alludiamo alla tortura —, che le fiamme della terra dovessero anticipare all'eretico le fiamme dell'Inferno. La schiavitù legale della gleba non era forse una prova reale contro le ubbie razionali secondo le quali il corpo umano non dev'essere oggetto di mercato e di possesso? La tortura non confutava forse la stolta teoria secondo la quale il salasso non può far zampillare la verità, lo squartamento non rende sinceri, gli spasimi non sono confessioni? Allo stesso modo, argomenta il nostro oratore, l'esistenza della censura confuta la libertà di stampa, il che è un argomento di fatto, cioè una verità pragmatica: come dire che la topografìa può misurare la sua grandezza allorché, davanti a determinate barriere, cessa di essere reale e vera.

«Né a parole né con scritti», cosi prosegue l'oratore a catechizzare, « né in questa nostra provincia renana né in tutta la Germania, ogni vero e più nobile sviluppo spirituale è posto in ceppi». Il nobile smalto di verità della nostra stampa è un dono della censura.

Innanzitutto possiamo ritorcere contro di lui la sua prima argomentazione; anziché un fondamento razionale, eccogli un decreto. Nelle nuove istruzioni per la censura in Prussia viene proclamato ufficialmente che la stampa dovette sottostare finora a limitazioni eccessive e che essa deve ancora acquistare un vero contenuto nazionale [Cfr. sopra le pp. 28 e 43]. L'oratore vede dunque che nella nostra Germania le opinioni sono discordi. Ma quale illogico paradosso alle convinzioni posteriori. Un tempo era stato imposto di credere voler considerare la censura come il fondamento della nostra stampa migliore! Il più illustre oratore della Rivoluzione francese, la cui voix toujours tonnante risuona ancora al tempo nostro, il leone il cui ruggito avremmo dovuto udire noi stessi per potergli gridare col popolo: «Ben ruggito, leone!», Mirabeau, formò la sua cultura in prigione. Le prigioni sono forse le scuole superiori dell'oratoria?

E pregiudizio davvero da principi il ritenere, visto che nonostante tutte le barriere spirituali lo spirito tedesco è diventato un commerciante all'ingrosso, che proprio cordoni e barriere l'abbiano fatto diventar tale. Lo sviluppo spirituale della Germania è avvenuto non per merito, bensì a dispetto della censura. Poiché la stampa tra le strette della censura s'è rattrappita e immiserita, si vuol fare di ciò un argomento contro la libera stampa, sebbene in realtà non lo sia che contro la stampa non libera. Se nonostante la censura la stampa è riuscita a mantenere la sua natura più peculiare, ciò viene attribuito alla censura, sebbene sia un argomento a favore dello spirito e non delle catene.

Del resto si tratta del «suo più vero e nobile sviluppo».

Nell'epoca della più stretta osservanza della censura, dal 1819 al 1830 (più tardi la censura, se non nella «nostra Germania», almeno in gran parte della Germania venne censurata dalle circostanze del tempo e dalle strane convinzioni che s'erano andate formando), la nostra letteratura visse la sua «età del " Giornale della sera " », che possiamo chiamare «vera e nobile e spirituale e ricca di sviluppo» con lo stesso diritto con cui il redattore del «Giornale della sera», un «Winkler» nato [Giuoca sul significato corrente (nascosto, oscuro) del cognome del redattore: si tratta del giornalista Karl Gottlieb Theodor Winkler (1775-1856). che si firmava «Hell» (chiaro)] si denominò umoristicamente «Chiaro», sebbene non possiamo vantare a suo favore neppure la chiarezza delle paludi a mezzanotte. Questo sciocco che si firma « Chiaro» è il prototipo della letteratura di allora, e quell'era di quaresima convincerà i posteri che, se pochi Santi poterono digiunare per quaranta giorni, l'intera Germania, per nulla santa, per oltre vent'anni seppe vivere senza consumare né produrre cibo spirituale. La stampa era diventata codarda, e si è in dubbio se la mancanza d'intelligenza superasse quella di carattere, se la mancanza di forma superasse quella di contenuto, o viceversa. Per la Germania la critica raggiungerebbe la sua mèta più alta, se riuscisse a dimostrare che quel periodo non è mai esistito. L'unico campo letterario nel quale pulsasse ancora uno spirito vitale, cioè il campo della filosofia, cessò di esprimersi in tedesco, perché la lingua tedesca aveva cessato di essere il linguaggio del pensiero. Lo spirito si espresse allora con parole misteriose e incomprensibili, perché le parole comprensibili non potevano più venir intese. Quanto poi alla letteratura renana — e senza dubbio quest'esempio sta abbastanza a cuore a un deputato renano — si sarebbe potuto percorrere con una lanterna di Diogene tutti e cinque i circondari della provincia senza mai incontrare «l'uomo». Non riteniamo tuttavia che questo sia un difetto della Renania, ma al contrario una prova del suo senso pratico-politico. La Renania può produrre una «stampa libera», ma per una stampa «soggetta» le mancano e abilità e illusioni. Il periodo letterario testé trascorso, e che potremmo definire «periodo letterario di stretta censura», è dunque la prova evidente e storica che certamente la censura ha pregiudicato in maniera insanabile e ingiustificabile lo sviluppo dello spirito tedesco, e che quindi non è assolutamente destinata a fungere da magistra bonarum artium, come affermava l'oratore. O forse per «stampa vera e più nobile» si intende una stampa che porta con dignità le sue catene?

Se l'oratore si permette di ricorrere al noto proverbio del dito piccolo e della mano intera, noi a nostra volta ci prendiamo la contro-libertà di chiedere se non sarebbe assai più conveniente per la dignità di un regime concedere allo spirito del suo popolo' non una sola, ma ambedue le mani. Come si è visto, il nostro oratore ha messo da parte con elegante trascuratezza e diplomatica sobrietà la questione dei rapporti tra censura e sviluppo spirituale. Ancor più decisamente egli rappresenta il lato negativo della sua casta nell'attacco contro la formazione storica della libertà di stampa.

Quanto all'esistenza della libertà di stampa presso altri popoli, « l'Inghilterra non può fornire alcun termine di confronto, perché in essa già da secoli nel corso della storia si sono venute formando condizioni quali in nessun altro paese potrebbero venir provocate con l'applicazione di teorie, ma che invece trovarono il loro fondamento nella posizione particolare dell'Inghilterra». «In Olanda la libertà di stampa non potè preservare dall'opprimente debito nazionale, ed ha cooperato moltissimo ad introdurre una rivoluzione, che ebbe come conseguenza la rovina di metà del paese». Trascuriamo la Francia per ritornarvi in seguito. «Nella Svizzera infine si dovrebbe trovare senza dubbio un Eldorado, reso felice dalla libertà di stampa. Non si può pensare senza disgusto ai rozzi dissidi di partito trattati nei giornali locali, nei quali i partiti, giusta l'esatta percezione della loro scarsa dignità umana, per distinguersi usano nomi tratti da parti del corpo degli animali, chiamandosi uomini dalle corna e uomini dalle unghie, e con banali ingiurie si rendono spregevoli a tutti i loro vicini».

Dunque la stampa inglese non depone a favore della libertà di stampa, perché poggia su fondamenti storici. La stampa in Inghilterra ha valore solo in quanto è storica, non come stampa in generale, perché senza fondamenti storici non avrebbe potuto formarsi. Il merito è qui della storia e non della stampa. Come se la stampa non appartenesse anch'essa alla storia; come se la stampa inglese sotto Enrico Vili, Maria la Cattolica, Elisabetta e Giacomo non abbia sostenuto lotte dure, spesso selvagge, per conquistare al popolo inglese i suoi fondamenti storici! E, viceversa, non depone forse a favore della libertà di stampa che lastampa inglese, pur nella sua estrema indipendenza, non abbia avuto un effetto distruttivo sui fondamenti storici? Ma l'oratore non è coerente.

La stampa inglese non testimonia a favore della stampa in genere, perché è inglese. La stampa olandese testimonia contro la stampa in genere, sebbene sia soltanto olandese. Nel primo caso tutti i meriti della stampa vengono rivendicati ai fondamenti storici, nell'altro tutti i difetti dei fondamenti storici vengono attribuiti alla stampa. Nel primo caso la stampa non deve partecipare alla perfezione storica, nell'altro la storia non deve partecipare ai difetti della stampa. Come in Inghilterra la stampa è concresciuta con la storia e le peculiari condizioni locali, cosi è avvenuto in Olanda e in Svizzera.

La stampa deve rispecchiare, eliminare o sviluppare i fondamenti storici? Ognuna di queste funzioni l'oratore rimprovera alla stampa. Critica la stampa olandese perché è storica! Avrebbe dovuto ostacolare la storia, preservare l'Olanda dall'opprimente debito nazionale! Che antistorica esigenza! La stampa olandese non poteva ostacolare l'età di Luigi XIV; la stampa olandese non poteva impedire che la marina inglese sotto Cromwell balzasse d'un tratto al primo posto in Europa; la stampa olandese non poteva stregare l'Oceano, affinché sciogliesse l'Olanda dal penoso ruolo di palcoscenico delle potenze belligeranti continentali; tanto meno poteva, come non lo poterono tutte le censure della Germania, annullare i comandi dispotici di Napoleone. Avvenne mai che la libera stampa annullasse i debiti nazionali? Allorché sotto il Reggente d'Orléans l'intera Francia si perdette nelle pazzie finanziarie di Law [Paragona le temerarie manovre finanziare di Law all'impeto del noto movimento letterario tedesco], chi si oppose a cotesto esaltato periodo, vero Sturm una Drang i della speculazione monetaria, se non alcuni scrittori satirici, i quali per fermo non ricevettero biglietti di banca, bensì biglietti di Bastiglia [Cioè ordini di carcerazione in quella fortezza-prigione. Allude all'economista John Law (1671-1729) e al colossale fallimento del suo sistema monetario in Francia sotto la reggenza di Filippo II d'Orléans (1674-1723)]?

La pretesa che la stampa debba preservare dal debito nazionale, pretesa che può venir estesa fino ad esigere che la stampa assolva anche i debiti dei privati cittadini, fa ricordare quel letterato sempre in collera col proprio dottore perché questi curava bensì le malattie del suo corpo, ma non gli errori di stampa dei suoi scritti. La libertà di stampa non promette di render perfetto un uomo od un popolo, allo stesso modo che non può prometterlo un medico. Essa stessa non è la perfezione. È volgare spregiare una cosa buona perché è solo un bene limitato e non tutto il bene in una volta; perché è questo e non un altro bene. Certamente, se la libertà di stampa fosse tutto quel che esiste, renderebbe superflua ogni altra attività d'un popolo, anzi il popolo stesso. L'oratore rimprovera alla stampa olandese la rivoluzione belga. Nessun uomo dotato d'un certo senso storico potrà negare che la separazione di Belgio e Olanda sia stata incomparabilmente assai più storica che non la loro unione [In seguito all'insurrezione di Bruxelles del 25 agosto 1830, il Belgio si era separato dall'Olanda; Leopoldo di Sassonia-Coburgo vi regnava dal luglio 1831].

La stampa olandese avrebbe dunque concorso a produrre la rivoluzione. Quale stampa? Quella rivoluzionaria o quella reazionaria? E un problema che potremmo sollevare anche per la Francia; e se l'oratore biasima la stampa belga clericale, che era nel contempo anche democratica, biasimi allora anche la stampa clericale francese, che era insieme assolutista. Ambedue cooperarono alla caduta dei loro governi. In Francia non fu la libertà di stampa a far la rivoluzione, bensì la censura. Ma prescindendo da ciò, la rivoluzione belga apparve innanzitutto come rivoluzione spirituale, rivoluzione della stampa. Altrimenti non ha senso l'affermazione che fu la stampa a far la rivoluzione. Forse ciò è da biasimare? La rivoluzione deve presentarsi subito materialmente? Uccidere anziché discutere? Il governo può rendere materiale una rivoluzione spirituale; una rivoluzione materiale deve innanzitutto spiritualizzare il governo. La rivoluzione belga è un prodotto dello spirito belga. Cosi anche la stampa, la maniera più libera con cui oggigiorno lo spirito possa presentarsi, ha la sua parte nella rivoluzione belga. La stampa belga non sarebbe stata tale, se si fosse tenuta lontana dalla rivoluzione; ma, a sua volta, la rivoluzione belga non sarebbe stata tale, se non fosse stata contemporaneamente una rivoluzione della stampa. La rivoluzione di un popolo è totale, vale a dire ogni sfera si rivolta alla sua maniera; perché dunque non anche la stampa in quanto tale?

L'oratore, biasimando la stampa belga, non biasima dunque la stampa, ma il Belgio. E qui troviamo il punto di partenza delle sue opinioni storiche sulla libertà di stampa. Il carattere popolare della stampa libera — e, com'è noto, perfino il pittore non può eseguire grandi quadri storici con acquerelli — l'individualità storica della libera stampa, che la rende stampa peculiare del suo peculiare spirito popolare, ripugnano all'oratore dell'ordine dei principi; dalla stampa delle singole nazioni egli esige invece che sia la stampa della sua concezione, della haute volée, e ruoti non già intorno agli organismi spirituali del mondo, le nazioni, ma intorno a singoli individui. Quest'esigenza appare molto palese nel suo giudizio sulla stampa svizzera.

Ci permettiamo innanzitutto una domanda: perché l'oratore non rifletté che la stampa svizzera con Albrecht von Haller [ Albrecht von Haller (1708-77) di Berna, anatomico, fisiologo e patologo celebre, docente a Gottinga dal '36 al '53, studioso di botanica e di storia della medicina, autore di versi e di scritti di apologetica religiosa] affrontò l'illuminismo volterriano? Perché non ricorda che, se pure la Svizzera non è un Eldorado, tuttavia ha generato il profeta del futuro Eldorado dei principi, un altro signor von Haller [Karl Ludwig von Haller (1768-1854) di Berna, storico e filosofo della politica, con la sua dottrina dell'origine del potere si era fatto paladino del più retrivo assolutismo], il quale nella sua Restaurazione delle scienze politiche ha posto le basi alla stampa «più nobile e vera», cioè al «Settimanale politico berlinese»? Dai suoi frutti egli dovrebbe ben riconoscerla.

E quale altra terra nel mondo fuorché la Svizzera avrebbe potuto produrre un frutto di più succosa legittimità? Egli rimprovera alla stampa svizzera di aver assunto i nomi dei partiti dagli animali, cioè «uomini dal corno» e «uomini dalle unghie», insomma di parlare da svizzera a Svizzeri, i quali vivono in una certa patriarcale armonia con buoi e mucche. La stampa di questo paese è appunto la stampa di questo paese. Altro non si può dire al riguardo. Ma, nel contempo, proprio la libera stampa trasporta oltre i confini del particolarismo regionale, come appunto dimostra la stampa svizzera. Riguardo poi ai soprannomi animaleschi dei partiti, osserviamo che la religione stessa ha nobilitato l'animale a simbolo di cose spirituali. Certamente il nostro oratore disapproverebbe la stampa indiana che, in preda a entusiasmo religioso, esaltò la vacca Sabala e la scimmia Hanuman. Egli rimprovererà alla stampa indiana la religione indiana, come a quella svizzera il carattere peculiare svizzero; ma esiste una stampa che egli diffìcilmente sottoporrebbe a censura, intendo la stampa sacra, la Bibbia. Questa non suddivide forse l'intera umanità in due grandi partiti, delle pecore e dei becchi? Dio stesso non caratterizzò forse i propri rapporti con le case di Giuda e d'Israele dicendo: «Io sono una tignola per la casa di Giuda e una tarma per quella d'Israele? [Cfr. Osea, V, 12] Ovvero, per restare più vicino a noi mortali, non esiste una letteratura principesca che muta in zoologia tutta l'antropologia: intendo l'araldica? In essa sono ben altre stranezze che non uomini dal corno e dalle unghie.

Dunque, che cosa può rimproverare alla libertà di stampa?

Che i difetti di un popolo siano anche quelli della sua stampa; che essa rappresenti la voce schietta, l'immagine palese dello spirito storico del popolo? Ha dimostrato forse che lo spirito popolare tedesco è privo di cotesto grande privilegio naturale? Egli ha provato che ogni popolo esprime nella stampa il proprio spirito. E perché allo spirito tedesco, educato filosoficamente, non deve appartenere quella facoltà che, secondo le sue stesse affermazioni, si trova in quegli Svizzeri uniti sotto l'egida di un animale? Ritiene infine che i difetti nazionali della libera stampa non lo siano altrettanto dei censori? Forse che i censori sono estranei alla comunità storica, immuni dallo spirito di un'epoca? Purtroppo tale può essere il caso; ma quale uomo sano non preferirà perdonare alla stampa i difetti della nazione e dell'epoca, anziché alla censura le colpe contro la nazione e il suo tempo?

All'inizio avevamo osservato che attraverso i diversi oratori era il loro ordine particolare a polemizzare contro la libertà di stampa. L'oratore dei principi espose innanzi tutto motivi diplomatici; dimostrò l'illegittimità della libertà di stampa, secondo quelle convinzioni principesche, che si sono espresse anche troppo chiaramente nelle leggi di censura; giudicò che lo sviluppo più nobile e vero dello spirito tedesco fu reso possibile dagli impedimenti dall'alto; polemizzò infine contro i popoli, biasimando con nobile sdegno la libertà di stampa quale l'indelicato, indiscreto linguaggio d'un popolo rivolto contro se stesso.

(«Gazzetta renana», 10 maggio 1842, n. 130, supplemento).

L'oratore dell'ordine dei nobili, del quale ora ci occupiamo, non polemizza coi popoli, bensi con gli uomini. Nella libertà di stampa combatte la libertà umana, nella legge sulla stampa la legge stessa. Prima di arrivare alla vera e propria questione della libertà di stampa, mette sul tappeto la questione della pubblicazione integrale e quotidiana dei dibattiti alla Dieta. Lo seguiremo passo passo.

« Sia soddisfatta la prima delle proposte sulla pubblicazione delle nostre discussioni». «Sia in potere della Dieta di fare un uso ragionevole del permesso accordato». Questo appunto è il punctum quaestionis. La provincia crederà di avere in mano la Dieta non appena la pubblicazione dei dibattiti non sia più abbandonata all'arbitrio della saggezza della Dieta, ma sia diventata una necessità legale. Dovremmo designare la nuova concessione come un nuovo passo indietro, se dovessimo interpretare che la pubblicazione è affidata all'arbitrio delle rappresentanze provinciali. I privilegi dei delegati provinciali non sono i diritti della provincia. Al contrario, i diritti della provincia cessano non appena diventano privilegi dei rappresentanti provinciali. Cosi le corporazioni del Medioevo avevano assorbito in sé tutti i diritti del paese e li usavano come privilegi contro il paese stesso. Il cittadino non vuole il diritto come privilegio. Può dunque ritenere un diritto quello di aggiungere a vecchi privilegiati privilegiati nuovi? A questo modo i diritti della Dieta non sono più diritti della provincia, ma diritti contro la provincia, e la Dieta stessa sarebbe il torto più grande fatto alla provincia nella mistica persuasione di essere il massimo dei suoi diritti.

Quanto profondamente l'oratore sia impelagato in questa concezione medievale della Dieta, quanto sfacciatamente sostenga il privilegio della Dieta contro il diritto del paese, lo dimostrerà il seguito del suo discorso. «L'estensione di cotesta concessione (cioè la pubblicazione dei dibattiti) potrebbe scaturire solo da un convincimento interiore, non già da influenze esterne». Una svolta sorprendente! L'influenza della provincia sulla sua Dieta viene designata come qualcosa di «esterno», al quale si contrappone il convincimento della Dieta sotto forma di una delicata interiorità, la cui natura ipersensibile grida alla provincia: Noli me tangere [Sono le parole di Cristo alla Maddalena (Vangelo di S. Giovanni, XX, 17)] Questo elegiaco fiore di persuasione interna, contrapposto al rozzo, esteriore, ingiustificato vento nordico del «pubblico convincimento», è tanto più memorabile, in quanto la proposta tende appunto a render pubblico il convincimento interno della Dieta. Certo troviamo anche qui dell'incongruenza. Là dove all'oratore appare più opportuno, cioè nelle controversie ecclesiastiche, egli cimenta la provincia. « Noi», prosegue, «la permetteremmo (la pubblicazione) là dove la stimassimo conforme allo scopo, per limitarla invece là dove una sua estensione ci apparisse senza scopo o addirittura dannosa».

Faremo, insomma, quel che vorremo. Sic volo, sic iubeo, stat pro ratione voluntas. È in tutto e per tutto un linguaggio da dominatori, che certo nella bocca di un moderno rappresentante d'un ordine ha un sapore strano e commovente. Chi sono i «noi»? Le delegazioni provinciali. La pubblicazione dei dibattiti dovrebbe essere per la provincia e non per esse, ma l'oratore ci erudisce meglio. Anche la pubblicazione delle discussioni è un privilegio delle delegazioni provinciali, le quali hanno il diritto, ove lo stimino opportuno, di dare alla propria sapienza l'eco moltiplicata del torchio. L'oratore conosce solo le province delle delegazioni provinciali, non le delegazioni provinciali delle province. Quelle hanno una provincia nella quale esplicare la propria attività, ma la provincia non ha delegazioni provinciali per mezzo delle quali diventar attiva. Senza dubbio essa ha il diritto, sotto prescritte condizioni, di crearsi cotesti dèi, ma subito dopo la creazione deve scordare, come l'adoratore del feticcio, che sono dèi di sua manifattura. Tra l'altro nessuno può dire perché una monarchia senza Dieta non valga più di una monarchia con Dieta, perché, se questa non rappresenta la volontà della provincia, nutriamo più fiducia nell'intelligenza pubblica del governo, che in quella privata dei possidenti. Abbiamo qui lo spettacolo straordinario, fondato forse sulla natura della Dieta, che la provincia deve combattere non attraverso, bensì contro i propri rappresentanti. Secondo l'oratore, la Dieta non considera privilegi particolari suoi i diritti generali della provincia, perché in tal caso la pubblicazione integrale e quotidiana delle discussioni alla Dieta sarebbe un nuovo diritto di questa, in quanto lo è del paese; mentre invece il paese deve considerare come propri diritti i privilegi dei rappresentanti provinciali; ma allora perché non anche i privilegi di qualsivoglia classe di impiegati, della nobiltà o dei preti?

Insomma, il nostro oratore viene a dire chiaramente che i privilegi dei delegati provinciali vanno scemando nella misura con cui aumentano i diritti della provincia.

Per quanto mi appaia desiderabile che qui nell'assemblea ci sia libertà di discussione e si eviti di pesare pedantemente le parole, altrettanto necessario, affinché tale libertà di parola e tale scioltezza di discorso possano venir mantenute, mi sembra al momento attuale, che le nostre parole vengano giudicate soltanto da coloro cui sono destinate.

Appunto perché la libertà di discussione è desiderabile nella nostra assemblea, conclude l'oratore — e quale libertà non è desiderabile quando si tratta di noi stessi? — appunto per questo non è desiderabile nella provincia. Proprio perché è desiderabile che noi possiamo parlare liberamente, è tanto più desiderabile mantenere la provincia nella prigionia del segreto. Le nostre parole non sono destinate alla provincia.

Bisogna riconoscere il tatto con cui l'oratore ha sottinteso che la Dieta, con la pubblicazione integrale dei suoi dibattiti, da privilegio delle rappresentanze provinciali diventerebbe un diritto della provincia; che essa, divenuta oggetto immediato dello spirito pubblico, dovrebbe decidersi ad essere un'oggettivazione dello spirito pubblico; che infine, posta nella luce della coscienza pubblica, dovrebbe deporre la sua natura particolare di fronte a quella pubblica. Ma se l'oratore dei nobili, scambiando privilegi personali e individuali, libertà che contrastano col popolo e col governo, per diritti generali, incontestabilmente ha espresso alla perfezione lo spirito esclusivo del suo ordine, al contrario interpreta nel modo più errato lo spirito della provincia, quando trasforma in desideri personali le esigenze generali della provincia stessa. Cosi egli sembra sottintendere una curiosità avida e personale da parte della provincia verso le «nostre parole» (cioè dei delegati provinciali). Noi l'assicuriamo che la provincia non è affatto curiosa delle parole delle rappresentanze provinciali in quanto provenienti da singoli individui, ed essi potrebbero definire «nostre» solo quelle «tali» parole. Viceversa la provincia esige che le parole delle rappresentanze si trasformino in voce di popolo, pubblicamente percepibile.

La questione è se la provincia debba avere un controllo sulla propria rappresentanza o no! Al mistero del governo deve forse subentrare il mistero della rappresentanza? Il popolo è entrato anche nel governo. La sua nuova rappresentanza attraverso le delegazioni degli ordini è dunque perfettamente inutile, a meno che il suo carattere specifico non consista in ciò, che non vi si discute a nome della provincia, bensì che questa stessa vi discute; che non la provincia è rappresentata, bensi che vi si rappresenta da sé. Una rappresentanza sottratta al controllo del suo mandante non è più tale. Quel che non so, è come se non esistesse. È l'assurda contraddizione per cui la funzione statale, che rappresenta soprattutto l'attività delle singole province, è sottratta alla loro cooperazione formale, alla loro conoscenza; l'assurda contraddizione per cui la mia personale attività dev'essere l'azione altrui a me ignota. Ma una pubblicazione dei dibattiti alla Dieta, che sia posta in balia delle delegazioni provinciali, è peggio della non pubblicazione; infatti, se la Dieta mi mostra non ciò che è, ma ciò che vuol apparire di fronte a me, io la riterrò ciò per cui si fa passare, vale a dire una apparenza, ed è male che un'apparenza abbia esistenza legale.

Perfino la pubblicazione quotidiana e integrale attraverso la stampa si chiama poi a buon diritto «integrale e pubblica»? Non si apporta già una modificazione sostituendo lo scritto alla parola, gli schemi alle persone, l'azione sulla carta a quella reale? Ovvero la pubblicazione consiste solo nel riferire al pubblico la cosa reale, e non piuttosto nel riferire la cosa al pubblico reale, cioè non a un pubblico immaginario di lettori, bensì a uno esistente e presente? Niente è più contraddittorio che il render segreta la massima attività pubblica della provincia; che siano aperte alla provincia le porte del tribunale nei processi privati, ma che nel processo che la riguarda personalmente essa debba starsene fuori della porta. Perciò la pubblicazione integrale delle discussioni alla Dieta, nel suo significato più vero e coerente, non può essere se non la piena pubblicità della Dieta stessa. Viceversa il nostro oratore continua a considerare la Dieta come una sorta di estaminet [In francese: sala di caffè in cui è permesso fumare; qui sta per luogo di ritrovo e oziosa conversazione ].

Dati i lunghi anni di conoscenza, è sorto tra la maggior parte di noi un buon accordo personale, nel quale persistiamo malgrado le opinioni diverse su molte cose; un accordo, che si trasmette anche ai nuovi venuti... Proprio per ciò siamo in grado di calcolare reciprocamente il valore delle nostre parole, e ciò avverrà tanto più liberamente, quanto meno tollereremo l'azione di influssi esterni, la quale può esser d'utilità solo se si affianca a noi sotto forma d'un consiglio bene intenzionato, ma non se cerca, attraverso la pubblicità, di agire sulla nostra personalità sotto forma di un giudizio troppo reciso, sia biasimo o lode.

Il signor oratore parla con calore. Siamo cosi familiari tra noi, parliamo tanto liberamente, pesiamo con tanta esattezza il valore delle rispettive parole: e dovremmo permettere che un vivere cosi patriarcale, comodo, eccellente, venga alterato dal giudizio della provincia, la quale forse attribuirebbe alle nostre parole un valore inferiore?

Dio ne guardi! La Dieta non sopporta la luce del giorno! Nella notte della vita privata ci troviamo assai più a nostro agio. Se la provincia intera accetta di affidare i propri diritti a individui singoli, viene da sé che questi siano tanto accondiscendenti da accettare la fiducia della provincia; ma sarebbe vera impudenza pretendere che ripagassero di ugual moneta, affidando serenamente se stessi, il proprio operato e la propria personalità al giudizio della provincia, la quale evidentemente aveva già dato in precedenza il proprio giudizio su di loro. In ogni caso è molto più importante che i membri delle delegazioni provinciali non siano esposti a rischi da parte della provincia, che non l'interesse della provincia da parte di membri delle delegazioni provinciali.

Vogliamo esser giusti, anzi clementi. È vero che noi, e noi siamo una specie di governo, non permettiamo giudizi troppo recisi, sia biasimo o lode, non tolleriamo alcuna influenza da parte del pubblico sulla nostra persona sacrosancta, ma ammettiamo un consiglio bene intenzionato, non nel senso astratto, cioè che abbia buone intenzioni verso il paese, bensì nel senso più pieno e squillante, cioè che possieda un'appassionata delicatezza nei confronti dei membri delle rappresentanze, una considerazione particolare della loro eccellenza. Si potrebbe bensì argomentare che, se il pubblico può essere dannoso alla nostra buona concordia, altrettanto può esserlo questa al pubblico. Ma tutta questa sofistica dimentica che la Dieta è quella delle delegazioni provinciali e non della provincia. E chi potrebbe ribattere il più irresistibile degli argomenti? Se la provincia elegge costituzionalmente delegazioni per rappresentare la propria intelligenza generale, mostra con ciò di rinunziare completamente ad ogni giudizio e intelletto personale, i quali sono ora incarnati unicamente negli eletti. Come narrano le leggende che grandi inventori vennero uccisi, ovvero, e questa non è leggenda, sepolti vivi in una fortezza non appena ebbero confidato al loro signore il proprio segreto, cosi l'intelletto politico della provincia, non appena realizzata la grande trovata delle rappresentanze provinciali, si precipita ogni volta sulla propria spada, per poi risorgere, come la fenice, alle prossime elezioni.

