Il problema del plusvalore


1.

Riporto qui alcuni articoli recenti che tentano di aggiornare, sostanzialmente convalidandola, la teoria del plusvalore.

Apprezzo molto l'impegno teorico degli autori, ma, per quanto mi riguarda, forse anche in rapporto a competenze economiche che ritengo elevate ma non specialistiche, rimango fermo alle conclusioni cui è giunto Claudio Napoleoni ne Il pensiero economico del Novecento. Autore di dichiarata fede marxista, ma intellettualmente onesto, egli ha riconosciuto che, nella forma originaria in cui è stata formulata, la teoria del plusvalore è poco o punto sostenibile ed è stata invalidata definitivamente da P. Sraffa nella sua "scientificità ".

Nella parte finale del libro, sia pure in forma sfumata, egli fa presente che il destino del marxismo non dipende più dalla teoria del plusvalore, che conserva una validità parziale, bensì da un approfondimento dei temi dello sfruttamento e dell'alienazione che, in qualche misura, la "contengono". Nelle letture marxiane, mi sono attenuto a questo insegnamento.

2.

Guglielmo Carchedi

Il problema inesistente: la trasformazione dei valori in prezzi in parole semplici

E' da quando uscì postumo il terzo volume del Capitale di Carlo Marx che economisti di varie scuole hanno scoperto e riscoperto una 'contraddizione' nell'economia marxista che ne invaliderebbe le fondamenta. Si tratta del cosiddetto problema della trasformazione dei valori in prezzi. Lo scopo di questa breve nota è duplice. Primo, fare uno schema dell'essenza del cosiddetto problema per i 'non-addetti ai lavori', vale a dire in termini comprensibili a tutti. Secondo, dimostrare che il problema, se c'è, è solo nelle menti confuse dei critici di Marx. Premetto che quanto segue è solo ciò che è strettamente necessario per capire il dibattito sulla trasformazione.

Che cos'è dunque la trasformazione? Nella teoria di Marx, il valore di una merce è dato dal valore dei mezzi di produzione, chiamati capitale costante, dal valore della forza lavoro, chiamato capitale variabile, e dal plusvalore creato dai lavoratori. Se V è il valore della merce, c quello del capitale costante, v quello del capitale variabile e s è plusvalore, il valore di una merce è V = c+v+s. Consideriamo adesso due settori rappresentati dalle merci che essi producono, e chiamiamoli V1 e V2. Ciascuno di essi ha bisogno del suo c e del suo v e produce il suo s.

In tal caso

V1 = c1+v1+s1

V2 = c2+v2+s2.

Diamo adesso dei valori a questa notazione astratta. Per esempio, se i valori del capitale investito sono espressi in percentuali (cosicché il totale del capitale costante più quello variabile è uguale a 100)

Settore 1: V1 = 80+20+20 = 120

Settore 2: V2 = 60+40+40 = 140

In questo schema, il settore 1 impiega capitale costante per un valore di 80 e capitale variabile per un valore di 20. Si presuppone che il plusvalore prodotto sia uguale al valore della forza lavoro (il capitale variabile). Questo implica un tasso di plusvalore (il rapporto tra plusvalore e capitale variabile) uguale a 20/20 = 100%. La stessa ipotesi è fatta per il plusvalore prodotto nel settore 2 in cui il valore del capitale costante è 60 e quello del capitale variabile è 40. Quindi il plusvalore prodotto è di 40.

Fino a qui abbiamo supposto che in ciascuno dei due settori vi sia solo un produttore. Supponiamo adesso che in ciascuno di questi settori vi siano più produttori (tutti i produttori nello stesso settore impiegano la stessa percentuale di c e v e in entrambi i settori il tasso di plusvalore è del 100%). Introduciamo la nozione di tasso di profitto. Quando un'impresa vende i suoi prodotti, ricava un certo plusvalore che, diviso per la somma del capitale investito (c+v), dà il tasso di profitto. Supponiamo che la domanda sia distribuita in modo tale che ciascun settore realizzi il plusvalore in esso prodotto. In tal caso il settore 1 ha un tasso di profitto uguale a 20/100 = 20% e il settore 2 di 40/100=40%. Ora, se le imprese nel settore 1 ricavano un tasso di profitto inferiore a quelle nel settore 2, vi sarà una tendenza a disinvestire nel primo settore e a investire nel secondo. La produzione e quindi l'offerta nel settore 1 diminuisce e quella nel settore 2 aumenta. Se la distribuzione della domanda (cioè del potere d'acquisto) tra i due settori è invariata, i prezzi aumentano nel settore 1 e cadono nel settore 2. Lo stesso vale per i tassi di profitto: il tasso nel settore 1 cresce al di sopra del 20% e quello nel settore 2 cade al di sotto del 40%. Cioè vi è una tendenziale perequazione dei tassi di profitto verso (20+40)/(80+20+60+40)= 60/200 = 30%. [1]

Tuttavia, una distribuzione della domanda tale che ciascun settore realizzi esattamente il plusvalore in esso prodotto è puramente accidentale. In realtà , la distribuzione della domanda e quindi i prezzi dei due settori saranno diversi da quelli appena ipotizzati. Come prima ipotesi di lavoro supponiamo che essi siano tali che i due settori realizzano il tasso medio di profitto del 30% (conseguentemente, non vi è movimento di capitali). In tal caso, ciascun impresa del settore 1 venderà i suoi prodotti per 130 e lo stesso vale per le imprese del settore 2. Ossia, i lavoratori di ciascun impresa nel settore 1 producono un plusvalore di 20 ma quell'impresa ricava un plusvalore uguale a 30 mentre i lavoratori di ciascun'impresa nel settore 2 producono un plusvalore di 40 ma tale impresa ricava un plusvalore di 30. Vendendo a tali prezzi, ciascun'impresa nel settore 1 si appropria di un plusvalore aggiuntivo di 10 e ciascun'impresa del settore 2 perde un plusvalore di 10. La trasformazione dei valori in prezzi è tutta qui: è una redistribuzione del plusvalore totale prodotto tale che i settori a basso tasso di profitto vendono ad un prezzo che assicura il tasso medio di profitto (30%) e i settori ad alto tasso di profitto vendono ad un prezzo che riduce il loro tasso alla media. Si noti che la media è solo un esempio. Ogni altro valore entro 120 e 140 andrebbe ugualmente bene. Il vantaggio di ipotizzare la media è che ci permette di astrarre dai movimenti di capitale e quindi di focalizzare la nostra attenzione sull'appropriazione di valore attraverso il sistema dei prezzi. La trasformazione quindi non è nient'altro che la teoria della formazione dei prezzi in Marx che a sua volta non è nient'altro che la differenza tra valore prodotto e appropriato. Niente di trascendentale.

Tra parentesi, l'appropriazione di valore dovuta ad una struttura di domanda ed offerta tale che ciascun settore realizza o di più o di meno del plusvalore prodotto (l'ipotesi di cui sopra) è chiamata 'scambio diseguale' (una nozione da non confondersi con quella di Emmanuel). Questa nozione è importante non tanto perché spiega l'appropriazione di valore nelle condizioni sopra ipotizzate quanto perché (1) ci permette di focalizzare l'attenzione sull'essenza della trasformazione dei valori nei prezzi e perché (2) tale spiegazione è il punto iniziale che ci permette di rivelare l'appropriazione di valore in seguito alle innovazioni tecnologiche e a prezzi costanti nei settori innovativi (la causa ultima delle crisi economiche). Ma quest'argomento non può essere trattato qui. Ritorniamo alla trasformazione.

Introduciamo ora la dimensione temporale. A ciascuna produzione segue la distribuzione (vendita) e il consumo dei beni prodotti. La economia è quindi un susseguirsi di periodi che iniziano con l' acquisto dei beni necessari (gli inputs), che prosegue con la loro trasformazione (produzione), e che finisce con la vendita e consumo del prodotto (output). Chiamiamo t1 il momento iniziale (acquisto degli inputs) del primo periodo e t2 quello finale (vendita e consumo degli outputs). Al momento t1 le imprese del settore 1 comprano mezzi di produzione per 80 e forza lavoro per 20. A t2 vendono un prodotto per 130. In maniera simile, a t1 le imprese del settore 2 comprano mezzi di produzione per 60 e forza lavoro per 40 e a t2 ricavano 130. A t2, i capitalisti del settore 1 consumano 30 e accantonano 100 per ricominciare un nuovo periodo. Lo stesso vale per i capitalisti del settore 2. Il nuovo ciclo incomincia a t2 (se si suppone, per semplificare le cose, che la data della fine del primo ciclo coincide con quella dell'inizio del secondo ciclo) e finisce a t3. E cioè a t2 ciascun'impresa compra gli inputs per un totale di 100 e a t3 vende gli outputs per 130. E così via. Questo è il cosiddetto schema di riproduzione semplice (in cui il plusvalore è completamente consumato dai capitalisti invece di essere parzialmente reinvestito in addizionale c+v, come nella riproduzione allargata).

Questo schema dell'attività economica è estremamente semplificato ma contiene in nuce tutti gli elementi per essere esteso a situazioni sempre più complesse. Le sue potenzialità per capire il capitalismo dal punto di vista del proletariato sono immense, ed è proprio per questo che è stato attaccato e continua d essere attaccato dalla 'scienza' economica la cui matrice ideologica è esattamente l'opposta di quella di Marx. Vediamo in che consiste tale critica. Consideriamo l'esempio di cui sopra

Settore 1:

valore prodotto=80+20+20=120 Valore realizzato=130

Settore 2:

valore prodotto=60+40+40=140 Valore realizzato=130

Supponiamo ora che i due settori rappresentino l'economia di un paese (l'introduzione di più settori renderebbe tale esempio più realistico ma due settori sono sufficienti per capire la questione). La critica verte sui seguenti tre punti. Primo, c'è la domanda su cui molti si sono spremuti le meningi: che cos'è il valore e come si misura? La risposta per Marx è molto semplice. Il valore è lavoro umano eseguito entro relazioni economiche capitalistiche, cioè eseguito da coloro che non sono i proprietari dei mezzi di produzione per i proprietari di tali mezzi. Molto dovrebbe essere aggiunto, ma questa è l'essenza. Quindi il valore ha sia un aspetto naturalistico (e in questo senso il lavoro è la sostanza del valore) sia un aspetto socialmente determinato. Bene, dicono i critici, ma per Marx il lavoro semplice conta meno di quello complesso e il lavoro più intenso conta più di quello meno intenso.

Questa tesi è stata criticata, come al solito, semplicemente perché non è stata capita. Consideriamo prima il valore prodotto dal lavoro semplice e da quello complesso. La forza lavoro del lavoratore non-qualificato, (per esempio, lo spazzino) richiede meno tempo per essere prodotta, per esempio un più basso livello di scolarità , di quella del lavoratore qualificato (per esempio, l'ingegnere). Se alla società creare un ingegnere costa un multiplo del tempo necessario per creare uno spazzino, ogni volta che un ingegnere è creato è come se venissero creati diversi spazzini (diversi spazzini non potrebbero fare il lavoro dell'ingegnere ma ciò è irrilevante, dato che è l'aspetto quantitativo e non quello qualitativo che conta in questo contesto). Quindi, ogni volta che un ingegnere lavora per un'ora è come se lavorassero diversi spazzini per un'ora. àˆ per questo che il lavoro della forza lavoro qualificata (lavoro complesso) conta come un multiplo del lavoro della forza lavoro non-qualificata (lavoro semplice). Per quanto riguarda l'intensità del lavoro, uno spazzino (e lo stesso vale per l'ingegnere) che lavora ad una intensità doppia di quella di un altro produce un valore uguale a quello di due spazzini più 'pigri'. Infatti, ci vorrebbero due di questi ultimi per produrre quello che produce lo spazzino più alacre. Questo è la tesi di Marx.

