Pierre Vilar

Marx e la storia

Storia del marxismo, Einaudi, Torino 1978, pp. 59-90
Traduzione di Corrado Vivanti

Ho spesso vagheggiato uno studio in due parti, la seconda delle quali - "Marx nella storia" - dovrebbe essere strettamente collegata con la prima, "La storia in Marx". Perché il problema sta nel sapere se il sorprendente destino del marxismo, in poco più di un secolo, come fattore di storia, è dovuto o no alla capacità di analisi e d'intervento che ha offerto agli uomini, per quel che riguarda la materia storica, la scoperta scientifica di Marx. In questo saggio, che affronta nelle linee generali "Marx nella storia", potrò dedicare solo poche pagine a "la storia in Marx". Mi limiterò dunque a porre alcune questioni di orientamento, che mi auguro possano suggerire ricerche più approfondite.

Bisogna dire che, sin dalla formulazione del problema, si incontrano singolari difficoltà. La parola "storia" indica in pari tempo (il che non avviene per le scienze della natura) sia la conoscenza di una materia, sia la materia di questa conoscenza. "La storia in Marx" è la trasformazione in pensiero di uno dei più antichi bisogni di esigenza scientifica dello spirito umano; "Marx nella storia" è l'esame della parte avuta da un uomo nel processo degli avvenimenti e nel modificarsi delle società. Il duplice contenuto di questa parola - che ne fa la ricchezza, ne giustifica il prestigio, ma ne predispone anche gli equivoci - spiega come mai sia stato possibile dire al tempo stesso che Marx ha aperto alla scienza "il continente storia" e tuttavia che "il concetto di storia" resta non costruito.

Sarebbe facile, senza dubbio, trovare nella mole delle opere di Marx numerosi usi della parola "storia" in accezioni volgari; non meno facile sarebbe però trovarne usi precisi e nuovi. Cercare se esiste, in quell'apparente caos, un ordine, una cronologia, eliminazioni, "soglie" connesse ad acquisizioni, a scoperte, sarebbe un'impresa appassionante e fertile di risultati, che richiederebbe un catalogo esauriente dei diversi usi del termine e un'analisi raffinata di ciascuno di essi. Sarà superfluo avvertire che non è possibile, in questa sede, intraprendere una simile ricerca. Va detto peraltro che non esiste soltanto l'uso delle parole. Vi sono anche le proposizioni teoriche, alcune citate innumerevoli volte, altre assai meno note. Vi sono soprattutto - ed è il punto essenziale per lo storico - gli esempi di applicazione, la pratica del metodo. Se Marx, aprendo "il continente storia", si fosse guardato dal penetrarvi, la sua opera avrebbe sicuramente perduto in parte la sua dimensione. E' quindi utile sapere in che modo vi si è avventurato e anche come lo ha affrontato. È una ricerca attraverso la genesi che sicuramente solleverà obiezioni. Ma vi è qualcosa di più chiarificatore delle prime scoperte di un pensiero, per quanto parziali esse siano, quando, scuotendo le coerenze iniziali, preparano i grandi rivolgimenti? E il processo della ricerca è forse meno importante del processo di esposizione quando si tratta di definire una materia che, secondo Marx, la ricerca ha proprio il compito di fare propria? "Fare propria": la storia è dunque scoperta e insieme conquista. Seguendo passo passo questa conquista di Marx, ogni storico degno di questo nome potrà rapidamente riconoscere i propri problemi, il proprio modo di affrontarli. E spesso qualche inizio di soluzione.

1. L'anteriorità della società civile.

Sarà opportuno partire dal Marx studente. In un'atmosfera universitaria impregnata di hegelianesimo, ma dove Hegel, dopo tutto, apparteneva già al passato, non è mai stato esattamente stabilito che cosa il giovane Marx abbia accolto o respinto delle lezioni ascoltate meno indirettamente: quelle di un Ritter, di un Savigny. Coloro che scorgono in Marx anzitutto un determinista, hanno potuto suggerire che il determinismo geografico di Ritter non fu estraneo alla sua formazione. Mi sembra superfluo affermare che non esiste in Marx un determinismo geografico, come non esiste in lui un determinismo economico, e che niente è più estraneo al suo pensiero dei tentativi che oggi si vanno compiendo per ridurre, attraverso un gioco matematico, l'insediamento umano alle condizioni dello spazio. Certo, Marx non manca mai di ricordare, alla base di ogni storia e di ogni economia, "le condizioni geologiche, orografiche, idrografiche, climatiche, ecc.", come già aveva fatto Hegel, precisando che ogni storiografia (Geschichtsschreibung) deve partire da queste basi naturali e dalla loro modificazione ad opera degli uomini nel corso della storia (Geschichte).

Prima di poter "fare la storia" ("um Geschichte machen zu kònnen "), l'uomo deve confrontarsi con certe condizioni. Questo richiamo alle evidenze sarà spesso ripreso all'interno di una teoria d'insieme in cui la capacità di presa dell'uomo sulla natura è il criterio di fondo. La natura non impone, perché la tecnica è in grado, un giorno o l'altro, di vincerla. Ma ad ogni livello raggiunto, la natura, entro certi limiti da precisare, pro-pone o op-pone.

Nell'insieme della storia e in ognuno dei suoi casi concreti, il primo compito dello storico consiste nel misurare facilità e difficoltà offerte dalla natura. Non c'è storia senza geografia, come non c'è geografia senza storia. Non c'è solo questo, ma questo è prima di tutto. E questo significa un primo incontro fra Marx e i migliori metodi della storiografia moderna.

Come si confronta con il problema dei rapporti fra la terra e gli uomini, fra storia e geografia, lo storico deve misurarsi con i rapporti organizzati degli uomini fra loro: istituzioni, legislazioni, principi e pratiche del diritto, che troppo spesso, peraltro, egli tende ad assumere come dati. Marx, all'Università, seguiva i suoi corsi di diritto. Ma - a quel che ci dice lui stesso - relegava spontaneamente questa disciplina in secondo piano, dopo la filosofia e la storia. Vero è che diritto e storia si incontravano nelle lezioni di Savigny, che - come sappiamo - egli seguiva. E si è tentati di domandarsi se la scuola storica del diritto positivo, che contrapponeva alle concezioni del diritto naturale o razionale un diritto concreto prodotto della storia, non sia più vicina alla visione matura di Marx - ossia a un diritto sovrastruttura storicamente determinata - che non lo fossero Kant o persino Hegel.

Sappiamo tuttavia che Marx, in uno dei suoi primi scritti, ancora prima di prendersela con Hegel in tema di diritto, ha rivolto un violento attacco alla "scuola storica", in occasione del giubileo del suo fondatore, Hugo, di fatto diretto contro Savigny. Ciò significa forse che le lezioni di Savigny non avevano contato per Marx? No, perché è caratteristico del suo procedimento intellettuale proprio il leggere o ascoltare appassionatamente gli altri, per respingerli con la stessa foga, ma non senza utilizzarli per la propria costruzione. In effetti, sulla "Rheinische Zeitung" del 9 agosto 1842 egli non oppone affatto a Hugo o a Savigny un rifiuto di considerare il diritto come prodotto della storia; ma rimprovera loro, in sostanza: 1) di essersi attribuiti una vocazione di legislatori (Savigny l'aveva ammesso nel titolo di una delle sue opere, ed era stato nominato poco prima ministro per la riforma legislativa); 2) di ammettere che ogni esistenza fonda un'autorità, ogni autorità un diritto; 3) di lasciar precipitare la scuola nelle chimere del romantici­smo. Dal "positiv, dass heisst unkritisch", l'articolo passa alla denunzia delle "unhistorisehe Einbildungen". La difesa della ragione diventa difesa della storia: una storia vera.

D'altronde, quasi subito, nella stessa serie di articoli della "Rheinisehe Zeitung" (1842-43) gli viene offerta un'altra occasione - e sempre un'occasione "politica", ossia offerta al pensiero dall'azione, alla teoria dalla pratica - per penetrare meglio nella "storia che si fa". Marx osserva un "diritto in gestazione": la Dieta renana trasforma la raccolta di legna, un vantaggio concesso dalla consuetudine ai poveri, in "furto di legna", punito come delitto in nome di una proprietà che, per diventare "moderna" si fa "assoluta"'. Ed ecco che leggendo i dibattiti della Dieta, il giovane Marx ha la prima intuizione di alcuni fondamenti della sua futura teoria - della sua teoria della storia - della sua "concezione materialistica della storia", che Engels indicherà come una delle scoperte fondamentali, di portata pari al suo nucleo teorico economico, il plusvalore.

a) Il diritto definisce e gerarchizza le divaricazioni fra l'azione dell'individuo e il principio della società. Ma questo principio non è eterno. Prima della decisione della Dieta, si "raccoglie" la legna caduta; dopo la sua decisione, la si "ruba": un atto che - osserva un deputato non era considerato furto dalla "mentalità generale", è dichiarato furto. La nozione di proprietà viene modificata. Forse ciò avviene nel senso di una maggiore razionalità, di una maggiore giustizia? Marx, ancora liberale, ancora discepolo della Rivoluzione francese e ancora abbastanza hegeliano perché ai suoi occhi lo Stato incarni l'Idea, si accorge improvvisamente che il legislatore non legifera in astratto. Infatti

b) La definizione giuridica della proprietà è affidata ai proprietari. L'articolo scopre questo e lo ripete in vari modi: "il proprietario di foreste non lascia parlare il legislatore"; "poiché la proprietà privata non ha i mezzi per elevarsi al piano dello Stato, lo Stato ha il dovere di abbassarsi ai mezzi del proprietario privato"; "l'interesse del proprietario va assicurato, anche se per ciò dovesse andare in rovina il mondo del diritto e della libertà". Quante esitazioni ancora in questo vocabolario! Quanti rimpianti davanti alla negazione dello Stato ideale, del sereno legislatore, da parte dei fatti! Ma la questione è ormai posta: non sarà forse la società civile che fa lo Stato, anziché lo Stato a fare la società civile? Dalla risposta a questa domanda deriverà tutta una concezione della storia.