Dopo queste rappresentazioni sentimentalmente inopportune dei pericoli che minacciano i membri delle delegazioni provinciali attraverso la pubblicazione dei dibattiti, vale a dire attraverso la provincia, l'oratore conclude questa diatriba col pensiero conduttore che seguimmo fin qui. «La libertà parlamentare — una parola che suona molto bene — si trova al suo primo periodo di sviluppo. Curata e protetta, dovrebbe acquistare quella forza interna e quell'indipendenza, che sono assolutamente indispensabili perché la si possa abbandonare senza timore alle tempeste esterne». Di nuovo l'antico, fatale contrasto della Dieta come interno e della provincia come esterno. Senza dubbio noi eravamo già da tempo dell'opinione che la libertà parlamentare è solo all'inizio del suo inizio, ed anche il suddetto discorso ci ha confermato nuovamente che le primitiae studiorum in politica non sono ancora concluse. Senza dubbio pensiamo con ciò — e il discorso su riferito conferma la nostra opinione — che è necessario concedere alla Dieta un lungo respiro onde possa farsi le ossa di fronte alla provincia. Forse per libertà parlamentare l'oratore intende la libertà dell'antico parlamento francese. Secondo la sua stessa confessione, una conoscenza vecchia di anni impera tra i membri delle rappresentanze provinciali, e il suo spirito si trasmette come un'eredità epidemica agli homines novi; tuttavia non è ancora l'epoca adatta per la pubblicità. La dodicesima Dieta può dare la medesima risposta della sesta, ma con la differenza essenziale che essa è troppo indipendente per lasciarsi strappare il nobile privilegio della procedura segreta. Senza dubbio lo sviluppo della libertà parlamentare nell'antico senso francese, l'indipendenza di fronte all'opinione pubblica, il ristagnare dello spirito di casta, si sviluppa in modo più radicale nell'isolamento, ma appunto contro tale sviluppo non è mai troppo presto per mettere in guardia. Un'assemblea veramente politica prospera solo sotto la protezione dello spirito pubblico, come la vita si sviluppa solo sotto la protezione dell'aria libera. Soltanto le piante «esotiche », piante trasportate in un clima straniero, hanno bisogno della protezione e delle cure della serra. Considera egli dunque la Dieta una pianta «esotica» nel clima libero e sereno della Germania?

Dopoché il nostro oratore dei nobili, con solennità quasi ridicola, con dignità quasi malinconica e con pathos quasi religioso, ha sviluppato il postulato dell'alta saggezza delle delegazioni provinciali, come pure della loro indipendenza e libertà medievale, l'inesperto si meraviglierà, nella questione della libertà di stampa, di vederlo precipitare dall'alta saggezza della Dieta all'universale insipienza del genere umano, dall'indipendenza e dalla libertà delle classi privilegiate, testé caldeggiate, alla fondamentale soggezione e dipendenza della natura umana. Ma noi non ci meravigliamo d'incontrare al giorno d'oggi una delle innumerevoli figure del principio cristianamente aristocratico, modernamente feudale, in una parola romantico. Questi signori, poiché non vogliono che la libertà sia un dono naturale di cui esser debitori alla luce solare e universale della ragione, bensì un dono soprannaturale di una costellazione particolarmente benigna, poiché considerano la libertà come una proprietà individuale di determinate persone e classi, sono costretti di conseguenza a comprendere la ragione universale e la libertà universale tra i cattivi sentimenti e le chimere di un «sistema logicamente ordinato ». Per salvare le libertà particolari del privilegio proscrivono la libertà universale della natura umana. Ma poiché la malvagia generazione del secolo xix e la coscienza dei nobili moderni, da esso corrotta, non potrebbero trovare comprensibile ciò che in sé è incomprensibile, perché privo di concetto (come cioè qualificazioni interne, essenziali, universali, attraverso particolarità esterne, accidentali, contingenti dovrebbero esser connesse a determinati individui, senza esserlo però con la natura umana in genere e soprattutto con la ragione, quindi senza esser comuni a tutti gli individui), allora necessariamente trovano scampo nel miracoloso e nel mistico. Poiché inoltre la posizione reale di questi signori nello Stato moderno non corrisponde minimamente al concetto che essi hanno della propria posizione, vivendo in un mondo fuori di quello reale, poiché dunque la forza d'immaginazione è per essi cuore e mente, cosi, insoddisfatti della pratica, si aggrappano necessariamente alla teoria, ma alla teoria dell'aldilà, alla religione, che tuttavia in mano loro acquista un'amarezza polemica appesantita da tendenze politiche, e più o meno consciamente diviene il manto che cela desideri assai terreni e insieme molto fantastici. Cosi troveremo che il nostro oratore contrappone a esigenze pratiche una teoria mistico-religiosa dell'immaginazione; a teorie reali, un'abilità empirica meschina e astuta, pragmatica e scaltra, attinta a una prassi superficiale; alla razionalità umana contrappone una santità sovraumana, ed al santuario reale delle teorie l'arbitrio e l'incredulità d'un punto di vista meschino. Dal linguaggio più nobile, più disinvolto e perciò sobrio dell'oratore dei principi, siamo passati ad una ristrettezza patetica e ad un'unzione fervida e traboccante, che prima cedevano ancora maggiormente di fronte al pathos del privilegio.

Quanto meno si può negare che al giorno d'oggi la stampa sia una forza politica, tanto più falsa ci appare l'opinione cosi diffusa che dalla lotta tra buona e cattiva stampa debba procedere la verità e la luce, e ci si possa aspettare una sua maggiore e più efficace diffusione. L'uomo è sempre lo stesso, sia nel singolo che nella massa. Egli è per sua natura imperfetto e immaturo ed abbisogna dell'educazione per tutto il tempo in cui dura il suo sviluppo, che termina solo con la morte. L'arte di educare non consiste però nel punire azioni illecite, bensì nello stimolare le buone intenzioni e tener lontane le cattive. Ma è inseparabile da quell'imperfezione umana che il canto di sirena del male agisca potentemente sulle masse e opponga un ostacolo, se non insormontabile, almeno difficilmente superabile dalla voce semplice e dimessa della verità. Mentre la cattiva stampa parla solo alle passioni degli uomini, mentre nessun mezzo le appare troppo basso, quando suscitare passioni sia necessario per raggiungere il proprio scopo, che in questo caso è la maggior diffusione possibile di cattivi fondamenti e l'intenso incitamento a sentimenti malvagi, mentre le stanno a fianco tutti i privilegi della più pericolosa di tutte le offensive, per la quale non esistono limiti oggettivi da parte della legge né una legge soggettiva da parte della morale, anzi nemmeno dell'onore esteriore, la stampa invece è ridotta sempre e solo alla difesa. La sua la sua azione può essere per lo più solo difensiva, reprimente e fortificante, senza potersi vantare di progressi notevoli in territorio nemico. Ed è già grande fortuna se ostacoli esterni non gliela rendono ancora più ardua.

Abbiamo riportato per intero questo passo per non sminuire l'impressione patetica ch'esso può avere sul lettore.

L'oratore s'è posto à la hauteur des principes. Per combattere la libertà di stampa si deve difendere l'immaturità permanente del genere umano. È supposizione tautologica che, se la schiavitù forma la natura dell'uomo, la libertà contraddirebbe a tale natura. Scettici malvagi potrebbero essere tanto impudenti da non credere alle parole dell'oratore. Se l'immaturità del genere umano è il fondamento mistico contro la libertà di stampa, la censura in ogni caso è un mezzo assai accorto contro la maturità del genere umano. Ciò che si sviluppa è imperfetto. Lo sviluppo termina soltanto con la morte. Quindi la vera logica consiste nell'ammazzare l'uomo per liberarlo da questo stato d'imperfezione. Cosi almeno conclude l'oratore per ammazzare la libertà di stampa. La vera educazione per lui consiste nel tener l'uomo fasciato e in culla per tutta la vita, perché non appena impara a camminare impara anche a cadere, e solo cadendo impara a camminare. Ma se restiamo tutti bambini in fasce, chi potrà fasciarci? Se siamo tutti in culla, chi ci cullerà? Se tutti siamo prigionieri, chi mai sarà il guardiano?

L'uomo è imperfetto per natura, nel singolo come in massa. De principiis non est disputandum. Ammesso dunque! Che ne segue? I ragionamenti del nostro oratore sono imperfetti, i governi sono imperfetti, le Diete imperfette, la libertà di stampa imperfetta, ogni sfera dell'esistenza umana imperfetta. Se dunque una di queste sfere non deve esistere a causa della sua imperfezione, allora nessuna ha il diritto di esistere, l'uomo meno di tutte.

Premessa dunque l'imperfezione fondamentale dell'uomo, sappiamo ormai a priori che tutte le istituzioni umane sono imperfette; non è il caso di occuparsene oltre; ciò non depone né pro né contro di loro, non è il loro carattere specifico né il loro segno distintivo. Perché dunque proprio la libera stampa tra tutte queste imperfezioni dev'essere perfetta? Perché una categoria imperfetta esige una stampa perfetta? L'imperfetto deve venir educato; ma l'educazione non è anch'essa umana e perciò imperfetta? E non deve venir educata anch'essa? Se dunque ogni cosa umana secondo la sua natura è imperfetta, dobbiamo per questo gettar tutto all'aria, tutto stimare allo stesso modo, bene e male, vero e falso? La vera logica, come può consistere solo nel trascurare, osservando un quadro, quel punto di vista che mi dà macchie di colore anziché colori, linee che s'intrecciano disordinatamente anziché disegno, allo stesso modo consiste nel tralasciare il punto di vista che mi mostra il mondo e le relazioni umane solo nelle loro apparenze esteriori; nel riconoscere inadatto tale punto di vista a giudicare il valore delle cose; infatti, come potrebbe rendermi in grado di giudicare e distinguere, se riguardo all'intero universo non ha che una sola e banale idea, cioè che ogni cosa nella sua esistenza è imperfetta? Tale punto di vista stesso è la più imperfetta tra le imperfezioni che vede intorno a sé. Dobbiamo dunque porre nell'esistenza delle cose la misura dell'essenza delle idee, e non farci traviare dalle istanze d'una esperienza unilaterale e triviale, dato che, accogliendo questa, ogni esperienza cade, ogni giudizio è sospeso, tutte le vacche sono nere.

(«Gazzetta renana», 12 maggio 1842, n. 132, supplemento).

In quanto idea, è naturale che la libertà di stampa abbia tutt'altra giustificazione della censura, essendo essa stessa un aspetto dell'idea della libertà, un bene positivo, mentre la censura è un aspetto della non-libertà, la polemica di una concezione dell'apparenza contro la concezione dell'essenza, quindi una natura puramente negativa. — No! no! no! — ci interrompe il nostro oratore. - Io biasimo la sostanza, non biasimo il fenomeno. La libertà è la parte negativa della libertà di stampa. La libertà rende possibile il male: dunque essa è malvagia. Malvagia libertà!

Egli la pugnalò nel bosco tenebroso

e ne gettò il cadavere nel Reno profondo.

Ma:

Questa volta io debbo parlarti, signore e maestro, ascoltami in pace».

[Sono versi della ballata Die Rache {La vendetta) di L. Uhland (1787-1862)]

Nel paese della censura non esiste forse la libertà di stampa? La stampa in sé è una realizzazione della libertà umana. Dunque dove esiste stampa là esiste pure libertà di stampa. Nel paese della censura lo Stato non ha libertà di stampa, ma v'è un organo statale che la possiede, cioè il governo. Prescindendo dal fatto che gli scritti ufficiali del governo hanno una completa libertà di stampa, forse il censore non esercita ogni giorno un'incondizionata libertà di stampa, se non diretta, almeno indiretta? Parimenti gli scrittori sono suoi segretari. Quando il segretario non esprime le opinioni del suo principale, questi cancella lo scritto. Quindi la censura scrive la stampa. I tagli trasversali della censura sono per la stampa ciò che le linee rette dei cinesi, le Kuas, sono per il pensiero. Le Kuas del censore sono le categorie della letteratura, e le categorie sono notoriamente le forme tipiche del contenuto futuro.

La libertà si identifica talmente con la natura dell'uomo, che persino i suoi avversari la realizzano mentre ne combattono la realtà, mentre cioè vogliono appropriarsi come del più prezioso ornamento di ciò che non riconoscono come ornamento della natura umana. Nessuno combatte la libertà: tutt'al più avversa quella degli altri. Ogni forma di libertà quindi è sempre esistita, una volta come privilegio particolare, un'altra come diritto universale. La questione ha acquistato ora un senso logico. Non ci si domanda se la libertà di stampa debba esistere, perché esiste sempre; ci si domanda invece se sia privilegio di singoli individui, ovvero privilegio del genere umano. Ci si domanda se debba essere torto da una parte ciò che dall'altra è diritto. Se la «libertà dello spirito» abbia maggiori diritti che non la «libertà contro lo spirito». Ma se la stampa libera e la libertà di stampa sono da respingere in quanto realizzazione della libertà universale, allora censura e stampa censurata lo sono ancor di più in quanto realizzazione di una libertà particolare; infatti, come può esser buona la specie, se il genere è cattivo? Se l'oratore fosse coerente, dovrebbe respingere non la stampa libera, ma la stampa in genere. Secondo lui, la stampa sarebbe buona solo se non fosse un prodotto della libertà, cioè del genere umano. Alla stampa dunque sarebbero ammessi solo gli dèi o gli animali.

0 dobbiamo forse — l'oratore non si avventura a dirlo — attribuire ispirazione divina al governo e a lui stesso? Se un individuo si vanta di avere l'ispirazione divina, non esiste nella nostra società che un solo oratore che possa controbatterlo ufficialmente: l'alienista. La storia inglese ha dimostrato però a sufficienza come la persuasione d'una ispirazione divina in alto generi dal basso la contropersuasione d'una ispirazione divina, e Carlo I sali il patibolo per ispirazione divina dal basso[Carlo I Stuart, re d'Inghilterra, battuto dagli insorti fedeli al Parlamento e decapitato il 30 gennaio 1649].

Il nostro oratore continua bensì, come udremo più innanzi, a illustrare censura e libertà di stampa, stampa censurata e stampa libera, come due mali, ma non giunge fino a riconoscere la stampa stessa come un male. Al contrario! Divide l'intera stampa in «buona » e «cattiva». Della cattiva ci viene narrato l'incredibile, come cioè la malvagità e la massima diffusione possibile della malvagità siano il suo scopo. Trascuriamo l'eccessiva fiducia nella nostra credulità, attestata dall'oratore col pretendere che sulla sua parola crediamo a una malvagità di professione. Gli rammentiamo solo l'assioma, che ogni cosa umana è imperfetta. Non potrà quindi avvenire che anche la stampa cattiva sia tale solo imperfettamente, cioè buona, e quella buona imperfettamente tale, cioè cattiva? Ma egli ci mostra il rovescio della medaglia. Crede che la cattiva stampa sia migliore della buona, perché la prima è sempre all'offensiva e la seconda invece sulla difensiva. Ma egli stesso ci ha appreso che lo sviluppo dell'uomo termina soltanto con la morte. Con ciò del resto non ha detto molto, anzi non ha detto altro, se non che la vita termina con la morte. Ma se la vita dell'uomo è sviluppo, e la buona stampa è sempre sulla difensiva, «sempre difensiva, reprimente e fortificante», non si oppone con ciò continuamente allo sviluppo, cioè alla vita? Quindi, o la stampa buona e difensiva è cattiva, o cattivo è lo sviluppo; con ciò anche la sua precedente affermazione, che scopo della cattiva stampa sia la maggior diffusione possibile di cattivi fondamenti e l'intenso incitamento a sentimenti malvagi, perde la sua mistica incredibilità, se razionalmente interpretata: la massima diffusione possibile di fondamenti e il massimo incoraggiamento possibile a sentimenti è il lato malvagio della cattiva stampa. Il rapporto tra buona e cattiva stampa diventa ancor più strano quando l'oratore ci assicura che la prima è impotente e la seconda onnipotente; infatti la prima è senza influenza sul popolo, mentre la seconda agisce irresistibilmente. La buona stampa e la stampa impotente sono per l'oratore la stessa cosa. Vuol dunque affermare che il bene è impotente o che l'impotenza è buona?

Egli contrappone al canto di sirena della cattiva stampa la voce dimessa di quella buona. Ma con una voce dimessa è certo possibile cantare meglio e con maggior effetto. L'oratore sembra aver conosciuto solo il calore sensuale della passione, non però la calda passione della verità, non il travolgente entusiasmo della ragione, non l'irresistibile pathos della potenza morale.

Tra i sentimenti della stampa cattiva egli comprende la «superbia che non riconosce autorità alcuna nella Chiesa e nello Stato», « l'invidia» che predica la soppressione dell'aristocrazia, e altre cose delle quali ci occuperemo più innanzi. Contentiamoci per ora di chiedere in che modo l'oratore identifica questo isolamento con il bene. Se le forze universali della vita sono cattive, e abbiamo udito che il male è onnipotente e che agisce sulle masse, che cosa e chi ha ragione di farsi passare per buono? Ecco la presuntuosa affermazione: la mia individualità è il bene, le poche esistenze che s'accordano ad essa sono il bene, e la stampa maligna e cattiva non vuol riconoscerlo! Che stampa malvagia! Se all'inizio l'oratore aveva trasformato l'attacco contro la libertà di stampa in attacco contro la libertà, qui lo trasforma in attacco contro il bene. La sua paura di fronte al male si dimostra paura di fronte al bene. Egli fonda dunque la censura su un riconoscimento del male e un misconoscimento del bene; o non è vero che mostro di disprezzare un uomo, se gli dico in precedenza che nella lotta soccomberà all'avversario, perché è, si, un bravo ragazzo e buon vicino, ma un pessimo eroe; perché reca bensì armi consacrate, ma non sa impugnarle; perché noi due, lui ed io, siamo bensì perfettamente persuasi della sua perfezione, ma il mondo non condivide tale certezza; perché egli è, sì, eccellente quanto a pensiero, ma pessimo quanto a energia?

Per quanto dunque le distinzioni fatte dall'oratore tra buona e cattiva stampa abbiano reso superflua ogni confutazione, dal momento che annegano nelle loro stesse contraddizioni, tuttavia non possiamo trascurare il fatto principale, cioè che egli ha impostato la questione in modo sbagliato e ne ha fatto la base della sua costruzione. Se si vuol parlare di due specie di stampa, queste differenze devono esser desunte dalla natura della stampa stessa, non già da considerazioni a lei estranee. Stampa censurata o stampa libera; una di loro dev'essere la buona o la cattiva. La discussione verte proprio su questo, se sia buona o cattiva la stampa libera o quella censurata, vale a dire se alla sua natura corrisponda una esigenza libera o no. Fare della stampa cattiva la confutazione della stampa libera vuol dire sostenere che la stampa libera è cattiva e quella censurata è buona: il che è proprio quello che si doveva dimostrare.

Sentimenti bassi, beghe personali e infamie la stampa censurata li divide con quella libera. La loro differenza fondamentale non deriva dunque dalla specie di prodotti ch'esse generano: anche nella palude crescono fiori. Si tratta invece della natura, del carattere intimo e distintivo tra stampa censurata e stampa libera. La stampa libera, che è cattiva, non corrisponde al carattere della sua natura. Quella censurata, con le sue adulazioni, la sua mancanza di carattere, il suo linguaggio da eunuco, il suo canino scodinzolamento realizza soltanto le premesse intime della sua natura. Essa rimane cattiva anche se dà buoni prodotti, perché tali prodotti sono buoni solo in quanto rappresentano in seno alla stampa censurata quella libera, e in quanto, secondo la loro natura, non sono suoi prodotti. La stampa libera rimane buona anche se dà frutti cattivi, poiché questi sono apòstati dalla sua natura. Un evirato rimane un uomo incompleto, anche se ha una buona voce. La natura rimane buona, anche se produce aborti. La natura della stampa libera è la natura energica, razionale, morale della libertà. Quella della stampa censurata è la natura incoerente della non-libertà, è un mostro civilizzato, un aborto profumato.

Oppure è ancora necessario dimostrare che la libertà di stampa corrisponde alla natura della stampa e la censura invece la contraddice? Non è palese che i confini esterni di una vita spirituale non appartengono alla sua natura intima, che anzi la negano, non l'affermano? Per giustificare veramente la censura l'oratore avrebbe dovuto dimostrare che essa fa parte della natura della libertà di stampa; invece dimostra che la libertà non fa parte della natura dell'uomo. Respinge l'intero genere per esaltare una specie buona, perché la libertà è ben l'essenza originaria di ogni esistenza spirituale, quindi anche della stampa. Per eliminare le possibilità del male egli elimina quelle del bene e quindi attua il male, perché umanamente buono può essere soltanto ciò ch'è attuazione della libertà.

Dunque noi riterremo cattiva stampa quella censurata, finché non ci verrà dimostrato che la censura procede dalla natura stessa della libertà di stampa. Ma anche ammettendo che sia nata insieme alla stampa, sebbene nessun animale, e tanto meno un essere spirituale, venga al mondo in catene, che cosa ne segue? Che anche la libertà di stampa esiste ufficialmente quanto la censura, e che anche quest'ultima abbisogna della censura. E chi deve censurare la stampa del governo, se non quella del popolo? Un altro oratore stimava bensi che i mali della censura verrebbero eliminati col triplicarla, cioè col porre la censura sotto una censura provinciale e questa a sua volta sotto una berlinese, rendendo unilaterale la libertà di stampa e plurilaterale la censura. Quante complicazioni per vivere! Chi censurerà la censura di Berlino? Ma torniamo al nostro oratore.

Subito all'inizio ci aveva insegnato che dalla lotta tra buona e cattiva stampa non uscirà alcuna luce; ma allora, potremmo chiedere, vuol forse rendere permanente una lotta inutile? Secondo la sua stessa espressione, la lotta tra censura e stampa non è forse una lotta tra stampa buona e cattiva? La censura non elimina la lotta, ma la rende unilaterale, di una lotta aperta ne fa una nascosta, di una lotta fra principi fa una lotta di principi impotenti contro una potenza priva di principi. La vera censura, fondata sulla natura stessa della libertà di stampa, è la critica; essa è il giudizio che la libertà di stampa istituisce dal proprio seno. La censura è la critica come monopolio del governo; ma la critica, se non è pubblica ma segreta, non teoretica ma pratica, non al di sopra dei partiti ma partito essa stessa, se non agisce con la lama affilata dell'intelletto, ma con le forbici ottuse dell'arbitrio, se vuole soltanto esercitare, non subire la critica, se si nega mentre si concede, se infine è tanto acritica da scambiare un individuo per la saggezza universale, espressioni di forza per espressioni d'intelletto, macchie d'inchiostro per macchie solari, le storte cancellature del censore per costruzioni matematiche e le bastonate per argomenti decisivi, non perde forse il suo carattere razionale?

Nel corso della trattazione abbiamo mostrato come il misticismo acceso, pieno d'unzione e sdolcinato dell'oratore si trasformi nell'insensibilità d'una prassi intellettuale meschina e astuta e nella stupidità di un calcolo privo di idee e basato sull'empirismo. Nel suo ragionamento sui rapporti tra leggi sulla censura e leggi sulla stampa, misure preventive e misure repressive, egli ci risparmia tale fatica, in quanto da sé procede a una consapevole applicazione del suo misticismo.

Misure preventive o repressive, leggi sulla censura o sulla stampa, ecco ciò di cui soltanto si tratta, mentre non sarebbe affatto superfluo mettersi meglio sott'occhio i pericoli che dall'una o dall'altra parte debbono venire evitati. Mentre la censura vuol prevenire i mali, la legge sulla stampa per mezzo della pena vuol evitarne il ripetersi. Ambedue resteranno imperfette come ogni istituzione umana; quale delle due lo sarà meno, è appunto il problema. Poiché si tratta di cose puramente spirituali, v'è un compito, e precisamente il più importante per ambedue, che non sarà mai assolto. È il compito di trovare una forma che esprima tanto chiaramente le intenzioni del legislatore, da far si che giustizia e ingiustizia siano distinte nettamente e venga eliminato ogni arbitrio. Ma che altro è l'arbitrio, se non un agire secondo concezioni individuali? E come eliminare gli effetti di concezioni individuali là dove si tratta di cose puramente spirituali? Trovare una norma tanto ben definita, che l'applicarla in ogni singolo caso secondo il senso voluto dal legislatore sia inevitabile: ecco la pietra filosofale mai trovata finora e difficilmente reperibile; e quindi l'arbitrio, se con esso si intende l'agire secondo concezioni individuali, è inseparabile sia dalla censura che dalla legge sulla stampa. Dobbiamo quindi considerarle nella loro necessaria imperfezione e nelle conseguenze di questa. Se la censura impedirà molti beni, a sua volta la legge sulla stampa non sarà in grado di impedire molti mah. Ma non è possibile opprimere durevolmente la verità. Quanti più ostacoli le verranno posti sulla via, tanto più arditamente essa perseguirà la sua mèta e tanto più purificata vi giungerà. La parola malvagia però, simile a un fuoco greco, una volta che sia stata lanciata è inarrestabile e incalcolabile nei suoi effetti, perché niente per essa è sacro e intangibile, perché trova alimento e sviluppo nella bocca come nel cuore dell'uomo.

L'oratore non è stato felice nelle sue similitudini. Un'esaltazione poetica ha preso il sopravvento su di lui non appena s'è messo a illustrare l'onnipotenza del male. Già una volta udimmo la voce del bene risuonare impotente, perché modesta, di fronte al canto di sirena del male. Ora il male diviene addirittura un fuoco greco, mentre non v'è alcuna similitudine per la verità; e se volessimo noi per lui volgere in similitudine quel suo «modesto», la verità sarebbe al massimo la selce, che sprizza più fulgide scintille quanto più la si batte. Un bell'argomento per i mercanti di schiavi: far scaturire dai negri l'umanità a suon di frusta; un'egregia massima per il legislatore: dare leggi repressive contro la verità, affinché con tanto più ardore essa persegua il suo fine. L'oratore mostra rispetto per la verità solo quando diventa spontanea e si dimostra palpabile. Quanti più ostacoli opponete alla verità, tanto più valida l'otterrete. Ostacolatela dunque!

Ma lasciamo cantare le sirene!

La mistica «teoria dell'imperfezione» emessa dall'oratore ha dato infine i suoi frutti terreni: ci ha scagliato sulla testa la sua pietra lunare; esaminiamola. Tutto è imperfetto. La censura è imperfetta, la legge sulla stampa lo è. Con ciò conosciamo la loro natura. Sulla giustezza delle loro idee non c'è altro da dire, a noi non resta che stabilire sulla base dell'empirismo più meschino un calcolo di probabilità, per vedere da quale parte stiano i pericoli maggiori. È una distinzione puramente temporale decidere se le misure impediscano il male stesso per mezzo della censura, ovvero ne impediscano il ripetersi per mezzo della legge sulla stampa. Si vede come l'oratore con la vuota frase sulla «imperfezione umana» sappia manipolare la differenza essenziale, intima e peculiare tra censura e legge sulla stampa, trasformando la controversia da una questione di principi a una questione da fiera annuale: se cioè le leggi sulla censura provochino più o meno nasi pesti che non quelle sulla stampa. Ma se ambedue vengono contrapposte si tratta innanzitutto non delle loro conseguenze, bensì dei fondamenti; non della loro applicazione individuale, bensì del loro diritto generale. Montesquieu insegna già che il dispotismo è più comodo da applicare che non la legalità [Cfr. Montesquieu, Esprit des lois, lib. V, cap. 14], e Machiavelli ritiene che il male generi per i principi conseguenze migliori che non il bene. Se dunque non vogliamo confermare il vecchio e gesuitico detto, che il buon fine — e noi dubitiamo anche della bontà di questo fine — santifica i cattivi mezzi, dobbiamo avanti tutto ricercare se la censura sia per sua natura un buon mezzo.

L'oratore ha ragione nel definire la legge sulla censura una misura preventiva: è infatti una misura precauzionale della polizia contro la libertà; ma ha torto nel definire la legge sulla stampa una misura repressiva: essa è la regola della libertà che fa se stessa misura delle proprie eccezioni. Le misure di censura non sono leggi. La legge sulla stampa non è una misura. Nella legge sulla stampa chi punisce è la libertà, in quella sulla censura invece la libertà viene punita. Quella sulla censura è una legge odiosa contro la libertà, mentre la legge sulla stampa è un voto di fiducia che la libertà dà a se stessa. Questa punisce l'abuso della libertà, quella punisce la libertà come un abuso. Essa considera la libertà come una delinquente; o forse che in ogni campo è una punizione onorevole l'esser sotto sorveglianza della polizia? La legge sulla censura ha solo l'apparenza di una legge, mentre quella sulla stampa lo è realmente.

Tale è perché rappresenta l'esistenza positiva della libertà; considera la libertà la condizione normale della stampa e la stampa una forma di esistenza della libertà. Entra quindi in conflitto con gli errori della stampa come con eccezioni che combattono la loro stessa regola e perciò si eliminano. La libertà di stampa si pone come legge sulla stampa contro gli attentati a se stessa, vale a dire contro gli errori della stampa. Essa afferma che la libertà è la natura anche del delinquente. Ciò dunque ch'egli ha commesso contro la libertà l'ha commesso contro di sé, e tale auto-lesione gli appare come una punizione ch'è per lui il riconoscimento della propria libertà. Ben lungi quindi dall'essere la legge sulla stampa una misura repressiva contro la libertà di stampa, un puro mezzo per impedire la ripetizione del delitto attraverso il timore della pena, al contrario la mancanza di una legislazione sulla stampa dovrebbe esser considerata un'esclusione della libertà di stampa dalla sfera della libertà legittima, in quanto la libertà legalmente riconosciuta esiste nello Stato come legge. Le leggi non sono misure repressive contro la libertà, allo stesso modo che la legge di gravità non è una misura repressiva contro il moto, in quanto come legge di gravitazione promuove i moti eterni dei corpi celesti, ma come legge della caduta mi uccide, se io la infrango pretendendo di danzare nell'aria. Le leggi sono piuttosto le norme positive, chiare e universali, nelle quali la libertà ha acquistato un'esistenza impersonale, teoretica, indipendente dall'arbitrio del singolo. Un codice di leggi è la Bibbia della libertà d'un popolo.

La legge sulla stampa è dunque il riconoscimento legale della libertà di stampa. È diritto in quanto è l'esistenza positiva della libertà. Quindi deve esistere anche se non venga mai applicata, come avviene nel Nord America, mentre la censura, come la schiavitù, non può mai diventare legittima, anche se esistesse mille volte come legge. Non esistono leggi preventive attive. La legge previene solo come comando. Diviene legge attiva solo dopo esser stata trasgredita, poiché è vera legge solo quando in essa l'inconscia legge naturale della libertà sia divenuta consapevole legge dello Stato. Là dove la legge è realmente tale, vale a dire esistenza della libertà, essa è la vera esistenza della libertà umana. Le leggi non possono quindi prevenire le azioni degli uomini, in quanto sono leggi vitali interne del suo stesso agire, proiezioni consapevoli della sua vita. La legge arretra quindi di fronte alla vita dell'uomo in quanto vita della libertà, e solo dopoché la sua azione pratica ha indicato come l'uomo abbia cessato di obbedire alla legge naturale della libertà, essa, come legge dello Stato, lo costringe a esser libero, cosi come le leggi fisiche appaiono estranee solo dopoché la mia vita ha cessato di essere la vita di tali leggi, quando cioè sono ammalato. Una legge preventiva è quindi una contraddizione assurda. Anche per questo non ha in sé alcuna misura, alcuna regola razionale, perché come regola razionale può esser desunta solo dalla natura della cosa, che qui è la libertà. È senza misura, perché se la prevenzione vuole identificarsi con la libertà dev'esser grande quanto il suo oggetto, cioè senza limiti. La legge preventiva è quindi la contraddizione di una limitatezza illimitata, e là dove termina non è limitata dalla necessità, ma dalla casualità dell'arbitrio, come la censura dimostra ogni giorno ad oculos.