Pur ammettendo che tale tesi sia giusta, dicono i critici, siccome noi non possiamo osservare tipi diversi di lavoro, il concetto di valore non può essere empirico e diventa metafisico. Questa è una sciocchezza bella e buona. Che i diversi tipi di lavoro non siano osservabili è solo ed unicamente una conseguenza di un sistema di rilevazioni statistiche che (non a caso) non si presta a tale tipo di osservazioni. Date le risorse ad un gruppo di ricercatori e loro vi produrranno un sistema di rilevazione del lavoro adatto a misurare il valore prodotto da ciascun lavoratore (si veda il volume curato da A.Freeman e G.Carchedi, Marx and Non-Equilibrium Economics, Edward Elgar, 1996, capitolo 7).

La seconda critica è chiamata pomposamente la 'regressione ad infinitum', un nome tale da incutere timore. E cioè, dicono i critici (tra cui penne illustri, come Joan Robinson), per calcolare il valore del prodotto di un certo periodo, bisogna sapere il valore degli inputs, per esempio dei suoi mezzi di produzione. Ma questi sono stati a loro volta outputs del periodo precedente. Quindi per calcolare il loro valore dobbiamo fare un ulteriore passo indietro nel tempo, e così via presumibilmente fino alle origini della vita. Questa è una sciocchezza ancora maggiore. Come ho argomentato più volte, questo criterio renderebbe impossibile qualsiasi tipo di scienza e di conoscenza (compresa la storia). Ogni tipo di scienza deve prendere un certo punto di partenza come dato. Per esempio, per capire le origini del capitalismo devo prendere il feudalesimo come un dato punto di partenza. Se, per capire il capitalismo, penso che sia necessario indagare anche sulle origini del feudalesimo, allora devo prendere l'epoca precedente come data. Ma alla fine dovrò fermarmi e prendere un certo punto come dato. Similmente, uno psichiatra che indaghi sui problemi del suo paziente può pensare che sia necessario esaminare la psiche dei suoi genitori. Eventualmente potrebbe fare un passo indietro nell'albero genealogico del paziente ma alla fine si dovrà fermare. Per tornare a noi, per calcolare il valore di un prodotto devo prendere quello dei suoi inputs come dati. Anche se volessi fare ulteriori passi indietro, ad un certo punto dovrò pure prendere gli inputs di un certo periodo come dati. àˆ incredibile ma vero: è con questo tipo di balbettio metodologico che un gigante come Marx viene attaccato.

La terza ed ultima critica richiede un certo impegno per essere seguita. Supponiamo che il settore 1 produca beni di investimento (macchine, ecc.) e che il settore 2 produca beni di consumo (vestiti, cibo, ecc.). Questo è il modello più semplice di un'economia. Consideriamo il settore 1. Esso vende i mezzi di produzione da esso prodotti per un valore di 130, sia al suo interno che al settore 2. Ora, dicono i critici con l'aria di chi ha avuto une grande pensata, anche un bambino sa che lo stesso prodotto è comprato dal compratore per un certo prezzo e venduto dal venditore allo stesso prezzo. Nell'esempio precedente, 130 è il valore a cui sono venduti i mezzi di produzione ad entrambi i settori ed ovviamente dovrebbe essere il valore pagato dai compratori. Però i mezzi di produzione sono comprati dai capitalisti nel settore 1 per un valore di 80 e nel settore 2 per un valore di 60. Il totale è 140. Voilà , ecco la prova definitiva dell'incoerenza del pensiero di Marx. I capitalisti comprano i mezzi di produzione per 140 ma li vendono per 130. Il prezzo ricevuto dal venditore non è lo stesso del prezzo pagato dal compratore. àˆ questa l'essenza della critica della circolarità , la critica maggiormente diffusa ed accettata della teoria marxista della trasformazione dei valori in prezzi. Fu originariamente proposta da Bà¶hm-Bawerk, ripetuta, con una 'soluzione' che accettava la validità della critica, da von Bortkiewicz, e, ahimè, accettata e diffusa nei circoli marxisti dall'influente economista marxista Paul Sweezy nel secondo dopoguerra. Dopo di loro, intere biblioteche sono state scritte su questo 'problema' come se il problema esistesse veramente e numerose soluzioni sono state trovate ad un problema che non esiste. Ma le cose stanno diversamente e per ben due motivi.

Primo, la discrepanza (tra 130 e 140) è dovuta al fatto che negli esempi di cui sopra (e per estensione in tutte le discussioni sulla trasformazione) il capitale costante e quello variabile sono espressi in percentuali piuttosto che nei loro valori assoluti (vedi sopra). Questi valori percentuali sono stati implicitamente considerati dai critici come valori assoluti e quindi sono stati fatti contare come una unità di capitale investito per settore. Ma se si ipotizzano diverse unità di capitale investito nei vari settori, il problema sparisce. Vediamo perché.

Consideriamo il periodo t1-t2. Se entrambi i settori hanno comprato mezzi di produzione a t1 per 60+80=140 è ovviamente perché tali mezzi di produzione erano allora disponibili a quei prezzi (indagare sulla formazione di questi prezzi significherebbe accettare la validità della regressione ad infinitum). Se, durante il periodo t1-t2, il settore 1 produce mezzi di produzione che vende a t2 solo per 130 vuol dire (1) o che la produzione è calata (e con essa è anche calato il potere d'acquisto, la domanda, per tale offerta) cosicché a t2 (come inizio del periodo t2-t3) i mezzi di produzione che possono essere comprati avranno un prezzo di 130 (2) o che nel settore 1 operavano più di una unità di capitale e quindi la quantità di capitale investito e i mezzi di produzione prodotti sono tali per cui il prezzo totale dei mezzi di produzione è 140. Ciò non può essere visto perché l'esempio considera implicitamente solo una unità di capitale investito invece di mostrare il capitale effettivamente investito, cioè l'esempio mostra le percentuali invece dei valori assoluti. La critica non comprende l'ipotesi su cui si basa la teoria marxista della trasformazione.

Per di più, anche se si considerano valori percentuali, cioè solo una unità di valore investito per settore, per ciascun esempio in cui c'è una 'discrepanza' come sopra, un altro esempio può essere fatto in cui tale 'discrepanza' non esiste. Nell'esempio di cui sopra basta ipotizzare che il settore 1 investe 73.3c e 26.7v per ottenere i seguenti risultati

Settore 1 73.3c+26.7v+26.7s = 126.7

Settore 2 60.0c+40.0v+40.0s = 140.0

133.3c+66.7v+66.7s = 266.7

Dopo la perequazione del tasso di profitto (66.7/200=0.33), ciascun settore realizza un valore pari a 133.3. Quindi il settore 1 vende i mezzi di produzione a 133.3 e entrambi i settori li comprano a 73.3+60.0=133. [1].

Secondo, abbiamo visto che non vi è 'discrepanza' tra i valori dei mezzi di produzione comprati e venduti. Vediamo ora perché i critici hanno potuto pensare che vi fosse tale discrepanza, cioè perché il metodo di Marx sia presumibilmente affetto da circolarità . La ragione è che la critica si basa su un madornale errore logico. Consideriamo il primo periodo, t1-t2. A t1 le imprese di entrambi i settori comprano mezzi di produzione per 80+60=140. Con tali mezzi di produzione nuovi mezzi di produzione vengono prodotti dalle imprese del settore 1 che li vendono (sia all'interno del loro stesso settore che al loro esterno, al settore 2) per 130. Cioè, indipendentemente dai valori a cui sono comprati e venduti, i mezzi di produzione comprati a t1 (che servono per il periodo t1-t2) non sono gli stessi di quelli venduti a t2 (che servono per il periodo t2-t3). Tuttavia, la supposta circolarità nel metodo di Marx si basa sull'assurda ipotesi che i mezzi di produzione comprati a t1 sono gli stessi di quelli venduti a t2. Ciò è evidente se si considera l'affermazione su cui si basa la critica della circolarità secondo cui nel metodo marxiano gli stessi mezzi di produzione sono venduti ad un prezzo e comprati ad un altro prezzo (vedi sopra).

In altre parole, la critica sarebbe valida se i mezzi di produzione prodotti dal settore 1 nel periodo t1-t2 (quindi venduti da tale settore per 130 al momento t2) fossero comprati da entrambi i settori non al momento t2 ma al momento t1 (quindi per 140). In questo caso essi sarebbero contemporaneamente venduti per 130 ma comprati per 1403. Ma questo significa sovrapporre i due momenti t1 e t2, significa cioè abolire il tempo. Questa è la contro-critica che rivela la vacuità del cosiddetto problema della circolarità nella trasformazione dei valori in prezzi. Tale contro-critica, da quando è stata formulata negli anni 80 (si veda G. Carchedi, The Logic of Prices and Values, Economy and Society, Vol.13, No.4, 1984 e G. Carchedi, Frontiers of Political Economy, Verso, London, 1991, ch. 3) ad oggi non è mai stata ribattuta. Si continua a parlare del 'problema' della trasformazione e a trovare delle 'soluzioni' la cui assurdità metodologica è direttamente proporzionale al poderoso arsenale matematico impiegato.

Concludendo, ridotta alla sua essenza, la questione è semplice. In una concezione in cui il tempo non esiste, la teoria di Marx è incoerente. Ma in una teoria in cui il tempo esiste è la critica a Marx che è incoerente. Ciascuno faccia la sua scelta.

[1] N.d.R.: come già annotato in precedenza, la critica al simultaneismo non dipende dall'esempio numerico scelto ma è valida qualsiasi siano i valori di riferimento adottati

 

Alan Freeman

Valore e Marx: perché sono importanti

Cinque anni fa fu pubblicato un libro, redatto da me e da Guglielmo Carchedi. In questo libro spiegai quello che pensavo fosse per Marx il lettore 'ingenuo'. "A tale lettore, forse un idealista, scontento dell'oppressione e ingiustizia, desideroso di cambiare il mondo e per questa ragione di capirlo", Marx dice, in breve: ci sono persone che hanno proprietà e persone che non ce l'hanno. Le seconde creano la ricchezza senza la quale le prime non esisterebbero. I ricchi mantengono questa ingiustizia con la oppressione, la falsità , la corruzione e la forza. Essi lottano per il bottino, affliggendo il mondo con mali e sofferenze. Ma l'oggetto del loro desiderio (i creatori di ricchezza) sfugge periodicamente ai loro controlli, provocando disastri sia per i colpevoli che per gli innocenti con indifferenza o tragica o comica. Tuttavia, tale processo dà a coloro che creano ricchezza l'opportunità di rovesciare questo ordine di cose e fondarne uno migliore, se si organizzano consapevolmente a tal fine.

L'opinione che comunemente ci si fa della teoria economica di Marx, includendo l'opinione della stragrande maggioranza degli economisti Marxisti, è che tale visione ingenua non possa essere vera. Gli autori nel nostro libro dimostrarono invece che può essere vera. Noi dichiarammo senza mezzi termini: "Gli stessi sostenitori di Marx hanno annunciato il fallimento del suo progetto," quello di "rivelare la leggi del movimento economico della società moderna".

Questa comune ma sbagliata opinione ha avuto un impatto incalcolabile su come Marx è percepito dal non-specialista, dal militante, dall'uomo di parte o soltanto dal lettore disinteressato e onesto delle sue opere. L'opinione comune fra gli intellettuali è che, qualunque siano i meriti teorici di Marx nel campo delle scienze politiche e sociali, le sue teorie economiche sono sbagliate. I contributi in questo libro dimostrano che queste accuse sono manifestamente e profondamente false. Non solo le accuse di incoerenza sono infondate, ma non è necessario 'rivedere' o 'correggere' Marx per dimostrare ciò. Da questo punto di vista, il nostro libro differisce dagli altri tentativi di difendere la teoria di Marx dai suoi critici che cercano di cambiare o 'correggere' la sua teoria. Nessuno degli autori sostiene che Marx è immune da errori o che un ulteriore sviluppo del suo pensiero dovrebbe essere evitato; ma Marx non commise gli errori dei quale è stato accusato.