c) Perché la nuova società civile impone una visione della proprietà così assoluta? Non lo rivela soltanto la legna secca, ma anche le bacche selvatiche, un prodotto naturale di cui si vieta del pari la raccolta. Perché anch'esse sono divenute "articolo di commercio e vengono spedite a barili in Olanda" contro denaro. Ci si appropria dunque del bene naturale, quando esso è diventato merce: "la natura dell'oggetto esige il monopolio, poiché l'ha scoperto l'interesse della proprietà privata". I termini possono sorprendere: identificare monopolio e proprietà è un'idea precapitalistica, frequente presso gli insorti delle antiche sommosse di sussistenza. Ma essa attinge al mito stesso della libertà economica: di fronte a chi nulla possiede, la libera disposizione del bene appropriato ha tutti gli effetti del monopolio. Nelle ipotesi di base dell'economia capitalistica si dimenticherà sempre di sottolineare quella più necessaria: per diventare merce un bene deve essere proprietà assoluta; prima del capitalismo nessun bene era tale. Sono, queste, altrettante lezioni tratte dai dibattiti della Dieta.

d) Marx riflette allora sulla società di prima della Rivoluzione francese, da lui chiamata -secondo un vocabolario allora indiscusso (e non inventato da lui) - società "feudale". L'aveva creduta "irrazionale", e ora si accorge che essa aveva una propria razionalità, una logica di funzionamento, che in particolare comporta un duplice diritto privato: "un diritto privato del proprietario e un diritto privato del non proprietario", un miscuglio di diritto pubblico e di diritto privato, "quale incontriamo nel Medioevo". Certo, la "ragione legislatrice" - il giovane giornalista scrive a volte anche semplicemente "la ragione" - ha semplificato, reso più logici i principi del funzionamento sociale. Ma le concessioni del diritto consuetudinario, considerate come "accidenta-li" alle masse prive di ogni bene, sono state spietatamente liquidate, mentre sono state prese precauzioni a favore dei vacillanti privilegi delle classi dominanti. Così sono stati secolarizzati i beni dei conventi, e Marx approva tale provvedimento, ma se si è molto parlato delle indennità dovute alla Chiesa, non si è mai pensato di indennizzare i poveri per la perdita dei diritti che la consuetudine garantiva loro all'interno dei conventi. Mai questa analisi può far pensare che Marx rimpianga e tanto meno esalti la vecchia società, superata dalla storia; ma l'esame della "transizione", con le sue particolarità tutte spiegabili con il gioco degli interessi e delle forze rispettive di ogni classe, viene qui delineato per la prima volta.

e) L'esame è particolarmente approfondito per quel che riguarda i rapporti fra società e Stato. Non solo è una classe - e non uno Stato astratto - quella che decreta e legifera, ma da un lato la classe che acce­de al potere si assicura tutti i mezzi dello Stato, dall'altro essa continua a escludere dall'organizzazione dello Stato la classe subordinata.

Questa logica, che trasforma il dipendente del proprietario forestale in un'autorità statale, trasforma l'autorità statale in un dipendente del proprietario... Tutti gli organi dello Stato diventano orecchi, occhi, braccia, gambe, con cui l'intendente del proprietario ascolta, osserva, valuta, provvede, afferra e cammina (pp. 203-4).

D'altra parte

la forma del diritto consuetudinario è in questo caso altrettanto conforme a natura, quanto l'esistenza della classe povera stessa costituisce finora una mera consuetudine della società borghese, che non ha ancora trovato un posto adatto fra le membra coscienti dello Stato. La discussione attuale offre un esempio immediato di come si trattino questi diritti consuetudinari, esempio dove si esprime fino in fondo il metodo e lo spirito che anima la Dieta (p. 191).

In altre parole, nella società dell'antico regime l'esclusione politica delle classi povere ammetteva una consuetudine sociale compensatrice; nella società "moderna" - nel 1842 ancora politicamente censitaria ed economicamente individualistica - il povero si trova ancora più spogliato.

Si è voluto sostenere che questi articoli del 1842-43 costituivano la prova di una sensibilità umanista e anarchicheggiante, alle origini del pensiero di Marx, arrivando ad affermare che Marx, a quel tempo, non era Marx. E Marx stesso, nel 1859, ha ricordato molto modestamente quei suoi inizi, trattandoli come dei balbettii: tuttavia ritenne di dover ricordare quel suo primo contatto con i problemi degli "interessi materiali", con i "problemi economici". Devo dire che già le frasi citate mi sembra vadano più lontano di quel che scriveva Marx nella Prefazione a Per la critica dell'economia politica. Esse annunziano, intuitivamente ma chiaramente, l'ingresso di Marx nella sua problematica storica. Si potrà obiettare che questa interpretazione proietta la visione del marxismo elaborato su testi precoci e ancora immaturi, coniugando al futuro anteriore la storia di un pensiero. Mi sembra, se mai, assai più illegittimo vedere in questi testi soltanto l'orrore giovanile dell'autorità, la banale protesta di una sensibilità "democratica" davanti agli "abusi" dei proprietari. In effetti, fin dal 1842, proprio mentre il fenomeno sta svolgendosi, vengono messi in discussione i rapporti fra proprietà e Stato, la natura dell'una e dell'altro. Molti marxisti ritroveranno -interrogandosi sulle origini delle loro convinzioni - rivelazioni analoghe, ingenue e forti, proposte dall'esperienza storica. Non si diventa marxisti leggendo Marx, o almeno non soltanto leggendolo, bensì guardando attorno a sé, seguendo lo svolgersi di dibattiti, osservando la realtà e giudicandola: criticamente. Allo stesso modo si diventa storici. E così lo divenne Marx.

2. "Noi conosciamo una sola scienza, la scienza della storia".

È anche vero che nella sua biografia intellettuale, come in ogni altra, gli episodi si succedono senza somigliarsi, perché non esiste biografia che sia meramente "intellettuale". Dopo la dura esperienza del giornalismo attivo, Marx visse a Kreuznach, al tempo della sua luna di miele, un periodo, eccezionale nella sua vita, di calma meditazione e in pari tempo di massicce letture: da una parte un libro appassionatamente criticato, la Filosofia del diritto di Hegel, dall'altra numerose opere di storia, piuttosto disparate. Credo di poter affermare, contrariamente a quello che ha scritto Maximilien Rubel, che questo episodio del 1843 costituisce, nella formazione di Marx, un arretramento rispetto al 1842. In effetti, è come filosofo - quindi senza cambiare terreno - che il contraddittore di Hegel giudica la Filosofia del diritto. Formalismo nella "negazione della negazione", idealismo (in cui scompare ogni analisi di classe) nelle definizioni di "burocrazia" e di "democrazia", trasposizione alla critica dello Stato hegeliano della critica religiosa di Feuerbach, osservazioni nei confronti della concezione hegeliana della proprietà che potrebbero essere (ad esempio, a proposito del maggiorasco) una critica borghese. Per quel che riguarda poi le letture storiografiche di Kreuznach, in cui Rousseau, Montesquieu o Machiavelli si alternano ad autori di storia, talvolta addirittura manualistici, non testimoniano forse un bisogno di Marx di conoscenze storiche in senso banale, confermato dal fatto che per i periodi antichi egli si dedica a lunghe cronologie?

Del resto, nella rievocazione del 1859 egli stesso afferma (p. 957) che "il filo conduttore", da cui sarebbero stati guidati i suoi studi successivi, era stato scoperto a Kreuznach; ma pone questa scoperta dopo l'episodio parigino, quando si immerge nell'economia politica, approfondisce l'esame di alcuni socialisti francesi e si lega definitivamente in amicizia eon Engels. È vero che, fin dal principio del 1844, nell'Introduzione a Per la critica della filosofia del diritto di Hegel e, qua e là, nella Questione ebraica, ritrova, e con maggiore chiarezza, le formule del 1842 sull'anteriorità della società civile nei confronti dello Stato, una formula in cui Engels ha visto il vero passo in avanti. Ma nello stesso numero degli "Annali franco-tedeschi", Engels aveva pubblicato per parte sua Lineamenti di una critica dell'economia politica, che Marx, quindici anni dopo, definirà ancora "geniale". Naturalmente ciò che importa - senza volerne fare un'altra "svolta decisiva" - è appunto questa congiunzione, poiché giudico progressiva ogni conquista del pensiero. Così, se non è superfluo notare che i due amici hanno creduto di essere arrivati allo stesso risultato per vie distinte - Engels per una via induttiva, a partire dai fatti inglesi, Marx per via deduttiva, attraverso la critica di Hegel - nemmeno questo mi sembra fondamentale: Engels, infatti, non si era sottratto all'atmosfera hegeliana, e Marx, come si è visto, aveva tratto a sua volta la lezione dei fatti. La congiunzione, per l'uno e per l'altro, era stata anzitutto interiore, e il loro incontro fu tanto più fecondo in quanto rivelò loro questo fatto.

Quando nel 1845 decisero di collaborare quotidianamente, erano in ogni caso in possesso di due certezze:

1) l'economia politica è, nella giustificazione delle società moderne, la sola teoria che possa valere come punto di partenza scientifico, e quindi è necessario dedicarsi alla sua critica e alla sua ricostruzione: dai Lineamenti di Engels al Capitale di Marx, le parole "critica dell'economia politica" continueranno a figurare nei loro progetti e nelle loro opere;

2) appariva invece necessario abbandonare la filosofia, e in particolare il terreno malsano delle costruzioni posthegeliane.

Ciò che ancora non potevano sapere era che non sarebbe bastata tut­ta la loro vita per condurre a termine il primo progetto (nel 1844 si erano fatti delle illusioni sulle loro conoscenze economiche, ma ormai non avrebbero più pubblicato niente senza essere pienamente sicuri del fatto loro), mentre il loro "esame di coscienza filosofico" sarebbe stato rapidamente liquidato e finalmente abbandonato alla ben nota "rodente critica dei topi". Tuttavia, fra il duro nocciolo dell'economia, sede dell''"ultima istanza" così difficile da afferrare, e l'involucro inconsistente dell'interpretazione dei filosofi si inserisce la nebulosa dei fatti sociali, politici, giuridici, ideologici, che costituisce una materia d'insieme da ordinare e da sottoporre nella sua coesione a una ricerca scientifica, lecita quanto lo è quella dedicata all'economia, trattata erratamente nell'isolamento. Decisamente, per Marx ed Engels, proprio questa materia d'insieme costituisce il nuovo oggetto della scienza: lo chiameranno storia? "Wir kennen nur cine einzige Wissenschaft, die Wissenschaft der Geschichte": "noi conosciamo una sola scienza, la scienza della storia"'. Lo storico marxista vorrebbe poter invocare, in appoggio alla propria vocazione, una legittimazione tanto solenne. Purtroppo si tratta di una frase cancellata in un libro rimasto inedito. Ciò non può non suscitare qualche scrupolo. Tuttavia, proprio nell'Ideologia tedesca viene veramente affrontato il problema della storia come scienza.