Il corpo umano è mortale per natura. Perciò le malattie non possono mancare. Perché l'uomo dev'esser sottoposto al medico quando è ammalato e non anche quando è sano? Perché non solo la malattia, ma già il medico è un male. Sotto la tutela del medico la vita sarebbe un male e il corpo umano sarebbe riconosciuto come oggetto d'esame per istituti di medicina. Non è più desiderabile la morte, che una vita che sia puramente una misura preventiva contro la morte? Non appartiene anch'esso alla vita il libero movimento? Che è ogni malattia, se non vita inceppata nella sua libertà? Un medico perpetuo sarebbe una malattia della quale non si ha affatto intenzione di morire, ma di guarire. Forse lo spirito non ha maggiori diritti del corpo? Senza dubbio ciò è sempre stato interpretato nel senso che agli spiriti che si muovono liberamente il movimento fisico è perfino dannoso e quindi da eliminare. La censura comincia col considerare la malattia uno stato normale e lo stato normale, cioè la libertà, una malattia. Continua ad assicurare la stampa che essa è malata; costei può dare le prove migliori della propria salute, deve tuttavia lasciarsi curare. Ma la censura non è neppure un medico istruito, che usi rimedi diversi a seconda delle malattie. È un chirurgo di paese, che per ogni male non conosce che uno strumento universale: le forbici. E non è neppure un chirurgo che abbia per scopo la mia salute, bensì un chirurgo che bada all'estetica, uno per il quale ogni parte del mio corpo, se non piace a lui, è superflua, uno che raschia via tutto ciò che lo impressiona sfavorevolmente; è un ciarlatano, il quale ricaccia indietro l'eruzione per non vederla, senza curarsi se si sfoga nella parte interna più nobile.

Ritenete ingiusto acchiappare gli uccelli: ma la gabbia non è una misura preventiva contro gli uccelli da rapina, le pallottole e le tempeste? Ritenete barbaro accecare gli usignuoli: ma non vi sembra barbarie strappare gli occhi alla stampa con le penne aguzze della censura? Ritenete dispotico tagliare i capelli a un uomo contro la sua volontà: e tuttavia la censura ogni giorno incide nella carne l'individuo spirituale e fa passar per sani solo corpi senza cuore, corpi senza reazione, corpi asserviti.

(«Gazzetta renana», 15 maggio 1842, n. 135, supplemento).

Mostrammo come la legge sulla stampa sia un diritto e quella sulla censura un'ingiustizia. Del resto la censura stessa ammette di non essere fine a se stessa, né in sé e per sé un bene, ma di poggiare sul principio: il fine santifica i mezzi. Ma un fine che ha bisogno di mezzi non santi non è un fine santo; inoltre, non potrebbe anche la stampa adottare e vantare la medesima massima? Dunque la legge sulla censura non è una legge, ma una misura di polizia: certo una pessima misura, in quanto non raggiunge quello che vuole e non vuole quello che raggiunge. Se vuole prevenire la libertà come cosa spiacevole, raggiunge esattamente il contrario. Nel paese della censura ogni scritto proibito, cioè stampato senza censura, è un avvenimento. Passa per un martire, e non già un martire senza odore di santità e senza fedeli. Passa per un'eccezione, e se la verità non può cessare di aver valore per gli uomini, tanto meno lo può l'eccezione alla generale mancanza di libertà. Ogni mistero tenta. Là dove l'opinione pubblica è di per se stessa un mistero, essa è tentata a priori da ogni scritto che infranga formalmente i confini mistici. La censura fa di ogni scritto proibito, sia esso buono o cattivo, uno scritto straordinario, mentre la libertà di stampa toglie a ogni scritto l'importanza materiale. Ma se la censura agisce sinceramente, tende a proteggere l'arbitrio e a renderlo legge. Non può prevenire un pericolo che sarebbe maggiore di lei. Il pericolo mortale per ogni essere consiste nel perdere se stesso. La mancanza di libertà perciò è il vero e proprio pericolo mortale per l'uomo. Prescindendo per ora dalle conseguenze morali, riflettete che non potete gustare i vantaggi della libera stampa senza tollerarne le scomodità. Non potete cogliere la rosa senza le sue spine. E che cosa perdete con la libera stampa? Essa è l'occhio dello spirito popolare aperto su tutto, la fiducia incarnata di un popolo in se stesso, il legame parlante che unisce il singolo con lo Stato e col mondo, la cultura fatta corporea, che illumina di spiritualità le lotte materiali e ne idealizza il greggio aspetto terreno. È la franca confessione d'un popolo dinanzi a se stesso e, com'è noto, la forza della confessione è di redimere. È lo specchio spirituale nel quale ogni popolo si guarda, e contemplare se stessi è la prima condizione della saggezza. E lo spirito dello Stato, e lo si può vendere in ogni tugurio più a buon mercato del gas materiale. È universale, onnipresente, onnisciente. È il mondo ideale che sempre sgorga da quello reale e, spirito sempre più ricco, scorre in esso vivificante.

Il corso dello scritto ha mostrato che censura e legge sulla stampa sono differenti tra loro quanto arbitrio e libertà, quanto legge formale e legge reale. Ma quel che vale per la sostanza vale anche per il fenomeno, ciò che vale per il diritto di ambedue vale anche per la loro applicazione. Quanto la legge sulla stampa e quella sulla censura sono differenti tra loro, altrettanto lo sono la posizione del giudice e quella del censore. Senza dubbio il nostro oratore, che ha gli occhi volti al cielo, vede sotto di sé la terra come uno spregevole mucchio di polvere, e cosi di tutti i fiori altro non sa dire, se non che essi sono ridotti in polvere. Cosi anche qui non vede che due misure, le quali sono ugualmente arbitrarie nella loro applicazione, dato che arbitrio significa agire secondo una concezione personale, dato che questa non può esser separata dalle cose spirituali, ecc. Se la concezione di cose spirituali è arbitraria, quali diritti ha un'opinione spirituale di fronte a un'altra, l'opinione del censore di fronte a quella dello scrittore? Ma vediamo di intendere l'oratore. Egli compie dei giri cosi laboriosi per poter dimostrare ingiuste nella loro applicazione sia la censura che la legge sulla stampa e per giustificare la censura; infatti, sapendo imperfetta ogni umana cosa, non resta che il problema, se l'arbitrio debba stare dalla parte del popolo o da quella del governo. Il suo misticismo si muta nel libertinage di porre sullo stesso piano legge ed arbitrio e di veder solo differenze formali là dove si agitano invece contrasti morali e giuridici; non polemizza infatti contro la legge sulla stampa, bensì contro la legge in genere. 0 esiste una legge, che rechi in sé quasi una fatalità per cui in ogni singolo caso non possa che essere applicata nel senso voluto dal legislatore, si che ogni arbitrio sia assolutamente escluso? Ci vuole una sfrontatezza incredibile per chiamare pietra filosofale un compito cosi assurdo, poiché solo l'ignoranza più estrema può proporlo. La legge è universale. Il caso, che può venir determinato secondo la legge, è particolare. Sussumere il particolare nell'universale richiede un giudizio: il giudizio è problematico. Anche il giudice appartiene alle leggi: se le leggi si applicassero da sé, i tribunali sarebbero superflui.

Ma ogni cosa umana è imperfetta. Dunque edite! bibite! Perché pretendete dei giudici, dal momento che sono uomini anch'essi? Perché leggi, se possono venir eseguite solo da uomini, e ogni azione umana è imperfetta? Abbandonatevi alla buona volontà dei superiori! La giustizia renana è imperfetta quanto quella turca! Dunque edite! bibite!

Quale differenza tra un giudice e un censore! Il censore non ha altra legge che i suoi superiori; il giudice non altri superiori che la legge. Ma ha il dovere di interpretare la legge per applicarla al caso particolare, quale egli lo intende dopo un esame coscienzioso; il censore ha il dovere di intendere la legge quale gli viene ufficialmente interpretata per ogni singolo caso. Il giudice indipendente non appartiene né a me né al governo; il censore dipendente è sempre una porzione del governo. Nel giudice possiamo tutt'al più diffidare di una mente, nel censore invece di un carattere. Al giudice viene sottoposto un determinato delitto della stampa, al censore invece lo spirito stesso della stampa. Il giudice giudica la mia azione secondo una legge determinata; il censore non solo punisce il delitto, ma lo fa essere. Se vengo condotto in tribunale, è perché sono accusato di aver violato una legge; ma una legge per essere violata deve esistere. Dove una legge sulla stampa non esiste, non è possibile infrangerla. La censura non m'accusa d'infrazione a una legge esistente: giudica la mia opinione perché non è quella del censore e dei suoi superiori. La mia azione pubblica, che si espone al mondo e al suo giudizio, allo Stato e alla sua legge, viene giudicata da una forza nascosta e solo negativa, che non sa erigersi a legge, che rifugge la luce del giorno, che non è legata a principi generali.

Una legge sulla censura è impossibile in quanto la censura non vuole punire delitti, ma opinioni, poiché non può esser formulato altro che il censore, poiché nessuno Stato ha il coraggio di esprimere in norme legali generali quei principi che può applicare praticamente attraverso l'organo del censore. Perciò anche l'applicazione viene delegata alla polizia e non ai tribunali.

Anche se praticamente la censura fosse una sola cosa con la giustizia, rimarrebbe tuttavia un fatto, che non ha necessità alcuna di esistere. Fa parte della libertà non solo quello che io vivo, ma anche come lo vivo; non solo che io eserciti la libertà, ma anche che l'eserciti liberamente. Altrimenti che cosa distinguerebbe il muratore dal castoro, se non il fatto che il castoro è un muratore con la pelliccia e il muratore un castoro senza pelliccia?

Per giunta il nostro oratore ritorna ancora una volta agli effetti della libertà di stampa nei paesi nei quali esiste realmente. Ma avendo trattato il tema a sufficenza, ci occuperemo ora solo della stampa francese. Prescindendo dal fatto che i difetti della stampa francese sono i difetti della nazione francese, non troviamo il male là dove lo cerca l'oratore. La stampa francese non è troppo libera: al contrario non lo è abbastanza. Invero non sottostà ad una censura spirituale, bensì ad una materiale: cioè le alte cauzioni in danaro. Perciò agisce in modo materiale, proprio perché dalla sfera a lei propria venne spinta in quella delle grandi speculazioni commerciali. Inoltre le grandi speculazioni commerciali hanno luogo nelle grandi città; la stampa francese si concentra perciò in pochi centri, e se la forza materiale concentrata in pochi centri ha un effetto demoniaco, come non l'avrà la forza spirituale?

Ma se volete giudicare la libertà di stampa non secondo le sue idee, bensì secondo la sua esistenza storica, perché non la ricercate là dove esiste storicamente? Gli scienziati per mezzo degli esperimenti cercano di riprodurre un fenomeno naturale nelle sue condizioni più pure. Voi non avete bisogno di esperimenti; trovate nel Nord America il fenomeno naturale della libertà di stampa nelle sue forme più pure e naturali. Ma se il Nord America ha grandi fondamenti storici di libertà di stampa, la Germania ne ha di più grandi. La letteratura di un popolo e la cultura che ne deriva non sono soltanto i fondamenti storici diretti della stampa, bensì la sua stessa storia. E quale popolo nel mondo può vantare fondamenti storici della stampa tanto immediati quanto quelli del popolo tedesco?

Ma, interviene l'oratore, guai alla moralità tedesca se la sua stampa fosse libera, perché la libertà di stampa cagiona una « amoralizzazione interna che cerca di metter da parte la fede in una più alta destinazione dell'uomo e con essa i fondamenti di una vera civiltà».

In senso amoralizzante agisce la stampa censurata. Il vizio potenziato, l'adulazione, è inseparabile da essa, e da questo vizio base derivano tutti gli altri difetti suoi, ai quali manca addirittura ogni disposizione alla virtù, quei suoi difetti di passività, ripugnanti anche solo esteticamente. Il governo ode soltanto la propria voce sa di udire soltanto la propria voce, e tuttavia si ostina nella finzione di ascoltare la voce del popolo e pretende che anche il popolo creda a tale finzione. A sua volta questo cade perciò, parte in una superstizione, parte in un'incredulità politica, ovvero, separandosi completamente dalla vita dello Stato, diventa volgo privato. Mentre la stampa esalta quotidianamente le opere della volontà governativa, dicendo ciò che Dio stesso disse il sesto giorno della creazione: « Ed ecco, tutto era buono» [Genesi, I, 31]; mentre però inevitabilmente ogni giorno è una contraddizione di quello precedente, la stampa mente di continuo e deve persino negare la consapevolezza della menzogna e allontanare da sé la vergogna. Dovendo considerare illegali gli scritti liberi, il popolo si abitua a considerare libera l'illegalità, illegale la libertà e legale la mancanza di libertà. Cosi la censura uccide lo spirito dello Stato. Ma il nostro oratore teme la libertà di stampa per i «privati». Non pensa che la censura è un attentato continuo contro i diritti dei privati e ancor più contro le loro idee. Si infiamma a favore delle individualità minacciate: non dovremmo noi a nostra volta infiammarci per l'intera generalità minacciata?

Non possiamo separare più nettamente le sue vedute dalle nostre, che contrapponendo alle sue definizioni di «malvagi sentimenti» le nostre.

Malvagio sentimento è «la superbia, che non riconosce autorità alcuna nello Stato e nella Chiesa». E non dovremmo ritenere malvagio sentimento quello che non riconosce l'autorità della ragione e della legge? «È l'invidia a predicare la distruzione di tutto quello che il volgo chiama aristocrazia». E noi diciamo: è l'invidia che vuole distruggere l'aristocrazia eterna della natura umana, la libertà, un'aristocrazia della quale neppure il popolo può dubitare. «È il perfido compiacimento dei mali altrui, che si diverte alle spalle dei singoli, senza curare se si tratta di menzogna o verità, e che esige dispoticamente la pubblicità affinché nessuno scandalo della vita privata resti celato». È il perfido compiacimento dei mali altrui che strappa dalla gran vita dei popoli pettegolezzi e beghe personali, che della storia misconosce la razionalità e ne predica al pubblico solo gli scandali, che, assolutamente incapace di giudicare l'essenza di una cosa, si appiglia a singoli lati del fenomeno, a cose personali, e pretende dispoticamente il mistero affinché ogni onta della vita pubblica resti celata. «È la malizia del cuore e della fantasia, solleticata da immagini lascive». È la malizia del cuore e della fantasia, che si diletta dell'onnipotenza del male e dell'impotenza del bene con immagini lascive, è la fantasia cui orgoglio è il peccato, è il cuore impuro che nasconde sotto immagini mistiche la terrena tracotanza. « È la mancanza di fede nella propria salvezza, che, negando Dio, vuol far tacere la voce della coscienza». È la mancanza di fede nella propria salvezza, che delle proprie debolezze fa debolezze dell'umanità per sottrarsi alla sua stessa coscienza; è la mancanza di fede nella salvezza dell'umanità, che le impedisce di seguire le leggi naturali, innate, e predica come necessaria la minorità; è l'adulazione che mette avanti Dio senza credere alla sua realtà, all'onnipotenza del bene; è infine l'avidità per la quale il vantaggio personale è superiore alla salvezza di tutti.

Questa gente dubita dell'umanità in genere e canonizza alcuni uomini singoli. Abbozza un'immagine orribile della natura umana in genere e pretende nello stesso tempo che cadiamo in ginocchio dinanzi all'immagine sacra di alcuni privilegiati. Sappiamo che l'uomo da solo è debole, ma sappiamo anche che la totalità è forte. Infine l'oratore ci rammenta le parole emesse dai rami dell'albero della conoscenza intorno al piacere, i cui frutti noi adoperiamo ora alla stessa guisa di allora: «Per nulla affatto morirete se mangerete di questi frutti; al contrario i vostri occhi si apriranno, voi diverrete come dèi, esperti del bene e del male» [Cita a memoria le parole dette a Eva dal serpente (Genesi, III, 4-5)]. Sebbene non crediamo che l'oratore abbia appreso direttamente dall'albero della conoscenza che noi rappresentati alla Dieta renana trattammo allora con il diavolo — perlomeno il Genesi non ne fa cenno — tuttavia adottiamo la sua opinione, rammentandogli però che allora il diavolo non menti; Dio stesso infatti dice: « Adamo è divenuto simile a noi, esperto del bene e del male '...» [Cfr. Genesi, III, 22 ].

Come epilogo di questo discorso citiamo volentieri le parole dell'oratore stesso: «Scrivere e parlare sono due abilità meccaniche».

Per quanto il nostro lettore debba essere stanco di tali «abilità meccaniche», per amore di completezza dobbiamo permettere che, dopo il rappresentante dei principi e quello dei nobili, dica la sua contro la libertà di stampa anche il rappresentante delle città. Abbiamo di fronte a noi l'opposizione del bourgeois, non del citoyen.

Il rappresentante delle città crede di potersi riallacciare a Sieyès [ Emmanuel Joseph Sieyès (1748-1836), è qui ricordato per il suo Projet de loi contre les délits qui peuvent se commettre par la voie de l'impression et par la publication des écrits et des gravures, elaborato nel Ì790] con l'osservazione borghese: «La libertà di stampa è una bella cosa, finché non vi si mescolano uomini cattivi», ecc. «Al contrario fino ad oggi non è stato trovato un mezzo "sicuro», ecc. È già lodevole l'ingenuità di definire la libertà di stampa «una cosa». Tutto possiamo rimproverare a questo oratore, ma non mancanza di semplicità o eccesso di fantasia. Dunque la libertà di stampa è una bella cosa, insomma qualcosa che abbellisce le dolci abitudini dell'esistenza, una buona, una simpatica cosa? Ma ecco che ci sono anche uomini cattivi, che abusano della lingua per mentire, della testa per macchinare, delle mani per rubare, dei piedi per disertare. Belle cose sono parlare e pensare, mani e piedi; bel parlare, piacevole pensare, mani laboriose, piedi utilissimi, se però non ci fossero gli uomini cattivi, che ne fanno cattivo uso! E fino ad oggi non è stato possibile scovare un piccolo rimedio!

« Le simpatie per la costituzione e la libertà di stampa inevitabilmente diminuirebbero, se si vedesse come in ogni paese sono legati ad esso una situazione eternamente oscillante (come in Francia) e un'angosciosa incertezza per il futuro». Quando per la prima volta venne fatta la scoperta mondiale che la terra è un perfetuum mobile, senza dubbio più d'un Tedesco afferrò la sua brava berretta da notte, sospirando sulla situazione eternamente oscillante della terra natia, e un'angosciosa incertezza riguardo al futuro lo disgustò di una casa che ad ogni istante si mette a testa in giù.

(«Gazzetta renana», 19 maggio 1842, n. 139, supplemento)

La libertà di stampa provoca situazioni oscillanti allo stesso modo che il canocchiale dell'astronomo provoca il movimento incessante del sistema cosmico. Cattiva astronomia! Che bel tempo quello in cui la terra, come un onorato borghese, sedeva al centro dell'universo tranquillamente fumando la sua pipa, né le era mai necessario accendere luce propria, poiché sole, luna e stelle come tante devote lampade notturne e «cose belle» le danzavano intorno.

Chi mai distrusse ciò che creò, quegli sta immobile su questo mondo terrestre, che immobile non è

dice Hariri [Casim ben Aliel Abu Mohammed Hariri («mercante di seta»), nativo di Bassora (1054-1121), grammatico e poeta, autore di cinquanta novelle raccolte sotto il titolo di Macamen, cioè Sedute. Marx cita da F. Ruckert, Die Verwand-lungen des Abu Said von Serug, oder die Makamen des Hariri, Stuttgart und Tu[bingen, 1837, voi. I, p. 136], che non è un Francese, ma un Arabo.

Senza dubbio l'ordine cui appartiene l'oratore trapela chiaramente: «Il patriota vero e leale non può reprimere il sentimento che costituzione e libertà di stampa non sono per il bene del popolo, bensi per soddisfare l'ambizione del singolo e il dispotismo dei partiti». È noto che una determinata psicologia spiega come la grandezza derivi da piccole origini e, pensando giustamente che tutto ciò per cui l'uomo lotta è cosa di suo interesse, giunge all'errata concezione che esistano solo «piccoli» interessi, solo gli interessi di uno stereotipato egoismo. È noto inoltre che questo tipo di psicologia e conoscenza umana si trova in particolare in quelle città in cui è anche segno di furberia, osservando il mondo, scorgere, attraverso la nuvolaglia di idee e realtà, dei piccolissimi mannequins invidiosi e intriganti che, tranquillamente assisi, manovrano coi fili la massa degli uomini. Ma è noto ugualmente che a guardare troppo da vicino nello specchio si finisce per battervi la testa, e cosi alla fine la conoscenza degli uomini e del mondo posseduta da codesti furboni è un colpo mistificato battuto contro la propria testa.

Anche la mediocrità e l'indecisione designano la condizione dell'oratore. «Il suo senso d'indipendenza parla a favore della libertà di stampa (certo nel senso del relatore), ma deve dar ascolto alla ragione e all'esperienza». Se avesse concluso dicendo che la sua ragione era, si, favorevole alla libertà di stampa, ma il suo senso d'indipendenza sfavorevole, il suo discorso sarebbe stato un quadro tipico di reazione cittadina.

Chi ha una lingua e non parla, chi ha una lama e non combatte, che è mai, se non un inetto? [Anche questa è una citazione da Hariri (cfr. Ruckert, op. cit., voi. I, P- 135)]

Veniamo ai difensori della libertà di stampa, e cominciamo con la proposta principale. Tralasciamo l'argomento più generale espresso bene e a proposito all'inizio della proposta, per mettere in rilievo il punto di vista caratteristico e peculiare di questa. Il proponente vuole che la professione della libertà di stampa non sia esclusa dalla generale libertà di professione, com'è invece il caso tuttora, per cui il contrasto interno appare come incoerenza classica.

I lavori della gamba o della mano sono liberi, quelli della testa sono invece sotto tutela. Ma forse quelli delle teste più grandi? Dio ne guardi, i censori non si occupano di ciò. Dio concede anche intelletto a colui cui concede un impiego.

Innanzitutto rende perplessi vedere la libertà di stampa compresa tra le libertà professionali. Ma non possiamo respingere del tutto le vedute dell'oratore. Rembrandt dipinse la Madre di Dio come una contadina dei Paesi Bassi; perché dunque il nostro oratore non dovrebbe dipingere la libertà sotto le sembianze a lui più note e correnti? Allo stesso modo non possiamo contestare una relativa verità al suo ragionamento. Anche considerando la stampa solo a questo modo, come professione della testa, le spetta una libertà maggiore che ai mestieri della gamba e del braccio. L'emancipazione del braccio e della gamba diviene importante in senso umano solo con l'emancipazione della testa, perché, com'è noto, braccia e gambe divengono braccia e gambe umane solo per mezzo della testa che esse servono. Quindi, per quanto a primo sguardo la concezione dell'oratore possa apparire originale, confessiamo tuttavia di preferirla di gran lunga al ragionamento scomposto, nebuloso e ondeggiante di quei liberali tedeschi, i quali credono di onorare la libertà col collocarla nel firmamento della fantasia invece che sul solido terreno della realtà. A questi sognatori, a questi sentimentali entusiasti che rifuggono da ogni contatto del loro idolo con la realtà come da una profanazione, noi Tedeschi dobbiamo in parte se fino a oggi la libertà è rimasta una fantasia e un sogno.

I Tedeschi sono inclini per lo più ai sentimentalismi e agli entusiasmi, hanno un tenero per la musica dell'illusione. Per questo ci si deve rallegrare quando il grande problema dell'idea viene mostrato loro da un punto di vista terreno, reale, staccato dall'ambiente più prossimo. Per natura i Tedeschi sono tra tutti gli uomini i più devoti, sottomessi, rispettosi. Per eccesso di rispetto verso le idee non le realizzano. Dedicano ad esse un culto di venerazione, ma non le coltivano. La strada presa dall'oratore appare quindi indicata per familiarizzare il Tedesco con le sue idee, per mostrargli come qui abbia a che fare non con cose inavvicinabili, bensi con il suo più stretto interesse; per tradurre in linguaggio degli uomini il linguaggio degli dèi.

È noto che i Greci credevano di riconoscere negli dèi egiziani, libici, perfino sciti, il loro Apollo, la loro Atena, il loro Zeus, e trascuravano come cosa secondaria le peculiarità del culto straniero. Quindi non è un delitto se il Tedesco considera che l'ignota dea della libertà di stampa sia una delle sue dee conosciute e, al modo di quelli, la chiama libertà di professione o libertà di proprietà. Ma appunto perché riconosciamo e apprezziamo il punto di vista dell'oratore, lo sottoponiamo a una critica tanto più severa.

« Si potrebbe facilmente pensare: continuazione del regime delle corporazioni accanto a libertà di stampa, perché la professione della testa potrebbe pretendere un più alto potenziamento, una parità con le sette arti libere; ma che accanto alla libertà di professione continui a esistere la servitù della stampa è un peccato contro lo Spirito Santo». Benissimo! La forma inferiore della libertà è dichiarata illegale per se stessa, se quella superiore non è giustificata. Il diritto del singolo cittadino è una pazzia, se non è riconosciuto quello dello Stato. Se la verità in genere è legittima, si capisce da sé che una forma della libertà è tanto più giusta quanto maggiore e più sviluppata esistenza ha ottenuto in essa la libertà. Se è giustificato il polipo, perché in lui palpita oscuramente la vita della natura, come non lo sarebbe il leone, nel quale quella vita rugge e infuria?

Per quanto giusta sia l'argomentazione di considerare dimostrata attraverso il diritto di una forma minore l'eccellenza della giustizia in sé, tuttavia è errata la supposizione che fa della sfera minore una misura di quella maggiore, e volge al comico le proprie leggi, che sono razionali nell'interno dei suoi confini, conferendo ad esse la pretesa di essere non già leggi della propria sfera, bensì leggi di una sfera superiore. È come se volessi costringere un gigante ad abitare sotto il tetto di un pigmeo. Libertà di mestiere, di possesso, di coscienza, di stampa, di tribunali sono tutti aspetti di una sola e medesima specie, della libertà senza attributi. Ma non è affatto erroneo dimenticare la differenza che esiste oltre l'unità, e di un aspetto particolare fare la misura, la norma, la sfera degli altri? È l'intolleranza di un aspetto della libertà, il quale tollera gli altri solo se spontaneamente scendono ad una posizione subordinata e si dichiarano suoi vassalli.

La libertà di mestiere è appunto la libertà di mestiere e non un'altra, poiché in essa la natura del lavoro si plasma indisturbata conforme alle sue regole interne di vita; la libertà giudiziaria è tale solo se i tribunali seguono le leggi proprie ed innate del diritto, non quelle di un'altra sfera, per esempio della religione. Ogni determinata sfera della libertà è la libertà di quella determinata sfera, come ogni specie particolare della vita è la specie vitale di una natura determinata. Non sarebbe errata la pretesa che il leone si conformi alle leggi di vita del polipo? Non concepirei falsamente la connessione e l'unità dell'organismo umano, se concludessi: poiché gambe e braccia per natura esplicano una funzione, occhi e orecchi, questi organi che strappano l'uomo dalla sua chiusa individualità rendendolo specchio ed eco dell'universo, devono aver diritto ad una funzionalità ancor maggiore ed esplicare quindi una funzione potenziata rispetto a braccia e gambe? Come nel sistema cosmico ogni singolo pianeta si muove intorno al sole girando nel contempo intorno a se stesso, cosi nel sistema della libertà ognuno dei suoi mondi ruota intorno al sole centrale della libertà, girando nel contempo intorno a se stesso. Fare della libertà di stampa una categoria della libertà di mestiere equivale a difenderla nel momento stesso che la si uccide di fronte alla difesa; infatti non tolgo a una determinata natura la sua libertà, se pretendo che sia libera secondo il modo di un'altra natura?

- La tua libertà non è la mia! — grida la stampa al lavoro: — Come tu vuoi obbedire a leggi della tua sfera, cosi io a leggi della mia. Essere libero secondo il tuo modo equivarrebbe per me a non esserlo, allo stesso modo che il falegname si sentirebbe assai poco edificato se, pretendendo egli libertà per il suo lavoro, gli si desse come equivalente quella del filosofo.

Vogliamo riferire nella sua nudità il pensiero dell'oratore. Che cos'è libertà? Risposta: la libertà di lavoro. Press'a poco come se uno studente alla domanda: cos'è libertà? rispondesse: è la libertà di far baldoria. Col medesimo diritto della libertà di stampa si potrebbe comprendere ogni specie di libertà sotto la libertà di lavoro. Il giudice esercita il lavoro della legge, il predicatore quello della religione, il padre di famiglia quello dell'educazione dei figli; ma ho espresso forse con ciò il carattere della libertà giuridica, religiosa, morale? Si potrebbe anche capovolgere la cosa e chiamare la libertà di lavoro una branca della libertà di stampa. I lavoratori lavorano soltanto con le braccia e le gambe, oppure anche col cervello? Forse il linguaggio della parola è l'unico linguaggio del pensiero? Il meccanico della macchina a vapore non parla forse in modo assai percepibile al mio orecchio, il fabbricante di letti assai distintamente alla mia schiena, molto comprensibilmente il cuoco al mio stomaco? Non è una contraddizione che siano tollerati tutti questi modi della libertà di stampa e non anche quell'una che attraverso i caratteri da stampa parla al mio spirito? Per difendere la libertà di una sfera, e ugualmente per comprenderla, devo intenderla nel suo carattere essenziale, non nelle relazioni esteriori. Ma la stampa è forse fedele al suo carattere, agisce in conformità della sua nobile natura, se si abbassa a essere mestiere? Lo scrittore deve certamente lavorare per poter esistere e scrivere, ma non deve assolutamente esistere e scrivere per poter lavorare.

Se Béranger canta

Je ne vis, que pour faire des chansons: si vous m'òtez ma place, Monseigneur, je ferai des chansons pour vivre;

in questa minaccia è celata l'ironica confessione che il poeta decade dalla sua sfera non appena la poesia divenga per lui un mezzo. Lo scrittore non considera assolutamente i suoi lavori come mezzi. Essi sono fini a se stessi, ma non per lui e per gli altri, tanto che egli sacrificherebbe alla loro la propria esistenza, se fosse necessario; insomma è l'equivalente del principio stabilito dal predicatore religioso: «Obbedisci a Dio piuttosto che agli uomini», tra i quali uomini è incluso egli stesso con i suoi bisogni e desideri umani. Come se un sarto, al quale ho ordinato un frac di Parigi, mi preparasse invece una toga romana, perché questa risponde di più alle leggi eterne della bellezza! La prima libertà della stampa consiste nel non essere un mestiere. Allo scrittore che la degrada a mezzo materiale spetta, come punizione di questa mancanza di libertà interiore, la privazione della libertà esteriore, cioè la censura; del resto già la sua esistenza è una punizione.