La debolezza decisiva della recente discussione sul valore, come finora condotta nelle riviste italiane, è che, tranne alcune eccezioni, non avendo fatto riferimento a questo dibattito, non è riuscita a presentare il punto di vista di Marx. Si sta vivendo nel passato; si sta ripetendo e rimaneggiando un dibattito che è vecchio di venti anni senza tenere in considerazione i progressi che sono stati fatti in questi venti anni e che radicalmente ribaltano le idee che Sraffa, Coletti e Napoleoni diedero per scontate.

La nostra opinione è chiara: quello che la ricerca moderna ha dimostrato è che la teoria di Marx non è sbagliata. Non c'è incoerenza logica. La sua spiegazione della trasformazione è del tutto internamente coerente, la sua legge della tendenza della caduta tendenziale del saggio di profitto è, in termini del concetto di valore che noi abbiamo mostrato essere il suo, senza alcun errore logico. I cosiddetti 'errori' di Marx non sorgono dalla sua teoria, ma da un'interpretazione specifica e erronea di quella teoria. Tale interpretazione ebbe la sua origine in von Bortkiewicz, fu introdotta al mondo Occidentale da Sweezy, e fu resa matematicamente rigorosa da Seton, da Morishima e infine da Sraffa. Questa teoria soffre di un difetto fatale: non è quella di Marx.

Naturalmente, come in ogni discussione scientifica, noi non asseriamo questo senza prova. Gli articoli che apparvero nel nostro libro, e gli articoli che noi stiamo proponendo per un dibattito in questa rivista, presentano il nostro punto di vista che è già disponibile in inglese in un numero crescente di pubblicazioni. Tale punto di vista è già a disposizione degli interessati in italiano negli scritti di pionieri di questa interpretazione, come Paolo Giussani e lo stesso Guglielmo Carchedi. Purtroppo, è stato grandemente (e scandalosamente) ignorato da troppi partecipanti a questa discussione.

Noi non chiediamo che i partecipanti al dibattito accettino i nostri argomenti, che sono chiaramente estremamente controversi, senza esaminarli o discuterli. Noi chiediamo che essi riconoscano che questo punto di vista esiste. Nella misura in cui essi non lo fanno, è nostra opinione che il dibattito non può essere considerato scientifico e che il risultato di tale dibattito è che non è riuscito a presentare al pubblico italiano gli argomenti di Marx adeguatamente. Lo scopo di questa breve introduzione è quello di spiegare perché, secondo me, tutto ciò sia importante.

Prima di tutto, quale è la sostanza della questione? Cavallaro, secondo me, la identifica correttamente. 'In terzo luogo', scrive sulla opinione tradizionale del concetto di valore di Marx, 'scontando la diversità di composizione organica del capitale nei diversi settori della produzione, si deve determinare il saggio di profitto come rapporto tra il plusvalore totale e la somma del capitale costante e capitale variabile, e, una volta dato quest'ultimo, provvedere a rettificare i prezzi dell'output... agli input si debbono applicare gli stessi prezzi dell'output; prezzi relativi e saggio di profitto vengono ora determinati simultaneamente a la Sraffa.'

Il problema è chiaro: Marx non ha mai determinato i prezzi o i valori in tal modo e non è concepibile che lo avesse potuto fare. La supposizione che i prezzi degli inputs e degli outputs dovessero essere uguali (altrimenti noto come, e matematicamente identico a, l'assunzione di equilibrio economico) fu imposta solamente da scrittori posteriori. Bortkiewicz stesso, che introdusse questa asserzione, non l'attribuì a Marx, presentandola invece come una correzione necessaria di Marx al fine di renderla coerente con la teoria di Walras, il fondatore della moderna teoria economica neoclassica. Come Gattei (1982) testimonia, la prima lettera di Bortkiewicz a Walras il 9 Novembre 1887 finisce con le parole seguenti: 'I suoi scritti, signore, hanno risvegliato in me un interesse vivace nella applicazione della matematica alla economia politica, e mi hanno indicato la strada da prendere nella mia ricerca sulla metodologia della scienza economica.' Di Marx, Bortkiewicz scrisse inoltre:

"Alfredo Marshall disse una volta di Ricardo: 'Egli non afferma chiaramente, e in alcuni casi forse non si rese conto pienamente e chiaramente come, nel problema di valore normale, i vari elementi si governino reciprocamente l'un con l'altro, e non successivamente, in una lunga catena di cause". Questa descrizione vale ancora di più per Marx... [che] fu fermamente dell'opinione che gli elementi di cui si tratta debbono essere considerati come una specie di catena causale nella quale ciascun collegamento è determinato, nella sua composizione e la sua dimensione, solamente dai collegamenti precedenti... Le teorie economiche moderne stanno incominciando gradualmente a liberarsi dal pregiudizio succesivista, e il merito principale è dovuto alla scuola matematica di Léon Walras."

Bortkiewicz aveva chiara in mente una questione che successivamente fu offuscata: la sua intenzione non era quella di interpretare le idee di Marx ma di cambiarle. Egli voleva rimpiazzare il concetto di Marx del non-equilibrio con un concetto di equilibrio Walrasiano. Tuttavia l'idea che si è imposta nelle interpretazioni moderne, a cominciare da Paul Sweezy che dichiarò che il quadro teorico di Marx è quello dell'Equilibrio Generale, è che questo concetto dell'equilibrio del valore è quello di Marx. Questa è l'origine di tutte le confusioni che circondano i suoi supposti errori.

àˆ nostra opinione che tutti tali errori, e tutte tali incoerenze, non sorgano da Marx ma dal tentativo di interpretare Marx come se fosse un economista dell'equilibrio economico. Il "nodo Gordiano" deve essere tagliato. àˆ ora di smetterla di interpretare Marx - il cronista più ardente del fallimento del capitalismo qualsiasi sia il raggiunto equilibrio - come l'esponente di una teoria il cui punto iniziale è quello di supporre l'opposto di questo ovvio stato delle cose.

Se ciò è fatto, le inconsistenze svaniscono e la via è aperta ad una ricerca completamente nuova: invece di indagare su ciò che è sbagliato in Marx, finalmente possiamo incominciare a indagare su ciò che è giusto in Marx. Ovviamente, la sua teoria non è empiricamente giusta per il semplice fatto che essa è logicamente coerente. Il compito della investigazione scientifica è quello di indagare su questo punto attraverso un confronto fra la teoria e i fatti empirici. Il punto è che se questa indagine non fosse colpita da ostracismo, Marx non potrebbe più essere escluso dalla ricerca scientifica; la 'preistoria' della teoria economica Marxista potrebbero finire e Marx potrebbe essere accettato come un teorico legittimo le cui idee costituiscono una alternativa perfettamente valida alle idee dogmatiche e fondamentaliste che costituiscono l'ortodossia odierna.

Tuttavia ciò non accade. Perfino i Marxisti, dibattendo seriamente la concezione accademica degli ' errori' di Marx e di cosa possa essere salvato di essa, ignorano gli argomenti e l'evidenza empirica che ci condurrebbero a considerare almeno la possibilità che Marx non commise nessuno di tali errori. Perché? Questo è ciò a cui dedicherò il resto di questa breve introduzione.

Recentemente fui invitato a Roma dalla Facoltà di Scienze Statistiche dell'Università La Sapienza. La statistica è sempre stata uno dei miei interessi principali ed è la materia di cui sono responsabile al governo di Londra. Ovviamente la responsabilità dei pareri che esprimo qui, e questo vale per tutta questa introduzione, è solo mia e non del governo di Londra né di qualsiasi dei suoi dipartimenti.

Mi concentro su un punto che gli studiosi di statistica prendono molto seriamente: l'importanza dei concetti analitici. Collegherò questo punto al ruolo, nel pensiero economico, dell'ipotesi dell'equilibrio. Consideriamo prima di tutto la questione dei concetti. Carchedi ha affermato altrove che il requisito più importante, ma assente, nell'analisi politico-economica è la struttura concettuale che è usata per abbordare tale analisi. Questa è un'idea controversa, dato che l'economia positiva suppone che la sua struttura concettuale è 'data'; non si trova nei suoi scritti nessuna nozione che questa struttura deve essere interpretata criticamente, una volta affermata. àˆ semplicemente una nozione comune nella scienza economica.

Generalmente, non si capisce o non si riconosce che un cambiamento nella struttura analitica conduce a un cambiamento nelle conclusioni. Soprattutto, il mio argomento è che tale cambiamento conduce a un cambiamento nelle nostre spiegazioni causali di ciò che osserviamo. In altre parole, se si adotta un insieme diverso di concetti, si ottiene una teoria diversa.

Consideriamo il concetto economico più ovvio, quello di output produttivo. Per esempio, l'output della Turchia è cresciuto negli ultimi dieci anni? E in quale rapporto è con la crescita di quello degli Stati Uniti? Se lo si misura in denaro, è indubbiamente cresciuto più velocemente. Nel 1991 era di 638 miliardi di Lire turche e nel 1999 di 838 mila miliardi, una crescita del 1290%. Se lo si misura in dollari, tuttavia, è cresciuto da $125 miliardi a $153 miliardi, una crescita del 22%. Così abbiamo una prova semplice che il prodotto nominale è un concetto inadeguato di produzione perché non ben definito; esso dipende dalla valuta usata. Questa prova sorge senza qualsiasi bisogno di una riflessione concettuale circa la natura dell'inflazione, sorge dalla presentazione stessa dei dati, dalle statistiche che otteniamo dagli studiosi di statistica.

àˆ quindi chiaro che, dietro le molte diverse misurazioni nominali della produzione, ci deve essere qualche cosa di più definitivo, più stabile. Gli economisti hanno perciò sviluppato la nozione di 'produzione reale', accettando con ciò l'idea talvolta considerata eretica che l'essenza è diversa dalla sostanza. Il concetto di 'produzione reale' è un tentativo di esprimere l'idea che dietro al prezzo vi è qualche cosa altro che è indipendente dal prezzo, e che noi possiamo concepirlo come una certa quantità di produzione, come una dimensione fisica.

Tuttavia, anche questo è sbagliato. Di nuovo, la dimostrazione può essere fatta senza ricorso a riflessioni concettuali, considerando i dati stessi. Se per esempio si misura la produzione della Turchia in 'dollari reali' si scopre che è cresciuta del 2.3% negli ultimi dieci anni. Ma se la si misura in 'Lire reali' è cresciuta del 31%. E c'è anche un argomento forte in favore della misurazione della produzione della Turchia in Euro reali, il che condurrebbe di nuovo ad un altro dato. Così, di nuovo, qual'è la misura della produzione 'veramente reale'?

Quando pongo questi problemi ai miei colleghi economisti, una reazione comune è quella che si tratta di un problema di misurazione. Si presume che vi sia una unico e coerente concetto di 'output' e l'unica difficoltà sia quella di ottenerne una buona stima.

Questo però non regge. Il prezzo di una pizza non è solo un modo diverso per misurare la sua dimensione; esso esprime una proprietà diversa della pizza. Ugualmente, il valore 'reale' in dollari della produzione turca esprime qualche cosa di diverso del suo valore 'reale' in Lire, esprime in un certo senso il potere d'acquisto della produzione turca sul mercato mondiale, in contrapposizione al mercato nazionale. Queste non sono misure diverse dello stesso concetto ma sono un'unica misura di due concetti diversi, e entrambi a loro volta differiscono da un terzo concetto, il prezzo nominale di questa produzione. Tuttavia, la teoria economica procede felicemente come se vi fosse una, e solamente una, cosa, 'la produzione reale' che può, contro tutta l'evidenza statistica, essere quantificata in una sola maniera, così che le leggi della dinamica economica possono essere espresse unicamente in questi termini.