Le stesse esitazioni possono essere istruttive: frasi cancellate, ripresa in margine della parola "Geschichte", suo uso in diversi significati. Di questa parola, Hegel e i suoi discepoli avevano usato e abusato. Ma gli storici di mestiere ne offrivano forse un'applicazione migliore? Nel 1845 Marx aveva compiuto qualche esperienza nel loro campo: anzitutto leggendo i lavori di altri; poi arrivando - con un passo avanti che troppi presunti marxisti preferiscono risparmiarsi - sino alle fonti, agli antichi testi, a documenti di prima mano. Per un certo periodo di tempo era giunto a pensare di scrivere una storia della Convenzione, ma alla fine vi rinunciò.

Rinunciava in tal modo al mestiere dello storico? Sarei portato a dire: al contrario. Egli sentiva piuttosto che, dedicandosi a un solo aspetto - in questo caso, quello politico - di un solo episodio, per importante e analizzato a fondo che fosse, avrebbe confermato la tradizionale definizione della storia - la ricerca del fatto particolare - mentre era necessario prima di tutto mettere in luce, per la materia storica, non i principi di una filosofia, ma quelli di un approccio scientifico sistematico. Questi principi (Voraussetzungen, di cui Marx rimprovera gli storici tedeschi di non avete avvertito il bisogno) sono posti dall'Ideologia tedesca, sia pure meno chiaramente di quanto faccia nel 1859 nella Prefazione a Per la critica dell'economia politica, perché l'Ideologia tedesca, opera polemica incompiuta, non è ancora del tutto libera dalle forme di espressione - e quindi di pensiero - contro cui intende combattere. Nondimeno vi sono talvolta parole, formule, pagine, che sviluppano l'essenziale di ciò che deve guidare un giorno il lavoro storico. E poiché l'ossessione del nocciolo economico impedirà a Marx, più tardi, di tornare a lungo sul materialismo storico considerato come un tutto, non sarà male - anziché ripetere ancora una volta le frasi del 1859 - guardare sorgere fin dal 1845, sia pure in forma imperfetta, l'impalcatura di premesse e ragionamenti che sosterrà da allora in poi, per chi vorrà capirli, ogni costruzione storica degna di questo nome.

E prima di tutto, gli uomini "fanno la storia"? Siamo davanti, qui, alla frase famosa - "gli uomini fanno la loro storia" - che cento para­marxisti o pseudomarxisti scopriranno, riscopriranno, ripeteranno, deformeranno e al caso falsificheranno, per reintrodurre nel materialismo di Marx idealismo e volontarismo. Ora, nell'Ideologia tedesca, le parole "Geschichte machen" compaiono fra virgolette ironiche e dubitative. Non che Marx voglia escludere dalla storia l'azione degli uomini, poiché distingue una "storia della natura", esterna a questa azione, e una "storia degli uomini " che è interazione fra la natura e loro. Ma l'ironia contenuta nelle virgolette di "Geschichte machen" si rivolge non solo contro Hegel e gli ideologhi tedeschi, ma contro l'immensa illusione della quasi totalità delle storiografie delle origini.

Non è forse significativo che qui Marx - quasi seguendo casualmente una polemica giovanile - pervenga alla denuncia di una delle grandi debolezze dell'uomo davanti al suo passato, rivelata dallo stesso vocabolario? Per la tradizione, la storia comincia con la scrittura, ossia quando l'uomo, mediante la scrittura, può assumersene la responsabilità. Prima di questo c'è la preistoria. Così non vi sarebbe storia se non ci fosse teologia, politica, letteratura. E viceversa, dove non c'è che preistoria, per mancanza di testimonianze di "fatti bruti" (ossia avvenimenti), la porta è aperta alle speculazioni, alle mille ipotesi, rapidamente rovesciate.

Marx ed Engels rimproverano tutto ciò ai "tedeschi", da giovani polemisti che attaccano l'avversario immediato, nazionale, quello che era stato fino a poco tempo prima il loro stesso ambiente. Eppure, proprio questo modo di pensare non è forse ancora vivo? I nostri studiosi di preistoria, davanti a un materiale fattosi sterminato e apparentemente meglio preservato dalle tentazioni ideologiche, hanno sembianti di "scienziati" più degli storici: ma non sono forse fermi sempre allo stadio delle constatazioni vuote di senso generale, miste a ipotesi sempre fragili? Solo quando compare l'iscrizione, la cronaca o il monumento, si ritraggono in ombra le realtà massicce, nella storiografia, a vantaggio di individui, di minoranze, di miti. Grosso problema: la nudità dei fatti che possiamo cogliere nella preistoria riguardante l'habitat, gli strumenti, la produzione, ci illumina insufficientemente; ma la testimonianza umana, non appena compare, ci inganna o si inganna. La scienza storica di domani sarà formata dalla combinazione meditata di un'informazione obiettiva, massiccia e involontaria con la lezione di documenti soggettivi sottoposti a una critica di fondo. Dobbiamo dire che in questo difficile sforzo siamo ancora ai primi passi.

3. Il primato della produzione e i rapporti fra gli uomini.

È facile comprendere, allora, nella Germania di quasi un secolo e mezzo fa, la reazione violenta di due spiriti esigenti di fronte alla superbia di uno Hegel, alle pretese "rivoluzionarie" dei suoi critici, alla pedanteria erudita delle "scuole storiche" in formazione. Né sorprende se, in tale reazione, più di un giudizio sfiora l'ingiustizia, davanti a una Germania giudicata "sottosviluppata" (il termine, naturalmente assente, sembra dover affiorare di continuo). Marx ed Engels, che stanno scoprendo gli storici della Rivoluzione francese e la letteratura economica e paraeconomica inglese, vi scoprono accenti sempre più vicini alle loro preoccupazioni. Ma vogliono procedere oltre, fino alla teoria della storia. E se, nell'Ideologia tedesca, parte di ciò che è polemica, filosofia o anche speculazione rivoluzionaria può apparire invecchiata, se ancora non vi troviamo la forza del Manifesto o la profondità del Capitale, certo vi notiamo già la presenza di formule innovatrici, essenziali per l'avvenire di ogni scienza umana, e schemi capaci di orientare, nella ricerca degli storici - anche quella più attuale - periodizzazioni e problematiche.

Anzitutto è il primato della produzione, primato di origine, che tuttavia non si confonde affatto con le ipotesi gratuite sulla genesi delle società, perché se è un fenomeno evidente, la sua evidenza si impone contro il senso comune, contro la storia tradizionale, che l'ha sempre trascurata:

Il primo atto storico di questi individui, mediante il quale si distinguono dalle bestie, non è che essi pensano, ma che cominciano a produrre i loro mezzi di sussistenza (p. 17).

Ora, tale fatto originale è la condizione fondamentale di tutta la storia: "producendo i loro mezzi di sussistenza, gli uomini producono indirettamente la loro stessa vita materiale".

Ma il termine "produzione" non è una chiave magica: la produzione dev'essere pensata in funzione della popolazione e delle relazioni degli uomini fra loro. Marx usa qui il termine "Verkehr", che egli stesso traduce in francese con il termine "commerce", evidentemente nel suo antico significato di relazioni di ogni sorta: fra queste relazioni, la popolazione e la produzione, vi è interazione continua:

Questa produzione non appare che con l'aumento della popolazione. E presoppone a sua volta relazioni fra gli individui. La forma di queste relazioni a sua volta è condizionata dalla produzione

Si forma così un "processo di vita attivo", che rende comprensibile la storia:

Non appena viene rappresentato questo processo di vita attivo, la storia cessa di essere una raccolta di fatti morti, come negli empiristi, che sono anch'essi astratti, o un'azione immaginaria di soggetti immaginari, come negli idealisti (pp. 22-23).

Dobbiamo accettare questa giusta accusa contro lo storico empirista, che si illude di essere "concreto", mentre spinge la nozione di "fatto in sé" al massimo dell'astrazione, un'astrazione inoperante. Ciò non significa naturalmente che si debba trascurare l'osservazione empirica: bisogna però che l'ipotesi - e innanzitutto l'ipotesi della razionalità del reale - organizzi l'osservazione che la conferma, la infirma o la rettifica:

Il fatto è dunque il seguente: individui determinati, che svolgono un'attività produttiva secondo un modo determinato, entrano in questi determinati rapporti sociali e politici. In ogni singolo caso l'osservazione empirica deve mostrare empiricamente e senza alcuna mistificazione e speculazione il legame fra l'organizzazione sociale e politica e la produzione (p. 21).

Marx non usa ancora la parola Struktur, parlando dell'"organizzazione sociale e politica", un termine latino e un'immagine architettonica, formale: scrive " Gliederung ", un 'immagine anatomica funzionale, che introduce l'utile nozione di articolazione.

L'ideologia tedesca non nasconde - anzi, le cancellature nel manoscritto lo sottolineano anche di più - quanto sia arduo "costruire" la storia senza perdersi nell'idealismo filosofico, pur facendo ricorso all'astrazione:

Con la rappresentazione della realtà la filosofia autonoma perde il suo mezzo vitale. Al suo posto può tutt'al più subentrate una sintesi dei risultati più generali che è possibile astratte dall'esame dello sviluppo storico degli uomini. Di per sé, separate dalla storia reale, queste astrazioni non hanno assolutamente valore. Esse possono servire soltanto a facilitare l'ordinamento del materiale storico, a indicare la successione dei suoi singoli strati. Ma non dànno affatto, come la filosofia, una ricetta o uno schema sui quali si possano ritagliate e sistemare le epoche storiche. La difficoltà comincia, al contrario, quando ci si dà allo studio e all'ordinamento del materiale, sia di un'epoca passata che del presente, a esporlo realmente. Il superamento di queste difficoltà è condizionato da presupposti che non possono affatto essere enunciati in questa sede, ma che risultano soltanto dallo studio del processo reale della vita e dell'azione degli individui di ciascuna epoca (p. 23).

Alcune parole cancellate (perché?) precisavano in che cosa dovesse consistere l'esame e la classificazione dei materiali storici: "cercare l'interdipendenza reale, pratica delle loro diverse stratificazioni". È un'indicazione, a mio parere, importante. Forse Marx ha voluto rinunciare al termine "stratificazione"? In ogni modo, con le altre parole allontana un pericolo che, per parte mia, continuo ad avvertire nell'attuale vocabolario sociologico: né la storia, né la società presentano "strati" disposti staticamente, come in uno spaccato geologico o un giacimento archeologico. Le reliquie del passato in una realtà del presente, o le classi sociali in seno a un modo di produzione sono elementi attivi, in atto di ripiegamento o di progresso, di difesa o di attacco, mai immobili o indipendenti. La loro interdipendenza pratica, reale è l'oggetto stesso della ricerca e dell'esposizione storica. E certamente dovrebbe essere in ogni caso la maggiore preoccupazione per lo storico marxista. Il testo che abbiamo citato non ne è evidentemente "la prova"; ma esso indica come si formò in Marx e in Engeis una concezione della storia nuova e profonda, pienamente cosciente delle difficoltà e degli ostacoli che si frappongono quando si tratti di procedere fra la descrizione empirica priva di senso e l'astrazione tagliata fuori dalla storia reale.