Senza dubbio la stampa esiste anche come mestiere, e allora non è cosa che riguarda lo scrittore, ma il tipografo e l'editore. Ma qui non si tratta della libertà di lavoro per tipografi e editori, bensì della libertà di stampa.

Il nostro oratore senza dubbio non si contenta affatto di credere dimostrata attraverso la libertà di lavoro la libertà di stampa; pretende che questa si sottoponga alle leggi di quella anziché alle proprie. Polemizza perfino contro il relatore della commissione, il quale sostiene un concetto più alto della libertà di stampa, e si abbandona a pretese che potrebbero avere un effetto solo umoristico, perché l'umorismo è già in atto non appena le leggi di una sfera inferiore vengono applicate a una superiore, come del resto si ha un effetto ridicolo quando i bambini si atteggiano a grandi. «Parla di autori autorizzati e non autorizzati. Lo spiega col fatto che sempre, anche nella libertà di lavoro, l'esercizio d'un diritto concesso si riallaccia a una qualsiasi condizione, da adempiere più o meno facilmente a seconda della particolare specializzazione. I mastri muratori, falegnami e costruttori dovevano a ragion veduta adempiere a condizioni dalle quali la maggior parte degli altri mestieri era esente. La sua proposta è diretta a un diritto particolare, non ad uno generale».

Prima di tutto, chi deve concedere l'autorizzazione? Kant non avrebbe concesso l'autorizzazione di filosofo a Fichte, né Tolomeo a Copernico quella di astronomo, né Bernardo di Chiaravalle a Lutero quella di teologo. Ogni dotto annovera il proprio critico tra gli « autori non autorizzati». Oppure dovrebbero essere gli indotti a decidere chi debba essere dotto autorizzato? Evidentemente il giudizio dovrebbe esser lasciato agli autori non autorizzati, perché quelli autorizzati non possono esser giudici in una questione personale. Oppure l'autorizzazione dovrebbe esser legata ad un ceto? Il calzolaio Jakob Bòhme era un grande filosofo [Jakob Bohme (1575-1624) di Altseidenberg presso Gòrlitz, celebre per i suoi scritti mistici]: molti filosofi di grido sono solo grandi calzolai. Inoltre, avendo parlato di autori autorizzati e non, per esser coerenti non ci si può accontentare di distinguere le persone, ma si deve dividere in tanti lavori il lavoro della stampa, rilasciare secondo le diverse sfere dell'attività letteraria patenti di lavoro; o forse lo scrittore autorizzato dev'essere in grado di scrivere su ogni argomento? Da sempre il calzolaio è più autorizzato a scrivere intorno alle pelli che non il giurista. Allo stesso modo il salariato è più autorizzato del teologo a discutere se si debba o no lavorare nei giorni di festa. Se dunque abbiniamo l'autorizzazione a speciali condizioni materiali, ogni cittadino nello stesso tempo sarà scrittore autorizzato e non, autorizzato nel campo del suo lavoro, non autorizzato in tutti gli altri.

Prescindendo dal fatto che in questo, modo il mondo della stampa, anziché un legame generale del popolo, diverrebbe il vero e proprio mezzo di divisione, e che la diversità dei ceti verrebbe cosi fissata nel campo spirituale e la storia della letteratura decadrebbe a storia naturale delle diverse specie dello spirito; prescindendo dalle contese di confine difficilmente risolvibili, e dalle inevitabili collisioni, e dal fatto che stupidità e insulsaggine verrebbero imposte come legge alla stampa, perché io posso considerare con intelligenza e libertà il particolare solo se connesso al generale e non separato; prescindendo da tutto questo, poiché leggere è altrettanto importante che scrivere, dovrebbero esserci anche lettori autorizzati e non; una conseguenza logica, che in Egitto venne tratta fino in fondo, perché i sacerdoti, gli unici scrittori autorizzati, erano anche gli unici lettori autorizzati. Ed è assai utile che solo agli autori autorizzati venga concessa l'autorizzazione di comperare e leggere i propri scritti.

Che incoerenza! Se una volta si ammette un tale privilegio, bene, allora il governo ha pieno diritto di stimarsi l'unico autore autorizzato riguardo alle concessioni da fare; infatti, se al di fuori del vostro ceto particolare vi ritenete autorizzati come cittadini a scrivere intorno alla generalità, cioè allo Stato, non dovrebbero gli altri mortali che voi volete escludere essere autorizzati come uomini a giudicare intorno a qualcosa di molto particolare, cioè alla vostra autorizzazione e ai vostri scritti? Sorgerebbe la ridicola contraddizione per cui l'autore autorizzato può scrivere sopra lo Stato senza sottostare a censura, invece quello non autorizzato solo sotto censura potrebbe scrivere intorno agli autori autorizzati. La libertà di stampa non si raggiungerà certo, se recluterete la schiera degli scrittori ufficiali dalle vostre file. Gli autori autorizzati sarebbero quelli ufficiali, la lotta tra censura e libertà di stampa si trasformerebbe in lotta tra scrittori autorizzati e non.

Con ragione un rappresentante del quarto ordine viene a proporre: «... che, se deve sussistere ancora qualche vincolo alla stampa, esso sia uguale per tutti i partiti, cioè che in questo campo a nessuna classe di cittadini si concedano diritti maggiori che alle altre». La censura ci sottomette tutti, perché in regime dispotico tutti sono pari, se non in valore, in mancanza di valore; quella specie di libertà di stampa vuol introdurre nel campo dello spirito l'oligocrazia. La censura dichiara tutt'al più che uno scrittore è incomodo, che non si adatta entro i confini del suo regno. Quella libertà di stampa invece va oltre la presunzione di anticipare la storia del mondo, di prevenire la voce del popolo, che sola fino ad oggi ha giudicato quale scrittore sia «autorizzato» e quale « non autorizzato». Mentre Solone si permetteva di giudicare un uomo solo dopo la fine della sua vita, dopo la morte, questo particolare modo di vedere si permette invece di giudicare uno scrittore prima della sua nascita.

La stampa è la maniera universale degli individui di partecipare la propria essenza spirituale. Essa non conosce considerazioni di persona, ma solo d'intelligenza. Volete incatenare burocraticamente a contrassegni esteriori particolari la capacità spirituale di comunicare? Ciò che io non posso essere per altri non posso esserlo per me; se non posso esistere come spirito per gli altri, non posso esserlo neppure per me; volete invece dare a singoli uomini il privilegio di essere spiriti? Bene, come ognuno impara a leggere e scrivere, ognuno deve avere libertà di leggere e scrivere.

E per chi poi dovrebbe valere la divisione in scrittori «autorizzati» e «non autorizzati»? Certamente non per quelli veramente autorizzati, perché costoro, nonostante tutto, troveranno modo di farsi valere. Allora per quelli «non autorizzati», che vogliono proteggersi e imporsi con un privilegio esteriore? Comunque questo palliativo non rende affatto inutile la legge sulla stampa, perché, come osserva un oratore dei contadini, «non può forse un privilegiato oltrepassare i limiti autorizzati, diventando cosi passibile di punizione? In ogni caso sarebbe necessaria una legge sulla stampa, per la quale si urterebbe contro le medesime difficoltà di una legge universale sulla stampa».

Se il Tedesco guarda indietro nella sua storia letteraria, troverà il motivo fondamentale della sua lenta evoluzione politica, come pure dello squallore letterario precedente a Lessing, negli «scrittori autorizzati». I sapienti di mestiere, di corporazione, di privilegio, i dottori e la loro genia, gli scialbi scrittori universitari dei secoli xvii e xviii con i loro rigidi codini, la loro elegante pedanteria e le loro meschine dissertazioni micrologiche si sono messi tra il popolo e lo spirito, tra la vita e la scienza, tra la libertà e l'uomo. Gli scrittori non autorizzati hanno fatto la nostra letteratura. Gottsched e Lessing [Johann Christoph Gottsched (1700-66), critico e grammatico fecondo, sulla metà del Settecento fu arbitro del gusto letterario tedesco con una sua convenzionale e grigia arte poetica; Gotthold Ephraim Lessing (1729-81) è il grande poeta, drammaturgo e critico] scegliete tra un autore «autorizzato» e uno «non autorizzato»! Noi non amiamo affatto la libertà che ha valore solo al plurale. L'Inghilterra è una dimostrazione, di grandezza storica, di quanto l'orizzonte ristretto de «le libertà» sia pericoloso per «la libertà». Ce mot des libertés, dice Voltaire, des privilèges, suppose Vassujetissement. Des libertés sont des exemp-tions de la servitude generale.

Se inoltre il nostro oratore vuol escludere dalla libertà di stampa gli scrittori anonimi e pseudonimi e sottometterli alla censura, osserviamo che nel campo della stampa il nome non appartiene alla cosa, ma che, dove domina una legge sulla stampa, l'editore, e attraverso lui lo scrittore anonimo o pseudonimo, è sottoposto ai tribunali. Inoltre, quando Adamo diede un nome a tutti gli animali, dimenticò di darlo ai corrispondenti dei giornali tedeschi, ed essi resteranno senza nome in saeculum saeculorum.

Mentre il proponente ha cercato di limitare le persone, i soggetti della stampa, altri ordini vogliono limitare invece la materia che è oggetto della stampa, l'ambito della sua azione ed esistenza, e ne deriva un meschino mercanteggiare e contrattare sull'estensione da concedere alla libertà di stampa. Un ordine vuol limitarla alla discussione dei rapporti materiali, spirituali e religiosi della Renania; un altro vuole «Giornali comunali», il cui nome esprime già la limitatezza del contenuto; un terzo addirittura che in ogni provincia ci sia un solo giornale indipendente!!!

Tutti questi tentativi rammentano quel maestro di ginnastica, il quale, per insegnare più efficacemente il salto, propose di portare l'allievo presso un gran fosso e di mostrargli solo con un filo di refe quanto avrebbe dovuto saltare della larghezza del fosso. Naturalmente l'allievo si sarebbe dovuto esercitare, né certo subito il primo giorno sarebbe stato in grado di saltare il fosso per intero; però via via il filo sarebbe stato spinto più in là. Purtroppo alla prima lezione l'allievo cadde nel fosso e vi è rimasto fino a oggi. Il maestro era tedesco e l'allievo aveva nome «libertà».

A giudicarli dal tipo corrente e normale, i difensori della libertà di stampa alla sesta Dieta renana non si differenziano dai loro avversari per il contenuto, ma per gli scopi. In quelli la stampa combatte, in questi difende i limiti di un ordine particolare. Gli uni vogliono il privilegio solo dalla parte del governo, gli altri lo vogliono dividere tra più persone; gli uni una mezza, gli altri una intera censura; gli uni tre ottavi di libertà, gli altri nessuna addirittura. Dio mi guardi dagli amici!

Però divergono in pieno dallo spirito generale della Dieta i discorsi dei relatori e di alcuni membri dell'ordine dei contadini. Tra gli altri osserva un relatore:

Si dà nella vita dei popoli, come pure in quella del singolo, il caso in cui i legami di una tutela troppo prolungata divengono insopportabili, in cui si anela all'indipendenza e in cui ciascuno vuol essere personalmente responsabile delle proprie azioni. In tal caso la censura ha cessato di vivere; là dove ancora continua viene considerata un'odiosa catena che proibisce di scrivere quello che viene detto pubblicamente.

Scrivi come parli e parla come scrivi, ci insegnano già i maestri elementari. Più tardi ci viene detto invece: parla come ti viene prescritto e scrivi ripetendo parole altrui.

Ogniqualvolta l'inarrestabile progresso del tempo sviluppa nuovi interessi capitali o provoca nuove necessità per le quali la legislazione esistente non contiene norme bastevoli, nuove leggi devono regolare questa nuova condizione della società.

È per l'appunto il caso nostro. Ecco una concezione veramente storica di contro a tutte quelle fantasie che uccidono la razionalità della storia, per poi mostrare nascostamente le sue ossa al culto delle reliquie della storia.

Senza dubbio non è facile adempiere a tale compito (cioè redigere un codice sulla stampa); il primo tentativo resterà magari assai imperfetto. Ma tutti gli Stati non proveranno che gratitudine per il legislatore che per primo vi si cimenterà; e forse sotto un re come il nostro è riservato al governo prussiano l'onore di precedere gli altri paesi su questa strada, che sola può condurre alla mèta.

Il nostro scritto ha certo mostrato quanto isolata apparve alla Dieta questa concezione virile, dignitosa e decisa; lo osservò anche il presidente al relatore e lo espresse infine un membro dell'ordine dei contadini nel suo scoraggiato ma eccellente discorso::

Si gira intorno alla questione come il gatto alla minestra troppo calda... Lo spirito umano deve potersi sviluppare liberamente secondo le sue leggi innate e comunicare i risultati raggiunti; diversamente, da un fiume limpido e vivificante si avrà una pestifera palude. Se c'è un popolo degno della libertà di stampa, questo è certamente il tedesco, ligio e tranquillo, cui è necessario assai più un incitamento contro la sua flemma, che la camicia di forza della censura. Questa impossibilità di partecipare liberamente ai concittadini i propri pensieri e sentimenti ha molta analogia con il sistema americano di isolare i detenuti, sistema che, se applicato con rigidezza totale, conduce alla pazzia. Chi non può biasimare non può nemmeno esprimere lodi che abbiano valore; è simile, nella sua inespressività, a un quadro cinese nel quale manca l'ombra. Speriamo di non doverci trovare sullo stesso piano di quel popolo addormentato.

Se ora volgiamo uno sguardo d'insieme ai dibattiti sulla stampa, non possiamo nascondere l'impressione di spiacevole vuoto prodotta dall'assemblea dei rappresentanti della Renania, i quali oscillano solo tra l'irrigidimento intenzionale del privilegio e l'impotenza naturale di un semi-liberalismo; dobbiamo purtroppo notare soprattutto una generale mancanza di punti di vista vasti e universali, come pure quella superficiale trascuratezza che discute e mette da parte la questione della libera stampa; allora ci chiediamo ancora una volta se la stampa era troppo lontana dagli ordini della provincia, se aveva con essi troppo pochi contatti reali perché si sentissero spinti a difenderne la libertà con quell'interessamento serio e profondo ch'è dettato dalla necessità.

La libertà di stampa presentò la sua supplica agli ordini provinciali con la più fine captatio benevolentiae. Subito all'inizio della Dieta sorse infatti una discussione in cui il presidente informò che la pubblicazione dei dibattiti alla Dieta era sottoposta alla censura come tutti gli altri scritti, ma che egli prendeva qui il posto del censore. Su quest'unico punto la questione della libertà di stampa non coincise forse con la libertà della Dieta? Questa coincidenza è tanto più interessante, in quanto a spese della stessa Dieta venne dimostrato, che con la mancanza di libertà di stampa tutte le altre libertà diventano illusorie. Ogni forma di libertà presuppone le altre, come ogni membro del corpo presuppone gli altri. Ogniqualvolta vien posta in discussione una determinata libertà, è la libertà stessa in discussione. Ogniqualvolta viene respinta una forma particolare di libertà, è respinta la libertà stessa, ed essa può condurre solo una vita apparente; in conseguenza è puramente casuale la scelta del soggetto su cui la mancanza di libertà esercita la sua violenza. La mancanza di libertà è la regola del caso e dell'arbitrio, mentre la libertà ne è l'eccezione. Quindi niente è più errato, quando si tratta di una forma particolare della libertà, che ritenere una questione particolare quella ch'è invece una questione generale entro una sfera particolare. La libertà rimane tale, sia ch'essa si esprima nell'inchiostro tipografico, o nella proprietà terriera, o nella coscienza, o nelle assemblee politiche; ma l'amico leale della libertà, il cui senso dell'onore sarebbe già stato ferito se avesse dovuto votare sulla questione: «Essere o non essere della libertà?», quest'amico resterà perplesso di fronte alla materia caratteristica in cui compare la libertà, nel genere non riconoscerà la specie, a cagione della stampa dimenticherà la libertà, crederà di giudicare un essere estraneo e giudicherà invece il suo stesso essere. Cosi la sesta Dieta renana ha giudicato se stessa, quando ha espresso il suo giudizio sulla libertà di stampa.

I molto saggi impiegati della prassi, i quali in silenzio e a torto pensano di sé ciò che Pericle diceva di sé a voce alta e con ragione: «Io sono un uomo che può misurarsi con chiunque nella conoscenza dei bisogni dello Stato come nell'arte di soddisfarli» [Tucidide, II, 60]; questi enfìteuti dell'intelligenza politica alzeranno le spalle e osserveranno con superiorità da oracolo che i difensori della libertà di stampa trebbiano vuota pula, perché una censura mite è migliore d'una libertà di stampa aspra. Noi replichiamo loro ciò che gli spartani Spertias e Bulis risposero al satrapo persiano Hydarnes: «Hydarnes, il consiglio che ci hai dato non è pesato ugualmente da ambo le parti, perché delle cose che ci consigli una l'hai provata, l'altra ti è ignota. Infatti tu sai che cosa voglia dire esser schiavo, ma la libertà giammai provasti se sia dolce o no. Perché, se tu l'avessi provata, ci consiglieresti di combattere per essa non solo con le lance, ma anche con le scuri» [Erodoto, VII, 135].

IL COMUNISMO E LA «GAZZETTA GENERALE DI AUGUSTA»
(«Gazzetta renana», 16 ottobre 1842, n. 289).

Colonia, 15 ottobre. Il n. 284 della «Gazzetta di Augusta» è cosi maldestro da ravvisare nella «Gazzetta renana» una comunista prussiana; certo non una vera comunista, ma pur sempre una persona che civetta fantasiosamente con il comunismo e gli fa platonicamente l'occhiolino. Se queste screanzate fantasticherie dell'augustana siano disinteressate, se quest'ozioso giochetto della sua fantasia eccitata sia connesso con speculazioni e maneggi diplomatici, può decidere il lettore, dopo che gli avremo presentato il preteso corpus delicti.

La «Gazzetta renana», è detto, ha accolto nella sua appendice uno scritto comunista sulle case d'abitazione di Berlino, accompagnandolo con la nota seguente: «Queste notizie non dovrebbero essere prive d'interesse per la storia di quest'importante questione d'attualità »; seguita quindi, con logica augustana, che la «Gazzetta renana» «ammannisce e raccomanda sudicia robaccia di questo genere» [Cfr. la «Augsburger allgemeine Zeitung» dell'11 ottobre 1842, n. 284, articolo Die Kommunistenlehren (Le dottrine comuniste), e la «Rheinische Zeitung» del 30 settembre 1842, n. 273, articolo Die Berliner Familienhaùser (Le case d'abitazione a Berlino). Si avverta che la «Gazzetta di Augusta», periodico liberale, aveva pubblicato di recente corrispondenze parigine di H. Heine non meno accese nel prospettare i problemi sociali: l'attacco alla «Renana» era dovuto a gelosia e rivalità ed era stato dettato dall'Hòfken, già redattore della «Renana», che poco prima aveva polemizzato anche col Bauer ]. Dunque, se io dico per esempio: «Le seguenti notizie di " Mefistofele " sulla direzione interna della " Gazzetta di Augusta " non sarebbero prive d'interesse per la storia di questa boriosa dama », raccomando forse la sudicia «robaccia» da cui l'augustana ritaglia il suo variopinto vestiario? 0 dovremmo forse negare che il comunismo è un'importante questione contemporanea solo perché non è una questione elegante, perché porta biancheria sporca e non olezza di acqua di rose?

Ma a ragione l'augustana biasima la nostra incomprensione. L'importanza del comunismo non consiste nel fatto che esso forma una questione d'attualità quanto mai grave per Francia e Inghilterra: il comunismo ha acquistato importanza europea per essere stato citato in una frase della «Gazzetta di Augusta». Uno dei suoi corrispondenti parigini, un convertito che tratta la storia come un pasticcere tratterebbe la botanica, ha avuto recentemente questa trovata: la monarchia dovrebbe cercare di far sue le idee social-comuniste. Ora comprenderete il malumore dell'augustana, che non ci perdonerà mai di aver esposto al pubblico il comunismo nella sua sudicia nudità; ora comprenderete l'aspra ironia con cui ci attacca: cosi raccomandate dunque il comunismo, che già godette del felice privilegio di ispirare una frase della «Gazzetta di Augusta»?

Il secondo rimprovero che colpisce la «Gazzetta renana» è per la conclusione di una corrispondenza da Strasburgo intorno ai discorsi comunisti pronunciati al locale congresso, poiché le due sorellastre si erano divise la preda in maniera che alla renana toccarono i dibattiti e alla bavarese i pranzi dei dotti di Strasburgo. Il passo incriminato suona letteralmente cosi:

Oggi la situazione per il medio ceto è qual era per la nobiltà nell'anno 1789; allora il ceto medio pretese per sé i privilegi della nobiltà e li ottenne; oggi la classe dei nullatenenti pretende di partecipare alla ricchezza delle classi medie, che al presente reggono il timone. Ma il ceto medio oggidì si è premunito contro una sorpresa meglio di quel che non fece la nobiltà nell'anno 1789, e c'è da sperare che il problema sia risolto in modo pacifico [Cfr. la «Rheinische Zeitung» del 7 ottobre 1842, n. 280, corrispondenza da Strasburgo in data 30 settembre, anonima, ma dovuta a Moses Hess. Nel convegno di dotti tenuto a Strasburgo si erano discusse le dottrine socialiste francesi.].

Che la profezia di Sieyès si sia avverata e che il tiers état sia diventato tutto e voglia esser tutto [ Nel gennaio 1789 era stato largamente diffuso in Francia il celebre opuscolo del Sieyès: Cos'è il terzo stato? Tutto. Cos'è stato finora sul piano politico? Nulla. Che cosa chiede? Diventare qualcosa; in pochi giorni se ne vendettero più di trentamila copie], lo riconoscono con la più malinconica indignazione il Bulow-Cummerow, il fu «Settimanale politico berlinese», il dottor Kosegarten [Ernst Gottfried von Bulow-Cummerow (1775-1851) di Britzau nel Mecklenburgo, patriota e scrittore politico di idee aristocratiche, aveva ristampato nel 1841 un saggio Ueber Preussens Finanzen (Sulle finanze prussiane) e nel 1842 il suo maggior trattato: Preussen, seine Verfassung, seine Verwaltung, sein Ver-haltnis zu Deutschland (La Prussia, la sua costituzione, il suo governo, la sua posizione nei riguardi della Germania).

Wilhelm Kosegarten (1792-1868) di Altengamm, scrittore politico ed economista, pubblicò nel 1842 le sue Betrachtungen iiber die Verausserlichkeit und Theilbarkeit des Landbesitzes (Considerazioni sull'alienabilità e la divisibilità della proprietà fondiaria)., tutti scrittori di mentalità feudale. Che la classe che oggi nulla possiede pretenda di partecipare alla ricchezza delle classi medie, questo è un fatto che anche senza i discorsi di Strasburgo e nonostante il silenzio di Augusta, balza agli occhi di ognuno per le strade di Manchester, Parigi e Lione. Crede forse l'augustana che il suo sdegno e il suo silenzio confutino la realtà odierna? L'augustana è sfacciata nel fuggire. Essa se la svigna dinanzi agli sconcertanti fenomeni contemporanei, e crede che la polvere che correndo solleva dietro di sé, come le pavide ingiurie che mormora tra i denti nella fuga, possano accecare e confondere tanto gli incomodi fenomeni odierni quanto il comodo lettore.

Oppure l'augustana è in collera per la speranza del nostro corrispondente, che l'urto incontestabile sia per risolversi «in modo pacifico»? O ci rinfaccia di non aver prescritto su due piedi una ricetta provata e di non aver infilato di soppiatto in tasca al sorpreso lettore una chiarissima relazione sull'inapplicabile soluzione del problema? Noi non possediamo l'arte di addomesticare con una frase problemi al cui superamento lavorano due popoli. Ma carissima e ottima augustana, prendendo occasione dal comunismo, ella ci dà ad intendere che ora la Germania è povera di personalità indipendenti, che i nove decimi della gioventù più istruita mendicano dallo Stato il pane per la loro esistenza, che i nostri fiumi sono trascurati, che la navigazione ristagna, che le nostre città mercantili un tempo fiorenti hanno perduto l'antico splendore, che in Prussia poi le libere istituzioni vengono ottenute solo a grado a grado, che l'eccedenza della nostra popolazione migra abbandonata per perire, essi, Tedeschi, sotto nazioni straniere, e che per tutti questi problemi non vi è una sola ricetta, un solo tentativo di «veder più chiaro sui mezzi» per compiere la grande impresa, che deve redimerci da tutte queste colpe! Oppure ella non spera in una soluzione pacifica? Sembra quasi che un altro articolo del medesimo numero, datato da Karlsruhe, voglia significare appunto questo, là dove persino in relazione all'unione doganale viene rivolta alla Prussia la domanda tendenziosa: «Si crede che una crisi simile si risolverebbe come una zuffa per il fumo di tabacco al Tiergarden?» Quello che ella esibisce a favore della propria incredulità è un motivo comunista. «Ebbene, si faccia scoppiare una crisi nell'industria, si facciano perdere milioni al capitale e restino senza pane milioni di lavoratori». Come inopportuno giunse il nostro «desiderio di pace», quando ormai ella aveva deciso di far scoppiare una crisi sanguinosa! Ragione per cui nel suo articolo sulla Gran Bretagna, secondo la sua logica particolare, si accenna, raccomandandolo come esempio, a quel demagogico dottor M'Douall, emigrato in America perché «con questa dinastia reale non c'è proprio niente da fare» [Peter Murray M'Douall (1814-54), uno dei capi più popolari del movimento cartista ].

Prima di separarci da lei, desideriamo ancora, di passaggio, richiamarla alla sua sapienza personale, poiché è nel suo stile di non astenersi del tutto, di non aver già un pensiero schietto su questo e su quello, ma appunto per ciò di pronunziarsi. Ella trova che la polemica del signor Hennequin [Victor-Antoine Hennequin (1792-1868), avvocato, pubblicista e uomo politico, attraverso la sua amicizia col Considérant divenne strenuo assertore del fourierismo e, a partire dal 1840, lo propagò con fervore di apostolo in Francia e nel Belgio; deputato dal 1850, fu carcerato in seguito al colpo di Stato del dicembre 1851; trascorse i suoi ultimi anni tra pratiche spiritiche e confuse prediche umanitarie, quasi demente] da Parigi contro la ripartizione della proprietà fondiaria lo rende sorprendentemente in armonia con gli autonomisti. La meraviglia, dice Aristotele, è il principio del filosofare [Aristotele, Metaphysica, I, II, 8 (982)]. Ella ha finito prima del principio. Altrimenti le sarebbe forse sfuggito il fatto meraviglioso, che i principi comunisti in Germania non sono divulgati dai liberali, ma dai di lei fratelli reazionari? Chi parla di corporazioni di lavoratori? I reazionari. La classe lavoratrice deve formare uno Stato nello Stato. Trova ella sorprendente che tali idee, espresse modernamente, suonino cosi: «Lo Stato deve realizzarsi nella classe lavoratrice»? Se per il lavoratore la sua classe dev'essere lo Stato, se però il lavoratore moderno come ogni uomo moderno intende e può intendere lo Stato soltanto come la sfera comune a tutti i suoi concittadini, in qual modo allora vuole sintetizzare le sue idee, se non in uno Stato di lavoratori?

Chi polemizza contro la ripartizione della proprietà fondarla? I reazionari. In uno scritto feudaleggiante (di Kosegarten, sulla ripartizione) apparso recentemente, si è andati tanto lontano da denominare la proprietà privata un privilegio. Questo è il principio di Fourier. Quando si sia d'accordo sui principi, non si deve poi discutere sulle conseguenze e l'applicazione pratica? La «Gazzetta renana», che non può concedere alle idee comuniste, nella loro forma odierna, neppure attualità teoretica, e quindi ancor meno può desiderare o anche solo ritener possibile la loro pratica realizzazione, sottoporrà queste idee ad una critica approfondita. Se però l'augustana pretendesse e desiderasse qualcosa di più che frasi brillanti, comprenderebbe che scritti come quelli di Leroux [Pierre Leroux (1797-1871) di Bercy (Parigi), operaio tipografo, autodidatta, studioso di questioni economiche, si formò nell'indirizzo sansimoniano, ma abbandonò poi la corrente di Enfantin per elaborare un proprio sistema sociale autonomo, su basi rigidamente egualitarie, con caratteri di misticismo anarchico. Si tratta di un tardo utopista, la cui importanza sta nel fervore con cui discusse e rese popolari le questioni delle ore lavorative giornaliere, del malthusianesimo e dell'organizzazione nazionale del lavoro], Considérant e soprattutto la penetrante opera di Proudhon, non possono esser criticati con trovate superficiali del momento, ma solo dopo uno studio lungo, assiduo e molto approfondito. Tanto più seriamente vogliamo intraprendere tali studi teorici, in quanto non siamo d'accordo con l'augustana, la quale trova l'attualità delle idee comuniste non in Platone, ma in un suo oscuro conoscente, che non senza merito sacrificò tutte le sostanze disponibili in alcuni campi di ricerca scientifica e arricchì i suoi consociati di piatti e stivali, secondo la volontà del padre Enfantin. Noi abbiamo la ferma convinzione che non il tentativo di sperimentare in pratica le idee comuniste, ma la loro elaborazione teorica formi il vero e proprio pericolo, perché agli esperimenti pratici, sia pure esperimenti di massa, si può sempre rispondere col cannone non appena diventino pericolosi, ma le idee che la nostra intelligenza ha acquisito vittoriosamente, che il nostro animo ha conquistato, alle quali l'intelletto ha forgiato la nostra coscienza, sono vincoli dai quali non ci si strappa senza lacerarsi il cuore, sono dèmoni che l'uomo può vincere soltanto sottomettendosi ad essi [Diciassette anni dopo, dettando da Londra nel gennaio 1859 la prefazione alla Critica dell'economia politica, Marx scriveva: «Nella " Gazzetta renana " si era fatta sentire, per quanto debole, l'eco, verniciata di filosofia, del socialismo e del comunismo francesi. Pur prendendo posizione contro questi imparaticci, confessai tuttavia apertamente, nel corso di una mia polemica con la " Gazzetta generale di Augusta " che gli studi da me compiuti fin allora non mi permettevano di azzardare un giudizio sul contenuto delle correnti francesi» (vers. di B. Maffi, Milano, 1946, p. 16]; ma certo la «Gazzetta di Augusta» non ha mai conosciuto l'ansia della coscienza, che provoca una ribellione dei desideri soggettivi dell'uomo contro i giudizi oggettivi della propria ragione, poiché essa non possiede una propria ragione, né un giudizio proprio e neppure una propria coscienza.