Inoltre questo non è un problema puramente quantitativo; ha conseguenze qualitative. Se ci venisse chiesto 'la Turchia è cresciuta più velocemente degli Stati Uniti negli ultimi dieci anni?' noi risponderemmo 'si' se usassimo un concetto di produzione, e 'no' se ne usassimo un altro.

Il punto più importante è che tutto ciò conduce a spiegazioni causali diverse, ovvero, a teorie diverse. Se uno desidera spiegare perché o se l'economia della Turchia è cresciuta, è ragionevole indagare sul collegamento causale tra crescita e investimento. Ma in questo caso, in che termini dovrebbe essere espresso questo collegamento causale? Cerchiamo di spiegare l'alto tasso di crescita della Turchia in Lire reali, o il suo più basso tasso di crescita in dollari reali? E che cosa intendiamo per 'investimenti'? Intendiamo investimenti in dollari, investimenti in dollari reali, investimenti in Lire reali, investimenti a costo storico, a costo corrente? Qual'è lo stock di capitale? della Turchia, in confronto alle giacenze degli Stati Uniti? Studiosi di statistica disputano su ciò continuamente; gli economisti formulano teoremi apparentemente rigorosi nei quale il problema è trattato come se non esistesse.

La teoria economica comunemente accettata sostiene che il capitale è uno dei due fattori centrali della produzione. Tuttavia, se esaminiamo questa semplice idea (che è quotidianamente incorporata in centinaia di modelli econometrici ed è il perno della moderna teoria della crescita economica), ci rendiamo conto che conduce a conclusioni che, se esaminate più da vicino, dipendono criticamente da come sono concepiti i dati immessi in questi modelli. Lo stesso concetto di 'capitale' è molto più problematico di quanto non appaia a prima vista.

Inoltre, la maggior parte di questi modelli econometrici incorporano una costruzione teorica nota come la funzione della produzione. Nella funzione della produzione troviamo il lavoro oltre al capitale. Si presume che il lavoro e il capitale possano essere sostituiti a vicenda. Ma ciò presuppone che hanno qualche cosa in comune, e questo qualche cosa deve essere quantificabile. àˆ un passo ovvio (ed è in verità un obiettivo degli economisti nel misurare tali concetti come ' produttività multifattoriale') quello di tentare di esprimere entrami gli inputs nelle stesse unità , non fossaltro che per avere un'idea del loro impatto relativo.

Abbiamo visto che vi sono grandi difficoltà nell'esprimere la nozione di capitale unicamente in termini della sua 'dimensione reale. Questi problemi crescono, piuttosto che diminuire, se tentiamo di misurare il lavoro nello stesso quadro teorico, in termini del costo di acquisto.

Ma il lavoro ha una misura sua propria che non è soggetta alle stesse difficoltà del capitale: il tempo. Il tempo è una caratteristica universale, perfettamente quantificabile, di ogni processo produttivo (con insignificanti, relativistiche, differenze tra il tempo di una persona e quello di un altra). Nulla potrebbe essere più vicino dell'ideale ricardiano di una misura invariante. Perché, allora, non esprimere il capitale in termini della misura naturale del lavoro? Questa sembra essere un'ovvia linea di ricerca anche in termini della teoria neoclassica.

Una disciplina che si rifiuta di investigare una possibilità teorica non può essere considerata scientifica, dato che non considera una possibile spiegazione. Per comportarsi come una scienza dovrebbe esaminare tutte le spiegazioni possibili e confrontarle con l'osservazione empirica. La mancata investigazione di una fondata possibilità teorica indebolisce considerevolmente la pretesa dell'economia di essere una scienza e in particolare di essere una scienza 'positiva'.

Ciononostante, l'economia neoclassica rigetta questa linea di indagine, al punto, con rare eccezioni, di rifiutare perfino di insegnarla, di pubblicarla, di dare agli studenti della materia economica accesso a essa e, in molte occasioni, di dare lavoro a coloro che la accettano. Una esclusione così sistematica equivale ad una forma di censura ed è paragonabile in un certo senso al livello di esclusione della Chiesa nei confronti dell'eresia Copernicana.

Quali motivi adduce la teoria economica per non perseguire una ovvia linea di ricerca? Quando la domanda è posta, ci si trova di fronte a due argomenti. Il primo è spesso che la misurazione del prodotto in termini di tempo di lavoro è superata o screditata.

Ma che cosa ha a che fare la verità di una teoria con la sua età ? La teoria di Galileo dell'universo fu inventata nel 250 prima di Cristo da Aristarco di Samos, che fu chiamato al tempo di Copernico' il 'Copernico' greco. La sua teoria era sbagliata perché aveva 1800 anni? Nella teoria della luce, teorie atomistiche e le teorie dell'onda si avvicendano con qualche regolarità e secondo la teoria moderna la luce deve essere concepita come una combinazione di entrambe le teorie. Sarebbe stato davvero un fisico imprudente colui che all'inizio di questo secolo e alla vigilia della moderna teoria dei quanti avesse abbandonato la teoria delle particelle, vecchia di 200 anni, perché 'superata'.

Se la teoria economica, nella sua forma moderna, fosse in grado di spiegare adeguatamente tutti i fenomeni che noi osserviamo, potrebbe essere giustificabile abbandonare le teorie per motivi di età . Ma come tutti sanno, e come è ammesso dagli stessi economisti, la teoria economica non spiega né predice gli eventi più elementari, come la attuale recessione. Si dice scherzosamente che gli economisti prevedono il passato perfettamente. Ma gli esperti più di buon senso non si azzardano nemmeno ad indovinare quanto profonda o lunga sarà la recessione attuale, e i fatti hanno dimostrato che la maggior parte di coloro che si sono azzardati a fare tali previsioni hanno sbagliato.

E infine quegli stessi economisti che scartano le teorie basate sul tempo di lavoro per motivi di età non hanno nessun problema con teorie più vecchie e empiricamente molto più problematiche come quella dei vantaggi comparati, o quella della mano invisibile.

Passiamo ora al secondo argomento, cioè che il concetto di produzione e del capitale in termini di tempo di lavoro è stata screditata. Come abbiamo visto, questo argomento è logicamente erroneo, perché dipende dall'idea che per fare tale misurazione si deve usare l'approccio dell'equilibrio di Sraffa. Ma come gli articoli che appaiono in questo rivista dimostrano, e come altri già pubblicati provano, se si fa la misurazione che usa l'approccio del non-equilibrio di Marx, si arriva a risultati completamente coerenti.

Allora, che cosa è stato veramente dimostrato da tutti questi studi? Di fatto, la seguente asserzione: che se si definisce il valore di un prodotto presupponendo che il suo valore non cambia durante il corso della produzione, si incontrano contraddizioni insolubili. Inoltre, si trova che la quantità della produzione, così definita, è identica, a parte un numéraire (un coefficiente universale) a una quantità data completamente dal consumo fisico e dalla produzione di prodotti. Su questa base, si sostiene che la misurazione della produzione in termini di tempo di lavoro è screditata e ridondante.

Bene. Un scienziato concluderebbe come segue:

1 o che non è possibile misurare la produzione in termini di tempo di lavoro (ciò sarebbe soltanto un riformulazione ridondante della produzione in termini di valore d'uso, ovvero, del prodotto fisico o 'reale');

2 o che non è possibile concettualizzare adeguatamente la produzione in termini di tempo di lavoro scrivendo una serie di equazioni simultanee che presuppongono che l'economia si riproduce perfettamente, e che il prezzo e i valori rimangano costanti durante produzione.

Prima facie, la prima idea manca di credibilità . Dopo tutto, chiunque sa che un'ora di tempo di lavoro produce molto di più, o molto di meno, a seconda della tecnologia usata. Sarebbe quindi piuttosto strano se risultasse che il numero di ore di lavoro in un prodotto fosse sempre proporzionale alla dimensione del prodotto. Un studioso di statistica che si imbattesse in un tale risultato tornerebbe sui suoi passi e controllerebbe i suoi dati, perché i fatti stessi dimostrano che la teoria non può essere vera. Prima facie, la conclusione più ovvia è che questo metodo per determinare la produzione col tempo di lavoro è un metodo sbagliato, che non fa quello che pretende di fare.

Una quantità crescente di studi, largamente ignorati dall'attuale dibattito italiano, ha provato questo punto, e ha investigato invece la seconda, trascurata, linea di ricerca che conduce a una determinazione diversa e coerente della dimensione della produzione in termini di tempo di lavoro usando l'interpretazione che è diventata nota come il Sistema Singolo Temporale (SST). Sebbene ci sono molti motivi di cautela, studi statistici incominciando a suggerire che questa determinazione offre, o conferma, spiegazioni causali molto diverse e trascurate di alcuni dei più importanti fenomeni delle economie moderne.

In particolare, e concluderò su questo punto, il metodo usato dagli studi sopramenzionati suggerisce che le fasi prolungate di contrazione a livello mondiale del tasso di crescita della produzione (comunque misurato), come quello che stiamo attraversando, può essere spiegato come una conseguenza dello stesso processo di crescita, come un limite che l'accumulazione pone a se stessa. Tale metodo suggerisce che la crisi, e il fallimento del mercato, non sono un risultato di una interferenza esterna nel mercato, o una conseguenza di una regolamentazione insufficiente del mercato, ma sono il risultato del funzionamento del mercato stesso.

Secondo me, il fatto stesso che questa linea di ricerca è stata rigettata e anzi soppressa, è l'evidenza storica più chiara che l'economia non è una scienza. Questo comportamento non corrisponde a quello che dovrebbe essere la scienza, il libero scontro di posizioni, spiegazioni contrastanti della realtà empirica. Non corrisponde alla pratica delle altre scienze, per quanto imperfette.

La risposta, secondo me, va cercata nei meccanismi secondo i quali questa disciplina è organizzata e finanziata. L'economia influenza più di qualsiasi altra scienza sociale le scelte di politica economica e le leve di comando che azionano quei meccanismi che indirizzano il mercato mondiale; prima di tutto il Fondo Monetario Internazionale, l'Organizzazione Mondiale per il Commercio, le tesorerie delle grandi potenze e così via.

Gramsci disse una volta che il progresso sorge da un'alleanza tra quelli che pensano perché soffrono e quelli che soffrono perché pensano. Sfortunatamente molti di coloro che sono pagati per pensare finiscono per tentare di provare che nessun altro ha il diritto di fare lo stesso. Secondo me, questa è la funzione del paradigma dell'equilibrio; deve convincere quelli che pensano perché soffrono che non c'è alcuna possibilità di porre fine alla loro sofferenza. Questo è perché, se uno adotta il paradigma dell'equilibrio, la possibilità che la nostra realtà possa cambiare è stata definitivamente tolta dal modo in cui è permesso pensare.

Una delle grandi falsità che sorgono dal paradigma dell'equilibrio, cioè dalla la struttura teorica e concettuale dell'equilibrio, è questa: non c'è nulla da fare. La grande 'macchina della globalizzazione' è il risultato di un meccanismo automatico che non può essere fermato, una parte dell'ordine naturale delle cose tanto inattaccabile, e inaccessibile, quanto il grande Ordine Divino dell'universo medioevale che Galileo e Copernico riportarono sulla terra e di cui i comuni mortali poterono divenire parte.

Tuttavia, il mondo reale, e il mercato reale, come Mazzetti ha indicato altrove, non è in equilibrio, non si riproduce perfettamente, cambia continuamente i suoi prezzi, non riesce continuamente a vendere i suoi prodotti. La possibilità della crisi è sempre immanente in tale sistema. Se si teorizza le variabile chiave di questo sistema (produzione, investimenti, capitale) in termini di tempo di lavoro, si trova una spiegazione del fatto che questa possibilità non è soltanto latente, ma di fatto si manifesta nel mondo in recessioni periodiche, fasi lunghe di declino con turbolenze politiche e alta disoccupazione e, di grande importanza, la costante e secolare polarizzazione del mondo in un gruppo piccolo di nazioni ricche e uno molto più grande di nazioni povere.