Va anche detto che il carattere ancora filosofico dell'Ideologia tede­sca fa si che le sue lezioni, per quel che riguarda la nozione di storia, non sono soltanto tecniche, scientifiche, da tener presenti da parte dello storico, ma spesso sono anche considerazioni da inserire nel voluminoso incartamento di discussioni sulla storia, sulla necessità (o nocività) dello "spirito storico" in generale, se non di uno "storicismo" sistematico. "Pensare bene" storicamente, ancor prima di avere costruito il concetto di storia, non è forse una possibilità e al tempo stesso un'esigenza spirituale? Così, Marx ed Engels criticano Feuerbach, il quale "vede soltanto fabbriche e macchine a Manchester, dove un secolo fa erano solo filatoi e telai a mano, o scopre soltanto pascoli e paludi nella campagna di Roma, dove al tempo di Augusto non avrebbe trovato altro che vigneti e ville di capitalisti romani" (pp. 25-26).

Questa incapacità a pensare fuori del presente, di un mondo statico (e che solo una vera cultura storica può combattere) conduce Feuerbach e altri ancora - a contrapporre continuamente "storia" e "natura", una "natura che oggi non esiste più da nessuna parte, salvo forse in qualche isola corallina australiana di nuova formazione" (p. 26). E si osserva infatti, in polemica con Bruno Bauer, che aveva parlato delle "antitesi della natura e della storia": "come se fossero due "cose" separate, e l'uomo non avesse sempre di fronte a sé una natura storica e una storia naturale" (p. 25). Perciò "fin tanto che Feuerbaeh è materialista, per lui la storia non appare, e fin tanto che prende in considerazione la storia, non è un materialista" (p. 27). In effetti, se egli scorge nell'uomo un oggetto sensibile, non vede un'attività sensibile, e se in­voca un uomo reale, individuo, in carne ed ossa, si tratta di un uomo fatto di passioni e di sentimenti, non di un essere legato a necessità quotidiane, materiali. Con mezzo secolo di anticipo, sembra una critica rivolta a Miguel de Unamuno, che è del pari fautore, presso gli storici, dell'"uomo in carne ed ossa", ma nutre un sovrano disprezzo per le necessità reali.

Non disdegniamo troppo queste obiezioni rivolte a filosofie letterarie, senza dubbio piuttosto banali. Le formule brillanti intorno alla "storia" hanno più risonanza di una seria trattazione della realtà. Nonostante tutto è più importante che Marx ed Engels, nel loro "esame di coscienza filosofico", abbiano posto alcune basi positive del materialismo storico, anche se in modo imperfetto.

1) Vi sono stretti rapporti fra le forze produttive di cui una società dispone (e di cui è testimone la produttività del lavoro) e d'altra parte la divisione del lavoro, che determina le forme delle relazioni sociali (un insieme definito ancora "società civile"), poi tra il funzionamento di questa "società civile" e il movimento della storia politica, con i suoi "avvenimenti":

Non soltanto il rapporto di una nazione con altre, bensì anche l'intera organizzazione interna di questa stessa nazione dipende dal grado di sviluppo della sua produzione e delle sue relazioni interne ed esterne. Il grado di sviluppo delle forze produttive di una nazione è indicato nella maniera più chiara dal grado di sviluppo a cui è giunta la divisione del lavoro. Ogni nuova forza produttiva... porta come conseguenza un nuovo sviluppo nella divisione del lavoro... I diversi stadi di sviluppo della divisione del lavoro sono altrettante forme diverse della proprietà; vale a dire, ciascun nuovo stadio della divisione del lavoro determina anche i rapporti fra gli individui in relazione al materiale, allo strumento e al prodotto del lavoro (p. 18).

Questo vocabolario non è ancora "marxista": la "divisione del lavoro", cara agli economisti classici, vi ha una parte che le analisi ulteriori preciseranno e insieme distruggeranno. Ma vi sono già presenti osservazioni che troppi storici, anche marxisti, spesso dimenticano: non bisogna confondere crescita delle forze produttive ed "estensione puramente quantitativa delle forze produttive già note (per esempio il dissodamento dei terreni) ", quando la grande estensione delle terre incolte condiziona le forme primitive della proprietà. Osserviamo questo contro l'indebita applicazione di leggi economiche moderne a società che esse non possono regolare: teniamo presente che se Marx ed Engels, così tesi verso l'avvenire e portati all'azione immediata, si sono tanto spesso riferiti ai modi più primitivi di produzione, è stato perché questi modi di produzione hanno occupato, nel tempo e nello spazio, un posto maggiore delle forme economiche che ci ossessionano. Si viene così delineando una legge fondamentale: la corrispondenza tra forze produttive e rapporti sociali di produzione.

2) Fra queste realtà e le rappresentazioni che se ne fanno gli uomini, il rapporto non va nel senso rappresentazione→realtà, ma in quello realtà→ rappresentazione.

Sono gli uomini i produttori delle loro rappresentazioni, idee, ecc., ma gli uomini reali, operanti, così come sono condizionati da un determinato sviluppo delle loro forze produttive e dalle relazioni che vi corrispondono fino alle loro formazioni più estese... Di conseguenza la morale, la religione, la metafisica e ogni altra forma ideologica, e le forme di coscienza che ad esse corrispondono, non conservano oltre la parvenza dell'autonomia. Esse non hanno storia, non hanno sviluppo, ma gli uomini che sviluppano la loro produzione materiale e le loro relazioni materiali trasformano, insieme con questa loro realtà, anche il loro pensiero e i prodotti del loro pensiero. Non è la coscienza che determina la vita, ma la vita che determina la coscienza (p. 22).

La lotta antidealistica del 1845 ci offre a questo punto la sua chiarezza particolare. Dobbiamo tenere presente, come lezione per lo storico, la necessità di combattere - particolarmente urgente oggi - ogni storia delle idee, delle mentalità o delle scienze fondata su coerenze o filiazioni esclusivamente interne, formali, e non sulla connessione fra "produzione dei pensieri" (di qualunque ordine siano) e cambiamenti nei rapporti della vita sociale e materiale. In ogni momento, nella pratica storiografica, e soprattutto filosofica, fa la sua ricomparsa la minaccia di una trattazione autonoma dei fatti di pensiero: sotto apparenze, spesso, di grandi novità, è un ritorno alle facilità tradizionali.

3) Meno chiaro, forse, ma perfettamente presente nell'Ideologia tedesca è il tema della contraddizione fra rapporti di produzione e forze produttive, con le sue conseguenze rivoluzionarie:

Nello sviluppo delle forze produttive si presenta uno stadio nel quale vengono fatte sorgere forze produttive e mezzi di relazione che nelle situazioni esistenti fanno solo del male, e non sono più forze produttive ma forze distruttrici (macchine e denaro) e, in connessione con tutto ciò, viene fatta sorgere una classe che deve sopportare tutti i pesi della società, forzata al più deciso antagonismo contro le altre classi (p. 37).

E' la "coscienza comunista" nascente che per Marx ed Engels rivela nel presente una contraddizione embrionale e preannunzia (molto precocemente) un avvenire. Ma il ripetersi storico di queste transizioni rivoluzionarie mostra che si tratta del passato non meno dell'avvenire:

Le condizioni entro le quali possono essere impiegate determinate forze produttive sono le condizioni del dominio di una determinata classe della società, la cui potenza sociale, che scaturisce dal possesso di quelle forze, ha la sua espressione pratico-idealistica nella forma di Stato che si ha di volta in volta, e perciò ogni lotta rivoluzionaria si rivolge contro una classe che fino allora ha dominato.

4) Curiosamente, Marx ed Engels osservano che la storia tradizionale, e soprattutto gli economisti ammettono perfettamente che i livelli di sviluppo materiale diseguale dominino i rapporti e determinino le lotte fra le "nazioni". E in effetti, assai spesso l'ideologia, pur velando sistematicamente le realtà interne, giustifica con considerazioni sulle "superiorità" materiali e intellettuali fra gruppi le conquiste e le imprese coloniali:

I rapporti fra nazioni diverse dipendono dalla misura in cui ciascuna di esse ha sviluppato le sue forze produttive, la divisione del lavoro e le relazioni interne. Questa affermazione è generalmente accettata (p. 17).

L'ideologia tedesca arriva a suggerire, a proposito della Germania e della sua tormentata "coscienza nazionale" che la contraddizione fra rapporti e forze di produzione si produca, o meglio si manifesti "non all'interno di questa cerchia nazionale, ma fra questa coscienza nazionale e la prassi delle altre nazioni" (p. 30). I problemi attuali del sottosviluppo giustificano, sotto certi aspetti, questa intuizione precoce.

5) Tuttavia, se l'innovazione marxista non trascura, come si è visto, la divisione del mondo in gruppi organizzati - in "stati", mentre il concetto di "nazione" rimane problematico - la sua caratteristica essenziale consiste nel sostituire alla classica opposizione fra interesse "individuale" e interesse "collettivo" l'opposizione fra interessi di classi al potere e interessi di classi subordinate:

Ne consegue che tutte le lotte nell'ambito dello Stato, la lotta fra democrazia, aristocrazia e monarchia, la lotta per il diritto di voto, ecc. ecc., altro non sono che le forme illusorie nelle quali vengono condotte le lotte reali delle diverse classi.., e inoltre che ogni classe, la quale aspiri al dominio, anche quando, come nel caso del proletariato, il suo dominio implica il superamento di tutta la vecchia forma della società e del dominio in genere, deve dapprima conquistarsi il potere politico per rappresentare a sua volta il suo interesse come l'universale, essendovi costretta in un primo momento (p. 32).

Lo storico è dunque avvertito: sotto l'illusorio deve cercare il reale; sotto il politico, il sociale; sotto l'interesse generale, l'interesse di classe; sotto le forme dello Stato, le strutture della società civile:

Questa società civile è il vero focolare, il teatro di ogni storia, e si vede quanto sia assurda la concezione della storia finora corrente, che si limita alle azioni di capi e di Stati, e trascura i rapporti reali (p. 35).