GIUSTIFICAZIONE DI UNCORRISPONDENTE DALLA MOSELLA
(«Gazzetta renana», 15 gennaio 1843, n. 15).

[I produttori di vino della Mosella, in seguito all'unione doganale del 1834, che aveva aperto i mercati alla concorrenza dei vini dell'Assia e del Palatinato, invocavano da tempo provvedimenti governativi che risolvessero la grave crisi economica della regione. Tre articoli anonimi da Bernkastel, che descrivevano le miserrime condizioni dei viticoltori della Mosella, vennero pubblicati dalla «Gazzetta renana» del 10, 12 e 14 dicembre 1842: il primo, che attribuiva la crisi ai bassi prezzi, ai difficili mercati ed alle molte annate di magro raccolto, non sollevò proteste da parte della censura, ma i due seguenti chiamavano apertamente in causa il governo, accusandolo di acquiescenza all'ottimismo della burocrazia locale e di sordità alle giuste lamentele. Subito il presidente von Schaper (prefetto della Renania) mandò al giornale due rettifiche, in cui negava che si fosse mai impedito ai vignaioli di esporre le proprie lagnanze e insinuava che la «Gazzetta renana» non tanto badava a difendere gli interessi dei contadini, quanto a sobillarli contro il governo: il 18 dicembre il giornale dovette piegarsi a pubblicare i due scritti, facendoli seguire il 23 dicembre da un commento tra ironico e rassegnato, in cui la Redazione si dichiarava lieta di quella cooperazione instaurata fra stampa e governo. Marx, che in quei giorni era assente per essersi recato a trascorrere le feste natalizie a Kreuznach con la fidanzata, non approvò il tono sottomesso della pubblicazione, respinse la prudenziale e sfuggente replica del corrispondente, impaurito dall'intervento dell'autorità, e si sostituì a lui coraggiosamente. Dettando le pagine che seguono, è facile vedere com'egli abbandonasse ogni residua cautela e combattesse ormai a viso aperto, conscio di una situazione fattasi insostenibile: i giorni della «Renana» erano contati.]

I numeri 346 e 348 della «Gazzetta renana» contenevano due miei articoli: l'uno trattava del bisogno di legna nella regione della Mosella, l'altro della particolare simpatia degli abitanti di questa regione per il regio decreto del 24 dicembre 1841 e della più libera azione della stampa da esso suscitata [In questa citazione, che ritornerà spesso poco oltre, Marx usa sempre il termine freieren (più libera) in luogo di ferneren (ulteriore), che è la più cauta espressione introdotta dal corrispondente nell'articolo del 12 dicembre 1842.]. Il secondo articolo è a tinte forti e, se si vuole, grossolane. Chi ascolta direttamente e frequentemente la voce imperiosa del bisogno in mezzo al popolo, perde facilmente la sensibilità estetica, che sa parlare con immagini molto fini ed eleganti; costui ritiene forse perfino che sia proprio dovere politico adottare pubblicamente per un momento quella parlata popolare del bisogno, che nel suo paese egli non ha occasione di disimparare. Ma se si tratta poi di provare la veridicità di tali parole, ben difficilmente la dimostrazione sarà intesa nel suo pieno significato, poiché per questo riguardo ogni riassunto riuscirebbe inadeguato, e sarebbe assolutamente impossibile rendere il senso di un discorso senza ripetere il discorso stesso. Se dunque si afferma per esempio «Il grido di soccorso dei vignaioli viene considerato uno sfacciato gracidio» [la frase si legge nell0ìarticolo del 12 dicembre 1842, n.346], si potrà solo giustamente pretendere che si offra un paragone abbastanza preciso, ossia si alluda a un oggetto che, sotto certo rispetto, faccia da contrappeso alla definizione sintetica «sfacciato gracidio», e costituisca di essa una definizione appropriata. Se questa prova viene fornita, non si tratta più di veridicità, ma solo di precisione linguistica, e sarebbe difficile dare un giudizio più che problematico sulle impercettibili sfumature dell'espressione linguistica.

Queste riflessioni mi furono suggerite da due rescritti del signor Presidente supremo von Schaper nel n. 352 della «Gazzetta renana», datati da Coblenza il 15 dicembre, in cui a proposito dei suddetti articoli mi vengono rivolte alcune domande accusatrici. Il ritardo della mia risposta è anzitutto provocato dal contenuto delle domande medesime, in quanto un giornalista comunica secondo coscienza la voce popolare che gli viene all'orecchio, ma non è affatto in obbligo di essere preparato a trattarne i particolari, le occasioni e le fonti in modo esauriente e motivato. Prescindendo dalla perdita di tempo e dai molti mezzi, che un simile lavoro richiede, il corrispondente di un giornale si può considerare soltanto come un piccolo membro di un complesso organismo, in cui egli si è liberamente scelto una funzione; e se l'uno segnala l'impressione ricevuta dall'opinione popolare di uno stato di disagio, un altro, lo storico, ne farà la storia, l'uomo di sentimento illustrerà il disagio stesso, l'economista i mezzi di eliminarlo; e questo problema può essere risolto a sua volta sotto diversi rapporti, ora localmente, ora in relazione all'intero Stato, ecc.

Cosi, tramite il vivo moto della stampa, viene alla luce l'intera verità, poiché, se dapprima il tutto si presenta anche solo come un pullulare parziale ed accidentale dei diversi punti di vista isolati, questo lavoro della stampa finisce per preparare ad uno dei suoi membri il materiale, con cui egli infine costruirà l'unico tutto. Cosi la stampa perviene a poco a poco in possesso dell'intera verità con la divisione del lavoro, non perché uno solo faccia tutto, ma perché molti fanno qualcosa.

Un altro motivo del mio ritardo nel rispondere sta in questo: che la Redazione della «Gazzetta renana», dopo il primo rapporto da me inviato, richiese diversi schiarimenti complementari e, dopo un secondo e un terzo rapporto, ancora integrazioni e infine quest'ultimo rapporto conclusivo; per giunta richiese appunto a me di comunicare le mie fonti d'informazione e rimandò la pubblicazione dei miei scritti finché non ebbe ottenuto per altra via la conferma delle mie asserzioni. [Nel confermare le dichiarazioni di cui sopra, facciamo anche notare che le diverse lettere, illuminantisi a vicenda, rendevano necessaria da parte nostra una raccolta complessiva. La Redazione della «Gazzetta renana»].

Inoltre la mia risposta appare anonima. Io condivido la persuasione che l'anonimo inerisca all'essenza della stampa giornalistica, che esso trasformi un giornale da accolta di molte opinioni individuali nell'organo di un unico spirito. Un nome separa cosi recisamente un articolo dall'altro, come il corpo separa le persone una dall'altra, e quindi sopprime la sua caratteristica di essere soltanto un membro del tutto. Infine l'anonimo lascia libero ed indipendente non solo lo scrittore medesimo, ma anche il pubblico, in quanto non vede l'uomo che scrive, ma la cosa di cui egli scrive, in quanto, non essendo disturbato dalla persona empirica, prende a misura del proprio giudizio la sola personalità spirituale.

Ma come taccio il mio nome, cosi pure in tutte le dichiarazioni particolari nominerò impiegati e civili solo quando vengano citati documenti stampati reperibili in commercio, o quando la citazione dei nomi sia del tutto senza pericolo. La stampa deve denunciare le situazioni, ma non le è lecito a mio giudizio denunciare le persone, a meno che non vi sia altra via di opporsi ad un male pubblico o che la notizia domini già tutta la vita dello Stato e quindi venga meno il concetto tedesco di denuncia.

A conclusione di queste osservazioni introduttive ritengo mi sia lecito esprimere la giusta speranza che il signor Presidente supremo, dopo la lettura della mia intera esposizione, si persuada della purezza delle mie intenzioni e voglia interpretare gli stessi errori eventuali come frutto di errata valutazione, ma non di cattiva volontà. La mia stessa esposizione deve provare se io abbia meritato la dura accusa di diffamazione e di voler suscitare di proposito insoddisfazione e scontento, anche in considerazione dell'effettivo prolungarsi della mia anonimia: accuse che devono riuscire tanto più dolorose, in quanto provengono da un uomo che nella provincia del Reno è altamente stimato ed amato.

Per una più agevole visione d'insieme ho diviso la risposta nei seguenti paragrafi:

A. La questione riguardante l'assegnazione della legna.

B. Il comportamento della regione della Mosella di fronte al decreto ministeriale del 24 dicembre 1841 ed alla più libera azione della stampa provocata dall'ordine stesso.

C. Il cancro della regione della Mosella.

D. I vampiri della regione della Mosella.

E. Proposte di rimedio [In effetti Marx giunse poi a svolgere solo i capi A e B.].

A. LA QUESTIONE RIGUARDANTE L'ASSEGNAZIONE DELLA LEGNA

Nel mio articolo «Dalla Mosella, 12 dicembre», n. 348 della «Gazzetta renana», presentavo la seguente situazione:

«Il comune, composto di alcune migliaia di anime, cui appartengo, ha in sua proprietà le più belle foreste, ma non riesco a ricordarmi che i singoli membri di esso abbiano mai tratto un diretto beneficio dalla loro proprietà col partecipare alla divisione della legna».

Il signor Presidente supremo nota a questo proposito:

«Un tal modo di procedere, che non corrisponde alle norme legislative, riuscirebbe motivato solo in caso di condizioni assolutamente speciali» e richiede subito, a comprova del dato di fatto, il nome del comune.

Dichiaro francamente: anzitutto io credo che un procedimento che non sia in accordo con le leggi, e quindi in contrasto con esse, si può ben motivare con condizioni speciali, ma rimarrà pur sempre illegale; in secondo luogo non riesco a trovare che il procedimento da me descritto sia illegale.

Il regolamento promulgato in conformità della legge del 24 dicembre 1816 e del decreto ministeriale del 18 agosto 1835, pubblicato nel supplemento alla «Gazzetta ufficiale», n. 62, del Governo Regio di Coblenza (datato da Coblenza il 31 agosto 1839), riguardante la gestione delle foreste comunali e di altri enti nel territorio di Coblenza e Treviri, dice testualmente al paragrafo 37:

In riferimento all'utilizzazione del materiale disponibile nelle foreste, vale la norma, che se ne deve vendere quanto è necessario per coprire le spese forestali (imposte e amministrazione). Per il rimanente dipende dalle decisioni del comune, se detto materiale debba essere venduto all'asta per rispondere ad altri bisogni della comunità, oppure se si debba ripartire fra i membri del comune totalmente o in parte, gratuitamente o contro pagamento di una tassa determinata. A questo proposito vige la norma che la legna da ardere e da lavoro venga ripartita in natura, mentre il legname da costruzione, se non occorre per edifici pubblici o per ricostruire la casa di un singolo membro del comune distrutta dal fuoco, ecc., viene venduto all'asta.

Questo regolamento, promulgato da un predecessore del signor Presidente supremo della provincia renana, mi pare dimostri che la ripartizione della legna da ardere fra i membri del comune non sia né imposta, né proibita, ma semplicemente una questione di opportunità, come anch'io nell'articolo incriminato ho discusso soltanto l'opportunità del procedimento. E di conseguenza cadrebbe anche la ragione per cui il signor Presidente supremo voleva conoscere il nome del comune, in quanto non si tratta più di sottoporre ad esame l'amministrazione di un comune, ma solo di una modifica ad un regolamento. Non faccio perciò alcuna promessa di autorizzare la redazione della «Gazzetta renana» a specificare il comune, nel quale io non ricordo sia avvenuta alcuna distribuzione di legna, in seguito alla particolare richiesta del signor Presidente supremo, in quanto con ciò non si vuole accusare il consiglio municipale, ma si vuole solo promuovere il bene del comune.

(«Gazzetta renana», 17 gennaio 1843, n. 17).

B. IL COMPORTAMENTO DELLA REGIONE DELLA MOSELLA DI FRONTE AL DECRETO MINISTERIALE DEL 24 DICEMBRE 1841 ED ALLA PIÙ LIBERA AZIONE DELLA STAMPA PROVOCATA DAL DECRETO STESSO

Riguardo al mio articolo «Bernkastel, 10 dicembre» nel n. 346 della «Gazzetta renana», in cui affermavo che l'abitante della Mosella ha salutato anzitutto entusiasticamente la maggiore libertà concessa alla stampa con l'eccellentissimo decreto ministeriale del 24 dicembre dell'anno scorso, causa la sua situazione particolarmente penosa, il signor Presidente supremo osserva quanto segue:

«Se questo articolo ha senso, bisogna che finora sia stato negato all'abitante della Mosella di dichiarare pubblicamente e liberamente il proprio disagio economico, le cause del medesimo, come pure i mezzi per porvi rimedio. Io dubito che le cose stiano cosi. Invero, considerando gli sforzi delle autorità per venire in aiuto ai vignaioli nelle ben note necessità, nulla poteva riuscire più desiderabile per le autorità stesse che la dichiarazione possibilmente aperta e coraggiosa dello stato di cose dominante... Il signor autore del suddetto articolo mi obbligherebbe moltissimo quindi, se volesse avere la bontà di elencare particolarmente i casi in cui, anche prima dell'apparire dell'eccellentissimo decreto del 24 dicembre dello scorso anno, sia stata vietata dalle autorità una coraggiosa ed aperta dichiarazione del disagio economico degli abitanti della Mosella». Alquanto sotto osserva il signor Presidente supremo: «Che del resto, come dice il suddetto articolo introduttivo, il grido d'aiuto dei vignaioli sia stato a lungo giudicato nelle alte sfere uno sfacciato gracidio, credo fin d'ora d poterlo dichiarare una menzogna».La mia risposta seguirà questa via. Cercherò di dimostrare:

1) che anzitutto, prescindendo appieno dalle possibilità della stampa prima dell'eccellentissimo decreto del 24 dicembre 1841, la necessità di una stampa libera scaturisce necessariamente dalla natura propria della condizione di disagio esistente nella regione della Mosella;

2) che, quand'anche nessuna proibizione speciale della «coraggiosa e aperta dichiarazione» avesse avuto luogo prima dell'apparire del decreto in questione, la mia affermazione non ne scapiterebbe per nulla e rimarrebbe ben comprensibile la piena adesione degli abitanti della Mosella all'eccellentissimo decreto ed alla più libera azione della stampa da esso prodotta;

3) che condizioni davvero speciali impedivano una «coraggiosa e aperta» dichiarazione.

Da tutto l'insieme risulterà pertanto quanto sia falsa o vera la mia affermazione, che «la desolata condizione dei vignaioli venne in alto loco messa in dubbio per molto tempo ed il grido di soccorso giudicato sfacciato gracidio».

Punto 1. Nell'esame delle condizioni politiche si è cercato con troppa leggerezza di non tener conto della effettiva natura delle situazioni e di far tutto dipendere dalla volontà delle persone agenti. Ma si danno situazioni, che determinano tanto le azioni dei privati quanto delle singole autorità, eppure sono indipendenti da esse quanto il sistema respiratorio. Se questi dati di fatto si considerano dall'esterno, non si riesce ad addossare in maniera prevalente la buona o cattiva volontà né all'una, né all'altra parte, ma si vedranno agire situazioni dove di primo acchito sembrava agissero solo persone. Non appena si sia messo in evidenza, che un dato fatto viene reso necessario dall'insieme della situazione, non sarà più difficile determinare a quali condizioni esteriori questo fatto debba realmente entrare a far parte della vita e a quali non lo possa, sebbene già ne preesistesse il bisogno. Questo punto lo si potrà determinare all'incirca con la medesima sicurezza con cui il chimico determina in quali condizioni esterne elementi affini debbono produrre un composto. Pertanto, col dimostrare che nella regione della Mosella dalla peculiarità dello stato di crisi segue la necessità di una stampa libera, riteniamo di fornire alla nostra tesi un fondamento che prescinde da ogni elemento personale.

La crisi della regione della Mosella non si può considerare come una situazione semplice. Si dovranno sempre distinguere almeno due lati, l'aspetto privato e quello pubblico, poiché, come la regione della Mosella non è al di fuori dello Stato, cosi i suoi bisogni non esulano dall'ambito dell'amministrazione statale. Solo la relazione reciproca di questi due aspetti costituisce la situazione reale della regione della Mosella. Ora, per tratteggiare il tipo e il modo di questa situazione, riferiremo un autentico e ufficiale scambio di idee intercorso fra i rispettivi organi delle due parti.

Nel quarto fascicolo delle Comunicazioni dell'Unione per il miglioramento della viticoltura nelle regioni della Mosella e della Saar, pubblicate a Treviri, si trova il resoconto delle trattative intercorse fra il ministero delle Finanze, le autorità di Treviri e la direzione della detta Unione. In un esposto al ministero delle Finanze l'Unione aveva presentato fra l'altro un prospetto della rendita dei vigneti. Dell'esame di questo rendiconto il rappresentante del governo a Treviri incaricò il direttore dell'ufficio locale del catasto, l'ispettore delle imposte von Zuccalmaglio», il quale, come attesta in uno scritto la stessa autorità governativa, appariva tanto più adatto all'uopo, in quanto «per qualche tempo aveva preso parte attiva all'accertamento delle rendite catastali dei vigneti della Mosella». Presentiamo semplicemente nel loro evidente contrasto la relazione d'ufficio del signor von Zuccalmaglio e la replica della direzione dell'Unione per il miglioramento della viticoltura.

Il relatore ufficiale: «Alla base della valutazione, proposta nel ricorso, del reddito lordo di un iugero di vigneto, calcolato per gli ultimi dieci anni dal 1829 al 1838, per i terreni classificati di terzo gruppo ai fini dell'imposta vinicola, stanno:

1) il raccolto di un iugero;

2) il prezzo di una carrata 1 di vino nell'autunno.

Ma detta valutazione difetta di entrambi questi dati precisamente determinati, poiché «senza intervento e controllo ufficiale, non è possibile ad un privato e nemmeno a un'Unione ottenere dati sicuri per via privata sul guadagno fatto col vino da tutti i singoli proprietari durante un lungo periodo di tempo e in un gran numero di comuni, perché può essere proprio interesse di molti proprietari di nascondere in questo caso il più possibile la verità».

La replica della direzione dell'Unione: «Che l'ufficio del catasto prenda le difese dell'accertamento catastale fatto d'autorità non ci sorprende: e tuttavia ci riesce difficile comprendere il seguente ragionamento», ecc.

«Il signor Direttore del catasto cerca di provare con le cifre alla mano, che le rendite fissate dal catasto sono assolutamente esatte: afferma anche, che il periodo di dieci anni da noi assunto non può in questo caso provare nulla», ecc., ecc. «Per quanto riguarda le cifre non vogliamo entrare in discussione, in quanto, come egli molto saggiamente premette alle sue osservazioni, ci mancano al riguardo i dati ufficiali; non lo riteniamo del resto necessario, poiché tutto il suo conto ed il suo ragionamento basati su notizie ufficiali non provano nulla contro i dati di fatto da noi presentati». «Perfino ammettendo che le valutazioni catastali fossero del tutto esatte al momento in cui vennero fatte, e magari troppo basse, questo non può servire per controbattere la nostra affermazione, che nel presente lamentevole cambiamento delle circostanze esse non possono più servire di base».

Il relatore ufficiale: «Non è assolutamente un dato di fatto quanto sostiene il ricorso, che cioè le rendite fissate dal catasto per i vigneti siano troppo alte per questi ultimi tempi, mentre è facile dimostrare che le valutazioni dei vigneti fatte nei tempi precedenti per i circondari di Treviri e di Saarburg sono troppo basse, sia in sé e per sé, sia relativamente alle altre colture».

La replica della direzione dell'Unione: «Chi ricorre per aiuto si sente dolorosamente colpito quando si risponde alle sue fondate lamentele, che in base ad accertamento le rendite fissate dal catasto dovrebbero essere piuttosto aumentate che diminuite».

«Del resto — osserva la replica — a ogni nostra contestazione del reddito il signor relatore non ha potuto ribattere o contrapporre alcunché, e perciò ha soltanto cercato di trarre altre conclusioni circa il computo delle spese».

Circa la valutazione delle spese riferiremo ora i punti salienti della controversia fra il signor relatore e la direzione dell'Unione.

Il relatore ufficiale: «Circa il n. 8 va notato in particolare che lo sfrondare o il cosiddetto potare è un'operazione, che nei comuni appezzamenti solo negli ultimi tempi è stata introdotta da alcuni grossi proprietari di vigneti, ma, né per la Mosella, né per la Saar, si può considerare come un trattamento consueto».

La replica della direzione dell'Unione: «Il signor Direttore del catasto ritiene che la potatura e la sarchiatura siano state introdotte solo negli ultimi tempi e da pochi grossi proprietari», ecc. Tuttavia non è cosi. «Il vignaiolo ha riconosciuto che, se non vuole rovinarsi del tutto, non deve lasciare nulla di intentato di quanto può in qualche misura elevare la qualità del vino. Bisogna incoraggiare questo atteggiamento con ogni cura, anziché soffocarlo, se si vuole la prosperità del paese». «E a nessuno verrebbe in mente di considerare minore il costo di coltura delle patate, per il fatto che vi sono contadini, i quali le abbandonano al loro destino ed alla provvidenza».

Il relatore ufficiale: «Le spese per il fusto citate al n. 14 non si possono prendere qui in considerazione, poiché, come già si è osservato, nel prezzo stabilito del vino non sono compresi i costi d el fusto o della botte. Se poi nel vendere il vino si vende anche il fusto, come di solito avviene, al prezzo del vino viene aggiunto il prezzo di costo del fusto, per cui i fusti risultano rimborsati».

La replica della direzione dell'Unione: «Quando si vende vino, si cede insieme il fusto, senza che si sia minimamente accennato, o anche solo si possa accennare, al rimborso di esso. I pochi casi, in cui gli osti di questa città comprano senza fusto, non possono valere come regola generale». «Non accade per il vino come per le altre merci, che restano in magazzino fino al momento della vendita, e quindi vengono imballate e spedite a carico del destinatario; ma poiché il compratore di vino si porta via implicitamente anche il fusto, è evidente che il prezzo di quest'ultimo va calcolato fra i costi di produzione».

Il relatore ufficiale: «Se anche in base ai ragguagli ufficiali viene riconosciuta una valutazione in eccesso su questo punto, ma per contro si accetta in tutte le sue voci il computo dei costi, e da questo si escludono soltanto l'imposta fondiaria e quella sul mosto, nonché i costi per il fusto, cioè i numeri 13, 14 e 17, si ottiene il seguente risultato K

                                               talleri              denari               soldi

Entrata lorda                              53                   21                    6

Costi, esclusi i nn. 13, 14 e 17     39                    5

Entrata netta                              14                  16                     6

Replica della direzione dell'Unione: «Il conto in sé è esatto, ma non cosi il risultato. Noi non abbiamo sottovalutato, ma calcolato con le cifre che rappresentano gli importi effettivi, e abbiamo trovato che, se da 53 talleri di effettiva spesa si sottraggono 48 talleri di effettiva ed unica entrata, restano 5 talleri di passivo».

Il relatore ufficiale: «Non si può certo negare che lo stato di disagio è andato crescendo in modo significativo nella regione della Mosella rispetto al periodo precedente l'unione doganale e che in parte c'è da temere un reale impoverimento: ma la ragione è da ricercarsi esclusivamente nelle entrate troppo alte di tale periodo».

«Con lo stato di quasi monopolio prima esistente nel mercato vinicolo e la serie di annate favorevoli 1819, 1822, 1825, 1826, 1827, 1828, si era creato uno sperpero mai visto prima. Le forti somme di denaro in mano ai vignaioli li indussero a comprare vigneti a prezzi impossibili, a impiantare con spese esorbitanti nuovi vigneti in zone inadatte alla coltivazione della vite. Tutti volevano diventare proprietari, e quindi si contraevano debiti, che in un primo tempo una buona annata bastava a sanare, mentre attualmente, date le peggiorate condizioni, portano necessariamente alla rovina il vignaiolo caduto nelle mani degli strozzini».

«La conseguenza sarà questa: che la viticoltura si ridurrà ai terreni migliori e di nuovo, come prima, passerà in gran parte in mano dei ricchi latifondisti, come del resto è opportuno per i grandi investimenti che essa richiede, in quanto essi sono facilmente in grado di resistere alle annate cattive e di avere ancora i mezzi per migliorare la produzione e ottenere un prodotto che possa sostenere la concorrenza con quelli delle regioni ora entrate in lizza con l'unione doganale. Certo questo non avverrà senza gravi danni negli anni prossimi per la categoria dei proprietari più poveri, i quali per altro sono anche diventati proprietari per la massima parte in questi ultimi tempi favorevoli. Inoltre va sempre tenuto presente che la precedente situazione era una situazione anormale, che ora si vendica sugl'imprevidenti. Lo Stato... si potrà esclusivamente limitare a facilitare per quanto è possibile all'attuale popolazione, con mezzi appropriati, la fase transitoria».

La replica della direzione dell'Unione: «Invero, chi solo teme la miseria per la Mosella, non ha ancora visto come essa abbia solidamente preso piede nella sua forma più spaventosa fra l'onesta, indefessa e attiva popolazione di questa regione, e come cresca di giorno in giorno; e non si dica, come fa il signor ispettore del catasto, che la colpa è degli stessi impoveriti; no, il previdente come il trascurato, il diligente come l'indolente, il danaroso come il vignaiolo senza mezzi, tutti sono più o meno a terra, e se si è giunti al punto che anche i facoltosi, attivi ed economi vignaioli devono dire: — Non possiamo più sostentarci — bisogna pure che le cause di questa situazione si cerchino fuori di essi».

«È vero che nelle epoche favorevoli i vignaioli hanno comprato a prezzi più alti che per il passato e — calcolando che i loro mezzi, come ad essi risultava, fossero sufficenti a poco a poco a pagare tutto — hanno contratto debiti; ma rimane incomprensibile come si possa affermare che questo sia sperpero, mentre è una prova dell'attività e industriosità di questa gente, e che la situazione presente proceda dal fatto che la precedente era una situazione anormale, che ora si vendica sugli imprevidenti».

«Il signor ispettore del catasto sostiene che, allettata dai tempi straordinariamente favorevoli, la gente, che secondo lui non era mai stata proprietaria, avrebbe aumentato l'estensione dei vigneti in modo sproporzionato, ed ora si dovrebbe cercare salvezza solo nella diminuzione dei vigneti».

«Ma com'è insignificante il numero di quei vigneti, che si potrebbero adibire a coltivazione di frutta e legumi, a paragone della massa di quelli che, tolto il vino, potrebbero produrre solo macchie e sterpi! Ed una popolazione indubbiamente tanto degna di stima, che in virtù della viticoltura è cosi addensata su una zona di terra relativamente ristretta, che lotta cosi virilmente contro le avversità, non dovrebbe almeno meritare un tentativo per vedere se non sia possibile mantenerla in vita con facilitazioni, finché condizioni più favorevoli le permettano di risollevarsi e ritornare ad essere per lo Stato ciò che era precedentemente, ossia una fonte di reddito, quale, prescindendo dalle città, non sarà facile trovarne una seconda su un consimile terreno?»

Il relatore ufficiale: «È ben comprensibile che ora questa miseria dei vignaioli più poveri venga utilizzata anche dai possidenti più ricchi per ottenere tutti i possibili vantaggi e facilitazioni mediante una vivida rappresentazione della precedente situazione fortunata in contrapposto all'attuale, meno favorevole, ma pur sempre lucrosa».

(«Gazzetta renana», 18 gennaio 1843, n. 18).

La replica della direzione dell'Unione: «Per rispetto al nostro onore ed alla nostra intima coscienza dobbiamo difenderci dall'accusa di sfruttare la miseria dei vignaioli più poveri per procurarci a mezzo di questa vivida rappresentazione tutti i possibili vantaggi e facilitazioni».

«No, noi giuriamo —e questo basterà, vogliamo sperare, a giustificarci — che ci era estranea ogni mira egoistica, che nel nostro intervento non avevamo altro in vista che di mettere in guardia lo Stato, attraverso una pubblica e reale rappresentazione delle condizioni dei poveri vignaioli, su quanto, progredendo, diventerà pericoloso per lui stesso! Chi conosce il cambiamento che ha portato progressivamente all'attuale situazione precaria dei vignaioli rispetto alla loro vita privata e industriale, e perfino riguardo alla moralità, deve inorridire davanti alla prospettiva del futuro, sia che pensi ad un persistere quanto addirittura a un accrescimento di tale miseria».

Infine bisogna riconoscere che il governo non doveva essere troppo sicuro, bensì esitare fra il parere del proprio relatore e quello contrario dei sostenitori dei vignaioli. Si rifletta inoltre che la relazione del signor von Zuccalmaglio risale al 12 dicembre 1839 e la risposta dell'Unione al 15 luglio 1840; ne consegue, che fino ad oggi il parere del signor relatore, se anche non l'unico, deve aver continuato ad essere il parere dominante del governo. Almeno si presenta ancora nel 1839 come parere del governo, e quindi proprio come relazione del punto di vista governativo di contro al memoriale dell'Unione, poiché riguardo a un governo conseguente è lecito considerare la sua ultima decisione come la somma delle sue decisioni ed esperienze precedenti. Orbene, in questa relazione non solo lo stato di miseria non viene riconosciuto come universale, ma anche non s'intende venire in aiuto alla miseria riconosciuta, poiché vi si dice: «Lo Stato si potrà esclusivamente limitare a facilitare per quanto è possibile all'attuale popolazione, con mezzi appropriati, la fase transitoria». Ed in queste condizioni per fase transitoria è da intendersi la graduale rovina. La rovina dei poveri vignaioli viene trattata come un fatto di natura, a cui l'uomo si rassegna in anticipo e soltanto cerca di mitigare l'inevitabile. «Certo, vi si dice, questo non avrà luogo senza gravi danni». L'Unione perciò avanza anche la domanda, se il vignaiolo della Mosella non valga «un tentativo». Se il governo avesse avuto un parere decisamente contrario, da molto tempo avrebbe modificato la propria relazione, poiché espressamente accetta una cosa tanto importante come è l'intervento e la decisione dello Stato in simile congiuntura. Si vede perciò che si potè ben riconoscere la miseria dei vignaioli, senza che esistesse la preoccupazione di portarvi soccorso.

Vogliamo produrre ancora un esempio del come si informavano le autorità sulla situazione della Mosella. Nell'anno 1838 un'alta personalità amministrativa visitò la regione. In una conferenza con due presidenti distrettuali tenuta a Piesport, egli domandò ad uno di questi il suo parere sulle condizioni finanziarie dei vignaioli, e ricevette come risposta: «I vignaioli vivevano in troppa abbondanza, e già per questo le loro condizioni non potevano essere cosi brutte». Eppure l'abbondanza era già diventata una leggenda dei tempi passati. Facciamo notare solo di sfuggita quanto poco generalmente sia condiviso questo giudizio, che concorda con la relazione governativa. Ricordiamo la voce che si fa sentire nel primo supplemento del «Giornale francese», n. 349 (1842) di Coblenza e che parla dell'evidente miseria dei vignaioli della Mosella.