La teoria dell'equilibrio elimina la possibilità della crisi. La ragione decisiva, secondo me, del perché la teoria dell'equilibrio è preferita alla teoria del non-equilibrio in pressoché ogni ramo della teoria economica, è che nel quadro teorico dell'equilibrio è di fatto impossibile formulare una teoria della crisi. Invece, la crisi è sempre vista come il risultato di fattori esogeni; del cattivo governo, della cattiva politica monetaria, della politica tecnologica, del sistema di regolamentazione, dei sindacati, dei comunisti, dei terroristi, degli sceicchi del petrolio - di qualsiasi cosa, di fatto, tranne che del sistema stesso.

Eppur si muove. Il sistema produce le crisi. Stiamo attraversando quello che io penso sia la 28esima recessione periodica del capitalismo e la sua quarta onda lunga di declino di accumulazione. Tali eventi si sono manifestati con la regolarità delle comete, con ogni combinazione concepibile di politiche monetarie, di regimi di regolamentazione, di governo politico. Attribuire eventi così regolari, la cui forma è ripetuta più o meno in ciascun caso distinto, a cause storiche e effimere o transitorie mi sembra essere del tutto non scientifico. Chiaramente queste cause esterne interagiscono con, e hanno un impatto profondo sul corso di, queste crisi ma penso che noi dobbiamo considerare almeno la possibilità che il loro determinante ultimo sia il mercato stesso, e questa è l'idea che è intollerabile e inaccettabile da coloro il cui potere e la cui ricchezza derivano da questo mercato.

Perché è inaccettabile? Perché, se è chiaro che il sistema produce le sue proprie crisi, la prospettiva cambia. Quello che veramente accade è questo: il sistema del mercato, e soprattutto il mercato dei capitali, pone i suoi propri limiti a se stesso. Il problema è concepito capovolto perfino da parte degli oppositori più incisivi della globalizzazione, perché in effetti essi accettano il punto di vista teorico che la globalizzazione è un processo automatico e naturale, e limitano i loro obiettivi (decisamente nel caso della Tobin Tax) a 'gettare un granello di sabbia nel meccanismo'. Non ho nulla contro il gettare sabbia nel meccanismo se ciò migliora la condizione umana, ma il problema è secondo me molto più serio, perché l'intero veicolo esce periodicamente di strada con o senza la sabbia. In questo caso, il problema è completamente diverso: scappare con le minime perdite di vita. Il punto non è quello di fermarlo o di farlo avanzare; questo è un falso dibattito. Il problema è cosa fare riguardo ai terribili risultati che si verificano quando il veicolo si ferma da solo.

Che fare? àˆ precisamente in momenti di crisi che la coscienza umana diviene un fattore. In una macchina veloce su un rettilineo autostradale, il conducente deve stare attento solamente all'acceleratore e perfino questo è automatico nelle macchine americane. Ma se la macchina incomincia a virare, il conducente deve guidare. In questo caso anche piccole azioni contano, e quello che diviene importante non è quanto uno sia grande ma quanto uno conosce. Gli architetti della globalizzazione devono usare una teoria che oscura quello che sta succedendo. Le vittime della globalizzazione hanno bisogno di una teoria che renda chiaro quello che sta succedendo; questo è ciò che la nuova ricerca offre.

Andrew Kliman

Se è corretto, non correggetelo

1. Da Seattle a Genova... [1]

Da Seattle a Genova, un movimento nuovo ha investito con forza la globalizzazione. L'internazionalismo del movimento, il rifiuto di forme elitarie di organizzazione, e i tentativi di unire lavoratori e ambientalisti (e altre forze) sono del tutto esemplari, come lo è l'opposizione esplicita di una sezione crescente del movimento contro lo stesso "capitalismo globale".

Se questo movimento nuovo potrà imparare dagli errori passati della Sinistra, potrà evitare di ripeterli. Uno errore chiave, credo, è la tendenza di prendere particolari forme e istituzioni del capitalismo--proprietà privata, il mercato, società per azioni, e dominazione imperialista, il Fondo Monetario Internazionale ecc.--per il capitalismo stesso. Lottare solamente contro specifiche forme istituzionali equivale a permettere al capitalismo di riemergere sotto forme nuove, come la proprietà statale e/o un'economia pianificata. Un altro errore è quello di supporre che la radice dei nostri problemi sia l'avidità o il mal volere dei capi delle istituzioni capitaliste piuttosto che le leggi economiche oggettive a cui anche loro sono sottoposti. Qualche cosa di più fondamentale deve essere sostituito che non riguarda solo le persone in carica.

Quello che penso che debba essere sostituito è la produzione del valore. Il capitalismo ha ristrutturato la produzione e in verità tutta la vita attorno all'incessante necessità di produrre e accumulare sempre più valore come fine a se stesso. La storia ha mostrato, credo, che questo processo non può essere soggiogato e pianificato maneggiando le sue forme istituzionali. Ogni impresa capitalista e ogni nazione devono fare tutto ciò che possono per espandere il valore al massimo se non vogliono soccombere nella lotta competitiva. Le istituzioni capitaliste e i loro leader devono fare del loro meglio per espandere al massimo il valore se non vogliono essere sostituiti da istituzioni e leader che sapranno meglio comportarsi in tal modo.

Così il movimento contro il capitalismo globale farebbe bene a lottare non solo le battaglie concrete e immediate, che sono certamente necessarie e importanti, ma anche la battaglia contro la produzione del valore stessa. E farebbe bene a considerare lavori come il Capitale di Marx che analizza il processo di produzione del valore e indica l'alternativa--una società nella quale la meta è "lo sviluppo dei potenziali umani come un fine in se stesso" (Marx 1981:959)----e lavori come Dunayevskaya (1967), Marxismo e Libertà , che aiuta a concretizzare e a sviluppare questa prospettiva umanista alla luce di eventi più recenti.

Ma il resto di questo articolo non riguarda tutto ciò, almeno non direttamente. Riguarda un paio di ostacoli che stanno impedendo ai militanti e ai pensatori di potere ritornare seriamente al concetto di valore come è stato sviluppato in lavori come il Capitale e Marxismo e Libertà .

Un ostacolo è l'idea che la teoria del valore di Marx è contraddittoria e addirittura sbagliata. Un altro è l'ipotizzare che gli economisti moderni (sia marxisti che sraffiani) hanno realizzato le versioni corrette della teoria del valore di Marx--fondamentalmente la stessa teoria ma senza tutti i suoi errori e contraddizioni--così che, sebbene un ritorno diretto a Marx non sia possibile, si può ritornare a Marx attraverso questi eredi del suo progetto. Spero di dimostrare che entrambe tali idee sono false.

2. Le "Contraddizioni Interne" di Marx

Economisti marxisti e anti-marxisti non saranno d'accordo su molto, ma pressoché tutti sono d'accordo sul fatto che le teorie di Marx del valore, profitto, e crisi economiche sono state dimostrate essere impregnate da contraddizioni. In altre parole, molte delle sue conclusioni teoriche più importanti sarebbero state dimostrate essere non valide. Sarebbe perciò impossibile accettare le teorie di Marx nella loro forma originale.

Pressoché tutti gli economisti marxisti sono anche d'accordo con gli anti-marxisti che la analisi di Marx della produzione capitalista non merita neanche di essere discussa o insegnata come una teoria viva. Se la sua analisi sarebbe internamente contraddittoria, non avrebbe senso, e così non potrebbe essere giusta--anche se i fatti possono sembrare sostenere Marx e i suoi argomenti potrebbero sembrare convincenti. Le presunte prove delle contraddizioni interne servono così come una giustificazione potente per l'esclusione quasi totale della critica marxiana della economia politica, nella sua forma originale, sia dagli istituti di insegnamento che dalle pubblicazioni.

C'è, comunque, una differenza significativa fra i critici di Marx. Gli anti-marxisti usano le prove presunte delle contraddizioni interne per sostenere che le teorie di Marx dovrebbero essere rifiutate. I marxisti e gli sraffiani (seguaci di Piero Sraffa, 1960), d'altra parte, si considerano gli eredi del progetto di Marx piuttosto che i suoi critici. In uno modo o nell' altro, tutti si vantano di aver "corretto" i suoi errori-cioè, di arrivare in pratica alle stesse conclusioni a cui arrivò Marx, ma in un modo logicamente accettabile. Per esempio, Riccardo Bellofiore (1997:2) scrive " il mio punto di partenza è che il progetto di Marx non si può difendere come è, e che le contraddizioni sulle quale i critici hanno insistito sono veramente lì, nel Capitale. [Tuttavia] il "nocciolo" della sua critica della economia politica... può essere stabilito su una base teoretica più solida”.

Similmente, Mongiovi (2001:3), uno dei principali sraffiani americani,, scrive che "gli errori di Marx sono, alla fin fine, minori; infatti essi possono essere eliminati attraverso una revisione della forma nella quale la sua teoria del valore e distribuzione è presentata, senza minare nessuna delle sue asserzioni fondamentali su come il capitalismo funziona e su come si sviluppa storicamente”.

3. Le "Correzioni" di Marx

Intendo dimostrare che queste asserzioni sono false. Le versioni cosiddette corrette della teoria di Marx non riportano i suoi risultati teorici su una base più solida. Al contrario, esse minano le sue tesi fondamentali circa il funzionamento e lo sviluppo del capitalismo. Esiste una grande varietà di proposte di correzione, ma tutte negano molti dei risultati teorici di Marx, includendo alcuni dei più importanti.

Il più importante di tutti i risultati marxiani negati è "la legge della caduta tendenziale del saggio di profitto". Questa legge è al centro della sua tesi che le crisi economiche sono inevitabili nel capitalismo. Marx argomentò che la natura stessa del capitalismo costringe le imprese a cercare profitti sempre maggiori, e così ad adottare innovazioni più produttive e 'labour saving'. Ma sebbene le imprese considerate individualmente possano elevare così i loro saggi di profitto, Marx sostenne, che tali innovazioni tenderanno necessariamente ad abbassare il saggio di profitto medio, cioè il saggio di profitto per la economia nella sua totalità .

Tratterò più tardi gli argomenti che supportano questa conclusione. Qui, il punto è che tutte le "correzioni" di Marx (includendo quelle preferite da Bellofiore e Mongiovi) portano alla conclusione che la sua legge è falsa; secondo tali 'correzioni' le innovazioni tecnologiche che aumentano la produttività aumentano, e non abbassano, necessariamente il saggio di profitto medio. Così la versione di Bellofiore del" nucleo fondamentale della sua critica dell'economia politica," e la versione di Mongiovi delle "sue tesi di base riguardanti il funzionamento del capitalismo e il suo sviluppo nel corso della storia" rifiutano proprio quella legge che Marx (1973:748) considerò essere "in ogni rispetto la legge più importante dell'economia politica e moderna."

Un altro risultato importante di Marx, che è negato da tutte le cosiddette correzioni, è la sua teoria che il profitto viene dal "lavoro non retribuito" (anche chiamato "pluslavoro") dei lavoratori. Marx riconobbe che l'ammontare di profitto che un'impresa realizza differisce dal "plusvalore," l'equivalente monetario del lavoro non retribuito estratto dai lavoratori. Tuttavia ribadì chiaramente che le differenze si annullano a vicenda. Se l'economia è presa nel suo insieme, il profitto totale equivale al plusvalore totale e corrispondentemente il prezzo totale (il totale ricevuto dai capitalisti tramite la vendita dei loro beni) equivale al valore totale prodotto dal lavoro.

La maggior parte delle "correzioni" di Marx sostengono che egli aveva torto anche su questo punto. Una volta che i suoi "errori" sono corretti, le due uguaglianze non possono essere valide allo stesso tempo. Questo è il famoso "problema della trasformazione," il cosiddetto problema inerente alla "trasformazione" di valori in prezzi e del plusvalore in profitti. Tale 'problema' è di nuovo al centro dell'attenzione nella rinnovata discussione sulla teoria del valore nella Sinistra italiana (si veda l'articolo di Guglielmo Carchedi in questo numero).