Qui Marx ed Engels forzano un po' caricaturalmente, per le esigenze della loro polemica (come faranno del resto altri storici: basti pensare a Simiand, a Bloch, a Febvre), le caratteristiche della storiografia esistente: in realtà, non sono mai mancati parziali tentativi per illuminare i retroscena del gran teatro della storia; mentre però l'economia, la moneta, le leggi, le lingue erano considerate questioni riservate agli specialisti, si riservava ai retori e ai filosofi ufficiali il titolo di storici. Dopo Marx, nella seconda metà del secolo XIX, la storia positivistica, erudita moltiplicherà ancora i campi "specializzati", e fra questi la storia politica, deviata verso l'aneddotica e sempre separata dai fenomeni sociali, mentre nei manuali le immagini oleografiche dei "grandi avvenimenti" e dei giudizi morali sostituiranno la storiografia di corte. Ciò avverrà, in questo caso, per una reazione a Marx, semicosciente e quasi inespressa, in quanto il silenzio favoriva, più dei tentativi di confutazione, la lotta contro una storia dalle conclusioni rivoluzionarie. Tanto è vero che nel nostro secolo, la riscoperta di una storia che supera "l'avvenimento", nella ricerca dei "rapporti reali", potrà farsi senza riferimento a Marx, e di qui, nonostante i suoi meriti, con una notevole insufficienza teorica e un'eccessiva illusione di novità. Il che non ha impedito di avvertirne la pericolosità e di suscitare l'offensiva spontanea dello strutturalismo astorico e di una sociologia antistorica. Un episodio che potrebbe essere illustrato da questa battuta dell'Ideologia tedesca: "Quasi tutta l'ideologia si riduce o a una concezione falsata [della] storia o a un'astrazione completa da essa. L'ideologia stessa è soltanto uno degli aspetti di questa storia" (p. 14).

6) Questa rimozione (o questo seppellimento sotto teorie conservatrici) di ogni scienza umana rivoluzionaria è storicamente significativo:

Le idee della classe dominante sono in ogni epoca le idee dominanti; cioè, la classe che è la potenza materiale dominante della società è in pari tempo la sua potenza spirituale dominante. La classe che dispone dei mezzi della produzione materiale dispone con ciò, in pari tempo, dei mezzi della produzione intellettuale, cosicché ad essa in complesso sono assoggettate le idee di coloro ai quali mancano i mezzi della produzione intellettuale. Le idee dominanti non sono altro che l'espressione ideale dei rapporti materiali dominanti, sono i rapporti materiali dominanti presi come idee: sono dunque l'espressione dei rapporti che appunto fanno di una classe la classe dominante, e dunque sono le idee del suo dominio (p. 44).

Si tratta di un altro grande problema: lo storico deve (e può?) pensare una società d'altri tempi secondo criteri attuali, che sono, a loro volta, prodotti sociali, prodotti storici? Incorrerebbe così nell'anacronismo, un peccato capitale secondo Lucien Fehvre, che lo combatté a proposito degli studi su Rabelais. Ma a che cosa serve definire una "società di ordini" come una società in cui l'uomo comune riconosce una gerarchia di "ordini", o dire che un vassallo era legato al suo sovrano dal concetto di "fedeltà"?

Se nel considerare il corso della storia si svincolano le idee della classe dominante dalla classe dominante e si rendono autonome, se ci si limita a dire che in un'epoca hanno dominato queste o quelle idee, senza preoccuparsi delle condizioni della produzione e dei produttori di queste idee, e se quindi si ignorano gli individui e le situazioni del mondo che stanno alla base di queste idee, allora si potrà dire per esempio che al tempo in cui dominava l'aristocrazia dominavano i concetti di onore, di fedeltà, ecc., e che durante il dominio della borghesia dominavano i concetti di libertà, di uguaglianza, ecc... Mentre nella vita ordinaria qualsiasi shopkeeper [bottegaio] sa distinguere benissimo fra ciò che ciascuno pretende di essere e ciò che realmente è, la nostra storiografia non è ancora arrivata a questa ovvia conoscenza. Essa crede sulla parola ciò che ogni epoca dice e immagina di se stessa (pp. 45 e 48).

Si obietterà: ma il mestiere dello storico non consiste proprio nello riscoprire lo spirito degli uomini di un tempo, "risuscitandoli" nella loro vita e nei loro pensieri collettivi? Certo, questa "storia-risurrezione" ha ottenuto dei successi, assicurando notevoli soddisfazioni all'intelligenza. Ma essa non è la storia-scienza, scienza delle società, destinata a osservare il loro sviluppo, a smontarne i meccanismi. Questo tipo di conoscenza non può accontentarsi di evocazioni e di ricostruzioni, ma esige analisi di coerenze, in cui tutti i fattori interdipendenti devono figurare. Dire che la storia è "fatta" dalle "idee" o dalla "psicologia" è non meno tautologico e assurdo che definire "psicologico" un fenomeno economico; certo, ogni risultante statistica esprime "decisioni individuali", "psicologiche", ma nel corso di un processo inflazionistico la "propensione a spendere" non porterà un manovale a frequentare alberghi di lusso. La stessa psicanalisi, nonostante le sue premesse materialistiche, non è una base sufficientemente solida per l'analisi storica: può illuminare delle forme, assunte in taluni casi dalle reazioni umane, ma non chiarisce nel profondo i fatti sociali che le giustificano. A quasi un secolo e mezzo dalla stesura dell'Ideologia tedesca c'è da domandarsi quanta parte della letteratura storica sfugga ancora oggi alle ingenuità che quell'opera criticava nell'assunzione delle fonti.

7) Vorrei sottolineare ancora un punto a proposito delle classi, su cui questo libro fornisce indicazioni ancora utili allo storico, al sociologo, allo studioso delle nostre società. Spesso l'opera marxiana è stata accusata di difettare di chiarezza nei confronti della nozione di "classe", sia per l'incompiutezza, nel Capitale, delle pagine che avrebbero dovuto trattarne, sia per l'estremo schematismo delle contraddizioni attribuite al capitalismo (borghesia, proletariato), sia per l'utilizzazione, invece, nelle trattazioni storiche (sulla Germania, sull'Inghilterra, sulla Francia) di un vocabolario complesso e mal definito (proprietari, industriali, piccoli borghesi, contadini, ecc.).

Mi è avvenuto di osservare (ma la dimostrazione richiederebbe un grosso volume) che il gioco fra semplicità e complessità nel sistema delle classi dipende in misura notevole - non in Marx, ma nella realtà - dallo stadio raggiunto dal modo di produzione analizzato, in quanto le divisioni semplici (tripartizione feudale, bipartizione capitalistica) caratterizzano i momenti di apogeo nelle formazioni sociali che sono prossime al modello, mentre i sistemi si complicano, o dànno l'illusione di complicarsi nei momenti di transizione, in cui sviluppo e sottosviluppo, destrutturazioni e nuove strutturazioni si intrecciano. Inoltre non è difficile distinguere, nelle classi più coerenti, concorrenze fra categorie, gruppi legati inegualmente a certe caratteristiche della produzione, si tratti di divisioni secondarie all'interno delle classi dominanti (industriali-agricoltori, importatori-esportatori, prestatori-debitori) oppure delle "contraddizioni in seno al popolo". Da tempo è diventata classica la differenza fra contraddizione e antinomia. Finalmente, nella manifestazione delle lotte di classi un problema particolare è posto dal gioco complesso dei movimenti intellettuali, dalle pretese delle classi sacerdotali o del loro equivalente attuale, il "terzo potere".

Ora, proprio nell'Ideologia tedesca esistono alcuni passi particolarmente illuminanti sulle sfumature che si delineano o scompaiono, a seconda dell'acuirsi mutevole delle lotte di classe, fra le categorie di una medesima classe o fra i membri "attivi" di una classe dominante e i suoi "intellettuali": non appena un pericolo rivoluzionario mette in discussione il potere di classe, l'apparente complessità cede rapidamente luogo alla semplificazione.

La divisione del lavoro, che abbiamo già visto come una delle forze principali della storia finora trascorsa, si manifesta anche nella classe dominante come divisione del lavoro intellettuale e manuale, cosicché all'interno di questa classe una parte si presenta costituita dai pensatori della classe (i suoi ideologi attivi, concettivi, i quali dell'elaborazione dell'illusione di questa classe su se stessa fanno il loro mestiere principale), mentre gli altri nei confronti di queste idee e di queste illusioni hanno un atteggiamento più passivo e più ricettivo, giacché in realtà sono i membri attivi di questa classe e hanno meno tempo di farsi delle idee e delle illusioni su se stessi. All'interno di questa classe questa scissione può addirittura svilupparsi fino a creare fra le due parti una certa opposizione e una certa ostilità, che tuttavia cade da sé se sopraggiunge una collisione pratica che metta in pericolo la classe stessa: allora si dilegua anche la parvenza che le idee dominanti non siano le idee della classe dominante e abbiano un potere distinto dal potete di questa classe (p. 45).

È un passo cui dovrebbe ispirarsi ogni studioso di storia, quando si trovi davanti a un conflitto sostenuto dagli "intellettuali" in un momento particolare della lotta sociale: a quale classe appartengono questi intellettuali? quale classe mette in gioco l'ideologia che essi sostengono? come reagisce questa classe? Nel nostro tempo, in cui parole come "borghesia", "proletario", "potere", "democrazia", "burocrazia", "ideologia" sono impiegate tanto impropriamente e imprudentemente (per non dire in modo così tortuoso), queste domande servono a distinguere (o a guardarsi dal confondere) i conflitti apparenti dai conflitti reali, le classi da tempo al potere da quelle pervenutevi di recente, gli apparati ideologici tradizionali, pseudorivoluzionarie, controrivoluzionarie. Il compito del politico non è diverso da quello dello storico, in questo caso, con la differenza che lo storico, conoscendo gli sbocchi della lotta, è illuminato nella sua analisi. Ma proprio per questo, la politica diventerà scienza solo quando lo sarà la storia.