Pertanto nelle alte sfere il parere ufficiale surriferito viene interpretato come un porre in dubbio le condizioni «desolate» e le conseguenze universalmente diffuse della miseria, nonché delle sue cause generali. Le citate comunicazioni dell'Unione contengono fra l'altro le seguenti repliche del ministero delle Finanze a diversi ricorsi: «Se anche, come mostrano i prezzi correnti del vino, i proprietari di vigneti della prima e seconda categoria delle imposte non hanno nella Saar e nella Mosella verun motivo di scontento, non si nega che i vignaioli, i cui prodotti sono di qualità più scadente, non si trovino in condizione ugualmente favorevole». E cosi si dice in una risposta ad un ricorso per diminuzione delle imposte per il 1838: «Con riferimento all'esposto del io ottobre scorso anno si notifica, che non possiamo aderire alla proposta diminuzione generale delle imposte sul vino per il 1838, poiché Ella non appartiene a quella categoria che merita la maggior considerazione: lo stato di disagio, ecc., è da ricercare in tutt'altro che nelle imposte».

Poiché in tutta questa esposizione desideriamo costruire esclusivamente su dati di fatto e ci sforziamo, per quanto è in noi, di sollevare solo i fatti ad una significazione generale, cosi riporteremo infine nelle sue linee fondamentali il dialogo fra l'Unione di Treviri e il relatore governativo.

Il governo deve nominare un impiegato per l'esame del memoriale. Nomina naturalmente un impiegato il più possibile pratico della situazione, preferibilmente dunque un impiegato che abbia partecipato all'assetto tributario della Mosella. Questo impiegato non è propenso a scoprire nel reclamo in questione appigli contro il suo punto di vista ufficiale e la sua precedente attività burocratica. Egli sa di dover assolvere scrupolosamente l'incarico affidatogli ed ha coscienza della propria competenza, e questi sono per lui principi sacri. Improvvisamente si trova davanti a una valutazione contraria, e nulla di più naturale che egli prenda partito contro gli autori dell'istanza: che le loro intenzioni, che si possono pur sempre ricollegare a interessi privati, gli sembrino sospettabili: che egli dunque le metta in dubbio. Anziché servirsi del loro esposto, egli cerca di infirmarlo. Si giunge al punto che la miseria del vignaiolo, che pur balza agli occhi, non trova né tempo né modo di presentarsi nel suo vero stato, che quindi il povero vignaiolo non può parlare, mentre il grande proprietario di vigneti, che può parlare, evidentemente non è povero e quindi pare non abbia motivo di parlare. Ma quando lo stesso viticoltore colto viene sorpreso in fallo in un'ispezione d'ufficio, com'è possibile che a questa ispezione d'ufficio resista il vignaiolo incolto? Per parte loro i privati, che hanno osservato l'effettiva miseria degli altri nella sua completa espressione, che la vedono crescere di continuo e sono convinti per di più che l'interesse privato da essi difeso è altre sì interesse pubblico, e sostenuto da essi in quanto tale, non solo sentono necessariamente leso il proprio onore, ma pensano anche che la realtà venga deformata da una visione volutamente unilaterale e arbitraria. Si oppongono quindi all'albagia impiegatizia, sottolineano le contraddizioni fra la reale configurazione del mondo e quella che viene accolta negli uffici, contrappongono gli argomenti pratici a quelli burocratici; infine non possono fare a meno di sospettare nel totale disconoscimento della loro esposizione convincente ed evidente un proposito interessato, il proposito in sostanza di far trionfare la pedanteria burocratica sull'intelligenza borghese. Il privato conclude quindi facilmente che il perito ufficiale, che deve giudicare i propri rapporti, non li tratterà senza pregiudizi, proprio perché in parte sono opera sua, mentre il funzionario libero da pregiudizi, che possiederebbe l'imparzialità sufficente per ben giudicare, non è esperto in materia. Ma quando il funzionario accusa il privato di elevare i propri interessi a interessi di Stato, il privato rinfaccia al funzionario di porre l'interesse dello Stato al di sotto del suo interesse privato, al di sotto di un interesse, da cui tutti gli altri sono esclusi come profani, per modo che anche la realtà più evidente risulta per lui illusoria di fronte alla realtà presentata negli atti, e quindi ufficiale, anzi statale, e la stessa valutazione estende all'intelligenza che a quella realtà si appoggia. In conclusione, solo la cerchia di azione dell'autorità gli pare costituire lo Stato, e per contro il mondo esterno a questa cerchia di azione gli appare come oggetto dello Stato, privo di ogni senso e finalità pubblica. E se infine, in occasione di una situazione di disagio a tutti nota, il funzionario addossa la maggior parte della colpa ai privati, che sarebbero essi stessi la causa del proprio male, e per contro non permette che si metta in dubbio l'eccellenza dei criteri e delle istituzioni amministrative, che sono creature della burocrazia stessa, e non vuole cedere su nessun punto; cosi pure il privato cittadino, che è conscio della propria diligenza e parsimonia, della sua dura lotta con la natura e le strutture sociali, esige che il funzionario, il quale possiede soltanto la potenza creatrice dello Stato, provveda ora anche al suo bisogno e, poiché afferma di far tutto bene, ora provi anche ad essere in grado col suo intervento di trasformare in buone le cattive condizioni, oppure riconosca almeno che le disposizioni convenienti per un'epoca sono inadatte a un'epoca totalmente diversa.

La stessa concezione della superiore sapienza burocratica e la stessa opposizione dell'autorità amministrativa e del suo oggetto si ripete all'interno dello stesso mondo burocratico; come vediamo che l'ufficio del catasto nella perizia relativa alla regione della Mosella fa valere fondamentalmente l'infallibilità del proprio funzionario, come il ministero delle Finanze afferma che il male sta «in tutt'altro» che nelle «imposte», cosi l'autorità amministrativa troverà la causa della crisi non certo in se stessa, ma fuori di sé. Il singolo funzionario, che vive accanto al vignaiolo, non premeditatamente, ma necessariamente, ritiene che la situazione sia migliore o diversa da quanto è in effetti. Egli crede che la questione: se i suoi amministrati si trovino bene, equivalga a quest'altra: se egli li amministri bene. Se i criteri e le istituzioni amministrative in genere siano buone, è una questione che esula dalla sua sfera, poiché in proposito possono pronunciarsi solo le autorità superiori, dove vige un più alto e profondo sapere della natura burocratica delle cose, ossia del loro collegamento con l'intero Stato. Che, per quanto lo riguarda, egli amministri bene, è cosa di cui può essere scrupolosamente persuaso. Da un lato quindi egli non troverà la situazione cosi tragica, e dall'altro, se pur la trova tragica, ne cercherà la causa al di fuori dell'amministrazione, parte nella natura, che è indipendente dagli uomini, parte nella vita privata, che è indipendente dall'amministrazione, parte in casi accidentali, che non dipendono da nessuno.

Ora la superiore autorità collegiale deve evidentemente riporre maggior fiducia nei propri funzionari che non negli amministrati, da cui non ci si può attendere un'eguale perspicacia burocratica. Un'autorità collegiale possiede inoltre le proprie tradizioni. Quindi, anche per quanto riguarda la regione della Mosella, essa possiede i propri principi stabiliti una volta per tutte, possiede nel catasto la configurazione burocratica del paese, ha delle prescrizioni d'ufficio sulle spese e sulle entrate, ha soprattutto accanto alla vera realtà una realtà burocratica, che viene conservata dalla sua autorità, per quanto i tempi possano mutare. Il risultato è questo: che le due condizioni — la legge della gerarchia burocratica e l'assioma di una duplice cittadinanza, quella attiva, istruita, degli organi amministrativi, e quella passiva, ignorante, degli amministrati — si completano a vicenda. In base al principio che lo Stato trova negli organi amministrativi la propria esistenza cosciente ed attiva, ogni funzionario governativo giudicherà la situazione di una regione, per quanto concerne lo Stato, come l'opera del suo predecessore. Secondo la legge gerarchica questo predecessore occuperà perlopiù una posizione più elevata, sovente quella immediatamente superiore. Infine, ogni organo governativo possiede la effettiva coscienza statale che lo Stato ha delle leggi, che esso deve far valere contro tutti i privati interessi; d'altro lato, come singola autorità amministrativa, non deve fare le leggi e gli istituti, ma applicarli. Perciò non può cercare di riformare l'amministrazione, ma solo l'oggetto dell'amministrazione. Non può accomodare le proprie leggi conforme alla regione della Mosella, può soltanto cercare di promuovere il bene della regione della Mosella all'interno delle proprie salde leggi amministrative. Poiché, quanto maggior zelo e probità pone un governo nello sforzo di eliminare una crisi, che colpisce improvvisamente, anzi abbraccia tutta una regione, mantenendosi entro i criteri e gli istituti amministrativi previamente stabiliti e ai quali esso stesso è soggetto, e con quanta maggior ostinatezza il male resiste e aumenta nonostante la buona amministrazione, tanto più intima, sincera, decisa diventa la sua persuasione, che tale stato di crisi sia incurabile e l'amministrazione, ossia lo Stato, non vi possa fare nulla, mentre piuttosto si renderebbe necessario un mutamento da parte degli amministrati.

Che, se le autorità amministrative inferiori hanno fiducia nella visione ufficiale delle più alte sfere, cioè nel fatto che i criteri amministrativi siano buoni e garantiscano una fedele applicazione nel caso singolo, da parte loro le autorità superiori si appoggiano alla giustizia dei criteri generali e affidano ai loro dipendenti la giusta valutazione burocratica del caso singolo, di cui posseggono del resto i documenti ufficiali.

Cosi, con tutta la migliore volontà, un governo può giungere al giudizio espresso dal relatore governativo di Treviri circa la regione della Mosella: «Lo Stato si potrà esclusivamente limitare a facilitare per quanto è possibile all'attuale popolazione, con mezzi appropriati, la fase transitoria».

Se ora prendiamo in esame alcuni dei ben noti mezzi impiegati dal governo per lenire la miseria della Mosella, il nostro ragionamento troverà almeno conferma nella storia amministrativa, che in essi esplicitamente si esprime, poiché sulla storia segreta non possiamo naturalmente formulare il nostro giudizio. Enumeriamo fra questi mezzi: la diminuzione delle tasse nelle cattive annate vinicole; il consiglio di passare ad un'altra coltura, per esempio a quella del baco da seta; e infine la proposta di limitare il frazionamento della proprietà fondiaria. Il primo mezzo evidentemente può soltanto agevolare, non rimediare. È un provvedimento del momento, per cui lo Stato fa un'eccezione alla propria regola, e un'eccezione che non si può certo dire dispendiosa. Anche la miseria non è permanente, ma si tratta di una sua manifestazione eccezionale, che viene alleggerita; non è la malattia cronica, cui si è fatta l'abitudine, è uno stadio acuto, da cui si è colti all'improvviso.

Con gli altri due mezzi l'amministrazione esula dalla propria sfera. L'attività positiva, che ora essa svolge, consiste parte nell'indicare agli abitanti della Mosella come possono cavarsela da soli, parte nel proporre loro una restrizione e rinuncia a un diritto vigente. Si attua qui il processo di pensiero sopra svolto. L'amministrazione, che ha trovato il disagio della Mosella incurabile e basato su condizioni che giacciono al di fuori dei propri criteri e della propria attività, offre agli abitanti della Mosella il consiglio di regolare la propria situazione in modo da conformarsi ai vigenti istituti amministrativi e da poter vivere in modo tollerabile entro la loro cerchia. E i vignaioli si sentono dolorosamente urtati da simili suggerimenti, se anche giungono loro sotto semplice forma di un «si dice». Apprezzerebbero con riconoscenza che il governo facesse esperimenti a proprie spese; ma sentono che il consiglio di intraprendere esperimenti in proprio è una rinuncia del governo a venir loro in aiuto con la sua attività. Essi vogliono aiuti e non consigli. Come hanno fiducia nella competenza burocratica nell'ambito della sua sfera e si volgono ad essa fiduciosi, altrettanto, per quanto riguarda la propria attività, si credono in possesso della competenza necessaria. Una riduzione del frazionamento dei fondi contraddice però alla loro innata coscienza del diritto; vi scorgono il proposito di aggiungere alla loro povertà di fatto anche la povertà di diritto, in quanto in ogni offesa all'eguaglianza di fronte alla legge scorgono uno stato di crisi del diritto stesso. Ora con maggiore, ora con minore chiarezza, essi sentono che l'amministrazione esiste a cagione del paese e non viceversa, ma che il rapporto viene rovesciato non appena il paese è costretto a mutare i propri costumi, i diritti, le modalità del proprio lavoro e della proprietà, per uniformarsi all'amministrazione. Gli abitanti della Mosella esigono dunque che, quando essi compiono il lavoro assegnato dalla natura e dalla tradizione, lo Stato procuri loro l'atmosfera in cui poter crescere, prosperare, vivere. Consimili ritrovati negativi si ripercuotono quindi senza successo nella realtà non solo della situazione di fatto, ma anche della coscienza borghese [Marx usa sempre il termine «borghese» (biirgerliche) in senso hegeliano: borghese è tutto ciò che è fuori dello Stato, l'attività individualistica eminentemente rivolta a fini economici; in questo senso «borghese» designa l'atteggiamento dell'utilitarismo egoistico che è alle radici della società capitalistica.].

(«Gazzetta renana», 19 gennaio 1843, n. 19).

Dunque, in quale relazione sta l'amministrazione con lo stato di crisi della Mosella? La crisi della Mosella è ad un tempo la crisi dell'amministrazione. La crisi costante di una parte dello Stato (e si può ben dire costante uno stato di crisi che, dopo aver continuato per più di un decennio quasi inavvertito, dapprima si sviluppa gradualmente e quindi a precipizio verso il proprio vertice e minaccia di crescere sempre più), un simile stato di crisi permanente è una contraddizione della realtà ai criteri dell'amministrazione, se è vero d'altra parte che non solo il popolo, ma anche il governo giudica il benessere di una regione come una riprova di fatto della buona amministrazione. Ma l'amministrazione, per la sua natura burocratica, non può vedere le cause della crisi nella regione in quanto oggetto di amministrazione, ma solo in quanto sfera naturale e propria dell'attività privata, che esula dall'ambito amministrativo. Con la migliore buona volontà, il più zelante umanitarismo e la più acuta intelligenza, gli organi amministrativi possono risolvere soltanto contrasti momentanei e passeggeri, ma non un contrasto permanente fra la realtà ed i criteri amministrativi, poiché ciò non fa parte dei loro compiti, né la migliore buona volontà può infrangere a piacere un legame essenziale o fatale. Il legame essenziale è quello burocratico, tanto all'interno del corpo amministrativo stesso, quanto nei suoi rapporti col corpo amministrato.

D'altro lato, anche il viticoltore privato non può disconoscere che il suo desiderio è offuscato, di proposito o no, dall'interesse privato, e quindi non si può pretendere che nell'intimo esso ne sia indipendente. Riconoscerà inoltre che nello Stato molti interessi privati risultano lesi, ma non si possono allentare o modificare i criteri generali di amministrazione per eliminare questa situazione. Se si insiste sul carattere generale di uno stato di crisi, se si sostiene che il benessere risulti compromesso nel modo e nella misura in cui un disagio privato diventa un disagio dello Stato e la sua eliminazione diventa un dovere dello Stato verso se stesso, questa tesi degli amministrati contro l'amministrazione appare insostenibile, in quanto proprio l'amministrazione può giudicare nel modo migliore fino a che punto risulti compromesso il benessere dello Stato, e si deve presumere che essa possieda una visione del rapporto del tutto e delle sue parti più profonda che queste parti stesse. Ne consegue che il singolo e anche molti singoli non possono spacciare la propria voce per la voce del popolo; al contrario la loro esposizione conserverà sempre il carattere di un reclamo privato. Se infine il parere degli estensori del reclamo coincidesse col parere di tutta la regione della Mosella, ancora la regione della Mosella, in quanto singola zona dell'amministrazione e singola regione, contrapposta alla propria provincia come allo Stato, assumerebbe la posizione di un cittadino privato, le cui convinzioni e desideri sono da valutare solo in rapporto alla convinzione e al desiderio generale.

Per sormontare la difficoltà, sia l'amministrazione che gli amministrati abbisognano del pari di un terzo elemento, che sia politico, senza essere governativo, e quindi non prenda le mosse dagli assiomi burocratici: che sia a un tempo borghese, senza essere immediatamente irretito negli interessi privati e nei loro bisogni. Questo elemento complementare di intelletto civico e di cuore borghese è la libera stampa. Nell'ambito della stampa l'amministrazione e gli amministrati possono del pari criticare i propri principi ed esigenze, ma non più entro un rapporto di subordinazione, bensì su un piano civico di parità, non più come persone, ma come forze intellettuali, su basi concettuali.

La «libera stampa» è il prodotto dell'opinione pubblica e a un tempo contribuisce a produrre questa stessa opinione pubblica; essa è in grado di trasformare un interesse particolare in interesse generale, è in grado di fare del disagio economico della regione della Mosella l'oggetto dell'attenzione e della simpatia generale della patria, è in grado di mitigare la crisi già col fatto che ripartisce fra tutti la sensazione di crisi.

La stampa ha la funzione di intelligenza rispetto alle condizioni del popolo, ma ha rispetto ad esse anche la funzione di sentimento; il suo linguaggio non è perciò il capzioso linguaggio del giudizio, che si libra al di sopra delle situazioni, ma è l'appassionato linguaggio delle situazioni stesse, un linguaggio che non si può né si deve pretendere nelle relazioni ufficiali. Infine la libera stampa porta il bisogno popolare ai gradini del trono nella sua integra espressione e senza alcuna mediazione burocratica, con una forza di fronte alla quale la differenza fra amministrazione e amministrati scompare e rimangono soltanto cittadini, ora più vicini, ora più lontani.

Se dunque la libera stampa è stata resa necessaria dalla peculiare situazione di crisi nella regione della Mosella, se in questo caso si è mostrata impetuosa, perché ve n'era un reale bisogno, risulta che non servirebbero eccezionali divieti di stampa a togliere l'evidenza di questo bisogno, ma piuttosto ci sarebbe voluta un'eccezionale libertà di stampa per soddisfarlo.

Punto 2. La stampa che concerne la situazione della Mosella è in ogni caso solo una parte della stampa politica prussiana. E perciò, per stabilire la sua posizione di fronte al decreto in questione, sarà necessario dare un rapido sguardo alla situazione di tutta la stampa prussiana prima dell'anno 1841.

Lasciamo parlare un uomo notoriamente ligio al governo:

«Piano piano — si dice in Prussia e Francia di David Hansemann 2, seconda edizione, Lipsia, 1834, p. 272 — piano piano si sviluppano le idee generali e le cose, tanto più inosservate in Prussia, in quanto la censura non permette nei quotidiani prussiani veruna esposizione approfondita delle questioni politiche ed anche solo economiche concernenti lo Stato, anche se il tono ne è composto e misurato. Per esposizione approfondita si può intendere solo quella in cui si possano presentare le ragioni prò e contro; non si può certo esporre in modo approfondito veruna questione economica, se non se ne ricercano altresì i rapporti colla politica interna ed estera, in quanto solo' in pochi casi e forse mai non si danno rapporti simili in materia di questioni economiche. Se questa applicazione della censura sia opportuna, se, considerato lo stato del governo prussiano, si possa esercitare la censura in modo diverso da questo, non è qui il caso di esaminare: ci basta constatare che la situazione è questa».

Si rifletta inoltre che già il primo paragrafo dell'editto sulla censura del 19 dicembre 1788 dice: «Ma il proposito della censura non è affatto di vietare una composta, seria e moderata ricerca della verità o altrimenti di imporre agli scrittori un giogo inutile e fastidioso»; nuovamente nell'articolo 2 dell'editto sulla censura del 18 ottobre 1819 si trovano le parole: «La censura non vieterà alcuna ricerca seria e moderata della verità, né imporrà agli scrittori un giogo insopportabile»; si confrontino ora le parole d'introduzione delle istruzioni sulla censura del 24 dicembre 1841: «Per liberare sin d'ora la stampa da inammissibili restrizioni, che non rientrano nelle intenzioni sovrane, Sua Maestà il Re ha decisamente espresso la sua disapprovazione con un supremo decreto emanato attraverso il Regio Ministero degli Interni, per ogni illecita costrizione dell'attività pubblicistica e ci ha autorizzato... a richiamare ancora una volta i censori a una conforme osservanza dell'articolo 2 dell'editto sulla censura del 18 ottobre 1819». Si ricordino infine le seguenti parole: «Il censore può giustamente permettere una franca discussione anche degli affari interni. L'innegabile difficoltà, di trovare a questo proposito i giusti limiti, non deve scoraggiare dallo sforzo di soddisfare la vera intenzione della legge, né indurre a quella perplessità, che troppo sovente ha già dato occasione a false interpretazioni dell'intenzione del governo». Dopo tutte queste espressioni ufficiali la domanda: — Perché la censura ha posto impedimenti al desiderio delle autorità di vedere espresse il più possibile con franchezza e pubblicità le condizioni della Mosella? — pare si muti piuttosto nella questione più generale: — Perché, nonostante «l'intenzione della legge», «l'intenzione del governo» ed infine «l'intenzione sovrana», si riconosceva che la stampa era ancora da liberare nell'anno 1841 «da inammissibili limitazioni» e nell'anno 1841 occorreva ricordare alla censura l'articolo 2 dell'editto del 1819? In rapporto poi alla regione della Mosella tale domanda assumerebbe questo aspetto: non quali speciali divieti di stampa abbiano avuto luogo, ma piuttosto quali speciali favori di stampa avrebbero eccezionalmente ispirato questa parziale discussione della situazione interna fino a farne una discussione il più possibile franca e pubblica.

Circa il contenuto e il carattere della letteratura politica e della stampa quotidiana chiariscono molto bene il pensiero del citato decreto le seguenti parole del regolamento sulla censura:

In questo modo è lecito sperare che anche la letteratura politica e la stampa quotidiana si rendano meglio conto del proprio compito, assumano un tono più dignitoso e disdegnino in futuro di speculare sulla curiosità dei lettori con la comunicazione di corrispondenze copiate da giornali stranieri e prive di sostanza, ecc., ecc.. C'è da attendersi che si risvegli in questo modo una maggior partecipazione agli interessi del paese per modo che ne venga innalzato il sentimento nazionale.

Pare di conseguenza si debba riconoscere che, se anche nessuna disposizione speciale vietava assolutamente una franca e aperta discussione delle condizioni della Mosella, la condizione generale della stampa prussiana doveva costituire un ostacolo insuperabile tanto alla franchezza quanto alla pubblicità. Se mettiamo insieme i passi riportati del regolamento per la censura, essi significano che la censura era assolutamente paurosa e costituiva una barriera esterna a una libera stampa, che d'amore e d'accordo con questo fatto procedeva la limitatezza interna della stampa, che aveva rinunciato al coraggio e alla fatica di sollevarsi al di sopra dell'orizzonte della cronaca, che infine nel popolo stesso erano andati perduti la partecipazione agli interessi del paese e il sentimento nazionale; dunque precisamente gli elementi che non solo costituiscono le forze creatrici di una stampa franca e libera, ma sono anche le condizioni entro le quali soltanto può agire e trovare riconoscimento popolare una stampa franca e aperta. Tale riconoscimento costituisce l'atmosfera vitale della stampa, che senza di esso intristisce senza salvezza.

Se dunque è in facoltà delle autorità il rendere schiava la stampa, esula per contro dal campo del suo potere nella generale situazione di schiavitù della stampa assicurare una discussione il più possibile franca e aperta a proposito di questioni speciali, in quanto anche le eventuali parole franche, che riempissero le colonne dei giornali a proposito di singoli argomenti, non riuscirebbero a suscitare alcuna partecipazione generale e quindi non riuscirebbero a raggiungere una vera pubblicità.

Ne consegue, come osservava giustamente Hansemann, che non esiste forse singola questione economica che non comporti riferimenti alla politica interna ed estera. La possibilità di una franca ed aperta discussione della situazione della Mosella presuppone dunque la possibilità di una franca ed aperta discussione di tutta quanta la «politica interna ed estera». Ma il fornirla è tanto poco in facoltà di singole autorità amministrative, che forse solo l'espresso volere immediato ed energico del re stesso potrebbe riuscirvi in modo opportuno e durevole.

Se la pubblica discussione non era franca, la franca discussione non era pubblica. Si limitava ad oscuri giornali locali, il cui sguardo naturalmente non superava la cerchia della propria diffusione e, per quanto precede, nemmeno l'avrebbe potuto. Quale caratteristica di tali discussioni locali diamo alcuni estratti da diverse annate del «Settimanale del progresso di Bernkastel».

Nell'annata 1835 si dice: «Nell'autunno del 1833 un forestiero ricavò dal suo terreno cinque misure di vino. Per colmare il tino comprò altre due misure al prezzo di 30 talleri. Il fusto costò 9 talleri, la tassa sul mosto 7 talleri e 5 denari, la vendemmia 4 talleri, l'affìtto della cantina 1 tallero e 3 denari, la mercede del pigiatore 16 denari; in conclusione, prescindendo dalle spese di coltura, un'uscita netta di 51 talleri e 24 denari. Il i10 maggio il fusto di vino venne rivenduto per 41 talleri; ed è da notare che si trattava di vino buono, e la vendita non avvenne per necessità, e nemmeno si ebbe a che fare con uno speculatore» (p. 87). «Il 21 novembre sul mercato di Bernkastel vennero venduti all'asta tre quarti di misura di vino del 1835 al prezzo di 14 denari e il 27 dello stesso mese quattro misure, compreso il fusto, per 11 talleri, dove è per di più da notare che, trascorso il giorno di S. Michele», il fusto fu riacquistato per n talleri» (p. 267, ivi). Consimile notizia in data 12 aprile 1836.

Cadono a proposito anche alcune citazioni tratte dall'annata 1837: «Il primo del corrente mese a Kinheim venne ceduto in un'asta pubblica alla presenza del notaio un giovane vigneto di quattro anni, composto di circa 200 piante coi regolari sostegni, al prezzo normale di un soldo e mezzo la pianta. Nel 1828 la stessa pianta costava sul luogo 5 denari» (p. 47). «Una vedova di Graach si accordò per far trasformare in vino il proprio raccolto in cambio di metà del provento, e come sua parte le venne data una misura di vino, che ella permutò contro due libbre di burro, due libbre di pane e mezza libbra di cipolle» (ivi, nel n. 37). «Il 20 del mese corrente vennero vendute all'asta coercitivamente otto botti di vino del '36 di Graach e Bernkastel, in parte delle zone migliori, e una botte di vino di Graach del '35. Vennero pagate in tutto 135 talleri e 15 denari, fusto compreso; quindi, una botte sull'altra, a circa 15 talleri l'una. Il fusto solo può essere costato un 1012 talleri. Che resta dunque al povero vignaiolo per le sue spese di coltura? Non è possibile che questa spaventosa miseria trovi aiuto? Comunicato di un abbonato» (n. 4, p. 30).

Qui si ha a che fare con semplici racconti di fatti, che, talvolta accompagnati da un breve commento elegiaco, possono commuovere proprio per la loro disadorna semplicità, ma ben difficilmente potrebbero dar l'impressione di una franca e aperta discussione sulle condizioni della Mosella.

Se ora un singolo, e anzi una parte numerosa di un popolo vengono colpiti da una ingente e spaventosa calamità, e nessuno ne parla, nessuno ne tratta come di un fenomeno meritevole di riflessione e discussione, i colpiti devono concludere che gli altri o non possono o non vogliono parlarne, perché ritengono illusoria l'importanza attribuita alla cosa. Ma il riconoscimento della sua calamità, questa partecipazione spirituale ad essa, è un bisogno per il meschino vignaiolo, ne deduca anche solo che, dove tutti pensano e molti parlano, presto anche qualcuno agirà. Se pur era stato veramente permesso discutere liberamente e pubblicamente le condizioni della Mosella, tuttavia ciò non è avvenuto, ed è ovvio che il popolo crede solo a ciò che è reale, non alla libera stampa che può esistere, ma alla libera stampa che di fatto esiste. Poiché dunque prima del decreto sovrano l'abitante della Mosella aveva patito il proprio bisogno, e aveva udito altre sì metterlo in dubbio, mentre nulla aveva inteso di una pubblica e libera stampa; poiché vide per contro dopo l'apparizione del decreto spuntare quasi dal nulla questa stampa, pare sia stata almeno molto conforme al sentimento popolare la sua conclusione, che il decreto regio sia l'unica causa di questo sviluppo della stampa, a cui l'abitante della Mosella applaudi di tutto cuore per i motivi sopra detti, perché immediatamente spintovi da un reale bisogno. Sembra del resto che, pur prescindendo da questa opinione popolare, anche una prova critica avrebbe portato allo stesso risultato. L'introduzione delle istruzioni per la censura del 24 dicembre 1841 dice: «Sua Maestà il Re ha decisamente espresso la sua riprovazione per ogni illecita costrizione dell'attività pubblicistica e, riconoscendo il valore e la necessità di una stampa libera e degna... ecc.»; e queste parole assicurano alla stampa un particolare riconoscimento regio, e quindi un'importanza politica. Che una parola del re sia stata in grado di agire cosi efficacemente, e sia stata salutata dagli abitanti della Mosella come una parola di potere magico, come un rimedio universale contro tutti i loro dolori, tutto questo pare possa solo testimoniare dei puri sentimenti monarchici degli abitanti della Mosella e della loro riconoscenza non misurata, ma straripante.

(«Gazzetta renana», 20 gennaio 1843, n. 20).

Abbiamo cercato di mostrare che la necessità di una stampa libera sorgeva inevitabilmente dalla peculiarità delle condizioni della Mosella. Abbiamo inoltre mostrato come il soddisfacimento di questa necessità restasse impedito, prima dell'apparizione del regio decreto, se anche non da speciali provvedimenti contro la stampa, già dalla generale situazione della stampa quotidiana prussiana. Mostreremo infine che circostanze davvero speciali si opponevano duramente a una discussione libera e pubblica delle condizioni della Mosella. Anche qui dobbiamo anzitutto mettere in rilievo il criterio direttivo della nostra esposizione e ravvisare la forza che regge le situazioni generali nella volontà delle persone agenti.