àˆ una sfortuna che il dibattito si sia focalizzato così strettamente solo su questo punto, perché "risolvere il problema della trasformazione"--ottenendo le uguaglianze di Marx--non ha il significato che si pensa che abbia. Alcune recenti "corrette" versioni della teoria di Marx ottengono entrambe uguaglianze. Tuttavia, come dimostrerò più sotto, anche queste "correzioni" non riescono a confermare l'asserzione di Marx che il pluslavoro di lavoratori è la sola fonte di profitto. Tutte delle "correzioni" implicano che il profitto potrebbe essere positivo anche se i lavoratori non erogassero pluslavoro, e che il profitto potrebbe essere negativo anche se lavoratori erogassero pluslavoro.

4. Confutazioni delle critiche

Ci sono anche molti altri esempi, alcuni dei quali saranno discussi più avanti, in cui le cosiddette correzioni non riescono a ristabilire i risultati di Marx su una base teoretica più solida. Tuttavia, e se la base teoretica di Marx fosse dopotutto solida? E se, in altre parole, le prove delle cosiddette contraddizioni in Marx fossero esse stesse erronee?

Questa non è fantasia, ma un fatto. Durante le due decadi passate, un piccolo ma crescente numero di ricercatori, associato con quello che ora è chiamata l'interpretazione temporale del sistema unico (d'ora in avanti, TSSI), ha confutato tutte le cosiddette prove delle contraddizioni nella dimensione quantitativa della teoria del valore di Marx. Quelle che sembrarono essere conclusioni indifendibili--la legge della caduta del saggio di profitto, la nozione che tutto il profitto viene da lavoro non retribuito, ecc.--riemergono come logicamente aderenti a questa interpretazione (si veda Freeman e Carchedi, 1996).

Il TSSI rimane relativamente poco noto, e impopolare. Tuttavia, anche i suoi critici hanno cominciato recentemente ad ammettere, anche se a malavoglia, che il TSSI è stato in grado di confutare le prove dichiarate delle contraddizioni interne in Marx. [2] Queste confutazioni hanno delle conseguenze importanti:

• "il progetto di Marx" può veramente "essere difeso come è". Le sue teorie, che siano giuste o sbagliate, possono essere interpretate come logicamente coerenti.

• Nella misura in cui le revisioni fatte dai marxisti e dagli sraffiani alle teorie di Marx contraddicono i suoi risultati, queste non sono correzioni--non c'è bisogno di nessuna correzione----ma sono semplicemente teorie contrarie alla sua.

• L'esclusione delle teorie di Marx nella loro forma originaria non è un giustificabile tentativo di estirpare errori, ma semplice censura.

Il TSSI è stato criticato in vari modi. Tuttavia coloro che desiderano ripristinare le prove confutate delle contraddizioni in Marx devono fare qualcosa di più che criticare. Devono dimostrare che le confutazioni del TSSI di queste prove sono sbagliate, sia identificando errori matematici o logici nelle confutazioni o dimostrando che il TSSI non può essere una lettura corretta della teoria del valore di Marx. Il TSSI ora ha 21 anni, e niente di tutto ciò è stato ancora dimostrato.

Nell'assenza di tale dimostrazione, non si può più sostenere onestamente che "le contraddizioni sulle quale i critici hanno insistito sono veramente lì nel Capitale". Quando Marx è interpretato in un certo modo, sembra contraddire se stesso, ma quando è interpretato in un modo diverso, quelle che sembrano essere contraddizioni scompaiono. Quindi dobbiamo concludere che, nell'assenza di una prova che le confutazioni del TSSI siano erronee, le contraddizioni non sono contraddizioni insite in Marx ma contraddizioni tra le teorie originarie e certe interpretazioni che non riescono a dare senso a tali teorie.

Note

[1] Questo saggio è stato tradotto dalla versione originale in inglese ed è dedicato dall'Autore alla memoria di Carlo Giuliani.

[2] Il teorema di Okishio avrebbe provato che la legge marxiana della caduta tendenziale del saggio di profitto sarebbe falsa. Tuttavia recentemente due prominenti marxisti hanno dovuto ammettere che questo non è il caso. Foley (2000; 282) scrive che la ricerca del TSSI dimostra che “il teorema di Okishio, nella sua accezione letterale, è sbagliato... il saggio di profitto in termini di denaro e di lavoro [possono] cadere nelle circostanze specificate nelle sue ipotesi”. In maniera simile, Laibman (2000b; 275) annota che il teorema di Okishio non prova nulla circa la tendenza del saggio di profitto reale ma solo che “il nuovo saggio di profitto materiale deve essere maggiore di quello precedente”.

La 'prova' chiave (e unica) della contraddizione interna dell'approccio Marxiano della trasformazione dei valori nei prezzi di produzione è quella di Bortkiewicz. Bortkiewicz (1952:6-9) sostenne che la differenza nei prezzi degli inputs e degli outputs nella procedura di Marx crea un illegittimo crollo nel processo di riproduzione. Tuttavia Laibman riconosce che la ricerca del TSSI ha confutato l'asserzione di Bortkiewicz. I prezzi degli inputs e degli outputs sono differenti nei contro-esempi del TSSI e tuttavia “l'equilibrio nella riproduzione esiste da un periodo all'altro” (Laibman 2000a:323). (Vedi Kliman and McGlone, 1990, per la prima di tali confutazioni). Similmente, Mongiovi (2001:33) ammette “l'assenza di errori aritmetici” nei modelli del TSSI più il fatto che, in questi modelli, “non è assolutamente possibile che i postulati di invarianza di Marx [profitti totali = plusvalore totale e prezzi totali = valore totale] possano essere violati”.

Giorgio Lunghini

(Tratto da: Economia classica e economia volgare)
Karl Marx: Teorie sul plusvalore (Libro IV del Capitale)
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Introduzione


Ogni scienza sarebbe superflua se l'essenza delle cose e la loro forma fenomenica direttamente coincidessero.

(Karl Marx)

Un monumento di ardore teorico


Autore dell'altro monumento della storia delle teorie economiche, la Storia dell'analisi economica, Marx Schumpeter scrive (nel 1942):

"La maggior parte delle creazioni dell'intelletto o della fantasia scompaiono per sempre dopo un tempo che varia da un'ora a una generazione; per altre invece non accade così. Esse soffrono eclissi, ma poi tornano, tornano non come elementi irriconoscibili di una eredità culturale, ma nel loro abito individuale e con le loro cicatrici personali che la gente può vedere e toccare. Queste sono le creazioni che possiamo dire grandi, e non è uno svantaggio che questa definizione unisca insieme la grandezza con la vitalità . Presa in questo senso, questa parola indubbiamente si applica al messaggio di Marx. Ma c'è anche un altro vantaggio a definire la grandezza mediante la reviviscenza: così essa diviene indipendente dal nostro amore o dal nostro odio. Non abbiamo bisogno di credere che un grande contributo debba necessariamente essere una sorgente di luce e non contenere errori, tanto nelle linee fondamentali quanto nei particolari. AI contrario, possiamo ritenerlo una potenza delle tenebre; possiamo pensarlo come fondamentalmente sbagliato, oppure dissentirne in un qualsivoglia numero di punti particolari. Nel caso del sistema marxista, un siffatto giudizio negativo come una precisa confutazione, proprio per il fatto che non riescono a colpirlo mortalmente, servono soltanto a metterne in rilievo il vigore della struttura. "

"Genii e profeti generalmente non si distinguono per sapere professionale, e proprio a questo si deve spesso il fatto della loro eventuale originalità . Ma nella dottrina economica di Marx nulla vi è che sia da ascriversi ad una qualche deficienza di preparazione teorica o di tecnica dell'analisi teorica. Egli era un lettore insaziabile e un instancabile lavoratore; pochissimi sono i contributi importanti che gli sfuggirono. E ciò che leggeva, digeriva, pur discutendo qualsiasi fatto o argomento con una passione per il particolare che è del tutto inusitata in chi è abituato ad abbracciare con un unico sguardo intere civiltà e sviluppi secolari. Criticando e respingendo, oppure accettando e coordinando, sempre andava al fondo di qualsiasi argomento. La prova più eminente è data dalla sua opera Teorie sul plusvlore, che è un monumento di ardore teorico. Questo sforzo incessante di disciplinarsi e dominare tutto ciò che era da dominare, lo ha liberato da pregiudizi e tendenze extrascientifiche, sebbene egli certamente lavorasse allo scopo di verificare una determinata concezione".

Sovrappiù e plusvalore

Dopo il 1870 il concetto di 'sovrappiù' (termine più neutro di 'plusvalore', ne designa l'aspetto quantitativo), e con esso quello di 'classi' in conflitto fra di loro per la spartizione del prodotto sociale, scompaiono dal lessico della teoria economica egemone e dunque dal sapere comune, e vi vengono sostituiti con quelli politicamente consolatori di un reddito nazionale cui i soggetti economici attingeranno secondo il contributo ad esso dato, secondo la produttività dei fattori di cui dispongono. Le classi sociali non sono più 'sanguigne realtà ' ma 'pallide astrazioni' e ne prende il posto la 'formula trinitaria': capitale, terra, lavoro. Non più conflitto, ma armonia: per ogni data configurazione produttiva, per ogni dato livello della produzione e dell'occupazione, si sostiene oggi, esisterebbe una unica configurazione distributiva, una unica divisione del reddito nazionale fra salari, profitti e rendite, tale da assicurare l'equilibrio dell'economia. Un equilibrio alla cui esistenza provvederebbe un ordine naturale, che ne garantirebbe altresì l'unicità , la stabilità e l'ottimalità . Con una ovvia ma importante implicazione politica circa quello che i governanti dovrebbero fare o non fare: Laissez faire, laissez aller.

àˆ dunque necessaria una definizione del concetto di sovrappiù, anche per comprendere quando e come l'economia si costituisca in scienza, e come nel modo capitalistico di produzione il capitale non sia soltanto un insieme di cose o una somma di denaro, ma un rapporto sociale. Il sovrappiù può essere definito come quel che resta del prodotto sociale (tutto ciò che in un'economia viene prodotto in un dato periodo di tempo), una volta reintegrati i beni di consumo necessari per la sussistenza e la riproduzione dei lavoratori (produttivi), nonché i beni capitali che si sono consumati o logorati nel corso della produzione. Il sovrappiù sarà nullo, per definizione, in un'economia di mera sussistenza, ma normalmente sarà positivo; e positivo può essere in qualsiasi modo di produzione. Diversi, tuttavia, saranno i modi in cui il sovrappiù viene prodotto, le persone o classi che se ne appropriano, l'uso che se ne farà , e il ruolo che in tutto ciò hanno l'istituto della proprietà , il mercato e la moneta.

In un'astratta società precapitalistica, diciamo 'feudale', il sovrappiù viene prodotto mediante il comando diretto del lavoro dei servi (la corvée, per esempio). Del sovrappiù, in natura o in denaro, il signore si appropria in virtù di un rapporto di potere strettamente politico e non di scambio economico; e lo impiega non per l'allargamento del processo produttivo, ma per quello che si può chiamare 'consumo signorile'. Al mercato si ricorre essenzialmente per gli scambi intercomunitari; la moneta ha come funzione pressoché esclusiva quella di facilitare gli scambi. Con l'avvento del capitalismo, quali che ne siano state le cause ('accumulazione originaria' o 'grande trasformazione'), si assiste ad una polarizzazione della società . Se si trascurano i residui feudali (la classe dei rentiers, gli artigiani), sul mercato si fronteggiano due classi: i capitalisti, proprietari dei mezzi di produzione, e i lavoratori salariati, liberi ma proprietari di un'unica merce: la propria forza-lavoro. Il sovrappiù (se realizzato) prende la forma di profitto, e questo, il profitto e non più l'uso, diventa lo scopo della produzione. Del sovrappiù il capitalista si appropria in quanto possiede o controlla i mezzi di produzione e dopo aver pagato la forza lavoro al suo prezzo, pari al suo costo di riproduzione. La destinazione del sovrappiù, d'altra parte, non è più il consumo, bensì l'allargamento della produzione. La moneta diventa essenziale al processo di produzione-riproduzione, poiché la produzione capitalistica non è produzione di merci a mezzo di merci, ma produzione di denaro a mezzo di denaro. E il mercato, infine, pervade tutta la società : tutti i rapporti fra gli uomini passano per il mercato.