Certo, L'ideologia tedesca non è un libro di storia; ma è sicuramente opera di storici: anzitutto per i principi che abbiamo tratto dal testo, più espliciti, meno esposti all'esegesi imprudente di talune formulazioni ulteriori, sintetizzate, seducenti per la loro concisione; poi, per alcuni sviluppi parziali, che saranno invece meglio trattati negli scritti più tardi, ma dove già si delinea la padronanza nell'esposizione, seppure a gradi diversi d'informazione. Conosciamo a sufficienza le letture di Marx contemporanee all'Ideologia tedesca per essere in grado di misurare il progresso che stava compiendo nella conoscenza del passato delle tecniche, delle economie, della storia sociale. Ne deriva che se la sua visione sociologica, in assenza del concetto centrale di "modo di produzione", ci appare ancora piuttosto vaga e non sufficientemente fondata, per l'uso di termini generali come "divisione del lavoro", "rapporti città-campagna", "succedersi di tipi diversi di proprietà", non pochi episodi decisivi della storia d'Europa vi sono colti e caratterizzati con straordinaria efficacia: l'impotenza delle rivolte medievali, la nascita della manifattura, il ruolo del vagabondaggio all'origine dell'età moderna, la comparsa nel grande commercio di una borghesia "grande" rispetto ai manifatturieri e agli artigiani, ma "piccola" in confronto all'impresa industriale contemporanea, duplice carattere del capitalismo: nazionale e protezionista, mondiale e liberoscambista, a seconda dei momenti; senza dimenticare l'osservazione così pregnante sul destino degli Stati Uniti, un mondo capitalistico senza retaggi d'altri tempi, libero davanti a liberi spazi. Questa capacità di afferrare le proporzioni, i fatti decisivi, e soprattutto questa assenza di fraintendimenti, anche quando l'informazione è lacunosa, rivelano la genialità di Marx e di Engels di fronte alla materia storica, non appena l'hanno scoperta e non appena hanno scoperto se stessi.

Né meno istruttivo è scoprirli già allora storici critici, intenti ad applicare un minuzioso confronto testuale ai plagi di Karl Grim (pp. 511 sgg.), o a volgere in ridicolo le "geschichtliche Reflexionen" di Max Stirner (pp. 119 sgg.), che hanno il difetto per l'appunto di non essere "storiche", nei loro tentativo di trovare una corrispondenza fra età e razze (infanzia-giovinezza-maturità = negri-mongoli-caucasiani), oppure a satireggiare l'identificazione, da parte di "san Max", del dogmatismo di Robespierre e del dogmatismo papale (p. 171). Se è lecito domandarsi se ciò valeva davvero la loro critica (e del resto proprio quest'opera venne abbandonata alla "rodente critica dei topi"), va pur detto che questa reazione in nome della storia contro certi assurdi confronti attraverso i tempi ci rivela un atteggiamento quanto mai sensibile ai bisogni del nostro tempo. La sovrapproduzione intellettuale, pseudoscientifica e pseudorivoluzionaria della Germania del 1840 sembra mostrare qualche affinità con certa pubblicistica dei nostri giorni: chi farà l'esame di coscienza della nostra "ideologia", di tutti i nostri peccati contro la storia?

4. "Una chiave che spieghi la direzione degli eventi".

Un nuovo passo verrà compiuto da Marx ed Engels nel 1847. Non tanto nella Miseria della filosofia, dove la critica iniziale delle robinsonate antistoriche cedono rapidamente il passo alle controversie logiche, e dove capita che formulazioni troppo schematiche offrano il destro a facili condanne o a citazioni infelici di cattivi marxisti: "Il mulino a braccia vi darà la società col signore feudale, e il mulino a vapore la società col capitalista industriale"'. In realtà, tutta l'opera di Marx contraddice questo schematismo, spiegabile solo nel suo contesto di replica a Proudhon, che invertiva il rapporto fra categorie economiche e realtà. Ciò nonostante la Miseria della filosofia offre allo storico analisi modello (macchinismo, scioperi considerati come prodotti e fattori della storia al tempo stesso).

Ma in quello stesso anno il Manifesto del Partito comunista esplode innovatore, tanto la letteratura storica universale, per le difficoltà che rileverà Fustel de Coulange, manca di vere sintesi, di sguardi generali capaci di mostrare i caratteri originali della storia. Ho sempre avuto il sospetto che l'affermazione di Raymond Aron: "la ricerca delle cause nella storia ha il senso, più che di delineare a grandi tratti il panorama della storia, di restituire al passato l'incertezza dell'avvenire", derivi da una certa paura per la storia attribuita alla borghesia nel Manifesto. Che un quadro così splendente dei trionfi storici della borghesia ne annunzi anche il declino, era certo un presagio di malaugurio da esorcizzare! La storia positivistica si dedicò a questa bisogna, sforzandosi di sospingere Marx nella "filosofia della storia" e di ridurre le "previsioni" del Manifesto al rango di profezie inadempiute. In realtà se nella frase con cui si apre il Manifesto: "Uno spettro si aggira per l'Europa, lo spettro del comunismo", sostituiamo "mondo" a "Europa", ne potremo misurare tutta l'attualità.

Mi si consenta un ricordo personale: in un campo di prigionia per ufficiali nella Germania del 1943 mi permisi il lusso (non troppo pericoloso, in verità, grazie all'ignoranza dei nostri sorveglianti) di leggere il Manifesto davanti a un uditorio numeroso, interdetto e teso. Un mio vecchio amico, storico di vaglia e grande professore di storia, esclamò: "Che testo! Si crede sempre di conoscerlo a memoria, e si è sempre sorpresi quando lo si rilegge". In effetti quel disegno di storia universale dal crepuscolo del Medioevo ai nostri tempi - che non è, beninteso, una "descrizione" del mondo, ma un esame dei "settori" e dei "fattori" che l'hanno trasformato - è oggi confermato e assimilato (ma anche diluito e reso asettico) attraverso l'informazione comune, tanto che il suo contenuto può apparire banale e l'esposizione solo brillante, fino a consentire di disprezzarne la sostanza ("sono cose che si sanno da tempo") e di ridurne la portata rivoluzionaria alle qualità formali. Ma chi poteva scrivere storia in quel modo nel 1847? Come ha fatto notare, ad altro proposito, Althusser, Marx è tanto nuovo nel suo tempo, che si tarda a capirlo. Il Manifesto si diffonderà solo dopo il 1870. Evidentemente non era uscito dal nulla: c'era stato Adam Smith, gli storici francesi del Terzo stato e quella strana congiunzione di curiosità che fece nascere, verso la metà del secolo XIX, la storia economica tedesca; ma Smith era diventato un riferimento convenzionale per gli economisti e la storia economica tedesca si chiuderà nell'empirismo erudito. Il Manifesto resta invece il primo capolavoro della storia-sintesi, della storia-spiegazione.

Non è mio compito, qui, trattarne come di strumento rivoluzionario; vorrei invece accennare rapidamente al valore della terza parte del Manifesto, spesso trascurata, che è invece una vera e propria lezione di metodo di grande valore. Sotto lo stesso vocabolo, "socialismo", si tratta di capire che cosa si propongano diverse classi: il "socialismo feudale", il "socialismo clericale" delle classi da poco spossessate dalla borghesia; il "socialismo piccolo-borghese" delle classi che essa minaccia; il "socialismo conservatore o borghese" concepito come diga controrivoluzionaria; le varie forme di "socialismo critico-utopistico", capaci di sedurre taluni settori del proletariato, ma destinate a cadere rapidamente nel settarismo impotente. Vi è qui la demistificazione di una parola attraverso l'analisi di classe, nella particolare congiuntura di un tempo: è il lavoro di uno storico, che verrà ripreso e consapevolmente calcato nel 1904, per il termine "nazionalismo", dal giovane Stalin, che a sua volta giungerà a redigere un testo essenziale non solo per la letteratura marxista, ma per la storiografia.

Proprio a causa dell'importanza metodologica di frammenti assai meno citati di altri, mi è avvenuto di deplorare l'abitudine generalmente diffusa di considerare come "opere storiche" di Marx ed Engels - oltre, naturalmente, alla Guerra dei contadini - soltanto Rivoluzione e controrivoluzione in Germania, Le lotte di classe in Francia, Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte e La guerra civile in Francia. La mia deplorazione è assai relativa, perché evidentemente si tratta certo di grandi opere storiche; temo, però, che siano riconosciute tali solo perché, più di altri lavori di Marx ed Engels, assomigliano alla storia tradizionale, fatta di partiti, di uomini politici, di elezioni, sommosse, repressioni, ecc. E poiché da qualche lustro è moda corrente spargere su tutto quanto la salsa economico-sociale (crisi economiche, strutture della società, "borghesia", "proletariato", lotte operaie), capita che si dimentichi - come per il Manifesto - che non è Marx che scriveva come noi, ma noi che vorremmo scrivere come lui. Pensare come lui, è più difficile.

Nelle cosiddette "opere storiche" che abbiamo menzionato (e così pure nella Guerra dei contadini) si tratta sempre di rivoluzioni che sono fallite. E il primo consiglio dato da Marx ed Engels agli storici e ai politici (soprattutto ai politici sconfitti) per quel che riguarda gli esiti negativi di quegli avvenimenti è di non prendersela con il signor X o il cittadino Y - e oggi dovremmo aggiungere il compagno Z - perché se "il popolo" (le virgolette sono di Engels) è stato "ingannato" o "tradito", è pur necessario spiegare perché ciò sia potuto avvenire. Né offrono una risposta più chiarificatrice gli errori collettivi (di un partito, dei contadini, dei piccoli borghesi, ecc.). È l'intera situazione storica che va ripensata. E subito dopo un altro pericolo minaccia: il meccanismo, il fatalismo delle "condizioni", che cancella ogni responsabilità e finisce col far considerare legittimo ogni avvenimento.

Come distinguere allora - fra "per colpa di... " e "non poteva accadere diversamente" - le condizioni necessarie e sufficienti, i giudizi e gli atti che le hanno colte, valutate o utilizzate, orientando o lasciando scorrere gli avvenimenti? La considerazione storica globale è assai più complessa dei dati obiettivi della strategia militare, ed è caricaturale presentare le decisioni politiche come un libero calcolo della teoria dei giochi: i gruppi e gli individui sono essi stessi portatori di decisioni loro particolari e, in quasi tutta la storia, hanno agito soltanto istintivamente, empiricamente. Lo storico, giudicando a posteriori, confronta i risultati delle decisioni con le condizioni di cui avrebbero dovuto tenere conto. Secondo Raymond Aron, si colloca di nuovo volontariamente nell'incertezza; secondo Marx, cerca di ridurla attraverso il ragionamento e l'informazione. La definizione di Aron si addice agli storici classici, da Tucidide in poi; l'innovazione di Marx ed Engels ha per fine: 1) di dissipare le illusioni sulla libertà delle decisioni individuali, non certo "determinata", ma segnata profondamente dall'appartenenza a una classe dei responsabili e dalle posizioni che quella classe assume; 2) di valutare la portata e di precisare il tipo di informazione che è spesso mancata al politico; 3) di distinguere fra l'apparenza dei problemi posti (misure economiche, tipi di potere, argomenti morali) e la realtà, costituita dalle lotte di classi.