Nelle circostanze speciali, che impedivano una libera e pubblica discussione della situazione della Mosella, ci era lecito non scorgere altro che l'effettivo materializzarsi e l'evidente esplicarsi della situazione generale sopra esposta, ossia della peculiare posizione dell'amministrazione nella regione della Mosella, della condizione generale della stampa quotidiana e dell'opinione pubblica, infine dello spirito politico dominante e del suo sistema. Se queste caratteristiche erano, a quanto pare, le forze generali visibili e attive di quel tempo, occorrerà appena accennare che dovevano agire anche come tali, dovevano risolversi nei fatti e manifestarsi quali attività isolate, apparentemente arbitrarie. Chi trascura questa situazione di fatto si avvolge unilateralmente in amare considerazioni contro le persone attraverso le quali ha conosciuta la durezza dei tempi.

Bisognerà annoverare fra gli speciali ostacoli alla stampa non solo singoli divieti della censura, ma altresì tutte le speciali circostanze che rendevano superflua la censura, in quanto non permettevano nemmeno che venisse fuori a titolo d'esperimento un argomento soggetto a censura. Dove la censura incappa in urti gravi, persistenti e aspri con la stampa, si può dedurne con relativa sicurezza che la stampa ha già vinto per vitalità, carattere e consapevolezza, poiché solo un'azione concreta suscita una concreta reazione. Dove per contro non esiste censura, perché non vi è stampa, sebbene esista la necessità di una stampa libera e quindi passibile di censura, bisogna cercare la censura preventiva nelle circostanze che hanno fatto ammutolire il pensiero già nelle sue forme più modeste.

Non può essere nostro scopo fornire una completa esposizione di queste circostanze speciali anche solo approssimativa; il che vorrebbe dire fare la storia contemporanea dal 1830 in poi, relativamente alla regione della Mosella. Riteniamo di aver assolto il nostro compito, se proviamo che la parola libera e pubblica è entrata in conflitto con impedimenti speciali in tutte le forme: in forma di discorso verbale, in forma di scritto, in forma di stampa (sia non ancora censurata, che già censurata).

Lo scoraggiamento e lo sbigottimento, che già intaccano presso una popolazione in miseria quella forza morale che è propria della libera e pubblica discussione, vennero alimentati in ispecie tramite le condanne «per offesa a un funzionario in servizio o in relazione al suo servizio», condanne resesi necessarie in seguito alle molteplici denunce.

Un simile modo di procedere è ancor vivo nel ricordo di molti vignaioli della Mosella. Un cittadino particolarmente amato per la sua bonomia, si è espresso in modo scherzoso con la domestica di un consigliere distrettuale, che la sera prima, trovandosi in allegra compagnia in occasione della festa per il compleanno del re, aveva alzato un po' il gomito, dicendole: «Ieri sera il vostro padrone era un po' brillo». Per questa innocente espressione venne citato davanti al tribunale di polizia correzionale di Treviri, sebbene, come ben si comprende, venisse dichiarato innocente.

Abbiamo scelto di proposito questo esempio, perché vi si ricollega necessariamente una riflessione molto semplice. I consiglieri distrettuali sono i censori dei rispettivi distretti. Ma l'amministrazione dei consiglieri distrettuali con l'inclusione delle sfere dei funzionari subordinati costituirà l'argomento principale, perché più vicino, della stampa locale. Se ora in generale è già difficile giudicare delle proprie cose, incidenti del tipo sopra citato, che documentano l'esistenza di una concezione morbosamente suscettibile dell'intoccabilità del funzionario statale, fanno già della mera esistenza della censura distrettuale un motivo sufficiente per impedire la vita di una libera stampa locale.

Se dunque si vede che il semplice e modesto discorso orale guida al tribunale di polizia, a maggior ragione ottiene il medesimo risultato la forma scritta della libertà di parola, la petizione, che pure è ancor ben lontana dalla pubblicità della stampa. Come là entrava in gioco contro la libertà di parola l'intoccabilità del funzionario statale, qui entra in gioco l'intoccabilità delle leggi locali.

In seguito ad un regio decreto del 6 luglio 1836, in cui fra l'altro si dice che il re invia suo figlio nella provincia del Reno per rendersi conto delle condizioni locali, alcuni contadini del distretto di Treviri si sentirono incoraggiati a insistere presso il proprio deputato alla Dieta per farsi preparare una supplica per il principe ereditario e fecero subito un esposto delle loro lagnanze punto per punto. Inoltre il deputato, per accrescere l'importanza della petizione con un maggior numero di sottoscrittori, inviò un messo nei dintorni e raccolse la firma di 160 contadini. Il tenore della petizione era il seguente:

Poiché noi sottoscritti abitanti del circondario di..., distretto di Treviri, siamo informati che il nostro buon Re ci invia sua Altezza Reale il Principe Ereditario, per sovvenire il nostro paese e risparmiare a sua Altezza Reale la fatica di ascoltare le lagnanze di molti singoli individui, incarichiamo con la presente il nostro deputato alla Dieta Signor... di fare umilmente presente a Sua Altezza Reale il Principe Ereditario di Prussia, diletto figlio del Re, che:

1) Se non possiamo vendere i nostri prodotti superflui, specialmente bestiame e vino, ci riesce impossibile pagare le imposte troppo alte sotto tutti i rapporti; di conseguenza desidereremmo una notevole diminuzione delle stesse, poiché altrimenti lasciamo tutti i nostri averi all'esattore, come prova l'allegato (contiene l'ingiunzione di pagamento di un esattore per 25 denari e 5 soldi).

2) Sua Altezza Reale non voglia giudicare della nostra situazione basandosi sui numerosi, e invero troppo ben pagati, impiegati, pensionati, avventizi, funzionari civili e militari, sui capitalisti e commercianti, che nelle città vivono in una grande abbondanza dei nostri, prodotti tanto sviliti di prezzo; mentre invece tutto ciò non si trova nei miseri tuguri del contadino indebitato e costituisce per lui un rivoltante contrasto. Mentre prima si stipendiavano 27 impiegati con 29.000 talleri, ora, senza contare i pensionati, se ne stipendiano 63 con 105.000.

3) Ci sia lecito scegliere direttamente gli impiegati comunali tramite il comune, come avveniva prima.

4) Gli uffici daziari non restino chiusi per molte ore durante il giorno, bensì aperti ad ogni ora, per modo che il contadino, che involontariamente tarda qualche minuto, non debba soffrire il freddo per cinque o sei ore, anzi per tutta la notte, in mezzo alla strada, o soffrire il caldo durante il giorno. Infatti il pubblico impiegato è tenuto e deve essere obbligato a restare sempre a disposizione del popolo.

5) Venga tolto per le strade secondarie il divieto espresso dal paragrafo 12 della legge del 28 aprile 1828 e rinnovato dalla «Gazzetta Ufficiale» del governo regio del 22 agosto, che commina sanzioni.penali a chi ara a due piedi dall'orlo del fosso, e venga concesso ai proprietari di poter arare tutta la loro terra fino al fosso stradale, si che tale tratto di terra non venga sottratto ai proprietari dai sorveglianti stradali.

Devotissimi sudditi di Vostra Altezza Reale...

{seguono le firme).

Questa petizione, che il deputato dei contadini voleva presentare al principe ereditario, venne d'altro lato accolta con l'espressa promessa di rimetterla a Sua Altezza Reale. Non giunse mai una risposta, bensi da parte del tribunale venne intentato un processo contro il deputato, quale promotore di una petizione, nella quale «si esprime una critica sfacciata ed irriverente contro le leggi del paese». In seguito a questa accusa il deputato venne condannato in Treviri a sei mesi di reclusione oltre le spese, condanna che venne poi commutata dalla Corte d'Appello, nel senso che rimase soltanto la parte riguardante le spese, e ciò precisamente perché il comportamento dell'accusato non era stato del tutto esente da leggerezza e appunto con essa egli aveva dato motivo al processo. Per contro il contenuto della petizione non venne in nessun modo giudicato punibile.

Se si considera che la petizione in questione doveva diventare un avvenimento particolarmente importante e decisivo in tutta la regione, sia per la posizione di deputato dell'accusato, sia perché connessa allo scopo del viaggio del principe, e che essa doveva eccitare in alto grado, l'attenzione pubblica, le sue conseguenze avrebbero potuto non solo provocare una libera e aperta discussione sulle condizioni della Mosella, ma altre sì offrire qualche probabilità di realizzazione ai desideri dell'autorità in tale argomento.

Veniamo ora al vero e proprio divieto sulla stampa, alla censura negativa, che secondo le surriferite citazioni doveva appartenere alla categoria dei provvedimenti eccezionali, come vi apparteneva il tentativo di discussione sulla situazione della Mosella, che risultasse passibile di censura.

Ad un verbale del consiglio degli scabini, in cui fra alcune espressioni barocche si trovano anche delle parole franche, venne rifiutato il permesso di stampa dalla censura distrettuale. La discussione ebbe luogo nel consiglio degli scabini, il verbale del consiglio invece venne compilato dal borgomastro. Comincia con queste parole: «Signori, la regione della Mosella fra Treviri e Coblenza, fra l'Eifel e l'Hundsrucken, è materialmente poverissima, perché essa vive solo di viticoltura e questa ha ricevuto un colpo mortale dal trattato commerciale con la Germania; ma questa regione è povera anche spiritualmente», ecc.

Allo stesso modo un dato di fatto potrebbe provare che infine una libera e pubblica discussione, se anche superava tutti gli ostacoli rilevati e trovava eccezionalmente luogo nelle colonne di un giornale, veniva giudicata un'eccezione e come tale risolta in nulla. Diversi anni fa il signor Kaufmann, professore di scienza delle finanze a Bonn, pubblicò sulla «Gazzetta del Reno e della Mosella» un articolo «sulla miseria dei vignaioli della Mosella», ecc.; questo articolo, dopo aver circolato per tre mesi su diversi giornali, venne proibito dal governo regio, e tale proibizione conserva tuttora la sua efficacia.

Con questo ritengo di aver esaurientemente risposto alla questione dell'atteggiamento della regione della Mosella verso il decreto dell'8 dicembre, le connesse istruzioni sulla censura del 24 dicembre e la più libera azione della stampa che ne segui. Rimane ancora da motivare la mia affermazione, che «la triste situazione dei vignaioli era stata per molto tempo messa in dubbio nelle alte sfere e il loro grido di soccorso tenuto per sfacciata gracidio». Possiamo dividere la proposizione incriminata in due parti: «la triste situazione dei vignaioli era stata per molto tempo messa in dubbio nelle alte sfere» e «il loro grido di soccorso era stato tenuto per sfacciato gracidio».

La prima parte, mi pare, non richiede più alcuna dimostrazione. La seconda, «il loro grido di soccorso era stato tenuto per sfacciato gracidio», non si può assolutamente interpretare, come fa il signor Presidente supremo, integrandola con la prima in questo modo: «il loro grido di soccorso era stato nelle alte sfere tenuto per sfacciato gracidio». Comunque può valere anche questa interpolazione, a patto che si prendano per equivalenti «alte sfere» e «sfere burocratiche».

Che si potesse parlare di «grido di soccorso» dei vignaioli non solo figuratamente, ma nel senso vero e proprio della parola, sarà risultato evidente da quanto si è detto fin qui. Che a questo grido di soccorso venisse da un lato rinfacciata la mancanza di fondamento, considerando la descrizione di tale indigenza come una cruda esagerazione prodotta da motivi malvagi ed egoistici, e dall'altro le lagnanze e le preghiere di questa indigenza venissero interpretate come «sfacciato, irriverente biasimo alle leggi del paese», tutto questo lo abbiamo provato con una relazione governativa e un processo penale. Che poi un gridare implicante un biasimo alle leggi del paese, eccessivo, deformatore dei fatti, alimentato da motivi disonesti, sfacciato, sia da identificarsi con «gracidio» e precisamente «sfacciato gracidio», potrebbe essere almeno un'affermazione non lontana dal vero e non cercata con intenzioni sleali. Pare quindi che la possibilità di sostituire l'una all'altra espressione sia semplicemente una conseguenza logica».

N. d. C. La pubblicazione di questa serie di articoli segnò la fine della «Gazzetta renana», che intanto, dai 400 abbonati iniziali, era giunta a contarne più di 3000. In un consiglio dei ministri, tenuto il 21 gennaio 1843 alla presenza del sovrano, fu decisa la soppressione del giornale, che ebbe solo facoltà di sopravvivere fino al 31 marzo, ma sotto il controllo severissimo della censura. Quattro giorni dopo Marx scriveva a Ruge: «Non sono affatto sorpreso. Lei sa quel ch'io pensai fin da principio delle istruzioni sulla censura. Nella soppressione della " Gazzetta renana " vedo solo una conseguenza della reazione ed un passo avanti della coscienza politica: si spiega cosi la mia rassegnazione. D'altronde l'atmosfera cominciava a pesarmi. È duro adempiere un ufficio servile, sia pure al servizio della libertà» {Gesamtausgabe, V, p. 94).

Dall'«Avanti!» (agosto 1844)
GLOSSE CRITICHE
in margine all'articolo «il re di prussia e la riforma sociale : osservazioni di un prussiano» («avanti!», n. 60)
(«Avanti!», 7 agosto 1844, n. 63).

Il n. 60 dell'«Avanti!» contiene un articolo intitolato II re di Prussia e la riforma sociale e firmato «Un Prussiano» [Autore dell'articolo, pubblicato il 27 luglio, era Arnold Ruge, che vi polemizzava con l'articolo di fondo apparso sette giorni prima nel giornale «La Réforme», un quotidiano diretto dal von Flocon, che usci a Parigi dal 29 luglio 1843 al 18 gennaio 1850. Ecco la prima parte dello scritto di Ruge, fino al passo poco oltre citato per disteso da Marx:

«In seguito ai tumulti della Slesia il re di Prussia ha emanato un'ordinanza ministeriale in cui: 1) Biasima il governo perché ha trascurato le previdenze per i poveri e gl'infelici, per i bimbi senza tetto, per i delinquenti redimibili dimessi dal carcere, per i lavoratori che versano nella necessità a causa di malattie. Queste previdenze erano invece necessarie per evitare gli inconvenienti cagionati dalle cattive condizioni in cui crescono i bimbi delle classi più umili e per prevenire quelle scosse sociali che derivano dalla miseria e dalla mancanza di provvidenze. La società ha dei doveri verso i bisognosi e i colpevoli pentiti. 2) Il re sa che un rimedio è possibile solo attraverso l'unione di tutte le forze cristiane dei cuori caritatevoli. 3) Il re chiede al governo, che deve prendersi cura dei poveri, di accettare e riconoscere seriamente ogni associazione che si prefigga tale scopo, e di far ciò come un dovere sacro, come un compito intrinseco. 4) Il re attende progetti e proposte in materia. 5) Il re si attende che quest'ordine sia diramato ai capi delle amministrazioni provinciali, che questa questione sia considerata di somma importanza e che si favorisca largamente il sorgere di società benefiche.]. Il preteso Prussiano riferisce anzitutto il contenuto dell'ordinanza del regio Gabinetto prussiano, riguardante i tumulti operai della Slesia, e poi l'opinione del giornale francese «La Réforme» sull'ordinanza stessa. La «Réforme» ritiene che fonte di quest'ordinanza siano il timore e il sentimento religioso del re. Il giornale riscontra in questo documento addirittura il presentimento delle grandi riforme che sovrastano la società borghese.

Ecco come il «Prussiano» ammaestra «La Réforme» [La Réforme " ha giustamente trovato questo rescritto meritevole di osservazione. È la risposta cristiana dello Stato prussiano agli avvenimenti della Slesia, mentre quella mondana e giuridica è da attendersi con la consueta durezza. "La Réforme" nel suo articolo di fondo del 20 dice: " l re di Prussia agisce sotto il doppio influsso di uno spavento vago e di un sentimento religioso. La sollevazione della miseria dei lavoratori lo spaventa come una disfunzione del governo, non come un segno della rivoluzione sociale, e contro questo doloroso stato di cose egli non trova altro rimedio fuori della beneficenza privata incoraggiata e regolata dal governo; si, egli è andato cosi lontano, da riconoscere come un compito della società il tendere la mano soccorrevole ai bisognosi". Il giorno precedente "La Réforme" diceva: "A parte la mescolanza ignorante ed offensiva dei delinquenti rilasciati coi lavoratori bisognosi, si trova in questo documento il presentimento dell'avvio d'una grande riforma della società borghese, che la presente situazione europea esige dovunque". "La Réforme" non si sbaglierebbe se, accanto alle espressioni ufficiali del documento, non fosse necessario conoscere tutta la realtà tedesca per intendere il re»]: «Il re e la società tedesca non sono affatto giunti a "presentire la loro riforma" [Si osservi l'assurdo stilistico e grammaticale: «Il re di Prussia e la società non sono affatto giunti a presentire la loro (a chi si riferisce quel "loro"?) riforma»]; perfino i tumulti della Slesia e della Boemia non hanno destato questo sentimento. In un paese impolitico come la Germania è impossibile far intendere le particolari esigenze d'un distretto industriale come una questione d'interesse generale, e tanto meno come una crisi dell'intero mondo civile. L'avvenimento ha per i Tedeschi il medesimo carattere di una qualunque siccità o carestia locale. Perciò il re lo considera come causato da un difetto di amministrazione o di carità. Per questo motivo, e poiché pochi soldati hanno avuto ragione dei deboli tessitori, la demolizione delle fabbriche e delle macchine non incute timore alcuno al re e alle autorità. Ma nemmeno fu il sentimento religioso a dettare l'ordinanza ministeriale: essa è un'espressione insulsa della prassi politica cristiana e di una dottrina che non ammette difficoltà di fronte al suo unico rimedio, la buona disposizione dei cuori cristiani. La povertà e il delitto sono due grandi mali. Chi può sanarli? Forse lo Stato e le autorità? No, soltanto l'unione di tutti i cuori cristiani» [II Ruge continua riportando l'opinione de «La Réforme»: «Di qui si spiega la strana ammissione: "i bimbi delle classi più umili son lasciati crescere senza cure". Dove ciò accade, manca lo spirito cristiano e lo si deve aiutare, com'è noto, con un provvedimento. Il re non rimprovera lo Stato e le strutture sociali, ma denuncia la mancanza di sentimento cristiano, il quale a suo avviso dev'essere ridestato tanto nelle amministrazioni di beneficenza (formate da impiegati e rappresentanti comunali non retribuiti), quanto nei ceti abbienti. Questo "sentimento" è lo scopo dell'ordinanza e le amministrazioni non debbono ostacolare (come ordinariamente avrebbero fatto), ma favorire le istituzioni benefiche». Segue il passo citato da Marx a p. 433.].

Il preteso «Prussiano» nega dunque il timore del re, tra l'altro per il motivo che con i deboli tessitori sarebbero sufficienti pochi soldati. In un paese quindi in cui feste con brindisi liberali e liberale schiuma di champagne (si ricordi la festa di Dusseldorf) provocano una regia ordinanza ministeriale [Allude al banchetto ch'ebbe luogo a Dusseldorf, il 4 luglio 1843, con l'intervento dei deputati liberali alla settima Dieta renana: la manifestazione provocò un'ordinanza regia del 18 di quel mese, in cui si deploravano i brindisi politici di quel raduno e si vietava ai pubblici dipendenti di partecipare ad analoghe riunioni]; in cui non occorre un solo soldato per infrangere la volontà di tutta la borghesia liberale circa la libertà di stampa e la costituzione; in un paese in cui l'obbedienza passiva è à l'ordre du jour; in un tale paese non costituirebbe un avvenimento, e un terribile avvenimento, la necessità di impiegare la forza armata contro deboli tessitori?

Ma i deboli tessitori al primo scontro riuscirono vincitori. Vennero poi sopraffatti da successivi rinforzi di truppe. L'insurrezione di una folla di lavoratori è forse meno pericolosa solo perché non occorre un intero esercito per soffocarla? L'intelligente «Prussiano» paragoni l'insurrezione dei tessitori della Slesia con quelle dei lavoratori inglesi, e i tessitori della Slesia gli appariranno dei «forti» tessitori.

Dai rapporti generali della politica con i mali sociali dedurremo le ragioni per cui l'insurrezione dei tessitori non poteva incutere al re alcun particolare timore. Per il momento basti questo: l'insurrezione non era diretta immediatamente contro il re, ma contro la borghesia. Come aristocratico e monarca assoluto, il re di Prussia non può amare la borghesia; tanto meno può temerla, se la sottomissione e l'impotenza di questa viene accresciuta dalle relazioni difficili e tese che essa ha con il proletariato. Inoltre: il cattolico ortodosso è più ostile al protestante ortodosso che non all'ateo, come il legittimista è più nemico del liberale che non del comunista. Non perché ateo e comunista siano affini al cattolico e al legittimista; bensì perché essi sono più estranei rispetto ad essi di quel che non siano il protestante e il liberale, in quanto sono fuori della loro cerchia. Il re di Prussia, come politico, ha la sua immediata antitesi politica nel liberalismo. Per il re l'antitesi del proletariato esiste tanto poco quanto poco esiste per il proletariato il re stesso. Il proletariato dovrebbe aver già ottenuto un peso decisivo, per riuscire a eliminare le antipatie e le opposizioni politiche e per attirare contro di sé l'intera ostilità della sfera politica. Da ultimo: dato il ben noto carattere del re, avido di cose interessanti e singolari, dovette costituire per lui una sorpresa lieta, addirittura eccitante, il ritrovare sul proprio suolo quell'interessante pauperismo di cui si sente tanto parlare, e con questo un'altra occasione per far parlare di sé. Come dovette esser felice alla notizia che ormai possedeva un suo personale, regio, prussiano pauperismo!

Il nostro «Prussiano» è ancor meno felice quando nega il sentimento religioso quale fonte della regia ordinanza. Perché il sentimento religioso non è la fonte di questa disposizione? Perché essa è «un'espressione insulsa della prassi politica cristiana», «un'insulsa espressione della dottrina che non ammette difficoltà di fronte al suo unico rimedio: la buona disposizione dei cuori cristiani». Il sentimento religioso non è forse la fonte della politica cristiana? Una dottrina che ripone la sua panacea nella buona disposizione dei cuori cristiani, non si basa forse sul sentimento religioso? Un'insulsa espressione del sentimento religioso cessa forse di essere un'espressione di sentimento religioso? Di più! Io affermo che è un sentimento religioso ben presuntuoso e brillo quello che cerca nell'«unione dei cuori cristiani» quella «guarigione dei grandi mali», di cui non ritiene capaci lo «Stato» e le «autorità». È un sentimento religioso molto brillo quello che — secondo la concessione del «Prussiano» — trova tutto il male nella mancanza di sentimento cristiano, e perciò addita alle autorità l'«esortazione» come unico mezzo per rafforzare tale sentimento. La disposizione cristiana è, secondo il «Prussiano», lo scopo dell'ordinanza ministeriale. Il sentimento religioso — si capisce — quando è brillo, quando non è sobrio, si considera l'unico bene. Dove scorge il male lo ascrive alla propria assenza, poiché se è l'unico bene, è anche il solo che possa generarlo. L'ordinanza ministeriale, dettata dal sentimento religioso, viene di conseguenza a inculcare il sentimento religioso. Un politico di sentimento religioso sobrio, nella sua «perplessità» non cercherebbe «rimedio» nell'«esortazione del pio predicatore alla disposizione cristiana».

In qual modo dunque il preteso «Prussiano» dimostra a «La Réforme» che l'ordinanza ministeriale non è un'espressione del sentimento religioso? In questo modo: presentando a ogni passo l'ordinanza come un'espressione del sentimento religioso. C'è da attendersi da un cervello cosi privo di logica una penetrazione dei movimenti sociali? Ascoltiamo ciò che egli va blaterando circa i rapporti della società tedesca col moto operaio e la riforma sociale. Distinguiamo che cosa trascura il «Prussiano»; distinguiamo le diverse categorie raggruppate nella definizione di «società tedesca»: il governo, la borghesia, la stampa, e finalmente gli stessi operai. Questi sono i diversi elementi in causa. Il «Prussiano» li fonde insieme e, dal suo alto punto di vista, li condanna in massa. La «società tedesca» secondo lui «non è ancora giunta a presentire la riforma». Perché le manca questo istinto? «In un paese impolitico come la Germania», risponde il «Prussiano», «è impossibile far intendere le particolari esigenze d'un distretto industriale come una questione d'interesse generale, e tanto meno come una crisi dell'intero mondo civile. L'avvenimento ha per i Tedeschi il medesimo carattere di una qualunque siccità o carestia locale. Perciò il re lo considera come causato da un difetto di amministrazione o di carità». Il «Prussiano» ricava dunque questa errata interpretazione delle necessità operaie dalle peculiarità di un «paese impolitico». Mi si concederà che l'Inghilterra è un paese politico. Si ammetterà inoltre che l'Inghilterra è il paese del pauperismo; la parola stessa è d'origine inglese. Osservare l'Inghilterra è dunque il mezzo più sicuro per conoscere i rapporti di un paese politico col pauperismo. In Inghilterra le necessità dei lavoratori non sono particolari, ma universali; non si limitano al distretto industriale, ma si estendono ai distretti di tutto il paese. I moti qui non sono ai loro primordi: essi rinascono periodicamente da circa un secolo. Come dunque concepiscono il pauperismo la borghesia inglese, e il governo e la stampa ad essa strettamente legati? Quanto più la borghesia inglese imputa il pauperismo alla politica, tanto più il Whig considera il Tory, e il Tory il Whig, come causa del pauperismo. Secondo il Whig, la sorgente principale del pauperismo è il monopolio delle grandi proprietà fondiarie e il protezionismo sull'importazione del grano. Secondo il Tory tutto il male risiede nel liberalismo, nella concorrenza, nei sistemi di produzione esasperati. Nessuno tra i partiti trova una base di miglioramento nella politica in generale, ma al contrario in quella del suo partito soltanto; una riforma della società sia l'uno che l'altro partito non se la sognano nemmeno.

L'espressione più netta del punto di vista inglese sul pauperismo — parliamo sempre del punto di vista della borghesia e del governo inglese — è l'economia politica inglese, vale a dire il riflesso scientifico della situazione economica nazionale. Uno dei migliori e più celebri economisti inglesi, che ben conosce le presenti circostanze e deve possedere una visione generale dei moti della società borghese, un discepolo del cinico Ricardo, il Mac Culloch, osa ancora, in una pubblica lezione e tra dimostrazioni di consenso, applicare all'economia politica ciò che Bacone dice della filosofia: «L'uomo, che con vera e instancabile saggezza sospende il suo giudizio, procede grado a grado e supera uno dopo l'altro gli ostacoli che, come montagne, impediscono il cammino della scienza, raggiungerà col tempo la vetta del sapere, dove si gode tranquillità e aria pura, dove la natura si offre all'occhio in tutta la sua bellezza e donde, per un sentiero agevolmente declive, si può discendere alle ultime particolarità della pratica» [Cfr. J. R. Mac Culloch, Discours sur l'origine, le progrès, les objets particuliers et l'importance de l'economie politique. Traduit de l'anglais par G. Prévost, GenèveParis, 1825, pp. 131132. Il Marx aveva trascritto dal Mac Culloch il testo latino di Bacone nel quinto quaderno degli appunti parigini (cfr. qui l'Appendice, n. IX).]. Buona aria pura l'atmosfera pestilenziale dei sotterranei inglesi! Grande bellezza naturale la fantastica cenciosità degli Inglesi poveri e la carne vizza e raggrinzita delle donne consunte dal lavoro e dalla miseria, i bambini che giacciono sullo strame, gli aborti provocati dall'eccesso di lavoro nell'uniforme meccanismo delle fabbriche! Ultimo graziosissimo dettaglio della pratica: prostituzione, delitto e forca!

Perfino la parte della borghesia inglese consapevole del pericolo del pauperismo intende questo pericolo, come pure i mezzi per rimediarvi, in una maniera non solo molto speciale, ma, per parlare senza ambage, infantile e stupida. Cosi il dottor Kay nel suo opuscolo Recent Measures for the Promotion of Education in England, riconduce tutto all'educazione trascurata. S'indovini su che base! «Per mancanza d'educazione il lavoratore non afferra le leggi naturali del commercio, leggi che necessariamente lo portano al pauperismo. Per questo si ribella. Ciò può disturbare la prosperità dell'industria e del commercio inglese, scuotere la reciproca fiducia degli uomini d'affari, diminuire la stabilità delle istituzioni politiche e sociali» «. Tanta è la vacuità della borghesia inglese e della sua stampa riguardo al pauperismo, riguardo a questa epidemia nazionale dell'Inghilterra! Ammettiamo dunque che i rimproveri che il nostro «Prussiano» rivolge alla società tedesca siano giustificati: la cagione risiede allora nella impoliticità della Germania? Ma se la borghesia dell'impolitica Germania non sa vedere l'importanza generale di una necessità particolare, al contrario la borghesia della politica Inghilterra intende disconoscere a bella posta il significato generale di una necessità universale, di una necessità che ha messo in luce il suo significato generale parte per mezzo di ritorni periodici nel tempo, parte per mezzo di un'estensione nello spazio, parte per aver frustrato ogni tentativo di rimedio. Alla impoliticità della Germania il «Prussiano» addossa inoltre il fatto che il re di Prussia rinvenga l'origine del pauperismo in un difetto di amministrazione e di carità, e cerchi perciò i mezzi contro di esso in misure di buon governo e di beneficenza.

Questo modo di vedere è forse peculiare al re di Prussia? Gettiamo un rapido sguardo sull'Inghilterra, l'unico paese in cui si possa parlare di una grande azione politica contro il pauperismo. L'attuale legislazione pubblica inglese risale alla legge dell'Atto 43 del governo di Elisabetta [Non è necessario, pel nostro scopo, risalire fino allo statuto dei lavoratori al tempo di Edoardo III ]. In che consistono i mezzi di questa legislazione? Nell'obbligo delle parrocchie di soccorrere i loro lavoratori poveri, in tasse a favore dei poveri, nella beneficenza legale. Questa legislazione — la beneficenza nei modi dell'amministrazione — è durata due secoli. Dopo lunghe e dolorose esperienze, a che punto troviamo il Parlamento nel suo AmendmentBill del 1834? Anzitutto esso spiega l'aumento terribile del pauperismo con un «difetto di amministrazione». L'amministrazione delle tasse a beneficio dei poveri, costituita dai funzionari delle rispettive parrocchie, viene perciò riformata. Si forma un'associazione di circa venti parrocchie riunite in un'amministrazione unica. Un ufficio di funzionari, il Board of Guardians, scelti dai contribuenti, si riunisce in un dato giorno nella sede dell'associazione e decide circa l'opportunità dell'aiuto. Questi uffici sono diretti e sorvegliati da incaricati del governo, della commissione centrale di SommersetHouse, il Ministero del pauperismo, giusta la precisa definizione di un Francese. Il capitale controllato da questa amministrazione raggiunge quasi una cifra uguale al bilancio militare in Francia. Il numero delle amministrazioni locali che essa impiega ammonta a cinquecento, e ognuna di queste occupa almeno dodici impiegati.