Il processo economico acquista ora una sua autonomia: da finalizzato ad altro, diventa fine a se stesso, circolare. E soltanto ora l'economia politica si può costituire in disciplina autonoma e sistematica: in scienza del capitalismo. Alla nozione di capitale come categoria eterna (il capitale come mezzi di produzione prodotti) viene a contrapporsi quella di capitale come categoria propria e fondante di un dato modo di produzione: il modo di produzione capitalistico. Soltanto nel modo capitalistico di produzione la ricchezza prende la forma di capitale, in quanto rapporto che si instaura fra queste due classi: capitalisti e lavoratori salariati. Può allora dirsi "capitale" qualsiasi proprietà (di denaro, macchine o altre forme di potere), mediante la quale sia possibile comandare lavoro salariato in vista di un profitto realizzabile vendendone il prodotto.

I fondatori dell'economia politica come scienza pongono il concetto di sovrappiù al centro della loro analisi. Secondo Marx, tuttavia, essi commettono l'errore di vederne soltanto l'aspetto quantitativo, e di considerare il sovrappiù non in quanto tale, in quanto plusvalore, ma nelle forme particolari di profitto e di rendita. Come scrive Engels nella prefazione al Libro II del Capitale, Smith (ad esempio) non ha distinto il plusvalore in quanto tale, come categoria propria, dalle forme particolari che esso assume nel profitto e nella rendita fondiaria: "Al contrario, il plusvalore di Marx è la forma generale della somma di valore appropriata senza equivalente dai possessori dei mezzi di produzione, la quale, secondo leggi del tutto peculiari, scoperte da Marx per primo, si scinde nelle forme particolari, trasmutate, di profitto e rendita fondiaria. Queste leggi verranno sviluppate nel 'l' Libro, dove soltanto risulterà quanti termini medi siano necessari per giungere dalla comprensione del plusvalore in generale alla comprensione della sua trasformazione in profitto e rendita fondiaria, dunque alla comprensione delle leggi della ripartizione del plusvalore all'interno della classe dei capitalisti".

Fra la nozione classica di sovrappiù e quella marxiana di plusvalore vi è continuità dal punto di vista quantitativo ma non da quello qualitativo. L'economia politica classica assume il sovrappiù come un dato, e anziché indagarne l'origine lo fa coincidere immediatamente con il plusvalore. Sta in questo la continuità e la differenza fra Marx e i classici.

Il concetto di modo di produzione

Ciò che manca ai classici (e ai contemporanei) è il concetto di modo di produzione. Anche per gli ortodossi intelligenti c'è stata storia prima di noi, ma gli eretici, massimamente Marx, si chiedono e ci chiedono perché mai la storia dovrebbe essere già finita (e finita così):

L'analisi scientifica del modo di produzione capitalistico dimostra al contrario che esso è un modo di produzione di tipo particolare, specificamente definito dallo sviluppo storico; che, al pari di qualsiasi altro definito modo di produzione, presuppone un certo livello delle forze produttive sociali e delle loro forme di sviluppo, come loro condizione storica; condizione, che è essa stessa il risultato storico ed il prodotto di un processo precedente, e da cui il nuovo modo di produzione prende le mosse in quanto suo fondamento dato; che i rapporti di produzione corrispondenti a questo specifico modo di produzione, storicamente determinato - rapporti, in cui gli uomini entrano nel loro processo di vita sociale, nella creazione della loro vita sociale -, hanno un carattere specifico, storico, transitorio; e che, infine, i rapporti di distribuzione sono in sostanza identici a questi rapporti di produzione, costituiscono il rovescio di questi ultimi, così che gli uni e gli altri hanno lo stesso carattere storicamente transitorio.

L'economia politica borghese

Scrive Marx, nel poscritto alla seconda edizione del Capitale (datato Londra, 24 gennaio 1873):

"L'economia politica, in quanto è borghese, cioè in quanto concepisce l'ordinamento capitalistico, invece che come grado di svolgimento storicamente transitorio, addirittura all'inverso come forma assoluta e definitiva della produzione sociale, può rimanere scienza soltanto finché la lotta delle classi rimane latente o si manifesta soltanto in fenomeni isolati."

Prendiamo l'Inghilterra. La sua economia politica classica cade nel periodo in cui la lotta fra le classi non era ancora sviluppata. Il suo ultimo grande rappresentante, il Ricardo, fa infine, consapevolmente, dell'opposizione fra gli interessi delle classi, fra salario e profitto, fra il profitto e la rendita fondiaria, il punto di partenza delle sue ricerche, concependo ingenuamente questa opposizione come legge naturale della società . Ma in tal modo la scienza borghese dell'economia era anche arrivata al suo limite insormontabile. Ancora mentre il Ricardo viveva, e in contrasto con lui, le si contrappose la critica, nella persona del Sismondi.

L'età seguente, dal 1820 al 1830, è contraddistinta in Inghilterra dalla vivacità scientifica nel campo dell'economia politica. Fu il periodo tanto della volgarizzazione e diffusione della teoria ricardiana, quanto della sua lotta contro la vecchia scuola. Si celebrarono splendidi tornei. Le imprese allora compiute sono poco conosciute sul continente europeo perché la polemica è dispersa in gran parte in articoli, scritti occasionali e pamphlets. Il carattere spregiudicato di quella polemica - benché la teoria ricardiana vi serva già , eccezionalmente, anche come arme offensiva contro l'economia borghese - si spiega con le circostanze del tempo. Da una parte, anche la grande industria stava appena uscendo dall'infanzia, com'è provato già dal fatto che essa apre il ciclo periodico della sua vita moderna soltanto con la crisi del 1825. Dall'altra parte, la lotta delle classi fra capitale e lavoro era respinta sullo sfondo, politicamente per la discordia fra i governi e l'aristocrazia feudale schierati attorno alla Santa Alleanza, e la massa popolare guidata dalla borghesia, economicamente per la contesa fra capitale industriale e proprietà fondiaria aristocratica, celata in Francia dietro l'opposizione fra piccola proprietà e grande proprietà fondiaria, apertamente scoppiata in Inghilterra dopo la legge sui grani. La letteratura economica inglese di questo periodo rammenta il periodo d'entusiasmo aggressivo per l'economia politica in Francia dopo la morte del dottor Quesnay: ma solo come l'estate di San Martino rammenta la primavera. Col 1830 subentrò la crisi che decise una volta per tutte.

La borghesia aveva conseguito il potere politico in Francia e in Inghilterra. Da quel momento la lotta fra le classi raggiunse, tanto in pratica che in teoria, forme via via più pronunciate e minacciose. Per la scienza economica borghese quella lotta suonò la campana a morto. Ora non si trattava più di vedere se questo o quel teorema era vero o no, ma se era utile o dannoso, comodo o scomodo al capitale, se era accetto o meno alla polizia. Ai ricercatori disinteressati subentrarono pugilatori a pagamento, all'indagine scientifica spregiudicata subentrarono la cattiva coscienza e la malvagia intenzione dell'apologetica. Eppure perfino gli importuni trattatelli che l'Anti Corn Law League, con i fabbricanti Cobden e Bright in testa, lanciò per il mondo, offrivano un interesse se non scientifico almeno storico, con la loro polemica contro l'aristocrazia fondiaria. La legislazione sul libero commercio dopo Sir Robert Peel ha strappato all'economia volgare anche quest'ultimo pungiglione.

La rivoluzione continentale del 1848 ebbe il suo contraccolpo anche in Inghilterra. Uomini che ancora rivendicavano valore scientifico e volevano essere qualcosa di più di meri sofisti o sicofanti delle classi dominanti, cercarono di mettere l'economia politica del capitale d'accordo con le rivendicazioni del proletariato, che ormai non potevano essere ignorate più a lungo. Di qui un sincretismo esanime, come è rappresentato, meglio che da altri, da John Stuart Mill.

Le Teorie sul plusvalore (Teorie) sono la storia e la critica di questa epoca memorabile del pensiero moderno, la storia e la critica della nascita, sviluppo e fioritura dell'economia politica classica, e poi della sua fine: della sua costituzione come scienza e della sua dissoluzione. I termini sono William Petty (1623-1687, fondatore dell'economia politica moderna), David Ricardo (1772-1823, la cui opera costituisce il punto più alto dell'economia politica classica) e, fra gli altri, John Stuart Mill (1806-1873, il sincretista esanime).

Le Teorie: genesi

Per intendere il senso delle Teorie e in generale dell'opera 'economica' di Karl Marx, se ne deve tenere presente la genesi e la struttura, e la successione temporale nella quale le diverse parti della critica marxiana dell'economia politica sono state progettate e scritte. Le Teorie fanno parte del manoscritto economico del 1861-1863. Questo manoscritto consiste in 23 fascicoli e costituisce la prosecuzione di Per la critica dell'economia politica, del 1859. I primi cinque fascicoli e in parte i fascicoli dal 19° al 23° riassumono il contenuto del successivo primo volume del Capitale. Nei fascicoli dal 21 al 23 vengono trattati diversi temi del Capitale, tra i quali alcuni del secondo volume. Ai problemi del terzo volume sono dedicati i fascicoli 16° e 17° (l'ordine è dunque invertito, rispetto a quello che dimostrerebbe la presunta contraddizione fra terzo e primo volume del Capitale).

Le Teorie, che sono state scritte fra il gennaio 1862 e il luglio 1863, rappresentano la parte più ampia ed elaborata del manoscritto e comprendono i fascicoli dal 6° fino al 15° e 18°, oltre ad alcuni schizzi storici di altri fascicoli. Questa è la prima e unica redazione del 'quarto' libro del Capitale, di cui secondo Marx costituisce, rispetto ai tre libri teoretici, la parte storica, storico-critica o storico-letteraria. Marx cominciò a scrivere le Teorie seguendo il piano originario della sua Critica all'economia politica. Circa questo piano Marx ci informa nella prefazione a Per la critica all'economia politica, in numerose lettere del periodo compreso tra il 1858 e il 1862, e nello stesso manoscritto del 1861-1863. Da queste fonti si può trarre una rappresentazione schematica della struttura progettata da Marx per la sua opera, dalla quale risulta che le Teorie erano state inizialmente concepite come digressione storica al capitolo "Il processo di produzione del capitale".

Per comprendere l'originalità e la portata delle Teorie si deve tenere presente che quando Marx cominciò quest'opera era stata progettata solo la prima delle tre parti teoretiche del Capitale ("Il processo di produzione del capitale"), mentre esistevano soltanto singoli capitoli della seconda e terza parte in forma di appunti provvisori nel manoscritto del 1857­58. Durante l'elaborazione delle Teorie Marx non poteva quindi riferirsi a questo o quel punto della parte teoretica, bensì doveva affrontare già qui le questioni teoriche che emergevano nel corso delle sue ricerche di storia delle teorie. Infatti nelle Teorie alcuni problemi vengono trattati in maniera molto più ampia che nei successivi tre volumi teorici del Capitale. Questo vale, ad esempio, per il problema del lavoro produttivo e improduttivo, per la teoria delle crisi, per la teoria della rendita, e per alcune parti della teoria marxiana del valore e dei prezzi. Ancora nel gennaio 1863 Marx era intenzionato a ripartire il materiale storico-critico nei capitoli teorici delle sue ricerche sul "Capitale in generale". In modo analogo, d'altra parte, Marx aveva proceduto nel 1859 con Per la critica dell'economia politica, aggiungendo tre appendici di storia delle teorie ai due capitoli sulla merce e il denaro.