Il primo lavoro consiste dunque nell'esaminare complessivamente (Zusarnmensetzung) le classi sociali interessate: niente "stratificazioni", ma analisi degli interessi, delle aspirazioni, delle capacità reciproche. Il secondo lavoro sta nel collocare i problemi nel tempo e nello spazio: oggi diciamo analisi della struttura e analisi della congiuntura, ma con tali termini non introduciamo niente che non fosse già nel metodo di Marx. Il quadro così equilibrato fra analisi delle condizioni materiali e osservazioni di carattere psicologico che apre Le lotte di classe in Francia si conclude con l'evocazione rapida di due avvenimenti economici mondiali: i) la crisi alimentare (oggi diremmo "crisi di tipo antico": malattia della patata, cattivi raccolti, carestie, sommosse contadine), 2) la crisi generale del commercio e dell'industria, una crisi capitalistica la cui natura e periodicità erano già state indicate nel Manifesto.

Si dimentica spesso, però, di mettere in rapporto questa indicazione congiunturale con la ventina di pagine, pubblicate negli stessi fascicoli della "Neue Rheinische Zeitung" del 1850 (Rassegna. Dal maggio all'ottobre ), in cui viene esaminato, sulla base di una documentazione imponente, il ciclo (piuttosto che la crisi) di dimensioni mondiali: il ritorno alla prosperità vi è studiato e indicato come tale da annientare momentaneamente le condizioni rivoluzionarie, con una sola certezza: "una nuova rivoluzione non è possibile se non in seguito a una nuova crisi: l'una però è altrettanto sicura quanto l'altra" (p. 356). In effetti Marx, quando ha bisogno, come nelle Lotte di classe in Francia, di analizzare il fattore congiunturale di una crisi politica, lo fa con discrezione, ben consapevole della pesantezza delle cifre e della debole eco che hanno i nomi troppo remoti; tuttavia la sua documentazione è sempre di gran lunga superiore all'espressione condensata che egli giudica opportuno mantenere al suo lavoro. Viene fatto di pensare a quante volte, nell'attuale "politologia", possiamo facilmente intuire la superficialità delle allusioni all'economia, mentre le riviste economiche accumulano tabelle di numeri e curve, a volte come se l'economia fosse puro meccanismo, a volte come se solo le politiche economiche fossero determinanti e non le forze sociali che le ispirano.

Varrà la pena di considerare anche talune particolarità di composizione nelle cosiddette "opere storiche" di Marx ed Engels. Gli storici d'oggi che giudicano necessario prospettare (quando non credono addirittura di scoprire) la struttura di una società, la congiuntura di un'epoca e gli avvenimenti di un certo periodo, tendono spesso a esporre successivamente questi tre aspetti della storia globale, separandoli in parti distinte. Il procedimento è logico, quindi è legittimo. Ma è anche pericoloso in quanto, nell'analisi degli avvenimenti, si rischia di cogliere imperfettamente ciò che li collega alle strutture e alle congiunture. Marx ed Engels evitano il pericolo di questo piano rigido, pedagogico, convenzionale: per loro, ciò che importa è la forza dei collegamenti. L'esposizione degli avvenimenti può dunque a volte precedere, a volte seguire la loro spiegazione; talvolta l'avvenimento può spingere a insistere sulla congiuntura piuttosto che sulla struttura, oppure il contrario. In tal modo, come ha osservato Schumpeter, la storia di Marx non separa né mescola il momento economico, quello sociale, quello politico e il puro accadimento, ma li combina insieme. Per di più questa "storia ragionata", per lo spontaneo scaturire degli argomenti, per l'alacrità e l'ironia del racconto, è una storia viva.

Ma è anche una storia militante. E al tempo stesso, direttamente o per allusioni, è una storia di attualità. In questo si colloca all'opposto della storia positivistica, che pretende di essere obiettiva e richiede un distacco temporale, salvo poi ridurre la storia a mera curiosità verso il passato, deliberatamente "in-significante". Ogni racconto di avvenimenti, ogni analisi di cause, per le sue inevitabili scelte, copre un'ideologia, poco nociva quando è dichiarata, pericolosa quando è nascosta. E per quei che riguarda gli avvenimenti contemporanei, non vi è ra­gione perché la storia ne tralasci l'analisi, quando pullulano tante "politologie" e "sociologie", ma mi permetto di ripetere che, nella storia contemporanea, è disonesto volersi dichiarare obiettivi, quando ci si sa partigiani, ed è sciocco credersi obiettivi, quando si è partigiani (e chi non lo è?). Sia Marx che Engels, come pure i loro grandi discepoli, dichiarano apertamente la loro scelta politica e intendono servirla con le loro opere; sono però convinti che il modo migliore per giungere a questo sia un'analisi corretta, capace di dare una sufficiente intelligibilità agli avvenimenti, se non una scienza della materia storica, di cui ci hanno offerto i principi, e non ovviamente un apparato operativo buono a tutti gli usi.

Non sarà superfluo riflettere brevemente sul problema del modello marxista proposto agli studiosi di storia, perché molti marxisti tendono a ridurre questo modello al 18 brumaio, e gli antimarxisti affettano di disprezzare proprio questo genere di scritti, qualificati nel migliore dei casi come "giornalistici". In realtà, si tratta proprio di giornalismo, nel senso migliore del termine. E ciò comporta senza dubbio alcuni limiti, di cui Engels stesso per primo ci avverte:

Se dunque cerchiamo di esporre ai lettori della "Tribune" le cause che, mentre hanno reso inevitabile la rivoluzione tedesca del 1848, hanno condotto in modo altrettanto inevitabile alla sua temporanea repressione nel 1849 e nel 1850, non si attenderà da noi che diamo una storia completa degli avvenimenti che si sono svolti in questo paese. Gli avvenimenti ulteriori e il giudizio delle generazioni future decideranno quale parte di questa massa confusa di fatti apparentemente accidentali, incoerenti e incongrui, deve appartenere alla storia mondiale. Non è ancora arrivato il momento di accingersi a un compito simile; noi dobbiamo mantenerci entro i limiti del possibile, e ritenerci soddisfatti se riusciamo a scoprire cause razionali, basate su fatti indiscutibili, per spiegare gli avvenimenti essenziali, le vicende principali di quel movimento, e per avere una chiave che ci spieghi la direzione che la esplosione prossima e forse non molto lontana imprimerà al popolo tedesco.

La modestia di queste parole è pari alla precisione del vocabolario. Engels postula una razionalità della storia, che è passibile di essere penetrata: nell'immediato, da menti particolarmente acute, sia pure entro certi limiti posti da un'informazione necessariamente sommaria, da un tempo di riflessione relativamente breve, da un distacco temporale insufficiente, non per giungere all'"obiettività ", ma per poter considerare le conseguenze dei fatti studiati. Marx ed Engels non mi pare abbiano mai confuso storia e analisi politica dell'attualità. Hanno letto tanti libri di storici, come tante opere di economia, da critici severi, capaci di rifiutare e condannare, ma anche di assimilare. Si veda come Marx sa distinguere in Guizot lo storico chiaroveggente dal libellista fazioso. D'altra parte non troviamo mai, in Marx ed Engels, una condanna del mestiere dello storico, inteso come lavoro necessario per l'informazione, né della riflessione su qualsiasi momento del passato, purché intelligente: non è forse superfluo sottolinearlo oggi davanti a studenti o militanti politici portati a disprezzare l'erudizione storica, soprattutto quando non sia concentrata su avvenimenti rivoluzionari o sull'immediato. In effetti, tutta la storia - e in primo luogo quella delle classi dominanti - può e deve permettere di valutare le poste in gioco fondamentali nella lotta politica.

Le cosiddette "opere storiche" vanno dunque ricollocate nei limiti che gli stessi Marx ed Engels hanno ad esse assegnato secondo le circostanze della redazione. Rjazanov ha ricordato, nella prefazione al 18 brumaio, come la richiesta di Weydemeyer, che è all'origine di questo scritto, giungesse a Marx attraverso una lettera di Engels del 16 dicembre 1851, ed esigesse l'articolo entro quella settimana; Marx, il 19, annunziava a Weydemeyer un ritardo fino al 23; ma caduto gravemente malato, non inviò la prima parte del testo "che" il 1° gennaio 1852, e il resto "soltanto il 13 febbraio", scrive Rjazanov. Ammiriamo quel "che" e quel "soltanto", tenuto conto anche che Marx versava allora nella più nera miseria, con la famiglia stremata e quasi tutte le sue cose al monte di pietà. Quel che sorprende è la nascita di un lavoro come quello in simili condizioni. Engels aveva previsto soltanto un articolo abile, "diplomatico", ma che avrebbe potuto fare rumore se redatto da Marx, al quale aveva comunicato in termini brillanti, il 3 e l'11 dicembre, le sue impressioni sul colpo di Stato. Così Marx, messo alle strette per la sua prima spedizione a Weydemeyer, parafrasò il testo di Engels, redatto in termini immediati e familiari, mettendovi di suo il proprio genio letterario; così, il famoso esordio, con il ritorno delle tragedie storiche "come farsa" o la frase: "gli uomini fanno la propria storia, ma non la fanno in modo arbitrario, ecc." è stato tante volte citato, ricordato, imitato. Liebknecht è arrivato a evocare, a questo proposito, Tacito, Giovenale e Dante!