Il Parlamento inglese non si limitò alla riforma esteriore dell'amministrazione; esso trovò l'origine principale dello stadio acuto del pauperismo inglese nella stessa legge sulla povertà. La beneficenza, mezzo legale contro questa piaga sociale, finisce col favorire l'estendersi della piaga stessa. Per ciò che concerne il pauperismo in generale, esso è una eterna legge naturale secondo la teoria di Malthus: «Dal momento che l'aumento della popolazione tende continuamente a eccedere i mezzi di sussistenza, la beneficenza è una pazzia, un pubblico stimolo alla miseria. Lo Stato non può quindi far altro che abbandonare la miseria al suo destino, e tutt'al più facilitare la morte dei miserabili» [Non si tratta di una frase di Malthus, ma di un compendio — infedele nella chiusa — della tesi esposta nella appendice II (Sul diritto dei poveri ad essere nutriti) del libro V del celebre Saggio sul principio di popolazione (1798; edizione definitiva, 1826).]. A questa filantropica teoria il Parlamento inglese mescola l'opinione che il pauperismo consista nella miseria colpevole dei lavoratori, che non è perciò da prevenire come una disgrazia, ma da incriminare e punire come una tendenza delittuosa. Sorse cosi il regime delle Workhouses, vale a dire ricoveri di mendicità 2, il cui apparato interno scoraggia i poveri dal cercarvi un rifugio contro la morte per fame. Nelle Workhouses la beneficenza è abilmente intrecciata con la vendetta della borghesia contro i miseri che si sono appellati ad essa. L'Inghilterra ha dunque tentato anzitutto l'annientamento del pauperismo col mezzo della beneficenza e delle misure amministrative. Essa vide nel continuo aumento del pauperismo non la conseguenza della moderna industrializzazione, ma al contrario la conseguenza delle tasse a beneficio dei poveri. Essa intese quella che è una necessità universale solo come una particolarità della legislazione inglese.

Ciò che per l'addietro era derivato da una mancanza di beneficenza, derivò allora da un suo eccesso. Da ultimo la miseria venne considerata una colpa dei miserabili e come tale punita in loro. L'importanza generale che ha guadagnato al pauperismo l'attenzione della politica Inghilterra si limita a questo, che nel corso del suo sviluppo, nonostante le misure amministrative, il pauperismo si è formato come istituzione nazionale e perciò è divenuto inevitabilmente l'oggetto di un'amministrazione ramificata e ampiamente estesa, che però non ha più il compito di soffocarlo, bensi quello di disciplinarlo ed eternarlo. Questa amministrazione ha rinunciato ad eliminare con mezzi positivi la sorgente del pauperismo; essa si accontenta, tutte le volte che quello affiora alla superficie del paese ufficiale, di scavargli una fossa con mitezza poliziesca. Lo Stato inglese, lontanissimo dall'andar più in là delle mere misure amministrative, è disceso molto al di sotto di esse. Esso non amministra più che il pauperismo arrivato a un punto di disperazione tale da lasciarsi catturare e imprigionare. Fin qui dunque il «Prussiano» non ha dimostrato nulla di particolare sul modo di procedere del re di Prussia.

«Ma allora perché», esclama il grand'uomo con un'ingenuità rara, «perché il re di Prussia non ordina subito l'educazione di tutti i bimbi abbandonati?» [II Ruge continua: «Ciò sorpassa le sue forze ed è lecito solo " all'unione di tutti i cuori caritatevoli " — solo, ben s'intende, quando sono tutti riuniti. " Gli ordinari istituti comunali di assistenza ai poveri non sono in grado di provvedere ": che si deve fare? " Si uniscano tutti i cuori caritatevoli ", che sono più potenti dei prefetti. Cos'è dunque l'ordinanza del re di Prussia? Null'altro che una palese mancanza di senso politico, un chieder soccorso alle esortazioni dei predicatori divoti invocanti lo spirito cristiano: inchieste e studi, piani e proposte non fanno presa sul pensiero del re». Segue il passo citato dal Marx a p. 404]. Perché si rivolge per prima cosa alle autorità e attende i loro progetti e le loro proposte? L'astutissimo «Prussiano» si tranquillizzerà quando verrà a sapere che il re di Prussia anche qui è poco originale quanto nelle altre sue azioni; egli ha battuto l'unica via che può battere un capo di Stato. Napoleone voleva annientare l'accattonaggio in un sol colpo. Incaricò pertanto le sue autorità di preparare progetti per la soppressione dell'accattonaggio in tutta la Francia. Il progetto si faceva attendere; Napoleone perse la pazienza e scrisse al suo ministro degli Interni, Crétet, ordinandogli di sopprimere Taccata tonaggio entro un mese e aggiungendo: «Non è lecito passare su questa terra senza lasciar tracce che raccomandino la nostra memoria ai posteri. Non prendetemi più di tre o quattro mesi per ottener ragguagli; avete funzionari giovani, prefetti intelligenti, ingegneri esperti di ponti e strade; ponete in moto tutta questa gente, non addormentatevi nel solito lavoro d'ufficio». In pochi mesi tutto fu fatto. Il 5 luglio 1808 fu promulgata la legge repressiva contro l'accattonaggio. Per mezzo di che cosa? Per mezzo di quei dépóts che si trasformavano cosi rapidamente in case di pena, che per il povero la via più breve per arrivarci fu tosto quella del tribunale correzionale di polizia. E tuttavia in quel tempo il Noailles du Gard, membro del Corpo Legislativo , esclamava: «Eterna riconoscenza all'eroe che assicura alla povertà un rifugio, alla miseria un mezzo di vita: l'infanzia non sarà più abbandonata, le famiglie povere non mancheranno più del necessario, né i lavoratori di incoraggiamento e di occupazione. Nos pas ne seront plus arrétés par l'image dégoùtante des infirmités et de la honteuse misere» . L'ultimo passo, nel suo cinismo, è l'unica nota sincera in tutto questo panegirico.

Se Napoleone s'indirizza al cervello dei suoi funzionari, prefetti, ingegneri, perché il re di Prussia non si rivolge alle sue autorità? Perché Napoleone non ordinò subito la soppressione dell'accattonaggio? Lo stesso valore ha la domanda del «Prussiano»: «Perché il re di Prussia non ordina subito l'educazione dei bimbi abbandonati?». Sa il «Prussiano» che cosa dovrebbe ordinare il re di Prussia? Non altro che lo sterminio del proletariato. Per educare i bambini li si deve nutrire e svincolare dalla necessità di lavorare per vivere. Il nutrimento e l'educazione dei bimbi abbandonati, vale a dire il nutrimento e l'educazione di tutto il proletariato adulto, sarebbe l'annientamento del pauperismo e del proletariato. La Convenzione ebbe per un momento il coraggio di ordinare la soppressione del pauperismo, non già «subito», come pretende il «Prussiano» dal suo re, bensì soltanto dopo aver incaricato il Comitato di Salute Pubblica di compilare ampi progetti e proposte, dopo che questo ebbe utilizzato le minuziose ricerche dell'Assemblea Costituente circa la situazione della miseria in Francia, dopo ch'era stata proposta per mezzo di Barrère! la fondazione del Livre de la Bienfaisance nationale, ecc. Quale fu la conseguenza dell'ordine della Convenzione? Che vi fu al mondo un'ordinanza di più e che un anno dopo i tessitori affamati assediarono la Convenzione [ Si tratta di una inesatta reminiscenza di Marx; il Buret (voi. I, p. 223) non parla di «tessitori», ma genericamente di «une immense foule de peuple»]. Eppure essa fu il massimo dell'energia politica, della potenza e della saggezza politica. Cosi su due piedi, senza accordi con le autorità, nessun governo del mondo ha mai emanato disposizioni intorno al pauperismo. Il Parlamento inglese mandò perfino commissari in tutti i paesi dell'Europa per conoscere i diversi rimedi amministrativi contro il medesimo. Ma per quanto gli Stati si siano occupati del pauperismo, tuttavia si sono arrestati alle misure amministrative e caritative, o non ci sono neanche arrivati. Può lo Stato agire diversamente? Lo Stato non ammetterà mai nello «Stato» e nell'«ordinamento della società», come il «Prussiano» pretende che il suo re riconosca, l'origine dei mali sociali. Dove esistono partiti politici, ciascuno di essi appunta l'origine di ogni male nel fatto di non trovarsi al timone dello Stato in luogo del suo antagonista. Perfino i politici radicali e rivoluzionari cercano l'origine del male non nell'essenza dello Stato, ma in una determinata forma, al posto della quale ne vogliono porre un'altra. Lo Stato e l'ordinamento della società non sono, dal punto di vista politico, due cose diverse. Lo Stato è appunto l'ordinamento della società. Se lo Stato permette i mali sociali, esso li rintraccia o in leggi naturali cui nessuna potenza umana può comandare, o nella vita privata che è da esso indipendente, o nell'inefficienza dell'amministrazione che da esso dipende. Cosi l'Inghilterra trova che la miseria è fondata sulla legge naturale, secondo la quale il continuo incremento della popolazione deve superare i mezzi di sussistenza. D'altra parte essa spiega che il pauperismo deriva dalla cattiva volontà del povero, come il re di Prussia lo fa provenire dall'animo anticristiano dei ricchi, e come la Convenzione dalla sospettata disposizione controrivoluzionaria dei proprietari. L'Inghilterra punisce perciò i poveri, il re di Prussia ammonisce i ricchi e la Convenzione decapita i proprietari. Insomma, tutti gli Stati cercano la colpa in difetti accidentali o intenzionali di amministrazione, e perciò ne cercano il rimedio nelle misure amministrative. Perché? Appunto perché l'amministrazione è l'attività organizzativa dello Stato.

Lo Stato non può eliminare questa contraddizione tra lo scopo e la buona volontà dell'amministrazione da una parte, e i suoi mezzi e le sue facoltà dall'altra, senza eliminare se stesso, poiché esso riposa appunto su questa contraddizione. Esso riposa sulla contraddizione tra la vita pubblica e quella privata, tra gli interessi generali e quelli particolari. L'amministrazione si deve quindi limitare a un'attività formale e negativa, poiché dove comincia la vita borghese» e il suo lavoro, là appunto termina il potere dell'amministrazione. Di fronte alle conseguenze derivanti dalla natura insociale di questa vita borghese, di questa proprietà privata, di questo commercio, di quest'industria, di questo mutuo saccheggio delle diverse sfere della borghesia, veramente l'impotenza è la legge naturale dell'amministrazione. Infatti questo abisso, questa infamia, questa schiavitù della società borghese, è il fondamento naturale su cui riposa lo Stato moderno, come la società borghese della schiavitù fu la base naturale su cui riposava lo Stato antico. L'esistenza dello Stato e quella della schiavitù sono inseparabili. L'antico Stato e l'antica schiavitù — schiette, classiche antitesi — non erano fusi tra loro più profondamente di quel che non siano lo Stato moderno e il moderno mondo di trafficanti — ipocrite, cristiane antitesi. Se lo Stato moderno volesse ovviare all'impotenza della sua amministrazione, dovrebbe eliminare la vita privata di oggidì. Se volesse eliminare la vita privata dovrebbe eliminare se stesso, poiché esso esiste soltanto in contrapposizione a quella vita. Ma nessun vivente può credere che i difetti del suo essere siano radicati nel principio stesso, nell'essenza della sua vita, e accusa le circostanze esteriori. Il suicidio è contro natura. Quindi lo Stato non può credere all'impotenza intima della sua amministrazione, vale a dire alla sua propria. Esso può solo riconoscere difetti formali, casuali dell'amministrazione, e cercare di porvi rimedio. Ma se queste modificazioni risultano senza frutto, il male sociale è un'imperfezione della natura, indipendente dagli uomini, una legge divina; oppure la volontà dei privati è troppo corrotta per venire incontro ai buoni propositi dell'amministrazione. Ma quali privati corrotti? Essi mormorano contro il governo ogniqualvolta limita la libertà, e pretendono da esso che impedisca le necessarie conseguenze di questa libertà! Quanto più lo Stato è potente, quanto più un paese è politico, tanto meno è incline a cercare nel principio dello Stato, cioè nell'ordinamento attuale della società, di cui lo Stato è l'espressione più attiva, cosciente e ufficiale, la base dei mali sociali e ad afferrarne il principio generale. L'intelligenza politica è appunto intelligenza politica perché ragiona entro i limiti della politica. Quanto più acuta, quanto più viva, tanto più è incapace di intendere i mali sociali. Il periodo classico dell'intelligenza politica è la Rivoluzione francese. Lontanissimi dallo scorgere nel principio dello Stato la sorgente dei mali sociali, gli eroi della Rivoluzione francese scorgono al contrario in essi la fonte degli inconvenienti politici. Cosi Robespierre vede nella grande povertà e nella grande ricchezza solo un impedimento alla pura democrazia. Egli desidera perciò stabilire una generale frugalità spartana. Principio della politica è la volontà; quanto più l'intelligenza politica è unilaterale, quanto più è perfetta, tanto più crede nell'onnipotenza della volontà, tanto più è cieca di fronte ai limiti naturali e intellettuali del volere, tanto più inabile è quindi a scoprire la fonte dei mali sociali. Non occorre una trattazione più particolareggiata per demolire la stupida speranza del «Prussiano» secondo la quale l'intelligenza politica è chiamata a «scoprire la radice dei bisogni sociali in Germania». Fu stolido attribuire al re di Prussia non solo un potere quale non possedettero uniti la Convenzione e Napoleone: fu stolido attribuirgli un modo di vedere che oltrepassa i confini di tutta la politica, un modo di vedere al cui possesso l'intelligente «Prussiano» stesso non è più vicino del suo re. L'intera dichiarazione riesce tanto più stolida in quanto il «Prussiano» ci confessa: «Le buone parole e i buoni propositi sono a buon mercato, la comprensione e i provvedimenti efficaci costano cari; in questo caso essi sono più che cari, addirittura introvabili» [Il Ruge continua: «In questa sprovveduta condizione, tanto arretrata rispetto a Francia e Inghilterra, la Germania è stata colta di sorpresa dai moti proletari di Slesia e di Boemia; in questa condizione si sorprenderà anche per una nuova carestia nelle montagne di Sassonia, e difficilmente la questione del proletariato, quando tornerà a presentarsi, lo farà a Berlino o in qualche altra grande città». Segue col passo citato dal Marx alla pagina seguente.]. Se essi sono introvabili, si riconosca almeno il merito di chi dalla sua posizione tenta il possibile. Del resto giudichi il lettore se in questa occasione il linguaggio mercantile, zingaresco, di «a buon prezzo», «caro», «più che caro», «introvabile», sia da annoverarsi nella categoria delle buone parole e dei buoni propositi.

Ammettiamo dunque che le opinioni del «Prussiano» sul governo tedesco e sulla borghesia (quest'ultima è ben compresa nella «società tedesca»), siano perfettamente fondate. Questa parte della società è più dissennata in Germania che in Inghilterra e in Francia? Si può essere più dissennati che, per esempio, in Inghilterra, dove si è ridotta la mancanza di senno a sistema? Se oggi in tutta l'Inghilterra scoppiano sollevazioni operaie, la borghesia e il governo di colà non sono più assennati che nell'ultimo trentennio del secolo XVIII. Il loro unico senno è la forza materiale, e poiché questa diminuisce in ragione dell'aumento del pauperismo e dell'intelligenza del proletariato, la dissennatezza inglese cresce necessariamente in proporzione geometrica. Inoltre è falso, sostanzialmente falso, che la borghesia tedesca disconosca totalmente la portata generale della ribellione di Slesia. In più città i maestri d'opera tentano' di allearsi con i garzoni. Tutti i giornali tedeschi liberali, gli organi della borghesia liberale, traboccano di organizzazione del lavoro, di riforma della società, di critica del monopolio e della concorrenza, ecc. Tutto ciò in conseguenza dei moti dei lavoratori. I giornali di Treviri, Aquisgrana, Colonia, Wesel, Mannheim, Breslavia, e persino di Berlino, riportano di frequente per intero intelligenti articoli sociali, da cui il «Prussiano» avrebbe sempre qualcosa da imparare. In corrispondenze dalla Germania si esprime continuamente il più vivo stupore circa la minima resistenza della borghesia contro tendenze e idee sociali. Il «Prussiano», se gli fosse più familiare la storia del movimento sociale, avrebbe posto inversamente il suo problema. Perché perfino la borghesia tedesca mette le necessità particolari su un piano tanto universale? Donde provengono l'animosità e il cinismo della borghesia politica, e la remissività e le simpatie di quella impolitica nei confronti del proletariato?

(«Avanti!», 10 agosto 1844, n. 64).

Parliamo ora degli oracoli del «Prussiano» sui lavoratori tedeschi. «I Tedeschi poveri», dice egli spiritosamente, «non sono più intelligenti dei poveri tedeschi, vale a dire non vedono nulla più in là del loro focolare, della loro fabbrica, del loro distretto; l'intera questione fino ad oggi è ancora trascurata dall'anima politica che tutto penetra»», Per poter paragonare le condizioni dei lavoratori tedeschi con quelle dei lavoratori francesi e inglesi, il «Prussiano» doveva paragonare il primo configurarsi del movimento dei lavoratori francesi e inglesi con quello tedesco, che è solo ora ai suoi inizi. Ma egli trascura di farlo. Il suo ragionamento sfocia perciò in banalità come questa: che l'industria in Germania non è ancora sviluppata quanto in Inghilterra, o che un movimento al suo inizio si mostra diverso che non nel suo corso. Voleva parlare delle particolarità del movimento operaio tedesco, e non dice parola alcuna su questo suo tema. Il «Prussiano» si metta dal punto di vista giusto. Troverà che nessuna sommossa di lavoratori inglesi o francesi ebbe un carattere cosi dottrinale e cosciente come quella dei lavoratori della Slesia. Si rammenti anzitutto del canto dei tessitori, di quel temerario segnale di lotta, in cui non si accenna mai al focolare, alla fabbrica, al distretto, e in cui per contro il proletariato proclama la sua opposizione alla società della proprietà privata in modo clamoroso, chiaro, ardito, potente». La rivolta di Slesia parte appunto con quell'elemento cui fanno capo quelle francesi e inglesi, cioè la consapevolezza dell'essenza del proletariato. L'azione stessa ha in sé questo carattere meditato. Non solo le macchine, queste rivali dei lavoratori, vengono distrutte, ma anche i libri commerciali, i titoli delle proprietà private: e mentre tutti gli altri movimenti erano diretti anzitutto contro gl'industriali, il nemico visibile, questo movimento si volge contro il banchiere, il nemico occulto. Infine, nessuna sommossa di lavoratori fu condotta con egual valore, riflessione e perseveranza. Per quanto concerne lo Stato e la capacità di educazione del lavoratore tedesco in generale, ricordo i geniali scritti di Weitling, che per quanto riguarda la teoria spesso sopravanzano lo stesso Proudhon, sebbene ne rimangano distanziati quanto all'elaborazione. Dove la borghesia, i suoi filosofi e scrittori compresi, potrebbe vantare un'opera pari alle Garanzie dell'armonia e della libertà del Weitling [Le Garantien der Harmonie und Freiheit di W. Weitling (180871) erano state pubblicate men che due anni prima, nel dicembre 1842], rispetto all'emancipazione politica della borghesia? Se si paragona la mediocrità scipita e fioca della letteratura politica tedesca con questo grande e brillante debutto letterario dei lavoratori tedeschi, se si paragona questa gigantesca scarpa infantile del proletariato con la piccolezza della consunta scarpa politica della borghesia tedesca, si deve anche antivedere l'aspetto atletico della Cenerentola tedesca. Si deve riconoscere che il proletariato tedesco è il teorico del proletariato europeo, come quello inglese ne è l'economista, e quello francese il politico. Bisogna riconoscere che la Germania possiede una classica vocazione alla rivoluzione sociale, quanto è invece inabile a quella politica. Giacché, come l'impotenza della borghesia tedesca è l'impotenza politica della Germania, cosi la tendenza del proletariato tedesco — pur prescindendo dalla teoria tedesca — è la tendenza sociale della Germania. La sproporzione fra lo sviluppo filosofico e quello politico in Germania non è un'anomalia. Essa è una sproporzione necessaria. Soltanto nel socialismo un popolo filosofico può trovare la sua prassi connaturale, e quindi solo nel proletariato può trovare l'elemento attivo della sua liberazione.

Ma in questo momento non ho tempo né voglia di chiarire al «Prussiano» i rapporti della società tedesca con i rivolgimenti sociali, e su questi rapporti spiegare da una parte la debole reazione della borghesia tedesca contro il socialismo, e dall'altra la spiccata inclinazione del proletariato tedesco al socialismo. Egli può trovare i primi elementi per la comprensione di questo fenomeno nella mia Introduzione alla critica della Filosofia del Diritto di Hegel («Annali francotedeschi»)». L'intelligenza dei Tedeschi poveri è quindi inversamente proporzionale a quella dei poveri tedeschi. Però la gente cui ogni argomento deve servire come pubblico esercizio di stile, attraverso questa attività formale s'imbatte in un contenuto sbagliato, mentre a sua volta il contenuto sbagliato imprime alla forma il sigillo della banalità. Così il tentativo del «Prussiano» di procedere per antitesi in un'occasione come quella del tumulto dei lavoratori di Slesia, lo ha condotto alla maggiore antitesi contro la verità. L'unico compito di una mente raziocinante e amante del vero, in occasione del primo scoppio della rivolta dei lavoratori della Slesia, non consisteva nel recitare la parte del precettore, bensì molto più nello studiarne il carattere particolare. Per questo occorre senza dubbio una certa visione scientifica e un certo amore per l'umanità, mentre per le altre operazioni basta ampiamente una facile fraseologia, intinta in un vuoto egoismo.

Perché il «Prussiano» giudica i lavoratori tedeschi con tanto disprezzo? Perché «ancora fino ad oggi» trova «l'intera questione», cioè il problema delle necessità dei lavoratori, «trascurata dall'anima politica che tutto penetra». Egli spinge ancora oltre il suo platonico amore per l'anima politica: «Soffocheranno nel sangue e nell'incomprensione tutte le rivolte che prorompono in questo disperato isolamento degli uomini dalla cosa pubblica e delle loro opinioni dai principi sociali; ma quando i bisogni generino la comprensione, e la comprensione politica dei Tedeschi scopra le radici dei bisogni della società, allora anche in Germania questi avvenimenti verranno sentiti come sintomi di un grande sconvolgimento» '. Il «Prussiano» ci permetta anzitutto un'osservazione stilistica: la sua antitesi è imperfetta. Nella prima metà dice: «i bisogni generino la comprensione», e nella seconda metà: «la comprensione politica scopra le radici dei bisogni della società». La semplice «comprensione», nella prima parte dell'antitesi, diviene nella seconda «comprensione politica», e il semplice «bisogno» diviene «bisogno della società». Perché lo stilista ha dotato cosi differentemente le due metà dell'antitesi? Io non credo che non si sia reso conto di ciò. Gli voglio chiarire il suo vero movente. Se il «Prussiano» avesse scritto: «i bisogni della società generino la comprensione politica e la comprensione politica scopra le radici dei bisogni della società», a nessun lettore imparziale sarebbe potuta sfuggire l'assurdità di questa antitesi. Anzitutto ciascuno si sarebbe domandato: perché l'anonimo non pone la comprensione della società per i bisogni della società, e la comprensione politica per i bisogni politici, come esige la logica più elementare? Torniamo ora in argomento.

Che i bisogni della società generino la comprensione politica è tanto falso, che al contrario è il benessere della società a generare la comprensione politica. La comprensione politica è un idealismo, e sarà data a colui che già possiede, che già nuota comodamente negli agi. Il nostro «Prussiano» senta al riguardo un economista francese, Michel Chevalier: «Nell'anno 1789, quando la borghesia si sollevò, le mancò, per essere libera, soltanto la compartecipazione al governo del paese. La liberazione consistette per essa in ciò: nel sottrarre la direzione degli affari pubblici, le alte cariche civili, militari e religiose, dalle mani dei privilegiati che ne possedevano il monopolio. Una volta ricca e istruita e in grado di bastare a se stessa e di dirigersi da sé, volle sottrarsi al regime du bon plaisir» [Traduzione libera dall'opera Des intéréts matériels de la France (6" ediz., Paris, 1843, p. 2) dell'economista francese M. Chevalier (180679), già seguace delle dottrine sansimoniane. Il regime du bon plaisir è l'assolutismo monarchico]. Abbiamo già dimostrato al «Prussiano» come la comprensione politica sia incapace di scoprire la fonte dei bisogni sociali. Ancora due parole su questa sua opinione. Quanto più matura e diffusa è la comprensione politica di un popolo, tanto più il proletariato —per lo meno al principio del movimento — spreca le sue forze in rivolte dissennate, inutili e soffocate nel sangue. Poiché esso pensa in forma politica, scorge il fondamento di tutti gli inconvenienti nella volontà, e tutti i mezzi per rimediarvi nella violenza e nel rovesciamento di una data forma di governo. Dimostrazione: i primi tumulti del proletariato francese. I lavoratori di Lione pensavano di perseguire soltanto scopi politici, di essere soltanto soldati della repubblica, mentre erano in verità soldati del socialismo. Cosi la loro mentalità politica nascose loro le radici dei bisogni della società, falsò la percezione dei loro veri scopi: cosi tradì il loro istinto sociale. Se però il «Prussiano» attende che dal bisogno si generi la comprensione, perché mette in un fascio il «soffocare nel sangue» con il «soffocare nell'incomprensione»? Se il bisogno generalmente è un mezzo, il bisogno sanguinante è un mezzo un po' drastico per generare la comprensione. Il «Prussiano» doveva dunque dire: «il soffocare nel sangue soffocherà l'incomprensione e darà alla comprensione la direzione giusta». Il «Prussiano» profetizza la soffocazione delle rivolte, che «prorompono nel disperato isolamento degli uomini dalla cosa pubblica, e nell'allontanamento delle loro idee dai principi sociali». Abbiamo dimostrato che la rivolta di Slesia non avvenne già per l'allontanamento delle opinioni dai principi sociali. Abbiamo ancora a che fare con «il disperato isolamento degli uomini dalla cosa pubblica». Per cosa pubblica è da intendere qui quella politica, lo Stato. È questa la vecchia canzone della impolitica Germania.

Ma non prorompono forse tutte le ribellioni, senza eccezione, dal disperato isolamento degli uomini dalla cosa pubblica? Forse non presuppone ciascuna sommossa, di necessità, l'isolamento? Sarebbe forse avvenuta la Rivoluzione dell'89 senza il disperato isolamento della borghesia francese dalla cosa pubblica? La Rivoluzione era destinata appunto a porre fine a questo isolamento. Ma la cosa pubblica, da cui il lavoratore è isolato, è un fatto di ben altra realtà e estensione che non sia la cosa politica. Questa cosa pubblica, da cui lo separa il suo stesso lavoro, è la vita stessa, la vita fìsica e spirituale, l'umana moralità, l'umana attività, l'umano godimento, l'umanità insomma. Questa realtà umana è la vera cosa pubblica degli uomini. Come il disperato isolamento da questa realtà umana è senza confronto più universale, pili insopportabile, più terribile, più contraddittorio dell'isolamento dagli affari politici, cosi pure il tentativo anche parziale di annullare questo isolamento è una rivolta contro di esso, e tanto più universale quanto l'uomo è più universale del cittadino, e la vita umana più di quella politica. L'insurrezione operaia, per quanto limitata, racchiude uno spirito universale; l'insurrezione politica, per quanto universale, cela sotto l'aspetto più grandioso uno spirito angusto.

Il «Prussiano» chiude degnamente la sua trattazione con la seguente frase: «Una rivoluzione sociale senza anima politica (cioè senza visione organizzativa dal punto di vista generale) è impossibile» [II Ruge continua: «In questo l'Inghilterra e la Francia avranno senza dubbio l'iniziativa, anche se il re di Prussia è tutto intento a nuovi programmi e a vaste riforme». Cosi termina l'articolo]. Si è visto. Una rivoluzione sociale si trova su un piano generale per questo: che, anche se ha luogo in un solo distretto industriale, è una protesta dell'uomo contro la vita inumana, poiché proviene dall'individuo singolo e reale, poiché la cosa pubblica che, separata da lui, impegna l'individuo a reagire, è la vera cosa pubblica dell'uomo, la realtà umana. L'anima politica d'una rivoluzione consiste invece nella tendenza delle classi destituite d'influenza politica ad annullare questo isolamento dagli affari dello Stato e dal governo. Il loro piano è quello dello Stato, di una generalità astratta, che sussiste soltanto separato dalla vera vita, che è impensabile senza l'antitesi organizzata tra l'idea generale e la individuale esistenza degli uomini. Una rivoluzione con anima politica — in conformità alla sua natura limitata e discorde — organizza perciò una sfera dominante nella società a spese della società stessa. Noi vogliamo confidare al «Prussiano» che cos'è una rivoluzione sociale con anima politica; vogliamo con ciò affidargli al tempo stesso un segreto: che cioè egli stesso nelle sue elocuzioni non riesce mai a sollevarsi dal ristretto punto di vista politico. Una «rivoluzione sociale con anima politica» è un'assurdità completa, se il «Prussiano» per rivoluzione sociale non intende una rivoluzione sociale contrapposta a una rivoluzione politica, e ciò non di meno assegna alla rivoluzione sociale un'anima politica, invece di una sociale; ovvero «rivoluzione sociale con un'anima politica» non è che una parafrasi di ciò che un tempo si chiamava «rivoluzione politica» o «rivoluzione» senz'altro. Ogni rivoluzione sovverte la società precedente; per questo è sociale. Ogni rivoluzione abbatte le vecchie forme di governo: per questo è politica. Il «Prussiano» scelga tra la parafrasi e l'assurdità!

Cosi, quanto parafrastica o assurda è una rivoluzione sociale con anima politica, altrettanto è logica invece una rivoluzione politica con anima sociale. La rivoluzione in generale — la caduta della forma di governo esistente, e il sovvertimento dei vecchi rapporti — è un atto politico. Ma senza rivoluzione il socialismo non si può affermare. Esso ha bisogno di questo atto politico, tanto quanto ha bisogno della caduta e del sovvertimento delle vecchie forme. Ma dove ha inizio la sua attività organizzativa, dove comincia a perseguire il suo fine e nasce la sua anima, là il socialismo si libera dal suo involucro politico.

Tanta minuziosità era necessaria per lacerare il tessuto di errori che si nascondono in un'unica colonna di giornale. Non tutti i lettori potrebbero avere la capacità e il tempo di rendersi conto di tale ciarlataneria letteraria. Di fronte al pubblico che legge, l'anonimo «Prussiano» non ha dunque il dovere di rinunciare per il momento a tutti gli scritti in materia politica e sociale, come alle declamazioni sulle condizioni della Germania, e di cominciar piuttosto con una coscienziosa autocritica delle sue proprie condizioni?