Nel corso dell'opera, tuttavia, le tre parti teoriche assunsero contorni sempre più chiari e definiti, e in Marx si radicò la convinzione che le Teorie dovessero costituire una parte autonoma, il quarto libro, del Capitale. Il Capitale, il cui titolo vero è: Critica dell'economia politica, critica dell'ambivalente scienza del capitalismo. Le categorie centrali del Capitale, valore e plusvalore, prezzi e profitto, sono categorie proprie del modo capitalistico di produzione-riproduzione, e non della produzione in generale. Capitale, lavoro, sfruttamento, alienazione, merce, denaro, sono, per gli ortodossi, categorie eterne. La grandezza dell'eretico Marx sta in questo: nel prendere a oggetto dell'indagine non il denaro, la merce, l'alienazione, lo sfruttamento, il lavoro, il capitale nella loro forma astratta (astratta dalle loro determinazioni storiche), ma nelle forme che queste categorie assumono nel modo capitalistico di produzione.

Marx, Engels, Kautsky

Quando Marx morì, nel 1883, non solo le Teorie ma anche il secondo e il terzo volume del Capitale non erano ancora stati pubblicati. Curatore degli inediti avrebbe voluto e dovuto essere Engels, che riuscì a pubblicare secondo e terzo volume del Capitale ma non le Teorie. Engels menziona le Teorie per l'ultima volta in una lettera (a Stephan Bauer) del 10 aprile 1895. Quattro mesi dopo muore. Le Teorie furono pubblicate per la prima volta negli anni dal 1905 al 1910 da Karl Kautsky. L'edizione kautskyana delle Teorie, tuttavia, è filologicamente e metodologicamente dubbia. Kautsky rifiutò l'idea di pubblicare le Teorie come quarto volume del Capitale, poiché considerava le Teorie come opera parallela al Capitale e sosteneva che essa fosse priva di una struttura logica ordinata, né seppe cogliere l'importanza che in essa avevano i collegamenti e gli intrecci tra gli studi storico­critici e le trattazioni teoretiche. Bisognerà aspettare gli anni cinquanta (1954, 1957 e 1961) per disporre dell'edizione critica curata dall'Istituto per il marxismo-Ieninismo presso il Comitato centrale del PCUS, edizione sulla quale si basa la presente traduzione italiana.

Le Teorie: contenuto

La prima parte delle Teorie tratta principalmente delle visioni dei fisiocrati e di Adam Smith. Come per tutti i grandi classici, Marx ne coglie da un lato la capacità di individuare il 'nesso interno' dell'economia borghese, dall'altro l'incapacità di risalire alle sue determinazioni storiche. Ai fisiocrati Marx riconosce due grandi meriti: l'aver spostato lo studio circa l'origine del plusvalore dalla sfera della circolazione alla sfera della produzione immediata, e l'aver concepito e rappresentato il processo di riproduzione del capitale come un processo circolare. Il Tableau économique di Franà§ois Quesnay si regge su di un'idea che Marx non esita a definire "un'idea estremamente geniale, indiscutibilmente la più geniale di cui si sia fin qui resa responsabile l'economia politica", e che infatti ispira gli stessi schemi di riproduzione di Marx e i moderni contributi di von Neumann, Leontief e Sraffa. A fronte di questa lucidità analitica sta però l'incapacità dei fisiocrati di cogliere le determinazioni storiche delle loro categorie analitiche, il che li induce a concepire il valore non come una forma del lavoro sociale ma come semplice valore d'uso, come semplice materia, e il plusvalore non come pluslavoro ma come un semplice dono della natura.

Nella prima parte Marx illustra anche la contraddizione di fondo che pervade l'opera di Adam Smith, il quale da un lato intuisce e tende a disvelare il nesso interno, occulto, del modo capitalistico di produzione e dall'altro si limita a descriverne, catalogarne e rappresentarne il nesso esteriore, apparente. Soltanto quando percorre la prima via Smith riesce a pervenire ad una definizione esatta del valore attraverso il tempo di lavoro e a cogliere l'origine del plusvalore. Altrimenti si ferma alla superficie delle cose. àˆ questo Smith quello su cui si basano le teorie 'volgari' ed apologetiche dei suoi epigoni. Prendendo spunto dal 'dogma fantastico' di Smith, secondo il quale il valore del prodotto sociale si risolverebbe completamente in redditi, Marx elabora una teoria della riproduzione del capitale sociale nella sua interezza, con particolare riguardo al reintegro del capitale costante (questione trascurata da Smith e poi da Ricardo, ma non da Quesnay). Sempre muovendo da Smith, Marx dedica pagine fondamentali, e talora esilaranti, alla distinzione fra lavoro produttivo e lavoro improduttivo ("Un filosofo produce idee, un poeta poesie, un pastore prediche, un professore manuali ecc. Un delinquente produce delitti. Se si esamina più da vicino la connessione che esiste tra quest'ultima branca di produzione e l'insieme della società , ci si ravvede da tanti pregiudizi. ( ... ) La sola tortura ha dato occasione alle più ingegnose invenzioni meccaniche, e ha impiegato nella produzione dei suoi strumenti una massa di onesti artefici.")

La seconda parte delle Teorie tratta principalmente della teoria economica di David Ricardo e in particolare della sua teoria della rendita fondiaria. Con Ricardo ("il suo massimo rappresentante") l'economia politica classica raggiunge il suo punto più alto. La grandezza di Ricardo sta nell'essersi coerentemente attenuto alla definizione del valore in termini di giornata lavorativa e nell'aver indagato come le categorie economiche sviluppate dagli economisti precedenti corrispondessero o contrastassero con questo principio. Di qui, tuttavia, deriva l'insufficienza scientifica del metodo ricardiano, una insufficienza che si dimostra non solo nel metodo di esposizione (formale), ma che conduce anche a risultati errati, secondo Marx, perché trascura i termini medi del ragionamento e cerca invece di dimostrare in modo immediato la congruenza delle categorie economiche tra di loro. In particolare Marx critica l'incapacità di Ricardo di collegare la legge del saggio generale di profitto con la legge del valore, confondendo (identificando) profitto e plusvalore. Insieme alle critiche agli errori teorici di Ricardo Marx sviluppa le proprie visioni sul rapporto tra valore e prezzo di costo, sulla rendita fondiaria assoluta differenziale, sulla formazione del saggio medio di profitto e le cause della sua caduta, sul processo di accumulazione del capitale e le sue conseguenze, e così sul problema delle crisi.

Nella terza parte delle Teorie Marx studia le critiche che al sistema ricardiano sono state mosse sia da destra, da Malthus, sia da sinistra, dai ricardiani socialisti. Marx descrive la dissoluzione della scuola ricardiana e mostra come con l'inasprimento della lotta di classe tra il proletariato e la borghesia, la volgarizzazione del sistema ricardiano, sotto la parvenza di una sua prosecuzione coerente, riguardi gli stessi principi dell'economia politica classica, il suo punto di partenza e le sue categorie principali. All'inizio della terza parte Marx svela l'essenza reazionaria della teoria economica di Malthus; egli condanna e respinge in modo particolare quella tesi apologetica secondo la quale la prodigalità delle classi improduttive rappresenterebbe il mezzo migliore contro la sovrapproduzione. Nel capitolo sulla dissoluzione della scuola ricardiana Marx descrive la caduta dell'economia politica borghese, che si manifesta nell'abbandono degli elementi fecondi del sistema ricardiano e nella riduzione ad una sterile scolastica o ad una cinica apologetica del modo capitalistico di produzione. Nel capitolo sui socialisti ricardiani Marx sottolinea con favore la loro critica al capitalismo, ma contemporaneamente ne mostra l'incapacità di superare le premesse borghesi della teoria ricardiana, di staccarsi da esse e di sviluppare insegnamenti socialisti su nuove basi.

La differenza essenziale

Scrive Marx, a conclusione delle Teorie:

"L'economia classica cerca di ricondurre analiticamente le differenti forme rigide e reciprocamente estranee della ricchezza alla loro intima unità e di spogliarle della figura di indifferente giustapposizione; [essa] vuol comprendere il nesso interiore a differenza della molteplicità delle forme di manifestazione. L'economia classica si contraddice occasionalmente in quest'analisi; cerca spesso di intraprendere la riduzione e di dimostrare immediatamente l'identità della sorgente delle differenti forme, senza gli anelli intermedi. Ma questo deriva necessariamente dal suo metodo analitico col quale devono cominciare la critica e la comprensione. Non ha interesse a sviluppare geneticamente le differenti forme, ma vuole ricondurle analiticamente alla loro unità , poiché muove da esse come presupposti dati. L'analisi però è il presupposto necessario dell'esposizione genetica, della comprensione del vero processo di formazione nelle sue diverse fasi. L'economia classica ha infine il difetto di concepire la forma fondamentale del capitale, la produzione rivolta all'appropriazione di lavoro altrui, non come forma storica, ma come forma naturale della produzione sociale, concezione alla cui eliminazione essa apre tuttavia la strada con la sua stessa analisi."

"Ben diversamente stanno le cose per l'economia volgare la quale intanto si fa largo solo quando l'economia stessa con la sua analisi ha già dissolto e reso vacillanti i propri presupposti, e quindi l'opposizione all'economia esistente già in forma più o meno economica, utopistica, critica e rivoluzionaria. Infatti lo sviluppo dell'economia politica e dell'opposizione da essa stessa creata va di pari passo con lo sviluppo reale degli antagonismi sociali e delle lotte di classe presenti nella produzione capitalistica. Solo quando l'eeconomia politica ha raggiunto una certa ampiezza di sviluppo - e quindi dopo A. Smith - e si è data forme stabili, quella sua componente, che non è altro che la riproduzione dell'apparenza come sua rappresentazione, cioè la sua componente volgare, se ne stacca come esposizione particolare dell'economia. Così [in] Say la separazione delle concezioni volgari che si incontrano in A. Smith è fissata come cristallizzazione a sé stante. Con Ricardo e lo sviluppo da lui ulteriormente consolidato dell'economia, anche l'economista volgare riceve nuovo alimento (poiché egli stesso non produce niente) e quanto più l'economia giunge a compimento, e quindi penetra in profondità e si sviluppa come un sistema dell'opposizione, tanto più autonomamente le si contrappone la sua componente volgare, arricchita di materiale che accomoda a modo suo, finché finalmente trova la sua migliore espressione in una compilazione di un sincretismo erudito e un eclettismo senza carattere. Nella stessa misura in cui l'economia penetra in profondità , essa non solo rappresenta delle antitesi, ma la sua antitesi le si contrappone come tale, contemporaneamente allo sviluppo delle antitesi reali nella vita economica della società . Nella stessa misura l'economia volgare diventa consapevolmente più apologetica e cerca di eliminare a forza di chiacchiere i pensieri e, in essi, le antitesi" (n.)

"L'ultima forma è la forma professorale, che procede 'storicamente' e, con saggia moderazione, raccoglie qua e là il 'meglio', senza badare a contraddizioni, bensì alla completezza. Toglie lo spirito vitale a tutti i sistemi, da cui elimina rigorosamente il mordente, cosicché si ritrovano pacificamente riuniti nella compilazione. Il calore dell'apologetica è temperato qui dall'erudizione che osserva con benevola superiorità le esagerazioni dei pensatori economici e le tollera solo come curiosità che galleggiano nella sua mediocre poltiglia. Poiché lavori di questo genere appaiono solo quando si chiude il cerchio dell'economia politica come scienza, sono nello stesso tempo le tombe di questa scienza".