Ma è proprio questo il Marx storico? Marx stesso dice di no: non ha voluto - come ha rischiato di fare Victor Hugo - immortalare Bonaparte con insulti, bensì mostrare come le lotte di classe (e possiamo dire: la paura delle classi alte, la stupidità delle classi medie) abbiano potuto fare assurgere a eroi personaggi mediocri, se non grotteschi. E' una storia che il nostro secolo ha confermato con i Mussolini, gli Hitler, i Franco. La storia di una rivoluzione mancata non è "la storia di un crimine". E tutto ciò sprona, di fronte alle opere di Marx, a evitare il pastiche (non si imita l'inimitabile e non si scrive "il 18 brumaio" a proposito di un avvenimento qualsiasi), a cercare accuratamente, dietro lo stile brillante delle formule, la serietà di tutte le analisi, che ne costituiscono l'ordito, tenendo presente che soltanto l'insieme dei lavori di Marx e di Engels sui cinque anni di rivoluzione vissuta e meditata - dal 1847 al 1852 - ne è davvero la storia, e finalmente a non costruire sulla storia di un episodio, concretamente collocato nel tempo e nello spazio, generalizzazioni teoriche che gli autori non hanno voluto mettervi. Dire, come è stato fatto, che Marx ha riconosciuto l'esistenza di un "modo di produzione contadina" o "parcellaria", perché ha usato nel 1852 l'espressione Produktionweise a proposito dei contadini francesi, significa dimenticare che a quell'epoca non aveva ancora definito la sua teoria dei modi di produzione e che, paragonando la massa dei contadini francesi a un sacco di patate, rifiuta ad essa ogni sospetto di struttura coerente. Così la sua descrizione di crisi (4 milioni di poveri) non implica un'indicazione a proposito della controversa questione oggi discussa: le "conquiste" della Rivoluzione hanno creato una classe contadina soddisfatta, una Francia equilibrata o hanno compromesso - rallentando la proletarizzazione dei contadini - il ritmo dello "sviluppo" francese? Probabilmente sono vere entrambe le cose, ma la risposta sarà data solo da analisi approfondite, e chiederla a Marx è un modo davvero discutibile di rendergli omaggio.

Per contro, si è soliti esigere meno dai loro scritti considerati "politici", e non "storici", ossia dai mille articoli ispirati dall'" attualità ", senza parlare della loro immensa corrispondenza. Invece il contenuto storico di questi scritti è veramente notevole: in effetti, Marx ed Engels, da quei grandi giornalisti che erano, se non hanno giocato a fare i corrispondenti, né hanno praticato l'intervista, hanno studiato attraverso letture, sempre meditate in schede e annotazioni attente, non solo le opere correnti, vecchie e nuove, sulle varie questioni e la stampa dei principali paesi, ma ogni sorta di documenti - dai dibattiti parlamentari alle inchieste, dalla legislazione alle statistiche - da loro non solo utilizzati, ma citati abbondantemente. E hanno letto tutto ciò nelle lingue originali, perché scrivendo con pari disinvoltura in tedesco, in francese e in inglese, conoscevano anche l'italiano, poi il russo e lo spagnolo. Le loro varie citazioni e i diversi rinvii sono ineccepibili, e del resto le loro recensioni agli scritti di Carlyle o di Guizot sono degne delle migliori riviste specializzate. Insomma, dal punto di vista tecnico, lavorano come storici.

Tuttavia è veramente discutibile il procedimento, peraltro usato per quasi tutti i paesi e per un certo numero di questioni, di mettere insieme gli articoli sulla Persia o sulla Turchia, sulla guerra di Crimea o su Palmerston, sulla religione o sull'arte; meglio sarebbe distinguere accuratamente i frammenti improvvisati o redatti su richiesta dagli scritti più meditati (e spesso suggeriti proprio da quelli), mettendo in luce i metodi d'analisi comuni agli uni e agli altri. Se non per quel che riguarda l'economia (Marx) e le questioni militari (Engels), i nostri autori non si sono mai "specializzati", e piuttosto è l'intera storia del secolo XIX che può essere ripensata attraverso un'utilizzazione ragionata della loro opera.

Va detto peraltro che a Marx è capitato di ripensare una "storia" entro un ambito nazionale attraverso epoche successive. Mi riferisco al caso della Spagna, che conosco meglio di altri e che è forse più caratteristico. Dovendo trattare giornalisticamente le "rivoluzioni di Spagna" - e Marx sapeva perfettamente che, nonostante quel titolo, si trattava solo di pronunciamentos o di militarades - senti il bisogno di studiare più a fondo la Spagna "rivoluzionaria", che esisteva davvero, e per questo la Spagna in generale. Non scrisse però, una "storia della Spagna", ma si propose di pensare alla Spagna storicamente. Per questo studiò lo spagnolo e lesse negli originali Calderón e Lope de Vega. Possiamo osservare che, fin dall'Ideologia tedesca, amava citare Cervantes o Calderón: ma in traduzioni, e le allusioni erano letterarie, "umanistiche". Dopo il 1856, invece, si tratterà di allusioni storiche: don Chisciotte è ricordato nel Capitale come un inadattato al proprio tempo, un anacronismo, non un carattere. Negli articoli del 1856 la guerra d'indipendenza è ricostruita per contrasti: dalle guerriglie, azioni senza pensiero, alle Cortes di Cadice, pensiero senza azione. Ma anche la vecchia Spagna di Carlo V è giudicata senza forzature. E per il secolo XIX Marx trova in Marliani, lo storico e uomo politico liberale italo-spagnolo, una guida le cui formule ed espressioni "paramarxiste" dovettero colpirlo. Purtroppo. la Spagna avrebbe ignorato fino al 1930 circa questo quadro della propria storia schizzato da Marx, che sarà invece noto soltanto come un teorico remoto e fondamentalmente incompreso dai militanti rivoluzionari, nonostante gli sforzi di Engels e di Lafargue.

5. La storia universale come risultato.

All'indomani di questo notevole lavoro, dieci anni dopo il Manifesto, Marx riprende in una Introduzione (che lascerà mìinedita) alla grande impresa della sua vita, il piano di un trattato di economia, che doveva essere però anche un trattato di sociologia del mondo capitalistico, e per la verità, un trattato di storia, se si considerano le considerazioni generali sugli sviluppi della produzione o, al quarto paragrafo, i "punti che sono da menzionare qui e che non vanno dimenticati ": primo punto "la guerra", ultimo punto la "determinazione naturale": soggettivamente e oggettivamente (tribù, razze, ecc.), passando per l'esame dei tipi di storiografia (Kuliurgeschichte compresa), per la dialettica dei rapporti di produzione, per l'analisi dell'"ineguale rapporto dello sviluppo della produzione materiale con lo sviluppo, per esempio, artistico", e finalmente per l'importante osservazione: "la storia universale non è esistita sempre; la storia come storia universale è un risultato"'.

Da questa Introduzione del 1857 possiamo renderci conto del divario fra l'opera che Marx avrebbe voluto scrivere e Il capitale quale ci è pervenuto. Limitare la lettura del Capitale al primo libro, quando non al primo capitolo, tralasciare gli sviluppi storici, considerandoli semplici "illustrazioni" delle parti teoriche, significa impoverire un pensiero fino a deformarlo. Vero è, d'altra parte, che non è meno irritante - quando si cerca il Marx storico nel Capitale - vedersi sempre rinviati ai soli capitoli sulla giornata di lavoro, sull'accumulazione originaria e sulla genesi del capitale mercantile. Questa è solo la storia visibile, dichiarata; certo non "classica", ma non troppo insolita per gli apporti concreti nello spazio e nel tempo. Più difficile, ma assai più significativo, cercare la storia dove essa volontariamente si cela, dove venti anni di ricerche e di riflessioni si condensano in venti pagine apparentemente astratte. L'operazione che ho cercato di compiere a proposito della moneta, andrebbe estesa a tutti i concetti essenziali del Capitale: salario, lavoro produttivo, esercito di riserva, ecc., dietro i quali si trova sempre un enorme accumulo di informazioni e di analisi storiche, nel senso esatto del termine. Una massa di notizie, che Marx, tuttavia, suggerisce sempre di aumentare: per lui ogni formula è al tempo stesso un programma. Per non fare che un esempio - i fattori della produttività Marx ricorda come

lo sviluppo della forza produttiva sociale del lavoro presupponga una cooperazione su larga scala, come solo con questo presupposto possano essere organizzate la divisione e la combinazione del lavoro, possano essere economizzati i mezzi di produzione concentrandoli in massa, possano essere creati mezzi di lavoro già materialmente adoperabili solo in comune, per es. il sistema delle macchine; come forze immense della natura possano essere costrette al servizio della produzione e possa compiersi la trasformazione del processo di produzione in applicazione tecnologica della scienza.

Per ciascuna di queste indicazioni, quale lavoro per lo storico! E va anche tenuto presente che questo sfondo storico - sintesi acquisita e programma suggerito - è presente fin dalle prime pagine del Capitale, sui valore e sulla merce. Barbon, Locke, Le Trosne, Butler, Petty, l'anonimo del 1740, Verri, ecc. non sono citati invano: si tratta delle espressioni più valide del pensiero inglese, francese, italiano, colte alle fonti, così come del resto, quando compare Aristotele, non siamo davanti a un riferimento convenzionale. Ogni pensiero, esplicitamente o no, è ricollocato nel suo tempo, traduce il proprio tempo. Marx combina così in ogni sua pagina, non solo - come ha notato Schumpeter - teoria economica e analisi storica, ma anche, in una trama finissima, la teoria della storia e la storia della teoria, un insieme che lo stesso Schumpeter non ha conseguito, nonostante la potenza del suo pensiero e la sua grande erudizione, riuscendo soltanto nella seconda.

Potremmo ricorrere anche a un altro confronto: mi è spesso avvenuto di pensare che sarebbe possibile condensare la teoria del Capitale in poco più di un centinaio di pagine: le dimensioni del libro di Hicks su valore e capitale (1946). Ma ciò equivarrebbe a mutilare Marx. Ora Hicks ha pubblicato recentemente una teoria della storia economica, questa volta in duecento pagine, dove non manca di accennare rispettosamente all'opera di Marx, ma dove si propone di utilizzare - scrive - ciò che gli storici, da un secolo a questa parte, hanno aggiunto alle conoscenze storiche di cui Marx poteva disporre. Solo che ci rendiamo conto che Hicks non ha passato personalmente ore ed ore al British Museum per superare la ricerca direttamente compiuta da Marx: la Cambridge Modern History è da lui considerata sufficiente allo scopo. In realtà, ci si accorge rapidamente, per Hicks, la vecchia "antropologia ingenua" degli economisti, più o meno completata dal gioco moderno delle "decisioni", regge la diplomazia quanto l'economia, senza passare per il duro e complicato tramite delle classi e delle loro lotte. Decisamente la storia degli economisti, come spesso capita all'economia degli storici, non sembra facilmente destinata a superare il proposito di Marx.

Anche per Il capitale - se volessi definirlo per rapporto al tema: " Marx e la storia" - dovrei dire, come per L'ideologia tedesca, che non è un libro di storia, ma l'opera di uno storico. E in fin dei conti, se è vero che Marx ci ha lasciato il compito di definire il concetto di storia (e questo compito non possiamo proprio dire di assolverlo molto bene), potremo sempre consolarci rileggendo le pagine del giovane Marx, in cui veniva vigorosamente criticato il culto assurdo del "concetto" presso i cattivi hegeliani.